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MIRELA AIOANE

STORIA DELLA LINGUA


ITALIANA

(pentru studenţi)

Cartea se adresează în special studenţilor FACULTĂŢII DE


LITERE, sectia ITALIANĂ, elevilor care studiază limba
italiană şi tuturor iubitorilor de limbă şi cultură italiană.
IL LATINO È UNA LINGUA INDOEUROPEA

La famiglia indoeuropea comprende molte lingue che sono


usate (o furono usate in passato) nell’Europa e in parte
dell’Asia. Tali lingue si dividono in alcune sottofamiglie.
Procedendo da occidente ad oriente abbiamo:
- in Europa: le lingue celtiche (gallico, scomparso;
irlandese, bretone, gallese); il latino, da cui sono nate le lingue
romanze; le lingue italiche (venetico, osco, umbro ecc.), tutte
scomparse; le lingue germaniche (le più importanti sono:
inglese, tedesco, olandese, danese, svedese, norvegese; le
ultime tre formano il gruppo delle lingue nordiche; ricordiamo
ancora il gotico, lingua estinta); il greco, documentato dal II
millennio a.C. ai nostri giorni; l’albanese; le lingue baltiche
(antico prussiano, scomparso, lituano, lèttone); le lingue slave
(sloveno, ceco, polacco, russo ecc);
- nell’Asia Minore: l’armeno; il frigio, scomparso; le
lingue anatoliche (tra le quali vanno ricordate almeno l’ittito e
il lidio), tutte scomparse;
- nell’Asia centrale: le lingue indoiraniche, che dalle
prime attestazioni (i Veda per lìindiano, l’Avesta per l’iranico)
giungono fino ai nostri giorni; il tocario, scomparso.
Le lingue indoeuropee presentano tra loro una serie
compatta di corrispondenze fonologiche, grammaticali e
lessicali, le quali si possono giustificare soltanto se si ammette
l’esistenza di un comune archetipo: l’indoeuropeo.
Pertanto l’indoeuropeo si può definire così: è una lingua
non attestata, della quale si deve ammettere l’esistenza per
spiegare le concordanze, numerose e rigorose, che collegano
tra loro la maggior parte delle lingue europee e varie lingue
dell’Asia.

IL LATINO CLASSICO E IL LATINO VOLGARE

Il latino, presente dapprima in una zona circoscritta del


Lazio, si estese poi enormemente nel mondo antico in seguito
alle conquiste dei Romani.
L’uso del latino come lingua scritta comincia probabilmente
nel VIII sec. a.C. (un’ampia documentazione scritta si ha a
partire dal III sec. a.C.) e cessa di essere lingua viva in senso
stretto nel periodo compreso tra il 600 e l’800 d.C., quando si
affermano le lingue romanze. Queste ultime non sono altro che
il risultato di un lungo processo di evoluzione e di
differenziazione del latino.
All’origine delle lingue romanze non c’è il latino classico,
lingua della letteratura e della scuola, lingua intenta a
riprodurre nel corso dei secoli le stesse forme grammaticali,
lessicali e stilistiche; all’origine delle lingue romanze (e quindi
anche dell’italiano) c’è il latino volgare. Questo aggettivo può
provocare qualche malinteso: sarebbe meglio usare la formula
“latino parlato”; infatti non si tratta soltanto della lingua usata
dagli strati più bassi della popolazione, ma della lingua usata
da tutti, s’intende con molte diversità e sfumature a seconda
della provenienza e della classe sociale dei parlanti. Una lingua
dunque, a differenza del latino classico, soggetta a mutare nel
tempo e nello spazio insieme allo sviluppo della società che la
parla.
Tra latino classico e latino volgare esistono differenze che
riguardano la fonologia, la morfologia, la sintassi e il lessico;
ma non si tratta di due lingue: sono due aspetti della stessa
lingua. Le differenze che corrono tra l’italiano letterario e
l’italiano parlato oggi sono forse minori, ma in una certa
misura sono confrontabili con quelle che distinguono il latino
classico dal latino volgare.
LE LINGUE ROMANZE

Estendendosi nello spazio e nel tempo, il latino parlato dai


soldati e dai coloni, che conquistavano sempre nuovi territori,
tendeva ad evolversi e a differenziarsi localmente per il
concorrere di varie cause:
- il fatto che i conquistatori provenissero da diverse
regioni d’Italia comportava una diversità di partenza del loro
latino parlato;
- a seconda dell’epoca in cui era avvenuta la conquista, la
lingua importata (il latino volgare) presentava qualche diversità;
- il contatto con le lingue dei popoli sottomessi era causa
di nuovi mutamenti: la lingua abbandonata dai vinti (per
esempio l’osco, l’etrusco, il celtico, l’iberico, l’illirico) in
favore del latino e denominata lingua di sostrato influenzava
il latino stesso conferendogli pronunce particolari e, tavolta,
imponendogli vocaboli regionali.
Nuovi fattori di differenziazione si affermano più tardi: la
diffusione del Cristianesimo, con i suoi contenuti di fede, con
la sua origine ebraica, con le prime comunità di credenti di
lingua greca, influì sull’evoluzione del latino volgare.
Successivamente si ebbero le invasioni dei barbari: il
territorio che per secoli era stato unito sotto il dominio di Roma
si frantumò in più regni dominati da varie stirpi di Germani
(Franchi, Burgundi, Vandali, Longobardi); i particolarismi
linguistici delle varie zone della Romània (era questo il nome
popolare con cui si designava l’impero, conservatosi nel nome
della nostra regione Romagna, sede anticamente dell’Esarcato
bizantino) si svilluparono maggiormente sia per le condizioni
di isolamento sia per l’influsso delle lingue germaniche.
In seguito alle invasioni che sconvolsero il vastissimo
territorio in cui si parlava il latino, questa lingua scomparve da
alcune regioni (dall’Africa, dall’Europa centrale al di là delle
Alpi, dall’Inghilterra, da gran parte dei Balcani.

Le lingue romanze possono essere ordinate in alcuni


raggruppamenti, sulla base di criteri linguistici (convergenze
nell'evoluzione fonetica dal latino volgare, convergenza di
fenomeni morfologici), della ripartizione geografica, delle
lingue di sostrato ecc. Riproduciamo la classificazione proposta
da C. Tagliavini ne Le origini delle lingue neolatine, Bologna,
1972, p.354:
I gruppi:
a) Balcano - romanzo : - Rumeno
- Dalmatico
- Sardo
- Italiano
b) Italo - romanzo : - Italiano
- Sardo
- Ladino
c) Gallo - romanzo : - Ladino
- Francese
- Franco - provenzale
- Provenzale (e Guascone)
- Catalano
d) Ibero - romanzo : - Catalano
- Spagnolo
- Portoghese

Come appare da questo schema, i confini tra un


raggruppamento e l'altro non sono sempre ben delineati. Per
esempio, il dalmatico, che per molti tratti concorda con il
rumeno, ha anche numerosi punti di contatto con l'italiano e
può quindi essere considerato una varietà di passaggio fra il
balcano-romanzo e l'italo-romanzo. Analogamente, il catalano,
se per vari tratti linguistici si accosta allo spagnolo, d'altra
parte ha caratteri in comune con il provenzale e pertanto
costituisce un idioma intermedio fra il gallo-romanzo e l'ibero-
romanzo.

Il sostrato

Il latino, estendendosi su un territorio sempre più vasto,


veniva a contatto con lingue diverse. Tale strato linguistico
preesistente su cui il latino si sovrappose (grazie al maggior
prestigio e al predominio politico dei Romani), ma del quale
subì anche qualche influsso, è detto sostrato (dal lat.
SUBSTRĀTUM, participio passato di SUBSTERNĔRE
"stendere sotto"). Questo vocabolo, usato in geologia, è stato
trasferito nella linguistica (dal dialettologo G.I.Ascoli nel 1867)
per indicare quella lingua alla quale, in un'area determinata, si è
sovrapposta e sostituita una lingua diversa per effeto di una
conquista militare, di un predominio politico e culturale. La
nozione di sostrato è stata usata dall'Ascoli e nella linguistica
storica per spiegare quei fenomeni (sopratutto fonetici, ma
anche morfosintattici e lessicali), che non si possono chiarire in
base ai caratteri strutturali della lingua in cui appaiono nè
possono imputarsi al prestito linguistico da lingue contermini.
Quei fenomeni rappresenterebbero allora il raffiorare di
caratteri della primitiva lingua della popolazione assoggettata
politicamente e culturalmente.
È stata attribuita al sostrato etrusco la cosidetta gorgia
toscana (vale a dire la spirantizzazione delle sorde
intervocaliche). Il sostrato celtico invece sarebbe responsabile
del passaggio /u/ > /y/ e dell'evoluzione - ct - > - it - , due
fenomeni presenti in vari dialetti italiani settentrionali, nonchè
in francese. Riprendendo le teorie dell'Ascoli, il dialettologo
Clemente Merlo (1879 - 1960) affermò che "la classificazione
dei dialetti italiani se non è un problema esclusivamente etnico,
perchè bisogna tener presente anche il momento della
romanizzazione, è sopratutto un problema etnico". Ripartendo i
dialetti parlati nella Penisola e in Sicilia in tre grandi gruppi
etnicamente diversi: setentrionale, centro-meridionale e
toscano, il Merlo vedeva alla loro base tre diversi sostrati,
rispettivamente: celtico, italico e etrusco.
Connesso al concetto di sostrato è quello di superstrato,
con il quale s'intende uno strato linguistico che in una
determinata area si sovrappone a uno strato già esistente, per
motivi di conquista o per il prestigio culturale o politico. Il
superstrato non si impone sulla lingua parlata precedentemente
in quell'area, ma la influenza variamente nelle sue strutture
fonologiche, morfosintattiche e sopratutto nel lessico. Parliamo
di superstrato: a proposito dell'elemento germanico che si è
sovrapposto, in fasi successive e con intensità varia da zona a
zona, alle lingue romanze; a proposito dell'elemento arabo che
si è sovrapposto ai dialetti siciliani.
Per i contatti laterali tra lingue si parla invece di
adstrato: per es. i rapporti tra latino e greco nell'Italia
meridionale. In genere una lingua di sostrato, prima di divenire
tale, è stata una lingua di adstrato: il celtico prima che i
Romani occupassero la pianura padana era una lingua di
adstrato e tale rimase finchè durò in quella regione il
bilinguismo latino-celtico.
Il valore esplicativo della teoria del sostrato è stato
contestato negli ultimi decenni sia dalla linguistica strutturale
(che, come causa del mutamento linguistico, ha posto in primo
piano fattori interni e sistematici) sia dalla sociolinguistica (che
ha valorizzato i principi del bilinguismo, del prestigio e
dell'interferenza).
Esaminiamo ora alcuni caratteri fondamentali del latino
volgare: riguardano la fonologia, la morfologia, la sintassi e il
lessico e sono all'origine della fonologia, morfologia, sintassi e
lessico dell'italiano. Confrontiamo tali caratteri con quelli
corrispondenti del latino classico al fine di far risaltare le
diversità e le tendenze evolutive della lingua popolare.
Il VOCALISMO TONICO DEL LATINO VOLGARE

Nel latino classico aveva grande importanza la quantità


delle vocali, le quali si dividevano in due serie: le vocali brevi
( Ĭ Ĕ Ă Ŏ Ŭ ) e le vocali lunghe (Ī Ē Ā Ō Ū). Queste ultime
dovevano possedere approssimativamente una durata doppia
rispetto alle prime, per esempio: Ā =ĂĂ. L'alternanza di una
vocale breve con una vocale lunga bastava da sola a distinguere
i significati di due parole:
VĔNIT "egli viene" ma VĒNIT "egli venne"
PŎPŬLUS "popolo" ma PŌPŬLUS "pioppo"

Nel latino parlato la differenza tra vocali brevi e vocali


lunghe era accompagnata da un diverso timbro: le brevi erano
pronunciate aperte, le lunghe chiuse. La differenza di quantità
fu ben presto sostituita da tale differenza di timbro: cioè in una
fase recente del latino parlato la differenza tra vocali brevi e
vocali lunghe cessò di avere una rilevanza e fu sostituita da una
differenza basata sul timbro. Questo mutamento e, al tempo
stesso, la fusione di alcune coppie di vocali che non
possedevano apprezzabili differenze di timbro, determinarono
la nascita di un nuovo sistema vocalico italiano.

Latino Ī Ĭ Ĕ Ā Ŏ Ō Ū
classico Ē Ă Ŭ
Italiano i e ε a ɔ o u

Lo schema, che vale soltanto per le vocali toniche, riporta nella


seconda riga le sette vocali toniche dell'italiano; queste dunque
provengono da un mutamento che è avvenuto nel latino volgare.
Vediamo qualche esempio:
SPĪNA(M) > spina
PĬLU(M) > pélo TĒLA(M) > téla
FĔRRU(M) > fèrro
MĀTRE(M) > madre PĂTRE(M) > padre
ŎCTO > òtto
SŌLE(M) > sole NŬCE(M) > nóce
LŪNA(M) > luna

Nota bene: le parole del latino volgare (e quindi


dell'italiano) hanno quasi sempre come punto di partenza
l'accusativo; è tale caso (non il nominativo) che va preso in
considerazione nella prospettiva dell'italiano; la -M
dell'accusativo è messa da noi tra parentesi perchè non era
pronunciata nel latino parlato.
In sillaba aperta o libera, cioè terminante in vocale, /ε/
si dittonga in / jε / e / ɔ / si dittonga in /w ɔ /:
PĔDE(M) > piede
BŎNU(M) > buono
Un altro aspetto importante del vocalismo è la
monottongazione, cioè la riduzzione dei dittonghi AE, OE e
AU a una vocale semplice: AE si monottonga in /ε/, che - come
abbiamo visto - in sillaba aperta si dittonga in /jε/; OE si
monottonga in /e/ ; AU si monottonga in / ɔ /. Per es.:
LAETU(M) > lieto
POENA(M) > pena
AURU(M) > oro

Il dittongamento
Nel toscano il dittongamento di /ε/ in /jε/ e di / ɔ/ in /wɔ/ è
determinato dalla struttura aperta della sillaba e non già dalla
vocale finale, come avviene invece nei dialetti italiani centro-
meridionali.
Tuttavia, in molte parole il dittongo manca per varie
cause: per es. il mancato dittongamento di bene, era, nove è
dovuto alla posizione proclitica in cui questi vocaboli si
vengono frequentamente a trovare, cioè al fatto che essi
appoggiano il loro accento sulla parola successiva (cfr.
espressioni come ben detto, era tardi, nove anni) e di
conseguenza la loro vocale tonica è tratatta come se fosse atona
e in quantto tale non si dittonga. In numerose forme verbali, il
dittongo è stato eliminato per analogia con le altre forme
accentate sulla sillaba successive: levo come levai, levare. In
alcune parole come gelo e gemo la i è stata assorbita dalla
affricate palatale precedente. Il dittongo tende poi a ridursi alla
vocale semplice dopo un suono palatale: FILIŎLUM >
figliuolo > figliolo, AREŎLA >aiuola> aiola; il dittongo si
riduce anche dopo “r” : PRĔCO > priego > prego, PRŎBO >
pruovo > provo. Infine, il dittongo manca in molte parole di
origine dotta (latinismi) : specie, secolo, popolo.

La monottongazione

I dittonghi AE e OE si monottongano già all’inizio


dell’era volgare, mentre il dittongo AU resiste più a lungo nelle
lingue romanze, anche se già in epoca classica si verificano i
primi casi di monottongazione: CAUDA > CŌDA, FAUCES >
FŌCES, da cui gli italiani coda e foce con o chiusa.
Cronologicamente indipendente da questo sviluppo è il
passaggio di AU in /ɔ/ (AURUM > oro, PAUCUM > poco,
CAUSAM > cosa), che si è compiuto definitivamente solo
piuttosto tardi; in italiano esso è attestato dall’VIII secolo ed è
posteriore al dittongamento di /ɔ/ in /wɔ/, come dimostra il
fatto che la /ɔ/ di oro, poco e cosa si è mantenuta intatta e non
si è dittongata. Come appare abbiamo qui un caso interessante
di cronologia relativa.
Allo stesso esito di /ɔ/ giunge anche il dittongo
secondario AU, cioè non esistente nel latino classico ma
formatosi in età tarda in seguito a determinati fenomeni
fonetici: AMĀVIT > AMAUT > amò. Nel latino o il segno
grafico “v” equivaleva a una “u” semiconsonantica; quindi, la
grafia AMAVIT corrispondeva alla pronuncia /a′ma:wit/: la Ĭ
della sillaba finale è caduta (AMAUT) e il dittongo secondario
AU si è monottongato in /ɔ/.
Il dittongo AU si conserva nell’Italia meridionale: tauru
“toro” < lat. TAURUM; passa invece in a nel sardo: pacu,
pagu “poco” < lat. PAUCUM.
Il dittongo AE deve essersi monottongato prima in Ē di
timbro aperto; tale fonema veniva a trovarsi in contrasto con il
sistema vocalico latino che era basato sulla combinazione dei
tratti dell’apertura (di timbro) con la brevità (di quantità) e
della chiusura (di timbro). Per questa ragione Ē aperto dovette
assestarsi, in una fasi antica quando ancora valevano le
distinzioni di quantità, e come Ĕ chiuso (da cui in italiano /e/:
SAETAM > seta) o, più spesso, come Ĕ aperto (da cui in
italiano /ε/: GRAECUM > Greco, CAELUM > cielo).

L’anafonesi

L’anafonesi consiste nella chiusura del timbro delle


vocali toniche /e/ e /o/ davanti a determinate consonanti o
gruppi consonantici. Si tratta di un fenomeno tipicamente
toscano, di cui si possono distinguere due tipi:
1) passaggio di /e/ tonica a /i/ davanti a nasale palatale
/ ɲ ɲ / e a laterale palatale /λλ/:
VĬNEA(M) > vegna > vigna
FAMĬLIA(M) > faméglia > famiglia
Quando la nasale palatale /ɲ ɲ/ proviene non da – NJ – ma da –
GN - , la /e/ tonica precedente si conserva : LIGNU(M) > legno
2) passaggio di /e/ tonica a /i/ e di /o/ tonica a /u/
davanti a una /n/ seguita da una velare /k/ o /g/ :
VĬNCO > vénco> vinco
LĬNGUA(M) > léngua > lingua
IŬNCU(M) >gionco > giunco
FŬNGU(M) > fongo > fungo

La metafonesi

La metafonesi consiste nel cambiamento di timbro di


una vocale tonica per l’influenza della vocale dell’ultima silaba.
Il fenomeno, sconosciuto al toscano, è molto diffuso nei dialetti
italiani, dove le vocali finali - i e - o influenzano la vocale
tonica precedente determinandone la chiusura o il
dittongamento.
Nell’Italia settentrionale la /e/ tonica diventa /i/ e la /o/
tonica diventa /u/ se nella sillaba finale si trova o si trovava
una – i; il fenomeno è particolarmente evidente nell’Emilia -
Romagna: per esempio, nel bolognese abbiamo “vert” –
“verde”, plur. “virt”; “dulour” – “dolore”, plur. “dulùr”. La
metafonesi ha aggito anche sulle vocali aperte /ε/ e / ɔ/,
provocandone il dittongamento; questi dittonghi hanno poi
subito altri sviluppi fonetici: per esempio, nel milanese si ha
“bell” – “bello”, ma “bij” –“belli”(con riduzione del precedente
dittongo “biej”); nel Canton Ticino si ha “mört” (con vocale
labializzata) “morto” e “morti”.
Nell’Italia centro-meridionale si ha il passaggio di /e/
tonica a /i/ e di /o/ tonica a /u/ sotto l’influsso di una – i o una -
u finali di parola: per esempio, nel napoletano troviamo
“misə” – “mesi”(sing. “mesə”), “nirə” – “nero” (femm. “nerə”);
nəpotə – “nipoti” (sing. “nəpotə”), “ russə”- “rosso”(femm.
“rossə”).
Sempre per effetto metafonetico di –i e –u finali, le
vocali aperte / ε / e / ɔ / si dittongano; per esempio, nella
Sicilia interna: “bieddu” – “bello”, “bieddi”, ma (femm.
“bedda”, “bedde”; nella Calabria settentrionale si dice
“gruossu” –“grosso”, “gruossi”, (ma femm. “grossa”, “grosse”.
Nel Medioevo, il dittongamento metafonetico era presente
anche a Roma: “buono” ma “bona”, “viecchio” ma “vecchia”.
In alcune zone dell’Italia centro-meridionale
(specialmente in numerosi dialetti del Lazio) le vocali aperte
/ε/ e /ɔ/ non si dittongano davanti a –i e –u finali, ma si
chiudono in /e/ e /o/ : “pede” / pεde /, plur. “pedi” / pedi /;
“novu” / novu /, “novi “ / novi /, ma “nova” / n ɔva /, “nove” /
nɔve /. Questo tipo di metafonesi è detto “ciociaresco” o
“arpinate” o “sabino” per distinguerlo dal tipo precedente con
dittongamento, che è detto “napoletano”.
La metafonesi, fenomeno originariamente soltanto
fonetico, è venuto assumendo un valore morfologico in
seguito alla caduta delle vocali finali o alla loro riduzione a
vocali indistinte, permettendo di distinguere il singolare dal
plurale e il maschile dal femminile: per es. nel bolognese
“vert” plur. “virt” e nel napoletano “mes ə” plur. “misə” la
metafonesi oppone il singolare al plurale; invece nel
napoletano “nirə” femm. “nerə”, essa oppone il maschile al
femminile. Come appare da questi esempi, nell’Italia
settentrionale la metafonesi può indicare per lo più soltanto
un’opposizione di numero in quanto è prodotta generalmente
da -i finale, mentre nell’Italia centro-meridionale può indicare
sia un’opposizione di numero, sia un’opposizione di genere in
quanto è prodotta da –i e –u finali.
Metafonesi
ITALIA SETT. e>i;o>u davanti a – i e,
ε > jε > i o e ; ɔ > wɔ più raramente,
>wε >ö - u finali
ITALIA CENTRO – e > i , o > u
MERID. ε > je , ɔ > wɔ (tipo Davanti a -i
napoletano) e –u finali
e>i ,o>u
ε>e; ɔ > o (tipo
ciociaresco)

IL VOCALISMO ATONO DEL LATINO VOLGARE

Le vocali atone presentano un’evoluzione diversa da


quelle toniche nel passaggio dal latino al’italiano. Anche in
questo caso consideriamo un vocalismo atono “italico”, uno
“sardo”, uno “balcanico” e uno “siciliano”.
Il vocalismo atono “italico” non distingue, come invece
fa quello tonico, tra vocali chiuse e vocali aperte; infatti fuori
d’accento tutte le vocali sono chiuse:

Ī Ĭ Ē Ā Ō Ŏ Ū
Ĕ Ă Ŭ
i e a o u

Esaminiamo ora alcuni dei fenomeni più importanti che


riguardano le vocali atone, le quali possono essere pretoniche
se precedono la sillaba tonica (per esempio, la i di dicembre),
intertoniche se sono comprese tra accento principale e accento
secondario (per esempio, la e di amerò), postoniche se si
trovano dopo la sillaba tonica (per esempio, la i e la o di
esercito).

Passaggio di e pretonica a i

Nel toscano la / e / pretonica tende a chiudersi in / i / :


NĔPŌTE(M) > nepote > nipote
FĔNĒSTRA(M) > fenestra > finestra
Il fenomeno riguarda anche quei monosillabi che
appoggiano il loro accento sulla parola successiva : MĒ LAVO
> mi lavo, TĒ AMO > ti amo.
Tuttavia, in molti verbi la /e/ si conserva per analogia
con le forme verbali rizotoniche, cioè accentate sulla radice:
cercare ( < lat. CĬRCĀRE) come cerco, legare (< lat. LĬGARE)
come lego. La /e/ è rimasta inalterata anche in numerose parole
dotte (negozio, debellare, recedere), in vari derivati per
influsso della voce da cui provengono (telaio come tela,
bellezza come bello), in vocaboli di origine straniera assunti da
lingue che conservano la /e/ pretonica (regalo, dettaglio);
inoltre in molte parole che anticamente avevano /i/ pretonica è
stata ripristinata la /e/ latina in età rinascimentale: eguale (ant.
iguale), delicato (ant. diliquato).
Labializzazione della vocale pretonica

Quando viene a trovarsi vicino a un suono labiale (/p/, /b/, /m/,


/f/, /v/) o labiovelare (/kw/, /gw/) una vocale pretonica palatale
(/e/, /i/) può diventare labiale (/u/, /o/):
DEBĒRE > devere >dovere
DEMANDĀRE > demandare >
domandare AEQUĀLE(M) > eguale >
uguale OFFICĪNA(M) > (of)ficina >
fucina

Caduta di vocali atone

Le vocali atone sono pronunciate con minore energia di


quelle toniche e quindi spesso tendono a sparire; i fenomeni più
rilevanti sono:
a) caduta di vocale pretonica iniziale postconsonantica
e seguita da “r”: QUIRITĀRE > gridare,
DIRĔCTUM > diritto > dritto;
b) aferesi di vocale pretonica iniziale, erroneamente
interpretata dai parlanti come la vocale dell’articolo:
OBSCŪRUM > oscuro > scuro (a causa della errata
segmentazione della sequenza “loscuro” in “lo
scuro” invece che in “l’oscuro”). Per lo stesso
motivo una vocale pretonica preceduta da l può
diventare iniziale assoluta: LABĔLLU(M) > avello,
LUSCINIŎLU(M) > usignolo;
c) sincope di vocale intertonica: BONITĀTE(M) >
bontà; CEREBĔLLU(M) > cervello;
d) sicope della vocale postonica in penultima sillaba:
LĔPŎRE(M) > lepre, DŎMĬNA(M) > donna.

IL CONSONANTISMO DEL LATINO VOLGARE

Nel passaggio dal latino all’italiano i mutamenti


consonantici sono molto numerosi. Tra l’altro nascono due
nuove serie di consonanti ignote al latino classico: le palatali e
le affricate. Esaminiamo i fenomeni di maggior rilievo.

La palatalizzazione di /k/ e /g/


Nel latino classico la pronuncia della /k/ di CĒRA non
differiva da quella della /k/ di CĀNIS, cosi come la pronuncia
della /g/ di GĔLU non era diversa da quella della /g/ di GŬLA:
in entrambi i casi si avevano occlusive velari, qualunque fosse
la vocale che le seguiva. Ma davanti alle vocali palatali /e/ ed
/i/ le consonanti velari /k/ e /g/ hanno cominciato pian piano a
modificarsi, avanzando il proprio luogo di articolazione dal
velo palatino alla zona centrale del palato. Conseguenza di
questa evoluzione fonetica, che appare già alla fine del III
secolo d.C., è il passaggio delle velari /k/ e /g/ alle affricate
prepalatali /tʃ/ e /dʒ/:
CĒRA(M) > cera GĔLU
> gelo

/’ke:ra/ / ‘tʃera/ /’gεlu/


/’dʒεlo
/
In posizione intervocalica, la velare sonora del latino
classico /g/, dopo essersi palatalizzata, subisce un’ulteriore
evoluzione fonetica. In alcune parole il risultato di tale
evoluzione è il raddoppiamento dell’affricata prepalatale
sonora:
FUGĬRE > fugire > fuggire
/fu’gire/ /fu’dʒire/ /fud’ dʒire/
In altre parole, invece, si ha l’assorbimento
dell’affricata prepalatale sonora da parte della vocale palatale
seguente:
MAGĬSTRU(M) > magistro > maestro
/ma’gistru/ / ma’dʒistro/
FAGĬNA(M) > fagina > faina
/fa’gina/ /fa’dʒina/

La sonorizzazione

Nell’Italia settentrionale avviene il passaggio delle


consonanti sorde intervocaliche latine /k/, /p/, /t/, /s/ alle
corrispondenti sonore /g/, /b/ (quest’ultima poi si trasforma
nella spirante /v/), /d/, /z/ ; in alcuni casi la consonante sorda,
dopo essersi sonorizzata, scompare: MARĪTU(M) > lombardo
marido, Veneto marìo (dove si ha la –T- > /d/ > /ø/).
Il fenomeno della sonorizzazione è soltanto parziale in
Toscana, in cui si alternano forme che conservano la sorda
intervocalica e forme che la trasformano in sonora:
LŎCU(M) > luogo ma
FŎCU(M) > fuoco
STĪPA(M) > stiva ma
ĀPE(M) > ape
SCŪTU(M) > scudo ma
RĒTE(M) > rete
CAUSA(M) > cosa /’kɔza/ ma
NĀSU(M) > naso /’naso/
L’opinione più diffusa tra gli studiosi è che in Toscana
i suoni sordi /k/, /p/, /t/, /s/ rappresentino il risultato indigeno e
popolare, mentre i suoni sonori /g/, /v/, /d/, /z/ siano dovuti a
influssi provenienti dall’Italia settentrionale e dai dialetti gallo-
romanzi. Ciò sarebbe confermato dai nomi di luogo toscani,
che nella grande maggioranza dei casi presentano in posizione
intervocalica consonanti sorde: Prato, Putignano, Stratigliana,
Dicomano, Nipozzano.
Sonorizzazione
ITALIA SETT. -K- > /g/
-P- > /b/ > /v/
-T- > /d/ (talora /d/ > /ø/
-S- > /z/
TOSCANA -K- > /k/ o /g/
-P- > /p/ o /v/
-T- > /t/ o /d/
-S- > /s/ o /z/

Assimilazione e dissimilazione
L’assimilazione è il fenomeno per cui un suono diventa
simile a un altro che si trova vicino. L’assimilazione può essere
di due tipi: regressiva, quando il suono che viene prima
diventa simile a quello che lo segue; oppure progressiva se è il
suono che viene dopo a diventare simile a quello che lo
precede.
In genere, nel passaggio dal latino all’italiano si hanno
assimilazioni regressive:
ŎCTO > otto FĂCTU(M) > fatto
SĔPTE(M) > sette RŬPTU(M) > rotto
Nel settore vocalico si hanno vari casi di assimilazione
regressiva di vocale pretonica a tonica: danaro (variante di
denaro < lat. DENĀRIUM), tanaglia (variante di tenaglia < lat.
TENĀCULA).
Anche la metafonesi è un fenomeno di assimilazione
regressiva operata a distanza da parte della vocale dell’ultima
sillaba (-u , –i ) sulla vocale tonica: russu – “rosso”, misi –
“mesi”, vinti – “venti”.
L’assimilazione regressiva può avvenire non solo
all’interno di parola, ma anche all’interno di frase. Per esempio,
il latino ĂD CĂSA(M) è diventato in italiano a casa, che nella
pronuncia è realizzato con una velare sorda rafforzata, cioè
/ak’kasa/; quindi la –D- di AD è elliminata soltanto nella grafia,
ma in realtà si assimila alla consonante iniziale della parola
successiva determinandone il raddoppiamento: questo
fenomeno prende il nome di raddoppiamento fonosintattico.
Un caso di assimilazione progressiva, molto comune
nei dialetti italiani centro-meridionali, è quello dell’originario
nesso latino – ND – che passa a – nn- : QUĂNDO > quanno,
MŬNDU(M) > monno.
Fenomeno opposto all’assimilazione è la
dissimilazione, che si ha quando due suoni simili situati vicino
nella stessa parola si differenziano: per esempio, QUAERĒRE
> chiedere (in cui la prima r si trasforma in d per eviatre la
sequenza r- r); ARBŎRE(M) > albero (dissimilazione di r-r in
l-r); VENĒNU(M) > veleno (dissimilazione di n-n in l-n).
Nel settore vocalico, un caso interessante di
dissimilazione è rappresentato dal passaggio del dittongo atono
AU ad a se la vocale tonica successiva è una vocale velare:
AUGŬSTU(M) > agosto, AUSCULTĀRE > ascoltare.

Consonante + J
Nel passaggio dal latino all’italiano le consonanti
(tranne R e S), quando sono seguite da /j/, si rafforzano:
FĂCIO > faccio
SĒPIA(M) > sepia
RĂBIA(M) > rabbia
Le consonanti T, D, L e N, dopo essersi raddoppiate,
presentano un ulteriore sviluppo fonetico:
1) il nesso latino – TJ – diventa in italiano l’affricata
alveolare sorda inensa /tts/:
VĬTIU(M) > VITTJU(M) > vezzo
PŬTEU(M) > PUTTJU(M) > pozzo
In alcune parole di origine gallo–romanza il nesso –TJ-
si trasformò nella fricative prepalatale sonora /ʒ/:
RATIŌNE(M) > /ra’ʒone/, STATIŌNE(M) > /sta’ʒone/;
questo fonema che si è conservato ancora oggi nella pronuncia
fiorentina, è reso con la grafia gi: ragione, stagione. L’influsso
della grafia ha provocato il passaggio, nell’italiano standard,
alla pronuncia con l’affricata prepalatale sonora /dʒ/:
/ra’dʒone/, /sta’dʒone/ per adeguamento alla pronuncia della
grafia gi di parole come giorno.
Talvolta i due diversi esiti (/tts/ e /d ʒ/) coesistono nella
lingua italiana, dando luogo a degli allotropi, cioè a forme
diverse ma derivanti da una stessa parola latina: per es. dal lat.
PRĔTIU(M) si ha in italiano sia prezzo sia pregio;
2) il nesso latino – DJ – diventa in italiano l’affricata
alveolare sonora intense /ddz/:
RĂDIU(M) > RADDIU(M) > razzo
MĔDIU(M) > MEDDIU(M) > mezzo
-DJ- può anche trasformarsi nell’affricata prepalatale Sonora
intense /ddʒ/: RĂDIU(M) > raggio (allotropo di razzo),
HŎDIE > oggi, PŎDIU(M) > poggio;
3) il nesso latino –LJ- diventa in italiano la laterale
palatale intensa /λλ/:
FĬLIU(M) > FILLJU(M) > figlio
FŎLIA(M) > FOLLJA(M) > foglia
4) il nesso latino –NJ- diventa in italiano la nasale

palatale intensa /ɲɲ/:


VĬNEA(M) > VINNIA(M) > vigna
IŪNIU(M) > IUNNIU(M) > giugno
Allo stesso esito giunge anche il nesso latino – GN-
(pronunciato in epoca classica gh + n): LĬGNU(M) > legno.
L’evoluzione fonetica dei nessi latini –RJ- e –SJ- si discosta da
quella degli altri nessi di consonante + semivocale palatale;
infatti R e S, quando sono seguiti da /j/, non si rafforzano.
Il nesso latino –RJ- in Toscana si reduce a /j/, mentre in gran
parte dell’Italia centro-meridionale si reduce a /r/:
FURNĀRIU(M) > fornaio (ma romanesco
fornaro)
PĀRIU(M) > paio (ma romanesco paro)
Come –TJ- anche il nesso –SJ- ha avuto un duplice
esito: una fricativa prepalatale sorda /ʃ/, rappresentata con la
grafia ci, e una fricativa prepalatale sonora /ʒ/, rapresentata con
la grafia gi, nell’italiano standard questi due fonemi,
consrevatisi ancora oggi nella pronuncia fiorentina, si sono
mutati nelle affricate /tʃ/ e /dʒ/ per adeguamento grafico:
BĀSIU(M) > bacio: fiorentino /’baʃo/, ital./`batʃo/
CĀMISIA(M) > camicia: fiorentino
/ca’miʃa/;ital./ca’mitʃa/
OCCASIŌNE(M) > (ac)cagione: fiorentino /ka’ʒone/,
ital./ ka’dʒone/
PE(N)SIŌNE(M) > pigione : fiorentino /pi’ʒone/; ital.
/pi’dʒone/
A differenza dei due esiti di – TJ-, questi due esiti di –SJ- sono
entrambi toscani.

Consonante + L > consonante + J


I nessi latini di consonante + L passano in italiano a
consonante + /j/:
FLŌRE(M) > flore
PLĀNU(M) > piano
CLĀVE(M) >
chiave GLĀRE(M) >
ghiaia
In posizioe intervocalica la consonante si raddoppia,
come accade regolarmente dinanzi a /j/:
NĔB(U)LA(M) > nebbia
CŎP(U)LA(M) > coppia
ŎC(U)LU(M) > occhio
MĂC(U)LA(M) >
macchia
Il nesso latino –TL- passa a –CL-, seguendone
l’evoluzione fonetica: VĔT(U)LU(M) >VĔCLU(M) > vecchio.
Si noti che nell’Italia meridionale il nesso latino –PL- dà come
risultato /kj/e non /pj/: PLŪS > napoletano chiù (toscano più).

La labiovelare

Si chiama labiovelare il nesso sordo /kw/ o sonoro /gw/,


formato da una velare /k/ o /g/ e dela semiconsonante /w/:
quadro /’kwadro/, cuoco /’kwɔco/, guardia /’gwardja/. Come
appare da questi esempi, non vi è alcuna differenza dal punto di
vista fonetico fra qu e cu, in quanto entrambe le grafie
rappresentano la labiovelare sorda /kw/.
Nel passaggio dal latino all’italiano la labiovelare iniziale
/kw/ (grafia QU) rimane intatta soltanto davanti ad a, mentre si
riduce a /k/ davanti alle altre vocali:
QUĂNTU(M) >
quanto QUĬD > che
QUĀLE(M) > quale
QUŌMO(DO)ET > come
Invece la labiovelare che si forma in età tarda in seguito a
determinanti sviluppi fonetici (detta labiovelare secondaria) si
conserva sempre: (EC)CŬ(M) ILLU(M) > quello, (EC)CŬ(M)
ISTU(M) > questo.
La riduzione di /kw/ a /k/ davanti a vocale diversa da a dve
essersi verificata quando ormai il fenomeno della
palatalizzazione della velare sorda latina si era concluso,
perchè altrimenti da QUID non ci si sarebbe fermati a che /ke/,
ma si sarebbe giunti a ce /tʃe/ (forma attestata in ambito
dialettale). A sua volta la formazione della labiovelare
secondaria si è prodotta solo quando il fenomeno della
riduzione di /kw/ a /k/ si era ormai concluso, perchè altrimenti
da (EC)CŬ(M) ILLU(M) non ci si sarebbe fermati a quello, ma
si sarebbe arrivati a chello, come peraltro è avvenuto nei
dialetti italiani meridionali. Quindi volendo fissure la
cronologia relativa di questi fenomeni si è avuta prima la
palatalizzazione di /k/, poi la riduzzione di /kw/ a /k/ e infine la
formazione della labiovelare secondaria.

