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Nei primi anni del Novecento chi avesse voluto cimentarsi nella costruzione di una
macchina volante avrebbe potuto acquistare facilmente quasi tutto il necessario:
nell’ottobre del 1909, tra gli articoli del listino prezzi riservato ai soci della
Cooperativa automobilisti italiani di Milano, erano infatti compresi sete per palloni,
pattini, eliche speciali, corde d’acciaio e altri accessori aeronautici. Il catalogo
comparve tra le pagine della rivista «Motori, cicli & sport», concepita «per l’industria
e il commercio del ciclo, dell’automobile. Aeronautica e motonautica» e dedicata ai
sempre più numerosi appassionati cultori dei veicoli meccanici, tra cui – è facile
immaginare – alcuni improbabili emuli dei fratelli statunitensi Wilbur (1867-1912) e
Orville (1871-1948) Wright, proprietari di un’officina di biciclette e costruttori nel
1903 del Flyer, la prima macchina volante a motore del mondo.
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Al di là dello stupore suscitato per le grandi dimensioni, gli aerostati non riuscirono a
creare un diffuso immaginario popolare legato al volo: seppur stentati, lontanissimi
dall’incedere lento e imponente dei dirigibili, furono invece i primi voli delle
macchine a motore «più pesanti dell’aria», come quelli compiuti nel 1908 a Roma,
Milano e Torino dall’aeroplano Voisin di Léon Delagrange, a entusiasmare e
avvicinare la gente comune al nuovo sport aeronautico. Le città festanti per i sempre
più frequenti voli dimostrativi e i prati affollati che ospitavano le prime esibizioni
aeree rivelavano il richiamo esercitato dalle macchine volanti a tutti i livelli sociali.
All’inizio del 20° sec. l’aeroplano poteva essere considerato un mezzo rivoluzionario,
in grado di creare un inedito spazio di modernità dalle non trascurabili ricadute
industriali e commerciali. Ai raduni aeronautici italiani – tra cui il noto circuito aereo
del 1909 organizzato nella campagna bresciana di Montichiari – erano frequenti la
partecipazione di eccentrici inventori-piloti e la presenza di prototipi che a stento
riuscivano a staccarsi da terra, precariamente assemblati in officine domestiche: il
volo rappresentava una forma di cimento sportivo, quasi circense, che consentiva
ancora a iniziative individuali, destinate nella maggior parte dei casi all’insuccesso, di
trovare spazio e perfino di ambire a qualche possibilità di riuscita. Si trattava di un
ambito talmente innovativo da sfuggire, almeno agli esordi, a un’appropriazione
elitaria, grazie anche al carattere artigianale che – paradossalmente – caratterizzava
la più spettacolare esibizione di modernità e di progresso tecnologico.
A tale riguardo, la storia del conduttore di taxi genovese Ciro Cirri appare
emblematica: affascinato dalle macchine volanti, affidò la sua vettura a un
collaboratore per dedicarsi alla costruzione di un aereo nello scantinato di casa. Cirri
iniziò così la carriera di sportman dell’aria e, dopo aver ottenuto il brevetto presso la
scuola di Cameri (Novara), si cimentò in diversi voli prima di perdere la vita il 28
maggio 1911 in occasione delle giornate dell’aviazione di Voghera, a causa di un’avaria
al suo Blériot.
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È lecito ipotizzare che il goffo volo di Robinet rappresentasse una dissacrante parodia
della modernità e dei poco convincenti tentativi di volo compiuti durante le
manifestazioni aviatorie. Tuttavia, il messaggio dell’ironica missiva millantava un
esito che i reali pionieri dell’aviazione coltivavano seriamente: tra loro era diffusa
l’opinione che l’aereo avrebbe rivoluzionato la mobilità umana sfidando lo spazio e il
tempo, consentendo di spostarsi in sicurezza su lunghe tratte e in tempi ridotti. Le
grandi potenzialità dell’aviazione nel campo del trasporto passeggeri apparvero
immediatamente chiare agli osservatori d’inizio Novecento e questa precoce
consapevolezza trovò riscontro nei numerosi articoli pubblicati a tale riguardo nei
periodici e nei quotidiani del tempo.