Cronologia relativa di tre fenomeni:


1º Fenomeno:
Palatalizzazione K > /tʃ/ davanti a e, i
2º Fenomeno:
Riduzione di /kw/ a /k/ /kw/ (grafia QU) > /k/
davanti a vocale diversa da a
3º Fenomeno:
Formazione della labiovelare /kw/ (grafia CU) > /kw/
davanti a tutte le vocali
secondaria

Caduta delle consonanti finali

Le consonanti finali –M, -T e –S, che in latino svolgevano


precise funzioni morfologiche, scompaiono nell’italiano.
Del resto già in epoca classica la –M viene elisa nella metrica
davanti a vocale; la sparizione di –M è attestata anche da
iscrizioni arcaiche, come quella incisa sul sarcofago di Lucio
Cornelio Scipione Barbato, console nel 259 a. C: duonoro
optumo fuise viro = lat. classico bonorum optimum fuisse virum.
Tutto ciò avvalora l’ipotesi che la consonante finale –M non
fosse pronunciata fin da tempi molto remoti.
Della –T rimane in italiano qualche traccia: nelle congiunzioni
e ed o, che derivano dal latino ĔT e AUT,la consonante finale –
T nella pronuncia si assimila alla consonante iniziale della
parola successiva produccendo il radoppiamento fonosintattico.
Per esempio. l’espressione e poi è pronunciata da un italiano
centro-meridionale /ep’pɔi/, con una bilabiale sorda rafforzata.
Anche la –S determina in alcuni casi il radoppiamento
dell’iniziale consonantica della parola seguente: TRĒS > tre
( tre case /trek’kase/); in altri monosillabi la –S si vocalizza in i:
NŎS > noi, VŎS > voi.
Non in tutte le regioni della Romània le consonanti finali
cadono. Per es. ad occidente la –S si mantiene: sopravvive
infatti nel francese antico (in quello moderno si conserva
esclusivamente in fenomeni di liaison) e nello spagnolo come
segno del plurale.
Altri aspetti del consonantismo

Altri fenomeni importanti che riguardano le consonanti sono i


seguenti:
 passaggio di –B- intervocalica a –V- (spirantizzazione):
l’occlusiva bilabiale sonora latina /b/ in posizione
intervocalica si trasforma nella spirante labiodentale /v/,
per es.: HABĒRE > avere, FĀBULA(M) > favola.
 Caduta di –N- in –NS-: il gruppo consonantico
intervocalico –NS- si riduce a –S- fin da epoca molto
antica; per es.: MĒNSE(M) > mese, PENSĀRE >
pesare (pensare è voce dotta), MENSŪRA(M) >
misura.
 Scomparsa di H: l’aspirata latina /h/ scomparve molto
presto, non lasciando tracce nelle lingue romanze,
senon ortografiche; per es.: HŌRA(M) > ora,
HABĒBAT > aveva; ma AT (forma popolare di
HĂBET) > ha (con h etimologico).
 Dupplice sviluppo di X: la lettera X rappresenta il nesso
costituito da una velare /k/ e da una sibilante /s/. In
posizione intervocalica il latino –X- dà un duplice
risultato: può passare alla sibilante intensa /ss/, secondo
un processo di assimilazione regressiva: SĂXU(M) >
sasso, DĪXI > dissi; oppure può trasformarsi in una
sibilante palatale /ʃʃ/: CŎXA(M) > coscia,
MAXĬLLA(M) > mascella.
 Passaggio di /j/ a /dʒ/: la semivocale /j/ latina si
trasforma in un’affricata prepalatale sonora /d ʒ/; per
esempio: IĂM > già, IŎCU(M) > giuoco. In posizione
intervocalica /j/ dà come risultato un’affricata
prepalatale sonora di grado intenso, in quanto già nel
latino in questa posizione si aveva un /jj/: MAIŌRE(M)
> maggiore, PĔIUS > peggio.

LA MORFOLOGIA DEL LATINO VOLGARE

Nel latino classico i rapporti tra costituenti della frase


erano specificati mediante i casi delle declinazioni (per es.:
RŎSA MĀTRIS “la rosa della madre”) e mediante un uso
combinato di preposizioni e di casi: per es. ĔO ĬN ŬRBEM
“vado in città”.
Tuttavia il sistema dei casi non era certo perfetto; infatti, nelle
declinazioni una stessa forma rappresentava spesso più
funzioni: RŎSAE è genitivo e dativo singolare, nominativo e
vocativo plurale (cioè “della rosa”, “alla rosa”, “le rose”, “o
rose”); DŎMĬNO è dativo e ablativo singolare (“al
padrone”,“con il padrone”), così come ANIMĀLI, neutro della
terza declinazione (“all’animale”,“con l’animale”). Al plurale,
in tutte le declinazioni, dativo e ablativo coincidono: RŎSIS;
DOMINIS; CIVIBUS (“alle rose”, “con le rose”; “ai padroni”,
con i padroni”; “ai cittadini”, “con i cittadini”); sempre al
plurale, nominativo, accusativo e vocativo coincidono nella
terza, quarta e quinta declinazione: LĒGES; MĂNUS; RĔS
(“le leggi”, “o leggi”; “le mani”, “o mani”; “le cose”,”o cose”);
sono identici anche il nominativo, l’accusativo e il vocativo dei
nomi neutri: TĔMPLUM; ANIMAL; GĔNU (“il tempio”, “o
tempio”; “l’animale”, “o animale”; “il ginocchio”, “o
ginocchio”). In prattica nessuna declinazione presentava sei
desinenze differenti, una per ciascun caso.
Che una stessa forma possa avere due o più valori è una
possibile fonte di ambiguità, almeno in certe condizioni:
quando cioè il contesto non aiuti sufficientemente. Tale
situazione si complicò ulteriormente quando nell’evoluzione
del latino si produssero due fenomeni:
1) La caduta delle consonanti finali
2) La perdita dell’opposizione tra vocali brevi e vocali
lunghe .
Cosi, vennero meno molte distinzioni: per esempio, tra
nominativo e accusativo singolare della prima e della seconda
declinazione (ROSA in luogo dell’opposizione
RŎSA/RŎSAM; DOMINU in luogo dell’opposizione
DOMINUS/DOMINUM); analogicamente nella terza
declinazione veniva meno la distinzione tra genitivo e dativo
singolare (LEGI in luogo di LĒGIS e LĒGI), tra accusativo e
ablativo singolare (LEGE in luogo di LĒGEM e LĒGE). Al
tempo stesso, scomparsa la differenza tra vocale breve e vocale
lunga, ROSĂ (nominativo singolare) si confondeva con ROSĀ
(ablativo singolare), MANŬS (nominativo e vocativo singolare)
si confondeva con MANŪS (genitivo singolare; nominativo,
accusativo e vocativo plurale).
Si ebbe di conseguenza il colasso del sistema delle declinazioni
e si instaurò un processo di semplificazione morfologica. Per
analogia, i sostantivi della quinta declinazione passano alla
prima: FĂCIES > FACJA > faccia; quelli della quarta alla
seconda: FRŪCTUS, nominativo plurale, diventa FRUCTI >
frutti; anche il nominativo plurale in –ES segue la stessa via:
CĂNES > CANI > cani; sempre nella terza declinazione da
GLĂNS (genitivo GLĂNDIS) si ha GLANDA > ghianda, da
LĂC (genitivo LĂCTIS) si ha LACTE > latte.
I casi scomparvero e per indicare le funzioni prima espresse dai
casi la lingua ricorse a due mezzi:
1) indicò con le preposizioni tutti quei complementi che
nel latino classico erano indicati soltanto dai casi;
pertanto ale forme e costruzioni sintetiche del latino
classico si sostituirono nel latino volgare forme e
costruzioni analitiche:

Latino classico Latino volgare Italiano


RŎSA MĀTRIS ILLA ROSA DE La rosa della
ILLA MATRE madre
DŌ PĀNEM DO ILLU PANE AD Do il pane
AMICO ILLUM AMICU all’amico
ARĀTRO ARO ILLA TERRA Aro la terra con
TĔRRAM ĂRO CUM ILLO l’aratro
ARATRO

2) indicò con la sola posizione il soggetto e il


complemento oggetto: il soggetto è quello che precede il
verbo, il complemento oggetto quello che lo segue;
all’ordine libero (possibile per la presenza delle
desinenze) si sostituisce l’ordine fisso “soggetto –
verbo – oggetto”.

Latino classico Latino volgare Italiano


PĔTRUS IŬLIAM PETRU AMA Pietro ama
ĂMAT IULIA Giulia
IŬLIAM PĔTRUS
ĂMAT
ĂMAT PĔTRUS
IŬLIAM

Due fenomeni di carattere fonetico (la caduta delle


consonanti finali, la scomparsa dell’opposizione tra vocali
brevi e vocali lunghe) provocano una sorta di reazione a catena
che investe sia la morfologia sia la sintassi. Fonetica,
morfologia e sintassi, le tre parti in cui tradizionalmente si
divide la grammatica, sono strettamente connesse tra loro
nell’evoluzione storica dal latino alle lingue romanze.
Latino classico Latino volgare Italiano
Declinazione: Scomparsa dei casi Come nel latino
sistema dei casi volgare
ROSA; ROSAE; ROSA
ROSAE; ROSAM; Rosa
ROSA; ROSA
ROSE
ROSAE; Rose
ROSARUM;
ROSIS; ROSAS;
ROSAE; ROSIS
Costruzione Costruzione Come nel latino
sintetica analitica volgare
ROSA MATRIS ILLA ROSA La rosa della
DE ILLA MATRE madre
Ordine libero delle Ordine fisso delle Come nel latino
parole e casi parole, senza casi volgare
PETRUS IULIAM
AMAT PETRU AMA
IULIAM PETRUS IULIA Pietro ama Giulia
AMAT
AMAT IULIAM
PETRUS

Il passaggio dal latino classico al latino volgare (e alle


lingue romanze) segna sia l’estendersi dell’uso delle
preposizioni già esistenti sia la nascita di nuove preposizioni.
Delle preposizioni latine alcune si conservano (per
esempio: ĂD; DĒ; CŬM; CŌNTRA; ĬN; SŬPRA; ecc.), altre
si perdono (per esempio: ĂB; ĂPUD; ĒRGA; ŎB; PRAE;
PRŌ; PRŌPTER; ecc.). Molto importanti sono le preposizioni
di nuova formazione: DĔ + ĂB ( e forse DĔ + ĂD) > da; ĂB +
ĂNTE > avanti; DĒ + ĬNTRO > dentro; DĒ + RĔTRO >
dietro; DĒ+ PŎST > dopo; ĬN + ĂNTEA > innanzi; ci sono
preposizioni italiane nate dalla fusione di una preposizione e di
un nome: accanto (a canto), allato (a lato).
L’evoluzione che porta nel latino volgare a una
morfologia semplificata e di tipo analitico riguarda non solo le
preposizioni e il sistema delle declinazioni e dei casi, ma anche
altre parti del discorso e altre categorie grammaticali.
Il genere

Il latino aveva tre generi: maschile, femminile e neutro.


Originariamente il maschile e il femminile si riferivano al sesso,
mentre il neutro indicava i nomi dei referenti “non animati”,
per i quali la distinzione del sesso non aveva senso.
L’opposizione “animato/non animato” era espressa mediante
diverse desinenze (confrontiamo il latino DŎMINUS
“padrone”, maschile, con il neutro AURUM “oro”) e
corrispondeva a un modo di concepire la realtà. In seguito, i tre
generi furono interpretati soprattutto come categorie
grammaticali.
Nell’ evoluzione linguistica dal latino alle lingue
romanze il neutro è apparso come un punto debole del sistema,
finendo per sparire (se ne trovano tracce solo nel rumeno); alla
sua scomparsa ha certo contribuito la caduta delle consonanti
finali che ha fatto coincidere la desinenza di un nome maschile
come DOMINU con la desinenza di un neutro come AURU.
I nomi neutri latini sono stati trasformati per la maggior
parte in maschili: AURUM > oro, DŌNUM > dono, MĀRE >
mare; tuttavia molti neutri plurali in –A sono diventati
femminili singolari attraverso una fase in cui valevano come
nomi collettivi (cfr. l’opposizione ancora esistente tra il frutto /
la frutta): FŎLIA > foglia, MIRABĬLIA > meraviglia.
Al pari dell’italiano, anche le altre lingue romanze
possiedono soltanto due generi: il maschile e il femminile.

L’articolo

Nel latino volgare il dimostrativo ĬLLE, o più


esattamente, l’accusativo ĬLLU(M), anteposto a un nome,
tende a trasformarsi in articolo determinativo. Questo
mutamento di valore può essere così rappresentato:

Latino classico Latino volgare Italiano


ĬLLUM FĪLIUM ILLU FILIU Il figlio
“quel figlio” “il figlio”
ĬLLA FĪLIAM ILLA FILIA La figlia
“quella figlia” “la figlia”

Ignoto al latino classico, l’articolo, che ha la funzione


di determinare, di attualizzare il nome, è uno degli aspetti più
importanti di quella tendenza analitica che caratterizza le
lingue romanze nei confronti del latino.
In tutte le lingue che usano l’articolo determinativo,
questo è nato da un pronome: così è avvenuto, ad esempio, per
il greco ho, hē, to, per l’inglese the, per il tedesco der, die, das.
Per quanto riguarda le lingue romanze, la nascita
dell’articolo determinativo dal pronome dimostrativo ĬLLU(M)
si può osservare in testi tardo-latini. Per esempio, in una
versione della Bibbia, la cosidetta Vetus Latina, si legge:
Dixit illis duodecim discipulis - “disse ai dodici
discepoli”. Qui illis ha proprio il valore della preposizione
articolata “ai”, non del dimostrativo “a quelli”, che non
avrebbe alcun senso. La Bibbia latina era una traduzione della
Bibbia greca: l’influsso di quest’ultima lingua, che possedeva
l’articolo, può avere aiutato l’affermarsi dell’articolo nel latino
volgare.
Secondo alcuni studiosi, le tracce dell’articolo
risalirebbero al latino classico: già in Plauto (intorno al 200 a.
C.), nelle lettere di Cicerone, in Petronio e in alti scrittori che
riflettono caratteri della lingua parlata si troverebbero vari
esempi di dimostrativo “debole” posto davanti a un nome: si
tratterebbe insomma di “quasi-articoli” o “articoloidi”. Tale
uso, raro nella lingua scritta, sarebbe stato invece ampio nela
lingua parlata, già sino verso la fine della cosiddetta epoca
classica del latino. Ma secondo altri studiosi questa tesi va
respinta: ĬLLE comincia ad essere usato con un valore simile a
quellö dell’articolo romanzo soltanto a partire dal VI secolo d.
C. Dal numerale latino ŪNUS, o più esattamente dal
accusativo ŪNU(M), si è sviluppato nelle lingue romanze
l’articolo indeterminativo: ital. un (uno). In quanto all’origine e
all’uso degli articoli, l’italiano e le altre lingue romanze
presentano alcuni particolarismi. In vari dialetti dell’Italia
centrale (Marce meridionali, Umbria meridionale, Abruzzo
settentrionale, parte del Lazio) si ha la distinzione tra un
articolo determinativo maschile lu, che continua il latino
ĬLLU(M), e un articolo determinativo neutro lo, che continua il
latino ĬLLUD ed è usato soprattuto davanti a nomi di materia
(per questo è anche detto “neutro di materia”) o comunque
davanti a sostantivi indicanti cose:
ĬLLU(M) LĔCTU(M) > lu lettu ĬLLUD
VĪNU(M) > lo vino
ĬLLU(M) CĂNE(M) > lu cane ĬLLUD
PLŬMBU(M) > lo piummu
L’uso dell’articolo neutro è spesso condizionato dal significato
della parola: per es. piummu – “piombo” richiede l’articolo
neutro lo se indica il metallo, mentre vuole l’articolo maschile
lu se indica lo strumento usato dai muratori; analogamente, si
dice lo bruttu – “la bruttezza”, ma lu bruttu – “quella
particolare persona bruta”.
Nel sardo l’articolo determinativo non si è sviluppato
dal pronome ĬLLE, ma dal pronome ĬPSE:
ĬPSU(M) > su “il”,”lo” ĬPSOS > sos
“i,gli”,

ĬPSA(M) > sa “la” ĬPSAS > sas


“le”.

Nello spagnolo c’è una sorta di articolo neutro lo


(distinto dal maschile el “il, lo”, los “i, gli” e dal femminile la
“la”, las “le”); questo neutro lo, che è privo di plurale, serve ad
indicare significati generali, indeterminati:
lo bueno “il bene, il lato buono, cioè che c’è di buono
(in una cosa)”
lo espanol “il tipico spagnolo, cioè che c’è di spagnolo
in una cosa”(distinto pertanto da el espanol “l’abitante della
Spagna”, “la lingua spagnola”).
Lo spagnolo possiede anche il plurale dell’articolo
indeterminativo:
unos ombres “alcuni uomini”; unas mujeres “alcune
donne”.
L’italiano, come il francese, possiede soltanto i
corrispondenti pronomi: gli uni (e gli altri), le une (e le altre).
Il rumeno presenta un tratto molto caratteristico, che lo
accomuna ad altre lingue dell’area balcanica come il bulgaro, il
macedone e l’albanese: la proposizione è la fusione
dell’articolo determinativo con il nome cui si riferisce. Per
esempio :
DOMĬNU(M) ĬLLU(M) > domnul, “il signore”.

Il comparativo

Il comparativo organico del latino classico è sostituito


da una costruzione analitica formata da PLŪS e dall’aggettivo
di grado positivo: in luogo di ALTĬOR,- ŌRIS si afferma
PLŪS ĂLTU(M) > più alto. Una perifrasi analoga (MĂGIS +
aggettivo positivo) esisteva già nel latino classico in casi
particolari: MĂGIS DŬBIUS, MĂGIS IDŌNEUS. Da MĂGIS
si è sviluppato lo spagnolo mas usato per formare il
comparativo: mas alto “più alto”.
Delle forme organiche latine si conservano soltanto:
MAIŌRE(M) > maggiore MINŌRE(M) >
minore
PEIŌRE(M) > peggiore MELIŌRE(M) >
migliore
MĬNUS > meno MĔLIUS > meglio
PĔIUS > peggio

Il verbo

I verbi irregolari tendono a scomparire o comunque a


regolarizzare la loro coniugazione: FĔRRE è sostituito da
PORTĀRE, LŎQUI “parlare” da PARABOLĀRE, al posto di
PŎSSE e VĔLLE appaiono POTĒRE e VOLĒRE:
I verbi deponenti, che nel latino classico avevano forma
passiva e significato attivo, prendono nel latino volgare forma
attiva in sintonia con il loro significato: MŎRI e MENTĪRI
sono sostituiti da MORĪRE e MENTĪRE.
Il passivo organico è sostituito con quello analitico: in
luogo di AMŎR; AMĀRIS; AMĀTUR si ha AMĀTUS SŬM;
AMĀTUS ĔS; AMĀTUS ĔST; da queste forme derivano: sono
amato, sei amato, è amato.Corrispondentemente il perfetto
passivo assume la nuova forma AMĀTUS FŬI:
Il futuro organico è sostituito con un futuro perifrastico
formato dall’infinito del verbo + il presente di HABĒRE: in
luogo d CANTĀBO (che si era confuso con l’imperfetto
CANTĀBAM) si afferma CANTĀRE + AO (forma popolare
di HĂBEO) > cantarò > canterò. Sul modello di questo futuro
nasce il condizionale, formato dall’infinito del verbo + il
perfetto di HABĒRE: CANTĀRE + EI (forma popolare di
HĂBUI) > cantarei > canterei. Nel futuro e nel condizionale si
noti un fenomeno che è tipico del fiorentino: il passaggio del
nesso –AR- > -ER- in posizione intertonica, cioè tra accento
principale e secondario. Tale fenomeno avviene anche in
posizione postonica: LAZĂRUS > Lazzero.
Accanto al perfetto CANTĀVI > cantai si sviluppa un
perfetto analitico, da cui nascerà il nostro passato prossimo:
HĂBEO CANTĀTUS > ho cantato.

I pronomi

Una tendenza molto accentuata nel latino volgare è il


rafforzamento di una parola mediante la fusione con un altro
elemento. Tale tendenza appare particolarmente evidente nel
processo formativo dei pronomi dimostrativi romanzi, che
nascono da forme rafforzate: per es. invece di ĬSTU(M) si usa
ECCU ĬSTU(M) > questo, invece di ĬLLU(M) si usa ECCU
ĬLLU(M) > quello.
Il latino classico possedeva un sistema di pronomi
dimostrativi più ricco e articolato del sistema italiano: ad ogni
funzione corrispondeva un pronome particolare. I dimostrativi
latini servivano non soltanto ad indicare il rapporto
vicinanza/lontananza rispetto al parlante e all’interlocutore, ma
avevano anche altre funzioni: di collegamento, di correlazione,
di messa in evidenza.

Pronomi dimostrativi
HĬC ( femm. HAEC; neutro HŎC) “questo”: è il
dimostrativo riguardante l’oggetto vicino a colui chi parla;
ĬSTE (femm. ĬSTA, neutro ĬSTUD) “codesto”: è il
dimostrativo riguardante l’oggetto più vicino all’interlocutore;
ĬLLE (femm. ĬLLA; neutro ĬLLUD) “quello”: è il
dimostrativo che riguarda l’oggetto lontano.

Pronomi di rifferimento

ĬS (femm. ĔA, neutro ĬD): rinvia a un elemento già


espresso della frase o del testo; è un anaforico; tale valore lo
rende atto a sostituire il pronome personale di terza persona
singolare e ad essere usato in correlazione con il relativo: qui.is
“colui che, egli”;
ĪDEM (femm. EĂDEM, neutro ĪDEM): composto di
ĬS + -DEM “proprio, precisamente”, indica l’identità: idem
vultus “lo stesso volto”;
ĬPSE (femm. ĬPSA, neutro ĬPSUM): è un pronome che
serve ad evidenziare un elemento della frase, sopratutto per
opporlo ad altri elementi: Caesar ipse “Cesare in persona,
proprio lui”.
Nel passaggio dal latino classico al latino volgare,
questo sistema di pronomi entra in crisi: subisce dapprima dei
mutamenti, poi è sostituito quasi interamente da nuove forme.
Dei sei pronomi dimostrativi del latino classico ĪDEM
scompare molto presto, verso la fine del I secolo d. C., senza
lasciare tracce. Gli altri pronomi, invece, rimangono in vita nel
latino volgare, ma in genere si rafforzano fondendosi con altri
elementi e spesso cambiano anche significato e funzioni. ĬS o
più esattamente il neutro ĬD soppravive unicamente
nell’italiano arcaico desso, “esso” < ĬD ĬPSU(M); anche HĬC si
conserva solo nella forma del neutro in ciò < ECCE HŎC, e
però < PĔR HŎC. ĬSTE e ĬLLE, rafforzati con l’elemento
espressivo ECCU sviluppatosi nel latino volgare e ricavato da
ĔCCE + (H)ŬN(C), accusativo di HĬC, hanno dato origine ai
pronomi dimostrativi italiani:
(EC)CU + ĬSTU(M) > questo
(EC)CU + TĬ(BI) + ĬSTU(M) > cotesto > codesto
(EC)CU + ĬLLU(M) > quello
ĬLLE ha originato non soltanto il pronome dimostrativo
quello e l’articolo determinativo, ma anche vari pronomi
personali. Nel latino volgare ĬLLE fu sostituito da ĬLLI,
modelato sul pronome relativo QUĪ “colui il quale” > ĬLLI
QUĪ. Quando all’interno di una frase la parola successiva
cominciava per vocale, la –I di ĬLLI diventava /j/ trasformando
la laterale precedente in una laterale palatale: ĬLLI ĔST > ĬLLJ
EST > egli è. Pertanto dal latino volgare ĬLLI, per ragioni di
fonetica sintattica, si è avuto l’italiano egli.
Per analogia con CŪI, dativo del pronome relativo QUĪ,
la forma dativale del latino classico ĬLLI fu sostituita nel latino
volgare da ILLŪI e, al femminile, da ILLAEI; queste forme
hanno generato due pronomi personali molto importanti in
italiano: (IL)LŪI > lui, (IL)LAEI > lei. Dal genitivo plurale
ILLŌRUM nasce loro.
Un altro pronome molto vitale nel latino volgare, e
conseguentemente nelle lingue romanze, è ĬPSE. In italiano
abbiamo:
ĬPSU(M) > esso
ĬSTU(M) + ĬPSU(M) > istesso < stesso
ĬPSE ha contribuito alla formazione dell’italiano
medesimo che deriva dal latino volgare METĬPSIMU(M),
composto dall’elemento rafforzativo MET – ( ricavato da
formule latine del tipo EGŎMET ĬPSE “proprio io in persona”,
ILĔMET ĬPSE “proprio luiin persona) e da –IPSIMU(M),
contrazione di IPSĪSSIMUS, superlativo di ĬPSE.
Anche nel campo dei pronomi appare chiaramente una
delle caratteristiche essenziale del lessico del latino volgare:
l’avversione per le parole troppo brevi e la predilezione, invece,
per le parole di corpo fonetico ampio e di significato espressivo.

Formazione del plurale

La formazione del plurale in area italiana è diversa a


seconda che si tratti di:
1) plurali in –E derivati da sostantivi femminili della
prima declinazione
2) plurali in –I derivati da sostantivi maschili dela seconda
declinazione
3) plurali in –I derivati da sostantivi maschili e femminili
della terza declinazione.
1) I nomi italiani derivati da sostantivi femminili della
prima declinazione formano il plurale dal nominativo o
(secondo un’altra tesi) dall’accusativo:
CĀSAE > case
CĀSAS > CASES > case
Nel primo caso si avrebbe la monottongazione del
dittongo –AE in –e, nel secondo caso si avrebbe il passaggio
di –AS in –ES per l’azione palatalizzante della –S, che poi è
caduta. Quest’ultima ipotesi è messa in valore dal fatto che
nelle carte latine alto–medievali sono frequenti grafie con –ES
finale come TABULES, OPERES, le quali rappresentano una
fase intermedia fra il latino classico in –AS e il latino volgare
in –e.
2) I nomi italiani derivati da sostantivi maschili della
seconda declinazione formano il plurale dal nominativo:
CĂMPI > campi
3) I nomi italiani derivati da sostantivi maschili e femminili
della terza declinazione formano il plurale dal nominativo-
accusativo in –ES, che è prima passato a –IS per l’azione
palatalizzante della –S finale e poi a –I per la caduta della –S:
CĂNES > CANIS > cani.
Questo sviluppo è stato probabilmente favorito dall’influsso
analogico dei plurali in –I della seconda declinazione.
LA SINTASSI DEL LATINO VOLGARE

Nel latino classico era normale il seguente ordine dei


componenti della frase:

soggetto complemento diretto oggetto predicato


MĪLES GLĂDIO HŎSTEM NĔCAT
il soldato con la spada il nemico ucide

Il latino volgare preferiva invece l’ordine diretto:

soggetto predicato oggetto Complemento indiretto


MĪLES NĔCAT HŎSTEM GLĂDIO
il soldato ucide il nemico con la spada

Mentre il latino classico faceva un largo uso della


subordinazione, il latino volgare preferiva la coordinazione.
La coordinazione predomina anche in quegli scrittori e
in quelle opere della latinità classica che imitano i modi del
parlato: per esempio nelle commedie di Plauto. Quando scrive i
trattati e le orazioni, Cicerone ricorre ampiamente alla
subordinazione, ma nelle lettere a familiari e amici preferisce la
coordinazione. Questa prevale nella maggior parte degli
scrittori cristiani, soprattutto per l’influsso delle Sacre Scritture.
La lingua letteraria italiana ritornerà ad un uso ampio della
subordinazione soltanto a partire dal XIV secolo per imitazione
dei classici latini. Tale fenomeno si avverte sopratutto nella
prosa del Boccaccio.
Sempre nel campo della sintassi del periodo, notiamo
che nel latino classico e nel latino volgare la subordinazione è
costruita diversamente. Nel latino classico, dopo una reggente
costituita da un verbo dichiarativo (DĪCO, NĔGO, NĀRRO,
CRĒDO, SCĬO “so” ecc.) o da un verbo di appercezione
( SĒNTIO, VĬDEO, AŪDIO) si usava di norma la costruzione
“accusativo con infinito”; per esempio: “dico amicum
sincerum esse (fuisse)”, letteralmente “dico l’amico essere
(stato) sincero”, cioè “dico che l’amico è (stato) sincero”; “scio
eum hoc fecisse”, letteralmente “so lui aver fatto questo”, cioè
“so che lui ha fatto questo”. Sviluppando ulteriormente una
tendenza che era viva in alcuni settori della lingua, il latino
volgare ha eliminato l’”accusativo con l’infinito”sostituendolo
con una subordinata formata da una congiunzione subordinante
(quod, quia) + verbo all’indicativo; l’italiano ha accolto questa
innovazione. Si è avuto dunque questo sviluppo:
Latino classico Latino volgare Italiano
DĪCO DICO QUOD ILLU Dico che l’amico è
AMĪCUM AMICU EST sincero
SINCĒRUM SINCERU
ĒSSE

Boccaccio e, nel Quattrocento, i prosatori umanistici in


volgare ripristinarono in parte la costruzione “accusativo con
l’infinito” per il desiderio di imitare la sintassi del latino
classico. Nelle loro opere ritroviamo proposizioni subordinate
del tipo: “dico l’amico essere stato sincero; narrava sè aver
trovato il tesoro”. Nell’italiano moderno questo tipo sintattico
è stato eliminato; tuttavia una forma di “accusativo con
l’infinito” si conserva con alcuni verbi: fare, lasciare, vedere,
udire, sentire: per esempio. “l’ho fatto arrivare”, “non mi
lascia parlare”, “vedo Giulia camminare”, “sento Maria
cantare”. L’infinito si usa quando il soggetto della principale
coincide con il soggetto della subordinata: “dico di essere
felice”; “Mario affermava di aver incontrato Luisa”.
Nelle proposizioni volitive il mutamento riguarda
soltanto la congiunzione subordinante ut del latino classico, la
quale è sostituita da quia:
Latino classico Latino volgare Italiano
VŎLO ŪT VOLO QUIA Voglio che tu
VĔNIAS VENIAS venga

La congiunzione subordinante che deriva


probabilmente dal latino QUĬA, neutro plurale arcaico di QUĬ
“il quale”. Nella forma italiana come nela forma que (presente
in francese, provenzale, catalano, spagnolo e portoghese) si è
avuta la caduta della vocale finale. Quest’ultima si conserva
invece in ca, congiunzione subordinante diffusa nell’Italia
meridionale: per esempio, nel napoletano: “pens ca ven -
“penso che verrà”. Secondo un’altra tesi che deriverebbe dal
pronome interrogativo e indefinito QUĬD; il quale, in un
secondo tempo, si sarebbe affermato come congiunzione
subordinante invece di QUŎD e di QUĬA.
Il latino volgare e le lingue romanze hanno eliminato
molte congiunzioni antiche, ma ne hanno create delle nuove.
Nell’ambito delle congiunzioni coordinanti si è mantenuto ĔT
(it. e), ma si sono perse le altre copulative ĂC; ĂTQUE.
Per quanto riguarda le disgiuntive si è mantenuto AUT
(it.o), mentre è caduto VĔL. Si sono perdute le avversative
SĔD; ĂT; VĒRUM; AUTEM; CĒTERUM; al loro posto sono
subentrate ma (dal lat. MĀGIS con mutamento di valore) e
però (dal lat. PĔR HŎC):
L’italiano e le altre lingue romanze hanno eliminato le
antiche congiunzioni subordinanti (le finali ŬT; NĒ e QUŌ, le
concessive QUĀMVIS; ĒTSI; LĬCET; QUĀM-QUAM, il
polivalente CŬM) e ne hanno creato delle nuove mediante la
combinazione:
Preposizione o avverbio + che
Per esempio: perchè, poichè, dacchè, finchè, benchè, prima
che, dopo che. In tal modo le congiunzioni subordinanti
italiane acquistano una sorta di contrassegno distintivo
(l’elemento che): alla varietà del latino classico corrisponde in
italiano una certa uniformità.

IL LESSICO DEL LATINO VOLGARE

Tra il latino classico e il latino volgare si notano vistose


differenze nel campo del lessico. Certo le due varietà avevano
un asse comune molto ampio, nel quale rientrano vocaboli
fondamentali (sostantivi come: hŏmo, filius, măter, mănus,
ăqua, pānis, tĕrra; aggettivi come: bŏnus, nŏvus, plĕnus,
rotŭndus; verbi come: habēre, facĕre, vidēre, bibĕre, dormĭre).
Tuttavia fattori linguistici, sociali, culturali, etnici e psichici
avevano creato differenze di varia natura ed entità. Eccone
alcune minime connesse con l’evoluzione fonetica (per
esempio, la caduta di una vocale atona) e con lo spostamento
dell’accento:

Latino classico Latino volgare Italiano


CĂLIDUS CALDU caldo
ŎCULUS OCLU occhio
PARĬETEM PARETE parete
SAPĔRE SAPERE sapere
RIDĒRE RIDERE ridere
MORDĒRE MORDERE mordere

Vedremo anche altri mutamenti più complessi che


dipendono dalla qualità dei parlanti e dalle diverse situazioni in
cui avviene l’atto comunicativo. Era naturale che il cittadino
medio non avesse una conoscenza approfondita dei vocaboli
letterari, dei sinonimi raffinati, dei procedimenti stilistici e
retorici usati dagli scrittori. Se due parole esprimevano
all’incirca lo stesso significato la scelta doveva cadere sulla
parola più popolare, più espressiva, più “efficace”.
Al tempo stesso il latino volgare veniva incontro ai
bisogni e alla mentalità di una massa di piccoli commercianti,
di artigiani, di soldati, di semiliberi, di schiavi addetti ai lavori
più diversi. Caratteri propri del lessico del latino volgare sono:
concreteza, specificità, immediatezza espressiva e corposità
fonetica. In tale lessico si riflette la stratificazione etnica di una
società nella quale gli specialisti e i tecnici (il medico, il
veterinario, il cuoco) sono per lo più greci; per questo motivo
parole greche entrano nel latino volgare. Abbiamo già
accennato all’influsso del Cristianesimo, una fede che rivaluta
la lingua parlata dal popolo, una religione che si serve
largamente di parole e significati nuovi, talvolta ripresi dal
greco. I fenomeni che mofdificano il lessico del latino
appartengono a due ordini:
1) cambiamento del fondo lessicale (cioè perdite e acquisti di
parole); 2) cambiamento di significato di parole già esistenti
(mutamento semantico).
1) Di una coppia di sinonimi si conserva il vocabolo più
comune e popolare:
Latino classico Latino volgare Italiano
TĔRRA - TĔLLUS TERRA terra
STĒLLA - SĬDUS STELLA stella
CĂMPUS - AGĔR CAMPU campo
Le parole “consumate”, di significato generico, brevi
nella forma, sono sostitutuite da parole di significato “forte”, di
alta espressività, di forma più ampia. I sostituti sono spesso
vocaboli che già esistevano con un significato particolare
acanto al vocabolo generico:
Prima fase Seconda fase Italiano
Il vocabolo del latino C è sostituito da v Riproduce la seconda
classico (c) e quello del che ha preso il fase
volgare (v) coesistono; significato di c
ciascuno con un suo
significato

ĔSSE, ĔDERE / MANDUCARE Manicare, poi


MANDUCĀRE “mangiare” mangiare
“mangiare” / (francesismo da
“rimpinzarsi” manger)
FLĒRE / PLANGERE piangere
PLĂNGERE “piangere”
“piangere”/ “battersi il
petto”
ĔQUUS / CABALLU cavallo
CABĂLLUS “cavallo”
“cavallo” / “cavallo da
tiro”
ŌS / BŬCCA BUCCA bocca
“bocca” / “guancia” “bocca”
LŎQUI / parlare
PARABOLĀRE PARABOLARE
“parlare” / “dire “parlare”
parabole”
DŎMUS / CĂSA CASA casa
“casa” / “capanna” “casa”

La ricerca di parole più corpose e dotate di maggiore


espressività spinge a preferire in molti casi il diminutivo in
luogo del nome semplice:

Italiano
Prima fase Seconda
fase
nome semplice diminutivo del Nome semplice Riproduce la
nome derivato seconda fase
dall’originario
diminutivo
AURIS AURĬCULA AURICLA;
“orecchia” “piccola ORICLA orecchia
orecchia” “orecchia”
FRĀTER FRATĔLLU FRATELLU
“fratello” S “fratello” fratello
“fratellino”
GĔNU
“ginocchio” GENŬCUL GENUCULU ginocchio
US “ginocchio”
“piccolo
ginocchio”

Per motivi analoghi, al verbo semplice si preferisce


talvolta il verbo iterativo, cioè quello che esprime la ripetizione
dell’azione:

Seconda fase
Prima fase Italiano
SALĬRE SALTĀRE
“saltare” “continuare a SALTARE saltare
saltare”
PINSĔRE PISTĀRE
“pestare” “continuare a PISTARE pestare
pestare”

Mediante suffissi e prefissi si formano nuovi verbi:


Latino classico Latino Italiano
volgare
ĂLT – US + - IARE ALTIARE alzare
“alto”
CĀPT – US + - IARE CAPTIARE cacciare
“preso”
MŎRT(U) – US + EX - smorzare
IARE EXMORTIARE
MŎRS – US + - ICARE MORSICARE
morsicare
BEĀT – US + - IFICARE
BEATIFICARE beatificare

I nuovi verbi sostituiscono i verbi del latino classico:


MORSICARE si affianca a MORDĒRE. L’italiano ha le due
forme: morsicare (vocabolo popolare) e mòrdere, tratto da
MORDĒRE, con cambio di coniugazione.
Nel processo di formazione dei verbi prefissati si
verifica talvolta il fenomeno della ricomposizione, consistente
nel riportare sul radicale l’accento che si trova sul prefisso per
analogia con il verbo semplice; di quest’ultimo si ripristina la
vocale; in tal modo si annulla l’effetto dell’indebolimento
vocalico avvenuto nel latino arcaico:
CŎNTĬNET per analogia con TĒNET diventa CONTENET >
contiene
Altri esempi:
COMMĒNDAT per analogia con MĀNDAT diventa
COMMANDAT > comanda
DISPLĬCET per analogia con PLĂCET diventa DISPLACET
> dispiace
RENŎVAT per analogia con NŎVAT diventa RENOVAT >
rinnova
Abbiamo già ricordato che i pronomi sono “rinforzati”;
per esempio, invece di ĬSTU(M) si usa ECCU + ĬSTU(M) >
questo. La stessa cosa accade per gli avverbi: invece di ĂNTE,
ĬNTRO si usano (DĒ) + ĂB + ĂNTE > (d) avanti, DĒ +
ĬNTRO > dentro.
Le parole semplici sono talvolta sostituite con perifrasi:

Latino Latino volgare


classico Italiano
VĔRE PRIMO VERE; PRIMA
“ in VERA primavera
primavera”
MĀNE (HORA) MATUTINA mattina
“mattina”

Un settore importante è quello dei cambiamenti di


significato. Abbiamo già visto alcuni ampliamenti di
significato: MADUCĀRE da “rimpinzarsi” a “mangiare”;
CABĂLLUS da “cavallo da tiro” a “cavallo”. Ricordiamo
ancora: ADRIPĀRE significava in origine “giungere alla riva”
(lat. RĬVA), poi significò genericamente “giungere in qualsiasi
luogo”, cioè arrivare. Ma si ha anche il fenomeno inverso: da
un significato generico si va ad un significato specifico, per
esempio COGNĀTUS da “parente” a “fratello della moglie”,
cioè cognato; NECĀRE da “uccidere” a “uccidere
nell’acqua”(AD – NECĀRE > annegare).
Ci sono poi mutamenti di significato che dipendono da
un uso metaforico del vocabolo: per esempio CĂPUT “testa” è
sostituito appunto da TĔSTA, che in origine significava “vaso
di coccio”; PAPILIO (PAPILIŌNEM) “farfalla” prende il
significato di “tenda di accampamento”, cioè padiglione: le
tende dell’accampamento con i loro colori e forme facevano
pensare a grandi farfalle.
Per i contatti che Roma ebbe con la Grecia fin dai primi
tempi, molti grecismi erano entrati già nel latino classico, per
esempio: SCHŎLA “scuola”, CĂTHEDRA “cattedra”,
CĂLAMUS “penna per scrivere”, CĂMERA “soffitto fatto a
volta”, BASĬLICA “complesso di edifici con varie destinazioni
pubbliche”. Con il Cristianesimo entrarono dei nuovi grecismi,
per esempio: ECCLĒSIA > chiesa; EPĬSCOPUS > vescovo,
ĂNGELUS > angelo, MĂRTYR > martire. La nuova religione
adattò a nuovi significati antichi grecismi: così BASĬLICA
prese a indicare l’edificio del culto.
Un mutamento di significato avvenuto in ambienti
cristiani è all’origine di parola e parlare: il grecismo
PARĂBOLA (dal greco parabolè “comparazione,
similitudine”) era usato dai traduttori latini delle Sacre Scritture
per indicare le brevi storie, gli esempi allegorici citati da Gesù
nelle sue prediche; il termine indicò poi la “parola” di Gesù, la
parola di Dio, e quindi, con un’estensione del significato, la
“parola” in generale; a questo punto il latino classico
VĔRBUM “parola” cadde dall’uso; da PARĂBOLA si
sviluppò il verbo PARABOLĀRE > parlare.
Tutavia, nell’italiano di oggi esiste la parola verbo,
come esistono (almeno nella lingua colta) tellurico, sidereo,
l’elemento agri- (agricoltura, agriturismo), equino, tutte forme
che – come appare a prima vista – discendono dai vocaboli
latini “scomparsi” TĔLLUS; SĬDUS; ĂGER; ĔQUUS. Sono
scomparsi o no questi vocaboli? La risposta è semplice: verbo,
tellurico, sidereo, agri-, equino (e tanti altri vocaboli) sono dei
latinismi, cioè sono parole dotte, riprese da testi latini e
introdotte nella lingua italiana ad opera di persone colte nel
corso dei secoli. Si tratta di scrittori, scienziati, filosofi che
avevano bisogno di nuovi vocaboli per fini letterari, culturali e
scientifici.
Le parole popolari (come per es. stella, terra, campo,
cavallo) sono state sempre usate dal latino fino ai nostri giorni,
senza alcuna interruzzione. Invece i latinismi hanno una storia
“interrotta”: a un certo punto hanno cessato di vivere. La crisi
politica dell’Impero Romano fu al tempo stesso una crisi
culturale; le scuole furono chiuse; la lingua classica divenne un
ricordo lontano (soltanto pochi dotti la conoscevano); molte
parole (sopratutto quelle dei poeti e degli scrittori) furono
dimenticate; continuarono la loro vita soltanto nei libri delle
biblioteche. E dai libri tali parole furono riprese, dopo un
periodo più o meno lungo, ad opera di persone colte che le
usarono facendole risorgere a nuova vita.
Siccome passano direttamente dal latino scritto
all’italiano, i latinismi conservano quasi integra la loro forma
originaria, a differenza delle parole popolari che cambiano
d’aspetto nel corso della loro vita ininterrotta. Vediamo un
esempio: edicola è un latinismo: proviene da AEDĬCULA(M)
ed entra in italiano nel Quattrocento; se questa parola fosse
stata sempre usata dal popolo avrebbe ora un’altra forma:
edécchia o idécchia. Così il lat. VĬTIUM continua in due forme
italiane: la parola colta vizio e la parola popolare vezzo. In
questo caso si parla di doppioni o allotropi.
In alcuni dizionari, l’etimologia delle parole popolari è
indicata con la dizione “lat.”, l’etimologia dei latinismi è
invece indicata con la dizione “dal lat.” Oppure “voce dotta
lat.”; per esempio:
- parola popolare: occhio, lat. ŎCULU(M)
-latinismo: edicola, dal lat. AEDĬCULA(M),
oppure voce dotta lat.
AEDĬCULA(M).

LE TESTIMONIANZE DEL LATINO VOLGARE

Non esistono testi scritti interamente in latino volgare;


ci sono, invece, testi in cui si ritrovano tratti, più o meno
numerosi, più o meno marcati, di tale varietà di lingua. Alcuni
fenomeni tipici del latino volgare si erano già manifestati nel
latino arcaico (abbiamo già ricordato Plauto), ma furono poi
respinti dalla lingua letteraria “classica” del periodo successivo.
Tra i doccumenti del latino volgare ricorderemo:
 Il Satyricon di Petronio (I sec d.C.), opera nella quale
l’autore fa parlare al nuovo ricco Trimalcione una
lingua piena di volgarismi;
 Le iscrizzioni e i graffiti di Pompei (saluti,
imprecazioni, trivialità, propaganda elettorale),
conservatisi dopo l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
che seppellì la città sotto uno stratto di ceneri;
 Molte opere di autori cristiani che si servivano
volutamente di una lingua vicina a quella parlata dal
popolo;
 Varie testimonianze di grammatici che citano,
correggendoli, gli errori commessi da persone di scarsa
cultura;
 Le numerose epigrafi dettate da persone di scarsa
cultura.
Infine va ricordato che molti caratteri del latino volgare
si ricostruiscono in base ala comparazione delle lingue
romanze. Per esempio, l’ital. carogna, il franc.
charogne, lo spagn. carroňa consentono di postulare una
forma lat. volgare, non attestata dalle fonti scritte,
CARŌNIA, da CĂRO, CĂRNIS “carne”. L’interesse
per lo studio comparativo delle lingue sta alla base della
linguistica storica, la quale fin dal suo primo costituirsi
si dedicò con grande impegno alla ricostruzione di voci
latine non attestate: il numero delle parole asteriscate
(cioè non attestate) è molto alto nei primi dizionari
etimologici delle lingue romanze. Va ricordato
sopratutto il famoso Romanisches Etymologisches
Wörterbuch (REW) del Meyer- Lübke (prima edizione
1911 – 1920).

UN CONFRONTO

Conoscere gli aspetti fondametali del latino volgare è


un presupposto necessario per comprendere i caratteri fonetici,
morfologici, sintattici e lessicali della lingua italiana. Mediante
il confronto tra l’italiano e il latino volgare si dà una
spiegazione storica di tali caratteri. Bisogna tuttavia ricordare
che esistono altri tipi di spiegazione dei fatti linguistici fondati
non sulla storia, ma sulla funzionalità della lingua, sull’uso che
ne fa il parlante, sui giudizi che il parlante dà della lingua.
Da un certo punto di vista l’evoluzione del latino
volgare si può confrontare con quella dell’indoeuropeo. In
entrambi i casi, una lingua comune si differenzia a seconda dei
luoghi, poi per un evento critico (la rottura dell’unità politica,
nel caso del latino, la dispersione geografica dela comunità, nel
caso dell’indoeuropeo) avviene una scissione e nascono nuove
lingue. Questo ciclo si è sviluppato anche in altre famiglie
linguistiche ed è destinato a ripetersi in futuro nella storia delle
lingue del mondo.

IL PROBLEMA DEI PRIMI DOCUMENTI

La genesi di una lingua è un fenomeno lungo e


complesso. Nel caso del passaggio dal latino alle lingue
romanze, la trasformazione durò secoli e si svolse sul piano
dell’oralità, visto che il latino continuò a mantenere il ruolo di
lingua della cultura e della scrittura. Nel corso del tempo, lo
stesso latino cambiò, in parte per l’ignoranza degli scriventi,
oltre che per nuove abitudini. Si parla di un “latino medievale”,
diverso dal latino classico e da quello volgare. Il latino
medievale è una realizzazione di una serie di “registri
intermedi” tra il latino della tradizione e il volgare: non è un
vero latino e non è un vero volgare. È un latino che si ispira al
volgare.
La caratteristica dei documenti antichi del volgare è
comunque la casualità: oggi si dispone di un corpus ben
definito di antichi documenti italiani, ma anche altri possono
aggiungersi a quelli noti. Si considera il primo documento della
lingua francese I Giuramenti di Strasburgo dell’842
(Lodovico il Germanico e Carlo il Calvo – nipoti di Carlo
Magno – di fronte ai loro eserciti, giurarono alleanza contro il
fratello Lotario. Lodovico il Germanico era sovrano di un
territorio di lingua tedesca; Carlo il Calvo era sovrano di un
territorio galloromanzo. Ognuno dei due re giurò nella lingua
dell’altro; i capi dei rispettivi eserciti giurarono nella propria
lingua).
Anche il cosiddetto atto di nascita della lingua italiana,
Il Placito Capuano, è una formula connessa a un giuramento
(più tardi di oltre un secolo); non si lega a un evento ricco di
rilievo, ma nasce da una piccola controversia giudiziaria di
portata locale. Il primo documento dell’italiano è dunque in
tono “minore” rispetto a quello francese. Anche i più antichi
documenti del provenzale sono giuramenti di fedeltà. Si
trattava dunque di circonstanze che esigono l’uso di una
formula che doveva essere recitata e intesa in maniera univoca,
per non dare luogo a confusioni; questa conferma che il latino
era ormai sentito come una lingua morta.
A volte non era facile fissare una separazione tra il
latino e il volgare. L’esame dell’Indovinello veronese può
aiutare a capire questo problema. Un codice scritto in Spagna
all’inizio del VIII secolo e usato già in epoca antica a Verona,
dopo varie peregrinazioni, porta nel margine superiore di un
foglio due note in scrittura corsiva, risalente al VIII o inizio del
IX secolo. La seconda noticina è in latino. La prima è: “Se
pareba boves alba pratalia araba e albo versorio teneba e
negro semen seminaba”. Chiamato allora ‘il ritmo di Verona”
il testo alludeva all’atto dello scrivere. Il verbo “se pareba”
condiziona la scelta del soggetto sottointeso dei quattro verbi
della frase. Sono stati proposti i seguenti soggetti:”lo scrittore”,
“la mano”, “le dita”, “la penna”. Il più probabile è il primo che
verrebbe paragonato a un aratore che spinge avanti i buoi,
arando campi bianchi (il foglio), reggendo un aratro bianco (la
penna d’oca) e seminando un seme nero (l’inchiostro).
“Versor” in senso di “aratro” è tipico di molti dialetti
settentrionali.

Il graffito della catacomba di Comodilla a Roma


Le più antiche testimonianze italiane di scritture volgari
sono per la maggior parte carte notarili o documenti
processuali, dunque documenti di archivio. Caso diverso e
curioso è quello dell’iscrizione della catacomba romana di
Comodilla, che è un anonimo graffito tracciato sul muro e che,
a prima vista, sembra conservare un aspetto latineggiante e non
porta alcuna indicazione cronologica. Si trova in una cappella
sotterranea della catacomba romana di Comodilla, la cripta dei
santi Felice e Adàutto, la cui scoperta avvenne nel 1720. Una
frana rese impossibile l’accesso e nessuno entró più nella
catacomba fino all’inizio del secolo scorso (1903). Ci sono due
indicazioni cronologiche, una incisa forse nei secoli VI – VII
(la data dell’affresco) e poi un’altra, forse dopo l’abbandono
della cappella (la metà del IX secolo). Il graffito si può
trascrivere così:
“NON/DICE/RE IL/LE SE/CRITA/ABBOCE”, cioè “non dicere
ille scritta a bboce” (“non dire quei segreti a voce alta”).
L’interpretazione porta ad un ambiente religioso in cui non ci si
riferisce affatto a dei segreti qualunque, ma a qualche cosa di
molto tecnico e preciso: le “orazioni segrete” della messa.
L’iscrizione potrebbe essere attribuita a un religioso, forse un
prete che celebrava il rito sacro nella catacomba, che voleva
invitare i suoi colleghi a recitare a voce bassa il Canone della
messa, secondo un uso documentato dal secolo VIII.

L’iscrizione della basilica romana di San Clemente rientra in


un proggetto grafico più complesso: si tratta di un affresco in
cui parole in latino e in volgare sono state dipinte sin
dall’inizio accanto ai personaggi rappresentati, per mostrare il
loro ruolo nella storia narata. Il dipinto fu riportato alla luce nel
1861 ed è ancora visibile nella basilica sotterranea di San
Clemente, a Roma, non lontano dal Colosseo. Narra una storia
miracolosa: si vede il patrizio romano Sisinnio, che ha ordinato
ai suoi servi di catturare Clemente; i servi sono stati pronti a
ubbidire, ma si illudono di aver legato il santo. In realtà
trascinano con grande fatica una pesante colonna. Oltre a
Sisinnio, a destra, con il braccio alzato in segno di comando,
sono rappresentati i tre servi: Albertello, Carboncello e
Gosmarì, che trascinano la colonna mezzo sollevata, posta
davanti a due archi; il servo sulla sinistra solleva la colonna
con un palo, gli altri due tirano con una corda. Il pittore ha
aggiunto una serie di parole che hanno funzione di didascalia o
che indicano le frasi pronunciate dai personaggi raffigurati:
queste frasi sono in volgare vivace ed espressivo e
costituiscono una testimonianza eccezionale per l’antichità.
L’affresco si colloca tra il 1084 e il 1128, tra la data del
restauro della basilica e la costruzione della nuova basilica di
San Clemente, costruita sopra la chiesa più antica. Pare che
l’affresco sia stato dipinto alla fine del IX secolo. La scrittura
ha un andamento verticale, per inserirsi negli spazi rimasti
liberi tra figure. Latino (per le scritte corrispondenti alle figure
B e C) e volgare (T; D; G) coesistono:
A: “Falite dereto co lo palo Carvoncelle”
B: “Duritiam cordis v(est) ris”
C: “Saxa traete meruistis”
D: “Albertel traite”
E : “Gosmarì“
F: “Sisinnium”
G: “Fili de le pute traite”
Il testo si può tradurre così:
A-G: “fai a lui te dietro, spingilo dietro con il palo” (dereto <
lat. de retro – volgare)
B-C: “Per la durezza dei vostri cuori avete meritato di
trascinare delle pietre-“
G: “Figli di puttane, tirate!” che discende fino al turpiloquio (è
una testimonianza di volgare romanesco).
Altri studiosi ritengono che la lettura andrebbe da destra
a sinistra e cioè Sisinnio parla e dice: “Figli delle pute tirate!
Gosmari, Albertel, traite! Falite dereto co lo palo,
Carvoncelle!”. Il problema nasce dal fato che, a differenza del
moderno “fumetto”, in questa realizzazione antica del rapporto
figura/parola non è stabilito in maniera chiara. L’affresco ha
l’andamento di una scena teatrale.

L’atto di nascita dell’italiano : Il Placito Capuano del 960

Tra i documenti romani intercorrono più di due secoli.


In mezzo si colloca Il Placito Capuano che gode del privilegio
di essere comunemente considerato “l’atto di nascita”
dell’italiano, anche perchè si tratta di un documento ufficiale in
quanto verbale di un processo. Proprio in riferimento alla data
di questo testo, il 960, si è celebrato nel 1960 il “millenario”
della lingua italiana e Bruno Migliorini volle pubblicare allora
la sua Storia della ingua italiana.
Il Placito Capuano del 960 è un verbale notarile scritto
su foglio di pergamena, relativo a una causa discussa di fronte
al giudice capuano Arechisi. Davanti a lui si sono presentati
l’abate del monastero di Montecassino e un tale Rodelgrino di
Aquino. Rodelgrino rivendicava in lite giudiziaria il possesso
di certe terre, a suo giudizio abusivamente occupate dal
monastero. L’abate di Montecassino invocava il diritto definito
oggi di “usucapione”, affermando che quelle terre erano
utilizzate dal monastero ormai da trent’anni, ciò che per la
legge longobarda costituiva titolo per il possesso definitivo.
Nel giorno stabilito si presentarono di fronte al giudice tre
testimoni che, tenendo in mano la memoria presentata da
Rodelgrino, recitarono uno alla volta una formula testimoniale
con la quale davano ragione alla tesi dell’abate; quindi i
testimoni giurarono sul Vangelo di aver detto la verità. La
causa si concluse con la promessa di Rodelgrino, valida anche
per i suoi eredi, di non ritornare sulla questione. Il dibattito
orale di fronte al giudice con l’intervento dei testimoni, doveva
essersi svolto già allora in volgare, non in latino, ma il latino
era l’unica lingua della cultura e della scrittura e così le
eventuali formule testimoniali pronunciate in volgare venivano
tradotte in latino nel corso della verbalizzazione del processo.
La traduzzione in latino degli atti processuali durò molto a
lungo, almeno fino al Cinquecento e al Seicento. Però, nel caso
del Placito Capuano, le cose andarono diversamente. Per
motivi che non sono chiari, la verbalizzazione fatta in latino
arrivò a quell’occasione a includere vere e proprie formule
testimoniali volgari, un volgare autonomo, una lingua nuova
che contrasta con il testo latino del documento.
Successivamente, durante l’udienza, ogni testimone si presenta
di fronte al giudice e recita la formula, sempre uguale, tanto è
vero che il verbale avverte che i tre testimoni hanno parlato
quasi con una sola bocca, garanzia giuridica della verità delle
loro affermazioni. Nella parte finale del Placito, il terzo
testimone, il chierico e notaio Gariperto, recita la formula:
“Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le
possette parte sancti Benedicti” (So che quelle terre, entro quei
confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in
possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto). Si
può osservare un vero idioma “locale” caratterizzato anche da
una forma che ancora sopravvive nei dialetti meridionali:
“kelle” per “quelle”. Nella formula ci sono latinismi, come il
nesso –CT in “sancti”e come il sintagma “parte sancti
Benedicti”, tecnicismo giuridico.“Sao” iniziale sta al posto di
quello che, modernamente sarebbe in quella zona, un “saccio”
(< lat. sapio). Si è anche pensato, per spiegare questa forma, ad
un influsso settentrionale o a un tentativo di superamento del
dialetto da parte dello scrivente. Più di recente si è ipotizzato
che “sao” sia in realtà un elemento non estraneo alle antiche
parlate campane, forse comune sia all’Italia settentrionale sia a
quella meridionale.
La formula del Placito Capuano del 960 non è isolata;
essa si colloca nella serie di quelli che si definiscono I Placiti
campani con riferimento alla regione di provenienza, la
Campania. In altre tre carte notarili analoghe, una di Sessa
Aurunca e due ti Teano, risalenti al 963, si trovano formule
molto simili. Riportiamo per curiosità Il Placito di Teano del
963 (ottobre): “Sao cco celle terre, per celle fini che tebe
mostrai, trenta anni le possette parti sancte Marie”. Come si
vede, le formule si apparentano in maniera notevole con quella
del Placito Capuano del 960, ciò che conferma l’impressione
di una sorta di codificazione giuridica o formalizzazione della
lingua parlata (si osservano il raddoppiamento fonosintattico
“sao cco” e la presenza dei pronomi “tebe”< “tibi”).

Il filone notarile – giudiziario. Il volgare dei documenti


notarili. Il filone religioso nei primi documenti dell’italiano

Un buon numero dei più antichi documenti italiani è


dovuto ai notai, perchè i notai avevano più frequentemente
l’occasione di usare la scrittura. Il notaio medievale aveva
spesso l’abitudine di inserire nelle scritture della sua
professione testi diversi con una certa libertà e fantasia: i notai
bolognesi dell’età di Dante usarono scrivere dei versi per
riempire gli spazi bianchi dei loro registri. Altre volte il notaio
aggiungeva commenti o osservazioni personali. Questo accade
nella cosiddetta Postilla amiatina. Nel gennaio del 1087 due
coniugi donarono i loro beni all’abazia di San Salvatore di
Montamiata (oggi si conserva nell’Archivio di stato di Siena) e
il notaio aggiunse alla fine la seguente postilla: “ista car(tula)
est de caput coctu ille adiuvet de ill rebottu q(ui) mal co(n)siliu
li mise in corpu”; “caput coctu” sarebbe il soprannome di uno
dei due donatori (oggi si direbbe “Testadura” o “Capotosto” o
forse “Testa calda”).
Il notaio diceva che Capocotto aveva delapidato le sue
soastanze in una crèpola. “Rebottu” va connesso con il francese
“ribaut – ribaldo”. I versi significherebbero “Questa carta è di
Capocotto: essa lo aiuti da quel ribaldo che tal consiglio gli
mise in corpo” (Non si sa quale sia stato il cattivo consiglio che
avrebbe portato Capocotto vicino alla rovina). Altri studiosi più
recentemente hanno avanzato l’ipotesi secondo cui “rebottu”
alluda al Maligno, al Diavolo; il senso dlla postilla sarebbe il
seguente: “Egli (Iddio) lo aiuti dal Maligno che gli mise in
corpo il cattivo consiglio”. Dal punto di vista linguistico si
osserva la presenza delle “u” finali al posto delle “o” in “coctu”,
“rebottu”, “consiliu”, “corpu”: si tratta di una caratteristica
tuttora presente nel territorio del monte Amiata. Comunque, il
senso esatto del testo non si conosce.
Ci sono anche altri testi notarili come: la Carta
osimana del 1151 in cui il volgare affiora all’interno del vero e
proprio testo latino (è scritto nella città di Osimo, conservata a
Roma nell’Archivio di Stato); la Carta fabrianese (conservata
a Fabriano); la Carta picena (a Roma).
Tra le carte notarili si colloca anche un documento di
provenienza completamente diversa, l’unico che possa
ricondurre al settentrione d’Italia, più precisamente alla Liguria.
Si tratta della cosidetta Dichiarazione di Paxia, databile tra il
1178 e il 1182, conservata nell’Archivio di Stato di Savona.
Una vedova, Paxia (si pronuncia Pajia), dichiara la consistenza
dei beni del defunto marito e dei debiti che le restano da pagare.
Il testo inizia nel latino, poi scivola nel volgare ed è
interessante anche per l’elenco di una serie di arredi domestici:
oggetti, vestiti. In quanto al nome, Paxia, sarebbe possibile
tradurlo modernamnte Pagia. La “x” appare in diverse parole
della dichiarazione: “camixoto”= camiciotto; “pixon” = pigione.
Anche dalla Sardegna provengono diversi documenti
risalenti al XI e al XII secolo con un’abbondanza tale da
stupire e che Tagliavini attribuiva alla “cultura arretrata
dell’isola”, in cui il latino era poco conosciuto, ciò che avrebbe
reso inevitabile la redazione in volgare dei documenti. Il più
antico dei testi sardi volgari è la carta del giudice Torchitorio
del 1070- 1080, coservato a Cagliari, trasmessa poi non in
originale, ma da una tarda copia quattrocentesca. Qui il volgare
segue un breve “incipit” latino.

Il filone religioso nei primi documenti dell’italiano

Al filone religioso potrebbero essere ricondotti anche


due documenti tra i più antichi, di cui abbiamo già parlato: il
graffito della catacomba di Comodilla e l’iscrizione della
basilica di San Clemente, perchè si legano a tematiche religiose.
Un altro documento scoperto a Roma nella biblioteca
Vallicelliana è la Formula di confessione umbra (tra il 1037 e
il1080). Si tratta di una vera e propria formula di confessione
abbastanza ampia, che il fedele poteva recitare o leggere. Si
incontra la presenza delle “u” finali: “battismu”, “meu” ecc.
Tra i testi religiosi di interesse linguistico si possono
collocare anche I Sermoni subalpini che provengono da una
zona d’Italia del Nord – ci sono una raccolta di prediche in
volgare piemontese e la sua importanza è grandissima, in
quanto si tratta di una della prime raccolte di prediche
conosciute in una lingua neolatina. Non si tratta di testi brevi o
brevissimi, ma di un corpus di 22 testi ampi. Il manoscritto si
conserva in un codice pergamenàceo della Biblioteca
Nazionale di Torino e ha avuto diverse edizioni. La datazione
dei Sermoni può essere situata tra il XII e il XIII secolo. I testi
alternano, parte in latino e parte in volgare. Si osserva il
passaggio di „a“ tonica a „e“ negli infiniti della prima
coniugazione: doner > donare, intrer > entrare, fenomeno che
si rincontra anche nel francese; si osserva la conservazione
della –S finale per indicare il plurale (ad es. veels = vitelli,
lairuns = ladroni.

Documenti pisani

Molto recente è la scoperta di una carta pisana che si


può collocare tra la metà dell’XI secolo e la metà del XII
secolo. La scoperta della carta in questione non è avvenuta in
Europa, ma in America, perchè il codice è oggi proprietà della
Free Library di Philadelphia. Si tratta di un elenco di spese
navali o di un riepilogo delle spese sostenute per l’armamento
di una squadra navale. Si riscontra il dittongamento IE di Ĕ in
sillaba libera nella parola “matieia”, plurale di “matieio” <
matĕrium (it. madiere = termine tecnico che indica un pezzo di
legno conficcato nella nave). Si riscontra anche l’esito in I del
nesso latino RJ, che sono caratteri tipicamente toscani; ma una
particolarità dell’antico pisano è la conservazione di AU
davanti a L: nel testo abbiamo “taule” (tavole). Questa carta è
ancora più importante se si tiene conto del fatto che proviene
dalla Toscana, la culla della lingua italiana nei sec. XIII e XIV,
regione che, in questa fase iniziale non è più presente di altre.
Firenze è pratticamente assente; il più antico testo
volgare fiorentino, un frammento di libro di conti di bianchieri
si colloca al di là della soglia del Duecento.
Un altro documento scoperto a Pisa, sempre anteriore al
XIII secolo è una iscrizione su di un sarcofago del Camposanto,
un’epigrafe che si inquadra nel ben noto tema del morto che
parla al vivo: “h(om)o ce vai p(er) via prega d(e)o dell’anima
mia , sì, come tu se’ego fui, sicus ego su(m) tu dei essere”.

I PRIMI DOCUMENTI LETTERARI

Un vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe


solamente nel secolo XIII, a partire dalla scuola poetica fiorita
alla corte di Federico II, la Scuola Siciliana. Non mancavano
però anche in precedenza alcuni documenti che hanno un
carattere poetico o che si presentano in versi.
Il carattere ritmico si riscontra a partire da un testo
antico come L’indovinello veronese. Poi, un altro documento
(falso), come l’iscrizione del Duomo di Ferrara fu considerato
nel Settecento un piccolo camione di anticchissima poesia,
permettendo cosi all’Italia di competere con le due letterature
che si svilupparono prima di quella italiana , la francese e
l’occitana.

La sequenza di Sant’Eulalia è il primo testo letterario


francese, del IX secolo e poi La chanson de Roland , il primo
vero capolavoro della letteratura della Francia, nell’ XI secolo.
Alla prima metà dell’XI secolo risale il Poema di Boezio in
provenzale e forse più antico è il ritornello romanzo di una
celebre Alba bilingue (alba è una poesia che parla del sorgere
del mattino). Nell’XI secolo non ci sono tracce di
componimenti poetici italiani. Qualche cosa si può trovare a
partire dalla seconda metà del XII secolo nella forma che
comunamente viene definita ritmo, il nome allude al fatto che
la sua metrica si accosta alla versificazione ritmica medievale
piuttosto che a quella moderna.
Si trovano 4 versi volgari che esaltano le vittorie delle
milizie di Belluno e di Feltre su quelle di Treviso nel 1193 –
1196, trasmessa da copie cinquecentesche. È il cosidetto Ritmo
bellunese:
„De Castel d’Ard av li nost bona part.
I lo getà tut intro lo flum d’Ard.
Sex cavaler de Tarvis li plui fer
Con sé dusé li nostre cavaler.”
“Del castel d’Ardo ebbero i nostri buona parte / Essi lo
gettarono tutto dentro il fiume Ardo / Sei cavalieri di Treviso i
più fieri / condussero con sè i nostri cavalieri.” I caratteri
linguistici di questo testo sono settentrionali; si può osservare
la caduta delle vocali finali : nost, part, flum, cavaler, fer.
Altri versi in volgare italiano, risalenti al XII secolo,
sono usciti dalla penna di autori non italiani, ma che ebbero
occasione di soggiornare in Italia. Il trovatore provenzale
Rambaldo di Vaqueiras ha scritto “le prime strofe regolari che
ci siano parvenute nella lingua italiana”, in un celebre
Contrasto tra un giullare che parla provenzale e una donna
genovese (anteriore al 1194). Il suo è anche un altro singolare
componimento, il discorso plurilingue (discorso è un testo
strofico nel quale le strofe sono diverse l’una dall’altra per
numero di versi, rime ecc.). Nel discorso plurilingue
compaiono lingue diverse, tra loro “discordanti” e ha in realtà
struttura strofica regolare. Nel discorso plurilingue di
Rambaldo compaiono cinque idiomi diversi: il provenzale,
l’italiano, il francese, il gascone, il galego – portoghese. Ecco i
primi versi della strofa italiana:
“Iou son quel che ben non aio
Ni jamai non l’amerò
Ni per april ni per maio
Si per madonna non l’o.”
Nelle corti dell’Italia settentrionale, in questo periodo si
usa ascoltare poesia provenzale, non italiana. Per trovare versi
italiani, dobbiamo arrivare al XIII secolo. A quella data si
incontra il Ritmo laurenziano. Alla fine del XII secolo si
collocano il Ritmo Cassinese e il marchigiano Ritmo su
Sant’Alessio. Del resto nel secolo XIII i tempi sono maturi,
con un poeta del valore di San Francesco e con la nascita
finalmente di una vera scuola poetica in Sicilia.

IL DUECENTO

C’è una grande differenza tra l’uso occasionale del


volgare nei documenti notarili e l’adozione del volgare stesso
come lingua letteraria.
La scelta dal volgare, anche se reservata alla poesia,
implicava una maggiore considerazione della nuova lingua, che
impegnava un gruppo omogeneo di autori, socialmente situati
in posizioni rilevanti. A partire dagli anni venti sino alla fine
del secolo, la poesia fiorisce in ogni parte, dalla Sicilia alla
Toscana, all’Emilia e si afferma anche la prosa narrativa,
tecnica, scientifica, frutto di coraggiose traduzioni da testi latini
antichi e recenti.
La storia dell’italiano comincia cosi sotto un duplice
segno: da una parte, essa è storia di molteplici lingue e dei
centri in cui esse sono parlate; dall’altra essa è la storia di una
lingua che cerca di eliminare i suoi tratti locali, cerca un
modello.
La fortuna del volgare era legata a condizioni oggettive
della società, dell’economia, della cultura. All’inizio del
Duecento nell’ambiente colto e raffinato della Magna Curia di
Federico II di Svevia apparve la prima scuola poetica italiana.
Si chiama “siciliana” perchè si riferisce al fulcro del regno di
Federico e la corte di Sicilia era, come conferma Dante nel De
vulgari eloquentia ,1,12: “regale solium erat Sicilia”.
Altre due letterature romanze si erano già affermate: la
letteratura francese in lingua d’oïl e la letteratura provenzale in
lingua d’oc. La lingua d’oc, in particolare, esercitava un grande
fascino: era la lingua della poesia (d’amore soprattutto, un
amore intellettualizzato, espresso in forme raffinate e stilizzate).
La poesia in lingua d’oc si era sviluppata nelle corti dei
feudatari di Provenza, Aquitania e Delfinato. La sua influenza
si era estesa al di là delle Alpi: ci sono poeti provenzali ospitati
in Italia settentrionale, presso famiglie nobili come marchesi
dei Monteferrato, i Malaspina, gli Estensi. Anche i poeti
siciliani imitarono la poesia provenzale, ma ebbero l’idea di
sostituire un volgare italiano alla lingua straniera, il volgare di
Sicilia. Questa sostituzione fu geniale e decisiva per l’eredità
lasciata alla letteratura italiana (si sa, il sonetto, una nuova
forma metrica, fu inventato da Giacomo da Lentini). È difficile
rispondere (anche altri studiosi, per es. Bruni, si chiedono)
perchè fosse adottato proprio il siciliano insulare, e non uno
degli idiomi del Meridione continentale (“Non è facile
rispondere – conclude Bruni – tanto più se si considera che
Federico II trascorse a Palermo gli anni della fanciullezza e non
tornò quasi più nell’isola”). Fra le varie lingue che egli
padroneggiava, parlava il volgare del SI con inflessione
siciliana. È probabile, ma su questa base non si può costruire
molto; di più vale la constatazione che è siciliano l’iniziatore
della della lirica sveva, Giacomo da Lentini. L’ambiente in cui
fiorì quel movimento poetico era molto raffinato: ne facevano
parte i membri dlla corte, funzionari imperiali di altissimo
livello, ministri. La corte federiciana era un ambiente
internazionale, disponibile anche agli apporti della cultura
araba, che il sovrano apprezzava. Egli era in grado di usare il
latino, come si osserva dal suo trattato di falconeria (De arte
venandi cum avibus – L’arte di caccia con gli uccelli da preda).
Alcuni dei poeti siciliani, come l’imperatore, non sono
affatto siciliani: Percivale Doria è ligure e i nomi stessi
rivelano l’origine continentale di Giacomo Pugliese, Rinaldo
d’Aquino ecc. Questo dimostra che la scelta del siciliano fu
dotata di valore formale, e il volgare della poesia siciliana è
altamente formalizzato, raffinato. Ci entrano in gran numero
termini provenzali, come le forme in -agio (coragio per cuore),
in – anza (amanza, intendanza, allegranza, speranza,
dimoranza, credanza, leanza). Il vocalismo: i per e in finale di
parola; i, u tonici dove l’italiano avrebbe e e o chiuse: pir,
multu. La morfologia: il condizionale in – IA rinvia senza
dubbio al siciliano (avria).
E siciliana è anche assenza di dittongazione (cori). Le
forme provenzali e francesizzanti, benchè frequenti, non sono
obbligate: avvolte si alternano a quelle italiane: si osserva la
compresenza delle forme chiaro e clero, di acqua e aigua. La
presenza dei provenzalismi nella poesia siciliana si spiega
facilmente con l’influenza che la letteratura in lingua d’oc
esercitò sulla corte di Federico. I provenzalismi venivano
spiegati non come prestiti diretti, ma come l’eredità della
lingua intermedia che era stata comune all’Italia e alla
Provenza. Lo studioso francese Raynouard riconosce il primato
cronologico dei poeti in lingua d’oc, come ha ammesso anche
Pietro Bembo nel XVI secolo, gli italiani avevano imparato a
far poesia. Dante pensava che i siciliani avessero scritto in una
lingua illustre sovraregionale. La difficoltà di giudicare
esattamente il vero carattere della lingua dei poeti siciliani era
dovuta al fatto che Dante leggeva questi poeti in una forma
diversa da quella autentica. Il corpus della poesia delle origini è
stato trasmesso da codici medievali scritti da copisti toscani.
Chi copiava poteva sentirsi libero di intervenire nel testo per
migliorare, per chiarire punti oscuri; così, la forma toscanizzata
fu presa per buona. Quindi, se quei poeti avevano scritto in una
lingua dall’aspetto italiano e l’avevano fatto prima che si
sviluppasse la letteratura toscana si doveva dedurre che la
lingua italiana non derivava dal toscano, ma era esistita anche
prima dell’affermazione letteraria di Firenze. Però proprio
l’intervento toscano aveva regolarizzato quella lingua. Una
traccia della sostituzione dei tratti siciliani con quelli toscani
resta nelle rime imperfette che si ritrovano nelle versioni
toscanizzate dei poeti della prima scuola, le quali diventano
perfette solo se riportate alla lingua originale.
Documenti centro – settentrionali

L’eredità della poesia siciliana passò in Toscana e a


Bologna con i cosiddetti poeti siculo – toscani e gli stilnovisti.
La poesia religiosa fu un genere diverso dalla lirica d’amore.
Si deve asegnare un lieve anticipo cronologico rispetto alla
scuola siciliana al Cantico di frate sole di San Francesco,
databile al 1223 – 1224, noto anche con il titolo latino Laudes
creaturarum, è scritto in un volgare in cui si riconoscono
elementi umbri. Per molti secoli, questo testo fu tramandato in
ambiente francescano e non fu preso in considerazione come
documento letterario: (per esempio, De Sanctis lo trascura).
La tradizione delle laudi religiose ebbe comunque un grande
sviluppo anche nel Trecento e nel Quattrocento, quando i testi
laudistici (dedicati a Gesù, alla Madonna, ai Santi) trascritti su
quaderni speciali (chiamati “laudari”) furono utilizzati dalle
confraternità come preghiere cantate. La maggior parte delle
laudi erano componimenti anonimi di modesta qualità letteraria,
in una lingua quotidiana e poco ricercata. Nel passaggio
dall’area centrale al settentrione d’Italia, le laudi subirono
trasformazioni, accogliendo settentrionalismi. La base
linguistica delle laudi resta di tipo centrale. Dunque, i laudatari
settentrionali sono interessanti per lo storico della lingua. I
laudatari settentrionali sono in genere tardi, quattrocenteschi e
cinquecenteschi, ma provengono da manoscritti più antichi
perduti e distrutti.

La poesia didattica e moraleggiante del nord Italia

Nell’Italia settentrionale fiorì nel Duecento una


letteratura in volgare molto diversa da quella sviluppata nel
raffinatissimo ambiente della corte di Federico II. Tra gli autori
di questa letteratura in versi di carattere moraleggiante ed
educativo ricordiamo: il cremonese Girardo Patecchio,
Uguccione da Lodi, Giacomo da Verona e il milanese
Bonvensin de la Riva. L’area di questa letteratura è lombarda.
La lingua è settentrionale (perchè la letteratura toscana a
quell’epoca doveva ancora affermarsi). Il volgare settentrionale
del Duecento tendeva a emergere letterariamente a farsi
“illustre”, anche poi in confronto con la letteratura toscana, il
suo successo allontanò per sempre questi esperimenti.
I siculo – toscani e gli stilnovisti

L’area Toscana in cui si ebbe la prima notevole


espansione dell’ uso del volgare scritto è quella occidentale, tra
Pisa e Lucca e ciò in relazione al prevalere politico, economico
e sociale dell’area occidentale appunto nei secoli XI e XII . In
quest’area si sviluppò la poesia detta “siculo – toscana” che
ebbe i suoi centri a Pisa, a Lucca (Bonagiunta), un altro centro
fu Arezzo (Guittone). Firenze si affermò solo nella seconda
metà del Duecento: tra il 1260 e 1280. A Firenze c’erano
diversi rimatori (tra cui, per esempio, Rustico Filippi). Il loro
stile ricorda e riflette quello dei poeti siciliani (anche nella
metrica, il sonetto); in essi si ritrovano molti gallicismi e
sicilianismi; per esempio, sicilianismi: le - I finali al posto di –
E in sostantivi singolari come: calori, valori, in verbi alla terza
persona singolare (ardi - “arde”). Alcuni sicilianismi di questi
poeti passeranno anche agli stilnovisti e a Dante, poi a Petrarca
e di qui all’intera tradizione lirica italiana (condizionale in – IA,
futuro in – AIO, partecipi analogici in –UTO e –I e – U toniche
dove il fiorentino ha E e O chiuse).
È noto che Dante attribuì a Guinizelli la trasformazione
stilistica che avrebbe portato alla nuova poesia d’amore, nella
quale egli stesso si collocava. Si deve tenere conto della
continuità fra la tradizione poetica anteriore e quella stilnovista.
Esempi di gallicismi presenti in Guinizelli: riviere - fiume,
rempaira - ritorna; provenzalismi: enveggia - invidia, oltre alla
serie in –ANZA (intendanza, allegranza), sicilianismi: saccio
(so), aggio (ho), feruto (ferito), ecc.
In Guido Cavalcanti, l’amico di Dante, troviamo come
in Guinizelli, le forme suffissali in –ANZA, i meridionalismi di
origine siciliana (come saccio, feruta), le rime siciliane del tipo
(noi/altrui). Sono presenti anche tratti toscani, come il
condizionale in –EBBE, accanto a quello tradizionale in –IA; il
pronome personale IO a fianco del siculo – toscano EO, la – I
prostetica (istar per stare), le forme dittongate (priego), la
forma fue per fu.