Andando ben oltre la messa in scena di uno spettacolo sportivo, le esibizioni in volo e
le mostre statiche dei velivoli rappresentavano la vetrina industriale di un nuovo
mondo in piena espansione commerciale, alimentando una sempre maggiore
attenzione mediatica: in Italia, dove dal 1904 svolgeva un’infaticabile opera di
sensibilizzazione la Società aeronautica italiana, si può cogliere lo sviluppo
dell’industria aeronautica nazionale sfogliando le pagine delle numerose riviste
specializzate date alle stampe sulla scia delle prime manifestazioni aeree e
soffermandosi sulle inserzioni pubblicitarie, che costituiscono un parziale, ma efficace
strumento di rilevazione delle nuove imprese attive nel settore.
Tra queste, le Officine dell’ingegnere siciliano Franz Miller, fondate nel 1908 a
Torino, cui nell’agosto 1909 il mensile del Touring club italiano dedicò la copertina:
nell’inserzione interna Miller garantiva l’«esecuzione di qualsiasi macchina per volare
dietro semplice schizzo» e proponeva monoplani completi da 35-40 HP a 12.500 lire.
Il mese successivo, Miller si presentò al campo di volo di Brescia con l’aeroplano
Cobianchi I, costruito per Mario Cobianchi (1885-1944), e con l’Aerocurvo – così
denominato per la particolare architettura alare – realizzato per Leonino da Zara
(1888-1958): entrambi i modelli non riuscirono a decollare, ma nonostante
l’insuccesso dei due prototipi, nei mesi successivi Miller continuò a pubblicizzare
sulla stampa le sue officine.
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È quindi probabile che tra gli hangar del campo di volo bresciano Faccioli avesse
incontrato qualche conoscente tra gli specialisti dell’esercito al seguito dell’ufficiale
della regia marina Mario Calderara (1879-1944), progettista aeronautico e primo
italiano a conseguire il brevetto di volo nel 1909: la squadra militare schierò sul
campo di Montichiari un biplano Wright motorizzato dalle officine meccaniche
milanesi Rebus e tale presenza anticipò lo stretto rapporto fra ambienti militari e
mondo aviatorio destinato a caratterizzare, non senza criticità, la storia dell’industria
aeronautica nazionale.
Tra le pubblicità esposte al salone, quella della fabbrica di biciclette a pedali e motore
Frera di Tradate (Milano) attirò l’attenzione dei costruttori e degli addetti ai lavori,
allettati dall’interessante possibilità di approntare velocemente telai di monoplani e
biplani in uno speciale reparto allestito in sede.
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Dare ali alla patria: prove di volo dal deserto alle trincee
Nel 1911 l’Italia affrontò la guerra italo-turca con una dotazione di velivoli in
grandissima parte francesi o assemblati in Italia su licenza delle case-madri
transalpine Blériot e Farman. All’epoca l’unica azienda italiana piuttosto affermata
era la Caproni: in quello stesso anno l’ingegnere Giovanni Battista (Gianni) Caproni
(1886-1957), dopo la costruzione del primo biplano, iniziò la sua attività
imprenditoriale insieme al collega Agostino De Agostini costituendo la società Ingg.
De Agostini & Caproni Aviazione con sede a Vizzola Ticino (Varese), presto diventata
Caproni & C. a causa del ritiro di De Agostini, cui subentrò Carlo Comitti, facoltoso
appassionato di aeronautica.
Nei campi di volo militari italiani, oltre a quelli schierati in Libia, erano disponibili
circa una novantina di velivoli, tra cui una quarantina di Blériot, una quindicina di
Nieuport, dieci Henry Farman, tre Breguet, due Maurice Farman, due Deperdussin e
un ormai superato Voisin, tutti dotati di propulsori francesi Gnôme, Renault e Labor.
L’eterogenea linea di volo schierava, inoltre, tre aeroplani inglesi Bristol Coanda, un
paio di Etrich Taube di produzione austriaca e un Albatros tedesco. La
rappresentanza italiana era davvero esigua, con cinque monoplani Caproni
motorizzati Gnôme e Anzani, oltre a due biplani Filiasi e Asteria dotati di motori
Gnôme.