IL TRECENTO
DANTE, TEORICO DEL VOLGARE

Dante è una tappa obbligata della storia della lingua


italiana. Le idee di Dante sul volgare si leggono nel Convivio e
nel De vulgari eloquentia.
Nel Convivio il volgare viene celebrato come:”sole
nuovo”, destinato a splendere al posto del latino, per un
pubblico che non è in grado di comprendere la lingua dei
classici: il giudizio di Dante nasce da una fiducia profonda
nelle possibilità della nuova lingua e da un’istanza di
divulgazione e comunicazione più larga ed efficace (In Vita
nuova, cap. XXII si dice che chi poetò per primo in volgare, lo
fece per farsi intendere da donna “alla quale era malagevole
d’intendere li versi latini”). Nel Convivio, il latino è reputato
superiore, in quanto utilizzato nell’arte; nel De vulgari
eloquentia, invece, la superiorità del volgare viene riconosciuta
in nome della sua naturalezza; il latino diventa uno stimolo per
la regolarizzazione del volgare.
Il De vulgari eloquentia, composto nell’esilio, prima
della Commedia, lasciato interrotto al secondo libro, è il primo
trattato sulla lingua e sulla poesia volgare; è un saggio
avanzatissimo nel quadro della cultura europea del Medioevo.
Nonostante ciò, fino al Cinquecento, esso rimase sconosciuto,
o fu citato in maniera vaga. Non ebbe una sorte molto felice.
Fu “riscoperta” nella prima metà del XVI secolo e allora
pubblicato in traduzione italiana dal letterato vicentino
Trissino – uno dei protagonisti del dibattito sulla questione
della lingua. Anche dopo la pubblicazione, però, la fortuna del
trattato non fu pacifica, nè completa, nè senza contrasti. Il De
vulgari eloquentia finì per essere al centro dell’attenzione,
come uno dei testi fondamentali per il dibattito linguistico del
Rinascimento . Alcuni insinuarono il sospetto che il trattato
non fosse di Dante, che fosse un falso. La tesi della falsità del
De vulgari eloquentia non era disinteressata: faceva comodo
soprattutto alla cultura fiorentina che tollerava difficilmente le
pagine in cui Dante aveva condannato duramente il volgare
toscano, preferendogli il bolognese o il siciliano illustre e
negando che il toscano stesso potesse identificarsi con la lingua
degna della volgar poesia. Nel 1577 venne finalmente
pubblicato a Parigi, a cura di Jacopo Corbinelli, il testo
originale latino del De vulgari eloquentia.
Nell’Ottocento, Alessandro Manzoni tentò di sminuire
l’importanza, affermando che il De vulgari eloquentia non
aveva per oggetto la lingua in generale, nè l’italiano in maniera
specifica, ma solo la poesia; buona parte del trattato discute
effettivamente problemi retorici e metrici. Agli occhi di Dante,
l’intreccio tra i due temi era indissolubile. Dante, procedendo
secondo la logica della cultura del suo tempo, ma con
un’originalità eccezionale nello sviluppo delle argomentazioni,
è cosciente della novità del tema scelto, inizia dalle origini
prime, dalla creazione di Adamo: stabilisce che fra tutte le
creature, l’unico essere dotato di linguaggio è l’uomo; il
linguaggio stesso caratterizza l’essere umano in quanto tale,
diversificandolo ad esempio dagli animali bruti,
gerarchicamente più in basso di lui, e dagli angeli, posti più in
alto. L’origine del linguaggio e delle lingue viene ripercorsa
attraverso il raccono biblico: nodo centrale è l’episodio della
Torre di Babele. La storia delle lingue naturali, nella loro
varietà, comincia proprio qui: la loro caratteristica è il mutare
nello spazio, da luogo a luogo, e nel tempo, visto che le lingue
sono tutte soggette a una continua trasformazione. La
“grammatica” delle lingue letterarie, come quella del greco e
del latino, secondo Dante, è una creazione artificiale dei dotti,
intesa a frenare la continua mutevolezza degli idiomi
garantendo la stabilità senza la quale la letteratura stessa non
può esistere. Anche il volgare, per farsi “letterario”, per
arrivare a una dignità paragonabile a quella del latino, deve
acquistare stabilità distinguendosi dal parlato popolare. Per
arrivare a definire i caratteri del volgare letterario, Dante
procede in maniera ordinata, seguendo la diversificazione
geografico – spaziale delle lingue naturali. La sua attenzione si
concentra sull’Europa, dove nei paesi del Nord e del Nord –
Est (oggi diremmo germanici e slavi) si parlano lingue in cui SI
si dice IO; nei paesi del centro- sud si parla lalingua d’oil (il
provenzale), il volgare del SI (l’italiano); in Grecia e nele zone
orientali è diffuso il greco. Questa è l’Europa linguistica
secondo Dante, il quale, procedendo dal generale al particolare,
e avendo come obiettivo una trattazione approfondita dell’area
italiana, venendo a trattare del gruppo linguistico costituito dal
francese, provenzale e italiano (volgari che hanno comune
origine, come dimostrano le concordanze lessicali di parole
come: Dio, amore, mare , terra, cielo, ecc.). Si ristringe
finalmente alla sola area italiana che risulta una quantità di
parlate locali. Dante esamina questa parlate alla ricerca del
volgare migliore, illustre (e anche aulico, curiale, cardinale).
Dante osserva anche che a Bologna, città che conosceva dalla
personale esperienza, la lingua parlata in Strada Maggiore è
diversa da quella di Borgo San Felice).
L’esame delle varie parlate si conclude con la loro sistematica
eliminazione: tutte sono indegne del volgare illustre. Il giudizio
negativo è per il friulano, il sardo, il romanesco, il
marchiggiano, ecc. Tra le più severe condanne c’è quella per il
toscano e il fiorentino. Migliori degli altri risultano: il siciliano
e il bolognese, ma non nella loro forma popolare, bensì,
nell’uso di alto livello formale, delle poesie della corte di
Federico II e di Guinizelli. Il discorso si sposta dalla lingua alla
letteratura. La nobilitazione del volgare deve avvenire dunque
attraverso la letteratura. Il toscano viene condannato; la lingua
popolare toscana non interessa Dante e la sua condanna
colpisce poeti come Guittone d’Arezzo, caratterizzati da uno
stile rozzo e plebeo, ben diverso, secondo Dante, da quello dei
siciliani e degli stilnovisti. Il libro De vulgari eloquentia si
trasforma dunque da trattato di linguistica in trattato di teoria
letteraria. La parte iniziale del primo libro, in cui si parla della
creazione del linguaggio e del suo sviluppo storico (che
potremmo definire una “linguistica biblica”) ha destato molto
interesse tra gli storici della lingua.

Varietà linguistica della COMMEDIA

La Commedia usa una lingua nuova, tocca tutti gli


argomenti, esprime tutte le pieghe dell’animo umano, descrive
tutti i paesaggi possibili, si avventura in tutti i settori, nella
filosofia, nella teologia, nella scienza, nella politica, nella
polemica, nell’invettiva, nella profezia; è un’opera universale e
appartiene all’intera civiltà umana. La lingua che serve come
strumento a quest’opera di valore è matura. Ci sono state delle
voci che affermarono che era stato meglio scrivere la
Commedia in latino. La grande presenza dei latinismi nella
Commedia provengono dalla letteratura classica, dalle Sante
Scritture, dalla scienza medievale e dalla filosofia tomista1.
Quando si parla del latinismo nella lingua di Dante si deve
citare il canto VI del Paradiso, con il lungo discorso di
Giustiniano2, in cui molti termini sono costruiti con l’ausilio
della lingua classica: cirro/negletto - capigliatura arruffata;
“l’alpestre rocce, Po, di che tu labi” (le rocce delle Alpi dalle
quali tu, fiume Po, scorri veloce); il verbo “labi” è
poeticamente illustre e viene da Orazio, Ovidio e Virgilio); o:
“Brutto con Cassio nell’inferno latra”; latra - grida, abbaia, è
un latinismo sopravvissuto fino all’italiano d’oggi. Altre parole:
colubro per serpente, usato per la prima volta da Dante,
sopravvive nell’italiano moderno come tecnicismo ecc. Per
quanto al latinismo scientifico, esso può essere usato al di fuori
del suo contesto originario, come il famoso tetragono ai colpi
di ventura3 che risale al latino tetragonus (quadrato). Il
latinismo, in Dante, non è isolato, ma più spesso si trova a
grappolo, in contesti favorevoli a tale scelta lessicale.
Nella Commedia, Dante rivela un’ottima conoscenza
dell’astronomia. La parola cenit (zenit), ricavata dall’arabo, è
in realtà frutto di una lettura erronea del termine arabo.

1
le dottrine del San Tommaso d’Acquino
2
imperatore d’Oriente, 527-565, conquistò l’Africa e l’Italia
3
Paradiso, XVII, 24
Il plurilinguismo o il multilinguismo è una delle
categorie che sono state utilizzate per definire la lingua poetica
di Dante, in contrapposizione al filone lirico che ha il suo
massimo esponente in Petrarca. Il plurilinguismo significa una
scelta dettata dalla disponibilità ad accogliere elementi di
provenienza disparata: non soltanto latinismi, ma anche termini
forestieri, plebei, parole toscane e altre non toscane. Tale
varietà lessicale deriva da una varietà del tono, in quanto le
situazioni della Commedia vanno dal profondo dell’inferno alla
visione di Dio, dai dannati e dai diavoli all’empireo. Si passa
dal livello basso, con il linguaggio violentemente realistico e
dal turpiloquio4 al livello più alto, al sublime teologico. Ė vero
anche che le parole “forti” entrano a volte con “violenza
irruzione” anche nei contesti elevati, per esempio, le parole
“cloaca” e “puzza” nelle parole di San Pietro5.
Benché nella Commedia siano presenti latinismi,
provenzalismi e persino interi passi in latino 6 o in provenzale7,
il poema, nel suo complesso, si presenta come opera fiorentina,
la più vistosamente fiorentina tra quelle scritte da Dante.

4
i canti XXI e XXII dell’Inferno, i canti di Malebolge – l’otto cerchio =
văile rele, con il celebre finale del XXI canto: “il cul che fa trombette”
5
Paradiso, XXVII, 25-27
6
Cacciaguida, in Paradiso, XV, 28-30 si rivolge a Dante in latino
7
il discorso di Arnand Daniel in Purgatorio, XXVI, 139
Il termine serocchia è l’unico usato nei documenti
fiorentini del Duecento e del Trecento. Dante lo usa solo due
volte, per la rima, mentre impiega più largamente suora e
sorella. Sorella si è imposto nell’italiano letterario e certo,
l’uso dantesco ha favorito questa affermazione, resa preferibile
anche dall’analogia con fratello. Si può parlare di una
polimorfia della lingua di Dante nella Commedia, che riguarda
l’alternanza di forme dittongate es.: core/cuore, il primo molto
frequente; foco /fuoco, il secondo usato una volta sola; però usa
sempre buono e non bono; virtù e non vertù (pur presente
quattro volte); poi danari e giovanetto sono presenti tanto
quanto denari e giovinetto; le forme dei verbi, come le forme
del condizionale, il tipo siciliano in –ia e quello toscano in –ei:
vorria e vorrei compaiono ciascuno una volta; avria è più
presente di avrei, ma direi più di diria. Questo polimorfismo
non rimase senza conseguenze, ma produsse a sua volta una
tendenza alla polimorfia nella lingua italiana che si è diffusa
proprio a partire da questo modello.
Uno strumento di consultazione per chi si occupa di
Dante e della letteratura medievale è la pregiata Enciclopedia
dantesca diretta da Umberto Bosco, in 5 volumi, uscita a Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana dal 1970 a 1976 e poi nel
1978 si è aggiunto un altro volume, Appendice. Biografia,
lingua e stile, opere che si occupa della lingua volgare di Dante.

Il linguaggio lirico di Petrarca

La caratteristica dominante del linguaggio poetico di


Petrarca è la sua selettività, che esclude molte parole usate da
Dante nella Commedia, inadatte al genere lirico. La parte
dell’opera petrarchesca scritta in volgare è estremamente
ridotta rispetto a quella latina (la quale comprende i generi
epistolare, filosofico, narrativo ecc). Il Canzoniere rappresenta
un elegante divertimento dello scrittore a cui dedicò molte cure,
ma a cui non aveva interamente affidato la propria immortalità
letteraria. Il titolo stesso di questa raccolta di poesie ordinata in
Canzoniere è in latino, non in volgare: “Rerum vulgarium
fragmenta”8. Petrarca aveva una grande familiarità con il latino;
lo usava come normale strumento per la comunicazione
culturale e per la riflessione. Il volgare appare dunque come la
lingua “naturale”, ma la lingua di un raffinato gioco poetico, in
omaggio a una tradizione che dai siciliani arriva a Petrarca
attraverso Dante. Per Petrarca, il volgare è lo strumento di una
esercitazione letteraria, senza che ci sia, come c’era in Dante,

8
Frammenti di cose volgari
un ambizioso progetto culturale basato sulla promozione di
nuovi ceti sociali e sulla divulgazione del sapere mediante la
nuova lingua. Petrarca compie una scelta che sarà decisiva per
la tradizione lirica italiana. Accoglie una sola rima siciliana
(noi: altrui); consacra la rima grafica e nonfonica: (ò-ó; è-é);
elimina alcuni gallicismi come: fidanza, dilettanza ecc, ma ne
mantiene altri, quali: rimembranza, baldanza (entrambi già
nelle poesie dei siciliani, usati da Giacomo da Lentini e poi da
Dante). Si osserva la polivalenza di certi termini, i quali, come
l’aggettivo dolce entrano in un numero grande di combinazioni
diverse: dolce loco, dolce riso, dolce pianto, dolce rapina e
dolce è la mia morte. La lingua di Petrarca selezionata e ridotta
nelle scelte lessicali, accoglie un buon numero di varianti,
canonizzando un polimorfismo (già presente in Dante) in cui si
allineano la forma toscana, quella latineggiante, quella siciliana
o provenzale:“Deo/Dio; degno/digno; fuoco/foco;
mondo/mando; oro/auro”. Si può paragonare con la Commedia,
dove Deo compare una sola volta in posizione di rima, dove
non si trovano mai auro, mundo e digno e fuoco ricorre una
sola volta. Sul piano della sintassi, Petrarca fa largo uso di una
“dispositio” che muta l’ordine regolare delle parole: la
collocazione delle parole si sottrae alla banalità del quotidiano.
Inoltre ricorrono chiasmi9 antitesi, anafore, enjambaments,
allitterazioni, binomi di aggettivi (Solo e pensoso), spesso di
significato analogo (tardi e lenti). Sono caratteristiche
verificabili in parte nella tradizione più antica, che
diventeranno tipiche del linguaggio lirico italiano.
Petrarca, come era normale al suo tempo, scrive ancora
in maniera unita: sualuce, almio, delbel, laprima, belliocchi.
Venivano uniti al nome i possessivi, le preposizioni, gli articoli
e alcuni aggettivi. Manca l’apostrofo che fu introdotto solo
all’inizio del Cinquecento. Il sistema dei segni di interpunzione
si riduce a pochi elementi, con valore diverso da quello
moderno, tra cui punto, sbarra obliqua e punto esclamativo.
Sono presenti anche molti latinismi grafici, come le h
etimologiche in: huomo, humano, honore, ma ora, erba; le x
(extremi, excellentia, dextro accanto a destro); i nessi –tj-:
“gratia”, “letitia”, “pretioso”. Per l’affricata z Petrarca usa
abitualmente ç: sença (senza); ançi (anzi); sono presenti i segni
di abbreviazione: lãpa (lampa - significa una consonante
nasale); nõ – non; cõtra per contra o anche il comune taglio
nella gamba della p per indicare l’abbreviazione di per.

9
forme incrociate; figura retorica che consiste nella disposizione inversa,
incrociata di elementi concettualmente e sintatticamente paralleli – es:
Dante: “Ovidio è il terzo/ e l’ultimo Lucono”???
La prosa di Boccaccio

L’importanza del Decameron per la prosa italiana è


accentuata dal fatto che la prosa trecentesca non era ancora
stabilizzata in una tradizione solida. I modelli importanti a cui
ispirarsi non mancavano: si pensa alla Vita Nuova e al
Convivio di Dante, al Novellino, ma non era una prosa che si
adattava a tutti i contesti. Nella tradizione italiana la prosa di
Boccaccio assume una funzione egemonica, specialmente
quando, nel Cinquecento, teorici e grammatici, seguendo Pietro
Bembo, indicarono in essa, il modello da seguire. Tale modello
acquistò ancora più autorità grazie a Lionardo Salviati e
all’Accademia della Crusca. Il modello boccacciano influenzò
largamente quelli che scrissero in italiano e questa influenza si
esercitò per secoli (perfino nell’Ottocento, i manzoniani,
sostenendo i diritti della lingua viva, dirigevano la loro
polemica contro alcune caratteristiche del periodo di
Boccaccio). Nelle novelle di Boccaccio ricorrono situazioni
narrative molto variate, in contesti sociali diversi. Tutte le
classi si muovono sulla scena, dai re, regnanti alle prostitute, e
compaiono quadri geografici e ambienti molto differenti. Qua e
là compaiono voci che introducono elementi diversi dal
fiorentino: il veneziano di Chichibio, per esempio, il senese di
Tingoccio10, il toscano rustico nella novella del prete di
Varlungo e di madonna Belcolore 11. Serianni considera che sia
eccessivo definire la varietà presente nelle novelle come una
sorta di “plurilinguismo programmatico” visto che prevale uno
stile nobile come costante ricerca di regolarità. Il dialogo delle
novelle aderisce ai moduli del parlato con vivaci scambi di
battute in cui entrano elementi popolari e anacoluti.
Le subordinate si accumulano in gran numero, i verbi si
incontrano alla fine del periodo. Già nel corso delle polemiche
scatenate all’inizio del Seicento intorno ai modelli proposti dal
vocabolario della Crusca alcuni giudicarono questo stile come
manierato e innaturale.
Lo stile di Boccaccio fu imitato cosi come furono
imitati i nessi largamente usati da Boccaccio come: adunque,
allora, come che, avvenne che, mentre, quando e furono
imitate certe sue preferenze, come l’uso del relativo per iniziare
il periodo, con al quale, a cui ecc.
Nella prosa di Boccaccio entrano elementi vari, presi
dalle parlate italiane di Toscana e altri non toscani, usati per la

10 VII, 10
11 VIII, 2
caratterizzazione realistica. Nonostante il latino e il francese, la
sua prosa è fiorentina di livello medio-alto. Alcuni tratti
appaiono leggermente arcaicizzanti, come, l’uso costante del
numerale diece (dieci si era imposto nella seconda metà del
Trecento; Dante usa nella Commedia, diece); altre forme
vanno in direzione moderna come: tu ami, canti, al posto del
duecentesco: tu ame o come i passati remoti: perdé e uscì e non
perdeo e uscio (usati da Boccaccio nel Teseide). Boccaccio non
usa mai le forme popolari o innovativi quali arò” per avrò, arei
per avrei, missi per misi.
Nella grafia di Boccaccio come in quella di Petrarca si
notano latinismi, come x (exempli), il nesso –ct- (decto per
detto) usato a volte anche per indicare il raddoppiamento
(stecle per stelle, che usa altre volte, però), la forma advenuto
per avvenuto, le h etimologiche in herlia, habito, honore,
honesto, huomo (ma non nelle forme del verbo avere).
L’affricata dentale s è resa della ç (come in Petrarca) ma anche
dalla z e queste consonanti vengono sempre scritte scempie,
independentemente dal loro valore fonetico sordo e sonoro
scioccheça, magnificençe.
Anche in Boccaccio, come in Petrarca appaiono le
usuali abbreviazioni delle nasali e di “per”. Il sistema dei segni
di interpunzione è più ricco che nel Canzoniere di Petrarca; si
trovano virgola, punto e virgola, due punti, con valore di pausa
lunga, il punto, la sbarra obliqua, il punto interrogativo usato
anche per le interoggative indirette, segni di “a capo” e un
coma simile al punto esclamativo, con valore di punto e virgola.
L’influenza del toscano si esercitò con particolare efficacia sui
poeti delle altre regioni italiane. Nel tardo trecento, il
petrarchista padovano Francesco di Vannozzo usò il dialetto in
componimenti satirici e polemici; del resto il contesto della
satira e della polemica permetteva tradizionalmente un
linguaggio più realistico, meno selezionato (per esempio, il
senese Cecco Angiolieri). Comunque, anche imitando i toscani,
i poeti settentrionali si lasciavano sfuggire dei settentrionalismi.
In area nencta troviamo uno dei primi imitatori di Dante,
Giovanni Quirini.

I volgarizzamenti

Questo tipo di libera traduzione continua anche nel


Trecento, in forme che si avvicinano in certi casi a veri e propri
rifacimenti del testo originale. Tra i volgarizzamenti si possono
citare: Le vite dei santi padri di Domenico Cavalca. Anche i
Fioretti di San Francesco sono una traduzione dal latino. E un
volgarizzamento di una precedente redazione latina dello stesso
autore la bella Cronica dell’Anonimo romano contenente la
Vita di Cola di Rienzo,12 un testo che per la sua forza narrativa
può essere collocato tra i capolavori del secolo. La lingua, in
questo caso, non è il toscano, ma l’antico romanesco, che si
presentava in forme “meridionali”, prima della toscanizzazione
cinquecentesca della parlata di Roma. Altri volgarizzamenti,
sia da opere latine, sia da opere toscane, furono realizzati nelle
varie lingue locali: ad esempio in siciliano, in ligure, in
napoletano. La prosa, molto più della poesia, manteneva in
certi casi l’impronta della zona geografica. Può sembrare
paradossale, ma uno dei testi più antichi in volgare napoletano
è una lettera scritta dal toscano Giovanni Boccaccio
un’Epistola.13 È un esempio di “letteratura dialettale riflessa”,
cioè cosciente di essere tale, volontariamente distinta dal
codice della lingua letteraria che Boccaccio era in grado di
padroneggiare a perfezione. È uno scritto di tono scherzoso, in
cui l’autore si rivolge all’amico fiorentino Francesco de Bardi.
Si notano tratti linguistici che venivano evitati nell’uso scritto
letterario, ma ricorrono persino “ipercorrettismi” (il dittongo
napoletano viene introdotto ad esempio anche in parole che in

12
databile circa al 1360
13
databile al 1339-1340
napoletano non l’hanno: nuostra, nuome, fratiello. Nel caso di
fratiello, la forma napoletana sarebbe stata frate, ma Boccaccio
ha inserito un dittongo nella forma toscana fratello).

IL QUATTROCENTO

Si sa che Petrarca, l’iniziatore dell’Umanesimo,


affidava la parte maggiore del proprio messaggio letterario ad
una lingua diversa dal volgare. Quindi, la svolta umanistica,
iniziata con Petrarca ebbe come conseguenza una “crisi” del
volgare che non arrestò l’uso del volgare stesso, là dove esso
era diventato comune, ma, semplicemente lo screditò agli occhi
della maggior parte dei dotti, mentre nell’uso pratico esso
continuava a farsi strada. A volte il volgare fu guardato come
una sorta di oggetto di curiosità, non rilevante sul piano
letterario. Ci furono umanisti della prima generazione che non
usarono il volgare, come Coluccio Salutati (1331-1406).
Dirigendo per decenni la cancelleria fiorentina, difuse il
proprio stile latino, elaborato sulla base dei modelli ciceroniani.
È significativa ed evidente la squalificazione di ogni scelta
linguistica non latina. Tra i pochi che pensavano in maniera
diversa, Leonardo Bruni sembrava celebrare i meriti di Dante
indipendentemente dalla lingua usata dallo scrittore,
dimostrando così un atteggiamento di disponibilità che si
ritroverà più tardi in Leon Battista Alberti (1404-1472), che
stimava molto Dante e aveva scritto un libro, Una vita del
poeta (1436) nella quale aveva affermato di non esserci una
sostanziale differenza tra lo scrivere in latino o in volgare, così
come non c’era differenza nello scrivere in greco o in latino (si
deve notare il paragone che poneva l’italiano allo stesso livello
delle lingue classiche): ogni lingua, secondo il Bruni, ha la sua
perfezione. Uno scrittore aveva dunque il diritto di essere
giudicato non per la lingua adottata, ma per la qualità della
realizzazione. Ci volle un po’ di tempo perché si affermasse
questo principio della parità potenziale delle lingue antiche e di
quelle moderne. Solo per questa via, il volgare poteva ottenere
universale riconoscimento. Immediata conseguenza di una tesi
del genere era una speciale considerazione degli scrittori,
avendo essi in mano il destino della lingua. Sono idee accolte
dall’umanesimo volgare fiorentino. Tale disponibilità si
manifestò solo nella seconda metà del secolo e, particolarmente,
a Firenze. L’atteggiamento più comune fu diverso: il disprezzo
per il volgare, ancora nella seconda metà del secolo XV, era un
fatto “umanisticamente normale”. Il latino era preferito, in
quanto lingua più nobile, capace di garantire l’immortalità
letteraria. L’uso del volgare risultava accettabile solo nelle
scritture pratiche e di affari, nelle scritture senza pretese d’arte.
Gli studi sull’origine del volgare cominciarono dunque nel
momento in cui nacque una storiografia interessata a definire in
maniera più precisa il trapasso dall’antichità al Medioevo.
La cultura umaniastica produsse alcuni tipi di scrittura
letteraria in cui latino e volgare entrarono in simbiosi, o in
rapporto stretto, a volte a scopo comico, più raramente a scopo
serio. Gli esperimenti di mistilinguismo tra latino e volgare
furono frequenti (e portarono ad un livello d’arte comune).
Esistono due forme di contaminazione “colta” tra volgare e
latino: il macaronico e il polifilesco. Si può osservare che la
loro esistenza tocca in maniera marginale lo sviluppo della
lingua italiana. Con “macaronico” si designa un linguaggio (e
un genere poetico) nato a Padova alla fine del Quattrocento. È
caratterizzato dalla latinizzazione parodica di parole del
volgare, oppure dalla deformazione dialettale di parole latine.
La componente dialettale è bassa, coporea, plebea; l’altra,
latina, che si esprime anche nella metrica, è aulica. Di qui
nasce un contrasto che permette particolari effetti di arte.
Dal punto di vista dell’invenzione linguistica, il
macaronico consiste nella formazione di “parole macedonia”.
Ad una parola volgare può essere applicata una desinenza
latina: cercabat (cercava), ficcavit” (ficcò), putannarum delle
putane (da puttana + arum, genitivo plurale latino); in altri
casi parole esistenti sia in latino che in volgare vengono usate
nel significato proprio del volgare, come casa (che in latino
significava “capanna”); parole latine vengono legate in
costrutti sintattici tipicamente volgari: propter non perdere
tempus - per non perdere tempo. Si danno casi di termini
dialettali latinizzati e il sistema flessionale del latino viene
sostituito largamente dall’uso delle preposizioni (per esempio:
regina de Franza). Il risultato è un latino che sembra pieno di
errori. L’autore macaronico è però un ottimo latinista; si tratta
di una scelta volontaria dello scrittore, a scopo comico,
realizzata mediante una tecnica chiamata di “abbassamento”
del tono, attraverso molti espedienti, tra cui, l’utilizzazione
rovesciata della retorica (in un contesto del genere vengono
introdotte citazioni di autori classici, o paragoni tra elementi
incomensurabili, cose grandi e nobili accostate a cose piccole e
ridicole), o quando entrano in gioco elementi ripugnanti (figure
umane “macaroniche” sono ad esempio, i pidocchi, il moccio
che cola dal naso ecc), ridicoli, osceni. La poesia macaronica 14
è il risultato di un gioco umanistico, un divertimento di gente

14
il nome proviene da un cibo, il maccarone, un tipo di guocco???; si tratta
di un’origine vistosamente “corporea”, parodica rispetto alla natura “eterea”
della poesia
colta. L’origine di questo linguaggio conduce all’ambiente
dell’università padovana, laboratorio fervido per esperimenti di
questo tipo. Iniziatore riconosciuto del genere è Tifi Odasi, 15
ma il più illustre esponente è Teofilo Folengo (1491-1544).
Uno sviluppo del linguaggio macaronico si ebbe anche tra
Torino, Pavia e Asti.
Il polifilesco, chiamato anche pedantesco (e con
riferimento a realizzazioni cinquecentesche, “fidenziano”, dal
titolo dei Canti di Fidenzio del vicentino Camillo Scroffa).
Un’interessantissima ed eccezionale prova del linguaggio
prosastico pedantesco si ha nell’Hyperotomachia Poliphili,16
romanzo anonimo,17 pubblicato nel 1499 a Venezia in una
splendida edizione illustrata, di qualità tale da far ritenere
questo libro il più bello tra quelli prodotti dall’Umanesimo
italiano. Si tratta di un’opera scritta in un volgare che sopporta
un’estrema dose di latinizzazione possibile senza snaturarla.
Il polifilesco non è una scrittura comica e parodica ma,
presumibilmente seria. Il volgare che si combina con il latino
non è di tipo dialettale, bensì toscano, boccaccesco, con patina
settentrionale illustre. Il latino usato dall’autore si ispira a

15
Tifi = pseudonimo umanistico
16
guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia
17
l’autore è un Francesco Colonna, identificato ora in un domenicano
veneziano, ora in un romano, signore di Palestina
scrittori diversi, della latinità “aurea”, rifacendosi tra l’altro ad
Apuleio e Plinio. I latinismi lessicali usati sono a volte
stupefacenti (esempio: “achi crinali” - forcine per capelli).
Nell’Italia settentrionale, nella seconda metà del
Quattrocento, troviamo alcuni predicatori che si esprimono in
un linguaggio in cui il latino e il volgare si mescolano in modo
tale da ricordare il linguaggio macaronico. Questa mescolanza
tra latino e volgare non è una novità della predica
quattrocentesca, ma viene ereditata dalla tradizione medievale
(il latino ricorreva spesso nel corpo della predica stessa, come
citazione delle Scritture o dei Padri della Chiesa). La
compresenza di latino e di volgare accade anche in testi che
non sono artistici, ma rispondono a scopi pratici come: epistole,
diari, relazioni, libri di famiglia, ricettari. Per esempio, in una
lettera, erano in latino le formule iniziali e finali. Tra i tanti
esempi, citiamo l’epistola di Esterolo Visconti al duca
Francesco Sforza del 19 dicembre 1451. In essa, ci si rivolge
con il vocativo latino allo Sforza, chiamandolo Illustrissime
Princeps et excellentissime Domine. Domine mi singularissime;
è in latino pure l’indicazione della data e del luogo: Datum
Crene (Gallarate) die XVIIII decembris 1451; ed è infine in
latino la sottoscrizione del mittente che si firma Eiusdem
Domini Vestri Servitor Hesterolus Vicecomes. Tutto il resto
della missiva è in volgare.
In un testo di natura giuridica in volgare, saranno
sicuramente in latino molti termini tecnici o, se sarà in latino il
testo vero e proprio, saranno in volgare alcune frasi o i termini
diversi dal contesto, “citazioni” del parlato. L’abitudine di
mescolare in varie occasioni italiano e latino nello stesso
documento durerà ancora nel secolo seguente, in un contesto
molto più favorevole al volgare. Anche nelle lettere
quattrocentesche, oltre alle formule iniziali e finali, sono
frequenti inserimenti occasionali di frasi e parole latine. Molte
di esse sono semplicemente formule correnti, così che la loro
latinità passa inavvertita agli occhi dei lettori del tempo: cum
(con), maxime (massimamente), quondam (un tempo), non
solum (non solo), in super (in aggiunto), ultra (oltre), autem
(d’altra parte).

Leon Battista Alberti


La sua opera fu incisiva in vari settori (fu tra i grandi
architetti del secolo). Iniziò il movimento definibile come
l’umanesimo volgare ed elaborò un vero programma di
promozione della nuova lingua. Scrisse poesie e prosa di tono
alto, impiegata per trattare argomenti seri e importanti (Della
famiglia) e nei volgarizzamenti dei saggi scientifici De pictura
e Laudi rerum mathematicarum. La posizione teorica espressa
dall’Alberti nel Proemio al terzo libro Della famiglia si
riferisce alle tematiche affrontate nelle discussioni umanistiche
sul passaggio dal latino all’italiano. L’Alberti attribuisce la
causa della perdita della lingua latina alla calata dei barbari.
Compito del volgare, pur nato dalla barbarie, è dunque quello
di riscattare se stesso, facendosi “ornato” e “copioso” come il
latino. L’Alberti era convinto che bisognasse imitare i latini
prima di tutto in questo: nel fatto che avevano scritto in una
lingua universalmente compresa, di uso generale; come il
latino classico, anche il volgare aveva il merito di essere lingua
di tutti; ma occorreva mirare ad una sua promozione a livello
alto, da affidare ai “dotti”. Il latino, dunque, indicava al volgare
la strada da percorrere. La prosa dell’Alberti é caratterizzata da
una forte incidenza dei latinismi, soprattutto al livello sintattico,
oltre che lessicale e fonetico. L’imitazione del latino si unisce
però “all’uso disinvolto di molti tratti popolari, coevi”
(Serianni) della lingua toscana che era la lingua dell’Alberti,
anche se egli era nato a Genova, ed era rientrato a Firenze, la
città della sua famiglia, solo a 25 anni, nel 1429. L’influenza
del latino sulla sintassi dell’Alberti conduce a una forma
linguistica che si discosta nettamente dal modello ritmico di
Boccaccio, anche perché la prosa trecentesca non esercita alcun
fascino su di lui, né è considerato un esempio da imitare.

La Grammatica della lingua toscana

All’Alberti è attribuita anche un’altra eccezionale


impresa: la realizzazione della prima grammatica della lingua
italiana, la prima grammatica di una lingua volgare moderna.
Questa grammatica è trasmessa da una unica copia scritta per il
Bembo, conservata nella Biblioteca Vaticana (per questo la si
conosce con il nome di Grammatichetta Vaticana, dove il
diminutivo allude alla piccola mole dell’opera). Una breve
premessa anteposta al testo chiarisce il collegamento con le
dispute umanistiche polemizzando contro coloro che
ritenevano che la lingua latina fosse propria solamente dei dotti.
L’Alberti considerava importante riconoscere nel latino una
lingua comune a tutti gli antichi romani (non solo propria dei
dotti). La Grammatichetta nasce da una sorta di sfida:
dimostrare che anche il volgare ha una sua struttura
grammaticale ordinata come il latino. Cronologicamente,
questa grammatichetta detiene un eccezionale primato rispetto
alle altre lingue europee, però, non ebbe influenza, perché non
circolò e non fu stampata. Caratteristica della grammatica
dell’Alberti è l’attenzione prestata all’uso toscano del tempo,
verificabile in alcune indicazioni relative alla morfologia: la
scelta dell’articolo el, anziché il, così; la preferenza per
l’imperfetto in –o. Quanto all’articolo, il era stata la forma
prevalente a Firenze fino alla metà del Trecento (adoperata da
Dante, Petrarca e Boccaccio), ma, nel Quattrocento si era
affermato appunto il tipo el adotato dalla Grammatichetta.
Analogamente, a Firenze, l’imperfetto del tipo io amavo
(conosciuto a Dante, Petrarca, Boccaccio) aveva preso il
sopravvento nel secolo XV sulla forma io amava.

Il Certame coronario

La promozione della lingua Toscana da parte


dell’Alberti culminò in una curiosa iniziativa, il Certame
coronario del 1441. Egli organizzò una gara poetica in cui i
concorrenti si affrontarono con compimenti in volgare. La
giuria, composta da umanisti, non assegnò tuttavia il premio,
facendo salire il Certame, che pur aveva avuto una certa
risonanza. Alla giuria fu indirizzata un’anonima Protesta,
attribuibile all’Alberti stesso in cui si lamenta fra l’altro che gli
avversari del volgare ritenessero indegno che una lingua come
l’italiano pretendesse di gareggiare con il latino: veniva
criticata la consueta posizione conservatrice propria della
tradizione culturale umanistica.

L’umanesimo volgare alla corte di Lorenzo il


Magnifico

A Firenze, nell’età di Lorenzo il Magnifico, si ebbe un


forte rilancio dell’iniziativa in favore del toscano,
politicamente voluta e sostenuta al più alto livello. I
protagonisti di questa svolta furono: Lorenzo dei Medici,
l’umanista Cristoforo Landino e il Poliziano.
Cristoforo Landino fu cultore della poesia di Dante e
di Petrarca, fino al punto di introdurre la lettura di questi autori
persino nella cittadella universitaria, refrattaria alla cultura
volgare. Tale esperienza aveva buone radici - ricordiamo
Lecturae Dantis che risalivano a Boccaccio.
Cristoforo Landino espone tesi che in parte ricordano
quelle di Leon Battista Alberti e che nel loro complesso
saranno poi riprese nel secolo XVI: nega la naturale inferiorità
del volgare rispetto al latino e invita i concittadini di Firenze a
lottare per ottenere “il principato” della lingua. Lorenzo il
Magnifico, nel proemio al Commento (1482-1484), prospettò
uno sviluppo futuro del fiorentino. Lo sviluppo della lingua si
lega dunque ad un’accettazione “patriotica”, viene inteso come
patrimonio e potenzialità dello stato mediceo, un tema che sarà
sfruttato abilmente dalla politica di Cosimo dei Medici.
Cristoforo Landino tradusse anche in volgare della
Naturalis historia di Plinio (1476), un testo difficile con
tecnicismi legati al contenuto scientifico-enciclopedico
dell’opera. Cristoforo Landino sosteneva la necessità che il
fiorentino si arricchisse con un forte apporto delle lingue latina
e greca.

La Raccolta aragonese

Nel 1477 Lorenzo il Magnifico inviò a Federico, figlio


del re Ferdinando di Napoli, una raccolta di poesie, nota
comunemente con il nome di Silloge o Raccolta aragonese.18
L’antalogia era accompagnata da un’importante epistola che
oggi viene attribuita a Poliziano, segretario privato di Lorenzo.
Si deve prestare particolare interesse alle realizzazioni
poetiche di Lorenzo. Il volgare viene assunto come un esercizio

18
raccolta antologica della tradizione letteraria volgare che andava dai pre-
danteschi e dallo Stilnuovo fino a Lorenzo dei Medici
letterario colto. Significativo è l’esperimento della letteratura
rusticale a cui appartiene la Nencia da Barberino, poemetto di
Lorenzo. Esistono quattro redazioni di questo poemetto, di
diversa lunghezza; tra queste si ritiene probabile che sia di
Lorenzo quella della Biblioteca Laurenziana di Firenze, in venti
ottave. Vi si trovano le forme rustiche miggliaio per
“migliaio”, begglii per “begli”, assunti come elementi popolari.
Molto più complessa è stata l’esperienza poetica di Poliziano
che, con la sua raffinatissima cultura, fu in grado di
usare tre lingue: il greco, il latino e il toscano.
Interessanti sono le Stanze per la giostra di Giuliano
de’ Medici, composte tra il 1475-1478 e lasciate incompiute.
Benché i manoscritti presentino diverse oscillazioni (ad
esempio nell’alternanza dell’articolo il e el) non c’è dubbio che
nell’ insieme l’aspetto fono-morfologico aderiva quasi
completamente all’uso linguistico contemporaneo. Ancora
nell’ambiente mediceo si assiste alla prima trasportazione su di
un piano colto di un genere popolare che godeva di grande
fortuna, quale era il cantare cavalleresco.19 Il Morgante di
Luigi Pulci (1432-1484) era destinato ad un altro pubblico: fu
composto su richiesta di Lucrezia Tornabuoni, madre di

19
una forma poetica in ottave che veniva portata sulle piazze dai canterini
davanti a un pubblico medio-basso.
Lorenzo il Magnifico. Pulci scrisse al giovane Lorenzo una
lettera “in furbesco” (si tratta del primo caso di uso del gergo20
nell’italiano). Pulci compilò un Vocabolista, raccolta lessicale
ad uso privato, che può essere oggi considerata un antecedente
di un vocabolario italiano (vari vocaboli si ebbero soltanto nel
secolo successivo). In questa raccolta di oltre settecento
vocaboli sono riuniti latinismi tradotti con parole di uso
comune (latebra - luogo nascosto e segreto), voci di botanica,
di zoologia, anatomia, termini gergali (mecco - puttaniere).

La prosa toscana

Il rapporto con il parlato è avvertibile anche nella


produzione novellistica toscana, specialmente nelle parti
dialogate. Il genere novellistico, in questa accettazione del
parlato e della popolarità si colloca su di un piano diverso
rispetto alla prosa colta, nobile, di ispirazione latineggiante
come nella saggistica di Leon Battista Alberti.
Un ruolo particolare ebbero i romanzi di Andrea da
Barberino, e soprattutto i Reali di Francia, un genere
tipicamente popolare, che circolò per secoli, tanto che ne

20
il furbesco è il gergo della malavita e dei pitocchi che trovò una vivace
utilizzazione nella letteratura del secolo XVI
furono stampate ancora edizioni ottocentesche, le quali
venivano lette con passione e ascoltate dai più umili popolani.
La lettura di questa narrativa modesta21 collaborò a far
circolare modelli di prosa italiana tra un pubblico abituato al
dialetto; le storie raccontate sono sempre uguali a se stesse, con
minime variazioni. Si tratta di una prosa con poche pretese che
ricorda il colorito popolare della narrativa preboccacciana.

La letteratura religiosa e la sua influenza

Nel Quattrocento troviamo i laudari in uso presso


molte comunità dell’Italia settentrionale e anche in zone come
il Piemonte, in cui la letteratura toscana non era troppo
conosciuta; il volgare locale si avvicina in parte alla lingua
francese. Nel dialetto piemontese, ad esempio, gli infiniti dei
verbi latini in –are hanno esito in –é es.: cantare-canté. Le
scritture piemontese si sforzano di staccarsi della parlata locale,
e mirano ad una toscanizzazione o almeno ad un livello di
koiné sovraregionale.
Le sacre rappresentazioni erano messe in scena per un
pubblico popolare, ed erano un’occasione in cui, come nel caso

21
il grammatico Luca Serianni (1993: 477-pag. 241) ha giustamente
paragonato questo tipo di narrativa a certa letteratura di consumo
contemporanea, per esempio, “i romanzi rosa”
delle laudi, gli incolti dialettofoni potevano incontrare una
lingua più nobile e toscanizzata (Giudicio della fine del mondo).
La letteratura religiosa fu importante per la diffusione
dell’italiano tra il popolo. La sacra rappresentazione era un
genere coltivato anche in Toscana.
Anche la predicazione si rivolgeva al popolo e aveva
bisogno di usare il volgare che era in certi casi molto vicino al
dialetto o volgare illustre. Nel Quattrocento ci sono casi in cui
la lingua toscana esercita un prestigio al di là dei suoi naturali
confini geografici (tra i predicatori spicca la figura di San
Bernardino da Siena).
Savonarolo è un non-toscano, proveniente dall’Italia
settentrionale che visse a Firenze e vi esercitò la sua missione.
Fu quindi costretto ad una sorta di “toscanizzazione”. Il fatto
che i predicatori si muovevano da un luogo all’altro e facevano
esperienza di un pubblico sempre diverso, li spingeva a
raggiungere il possesso di un volgare che fosse in grado di
communicare al di là dei confini di una singola regione. Il
predicatore poteva adottare alcune parole proprie del posto in
cui si trovava, ma doveva essere in grado di depurare la propria
lingua naturale, toscana o non toscana degli elementi
vernacolari, incomprensibili a un pubblico diverso da quello
della sua regione di origine.
La cancelleria e la “koiné”

La poesia volgare ebbe dall’inizio una maggiore


uniformità rispetto alla prosa (che ebbe come modello
Boccaccio, il più autorevole e accettato che apparteneva a un
genere letterario circoscritto - la novella). La prosa non si
poteva limitare all’uso novellistico-narrativo; ma aveva
bisogno di estendersi a settori extraletterari, all’impiego privato
e familiare, cancelleresco, scientifico ecc.
Si richiedeva dunque un diverso compromesso con i
volgari regionali. Si può parlare di una varietà di scriptae,22
lingue scritte attestate dai documenti dell’epoca. La definizione
di queste scriptae non riguarda solo il Quattrocento, esse
dimostrano una tendenza al conguaglio ed evolvono verso
forme di koiné.23 La koiné quattrocentesca consiste appunto in
una lingua scritta che mira all’eliminazione di una parte
almeno dei tratti locali e raggiunge questo risultato accogliendo
latinismi e appoggiandosi al toscano.
A partire dal Quattrocento le manifestazioni scritte del
volgare sono nelle diverse situazioni di uso (lettere pubbliche o

22
vi è una “scripta” alto-italiana, settentrionale, lombarda, veneta ecc e vi è
una “scripta” di corte, di cancelleria, dei mercanti ecc
23
termine tecnico con cui si indica una lingua superdialettale
private, scritture notarili o mercantili, cronache ecc). Si aspira
ad un livello sovraregionale - koiné. Una forte spinta in tale
direzione fu data dall’uso del volgare nelle cancellerie
principesche ad opera di funzionari e di notai. Nella prima
metà del Quattrocento si comincia a usare il volgare nelle
cancellerie di Venezia e Ferrara (e prima a Mantova e a
Urbino).
La tendenza alla reciprocità nella corrispondenza fra
stati è un fattore di “contagio” nella sostituzione di volgare al
latino “che non era totale”. L’uso delle cancellerie veniva a
essere influenzato dai gusti linguistici e letterari della corte
signorile di cui facevano parte cancellieri e segretari. I
cortegiani non erano necessariamente legati in maniera
definitiva ad una medesima corte, ma spesso si muovevano da
una all’altra. Molti scriventi che utilizzavano le koinai erano
lettori attenti degli autori toscani e potevano quindi più o meno
cosciamente trasportare nelle scritture di uso pratico forme
incontrate nei testi della letteratura (l’articolo el prevale, ad
esempio, su il nell’uso della cancelleria di Milano e di
Mantova). Nell’incertezza di un uso non ancora codificato da
grammatiche e vocabolari (che non esistevano), il latinismo era
un punto di appoggio sicuro e insostituibile. L’uso della koiné,
normale negli ambienti di corte e nell’uso cancelleresco, si
sviluppò anche nell’uso tecnico-scientifico, sia nel
Quattrocento che all’inizio del Cinquecento.

Fortuna del toscano letterario

Il volgare toscano acquistò un prestigio crescente fin


dalla seconda metà del Trecento. La diffusione della
Commedia, del Canzoniere e del Decameron fu precoce, anche
se in certe zone periferiche come il Piemonte, il Decameron
poté arrivare tradotto in francese. Si formavano anche le
biblioteche di studio, umanistiche, piene esclusivamente di
autori latini. Il pubblico ideale, di rango signorile, è in
quest’epoca bilingue o trilingue: legge libri italiani, francesi e
latini. A Milano, negli ultimi decenni del Quattrocento la
letteratura e la lingua fiorentina gode di un grande prestigio
anche per la circolazione di uomini, oratori, ambasciatori,
funzionari o podestà fiorentini o di mercanti appartenenti a
famiglie quali Rucellai, Portinari, Antinori ecc.
Firenze, Milano e Venezia erano le città in cui si
stampavano libri in volgare (a Venezia furono stampati nel
1470 il Canzoniere di Petrarca e nel 1471, il Decameron). Ma
la letteratura e la lingua volgare trovavano spazio anche nelle
corti minori dell’Italia padana (per esempio Boiardo si
dedicava all’imitazione petrarchesca negli Amorum libri, dove
la toscanizzazione è più forte rispetto all’ “emiliano illustre”
dell’Orlando innamorato).

La lirica di Boiardo

È un caso di toscanizzazione nel Settentrione dell’Italia


(Boiardo visse a Ferrara, alla corte degli Estensi). Maria
Matteo Boiardo arrivò alla poesia in volgare dopo
un’esperienza di poeta in lingua latina. Assimilò librescamente
il toscano senza percepire questo linguaggio come una lingua
vera e viva nei suoi sviluppi diacronici. Un altro importante
punto di riferimento è per lui il latino. Sono dunque frequenti i
latinismi che si riflettono anche sul vocalismo tonico, in cui
ricorrono i e u al posto di e e o: simplice, firma, summo; le
forme nui e vui sono frutto di una coincidenza tra l’esito
settentrionale e la tradizione poetica di matrice siciliana (un
tratto toscano è l’anafonesi, anche se l’esito locale è presente in
parole come: gionto-giunto; ponto-punto; longo-lungo. Nel
consonantismo, il settore delle scempie e delle geminate è
l’unico in cui prevale la fonetica locale; troviamo, ad esempio,
in posizione di rima: tuto” (tutto), aiuto, arguto.
Il linguaggio della lirica nell’ Italia meridionale

Durante il periodo in cui si instaurò a Napoli la corte


della dinastia aragonese (1442-1502) fiorì una poesia
cortigiana di cui sono esponenti autori come: Francesco
Galeota, Pietro Jacopo de Jennaro. I tratti linguistici di questi
poeti si distinguono dal toscano: oscillazioni di forme
anafonetiche fiorentine e forme senza anafonesi; oscillazione
tra ar locale e er fiorentino-letterarie nei futuri e condizionali
dei verbi; oscillazioni tra i possessivi toa, soa e i toscani tua,
sua. Specificamente meridionali sono tra l’altro: le forme come
iorno in “giorno”, iace in “giace” (passaggio di dj e j a j); gli
articoli lo e lu; forme del futuro in –aio e –aggio. La
generazione successiva dei poeti meridionali ha come
rappresentante Sannazaro, di particolare importanza è la sua
Arcadia. Esistono due diverse redazioni di quest’opera,24 che
appartiene al genere bucolico, nel quale si alternano egloghe
pastorali e parti in prosa. Dopo l’Arcadia, Sannazaro si dedicò
esclusivamente alla produzione poetica in latino. Si tratta della
prima prosa d’arte composta fuor di Toscana.

24
la prima edizione risale al 1484-86 e la seconda fu pubblicata nel 1504
che ebbe una grande fortuna in Italia e in Europa e fu imitata anche nella
lingua
Fuor di Toscana, la prosa narrativa rivela la presenza di
idiotismi settentrionali (le Porretane del bolognese Sabadino
degli Arienti). Molti meridionalismi si rintracciano nelle
novelle di Masuccio Salernitano, il quale imita Boccaccio.

IL CINQUECENTO

Nel Cinquecento il volgare raggiunse una piena


maturità, ottenendo il riconoscimento unanime dei dotti che gli
era mancato durante l’Umanesimo. Si assiste a un vero e
proprio trionfo della letteratura in volgare, con il fiorire degli
autori tra i massimi della tradizione italiana, come Ariosto,
Tasso, Aretino, Machiavelli, Guicciardini.
La storia della lingua italiana nel periodo dal
Cinquecento al Settecento potrebbe essere vista proprio come
una lotta serrata con il latino.
Nel Rinascimento, il latino non era ancora in posizione
marginale. Gli intelletuali avevano fiducia nella nuova lingua.
Tale crescente fiducia derivava dal processo di regolamento
grammaticale allora in corso. Determinante fu la pubblicazione
di un libro importantissimo – Prose della volgar lingua di
Pietro Bembo, che si collca in posizione rilevante nel processo
di stabilizzazione normativa. Si ebbero allora le prime
grammatiche stampate dell’italiano e i primi lessici. La
maggior parte dei lettori cercava delle risposte pratiche, una
guida per scrivere correttamente, liberandosi degli eccessivi
laltinismi e dialettismi. Quindi, verso la metà del Cinquecento
si assiste al definitivo tramonto della scrittura di koiné tipica
del Quattrocento e dell’inizio del Cinquecento che rimase
appanaggio degli scriventi meno colti. L’italiano raggiunse uno
status di lingua di cultura di altissima dignità e con un prestigio
considerevole all’estero.
Per quanto riguarda il diritto e l’amministrazione della
giustizia, il latino aveva una netta prevalenza. Queste forme di
coesistenza tra volgare e latino nelle carte giudiziarie potranno
essere meglio verificate attraverso il vario corpus di documenti
relativi al processo di Sant’Offizio contro Giordano Bruno e al
processo napoletano a Tommaso Campanella. Ci si trovano
verbali, memoriali, difese, rapporti di informazioni, dai quali
emerge un variato intreccio tra latino e italiano, tra “scritto” e
“parlato”, tra formula giudiziaria e registrazione della viva
voce.
Nel quadro degli stati italiani, il Piemonte non era in
posizione arretrata in questa materia. Molto più conservatrice
era la Reppublica di Genova e il vicereame di Sicilia in cui si
usò il latino ancora nel Seicento nelle leggi e nella cancelleria,
anche se furono in volgare le norme per regolare la vita
pubblica. Le scritture giuridico-normative contenevano
elementi locali. Nelle zone sottoposte al governo spagnolo,
come la Lombardia e il Regno meridionale, entrarono nel
linguaggio delle cancellerie molti ispanismi (papeli -
documenti). In Sardegna l’amministrazione spagnola mostrò un
atteggiamento ostile verso il volgare italiano. Lo spagnolo durò
nella tradizione amministrativa dell’isola fino al passaggio alla
monarchia sabauda (o anche oltre). Nell’isola di Malta (ceduta
nel 1530 ai Cavallieri dell’Ordine Gerosolimitano) l’italiano fu
usato a partire dal Cinquecento nel linguaggio amministrativo e
cancelleresco. L’italiano nelle forme venetizzate fu usato
accanto al latino in Dalmazia, in particolare a Ragusa.
Quasi esclusivamente in latino si presentarono la
filosofia, la medicina e la matematica. Il volgare viene usato
nella scienza quando si tratta di stampare opere di divulgazione
(nelle arti applicate: i ricettari, di medicina, cosmesi, arte
culinaria, l’architettura). Quanto al settore umanistico-letterario
vero e proprio, il volgare trionfa nella letteratura e si afferma
nella storiografia, grazie a Machiavelli e Guicciardini.
LA QUESTIONE DELLA LINGUA
1. Pietro Bembo

Aldo Manuzi (da cui “le edizioni aldine”) è un editore


veneziano, però romano di origine, uno dei grandi maestri
dell’arte tipografica italiana ed europea. Il primo libro stampato
da Manuzi era stato l’Hypnerotomachia Poliphili, libro dalla
lingua satura di latinismi. Il secondo libro in volgare stampato
da Manuzi fu l’edizione delle Lettere di Santa Caterina, nel
1500. Il volgare usato da Manuzi nella premessa anteposta a
quest’opera non ha ancora nulla di quella che sarebbe stata la
lingua proposta da Bembo. Nel 1501, Manuzi stampava due
classici, Virgilio e Orazio, sciegliendo un formato tascabile che
renderà famose le sue edizioni, celebri anche per il carattere
tipografico corsivo, detto anche “aldino”. Nello stesso anno
usciva, sempre in piccolo formato, il Petrarca volgare, curato
da Bembo. L’evento è di grande importanza storica e culturale.
Le innovazioni introdotte da Bembo erano di maggiore
importanza: la forma linguistica di quel testo di Petrarca era
quella su cui si sarebbero fondato in seguito le teorie delle
Prose della volgar lingua. Compariva qui per la prima volta il
segno dell’apostrofo, ispirato alla grafica greca, destinato a
diventare stabile in italiano. L’anno seguente, Aldo Manuzi
pubblicò la Commedia curata da Bembo. Bembo scrisse gli
Asolani che furono stampati nel 1505. In questa prosa
filosofica e trattatistica si intravvede già l’imitazione
linguistica di Boccaccio che poi sarebbe teorizzata nelle Prose.
La novità rispetto al Quattrocento stava nel fatto che Bembo
ricavava da Boccaccio una lezione di grammatica, e non di stile.
In nessun altro secolo il dibattito teorico sulla lingua ebbe tanta
importanza come nel Cinquecento, anche perché il risultato fu
la stabilizzazione normativa della lingua. La questione della
lingua, cioè l’interminabile serie di discussioni sulla natura
del volgare e sul nome da attribuirgli va inteso come un
momento determinente in cui teorie estetico-letterarie si
collegano ad un progetto concreto di sviluppo delle lettere.
Le prose della volgar lingua furono pubblicate a
Venezia nel 1525. Sono divise in 3 libri, il terzo contiene una
vera e propria grammatica dell’italiano, la quale risulta però
poco sistematica oggi, anche perché il trattato ha una forma
dialogica. Non è dunque una grammatica metodica e
sistematica, ma una serie di norme e regole esposte nel dialogo,
dalle quali emerge un chiaro profilo dell’italiano.
Il dialogo che costituisce le Prose è idealmente
collocato nel 1502; vi prendono parte quattro personaggi,
ognuno dei quali è portavoce di una tesi diversa: Giuliano de’
Medici25 rappresenta la continuità con il pensiero
dell’Umanesimo volgare; Federico Fregoso espone molte delle
tesi storiche presenti nella trattazione; Ercole Strozzi26 espone
le tesi degli avversari in volgare e infine, Carlo Bembo,27 fa da
portavoce delle idee del fratello, Pietro Bembo.
Nelle Prose viene svolta prima di tutto un’ampia analisi
storica, linguistica, prendendo le distanze dalla tesi di Leonardo
Bruni che considerava che l’italiano fosse già esistito al tempo
dell’antica Roma, come lingua popolare. Bembo non accetta
questa idea. Bembo considera invece che l’italiano sia nato
dalla contaminazione del latino con quelle lingue degli invasori
barbari; il volgare risultava un’entità nuova ed era possibile un
suo riscatto tramite gli scrittori e la letteratura. Il principio
adottato è dunque quello di un possibile mutamento della
qualità delle lingue. L’italiano andava migliorando, osservava
Bembo, mentre un’altra lingua moderna, il provenzale, che
aveva preceduto l’italiano nel successo letterario, perdeva
terreno. Il discorso si spostava così alla letteratura, le cui sorte
venivano giudicate inscindibili da quelle della lingua. Quando
Bembo parla di lingua volgare, intende senz’altro il toscano,

25
il terzo figlio di Lorenzo il Magnifico
26
umanista e poeta in latino
27
fratello di Pietro Bembo
ma non il toscano vivente, bensì il toscano letterario
trecentesco dei grandi autori (Petrarca, Boccaccio e in parte
Dante). Questo è un punto fondamentale della tesi di Bembo:
egli non nega che i toscani siano avvantaggiati sugli altri
italiani nella conversazione; ma questo non è oggetto del
trattato che non si occupa del parlato comune, ma della nobile
lingua della letteratura. Si tratta così di un punto di vista
umanistico e si fonda sul primato della letteratura. Bembo
considera che i letterati fiorentini possano essere portati più di
altri ad accogliere parole popolari che macchiano la dignità
della scrittura. La lingua non si acquisisce dunque dal popolo,
secondo Bembo, ma dalla frequentazione di modelli scritti, i
grandi trecentisti. Bembo sapeva perfettamente che la scelta del
modello costituito dalle Tre Corone riportava indietro nel
tempo, con un salto nel passato tale da far dubitare che egli
volesse parlare a morti, più che a’ vivi. Per la nobilitazione del
volgare, Bembo rifiutava la popolarità. È il motivo per cui
Bembo non accetta integralmente il modello della Commedia
di Dante, di cui non apprezza le discese verso il basso. Il
modello del Canzoniere di Petrarca non presentava difetti, per
la sua assoluta selezione linguistico-lessicale. Qualche
problema, invece, poteva venire dalle parti del Decameron in
cui emergeva più vivace il parlato e Bembo precisava che il
modello linguistico non stava nei dialoghi delle novelle del
Decameron, ma nello stile vero e proprio dello scrittore (nel
corpo delle composizioni sue); dunque il Boccaccio dalla
sintassi fortemente latineggiante, dalle inversioni, dalle frasi
gerundive. Questo fu il modello imitato dallo stesso Bembo.
Dunque, il volgare si era diffuso in tutt’Italia come lingua della
letteratura, attraverso un’imitazione più o meno cosciente dei
grandi trecentisti. La sua teoria poteva essere gradita ad una
classe colta abituata al culto del passato.

2. La teoria cortigiana

Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua parla


dell’opinione di Calmeta (Vincenzo Colli, lombardo), secondo
la quale il volgare migliore è quello usato nelle corti italiane,
specialmente nella corte di Roma. Una formulazione più
precisa della teoria di Calmeta è data da un altro letterato del
Cinquecento, Ludovico Castelvetro. Secondo la sua
interpretazione, Calmeta faceva riferimento a un fiorentino
fondamentale che si doveva apprendere sui testi di Dante e
Petrarca e doveva essere poi purificato attraverso l’uso della
corte di Roma. Nel Cinquecento, Roma era una “città
cosmopolita per eccellenza”. A Roma la circolazione di genti
diverse favoriva il diffondersi di una lingua di conversazione
superregionale di qualità alta, di base toscana, ma disponibile
ad apporti diversi. Il fascino della corte di Roma come centro
elaboratore della lingua aveva attirato anche altri, non solo il
Calmeta (per esempio Mario Equicola). Baltasare Castiglione
nel Cortegiano (1528) usava l’aggettivo comune per definire la
propria scelta linguistica. La differenza tra questo ideale
linguistico e quello di Bembo sta nel fatto che i creatori della
lingua cortigiana non volevano limitarsi all’imitazione del
toscano arcaico, ma preferivano far riferimento all’uso vivo di
un ambiente sociale determinato, e cioè la corte. Bembo
obiettava che la lingua “comune” era un’entità difficile da
definire in maniera precisa; quindi, la teoria cortigana, anche se
basata sull’esperienza vitale non uscì vincente dal dibattito
cinquecentesco. La teoria arcaizzante di Bembo aveva il
vantaggio di offrire modelli molto più precisi, nel momento in
cui i letterti avevano bisogno di una norma linguistica rigorosa
a cui aderire.

3. La teoria “italiana” di Trissino


La teoria “italiana” di Trissino presenta analogie con la
teoria cortigiana. Giovan Giorgio Trissino (1478-1550) era un
letterato vicentino. Si tratta di una teoria strettamente legata
alla riscoperta del De vulgari eloquentia di Dante. Trissino
stampò il trattato dantesco, non nella forma latina originale, ma
in traduzione italiana. Nello stesso anno, 1529, pubblicò il
Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di
Petrarca era composta di vocaboli provenienti da ogni parte
d’Italia, e non era quindi definibile come “fiorentina”, bensì
come “italiana”. La tesi di Trissino negava dunque la
fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle pagine
in cui Dante aveva condannato la lingua fiorentina e aveva
contestato ogni pretesa di primato letterario. Inoltre, Trissino
aveva proposto una riforma dell’alfabeto italiano in particolare
con l’introduzione di due segni del greco, epsilon e omega. Su
questa riforma ortografica, così come sulla definizione della
lingua “italiana” si discusse a lungo e piuttosto in maniera
critica.

La cultura toscana di fronte a Trissino e a Bembo


La più interessante reazione fiorentina alle idee di
Trissino è il Discorso o Dialogo intorno alla nostra lingua
attribuito a Machiavelli. In questo testo, scritto in maniera
brillante e vivace, viene introdotto Dante stesso, il quale
dialoga con Machiavelli, facendo correzioni degli errori
commessi scrivendo De vulgari eloquentia. Non è contestata
l’autenticità del trattato dantesco; Dante viene corretto per i
suoi errori. Trissino non è mai nominato espressamente, ma si
parla di certi letterati non toscani (e dice Machiavelli,
“vicentini” e Trissino era di Vicenza) che volevano farsi
maestri di lingua. Viene rivendicato il primato linguistico di
Firenze contro le pretese dei settentrionali. Il Discorso o
Dialogo di Machiavelli rimase però inedito fino al Settecento e
quindi non influì direttamente sul dibattito cinquecentesco.
Presto si ebbe una polemica sull’autenticità del De vulgari
eloquentia (polemica assente in Machiavelli), favorita dal fatto
che Trissino non rese mai pubblico il testo latino dell’opera. Il
testo latino fu stampato solo nel 1577, a Parigi (dal letterato
Jacopo Corbinelli). Molti letterati fiorentini del secolo XVI,
come Giovan Battista Gelli e Benedetto Varchi insinuarono che
troppo poco si sapeva per giudicare dell’autenticità del trattato
De vulgari eloquentia, in cui si individuarono contraddizioni
rispetto alle idee espresse da Dante nel Convivio e nella
Commedia. Varchi disse che il trattato conteneva vere e proprie
sciocchezze e così non poteva appartenere a Dante.

Le posizioni fondamentali della “questione della


lingua”nella prima metà del secolo XVI

Tali posizioni furono variamente riprese in seguito. La


situazione mutò solo nella seconda metà del secolo quando uscì
l’Ercolano di Benedetto Varchi (1570), fiorentino. A Padova
aveva potuto frequentare l’Accademia degli Infiammati, dove
era viva la lezione di Bembo. Aveva conosciuto di persona
Bembo stesso. Di fronte al trionfo generale delle idee contenute
nelle Prose, a Firenze si rischiava di cadere in una posizione
provinciale e marginale. La rilettura di Bembo condotta da
Varchi non fu affatto fedele, e risultò un vero e proprio
tradimento delle premesse del classicismo volgare. Ciò servì a
rimettere in gioco il fiorentino vivo. Fu una riscoperta del
“parlato” nel quadro di una teoria generale della lingua ispirata
non alla Bibbia (come nel De vulgari eloquentia), ma alla
filosofia naturale. Per Varchi la pluralità dei linguaggi non va
spiegata con la maledizione babelica, ma con la naturale
tendenza alla varietà propria della natura umana. Non è una
“punizione” inflitta agli uomini, ma un vantaggio, in quanto
parte integrante della perfezione dell’universo.
Varchi proponeva una classificazione della lingua
basata su una serie precisa di elementi: la loro provenienza
dall’estero o la loro “originale” esistenza in un luogo, il loro
patrimonio di cultura e di letteratura, la loro comprensibilità
(intesa sulla base della capacità di comprendere propria di un
parlante fiorentino; i dialetti italiani, per esempio, risultavano
comprensibili, ma “disuguali” rispetto al fiorentino, perché
gerachicamente inferiori). Varchi affiancava al modello di
lingua di Bembo, la lingua parlata di Firenze (con vivaci modi
di dire; l’autore però aveva fatto riferimento all’uso del
“popolo”, ma non a quello del basso popolo o “popolazzo”).
Molte pagine dell’Ercolano contengono liste di espressioni
proverbiali fiorentine.

La stabilizzazione della norma linguistica

Nel Cinquecento si ebbero le prime grammatiche e i


primi vocabolari, nei quali si riflettono le proposte teoriche,
soprattutto quelle di Bembo. Il terzo libro delle Prose è una
vera e propria grammatica (anche se dialogica). Non fu però
questa la prima grammatica italiana data alla stampa. Bembo
era stato preceduto da Giovan Francesco Fortunio, letterato
friulano di nascita e di fomazione veneziana che stampò ad
Ancona Le regole grammaticali della lingua. La base delle
norme proposte da Fortunio sta nei grandi scrittori del Trecento,
senza manifestare riserve nei confronti del linguaggio della
Commedia. Le parti del discorso di cui si parla sono ridotte a
quattro: il nome, il pronome, il verbo e l’avverbio. Note sparse
sono dedicate all’aggettivo, al participio, alla congiunzione,
alla preposizione e alla interiezione.
Oltre alle grammatiche28 si ebbero dunque anche i primi
lessici. Essi contenevano un numero limitato di parole. Tra i
più antichi libri del genere notiamo: Le tre fontane di Niccolò
Liburnio del 1526, un’opera che si colloca tra retorica,
grammatica e lessicologia e si presenta come un aiuto per
scrivere correttamente. Le tre fontane sono i tre grandi
trecentisti. La fabbrica del mondo (1548) di Francesco Alunno
di Ferrara è il più noto vocabolario della prima metà del
Cinquecento, strutturato in forma di dizionario metodico, con
un indice alfabetico per ritrovare facilmente le voci.

28
verso la metà del Cinquecento furono disponibile diverse grammatiche
che illustravano con chiarezza la lingua teorizzata da Bembo, Lodovico
Dolce, Girolamo Ruscelli ecc
Gli scrittori di fronte alla grammatica di Bembo

L’effetto più noto della grammatica di Bembo si ebbe


su un grande capolavoro L’Orlando furioso di Ariosto, perché
Ariosto coresse la terza e definitiva edizione del poema
seguendo proprio le indicazioni delle Prose. La prima edizione
risente ancora del padano illustre, benché sia già toscanizzata.
In essa ci sono oscillazioni nell’uso delle consonanti doppie,
nell’uso di c e z davanti a vocale: roncino per “ronzino”; ci si
trovano forme come: giaccio, giotto, iusto per “ghiaccio”,
“ghiotto”, “giusto”; abbandonano i latinismi lessicali (esempio:
dicare, difensione).
Restano anche prove dirette della differenza di Ariosto
per Bembo, il cui elogio è posto nel canto XLVI del poema.
Tra le correzioni introdotte sistematicamente si possono
ricordare: la sostituzione dell’articolo maschile el con il; le
desinenze del presente indicativo prima persona plurale
regolarizzate in –iamo, la prima persona singolare
dell’imperfetto (andava anziché andavo) alla maniera dei
trecentisti. Tutto questo dà un’idea di quale era il bisogno di
una “grammatica” degli scrittori italiani, almeno fuori di
Toscana. È evidente che un toscano come Machiavelli
preferiva invece far appello alla propria naturale padronanza
della lingua e non accettava di imitare le forme arcaiche usate
dalle Tre corone. Fuori della Toscana, l’adozione dell’italiano
non aveva niente di naturale: era il frutto di una scelta libresca
e di cultura.

L’italiano come lingua popolare e pratica

Nei settori pratici, nel Cinquecento si assiste a una


crescita sostanziale dell’impiego della lingua italiana che si può
verificare nelle scritture e nelle stampe. Cresce l’uso della
lingua, a volte utilizzata anche da persone di scarsa cultura.
L’analfabetismo era molto diffuso, soprattutto nelle campagne;
sembra che nelle città, in particolare a Roma, non mancassero
popolani in grado di leggere e di scrivere; le scritture popolari e
semipopolari sono caratterizzate da regionalismi e dialettismi.
Non tutti i documenti di lingua d’uso comune sono manoscritti.
Anche certi libri a stampa offrono materiale per la verifica di
un italiano extraletterario ricco di termini quotidiani. Così “i
libri di segreti”, le raccolte di ricette mediche, culinarie,
igienico-sanitarie, così i ricettari di cucina, i trattati di dietetica.
Sono opere in cui si ritrova una terminologia tecnica e estranea
alla terminologia dell’italiano poetico, ma legata alla vita
quotidiana del tempo e alle necessità pratiche della
comunicazione.

LE ACCADEMIE.
Il ruolo delle accademie

I decisivi progressi per la crescita qualitativa del


volgare vennero compiuti in ambienti di livello molto più alto.
L’Accademia degli Infiammati di Padova, fondata
nel 1540, era frequentata anche (oltre Varchi) da Sperone
Speroni, autore di un importante dialogo Delle lingue,
pubblicato nel 1542. Si immagina un dialogo a Bologna nel
1530. In esso viene introdotto Pietro Bembo in persona, a
difendere le proprie idee, mentre le altre posizioni nella
questione della lingua sono rappresentate da un “cortegiano”
(sostenitore, ovviamente, della teoria “cortigiana” e da Lazzaro
Bonamico, difensore del latino. Nel dialogo viene introdotto
successivamente, narrato da un scolaro che ne è stato testimone,
un altro dialogo, che esprime una posizione assai originale:
quella del filosofo aristotelico Pietro Pomponazzi, detto il
Peretto (1462-1524) che dichiarava che la filosofia avrebbe
dovuto essere trasportata dalle lingue classiche, dal latino e dal
greco alla lingua volgare con ricchezza di traduzioni. Il latino e
il greco gli sembravano addiritura un ostacolo alla diffusione
del sapere. Egli arrivava ad affermare che per parlar di filosofia
qualunque lingua era buona, anche la milanese o la mantovana
(emerge così una teoria utilitaristica, democratica e
anticlassicistica della lingua).

L’Accademia fiorentina

Le accademie ebbero nel Cinquecento una funzione di


primo piano; in esse si organizzarono gli intelletuali e vennero
affrontate molte questione linguistiche di attualità. Dal 1542
l’Accademia fiorentina divenne un organismo “ufficiale”
finanzato dal duca di Toscano, Cosimo dei Medici. Questa
accademia di cui fecero parte linguisti come: Varchi, Gelli e
Giambullari non fu in grado di realizzare, nonostante le
speranze del Duca, una grammatica “ufficiale” della lingua
toscana.
L’Accademia della Crusca

La più famosa accademia italiana che si occupò di


lingua fu quella della Crusca, ancor oggi attiva (1582).
Inizialmente, gli appartenenti a quest’accademia si dedicarono
29
a comporre cicalate e orazioni scherzose, secondo il gusto
del tempo. Nel 1583, con l’ingresso di Lionardo Salviati che
esercitò un’influenza insostituibile, cominciarono ad affermarsi
seri interessi filologici. Nella prima fase della sua esistenza, la
Crusca si fece conoscere per la polemica, condotta soprattutto
da Salviati contro la Gerusaleme liberata di Tasso (a sostegno
del primato dell’ Ariosto). Lo stesso Salviati raggiungeva nel
frattempo solida fama come autore degli Avvertimenti della
lingua sopra’l Decameron (1584-1586), libro filologico e
grammaticale che appare dopo un intervento compiuto sul testo
di Boccaccio per spurgarlo dalle parti ritenute moralmente
censurabili. Questa celebre operazione di censura è nota come
“la rassettatura” del Decameron. Salviati massacrò il testo di
Boccaccio per togliere tutto quanto ci potesse apparire
immorale e antireligioso. La sua “rassettatura”, chiesta dal
granduca Francesco di Toscana per soddisfare Sisto V, veniva

29
Discursuri lungi si plicticoase
dopo quella analoga (ma giudicata non ancora sufficiente),
messa in atto nel 1573 dai Deputati dell’Accademia fiorentina.
L’intervento di una censura moralistica fu, dunque,
(paradossalmente) l’occasione per la nascita e lo sviluppo di
un’attenzione filologica per il testo del Decameron. Nel 1590
l’Accademia deliberò di rivedere e correggere il testo della
Commedia di Dante. Nel 1595 uscì a Firenze La Divina
Commedia di Dante e così la lingua di Dante viene rivalutata,
guardata con interesse e comincia a non essere più guardata
con sospetto per il suo eccesso di realismo.

Le traduzioni, la saggistica e la prosa tecnica

L’architettura fu uno dei settori in cui l’italiano si


impose decisamente. Questo avvenne non solo nelle opere
nuove, ma anche traducendo ciò che si presentava in latino. Fra
le traduzioni determinanti per la stabilizzazione del lessico
tecnico, la più importante fu senz’altro quella del maestro
latino dell’architettura, Vitruvio, l’autore a cui già Leon
Battista Alberti si era ispirato. La trattatistica architettonica
raggiunse nella seconda metà del Cinquecento una maturità
assoluta e quindi una perfezione terminologica notevole, tanto
che molte parole italiane, relative all’architettura, entrarono
nelle altre lingue europee: facciata, balcone, casematta ecc.
Anche la trattatistica d’arte, nel settore della pittura e della
scultura può offrire molto materiale allo storico della lingua.
Dal 1550 al 1668 uscirono le Vite di Vasari che appartengono
allo stesso tempo alla saggistica critica e al genere biografico.
L’autobiografia di Cellini, in parte dettata a un ragazzo, è un
esempio un po’ particolare, perché le vicende personali si
mescolano alle osservazioni relative al lavoro dell’arstista. Il
risultato è un interessante stile dal vivace sapore di “parlato”
(la bellezza di questo testo fu riscoperta nel secolo XVIII da
Giuseppe Baretti che propose Cellini come modello di lingua
antiaccademica e lo definì come “ il meglio maestro che
s’abbia l’Italia”).

La chiesa e il volgare. La traduzione della Bibbia e la lingua


della messa
La lingua ufficiale della Chiesa restò il latino, ma il
problema del volgare emerse nella catechesi e nelle
predicazioni: questi sono i settori in cui effettivamente l’azione
del clero per la diffusione dell’italiano si fece sentire. I
pontefici facevano liste con libri proibiti. Nel 1559, Paolo IV
riservava una menzione alle Bibbie volgari, delle quali era
vietato il possesso senza apposita licenza del Santo Uffizio. La
proibizione fu confermata più volte in seguito, nel Cinquecento
e nel Seicento, e si attenuò solo a partire dal sec. XVIII (nella
seconda metà del Settecento si ebbe la traduzione della Bibbia
dal toscano Antonio Martini, che fu poi arcivescovo di Firenze).
La questione in gioco, dietro il problema della traduzione, era
quella della libera interpretazione della Scrittura. La diffusione
del testo latino rendeva il libro sacro più distante dagli
interpreti meno colti, garantendo la funzione di controllo della
gerarchia ecclesiastica. Al Concilio di Trento si affrontò
dapprima il problema della traduzione della Sacra Scrittura,
che venne discusso nel febbraio – giugno 1546.
La riforma protestante aveva puntato proprio sulla
lettura diretta della Bibbia, facendo dalla comprensione di quel
testo una questione decisiva: in tale direzione si è mosso
appunto Lutero, con la famosa versione in tedesco, di cui è
nota l’enorme importanza per la storia della lingua e della
letteratura germanica. Questa traduzione è uscita a poco a poco,
a partire dal 1522. Questo non poteva essere dimenticato dai
partecipanti al Concilio, alcuni dei quali vedevano nella Bibbia
in mano di tutti una rischiosa fonte di errori e di eresie. Altri
erano fautori della traduzione della Bibbia, in nome del fatto
che “la chiave della scienza” non poteva essere strappata di
mano agli indotti. Questi proposero una traduzione autentica
della Bibbia nelle diverse lingue nazionali. Prevalse la
posizione di un gruppo maggioritario, che preferì far cadere
ogni riferimento alla questione, lasciando decidere ai pontefici
(mentre si confermava la legitimità e l’ufficialità della Vulgata
di San Gerolamo, la traduzione latina che per secoli era stata
usata dalla Chiesa). La discussione sul tema della messa è
simile, a quella sulla traduzione delle Bibbia. Veniva
sottolineata in maniera particolare la funzione di lingua sacra
propria del latino. Il latino era considerato lingua universale
che garantiva un’omogeneità internazionale del messaggio
della Chiesa. Le lingue nazionali avrebbero reso più difficile da
controllare questo messaggio. Il Concilio fu prudente e non
pronunciò una condanna definitiva della messa in volgare,
anche se nella chiesa cattolica la messa venne celebrata in
latino fino al ventesimo secolo.