Nonostante i risultati operativi poco significativi raggiunti in Libia, dove per prima
l’Italia impiegò gli aerei in operazioni militari di ricognizione e bombardamento, la
nascita dell’originario nucleo di aviazione del regio esercito suscitò un certo interesse
e ciò convinse l’Aero club d’Italia a lanciare la sottoscrizione ‘Date ali alla patria’:
l’iniziativa, partita all’inizio di marzo 1912 e conclusasi nel 1913 dopo un’intensa
attività di voli propagandistici, consentì di raccogliere oltre tre milioni di lire da
impiegare per il potenziamento dell’aviazione militare, a partire dalle centomila lire
donate dal re Vittorio Emanuele III. Contemporaneamente, la riorganizzazione della
componente aeronautica rese possibile la predisposizione di un programma di
costruzioni da attuarsi entro la primavera del 1913 per allestire una quindicina di
squadriglie dotate di circa 150 aerei (una cinquantina di Blériot, una quarantina di
Maurice Farman, una trentina di Nieuport, quindici Henri Farman, sette Caproni,
oltre a un paio di idrovolanti Henri Farman e Bristol) di cui circa settanta da far
costruire in stabilimenti italiani, al fine di indurre positive ricadute occupazionali e
ottenere una sensibile riduzione dei costi di produzione.
Per motivi di bilancio Giulio Douhet (1869-1930), trasferito al Battaglione aviatori dal
luglio 1912 e all’epoca maggior teorico dell’impiego dell’arma aerea a livello
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Nella corsa alla produzione di aeroplani si gettò anche la Wolsit & C. di Legnano,
industria satellite della Macchi fino al 1909 impegnata nella costruzione delle
automobili inglesi Wolseley e, dopo l’infruttuosa avventura industriale aeronautica,
nella produzione di rinomate biciclette. A Torino si insediò invece la Fabbrica italiana
motori Gnôme et Rhône, controllata dalla sede francese, produttrice dei più diffusi e
pubblicizzati motori avio.
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Per quanto riguarda gli aerei, il concorso perse di interesse a causa delle contestuali
commesse di aerei già sul mercato varate dal ministero della Guerra, circostanza che
evidentemente scoraggiò gli investimenti su velivoli di nuova concezione. Ben più
significativo si rivelò il concorso bandito nell’ottobre del 1912 per monoplani e biplani
sperimentali con cui dotare due squadriglie: a Mirafiori, dopo le selezioni rimasero in
lizza l’anfibio della Società anonima meccanica lombarda (SAML), un paio di
monoplani Bobba costruiti su licenza francese e un monoplano Sia. Tuttavia anche in
questo caso il premio non venne assegnato. L’esito dei concorsi rappresentò insomma
la presa d’atto che l’industria italiana era ancora incapace di progettare prodotti
competitivi e tecnicamente all’avanguardia.
Tra le ditte che incontrarono difficoltà a onorare gli impegni presi con il ministero
anche la Caproni & Faccanoni, nata nel settembre 1912 dalle ceneri della Caproni &
C., impossibilitata a rispettare le consegne dei velivoli Bristol in conseguenza del
blocco della produzione deciso dalla casa madre inglese a causa di un grave difetto
tecnico riscontrato alle ali. Grazie all’intervento di Douhet, finalizzato a non
disperdere il patrimonio di esperienza di una delle più attive case aeronautiche
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italiane, le officine Caproni furono acquistate – non senza polemiche – dal ministero
della Guerra, che assunse anche l’ingegner Caproni.
Nel periodo di neutralità italiana le aeronautiche degli altri Paesi coinvolti nel
conflitto si rafforzarono notevolmente, costringendo l’Italia a un enorme sforzo
organizzativo e produttivo per colmare tali ritardi in vista dell’entrata in guerra. Nel
gennaio 1915 fu costituito il Corpo aeronautico, composto da una Direzione generale e
due Comandi d’aeronautica, quattro battaglioni (dirigibilisti, aerostieri, squadriglie
aviatori e scuole aviatori), oltre a uno stabilimento di costruzioni aeronautiche, una
Direzione tecnica (DTAM, Direzione Tecnica Aviazione Militare) e un Istituto
centrale aeronautico. Gli stanziamenti per il potenziamento dell’aeronautica,
quadruplicati rispetto alle iniziali previsioni, furono portati a sedici milioni e mezzo di
lire.