La chiesa, la questione della lingua e la predicazione


Il volgare confermava il suo ruolo decisivo nel settore
che aveva un confronto diretto con i fedeli: il momento della
predica. Il Concilio di Trento, nei suoi decreti, insisteva proprio
sul fatto che la predicazione in lingua volgare era uno dei
compiti a cui i parrocchi non dovevano assolutamente sottrarsi,
e che questa predicazione doveva svolgersi proprio durante la
messa. La predicazione era quindi una sorta di “oasi” di
volgare, l’unico momento in cui la comunicazione diretta con il
fedele richiedeva l’uso di una lingua largamente comprensibile.
C’era ancora la predicazione in latino, ma era destinata a un
pubblico d’élite (come simbolo di uno status culturale elevato o
per circostanze particolarmente solenni). Si deve tener conto
della forte influenza del bembismo, anche nel campo della
predicazione. Il modello di Bembo, ispirato all’italiano
letterario nobile e classico è facilmente riconoscibile già nel
primo predicatore del tempo, il francescano Cornelio Musso
(1511 – 1574) che era stato a Padova l’allievo di Bembo stesso.
La predicazione si presentava come un settore
inesplorato; rispettavano in qualche modo le regole
dell’oratoria antica. Molte volte, i grandi predicatori del
secondo Cinquecento ritornano, come Panigarola, sul tema
della “perniciosa dulcedo”, la pericolosa dolcezza delle arti
oratorie dei pagani.. Francesco Panigarola nel libro
Il
Predicatore trova posto per una sezione specifica relativa alla
lingua che deve adoperare il predicatore italiano. Ci si trova
non solo l’adesione ai principi fiorentinisti di Bembo, ma in più
la teorizzazione del primato della lingua fiorentina parlata,
giudicata come la più adatta al pulpito (Panigarola era
francescano). Panigarola consiglia di imparare il buon italiano
sulle grammatiche, ma esorta calorosamente a soggiornare a
Firenze per qualche tempo. A questo proposito si sofferma
sulla propria esperienza personale.
La predica post-bembiana, dunque, sembra accettare,
nei suoi aspetti più alti, la sfida della letteratura, sfruttando al
massimo gli artifici retorici. La funzione educativa rivolta al
popolo minuto (quello stesso per il quale venivano aperte
scuole popolari presso le parrocchie, canale importante per la
diffusione dell’alfabetismo sembra distinguersi chiaramente
della funzione spettacolare assunta dalla predica di livello
alto – letterario che si accentuerà nel XVII secolo. Certamente,
hanno qualche interesse i fenomeni di gestualità e di
coreografia che si svilupparono maggiormente nel Seicento,
così da trasformare la predica in una sorta di monologo teatrale.
IL SEICENTO

Il Vocabolario dell’Accademia della Crusca

La Crusca fu un’associazione privata che contò solo


sulle sue forze, senza sostegno pubblico, in un’Italia divisa in
stati diversi, ciascuno con la propria tradizione, un’Italia poco
adatta a sottomettersi a un’unica autorità normativa e così le
polemiche suscitate dall’Accademia furono innumerevoli. La
Crusca portò a termine il disegno di restituire a Firenze il
magistero della lingua e costrinse tutti gli italiani colti a fare i
conti, di allora in poi, con il primato della città toscana. Però,
per secoli, fu anche un’istituzione avversata. La sua presenza fu
sempre viva, ossessiva a volte, ingombrante e fastidiosa.
Il contributo più rilevante della Crusca si ebbe quando
la Crusca si indirizzò alla lessicografia, ciò che avvenne a
partire dal 1591. In quell’anno, gli accademici discussero sul
modo di fare il Voccabolario. Lionardo Salviati (entrato
nell’Accademia nel 1583) aveva accennato all’idea di un
voccabolario della lingua toscana. Da Salviati, soprattutto,
veniva agli accademici la caratteristica (profondamente
antibembiana) secondo la quale gli autori minori erano
giudicati degni, per merito di lingua, di stare a fianco dei
“grandi” della letteratura. Agli occhi di Salviati e poi degli
accademici, i problemi del contenuto si mettevano su un piano
diverso da quello della forma; i meriti linguistici potevano
unirsi ad una grande modestia della sostanza, per esempio, certi
antichi volgarizzatori si erano dimostrati incapaci di
comprendere i testi latini che cercavano di tradurre, ma,
nonostante la loro ignoranza, nell’ottica della Crusca, essi
erano validi modelli, perchè “avevano scritto bene”. Al
momento della realizzazione del Vocabolario, Salviati era già
morto. Nessuno poi ne raccolse l’eredità. Dei 50 accademici
presenti a Firenze tra il 1591 – 1592, nessuno aveva una
precisa competenza lessicografica o linguistica. Erano piuttosto
veri e propri dilettanti, molti giovani, non ancora noti per meriti
letterari. Tuttavia, il lavoro fu condotto con vigore e coerenza
metodologica.
Il Vocabolario della Crusca fu concepito attenendosi
alle regole fissate all’interno dell’Accademia. Lo spoglio,
avviato nel 1591, era già portato al termine nel 1595. Fu
affrontato allora il problema spinoso del finanziamento. La
Crusca alla fine del Cinquecento non era affatto nella
situazione favorevole che era stata propria dell’Accademia
fiorentina di Cosimo I. Per stampare il Vocabolario
occorrevano soldi; ciò constrinse gli accademici ad
autofinanziarsi. Questo fatto comportò anche una loro
sostanziale libertà, almeno fino alla seconda metà del Seicento.
La necessità di trovare da soli i finanziamenti per il vocabolario
giustifica la loro tendenza a realizzare l’opera come una sorta
di impresa commerciale. Nonostante la novità dell’opera, non
si poteva essere certi del suo successo di mercato. Questo
rischio giustifica gli sforzi compiuti per assicurare al volume “i
privilegi” di vendita nei diversi stati. Ciò spiega come
risultasse molto conveniente per la Crusca ottenere “i privilegi”
in una nazione come la Francia. Motivi di natura economica
spiegano forse la scelta di far stampare l’opera a Venezia e non
a Firenze. Il Vocabolario degli accademici della Crusca uscì
nel 1612 presso la tipografia veneziana di Giovanni Alberti.
Sul frontespizio portava l’immagine del frullone o buratto,
l’emblema dell’Accademia, lo strumento che si usava per
separare la farina dalla crusca, avendo sopra in un cartiglio il
motto “il più bel fior ne coglie”, allusivo alla selezione
compiuta nel lessico, per analogia alla selezione tra la farina
(“il fiore”) e la crusca (“lo scarto”).
Il nome stesso dell’Accademia della Crusca si presta a
questa interpretazione, che mostra, in allegoria, quale sia la
funzione selettiva esercitata sul lessico. All’origine, però, la
Crusca prese la sua designazione dalle “cruscate”, discorsi
burleschi, recitati dagli accademici (“crusconi”), in un esercizio
privo di ogni impegno culturale. Si deve precisare che il
vocabolario non fu affatto ispirato a crietri bembiani. La
lezione delle Prose sopravviveva, ma filtrata attraverso
l’interpretazione di Varchi e Salviati. Gli accademici, in
sostanza, fornirono il tesoro della lingua del Trecento, esteso al
di là dei confini segnati dall’opera delle Tre Corone, arrivendo
a integrare con l’uso moderno. Gli schedatori avevano cercato
di evidenziare la continuità tra la lingua toscana contemporanea
e l’antica trecentesca (secondo i principi di Salviati). Le parole
del fiorentino vivo erano documentate attraverso gli autori
antichi. Il massimo sforzo era stato compiuto per scoprire
lessico in quegli autori del passato, anche a costo di ricorrere a
fonti manoscritte, semiprivate, non verificabili da parte dei
lettori. Tale pratica avrebbe irritato in seguito (e non a torto) gli
avversari della Crusca. Il vocabolario presentava termini e
forme dialettali fiorentine e toscane come: calonaca (canonica),
caro (carestia), brobbio (vergogna), danaio (denaro) – d’uso
comune fin dal Novellino, manicare (mangiare), serqua
(dozzina), uguanno (quest’anno). Le parole (trattate nel
vocabolario) identiche si moltiplicavano per la presenza di
varianti proprie della lingua antica non ancora normalizzata
(Befania – Epifania, adulterio – avvolterio, chintana –
quintana). Per quanto riguarda la grafia, il Vocabolario si
colloca sulla linea dell’innovazione, distaccandosi in buona
parte dalle convenzioni ispirate al latino (come le “h”
etimologiche e i nessi del tipo “ct”), seguendo un
aggiornamento gradito alla cultura toscana. Il Vocabolario
costituisce una tappa importante nella storia della grafia
italiana. Furono seguiti i principi esposti da Salviati negli
Avvertimenti .
Un altro problema importante è quello della presenza
degli autori moderni nella prima Crusca. Si insiste di solito sul
carattere arcaizzante del Vocabolario (notevole è l’esclusione
di Tasso, il più grande scrittore italiano del secondo
Cinquecento, contro il quale, del resto, Salviati aveva
duramente polemizzato). Il Vocabolario assunse senz’altro un
prestigio sovrareggionale. L’Accademia trasse dunque dalla
realizzazione del Vocabolario una forza nuova, legò
definitivamente la propria autorità alla lingua, assunse un
compito di aggiornamento e di revisione che durò per secoli.
L’opposizione alla Crusca si manifsetò fin dal 1612,
anno della pubblicazione. Il suo primo avversario fu Paolo
Beni, professore di studi letterari all’Università di Padova,
autore di un’Anticrusca (1612), nella quale venivano
contrapposti al canone di Salviati gli scrittori del Cinquecento e
particolarmente Tasso. Beni partiva dal presupposto che la
lingua italiana esistesse come patrimonio comune. A suo
giudizio, questo patrimonio si estendeva anche al di là
dell’italiano scritto e arrivava a interessare il parlato. Egli
affermava che le pronunce della Campania, dell’Umbria , delle
Marche e quella di Roma, potevano essere messe a confronto
con quelle di Firenze; arrivava persino a vantare la dolcezza di
certe pronunce settentrionali, quali si sentivano a Padova, a
Venezia, a Vicenza. Del resto, la maggior parte del trattato è
dedicato a polemizzare contro la lingua usata da Boccaccio (più
ancora che contro la Crusca), indicando le irregolarità e gli
elementi plebei. Nel sottotitolo del libro l’autore annunciava
già il suo programma e voleva dimostrare come “l’antica
lingua, quella del Trecento, sia inculta e rozza, e la moderna,
regolata e gentile”. Una gran parte della sua Anticrusca rimase
inedita fino al ventesimo secolo, quando il manoscritto
ricomparve in America.
Alessandro Tassoni di Modena, celebre autore del
poema eroicomico La secchia rapita, fu critico nei confronti
della Crusca. Tassoni preparò un elenco di osservazioni
utilizzate dagli accademici per la seconda edizione del
Vocabolario, nel 1623. Sotto il nome di Tassoni furono
pubblicate nel 1698 delle Annotazioni sopra il Vocabolario
della Crusca che erano, in realtà, di un altro modenese, Giulio
Ottonelli. L’opposizione di Tassoni alla Crusca non si articola
in una trattazione ordinata. Si tratta di una serie di note e
commenti polemici, vivacissimi, che sembrano anticipare
alcuni argomenti radicali, di natura antifiorentina, che
utilizzeranno gli illuministi. Tassoni esprime la protesta,
condivisa da certi letterati settentrionali contro la dittatura
fiorentina sulla lingua. Tassoni proponeva di adottare nel
Vocabolario una maniera grafica per contrassegnare con
evidenza le voci antihe e le parole da evitare. A suo giudizio, la
confusione tra queste voci risultava pericolosa per gli utenti e
specialmente per “i forestieri” e per “la gioventù”. È contro
l’imitazione dei modelli trecenteschi, considerati arcaici.
Tassoni è cioè ostile ad ogni culto della tradizione che ostacoli
la modernità e la semplicità della comunicazione, è contro
l’uso e l’abuso del latino negli scritti tecnici di materia medica
e legale. È interessante osservare che Tassoni non guarda a
Firenze, ma a Roma, dove è rimasto a lungo e non tornò più
nella sua provincia, appunto per rimanere al centro di una vita
culturale “italiana”. Nelle sue annotazioni ricorrre il
riferimento all’uso linguistico di Roma, contrapposto a quello
di Firenze. Con la sua posizione antibembiana, antifiorentina e
antiarcaizzante, Tassoni nel suo poema utilizza voci e frasi di
vari dialetti centro-settentrionali (bolognese, bresciano,
modenese, padovano, romanesco) secondo una forma del gioco
linguistico.
Danielle Bartoli occupa un posto importante tra quelli
che non furono favorevoli all’Accademia di Firenze. Danielle
Bartoli (1608 – 1685) era gesuita, scrittore molto noto per la
sua prosa elegante, autore di una celebre opera grammaticale, Il
torto e il diritto del Non si può del 1655 e poi arricchita nel
1668. Il libro uscì sotto lo pseudonimo di Ferrante Longobardi.
Bartoli non dirige una polemica diretta e violenta nei confronti
del Vocabolario o nei confronti dell’autoritarismo arrogante
dei grammatici. Bartoli, riesaminando i testi del Trecento su
quale si fonda il canone di Salviati, dimostra che proprio lì si
trovano oscillazioni che possono far dubitare della perfetta
coerenza di quel canone grammaticale. Bartoli non segue uno
schema sistematico. È molto ironico nei confronti di ogni
forma di rigorismo grammaticale. Considera che le parole
antiche, trovate nei vecchi scrittori debbano essere guardate
con venerazione, ma non toccate. L’opera principale del Bartoli
non è però quella linguistica, ma una monumentale Istoria
della compagna di Gesù (pubblicata dal 1650 al 1673), in cui
descrisse anche i quadri geografici esotici (come il Giappone e
la Cina) in cui si erano svolte le attività missionarie dei suoi
confratelli gesuiti. Bartoli, che non viaggiò mai, utilizzò per i
suoi scritti i lavori di quelli che erano stati effettivamente in
missione e materiali di archivio.

Le edizioni 1623 e 1691 del Vocabolario; sviluppo della


Crusca e della cultura linguistica toscana

La seconda edizione uscì nel 1623; analoga alla prima,


salvo per una piccola serie di aggiustamenti e per alcune
correzzioni e aggiunte. La terza edizione, stampata a Firenze
(non più a Venezia), nel 1691, si presenta diversa fin
dall’aspetto esterno: tre tomi invece di uno, con un aumento di
materiale. La terza edizione fece un salto quantitativo notevole,
consolidando il primato dell’Accaddemia di Firenze nel campo
della lessicografia. Si diede importanza al linguaggio e incluse
tra l’altro Galileo tra gli autori spogliati. Molte sono le novità
rispetto alle precedenti edizioni. Si fece ricorso con larghezza
all’indicazione V.A.(voce antica), per segnalare le voci
introdotte nel vocabolario per il semplice scopo storico-
documentario. Queste voci non dovevano servire come
modello, ma come strumento per facilitare la lettura degli
scrittori antichi (si trattava di quelle voci, che a giudizio degli
accademici, non avevano più alcuna vitalità e se ne
sconsigliava l’uso). Si diedde uno spazio maggiore a voci non
documentate nell’epoca d’oro della ligua italiana (il Trecento)
che risultavano dall’uso degli autori moderni: Caro, Firenzuola,
Guicciardini, Varchi come: avvertenza, barare, drammatico,
esangue, neutralità, peculiare, prefazione, ecc. Per la svolta
innovatrice del Vocabolario si deve ricordare anche la serie di
voci attestate da scrittori di scienza del Seicento. Tra queste:
microscopio, occhiale, parallelipipedoedizione (encorroide).
Tra altri autori inseriti nel Vocabolario della Crusca come:
Michelangelo Buonarotti, Jacopo Sannazzaro, Baltassar
Castiglione ecc., si deve ricordare T. Tasso (così si corregge
un’ingiusta condanna. L’ambiente fiorentino era ostile agli
eccessi del Barocco e il Marino è escluso.

Il linguaggio della scienza. Galileo e il linguagio della


scienza

La prosa del Seicento deve molto allo sviluppo del


linguaggio scientifico che raggiunse meriti elevati a causa di
Galileo che aveva scritto in italiano da quando aveva 22 anni e
aveva composto il saggio La bilancetta, ma il suo
insegnamento universitario a Padova fu in latino. A Galileo
non mancò la fierezza della propria lingua toscana in quanto
figlio di quella regione. Nell’opera di Galileo la scelta del
volgare risultò prevalente, il latino assunse la funzione di
termine di confronto negativo, a cui rivolgersi per polemizzare;
questo è evidente nel Saggiattore (1623), dove sono riportate le
tesi dell’anniversario scritte in latino e respinte poi in italiano,
così da dar vita a un continuo dialogo tra le due lingue, come
due visioni della scienza, direttamente messe a confronto.
Galileo non si collocò al livello basso-popolare, ma raggiunse
un tono elegante e medio, adatto alla chiarezza terminologica
che lo distingue dalla prosa favolosa e profetica di autori come
G. Bruno e Campanella. Mostrò in alcuni suoi scritti alcune
“macchie” di ligua toscana viva e parlata e non rinunciò al
sarcasmo, al paradosso e agli scherzi. B. Migliorini ha messo in
evidenza termini per i quali Galileo ha provato a fissare il
significato in maniera univoca. Galileo evita di introdurre
terminologia inusitata o troppo colta, evita di utilizzare il greco
e il latino. Preferì parole semplici e italiane e respinse gli
eventuali tecnicismi greci e latini già esistenti. Le
denominazioni dotte, analoghe a telescopio, tuttavia ebbero
fortuna; i grecismi si affermarono nel linguaggio della scienza
fin dal sec. XVII e ancora oggi costituiscono un patrimonio
importante. Tra i grecismi che si diffusero a partire dall’inizio
del Seicento, con circolazione internazionale, si può citare: il
microscopio, il termometro, il barometro (si chiamava
inizialmete “tubo di Toricelli”, dalle esperienze condotte
dall’allievo di Galilei).
Però poi, la tendenza del linguaggio scientifico
moderno era al cultismo e al grecismo. Redi e Megalotti, autori
toscani, sono esempi notevolissimi di prosa scientifica del
Seicento. Francesco Redi si occupò delle famose esperienze
sulle vipere e sui vermi, oltre che una serie di osservazioni su
animali e piante; è uno dei fondatori della biologia moderna.
Redi divideva la propria attività tra il settore scientifico e
quello umanistico. Megalotti si occupò sempre di biologia.

Il melodramma

Questo genere era nuovo, nato tra il Cinquecento e il


Seicento, e destinato a grande successo nel XVII. Il
melodramma permette di affrontare la questione del rapporto
tra parola e musica, così come fu posto dai teorici del tardo
Rinascimento, nell’ambito della riflessione sull’antica tragedia
greca; il melodramma del primo Seicento fu un tentativo di
ricreare la tragedia antica, che si immaginava che fosse stata
eseguita dai greci con l’accompagnamento del canto. Il
melodramma nacque anche dalla volontà di non sacrificare il
testo del libretto alle esigenze della melodia. Il rapporto tra
musica e poesia non era una novità; si trattava di un fenomeno
documentato fin dal Medioevo (molte poesie di Dante erano
destinate a essere cantate). Nel Rinasciemento, poi, aveva
assunto una particolare importanza la forma del madrigale.
Tasso, ad esempio, scrisse molte poesie destinate alla musica e
al canto, e altre volte i versi furono impiegati per la musica,
anche se erano nati in un contesto diverso.
Il rapporto tra la musica e la poesia era stretto; anche
un teorico, come il fiorentino Vincenzo Galilei (il padre di
Galileo), autore del Dialogo della musica antica (1581), cita
componimenti di Petrarca tra gli esempi di testi musicati e
musicabili. Quindi, il canto fu un ulteriore canale di diffusione
dei modelli della prosa letteraria italiana. Il teatro del
Cinquecento, almeno fino a quel momento, era stato recitato,
non cantato, e la musica era rimasta confinata tra gli intermezzi.
La nascita del melodramma avvenne nel 1600, con la
rappresentazione dell’Euridice, in occasione delle nozze di
Maria dei Medici. La collocazione nell’ambito delle feste di
corte non va trascurata: il melodramma si caratterizza come un
tipo di spettacolo d’élite, perchè forma un divertimento che
richiede scenografie e preparazioni sceniche dispendiose. Il
successo della nuova forma artistica fu subito grande, con
risultati valorosi a Mantova e a Venezia. Il linguaggio poetico
del melodramma all’inizio del secolo si inserisce nella linea
della lirica petrarchesca e tassiana. Questo linguaggio poetico
si diffuse ulteriormente attraverso il melodramma, in cui si
accentuò la propensione per la poesia cantabile, per i versi
brevi, per le ariette, in una linea che attraverso trasformazioni
progressive, conduce da Tasso verso il gusto di Metastasio, nel
secolo XVIII.

Il linguaggio poetico barocco. Elementi innovativi

Con Giambattista Marino e il marinismo, a partire


dall’inizio del Seicento, le innovazioni si fanno più accentuate
che nel Tasso. Gli oggetti poetici diventano sempre più
numerosi rispetto alla tradizione, però si rispettano ancora le
convenzioni; ad esempio, gli schemi metrici e le cadenze
ritmiche sono ancora quelle petrarchesche. Nel settore del
lessico agiscono le spinte innovative che allargano
considerevolmente le possibilità di scelta. La poesia barocca
estende il reppertorio dei temi e delle situazioni che possono
essere assunte come oggetto di poesia e il rinnovamento
tematico comporta un rinnovamewnto lessicale, presente anche
là dove il contenuto resta maggiormente legato alla tradizione.
Sono notevoli i riferimenti botanici. Proprio Marino pone
accanto a rosa (il fiore barocco per eccelenza), una serie di
piante diverse (esempio: l’amaranto, la bella clizia, la palida
ed esague violetta, il fresco bianco, ambizioso
giglio, l’anemone, il fiordaliso, il narciso, il biondo e
vivace croco, il tenero ligustro, il papavero, i garofani, ecc.).
La poesia barocca utilizza un’ampia gamma di animali. Nel
Marino troviamo: il pardo leggiadro, il fiero leone, la leonza
invitta, la libica pantera, ilserpe, la lepre, il daino,
l’elefante, l’ippopotamo, l’orso, la giovenca, il pavone, il
pettirosso, il rossignolo, la civetta, il grillo, la cicala, la
formica, il gallo, la mosca, l’acquila, il cigno, il falcone, il
parpaglione, la farfalla, il baco das seta, il ragno, la lucciola,
con una estensione verso il regno degli insetti, e si deve
pensare che nel XVII secolo, la prosa scientifica si dedicava
alla descrizione del regno animale nelle sue forme più minute,
con l’aiuto del microscopio e dell’occhialino, volgendo
l’attenzione verso i vermi, le crisalidi. Marino è il
caposcuola della poesia barocca.
Nell’Adone ci sono alcune ottave in cui lo scrittore, in una
complessa allegoria, introduce l’anatomia del corpo umano e
adopera termini anatomici per tentare una descrizione, mai
sperimentata prima in poesia, dell’occhio, dell’orecchio, del
naso e del funzionamento di questi organi. Il lessico
dell’anatomia viene per celebrare i “sensi” e “la macchina”
umana. Altre ottave dell’Adone utilizzano la descrizione della
luna fatta da Galileo e arriva fino a fare l’elogio del “picciol
cannone con i suoi due cristalli” (il cannocchiale galileiano).
La scienza ha cosi una sorta di riconoscimento da parte della
letteratura. La presenza del lessico scientifico nella poesia di
Marino conferma dunque la tendenza al rinnovamento,
attraverso vari procedimenti tra cui si può ricordare
l’inserimento di forestierismi e di parole provenienti dalla
tradizione comica. Nella lingua poetica dell’Adone entrano
inoltre alcune parole recenti, come canario, balletto allora di
moda. Tra le nuove parole usate si trovano: tavolini, gabinette
(nel senso di “cabinet” francese, cioè “stipo”, mobile a cassetti,
mentre in Italia, nel Seicento, si affermava il significato di
“camera intima”e “camera segreta”, in senso politico).
Vengono usati cultismi, grecismi, latinismi di provenienza
scientifica, si possono citare tutti i tecnicismi dell’anatomia,
della chiromanzia, dell’equitazione. Il lessico si allarga e muta
il ristretto catalogo petrarchesco. L’innovazione delle immagini
della poesia barocca, nella sua capacità di toccare elementi e
oggetti insoliti o oggetti soliti in modo insolito. Lo stile dei
marinisti è pieno di metafore. La figura principale della lirica è
la donna. L’immagine ideale della donna lascia posto a fantasie
erotico-sadiche: la bella frustrata, la bella che assiste a
un’esecuzione capitale; l’immagine stessa della donna si
deforma o si caratterizza attraverso imperfezioni: la donna
brutta ingioiellata, la bela nana, la bella con i capelli rossi, la
bella balbuziente, la bella con gli occhialli, la bella lavandaia,
la bella filatrice di seta, la bella ricamatrice, la bella che si fa
monaca.
Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro è il
trattato più significativo per intendere la poetica del barocco.
Molte parti di questo libro, oltre che fornire una serie di
riflessioni di carattere letterario, toccano problemi di natura
linguistica. È una polemica contro il dogmatismo grammaticale
e contro l’autorità pedantesca. Si tratta di una concezione della
lingua intesa come qualcosa di libero, destinato a mutare nel
corso del tempo. Le parole nascono, crescono e muoiono.
Secondo Tesauro, lo scrittore è libero di sottrarsi alle
convenzioni grammaticali, è legitima la violazione della norma,
purchè sia fatta consciamente, da parte di chi conosce la sua
esistenza. Tesauro contrappone la cacofonia alla cacozelia; la
cacofonie è il cattivo suono, è un vizio di forma; la cacozelia è
il difetto, non meno grave, di quelli che errano per essere
troppo differenti verso le norme artistiche convenzionali. Sono
stigmatizzati il conformismo e la banalità. Anche le parole
straniere, definite “barbarismi” dai puristi, se utilizzate con
abilità, diventano “eleganze” e anzi, le paole forestiere hanno
un effetto migliore di quello che si incontra nell’idioma di cui
provengono. Questo elogio dell’imprevedibilità, dell’originalità
e della libertà non poteva andare d’accordo con il
tradizionalismo della Crusca. La poesia barocca non fu ben
vista a Firenze. Secondo Tesauro, la maturità della lingua
italiana comincia nel XVI (e non certo nel Trecento); la lingua
moderna risulta migliore di quella antica. Diverse pagine del
Cannocchiale aristotelico discutono alla luce delle teorie di
Airstotele sulla metafora.Aristotele, nella Retorica, aveva
accennato alla metafora come a uno strumento di effettiva
conoscenza della realtà; la trattatistica barocca considerò la
metafora il punto di riferimento dell’attività poetica, diretta
conseguenza dell’argutezza, frutto di un ingegno distinto della
semplice capacità razionale dell’uomo. Secondo Tesauro, la
poesia consiste in qualche cosa di simile alla follia; anche i
malati sono eccezionali fabbricatori di metafore e di simboli
come i poeti.
La predicazione religiosa nel Seicento

La predicazione barocca presenta una serie di costanti:


forte uso di esclamazioni, interrogazioni, invocazioni, di
elencazioni; nel lessico si instaurano giochi di rima,
alliterazioni, assonanze. Esempio: I discorsi sopra le sette
parole di Cristo in croce: “Per questo ogni giorno (Dio) crea,
genera, forma, governa, regge, misura, pesa, compatisce,
distribuisce, divide, tempra, ordina, abbellisce, remunera,
castiga, esalta, abassa, punisce, premia, provede, salva, sava,
giustifica, gratifica, santifica, glorifica, comanda, opera, vuole,
può, fa, sa, ha e niente è che non faccia”.
Nel Seicento, le raccolte di prediche, sotto il titolo di
Panegirici, Quaresimali e simili, furuno pubblicate in quantità
enorme, superiore a qualunque altra epoca precedente o futura.
I titoli stessi di alcune orazioni sacre del Seicento mostrano un
gusto non troppo lontano dal marinismo: La caduta sublime,
L’orrore dilettevole, La perdita vittoriosa, La debolezza
triomfante, La povertà doviziosa, La miseria felice, La sterilità
feconda, La saggia pazzia, La pace guerrierra (risulta una
ricerca esacerbata dell’ossimoro).
Nel quadro della predicazione secentesca occupa un
posto particolare il padre gesuita Paolo Segneri, perchè gli fu
riconosciuta l’autorità linguistica dei compilatori della terza
edizione del Vocabolario della Crusca. Segneri fu il più famoso
predicatore del XVII secolo. Si rivolgeva non tanto a un
pubblico cittadino, più colto, in grado di apprezzare le
raffinatezze della retorica ecclesiastica, ma alle masse rurali.
Predicò anche nelle città, ma il suo vero pubblico fu quello
popolare. Segneri inventò le “missioni rurali” che consistevano
nel raggiungere un pubblico trascurato, gente di campagna, che
abitava nelle località lontane, sperdute, nelle parrocchieisolate.
La grande affluenza popolare alle sue prediche contribuisce
anche alla diffusione dell’italiano, per l’influenza sulla
conoscenza passiva della lingua.
Nella chiesa dunque si doveva affrontare “la questione
della lingua” per prendere le diffese del toscano. Riflessi di
questo dibattito si trovano nel trattato L’Arte di predicar bene
di Paolo Aresi, che era un diffensore della dignità del volgare.
Aresi non ignora l’esistenza della predica pronunciata in
dialetto, in lombardo, napoletano, fiorentino (che è posto alla
pari delle altre lingue locali). La situazione proposta è quella
dell’italiano comune che si stacca dall’italiano popolare, ma
evita di avvicinarsi al fiorentino.
Le reazioni alla poetica del Barocco

Alla fine del Seicento con la fondazione dell’Arcadia


(avvenuta a Roma nel 1690), si ebbe una reazione alle
concezioni poetiche del Barocco in nome di un rinnovato
classicismo, e in nome della razionalità della poesia. Marino fu
destinato a diventare il simbolo di una stagione da condannare.
Alla fine del Seicento si sviluppò il giudizio sul “cattivo gusto”
del barocco. Questo giudizio fu poi costantemente ripetuto agli
illuministi del Settecento. La reazione antibarocca si ebbe in
Francia prima che in Italia (che condannava anche la letteratura
della Spagna). Solo il francese aveva diritto di raggiungere lo
statuto di “lingua della nuova comunità politico – intelettuale
europea” come “proiezione espressiva di una società e di uno
stato, quello del Re Sole”. La lingua italiana (che era stata una
delle principali lingue di cultura nel Cinquecento e nel
Seicento), veniva incapace di esprimere in modo ordinato il
pensiero umano, strumento della lirica amorosa e del
melodramma (il genere teatrale che dall’Italia si era imposto
all’estero). Emergeva per la prima volta una questione legata al
problema del “genio delle lingue” di cui si sarebbe dibattuto a
lungo nel Settecento. Solo nei primi anni del secolo successivo,
diversi intelettuali (Orsi, Ludovico Antonio, Muratori) si
preoccuparono di difendere la lingua italiana.

IL SETTECENTO

Alla fine del Seicento, le lingue di cultura che potevano


mirare a un primato internazionale erano tre: il francese,
l’italiano e lo spagnolo. Tra queste, lo spagnolo era in fase
calante avendo avuto la sua grande stagione nel Cinquecento o
nella prima metà del Seicento. Quanto alle altre lingue
dell’Europa, nel Settecento non ha nessun rilievo il portoghese
che pure era stato strumento di comunicazione nel Cinquecento
per mercanti e viaggiatori in terre esotiche. Le lingue slave non
erano nè conosciute nè apprezzate. Il tedesco e l’inglese
avevano una posizione marginale. L’inglese contò poco
all’estero fino all’inizio dell’Ottocento, tanto per motivi di
scarsa popolarità nele corti europee, quanto per i caratteri non
agressivi (verso l’Europa almeno) della politica e della cultura
britannica alla fine del Seicento. La cultura inglese, pur di
eccezionale importanza (per esempio nel settore della filosofia)
si diffuse in genere attraverso le traduzioni francesi. Sul
tedesco, invece, correvano giudizi piuttosto negativi. Le
testimonianze mostravano che del tedesco si poteva benissimo
fare a meno anche viaggiando e soggiornando nei paesi di
lingua germanica. (Voltaire, nel 1750, scrive da Postdam
dicendo di aver l’impressione di essere in Francia e osserva
che lì si parla francese dovunque, mentre il tedesco serve solo
per i soldati e per i cavalli. L’idea generale, comune, era che il
tedesco aveva uno status culturale insufficiente. Solo con il
Romanticismo, all’inizio del XIX secolo, il tedesco ottenne un
riconoscimento generale, e la cultura tedesca si organizzò
utilizzando finalmente la propria lingua nazionale. Nel
Settecento, invece, prevaleva ancora un cosmopolitismo che
privilegiava il francese. La lingua di comunicazione elegante
da usare con i viaggiatori stranieri nei territori di lingua tedesca
era il francese; però anche l’italiano aveva una posizione di
prestigio, sopratutto a Vienna, dove era lingua di corte (e
Metastasio nel suo lungo soggiorno a Vienna non sentì la
necessità di imparare il tedesco, così come Da Ponte, librettista
di Mozart).
Anche a Parigi, l’italiano era abbastanza conosciuto,
come lingua di salotto e per le donne, corredo della buona
educazione delle fanciulle aristocratiche (però chi si trasferisce
a Parigi, come Goldoni, necessariamente, perfeziona il proprio
francese). La conoscenza del francese è assoluttamente
necessaria, però, a chi resta anche tutta la sua vita in Italia.
Scrivere in francese significava non solo essere alla moda, ma
anche essere intesi dappertutto senza bisogno di traduzioni,
vantaggio non di poco conto. Goldoni scrisse le memorie in
francese e certe commedie. Giacomo Casanova scrisse le
memorie in francese. In certi casi, il francese veniva usato da
scrittori dell’Italia settentrionale per appunti privati, per
annotazioni diaristiche, per abbozzi e anche per lettere ad amici,
parenti, conoscenti, si trattava soltanto di una libera scelta di
gusto e di costume. Un’opera fondamentale per la cultura del
Settecento come l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert ebbe
due ristampe in Italia, a Lucca e a Livorno, che furono in
francese, non in traduzione italiana; però quest’opera era
rivolta a un pubblico d’élite. Dalla Francia non venivano
soltanto turisti o avventurieri, ma una folla di professionisti ben
accettati in Italia, come parucchieri, cuochi, maestri di danza e
di lingua, predicatori, artisti, compagnie teatrali (o “truppe”,
come si diceva allora). Era inevitabile che una diffusione della
lingua, della moda e della cultura di Francia avesse
conseguenze importanti sul piano linguistico. Un luogo
comune asai fortunato voleva insomma che il francese fosse la
lingua della chiarezza , l’italiano la lingua della passione
emotiva, della poesia e della musicalità. In uno dei più famosi
manuali del Settecento per imparare l’italiano, rivolto al
pubblico francese, l’autore, Francesco Antonini, scriveva che il
toscano era lingua dolcissima adatta in maniera speciale alla
delicatezza delle dame. L’italiano, dunque, era lingua dolce e
poetica, ma scarsamente razionale. L’ordine naturale degli
elementi della frase veniva identificato (da molti, ma non da
tutti gli studiosi) nella sola sequenza “soggetto – verbo –
complemento”, caratteristica dlla lineare sintassi francese, lo
specchio del pensiero.
L’italiano, per contro, era caratterizzato da una grande
libertà nella posizione degli elementi del periodo, questo
veniva considerato da alcuni un difetto “strutturale”. L’italiano
era impopolare, non si prestava alla conversazione familiare.

L’influenza della lingua francese

La penetrazione della moda e del gusto francese in


Italia fu nel Settecento massiccia: “si copiarono
l’abbigliamento civile e militare, le abitudini gastronomiche, i
passatempi, i caratteri della comunicazione epistolare, le
legature dei libri, la struttura e l’arredamento delle abitazioni,
lo stile dei giardini, i mezzi di tresporto. Tutto questo ha
specificato una penetrazione considerevole di francesismi della
lingua italiana che preoccuparono molto i puristi. I francesismi
sono più facilmente rintracciabili nei settori seguenti: la moda,
la politica, la diplomazia, l’esercito, la marina, il diritto,
l’amministrazione, la burocrazia, la letteratura e le belle arti,
l’economia e il commercio, la filosofia e le scienze. Per la
precisione, la parola dettaglio è un francesismo (ritrovato dal
Settecento nel P. Verri e Cesare Beccaria); anche il termine
moda è un gallicismo, stofa è un francesismo, poi
abbigliamento, come cravatta. Prestiti non adattati ancora
viventi nell’italiano di oggi sono toilette e coiffure. Mai come
in questo secolo si osserva il rapporto stretto tra lingua e
cultura. In campo scientifico, una vera e propria rivoluzione è
segnata dal diffondersi della nuova terminologia della chimica,
la quale arriva dalla Francia, attraverso gli studi di Lavoisier,
nella metà del secolo XVIII: oxigène, azote, hydrogène, oxide
(da basi lessicali greche). Alcuni grecismi arrivano in italiano
attraverso la lingua francese come: ellenista, energico,
epidemico, erotico, pederasta, elettrico.

Il dibattito linguistico settecentesco

Un secolo di rinnovamento come il Settecento si


caratterizza anche per il dibattito teorico della lingua. Rinunzia
avanti notaio al Vocabolario della Crusca scritta da
Alessandro Veri, a nome dei redattori della rivista milanese “Il
caffè”, che mostra una grande insofferenza nei confronti
dell’autoritarismo fiorentino, ma non può essere considerato un
vero manifesto teorico; è un eficace panfletto sarcastico.
La posizione che meglio esprime gli ideali dell’Età dei
lumi nei confronti di una tradizione conservatrice è espressa
alla fine del secolo da Melchiore Cesarotti nel Saggio sulla
fiosofia delle lingue (1800), un grande trattato, che merita di
essere collocato sul piano del De vulgari eloquentia di Dante,
delle Prose di Bembo e dell’Ercolano di Varchi.
Cesarotti ha potuto trovare un posto di grande rilievo tra i
“predecessori” dei moderni linguisti. Il trattato era applicato
alla situazione italiana, ma conteneva un sistema
universalmente valido, fondato su di una concezione generale
del linguaggio elaborata sulla base di idee diffuse nel
Settecento dalla cultura sensista francese (il “sensismo” è una
dottrina settecentesca di ispirazione materialista, riferita alla
conoscenza attraverso i “sensi”, maturata attraverso il pensiero
di filosofi come Locke e Condillac). Le idee di Cesarotti sono
molto moderne.
Il saggio sulla filosofia delle lingue si apre con una
serie di anunciazioni teoriche sintetizzabili nel modo seguente:
1) tutte le lingue nascono e derivano; all’inizio della loro
storia sono “barbare”, ma tutte servono ugualmente
bene all’uso della nazione che le parla;
2) nessuna lingua è pura; tutte nascono dalla composizione
di elementi vari;
3) tutte le lingue nascono da una combinazione casuale,
non da un progetto razionale;
4) nessuna lingua nasce da un ordine prestabilito o dal
progetto di un’autorità; ogni lingua si sviluppa
attraverso il consenso dei parlanti; è dunque la
maggioranza a governare la lingua. Quest’ultimo
principio è di estrema importanza, perchè riconosce la
socialità quale fondamento della comunità linguistica.
5) Nessuna lingua è perfetta, ma tutte possono migliorare;
6) Nessuna lingua è tanto ricca da non aver bisogno di
nuove ricchezze;
7) Nessuna lingua è inalterabile;
8) Nessuna lingua è parlata in maniera uniforme nella
nazione.
Cesarotti affronta il problema della distinzione tra lingua
orale e lingua scritta; la lingua scritta ha una superiore dignità,
in quanto momento di reflessione e strumento con cui operano i
dotti. La lingua scritta, secondo Cesarotti, non dipende dal
popolo, ma neanche dipende “ciecamente” dagli scrittori
approvati; non può essere fissata nei modelli di un certo secolo
e non dipende dal “tribunale” dei grammatici. Sono idee
modernissime. Altre sezioni dell’opera (per esempio quelle
relative alla formazione del linguaggio e al significato
simbolico dell’onomatopea sono piuttosto distanti dal pensiero
degli studiosi del nostro tempo.
La terza parte del Saggio ha obiettivi molto prattici.
Cesarotti indica la strada per una normativa “illuminata” da
contrapporre a quella troppo rigida della Crusca. Non vuole
una libertà da ogni musica. Riconosce il valore dell’uso,
quando esso accomuna scrittori e popolo; chi scrive non deve
guardare a un passato morto e sepolto. Gli scrittori sono liberi
di introdurre termini nuovi, o di ampliare il senso dei vecchi; i
termini nuovi possono essere introdotti per analogia con quelli
già esistent, per derivazioneo per composizione. Un’altra
possibile fonte di parole possono essere i dialetti italiani, anche
se stanno in posizione subalterna rispetto alla lingua toscana.
Cesarotti ammette anche che possono essere adottate
parole straniere, ma questa scelta è presentata con estrema
cautela, come un male necessario. Tratta la questione delle
parole latine e dei grecismi. Propone una diminuzione del
numero dei grecismi nel linguaggio scientifico: gli pare meglio
scegliere sonnifero che narcotico, accidente che sintoma.
Toccare il problema dei latinismi e dei grecismi era un modo
per affrontare il tema più spinoso dei forestierismi provenienti
dalle lingue moderne e soprattutto dal francese. Secondo
Cesarotti, i forestierismi e i neologismi, una volta entrati
nll’italiano, possono produrre nuove derivazioni.
Il “genio della lingua”, inteso come carattere originario
tipico di un idioma e di un popolo (spiegato come effetto di
condizionamenti esterni, quali il clima, il governo, le
condizioni economiche ecc.). Cesarotti propone un duplice
concetto di “genio”, grammaticale e retorico. La struttura
grammaticale delle lingue è inalterabile. Il confronto tra
italiano e latino mostra la separazione tra le due lingue e come
l’una deriva dall’altra. Il lessico invece dipende dal genio
retorico, che riguarda l’espressività della lingua stessa. In
questo settore, tutto è alterabile: prestiti, traslati, derivazioni
sono legitimi. I forestierismi non guastano la lingua.
La parte IV del Saggio, a conclusione del trattato, è
dedicata ad esaminare la situazione italiana e a proporre
soluzioni positive alle polemiche della questione della lingua.
La parte più importante sono le conclusioni, dove si affronta il
tema del rinnovamento della lessicografia. Risulta così la
novità del progetto finale del libro, con la proposta di una
magistratura della lingua, attraverso una riforma che con
equilibrio e moderazione esprimesse “il consenso pubblico”
che sta alla base del pensiero di Cesarotti: La lingua è della
nazione, e proponeva di istituire un Consiglio nazionale della
lingua, al posto della Crusca (si deve sapere che la Crusca era
stata fusa, dal 1783, con l’Accademia fiorentina e fu poi
rinnovata da Napoleone nel 1811).

Le riforme scolastiche

Nel Settecento, l’italiano entra veramente nella scuola,


in forma ufficiale. Anche prima c’erano scuole in cui si
insegnava a leggere e a scrivere in volgare, presso le parocchie
e alcuni ordini religiosi.
Nel 1734 venne definitivamente istituita a Torino una
cattedra universitaria di “eloquenza italiana e greco” che
divenne il punto d’avvio di una politica di sviluppo della scuola
italiana, una scuola in cui si leggevano modelli di prosa “nobili
e antichi” (come Boccaccio).
Le riforme scolastiche favorivano la diffusione di una
serie di strumenti, grammatichette, antologie, manualetti. A
Modena, poi, nel 1772, si prescriveva l’uso di libri
esclusivamente italiani, non latini. Si ebbero riforme
scolastiche anche a Napoli e a Parma.
Altre voci si levarono nel Settecento contro l’abuso del
latino nell’educazione dei bambini. Si insisteva sul fatto che ai
giovani delle classi medie e popolari serviva una cultura più
legata alle esigenze dei commerci e delle attività pratiche.
L’uso della lingua italiana continuò, anche in questo
secolo, ad essere in sostanza un fatto d’élite. Il toscano era
sempre una lingua “d’occasione”, adatta alle situazioni ufficiali,
ai libri, ma poco adatta alle situazioni familiari, alla
conversazione, ai rapporti confidenziali. Lo spazio della
comunicazione familiare era sostanzialmente occupato dai
dialetti; la lingua italiana era scritta, ma poco parlata. Solo i
toscani si trovavano in posizione di vantaggio, perchè nella
loro regione, lingua scritta e parlata coincidevano quasi
perfettamente. Nelle occasioni solenni, orazioni, prediche,
predominava l’italiano scritto, cioè la lingua di tipo letterario e
di registro alto.
Nei tribunali veneti, le arringhe si fanno in veneto
illustre o in un italiano misto di veneto, di cui Goldoni, che era
lui stesso avvocato, ha lasciato un interessantissimo esempio
nella commedia L’avvocato veneziano .
Linguaggio teatrale e melodrammatico

Il successo dell’opera italiana è nel Settecento molto


grande, anche all’estero. Questo successo della lingua italiana
nell’opera per musica contribuì a fissare lo stereotipo
dell’italiano come lingua della dolcezza, della cantabilità, della
poesia, dell’instinto, della piacevolezza (lingua delle maschere,
dei buffoni, a causa anche del successo della Commedia
dell’Arte).
Quando era necessario usare tecnicismi di qualunque
tipo, immediatamente l’italiano entrava in crisi. Nella sua
forma positiva, invece, il giudizio sul linguaggio del
melodramma portava anche all’estero una valutazione
favorevole delle opere italiane. Il linguaggio dell’opera
influenzò anche l’italiano imparato da alcuni stranieri; celebre
è il caso di Voltaire che scirve lettere in cui entra lessico
melodrammatico e aulico. Quanto ai poeti di lingua toscana,
l’italiano diffusissimo a Vienna, Dresda, Salisburgo, ebbe un
nuovo successo con il trionfo dell’opera italiana a Vienna, con
Metastasio.
Anche Mozart conosceva l’italiano e lo adoperava in
forme curiose e vivaci che scendono verso il familiare, il
popolare, il triviale e il giocoso, mescolando a volte italiano,
tedesco e persino francese e latino. Mozart utilizzò libretti
scritti dall’italiano Da Ponte (Le nozze di Figaro, Così fan tutte)
e anche si interessò a testi di Goldoni.

Il linguaggio poetico. L’Arcadia

L’Arcadia fu fondata a Roma nel 1690: fu un


movimento con diffusissime colonie organizzate in ogni centro
italiano, anche nelle piccole località di provincia.
Questa grande stagione poetica, in termini quantitativi,
ebbe come strumento una lingua sostanzialmente tradizionale,
ispirata al modello di Petrarca e preoccupata di liberarsi degli
eccessi della poesia barocca, allontanandosi dal gusto per
l’anormale e per lo straordinario che aveva caratterizzato il
secentismo. Nel linguaggio della poesia del Settecento esiste
una sostanziale adesione al passato, visibile anche nell’impiego
fino alla sazietà della toponomastica e onomastica classica,
della mitologia, con largo uso di latinismi e arcaismi.
Tra i procedimenti vistosi della poesia del Settecento, a
cominciare da quella di Metastasio, sono i troncamenti,
specialmente quelli del verbo all’infinito (arrossir, parlar ecc.);
si usa molto l’enclisi, come distintivo del linguaggio poetico:
vadasi, parmi, rimanti; largo uso di epiteti (per esempio, Parigi
diventa “gallica Atene”). In Metastasio, la composizione
musicale diventa un’arietta nella quale trovano posto anche
massime e proverbi la cui memorizzazione era facilissima.
Metastasio ha un linguaggio semplicissimo, sia nella sintassi
che nella scelta del lessico. I troncamenti, gli abbondanti
arcaismi e latinismi hanno hanno lo scopo di distinguere la
poesia dalla prosa. Tra due termini si tende dunque a scegliere
quello più raro e letterario: duolo piuttosto che dolore, talamo
piuttosto che letto.
Sono caratteristiche che resteranno a lungo nel
linguaggio poetico italiano e che resisteranno anche
nell’Ottocento, fino al crepuscolarismo. Il Settecento è
probabilmente il secolo in cui il linguaggio si stabilizza. La
poesia del Settecento affronta temi nuovi: la poesia didascalica
e la poesia morale.
La poesia didascalica è ispirata ad una costante
nobilitazione dettata attraverso scelte lessicali tradizionali
(termnini tecnico-pratici che rinviano alla vita quotidiana:
ciocolatta, ipocondria, pastiglia, ventaglio) deve affrontare le
novità della scienza. Questo tipo di poesia ha una certa fortuna
nel Settecento, in quanto incarna ideali di divulgazione e di
progresso e celebra i successi della ricerca scientifica, come
nell’ Invito a Lesbia Cidonia di Mascheroni, dove Lesbia
Cidonia viene guidata a visitare i laboratori dell’Università di
Pavia.
La prosa letteraria comprende la prosa saggistica del
Settecento, che si avvia verso una sostanziale semplificazione
sintattica. Scienziati e tecnici appaiono in prima linea. Molti
scriventi invocano il confronto salutare con la tradizione
francese o inglese. Lo fa, fra gli altri, Alessandro Verri in un
intervento sui Difetti della letteratura pubblicato sul “Caffè”.
Dichiara qui la propria ammirazione per l’ordine della scrittura
francese e per la brevità della scrittura inglese. Lamenta la
“penosa trasposizione” dello stile italiano, “la vanità” dei
vocaboli selezionati in base a criteri retorico – formali. Da una
parte i riformatori desideravano uno stile moderno, libero;
dall’altra, non riuscivano a realizzare questo stile e molte volte
ci rinunciavano. La tradizione italiana (il fiorentinismo
cruscante) rendeva difficile lo scrivere piano; quasi tutti
invidiano inglesi e francesi per la loro lingua agile, priva di
inversioni sintattiche. L’obiettivo della chiarezza veniva
perseguito dagli illuministi non sempre con successo e il
risultato non era sempre uno stile “bello”.
La prosa di Giambattista Vico

Da giovane, Vico aveva aderito al capuismo, al


movimento arcaizzante del filosofo e scienziato napoletano
Leonardo di Capua che imitava fedelmente i modelli toscani
antichi. Nella Scienza Nuova di Vico si riconoscono arcaismi e
latinismi in una sintassi che spesso è diversa dall’armonica
struttura classicistica ricca di equilibrio cara alla tradizione
italiana boccacciana e bembiana. Si possono trovare nella prosa
di Vico delle vere e proprie cascate di subordinate, mentre
alcune “degnità” hanno la forma di pensieri brevi e lapidari.
Vittorio Alfieri volle andare controcorrente e parlò
male della lingua francese. Alfieri inaugurò anche il soggiorno
a Firenze vome pratica di lingua viva, un modello che fu poi
molto imicato nell’Ottocento. Alfieri iniziò nel 1774-1775 in
lingua francese il suo diario personale, per passare poi
all’italiano nel 1777. In una nota parla della difficoltà “somma”
che aveva nello scrivere italiano e del suo desiderio di farsi
“uno stile”. Nelle tragedie di Alfieri, lo stile si caratterizza da
un allontanamento dalla normalità, ottenuto attraverso ogni
sorta di artificio retorico, attraverso la spezzatura delle frasi.
L’asprezza e la durezza del dialogo gli venivano già
rimproverate da alcuni contemporanei, mentre altri celebravano
l’avvento di un vero autore tragico in Italia. Molto più agevole
di quella della tragedia è la lettura della Vita alfiriana, la quale
è un’avventura linguistica, perchè descrive il cammino verso la
lingua toscana di un giovane aristocratico piemontese, nato in
una regione in cui l’italiano non era di casa e in cui si parlava
spesso francese.

L’OTTOCENTO

All’inizio dell’Ottocento, anche per reazione contro


l’egemonia della cultura francese, si sviluppò un movimento
chiamato purismo. Questo termine, inizialmente nato per
polemica, indica una intoleranza per ogni innovazione, per ogni
influsso straniero, per ogni tecnicismo, per ogni neologismo,
avversione detata da motivi letterari, retorici, nazionalistici e
politici. Un tale atteggiamento ebbe per conseguenza un forte
antimodernismo e il culto dell’epoca d’oro della lingua,
identificata nel remoto passato, nel Trecento. Ne derivava un
mito del secolo XIV come epoca felice della lingua, un
disprezzo dei tempi presenti e una teoria della storia linguistica
intesa come progressiva caduta. Il capofila del purismo italiano,
il padre Antonio Cesari, veronese, autore di libri religiosi, di
novele di studi danteschi, ma sopratutto noto per la sua attività
di lessicografo e per la Dissertazione sopra lo stato presente
della lingua italiana, vero manifesto del conservatorismo
purista. Il canone della perfezione linguistica, “l’oro della
lingua” veniva esteso al di là delle opere e degli autori. Si
dichiarava di apprezzare non solo la letteratura, ma anche le
scritture quotidiane, le note contabili, i libri dei mercanti
fiorentini. Cesari non si dimostrava nemmeno in grado di
stabilire che cosa fosse quella bellezza della lingua di cui
parlava continuamente. Arrivava persino a riproporre
l’inautenticità del De vulgari eloquentia, secondo i vecchi
argomenti dibattuti nel secolo XVI, ma ormai superati e
sicuramente improponibili.
Molte sono le figure che si muovono nell’ambito di
questo movimento. Per esempio Basilio Puoti, napoletano,
tenne una scuola libera e privata, dedicata all’insegnamento
della lingua italiana, con una concezione puristica meno rigida
di quella di Cesari, più disponibile verso gli autori del
Cinquecento. Fu il maestro di allievi diventati poi celebri,
come De Sanctis e Settembrini. Entrambi ne serbarono sempre
un ricordo affettuoso. De Sanctis, nello scritto autobiografico
La giovinezza, ricorda i contenuti della scuola di Puoti: “la base
della suola era la buona e ordinata lettura di trecentisti e
cinquecentisti, i moderni vietati, massimo i poeti”. Puoti fu
autore di varie opere didattiche e di una pregevole grammatica
scolastica.
L’efficacia pratica del purismo, nella sua incredibile
durata temporale, si realizzò anche in seguito, nella seconda
metà del secolo, dopo l’Unità italiana, quando l’insegnamento
di scuole fu improntato a metodi che discendevano ancora dalle
idee di Puoti e di Cesari.

La Proposta di Monti e le reazioni antipuristiche

Lo scrittore Vincenzo Monti ebbe la forza di frenare le


esagerazioni del Purismo. Fin dal 1813, Vincenzo Monti,
maestro nell’arte del sarcasmo, dimostrò di non poter
sopportare Cesari (che deffinì “il grammuffastronzolo” di
Verona). La critica antipurista di Monti colpì anche il
Vocabolario della Crusca. Le polemiche linguistiche
compongono la serie di volumi intitolata Proposta di alcune
correzioni e aggiunte al Vocabolario della Crusca, uscita dal
1817 al 1824. Gran parte della Proposta era costituita dalla
ricerca di errori. Ludovico di Breme, intelettuale piemontese,
appoggiav la polemica di Monti contro il Vocabolario della
Crusca e contro ogni forma di purismo.

La soluzione manzoniana alla questione della lingua.Gli


scritti editi e inediti di ALESSANDRO MANZONI sulla
lingua italiana

Tra i romantici milanesi si dibatteva attorno al


problema della lingua italiana in tutto o in parte simile ad una
lingua “morta”, che si imparava dai libri, che si utilizzava per
la letteratura e per le occasioni ufficiali, valida per il piano
“nobile” della comunicazione, ma inadatta ai rapporti
quotidiani e familiari per i quali era molto più facile e
funzionale usare il dialetto, quando non addirittura una lingua
straniera come il francese.
Le idee di Manzoni, maturate nella stesura dei
Promessi sposi, divennero poi una teoria linguistica di alto
valore sociale che influì profondamente, collaborando a mutare
la situazione dell’italiano, rendendo la lingua italiana più viva e
meno letteraria o almeno offrendo un modello di letterarietà
diverso da quello tradizionale. La teoria linguistica manzoniana
segna una svolta nelle discussioni sulla “questione della
lingua”. Di questo fatto si accorsero anche i suoi
contemporanei. Solo nel Novecento è stato apprezzato
pienamente lo sforzo teorico del grande milanese. Alcune delle
sue pagine migliori e profonde stanno in una serie di carte
private, che non arrivarono alla forma di saggio organico e
definitivo; nel 1974 sono state pubblicate le cinque redazioni
del trattato Della lingua italiana (1000 pagine a stampa) su cui
Manzoni lavorò per 30 anni. In vita, Manzoni curò la
pubblicazione di interventi più brevi e occasionali, come la
Relazione (1868), la Lettera intorno al libro De vulgari
eloquentia di Dante Alighieri (1868), L’Appendice alla
Relazione (1869). Dopo la morte di Manzoni fu pubblicata la
Lettera al Casanova (1871); uscirono diversi frammenti e
manoscritti, tra i quali alcuni capitoli del libro Della lingua
italiana.
Particolarmente importanti furono i volumi IV (1891) e
V (1898) delle Opere inedite e rare. Nel 1932 fu pubblicato il
Sentir Messa, un Libro della lingua d’Italia, incompiuto.
Manzoni affrontò la questione della lingua a partire delle sue
personali esigenze di romanziere. Iniziò ad occuparsi del
problema della prosa italiana (il linguaggio poetico non era il
suo oggetto di discussione) fin dal 1821, con la stesura del
Fermo e Lucia, redazione iniziale dei Promessi sposi. Questa
prima fase viene deffinita come ecclectica, nel senso che
Manzoni cercava di raggiungere uno stile moderno mediante il
ricorso a vari elementi, utilizzando il linguaggio letterario,
accettando francesismi e milanesismi. Questa descrizione della
propria lingua letteraria fu data da Manzoni stesso nella
seconda introduzione al Fermo e Lucia del 1823, dove
lamentava la propria naturale tendenza al dialettismo,
ammettendo il provisorio fallimento. Nel Fermo e Lucia il
toscano affiora come termine di confronto.
La seconda fase, che Manzoni chiamò toscano-
milanese corrisponde alla stesura dei Promessi sposi per
l’edizione del 1825 – 1827. In questo caso, lo scrittore cercava
di utilizzare una lingua genericamente toscana, ma ottenuta per
via libresca, attraverso vocabolari e spogli letterari.
In Manzoni matura un diverso concetto di uso, legato
non più ad un eventuale lontano impiego letterario, ma alla vita
della parola in una vera comunità di parlanti. Dimostra inoltre
di essere attirato dalle concordanze tra dialetto milanese e
linguaggio fiorentino. Manzoni utilizza gli strumenti che gli
sono familiari: il dialetto e il francese per approffondire la
conoscenza del toscano. Nel 1827, Manzoni andò a Firenze e il
contatto diretto con la lingua toscana suscitò in lui una reazione
decisiva. A partire dal 1830, la riflessione linguistica di
Manzoni si sviluppò con maggior impegno, sia nelle varie
stesure del trattato Della lingua italiana, sia nel Sentir messa.
Nel 1840-1842, uscì la nuova edizione dei Promessi sposi,
corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso, resa
scorrevole, piana, purificata di latinismi, dialettismi ed
espressioni letterarie di sapore arcaico. Si trattava del
linguaggio fiorentino dell’uso colto, senza alcun ecesso di
affettazione locale, come ammisero anche gli avversari di
Manzoni, a cominciare da Ascoli.
Nel 1868, lo scrittore ormai anziano rese pubbliche in
una Relazione al ministro Broglio le ragioni per le quali gli
pareva che il fiorentino dovesse essere diffuso attraverso una
politica linguistica, messa in atto nella scuola, tramite gli
insegnanti, e proposta in forma di educazione popolare
generalizzata. Proponeva anche la realizzazione di un
vocabolario della lingua italiana, concepito su basi nuove e
aiutato da altri vocabolari bilingui, capaci di suggerire le parole
toscane corrispondenti a quelle delle varie parlate d’Italia. La
Relazione del 1868 nasceva da una richiesta ufficiale, fatta dal
ministro dell’Istruzione, Broglio, che invitava a proporre le più
efficaci strategie per diffondere l’italiano tra il popolo della
nazione. Era la prima volta che la questione della lingua si
collegava così strettamente a una questione sociale, finalizzata
nell’organizzazione della scuola e della cultura del nuovo
Regno d’Italia. Quest’ultima fase della riflessione linguistica
manzoniana coincise con una vivace polemica. Intellettuali
come Tommaseo e Lambruschini presero la distanza da
Manzoni, rivendicando la funzione degli scrittori nella
regolamentazione della lingua, esprimendo dubbi di varia
natura sul primato assoluto dell’uso vivo di Firenze. Anche
Luigi Settembrini prese le distanze da Manzoni, il quale
affermava tra l’altro: “il pensiero fa la lingua, non la lingua fa
il pensiero. Se volete una buona lingua, dovete prima fare una
buona Italia”.
La teoria manzoniana ebbe effetti rilevanti. Questo si
spiega con la forza di penetrazione dei Promessi sposi, modello
esemplare di prosa elegante e colloquiale allo stesso tempo. II
primo modello manzoniano, ispirato all’uso, diventò subito
qualcosa che si poteva imparare attraverso l’imitazione di un
modello scritto. Quel modello sembrava aver la capacità di
liberare la prosa italiana dall’impaccio della retorica.
L’esempio di Manzoni favorì la pratica del soggiorno culturale
a Firenze allo scopo di acquisire familiarità con la lingua
parlata in quella città. L’azione dei manzoniani fu assai
efficace. L’unico freno al diffondersi della teoria manzoniana
nel mondo della scuola fu probabilmente il prestigio di un
poeta – professore come Carducci, irriducibile avversario del
“popolanesimo” toscaneggiante, pronto a combatterlo con la
sua satira.

Idee guida della linguistica manzoniana negli scritti


postumi.

Il sistema teorico della linguistica di Manzoni deve


essere giudicato alla luce degli scritti postumi, soprattutto il
trattato Della lingua italiana. È evidente che Manzoni si
oppose al purismo di Cesari. Manzoni era avverso alle
teorizzazioni dei classicisti che affidavano le sorti della lingua
alla responsabilità degli scrittori, non al potere dell’uso.
La teoria dell’uso vivo di Firenze si formò nella sua
mente piano piano e solo più tardi questa meditazione si
trasformò in una proposta pubblica. Una buona parte
dell’incompiuto saggio Della lingua italiana è dedicata a
combattere le teorie di Condillac sull’origine del linguaggio.
Manzoni accettò la tesi della lingua come dono divino,
insistendo sulla sua fiducia nella narrazione della Bibbia; negò
che potesse mai esistere una società senza lingua o un uomo
senza linguaggio. L’origine della lingua gli pareva un problema
mal posto; rifiutava l’idea che il linguaggio avesse avuto
origine dalle onomatopee e dalle interiezioni, perchè questo
avrebbe implicato la nascita delle idee dalle sensazioni.
Manzoni tentava di definire la natura del linguaggio ed elaborò
il principio fondamentale dell’adeguatezza: una lingua viva è
quella che basta a dire tutto quanto si dice attualmente nella
società che si serve di quella lingua. La lingua può arricchirsi
via via; deve essere concepita come una interezza al di là
dell’uso individuale. Non è accettabile il concetto (puristico o
classicistico) di “lingua modello”, perchè la forma della lingua
non esiste se non nella lingua in atto. Le lingue sono mutabili,
come abitazioni che ripariamo mentre continuiamo a risidierci,
come edifici fatti con materiali preesistenti (sono metafore
ricorrenti nello scrittore). Il pensiero linguistico di Manzoni,
basato su questa mutabilità, rifiuta il concetto di legge, così
come contesta il valore ontologico (di conoscenza) delle
categorie grammaticali. Nella lingua l’eccezione e l’irregolarità
valgono quanto la regola, e le leggi sono “classificazioni
d’accidenti”, derivate dall’abitudine di fare classi sulla base dei
fenomeni grammaticali più vistosi, trascurandone altri.

Il vocabolario manzoniano. Novo vocabolario della lingua


italiana secondo l’uso di Firenze, il cosidetto “Giorgini –
Broglio”

La sua pubblicazione si era avviata nel 1873, dopo la


morte di Manzoni . Il Dizionario introduceva una novità: erano
aboliti gli esempi d’autore, presenti nella Crusca e nell’opera di
Tommaseo. Al posto delle citazioni degli scrittori, il Giorgini –
Broglio presentava una serie anonima, testimonianza dell’uso
generale. Nello stesso tempo venivano eliminate le voci
arcaiche.
L’Ottocento fu anche il secolo d’oro della lessicografia
dialettale.

Effetti linguistici dell’Unità politica

Al momento dell’unità italiana, nel 1861, l’Italia non


aveva raggiunto una corrispondente unità culturale e linguistica.
I territori degli ex-stati nazionali che entravano nel nuovo
organismo erano caratterizzati da differenze profonde, relative
a tradizioni, abitudini, modo di vivere, livello di sviluppo
economico e sociale. Le differenze linguistiche erano un segno
di quello che stava dietro la lingua, che è sempre il risultato
della storia e della tradizione dei popoli. Tra i vari stati italiani,
c’era soltanto un modello di italiano letterario, elaborato dalle
élites. Mancava quasi completamente una lingua comune della
conversazione che si può sviluppare in una vita civile e sociale
omogenea. In Italia questo non c’era mai stato, ne era possibile
improvvisare.
Il numero di italofoni (quelli che erano in grado di
parlare italiano) era allora bassissimo.
Tulio de Mauro è partito dall’ossevazione che al
momento della fondazione del regno d’Italia, quasi l’80% degli
abitanti era ufficialmente analfabeta, però nemmeno il resto di
20% sapeva usare l’italiano. “Alfabeta” non significava avere
un reale possesso della lingua scritta. De Mauro ha supposto
che per raggiungere una padronanza accettabile della lingua
fosse necessaria almeno la frequenza della scuola superiore
postelementare.
I toscani avevano un possesso naturale della lingua, per
la vicinanza tra il toscano parlato e l’italiano letterario. I
Romani, i cittadini della città papale, parlano un dialetto che è
molto toscanizzato e che si avvicina molto al toscano, anche se
non si identifica con esso. Toscani e romani hanno un possesso
accettabile della lingua se hanno conseguito un’istruzione
elementare. Si trattava di 600.000 italiani capaci di parlare
italiano su un totale di 25 milioni.

La scuola

Con la formazione dell’Italia unita, per la prima volta la


scuola elementare divenne ovunque gratuita e obbligatoria,
secondo l’ordinamento previsto dalla legge Casati del 1859,
che fu estesa al territorio che entrava a far parte dello stato
nazionale. La legge Coppino del 1877 rese effettivo l’obbligo
della frequenza. De Mauro ha dimostrato che questa scuola non
ebbe l’efficacia che sarebbe stata prevista per le grandi
difficoltà della scuola in un paese dalle condizioni
estremamente arretrate. Le regioni che avevano meno
analfabeti erano il Piemonte, la Lombardia e la Liguria. In certi
casi i maestri usavano il dialetto per tenere le lezioni, essendo
incapaci di fare meglio. Nella scuola, soprattutto in quella
superiore, erano presenti insegnanti puristi, insegnanti
manzoniani e classicisti e questi proponevano ai loro allievi
modelli diversi di italiano.
Giosuè Carducci fu sempre avverso ad ogni
atteggiamento manzoniano filofiorentino. Egli diede il suo
parere su programmi e libri scolastici.
Un libro ispirato ad un manzonismo non sempre fedele
alle teorie del Maestro è l’Idioma gentile di De Amicis ed ebbe
una certa influenza sugli insegnanti. Ci si trovano liste di
parole toscane e l’invito di abbandonare il dialetto e le forme
dell’italiano regionale.

Le cause dell’unificazione linguistica

Le cause che hanno portato all’unificazione linguistica


italiana dopo la formazione dello stato unitario sono state
studiate da De Mauro e possono essere riassunte così
(lasciando da parte l’azione della scuola di cui si è già parlato):
1. l’azione unificante della burocrazia e dell’esercito;
2. l’azione della stampa periodica e quotidiana;
3. effetti di fenomeni demografici quali l’emigrazione;
4. aggregazione attorno a poli urbani (la nascita di una
nuova industrializzazione);
Si tratta di fatti e di eventi che soltanto indirettamente hanno
influito sulla lingua e appartengono alla storia sociale d’Italia.
Gli effetti della burocrazia unificata del nuovo stato
nazionale sulla formazione di una lingua unitaria sono
comprensibili. I burocrati sono stati costretti ad abbandonare
spesso, almeno in pubblico, il dialetto d’origine e a usare e a
diffondere un tipo linguistico unitario.
Il servizio militare obbligatorio fu una delle novità
portate dal Regno d’Italia. Anche la Grande Guerra del 1915 –
1918, facendo convivere masse di soldati provenienti da varie
regioni, a contatto con ufficiali istruiti, ebbe effetti linguistici
rilevanti. Meno evidente è il rapporto tra emigrazione e
apprendimento della lingua italiana. De Mauro è partito dalla
costatazione che tra il 1871 e il 1951 sette milioni di italiani si
sono trasferiti definitivamente in altre nazioni, ma circa 14
milioni sono rientrati in patria dopo aver lavorato per un certo
periodo all’estero. Gli emigranti italiani erano in gran parte
analfabeti e dialettofoni, e il loro allontanamento fece
diminuire, per eliminazione, il numero di quelli che erano in
condizione di svantaggio rispetto alla lingua e alla scuola. Non
si tratta di una crescita qualitativa, ma di un semplice
cambiamento degli indizi statistici. L’emigrante di ritorno, però,
fu un elemento di progresso, perchè l’esperienza lontana dalla
sua zona di origine gli aveva insegnato ad essere diverso e ad
apprezzare molto di più il valore dell’istruzione e
dell’alfabetismo.
Quanto all’indiustrializzazione, che fece crescere la
popolazione di alcune grandi città, e attirò manodopera
proveniente da altre regioni o dalle zone rurali della stessa
regione, ebbe come effetto uno spostamento di abitanti e
un’integrazione nel nuovo luogo di residenza, con abbandono
progressivo del dialetto di origine. Questo fenomeno,
cominciato nell’Ottocento, ha manifestato I suoi effetti
sopratutto nel Novecento, con la grande immigrazione nel
Nord delle masse contadine del Mezzoggiorno d’Italia.

Le teorie di ASCOLI

Nel 1873, le idee e le proposte manzoniane furono però


contestate da un grande studioso, Graziadio Isaia Ascoli, il
fondatore della linguistica e della dialettologia italiana.
L’intervento di Ascoli, che fu pubblicato come Proemio nel
primo fascicolo dell’Archivio Glottologico Italiano (rivista
scientifica fondata e diretta da Ascoli stesso) era rivolto in
realtà contro i segnaci e gli imitatori del Maestro. La polemica
cominciava dal titolo del Novo vocabolario della lingua
italiana secondo l’uso di Firenze di Giorgini - Broglio, titolo in
cui era stato usato l’aggettivo novo alla maniera fiorentina
moderna.
In sostanza, Ascoli escludeva che si potesse
identificare l’italiano nel fiorentino vivente e affermava che era
inutile e dannoso aspirare ad un’assoluta unità della lingua,
cosi come non si dovevano combattere certe forme linguistiche
suggerite dalle parlate di altre regioni (citava l’esempio di
ditale che a Firenze era chiamato anello). L’unificazione
linguistica italiana non poteva essere la conseguenza di un
intervento che proponesse un unico e rigido modello.
Impossibile diventare tutti fiorentini per decisione (il
linguaggio non poteva essere considerato come “una nuova
manica da infilare”). L’unità della lingua sarebbe stata una
conquista reale e duratura solo quando lo scambio culturale
nella società italiana fosse diventato importante e moderno,
efficiente. Ascoli osservò meglio degli altri che la lingua non
esiste di per sè, isolata dal contesto sociale, ma è una
conseguenza di fattori extralinguistici; aspirare ad una lingua
rigorosamente uniforme, quando non ci sono le condizioni
obiettive favorevoli per la realizzazione di una vera omogeneità
culturale, significa un’impresa pazzesca.
Ascoli contestava che si potesse applicare in Italia il
modello centralistico francese, a cui si era ispirato Manzoni.
L’Italia, molto simile alla Germania, divisa in tanti stati diversi,
era considerata da Ascoli un paese policentrico, in cui le
tradizioni delle diverse regioni dovevano diventare omogenee e
questo, a poco a poco, attraverso un naturale livellamento.
Ascoli individuava con grande lucidità e efficacia i mali della
cultura italiana: la differenza tra i dotti e l’ignoranza delle
masse; il cancro della retorica ecc. Il fiorentino vivo era
considerato dallo studioso come un dialetto qualunque tra gli
altri. Si deve osservare che la proposta manzoniana ha avuto
una notevole risonanza fin dalla sua formulazione pubblica del
1868, mentre lo scritto di Ascoli è severo, difficile e contrasta
con la semplicità di Manzoni. La soluzione ascoliana
richiedeva tempi lunghi e la società intellettuale dell’Italia
unita aveva fretta. Ascoli è severo con la Toscana, la giudica
una terra fertile di analfabeti., con una cultura stagnante, una
regione incapace di guidare il progresso del nuovo stato
italiano. Ascoli guardava verso Roma, verso la neocapitale del
Regno. Tra i canali di diffusione del toscano ci sono senza
dubbio le opere di autori molto popolari come Collodi
(Pinocchio) e De Amicis, che era settentrionale, ma adottò il
toscano per i suoi libri - Cuore è pieno di fiorentinismi. Tra le
opere che possono aver diffuso il toscano ci sono anche alcuni
libri non letterari: per esempio, un manuale di arte culinaria,
La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, ristampato ancora
oggi e letto con interesse.
Si possono notare alcuni tratti propri del fiorentino
moderno, assenti nella lingua letteraria tradizionale, entrati
nell’italiano comune: uo→o; la prima persona dell’imperfetto
indicativo in o e non più in a (amavo e non più amava). Si è
anche diffusa la costruzione impersonale del tipo noi si fa per
non facciamo, costruzione tipicamente toscana.

Il linguaggio giornalistico

Nel secolo XIX il linguaggio giornalistico acquistò


un’importanza superiore a quella avuta in precedenza. Nel
Settecento c’erano stati soltanto dei periodici d’élite; nel primo
Ottocento, sotto l’influenza del giornalismo straniero,
sopratutto francese, ma anche inglese e tedesco, presenta una
notevole apertura nelle innovazioni lessicali e nella tecnica
espositiva.
Molti periodici vogliono raggiungere un pubblico
nuovo e necessitano di un linguaggio semplice rispetto a quello
della tradizione letteraria. L’aumento delle tirature finì per
avere conseguenze pratiche e la prosa dei giornali cominciò a
trovare la sua strada, modernizzandosi. Nella seconda metà del
secolo, il giornalismo diventò fenomeno di massa. Ancora in
questo periodo si alternano voci colte e libresche, a voci
popolari, anche se vengono in gnere evitati i dialettismi più
vistosi. Alcune voci regionali si diffondono attraverso questo
canale, come camorra e picciotto. La sintassi giornalistica
sviluppò la tendenza alla frase nominale e al periodo breve. La
lingua dei giornali è molto esposta al nuovo; è possibile
registrare neologismi e forestierismi presenti nella lingua viva e
parlata, o nel lessico degli specialisti. Compaiono in quel
periodo, proprio sui giornali, termini come: straripamento,
attrezzatura, confisca, delibera, importo. Appaiono termini
relativi al nuovo mezzo di trasporto che si va affermando: la
ferrovia, i carri, gli scompartimenti, le rotaie.
Tra i forestierismi si trovano tecnicismi come: batello a
vapore (contestato dai puristi), dagherrotipo, disinfettante. Il
giornale ottocentesco è linguisticamente interessante perché è
composto da parti diverse: la lingua della cronaca non è
identica a quella degli articoli letterari, politici o economici.
Compare sui fogli periodici la pubblicità, in forma di annunci
che spesso contenevano termini nuovi o parole regionali,
censurate dai puristi.
Il modello manzoniano

Fermo e Lucia, la prima stesura del romanzo


manzoniano, comprendeva voci non bene amalgamate, con
lombardismi, francesismi, toscanismi e latinismi: uscì nel
1825 – 1827, però già indirizzato verso la lingua media e
comune. Seguì una lunga revisione. Fin dal 1827, lo scrittore,
compiendo un viaggio in Toscana, avviò la “risciaquatura di
panni in Arno”, cioè la correzione della lingua del suo
capolavoro, che voleva perfettamente adeguare al fiorentino
delle persone colte. Il testo nuovo fu pubblicato nel 1840-1842
e fu accolto con riserve. Si possono sintettizzare così i criteri
della correzione manzoniana:
1. Eliminazione delle forme lombardo – milanesi
(esempio: marrone per sbaglio, sproposito);
2. Eliminazione di forme eleganti, pretenziose, scelte,
preziosistiche, auliche, affettate, arcaizzanti o letterarie
rare. Al loro posto vengono introdotte forme comuni e
usuali (esempio: guatare - guardare, l’affissò - lo
guardò)
3. Assunzione di forme tipicamente fiorentine: uo → o:
spagnuolo → spagnolo; l’uso alla maniera toscana di
lui e lei, come soggetti ai posto dei letterari egli, ella.
4. Eliminazione di doppioni di forme e di voci, secondo
un principio teorico caro a Manzoni: eguaglianza,
uguaglianza, quistione → questione (sopravvive però
nel Novecento in Gramsci); pel, col → con il, per il.
L’uso manzoniano ha, in certi casi, influenzato decisamente il
destino della lingua italiana (lui, lei - soggetti, per il, con il,
l’eliminazione della d eufonica dei monosilabi ad, ed, tranne
cha davanti a vocale corrispondente). In altri casi, invece, il
modello manzoniano ebbe meno efficacia, come, per esempio,
per la diffusione dell’elisione (d’alloggiare) e di apocope (vien
per viene).
Il romanzo ha anche un grande valore valore letterario,
stilistico; lo stile è sciolto, slegato dalla tradizione aulica.
Altri modelli di prosa toscana che stanno a margine
rispetto al Manzoni furono Collodi e Fucini.