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In base ai dati forniti nel 1919 dall’Ufficio produzione della Direzione tecnica, le otto
fabbriche di costruzioni aeronautiche operanti nel 1915 nel corso della guerra erano
salite a ventisette, in grado di produrre un totale di circa 12.000 aerei (dai circa 400
aerei prodotti nel 1915 si sarebbe arrivati a quasi 6500 nel 1918). Nello stesso periodo
le officine specializzate nell’assemblaggio dei motori costruirono circa 24.000
propulsori, passando da sei a diciotto, mentre il ramo delle riparazioni e della
componentistica, formato da decine di imprese, nacque praticamente da zero durante
il conflitto. Poche centinaia di operai impiegati nel 1915 nel settore aeronautico alla
fine della guerra diventarono decine di migliaia.
I numeri, nonostante la produzione in cifre assolute sia molto inferiore a quella dei
maggiori Paesi coinvolti nel conflitto, attestano efficacemente gli sforzi profusi per
garantire un numero adeguato di aeroplani all’esercito italiano: tale mobilitazione
produttiva si può cogliere nelle inserzioni pubblicitarie comparse sui giornali che
attestano l’impegno dell’industria aeronautica per lo sforzo patriottico, anche
attraverso il finanziamento di lauti premi in denaro destinati ai migliori piloti da
caccia o da bombardamento elargiti dalle maggiori fabbriche di materiale bellico
(Fiat, Michelin, Pirelli, ma anche le più piccole Officine di Savigliano). I concorsi
promossi periodicamente dalla stampa e finanziati dalle imprese contribuirono a
diffondere il mito dell’aviatore, spesso ritratto nelle riviste come un eroe-dandy, in
posa accanto ad aerei con stemmi personalizzati (su tutti, l’inconfondibile cavallino
rampante di Francesco Baracca o il teschio nero di Fulco Ruffo di Calabria).
Al termine del conflitto, nell’ambito della fisiologica contrazione delle spese belliche,
fu inevitabile procedere al ridimensionamento delle dotazioni aeronautiche e degli
organici: molti mezzi aerei dell’aviazione militare vennero dismessi, riacquistati dalle
imprese produttrici a prezzo di saldo e rivenduti sui mercati esteri con ingenti
margini di guadagno. Qualche aeroplano fu rilevato perfino da alcuni ex aviatori di
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Quando, nel 1926, Italo Balbo (1896-1940) divenne sottosegretario del nuovo
ministero, e poi ministro dal 1929, fu chiaro il ruolo attribuito all’aviazione sia
militare sia civile: un compito di propaganda che, almeno nelle intenzioni, avrebbe
dovuto essere sorretto da un eccellente livello tecnico-organizzativo. Si spiega così la
scelta di collaboratori del ministero in grado di esaltare l’immagine e la sostanza
dell’aviazione italiana, da Filippo Masoero (1894-1969), esponente del
fotodinamismo futurista, nominato da Balbo direttore delle ricerche fotografiche e
cinematografiche, ad Alessandro Guidoni (1880-1928), ex pilota di idrovolanti e dal
1923 comandante del genio aeronautico: nel 1925 l’abitudine delle industrie a
disattendere i contratti fornendo aeroplani e materiali di qualità inferiore a quella
concordata portarono alle sue dimissioni, facendo emergere una serie di problemi fra
ministero e comparto industriale destinati a cronicizzare.
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Guidoni, richiamato da Balbo al ministero nel 1927 per assumere la carica di direttore
generale delle costruzioni e degli approvvigionamenti, si distinse per delle
avveniristiche innovazioni tecniche, alcune delle quali perfezionate e adottate nei
motori dei velivoli statunitensi solo nella Seconda guerra mondiale. Morì il 27 aprile
1928 in un incidente durante le prove di un paracadute, mentre era in corso la
sfortunata spedizione al Polo Nord del dirigibile Italia comandato da Umberto Nobile
(1885-1978), con cui Guidoni aveva sviluppato il progetto di un elicottero.
Dopo la tragedia del dirigibile Italia, schiantato sul pack artico alla fine di maggio,
Nobile fu ritenuto responsabile dell’incidente: fra i principali accusatori proprio
Balbo, intenzionato a sbarazzarsi di un ingombrante personaggio dotato di grande
prestigio personale, le cui imprese avevano sempre attirato notevole interesse
mediatico. Nel nuovo modello concettuale alla base della regia aeronautica non
dovevano più trovare spazio eccessivi personalismi: il mondo dell’aviazione, e
soprattutto il diffuso immaginario collettivo popolato da eroi solitari, fu ridisegnato in
base al principio mussoliniano dell’«armonico collettivo», per il quale le azioni dei
singoli, anche le più eroiche, acquisivano significato esclusivamente all’interno dello
Stato e della collettività. In tale contesto, anche le trasvolate solitarie di Francesco De
Pinedo (1890-1933) dall’Italia all’Australia (1925) e quella compiuta con Carlo Del
Prete (1897-1928) verso le isole di Capo Verde, l’Argentina e l’Arizona (1927), pur
inizialmente esaltate dal regime, cominciarono ad apparire legate a una desueta
epopea aviatoria.