VERGA, il dialetto e il rinnovamento della sintassi


Verga con I Malavoglia dà una nuova svolta alla lingua
italiana. Verga non abusa del dialetto, non lo fa come locale,
come inserto nel discorso diretto dei personaggi che dialogano.
Verga utilizza un procedimento ambizioso: si tratta di adattare
la lingua italiana a strumento di comunicazione per personaggi
siciliani appartenenti al ceto popolare. Lo scrittore adotta
alcune parole siciliane note in tutt’Italia e poi ricorre a innesti
fraseologici, come quando utilizza espressioni come: pagare
col violino - pagare a rate; pigliarsela in criminale -
prendersela a male; hanno la rabbia - sono bramose; questi
modi proverbiali hanno una rispondenza nel dialetto a cui
Verga ricorre. Tratti popolari sono anche i soprannomi dei
personaggi, l’uso del che polivalente, ricalcato sul ca siciliano,
la ridondanza pronominale, il ci attualizzante (averci, gli per
loro). Questi tratti popolari servono a simulare un’oralità viva.
Molto nuova risulta la sintassi di Verga, soprattutto nel
discorso indiretto libero (o “discorso rivissuto”), che consiste
in un miscuglio del discorso diretto e del discorso indiretto, una
possibilità che utilizza uno scrittore per far parlare i suoi
personaggi è di aprire le virgolette e di riportare in forma di
discorso diretto le loro battute, come si fa in un testo teatrale.
La seconda possibilità è di introdurre un discorso indiretto, nel
quale lo scrittore stesso riferisce le parole del personaggio
(“diceva che...”). Il discorso indiretto libero è la terza soluzione,
intermedia tra le due, ma più libera. Non vengono aperte le
virgolette, apparentemente è ancora lo scrittore che riferisce le
parole del personaggio, ma nella voce dello scrittore affiorano
modi e forme che sono propri del discorso diretto; il lettore non
ascolta più la voce dell’autore – narratore, ma quella del
personaggio. Si tratta di un’oscillazione tra l’autore e il suo
personaggio: “ Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti
ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle
prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei
giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba!
Ragazzetto...gli sembrava di tornarci ancora quando portava il
gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante!” (Mastro Don
Gesualdo). Predomina l’uso dell’imperfetto narrativo e si
osservano tre frasi esclamative. Ne I Malavoglia, la voce dello
scrittore diventa l’espressione della coralità popolare che fa da
filtro alla narrazione. La sintassi è meno rigida, meno
complicata e va al di là del rinnovamento prodotto da Manzoni.
L’innovazione stilistica eliminava una serie di frasi subordinare
e dava voce a personaggi nuovi, popolari, appartenenti al
mondo degli umili, i “vinti”. Si completava il cammino della
lingua scritta verso il parlato, ora non soltanto nella forma del
toscano, ma anche dell’italiano popolare e regionale.
IL NOVECENTO

Gli autori vissuti a cavallo tra i due secoli, come


D’Annunzio e Pascoli testimoniano nelle loro opere le
trasformazioni in atto. La lingua italiana, anche quella letteraria,
si presenta nel Novecento con un ribollire di novità. Forse
Carducci è l’ultimo scrittore che incarna in maniera perfetta il
ruolo tradizionale del vate, e la lingua della sua poesia aderisce
alle convenzioni che vogliono nobilitare la realtà toccata dai
versi. Nella poesia storica e nei momenti di maggiore impetto
lirico, la nobilitazzione resta molto forte, una chiesa può
diventare facilmente tempio, una piazza un foro, secondo una
tendenza ben nota della poesia del XIX secolo. Il latinismo
serve per la stessa funzione nobilitante: parvola - piccola;
virente - verdeggiare. Le parole, i modi comuni e quotidiani
sono evitati. Anche la poesia di d’Annunzio non rinuncia alla
nobilitazione attraverso la selezione lessicale: “ippopotamo”
diventa pacchidermo fiumale; “le cameriere” si trasformavano
in fanti, cameriste, gli “operai” in uomini operatori, mentre il
“tram”, forestierismo troppo banale e quotidiano, viene
sublimato in forma di “carro che non ha timone/ nè giogo, e
non corsieri...” (Laus vitae). D’Annunzio usa latinismi: gaudii
letiferi cioè “le gioie apportatrici di morte” (letifero < lat.
letifer < letum - morte > letale; fero - portare). D’altra parte, la
poesia di d’Annunzio si presenta come innovativa per la
capacità di sperimentare una miriade di forme diverse (anche
metriche, fino a introdurre il verso libero), e per il gusto di
citare e utilizzare lingua, esempi antichi (e anche modelli
stranieri sorprendenti). Mette in pratica una sua posizione
teorica chiara. L’influenza di d’Annunzio sulla lingua del
Novecento è stata grande; la sua opera ebbe grande successo.
Gli si devono, fra l’altro, alcuni neologismi: velivolo per
“aeroplano”, dal termine latino “velivolus”, rifferito alle navi
che corrono sul mare con le vele gonfie di vento, come uccelli.
D’Annunzio si adattò anche alla pubblicità (per
esempio, nel 1929, per i biscotti Saiwa) ma anche collaborò
con la nascente cinematografia del muto, fornendo le didascalie
e i nomi di persona latini e punici per il Colossal del 1914, che
narrava la guerra tra Roma e Cartagine.
Una prima rottura con il linguaggio poetico tradizionale
si ha con Pascoli, con i crepuscolari e con le avanguardie.
Benchè Pascoli utilizzi parole colte e latinismi, include anche
dialettismi, regionalismi, e un po’ di italo-americano nei Primi
poemetti, dedicato all’emigrazione degli italiani (oh yes,
business, fruit stand, cakes, candies, ice – cream) accanto ai
toscanismi (essere fiero - star bene, essere gagliardo). Notevole
è la precisione botanica e ornitologica di Pascoli, rispetto alla
tradizionale disinvoltura della poesia italiana che, come accade
in Leopardi, faceva fiorire in modo irreale le rose e le viole
nella stessa stagione; è stato Pascoli stesso che ne rivelò l’
impossibilità.
La poesia crepuscolare accentuò nel verso la tendenza
verso la prosasticità, rovesciò il tono sublime.
Quanto all’avangardia, in Italia essa si identifica
sostanzialmente con il futurismo, che fece appello ad un
provocatorio rinnovamento della forma (l’uso di parole miste e
immagini, l’uso di caratteri tipografici di dimensioni diverse
per rendere l’intensità e il volume fonico delle parole,
abolizione della punteggiatura, uso largo dell’onomatopea. In
sostanza tutto fu efimero. Non va sottovalutato l’effetto del
futurismo sul linguaggio poetico novecentesco. La poesia
futurista si impadronì del lessico delle automobili, dei motori,
della guerra moderna e mecanizzata (Palazzeschi).

La prosa poetica
Il “vate” è d’Annunzio con Netturno e Il libro segreto
e la sua prosa si caratterizza dal periodare breve e brevissimo,
per la sintassi nominale, per la presenza di elementi fonici e
ritmici della frase.
La prosa lirica di Dino Campana non va più in là di
d’Annunzio. Un interessante riflesso del “parlato” si ha nella
prosa di Pirandello, non nei romanzi, ma nelle opere teatrali.
La riproduzione dell’oralità è verificabile anche nella presenza
di una serie di interiezioni frequentissimi: ah sì; ah sì sì; eh via;
ah no no; connetivi come è vero, si sa, figurarsi, o bella; e
anche in una serie di elementi che con rapide opposizioni, con
relativizzazioni improvvise: non ... più, ma .. sì. Lo stile di
Pirandello è l’esatto opposto di quello di d’Annunzio.
Pirandello sta molto attento a non uscire dai moduli della
lingua d’ogni giorno. In questo senso, la sua prosa è un
documento interessante per il linguista che ci può trovare una
sorta di “uso medio”. Pirandello rimase diffidente verso il
dialetto come strumento letterario, anche se non ha rinunciato a
dare nelle sue opere una “ lieve patina di colore locale”, per
esempio nella scelta dei nomi di persona, almeno nelle opere di
ambiente siciliano e, nello stesso tempo, optava per un italiano
neutro.
L’altro grande scrittore del primo Novecento, Italo
Svevo, è famoso per il rapporto non facile con la lingua italiana,
determinato dalla sua provenienza da un’area periferica come
Trieste. Lo accusarono di “scriver male” e questo lo fece
soffrire. La lingua di un libro come La coscienza di Zeno non
risponde ai canoni puristici; si osserva l’uso del verbo avere
con i verbi servili (secondo una tendenza propria della lingua
parlata anche di livello medio), incertezze nei tempi verbali e
poi la formalità grammaticale, con elementi arcaici: l’i
prostetica (in Isvizzera, per istrada, per ischerzo) e anche
l’avvicinamento dei pronomi personali: mi vi” (mi vi sarei
adattato, mi vi abbndonavo) come si incontra nella prosa di
Foscolo e di Leopardi; l’uso anomalo della preposizione di
(pronto di dividere). Il successo presso il pubblico dimostra
l’importanza di Svevo come scrittore (monologo interiore,
analisi della coscienza, flusso verbale autoironico richiedevano
una lingua imperfetta come strumento di una visione
particolare del mondo).
Uno dei punti di rifferimento per gli scrittori, dopo che
Verga aveva mostrato la via per una scrittura che si avvicinasse
al mondo popolare, è il dialetto. Nel Novecento, anche il
toscano può essere ormai considerato un dialetto. Federico
Tozzi introduce senesismi nei suoi romanzi (parole come
astiare - odiare, bicciars i- cozzare con le corna; piaggiata -
terreno in pendio; untare - ungere). Un uso diverso del dialetto
si ha negli scrittori “mistilingui” come Carlo Emilio Gadda,
nelle cui pagine si affollano i più vari elementi, tra cui i dialetti:
lombardo nell’Adalgisa e nella Cognizione del dolore,
fiorentino nelle Favole e in Eros e Priapo, romanesco e
molisano, con qualche battuta in veneto in Quer pasticciaccio
brutto de via Merulana, che ebbe un grande successo di
pubblico.
Oratoria e prosa d’azione

Parlare di oratoria del primo Novecento fa pensare ai


discorsi di Mussolini, che ne furono l’esempio più celebre.
Benchè questi discorsi fossero trasmessi in tutt’Italia dalla
radio e fossero filmati nei documentari cinematografici, gran
parte del loro fascino stava nel rapporto diretto con la folla. Per
un modello migliore di quello mussoliniano, l’italiano deve
riferirsi sempre a d’Annunzio; si tratta di un’oratoria letteraria,
coltissima, efficace (per gli effetti sul pubblico di allora). I suoi
discorsi rivelavano notevole abilità nella scelta di un periodo
breve e incisivo, con riprese frequenti, come per esempio
nell’introduzione di un’orazione del 14 maggio 1915. “Udite.
Udite. Gravissime cose io vi dirò, da voi non conosciute. State
in silenzio. Ascolatatemi. Poi balzerete in piedi tutti.” Accanto
agli esperimenti di oratoria, vanno ricordati i messaggi
dannunziani, spcialmente quelli in relazione con la questione
della Dalmazia e di Fiume. D’Annunzio scrisse anche un
progetto di costituzione. In questi messaggi che rappresentano
un modello retorico si rintracciano anche elementi di natura
religiosa, sfruttati in contesto patriottico.
Il modello dannunziano influì sulla retorica del
fascismo (l’elemento religioso si ritrova nel linguaggio di
Mussolini: passione, fede, apostolato, fuoco sacro. Nella
lingua del fascismo e di Mussolini sono stati individuati i
seguenti caratteri: abbondanza di metafore religiose (asceta,
martire), militari (falangi), equestri (redini del proprio destino),
oltre a tecnicismi romani, quali: Duce, littore, manipolo,
centurione che erano termini usuali nel Partito Nazionale
Fascista. Si può aggiungere l’ossessione dei numeri. Mussolini
fu tra i primi che fece una tecnica di persuasione di massa; ci
sono differenze tra i suoi discorsi in piazza e quelli
parlamentari. L’oratoria mussoliniana rivolta al popolo è una
specie di dialogo con la folla, che risponde con l’ovazione
collettiva (lunghi silenzi tra una frase e l’altra, seguiti dalle
grida di approvazione dei fedeli). Nel discorso mussoliniano un
largo posto occupa lo slogan. Slogan venivano dipinti sui muri
a grandi lettere: “Se avanzo, seguitemi. Credere. Obbedire.
Combattere”; finivano anche nelle cartolline e nei quaderni di
scuola. L’esagerazione è il luogo comune: massa compatta,
compiti poderosi, pagine di sangue e di gloria, dura energia,
ruota del destino, la più nera delle ingiustizie, fermissima
incrollabile decisione, esaltante spontaneità.
Il fascismo fu il primo movimento politico, il
socialismo, ma con più mezzi, a interessarsi della sorte delle
massi popolari e alle loro aspirazioni e questa continua lezione
linguistica impartita al popolo, fatta arrivare dappertutto, dalla
radio, dalla scuola (i discorsi del Duce si imparavano a
memoria), dalla propaganda, hanno avuto grandi effetti. Le
lettere inviate, in enorme quantità, al Duce, da ogni parte
d’Italia e che, anche se prodotte da semicolti, mostrano un
buon assorbimento dei moduli linguistico – retorici dominanti.
Una questione su cui non c’è piena concordanza è
quella del rapporto tra la retorica fascista e la retorica della
sinistra, a cominciare dal socialismo. Mussolini veniva dal
partito socialista. Uno stile ampolloso permane nei discorsi di
socialisti come De Amicis. Antonio Gramsci, il fondatore del
Partito Comunista Italiano, riteneva l’oratoria socialista nel suo
complesso macchiata dal vuoto retorico. Proponeva uno stile
lucido e razionale. Gramsci considera che si debbano proporre
alla classi popolari temi e problemi difficili, mirando
all’educazione di aristocrazie operaie che si impadronissero
della lingua e della cultura delle classi superiori. Per Gramsci
era inaccettabile che ci fossero due lingue e due stili diversi,
uno per parlare ad operai e contadini e uno per parlare a tutti gli
altri. I vecchi socialismi accusarono di intellettualismo e di
oscurità i giornali diretti da Gramsci che si dimostrò sempre un
eccezionale educatore. Trovò il tempo di far lezione agli operai.
Fu anche maestro di giornalismo. Negli scritti propagandistici
di Gramsci appaiono artifici retorici di tipo sintattico, riprese,
anafore, per esercitare la funzione conativa del linguaggio
politico che deve convincere e muovere l’uditorio. D’Annunzio
preferiva ottenere questo risultato mediante la suggestione
magico – religiosa della parola più che con l’impianto
razionale.

L’italiano della saggistica

L’obiettivo del linguaggio saggistico umanistico è una


lingua media, compassata e oggettiva e la lezione più
importante venne da Benedetto Croce. Croce fu il maestro
della cultura italiana nella prima metà del secolo e il suo
prestigio fu immenso. La sua scrittura fu sempre chiara,
moderna, limpida, senza diventare colloquiale. Si possono
segnalare nel saggio crociano Contributo alla critica di me
stesso (1915) forme arcaiche come: assai molte - parecchie, in
pronto - a disposizione, mercé - mediante, restringersi =
limitarsi, vagheggiare - accarezzare mentalmente, dar fuori -
pubblicare, menare a termine - compiere, cangiare - cambiare.

Politica linguistica nell’Italia fascista


Autarchia e xenofobia.

Il fascismo ebbe una chiara politica linguistica che si


manifestò in modo apertamente autoritario. Gli aspetti più
notevoli di questa politica sono: la battaglia contro i
forestierismi in nome dell’autarchia culturale; la repressione
delle minoranze etniche. Meno vistosa è la polemica
antidialettale. La repressione delle minoranze etniche fu più
grave, anche per le conseguenze negative che si proiettarono
sulla Repubblica, l’imposizione dell’italiano in Valle d’Aosta;
in Alto Adige si esercitò una politica etnica contro le
minoranze tedescofone e, nel dopoguerra, si manifestarono
atteggiamenti di ribellione che non si sono spenti nemmeno
oggi. La politica xenofoba del fascismo prese delle iniziative
nell’insegnamento scolastico e nell’italianizzazione della
toponomastica per la Valle d’Aosta; si costringeva chi aveva
un cognome forestiero, slavo o tedesco, a italianizzarlo. Quanto
alla lotta contro i forestierismi, per esempio, nel 1930, si ordinò
la soppressione nei film di scene parlate in lingua straniera. Nel
1940, l’Accademia d’Italia, la più prestigiosa istituzione
culturale del regime – fu incaricata di esercitare una
sorveglianza sulle parole forestiere e di indicare delle
alternative, anche perchè un’altra legge del 1940 vietò l’uso di
paole straniere nell’intestazione delle ditte, nelle attività
professionali e nelle varie forme pubblicitarie. L’interesse per
la lingua aveva anche qualche conseguenza positiva. Durante il
fascismo venne fondata la rivista “Lingua Nostra”. Migliorini
ellaborò una concezione moderatamente avversa ai
forestierismi, definita “neopurismo”, che non ha identificato
con la politica xenofoba del Fascismo. A Migliorini si deve una
delle più brillanti sostituzioni dell’epoca: regista per il francese
“régisseur” e autista per “chauffeur”. Però altre proposte
furono respinte: arlecchino per “cocktail” e d’Annunzio voleva
arzente per “cognac”.
Nell’epoca fascista furono pubblicati vari elenchi di
parole proscritte con indicazioni dei relativi sostituiti. Furono
però accettati già allora diversi termini stranieri, scelti tra quelli
che avevano radici: sport, film, tennis, tram, camion ecc. Nella
lingua comune, in alcuni casi, le parole suggerite
dall’Accademia si affiancarono al forestierismo; rimane ancora
oggi una concorrenza diventata una pacifica convivenza:
rimessa / garage; villetta / chalet. Ci fu anche una campagna
per abolire l’allocutivo lei (disposizioni del febbraio 1938) e
sostituirlo con il tu più romano e con il voi per i superiori). La
campagna non ebbe molto successo: il lei cinquecentesco era
ormai radicato nella lingua italiana; il voi era sentito da molti
dialettale, quindi evitato, essendo di uso corrente meridionale.
È curioso ricordare che, per reazione alla campagna contro il
lei, il filosofo Benedetto Croce, abituato da napoletano a far
uso sempre della forma allocutiva voi, passò risolutamente a lei,
rifacendo le lettere che gli accadeva di cominciare con il voi
per vecchia abitudine.

La lessicografia del Fascismo

All’inizio del Novecento, la Crusca tentava ancora di


concludere una nuova versione del suo vocabolario, iniziata nel
1863. Il primo volume era stato dedicato a Vittorio Emanuele,
II Re d’Italia: omagio accademico ad un sovrano che non fu
mai troppo esperto nel maneggio della lingua. B.Croce, il più
autorevole pensatore del tempo, era avverso ad ogni idea di
“lingua modello” e al toscanismo in genere. La storia della
storiografia è fatta anche di tentativi falliti. Neanche il nuovo e
moderno vocabolario del fascismo, prodotto dall’Accademia
d’Italia, non ebbe un effeto felice. Era diretto da Giulio Bertoni,
con pubblicazione assicurata da una società di 10 editori (tra
cui Le Monnier, Zanichelli) e arrivò solo al primo volume,
uscito nel 1941, che comprendeva le lettere A – C.
Questo vocabolario eliminò molte voci antiche. Un
aspetto tra i più interessanti e novativi del nuovo vocabolario è
costituito dal criterio di citazione degli esempi; gli scrittori
sono citati solo come una documentazione di uso comune,
senza rirerimento preciso all’opera da cui è tratto l’esempio. È
dato largo spazio agli scrittori novecenteschi, maggiori e
minori (D’Annunzio, Gozzano, Tozzi, Pirandello, Deledda,
Bontempelli, Mussolini ecc.). Però questo vocabolario non
ebbe influenza.
Giulio Bertoni realizzò un piccolo vocabolario destinato
a fornire la pronuncia esatta delle parole italiane, per l’uso
degli annunciatori della radio, Il prontuario di pronunzia e di
ortografia, nel quale si affrontava la questione della pronuncia
romana, quando era diversa da quella fiorentina.
Il dopoguerra – Pier Paolo PASOLINI

L’ultimo clamoroso intervento nella questione della lingua


si deve a Pasolini che fu pubblicato sulla “Rinascita” del 16
dicembre 1964 – Nuove questioni linguistiche – si trattava di
una vera e propria analisi sociolinguistica della situazione
presente. Pasolini, partendo da premesse marxiste e gramsciane,
sosteneva che era nato un nuovo mondo italiano con i centri
irradiatori al nord del paese, dove avevano sede le grandi
fabbriche e dove era diffusa e sviluppata la moderna cultura
industriale. Egli annunciava che era nato “l’italiano come
lingua nazionale” nel senso che per la prima volta una
borghesia egemone era in grado di imporre in maniera
omogenea i suoi modelli alle classi subalterne. Pasolini
delineava alcune delle caratteristiche che sarebbero state
proprie del nuovo italiano:
1. la semplificazione sintattica (i torinesi e i milanesi sono
i veri padroni della nuova lingua);
2. la drastica diminuzione dei latinismi;
3. la prevalenza dell’influenza della tecnica rispetto a
quella della letteratura;
Tendenze del linguaggio letterario

Nel Novecento si manifesta una perdita nei dialetti. Era


nata un’Italia ben diversa da quella povera, contandina e
patriarcale della prima metà del secolo. C’era stato un
cambiamento al livello della scolarizzazione. Nel 1961 gli
analfabeti si erano ridotti all’8,3%, nel 1971 al 5,2%; il
progresso è stato costante. È progressivamente diminuito lo
spazio del dialetto a vantaggio dlla lingua italiana. I dialetti
hanno subito un processo di avvicinamento alla lingua comune;
anche i dialetti mutano nel tempo. I dialetti di oggi sono più
italianizzati. Una valutazione tra lingua e dialetto deve tener
conto delle motivazioni psicologiche che determinano i
comportamenti sociolinguistici. L’adozione di un codice di
comunicazione avviene quando il parlante è spinto da
motivazioni profonde, che generalmente si identificano con il
suo desiderio di promozione sociale. De Mauro ha visto nella
crescita dei poli urbani industriali una diretta causa
dell’indebolimento dei dialetti. Negli anni Sessanta e Settanta
anche la fabbrica ha svolto una funzione di scuola,
promuovendo e integrando nella realtà cittadina e industriale
masse di origine contadina. In quegli anni maturava anche un
rinnovamento del linguaggio della lotta politica operaia che si
staccava via via ai modulli della retorica “alta”, ereditati dalla
tradizione oratorica, si avvicinava al basso- quotidiano che si
possono verificare nei volantini dei movimenti politici
affermati con il 1968. Il linguaggo di questi nuovi gruppi della
sinistra cerca a volte la trasgressività verbale che dà largo
spazio al turpiloquio che risulta analogo all’espressività del
linguaggio giovanile degli anni Ottanta.
Tra le altre forme che assunse il linguaggio della
protesta politica si possono ricordare i comunicati e i volantini
del gruppo terroristico le Brigate Rosse, che ebbe una grande
celebrità, culminata con il rapimento e l’uccisione
dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia
Cristiana, il partito di maggioranza relativa. Il volantino
clandestino o legale fu uno strumento di comunicazione
importantissimo, difusissimo in quegli anni, proposto in ogni
occasione con un ritmo inimaginabile, in fabbrica, per strada, a
scuola. Colpisce il ritorno ossessivo di una serie di slogan e di
formule fisse, cariche di emotività evocatrice (regime per stato:
stampa di regime, carceri di regime, Regime Democristiano).
Nei volantini delle Brigate Rosse abbondava la terminologia
guerresca: lotta, battaglia, manovra, attacare,
battersi,sconfiggere. Ricorrevano anche i termini propri della
normale cultura marxista, come classe, contradizioni di classe,
Tribunale del popolo (sono gli uomini delle B.R. che giudicano
Moro), giustizia proletaria, sfruttamento dell’uomo sull’uomo,
egemonia della borghesia. In certi termini politici, correnti
negli anni Settanta, e del cosidetto “sinistrese” (il linguaggio
della sinistra) si celano alcuni dei pochi russismi presenti in
italiano: nemico del popolo, nemico di classe, imperialismo.
Il linguaggio politico, detto ironicamente “politichese”,
si sviluppava attraverso una serie di espedienti fatti di reticenza,
abuso di tecnicismi giuridico – burocratici, eufemismi,
evasività, giochi di parole.

La radio e la televisione

La radio nacque nel 1924. La televisione ha iniziato a


trasmettere regolarmente nel gennaio del 1954. La sua funzione
linguistica si aggiunge a quella dei “media” che già esistevano
(giornali, radio, cinema). Tullio de Mauro ne ha messo in
evidenza gli effetti: le trasmissioni televisive e radifoniche
sono arrivate anche in zone geografiche e nelle classi sociali a
più basso reddito, anche nelle zone di più tenace persistenza
del dialetto; da ciò l’importanza della radiotelevisione per la
diffusione della lingua.
Tipici della televisione sono gli spettacoli popolari di
intratteniemnto ed anche le rubriche in cui il pubblico telefona,
interviene, dibatte. L’accesso diretto alla trasmissione è stato
accentuato da quando le televisioni si sono molteplicate, con la
nascita di molte reti private e locali. I media (e la TV
soprattutto) sono diffusori di tecnicismi, esotismi, neologismi e
di buon numero di effimeri luoghi comuni verbali della cronaca
e della politica (anni di piombo, mani pulite, Jurassic school) e
diffusori di nuovi nomi di persona, esotici, che vengono usati
dalla genta nel battezzare i propri figli a causa delle più
popolari trasmissioni televisive (a volte “serial”) o per il
successo di famosi cantanti della musica leggera o rock:
Romina, Alice, Alicia, Barbara, Micaela, Raffaella. È
importante anche stabilire quanto abbia contato la TV per la
diffusione di forme della varietà regionale romana, che ha largo
spazio alla RAI, anche perchè a Roma sono i maggiori centri di
produzione dei programmi. Anche il cinema aveva avuto come
centro Roma (la Cinecittà).

I giornali
Il linguaggio dei giornali ha svolto un’importante
funzione. Il quotidiano è il mezzo fondamentale che fa il
legame fra l’uso colto e letterario della lingua italiana e la
lingua parlata. Il giornale è un indice della lingua media. Nel
giornale si trova una pluralità di sottocodici (politico,
burocratico, tecnico–scientifico, economico, finanziario) e di
registri (aulico, parlato, informale, brillante). L’originalità del
linguaggio sta nei titoli, che devono colpire il lettore e nello
stesso tempo fare economia di spazio. Domina la frase
nominale e l’economia verbale.

La pubblicità

Il suo linguaggio è basato sullo slogan e sulla “trovata”.


Attraverso la pubblicità si diffondono tecnicismi e forestierismi.
La pubblicità deve colpire, convincere e suggestionare. La
lingua della pubblicità tende a forzare, ad esempio mediante un
marcato uso dei superlativi, sia con desinenza “ – issimo”
(superissimo, occasionissimo, levissima), sia mediante i
prefissi extra, maxi, super (superattivo, supersporco,
maxiconto, ipermercato). Un prefisso come super ha avuto una
grande fortuna nel Novecento. Questa fortuna è cominciata
dagli anni Venti (supervini, supermarcato, supersapone), si è
sviluppata durante il fascismo, nel linguaggio di Mussolini
(super – stato, superfascismo) ed è durata anche dopo. Usuale è
ormai l’elittico “super” per la “benzina super” e sulla base di
questo modello super diventa aggettivo invariabile come in
“ragazza super”. Il linguaggio pubblicitario favorisce la
formazione di parole composte (“parole macedonia”:
amazzasete, granturismo), poi l’uso dei sostantivi giustapposti
(profumo donna); giochi di parole, neologismi. Il linguaggio
pubblicitario è effimero, si consuma rapidamente.

Italiano standard e italiano di uso medio

L’italiano dell’uso medio è una categoria, definita sulla


base di fenomeni grammaticali ricorrenti nell’italiano di oggi,
parlato a livello non formale. La differenza rispetto all’italiano
standard è che l’italiano medio, in sostanza comune e
colloquiale accoglie anche fenomeni del parlato, presenti da
tempo nello scritto, ma frenati dalla norma grammaticale che
ha sempre cercato di respingerli. L’italiano medio rappresenta
una realtà diffusa. Lo standard rappresenta un italiano ufficiale
e astratto.
La scuola

Nel 1962 si introdusse la scuola media unica, uguale


per tutti, con obbligo scolastico fino ai 14 anni (in tutto 8 anni
di scuola). Si rinnovarono i metodi e gli obiettivi
dell’insegnamento.

Quadro linguistico dell’Ialia attuale

Le principali componenti del lessico italiano sono:


latinismi, grecismi, francesismi, anglismi, germanismi,
arabismi, spagnolismi e parole di altra provenienza (e cioè dai
dialeti italiani: vongola - moluscă, sia termini derivati da nomi
propri come: calepino, garibaldino, gardenia, volt). Il lessico
italiano comprende in maggioranza parole di origine latina.
Alcune di queste parole sono entrate nel latino dal greco e dal
punto di vista etimologico sono definite come grecismi:
tragedia, litania, metro.
Il sistema grafico dell’italiano è il risultato della storia
della lingua italiana. Si presenta abbastanza coerente con la
pronuncia.
Dove si parla l’italiano

L’italiano è parlato in tutto il territorio della Repubblica


di cui è la lingua ufficiale. È inoltre parlato nello stato di
Vaticano, nella Repubblica di San Marino, in alcuni cantoni
della Svizzera (in Ticino e nel Grigioni), tanto che è una delle
lingue ufficiali della Confederazione. È parlato compreso nel
Principao di Monaco, nei territori delle ex-colonie italiane,
nell’ex – prolettorato di Rodi, in Istria e in alcune località della
Dalmazia. Vanno poi considerate le comunità di emigranti
italiani, sparse in tutto il mondo, e Malta, dove l’italiano fu
soppiantato dall’inglese e ora riguadagna terreno per
l’influenza della radio italiana. Alla televisione si deve
l’influenza recente dell’italiano in Albania.

Alloglotti nell’area italiana

Entro i confini politici della Repubblica Italiana sono


presenti alcuni gruippi alloglotti (dal greco “allos” - “altro” e
“glotta” - “lingua”) di origine romanza e non – romanza. In
molte valli alpine del Piemonte occidentale ci sono “penisole”
provenzali. La Valle d’Aosta e le Valli di Lanzo e di Susa sono
franco – provenzali. Il francese è per antica tradizione la lingua
di culturea accanto all’italiano. Nelle valli alpine dolomitiche si
parla il ladino, che può essere considerato qualche cosa di più
di un semplice dialetto. Nella maggior parte del Friuli e della
Carnia ci sono le parlate ladino – orientale, indicate con il
nome di “friulane”. Parlate ladine sono anche nel territorio
svizzero e il ladino (qui si preferisce “romancio”), in base alla
costituzione svizzera, è lingua nazionale (in Gardena, Fossa e
Badia , nel Trentino Alto Adige).
Il sardo può essere considerato una vera e propria
lingua però non c’è mai stato un riconoscimento del sardo da
parte del Parlamento italiano. Il sardo si distingue in 4 varietà:
gallurese, sassarese, logudorese (con il morese) e il
campidanese, che ha il suo centro nella zona di Cagliari.

Minoranze e isole tedesche

La più numerosa comunità tedescofona occupa l’alta


valle dell’Adige (la comunità autodesigna il proprio territorio
con il nome di Sud Tirolo). Questa minoranza etnica ha uno
statuto speciale, che interessa la provincia di Bolzano. Il
tedesco ha qui lo status di lingua ufficiale accanto all’italiano
(come il francese in Valle d’Aosta) e viene insegnato a scuola
come prima lingua ad appartenenti alla comunità tedesca, i
quali imparano l’italiano come lingua seconda (e non sempre in
maniera perfetta). Però, il tedesco parlato dalla popolazione
autoctona dell’Alto Adige è come nel Tirolo austriaco, un
dialetto tedesco diverso dalla lingua tedesca (il dialetto si usa
nella comunicazione familiare, la lingua tedesca
nell’insegnamento, nei rapporti burocratici, nella cultura, nella
religione, nella letteratura.
Grande interesse tra gli studiosi hanno sempre suscitato
le due colonie greche: l’una in Calabria (nei comuni di Bova,
Candofuri e Rogudi in Aspromonte) e l’altra nel Salento.

Minoranze slave

Rimangono in territorio italiano alcuni gruppi sloveni


nelle provincie di Udine, Gorizia e Trieste. Ci sono inoltre
alcune antiche colonie slave (serbo – croate) nel Molise.

Isole albanesi

Ci sono in Italia numerose colonie di albanesi da


emigranti giunti in Italia a partire dal secolo XV. Sono
distribuite tra la provincia di Campobasso (Molise) e
l’estremità settentrionale della provincia di Foggia (Puglia).
Altri gruppi isolati di albanesi si trovano nele provincie di
Pescara, Taranto, Potenza, oltre che in Calabria e in Sicilia,
dove esiste un grosso centro che si chiama appunto Piano degli
Albanesi. Alcune colonie hanno mantenuto il rito religioso
greco – ortodosso e la consapevolezza della loro identità
nazionale. Recentemente (1992,1997) c’è stata una nuova
ondata di emigrazione dall’Albania. Sono entrati
clandestinamente in Italia, spinti dalla disperazione, un numero
impreciso di albanesi.

Minoranze di altra origine

Negli ultimi anni sono arrivate in Italia molte persone


provenienti dal Terzo Mondo, in particolare dall’Africa
Settentrionale. È diventata ormai notevole anche
l’immigrazione di cinesi, polacchi, russi. L’immigrazione dai
paesi poveri del Terzo Mondo ha creato un nuovo
sottoproletariato urbano, con scarse possibilità di integrazione.
Queste comunità, diverse per lingua, razza, cultura e religione
mettono grandi problemi. Parlano un italiano imperfetto. Oltre
alla loro lingua materna (spesso l’arabo) conoscono un po’ di
francese e d’inglese. Si inserisce anche in un flusso tradizionale
la presenza degli zingari.

Aree dialettali e classificazione dei dialetti

Si possono distinguere in Italia tre aree diverse: la


Settentrionale, la Centrale e la Meridionale, separate da due
grandi linee di confine: la linea Spezia – Rimini divide i dialetti
settentrionali da quelli centro – meridionali; la linea Roma –
Ancona (Le Marche) divide i dialetti meridionali da quelli
centrali. La linea Spezia – Rimini (definita da Rohlfs,
“frontiera linguistica” per la sua importanza storica) fu in epoca
preromana la frontiera etnica fra i popoli gallici e l’elemento
etrusco. Nelle parlate dialettali, a nord di questa linea, si ha:
1. l’indebolimento delle occlusive sorde intervocaliche :
fradel per fratello; formiga (furmia) per formica;
2. lo scempiamento delle consonanti geminate: spala per
spalla, gata per gatta, bela per bella;
3. la caduta delle vocali finali: an per anno, sal per sale;
4. la contrazione delle sillabe atone: slar per sellaio, tlar
per tellaio.
Sono queste le caratteristiche proprie dei dialetti gallo – italici
(piemontese, lombardo, ligure, emiliano, romagnolo). I confini
dei fenmomeni elencati non coincidono perfettamente fra di
loro.
Un altra importante frontiera linguistica divide i dialetti
dell’Italia centrale dai dialetti dell’Italia meridionale: è la linea
Roma – Ancona. Le particolarità linguistiche sono:
1. la sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione
postnasale: mondone per montone, angora per ancora;
2. la metafonesi delle vocali toniche e ed o per l’influsso
di i e u finali: acitu per aceto, dienti per denti;
3. l’uso del verbo tenere per avere;
4. l’uso del possessivo in posizione proclitica (figliomio =
mio figlio) in genere per le persone.
Non sempre i confini tra le aree dialettali sono chiari. In
alcune zone della Toscana si manifesta (per l’influsso
settentrionale) la tendenza a trasformare k in g.La stessa lingua
letteraria in diversi casi ha accolto forme sonorizzate come :
ago, sugo, spiga, ecc. Nelle parlate delle Marche, dell’Umbria
e del Lazio si possono sentire pronunce in cui k, t, p
intervocaliche vengono indebolite.
Clasificazioni storiche dei dialetti
I dialetti mutano da luogo a luogo, anche all’interno di
una stessa regione o di una stessa città. La prima descrizione
sistematica e scientifica dell’Italia dialettale fu data da Ascoli,
nell’VIII volume della rivista da lui fondata, l’Archivio
glottologico italiano. Questa descrizione è stata la base di
quelle successive. Ecco l’elenco dei dialetti così come veniva
proposto nella Grammatica storica della lingua e dei dialetti
italiani d’Ovidio Meyer – Lübke (1919):

Dialetti dell’Italia :
 settentrionale: - gallo – italici (ligure, piemontese,
lombardo, emiliano);
- veneziano;
 centrale : - toscano (senese, fiorentino, aretino,
lucchese);
- umbro;
- romano;
 meridionale: - napoletano – calabrese (abruzzese, dial.
della capitanata, pugliese, napoletano, calabrese);
- siciliani (palermitano, catanese, dial.
dell’Enna, dial. di Bronte, siracusano, dialetto di Noto,
colonie di gallo-italici);
- sardi (settentrionali – gallurese, corso; centrale –
logudorese; meridionale – campidanese);

BIBLIOGRAFIA SELETTIVA

BRUNI, Francesco, Elementi di storia della lingua e della


cultura italiana, Torino, UTET, 1992

DARDANO, Maurizio, Manualetto di linguistica italiana,


Bologna, Zanichelli, 1991

DE MAURO, Tullio, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma,


Laterza, 1976
MARAZZINI, Claudio, La lingua italiana, Bologna, Il Mulino,
1994

MIGLIORINI, Bruno, Storia della lingua italiana, Milano,


Bompiani, Saggi tascabili, 1994

INDICE
pagina
Il latino e una lingua indoeuropea.............................................2
Il latino classico e il latino volgare...........................................3
Le lingue romanze.....................................................................5
Il sostrato....................................................................................8
Il vocalismo tonico del latino volgare......................................11
Il dittongamento.......................................................................13
La monottongazione................................................................14
L’anafonesi................................................................................16
La metafonesi...........................................................................17
Il vocalismo atono del latino volgare.......................................20
Il consonantismo del latino volgare..........................................23
La palatalizzazione....................................................................23
La sonorizzazione.....................................................................25
Assimilazione e dissimilazione.................................................26
Caduta delle consonanti finali...................................................34
Altri aspetti del consonantismo.................................................35
La morfologia del latino volgare...............................................37
Il genere.....................................................................................43
L’articolo..................................................................................45
Il comparativo...........................................................................49
Il verbo......................................................................................49
I pronomi..................................................................................51
Formazione del plurale..............................................................55
La sintassi del latino volgare.....................................................56
Il lssico del latino volgare.........................................................61
Le testimonianye del latino volgare.........................................72
Un confronto.............................................................................74
Il problema dei primi documenti...............................................75
L’atto di nascita dell’italiano...................................................81
Il filone notarile-giudiziario......................................................84
Il filone religioso.......................................................................87
I primi documenti letterari......................................................................89
Il Duecento................................................................................................92
Documenti centro-settentrionali...............................................................97
La poesia didattico-moraleggiante...........................................................98
I siculo-toscani, gli stilnovisti.................................................................99
Il Trecento. Dante, teorico del volgare....................................................100
Varietà liinguistica della Commedia.....................................................105
Il linguaggio lirico di Petrarca................................................................109
La prosa di Boccaccio............................................................................112
I volgarizzamenti.....................................................................................115
Il Quattrocento.........................................................................................117
Leon Battista Alberti...............................................................................123
Lorenzo Il Magnifico...............................................................................127
La prosa toscana.......................................................................................130
La letteratura religiosa.............................................................................131
La cancelleria e la koiné............................................................................133
Il Cinquecento...........................................................................................138
La Questione della Lingua. Pietro Bembo...............................................141
La teoria cortigiana...................................................................................145
La teoria “italiana” di Trissino................................................................147
La stabilizzazione della norma linguistica...............................................151
Gli scrittori di fronte alla agrammatica di Bembo....................................152
Le Accademie...........................................................................................154
Le traduzioni e la prosa tecnica.................................................................157
La chiesa e il volgare...............................................................................158
La predicazione.........................................................................................161
Il Seicento.................................................................................................163
Il Vocabolario dell’Accademia della Crusca............................................163
Il linguaggio della scienza........................................................................173
Il melodramma........................................................................................175
Ilbarocco....................................................................................................177
La predicazione nel Seicento...................................................................181
Il Settecento..............................................................................................184
L’influenza della lingua francese.............................................................188
Il dibattito linguistico settecentesco..........................................................189
Le riforme scolastiche...............................................................................193
Il linguaggio teatrale.................................................................................195
L’Arcadia....................................................................................................196
GianbattistaVico.........................................................................................199
L’Ottocento................................................................................................200
La proposta di Monti.................................................................................203
AlessandroManzoni..............................................................203
IdeeguidadiManzoni..............................................................209
Effetti linguistici dell’Unità.................................................211
Ascoli.....................................................................................216
Illinguaggiogiornalistico........................................................219
Ilmodello manzoniano............................................................220
Verga e la sintassi..................................................................222
Il Novecento...........................................................................224
La prosa poetica....................................................................227
L’oratoria e la prosa d’azione................................................229
La saggistica.........................................................................233
Politica linguistica dell’Italia fascista....................................233
La lessicografia del fascismo................................................236
Il dopoguerra..........................................................................237
Tendenze del linguaggio letterario........................................238
La radio e la TV.....................................................................241
I giornali.................................................................................242
La pubblicità..........................................................................243
L’italiano standard..................................................................244
Quadro linguistico dell’italia attuale.......................................244
Dove si parla l’ittaliano..........................................................245
Alloglotti.................................................................................246
Aree dialettali..........................................................................249
Dialetti dell’Italia……………………………………… 251
Bibliografia selettiva...............................................................253

De acelaşi autor:

AIOANE, Mirela, Forme alocutive şi reverenţiale în limbile


romanice. Pronumele alocutive în limbajul publicitar, Iaşi,
Universitas XXI, 2003
AIOANE, Mirela, COJOCARU, Dragoş, Limba italiană,
simplu şi eficient, Iaşi, Polirom, 2003
AIOANE, Mirela, Sintaxa limbii italiene, Iaşi, Cermi, 2005
AIOANE, Mirela, PINTILIE, Angela,
Dicţionarul principalelor verbe italiene şi
construcţiile lor specifice, Iaşi, Polirom, 2005
AIOANE, Mirela, Exerciţii de gramatică şi vocabular, Iaşi,
Polirom, 2005

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