Nell’intento di dare centralità al concetto di squadra, nel 1928 Balbo fondò il Reparto
alta velocità di Desenzano del Garda per preparare gli aerei e gli equipaggi destinati
alle competizioni aeronautiche internazionali: una politica che in alcuni casi portò
l’industria alla realizzazione di macchine eccezionalmente performanti, ma costruite
in pochissimi esemplari, senza sostanziali benefici per la produzione di serie. La
formula preferita per cementare lo spirito di gruppo e il senso di appartenenza fu
quella del raid collettivo, collaudata tra il 1928 e il 1929 attraverso l’organizzazione
delle crociere del Mediterraneo occidentale e orientale, cui parteciparono decine di
idrovolanti della regia aeronautica. Tale indirizzo operativo trovò la massima
espressione nelle trasvolate oceaniche del 1930-31 da Orbetello a Rio de Janeiro e del
1933 da Orbetello agli Stati Uniti, portate a termine da due pattuglie di idrovolanti
Savoia-Marchetti S.55 comandate da Balbo.
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e nel 1931 i trasvolatori atlantici ritornarono dal Brasile in Italia a bordo del piroscafo
Conte Rosso, in quanto gli idrovolanti protagonisti della trasvolata furono acquistati
dal Brasile.
Nel 1933, l’ammaraggio in formazione degli S.55 nel lago Michigan, in occasione
dell’Esposizione internazionale Century of progress di Chicago, rappresentò
un’esibizione spettacolare dell’eccellenza aeronautica raggiunta dall’Italia, ma
quell’impresa fu possibile anche grazie ad alcuni strumenti di navigazione di
produzione inglese (come la bussola aperiodica Husun della Smith’s aircraft
instruments) e ad altri congegni ideati dagli stessi aviatori, come l’indicatore di
velocità messo a punto dal capitano Luigi Questa e il regolo calcolatore del capitano
Alessandro Vercelloni, entrambi prodotti dalla Salmoiraghi di Milano: a ben vedere
l’ingegno dimostrato dagli aviatori smascherava una certa incapacità dell’industria di
progettare e produrre in serie equipaggiamenti di navigazione adeguati con cui dotare
tutti i velivoli della regia aeronautica.
Le affermazioni degli anni Venti e Trenta vanno quindi considerate ponendosi dietro
la ribalta mediatica, da dove è possibile rilevare i limiti di mezzi aerei efficienti, ma
dai ridotti impieghi operativi. Si trattava insomma di imprese essenzialmente
sportive, condotte con aeroplani di legno costruiti in modo semiartigianale e, nel
complesso, superati. Tale quadro rispecchiava fedelmente la miopia degli ambienti
politici e degli industriali, poco disposti a investire capitali per la realizzazione di
prodotti di serie innovativi con cui conquistare in modo duraturo significative fette di
mercato interno e internazionale.
Grazie alle commesse militari, nel corso degli anni Trenta il comparto aeronautico
italiano conobbe un grande sviluppo, ma, similmente a quanto accaduto durante la
Grande guerra, si trattò di una crescita sregolata, non sostenuta da un’adeguata
pianificazione tecnica. La necessità di una razionalizzazione della produzione fu
subito chiara a Balbo che, in molte pagine del libro dedicato ai suoi Sette anni di
politica aeronautica (1927-1933) a capo del ministero, pubblicato nel 1936, richiamò
tale questione più nei termini di un obiettivo da raggiungere che in quelli di un
risultato acquisito.
Nel 1934, quando Balbo lasciò il comando della regia aeronautica per assumere
l’incarico di governatore della colonia libica, le industrie italiane di cellule e motori
erano diciassette, altre dieci costruivano parti di ricambio ed effettuavano riparazioni.
Fiat e Caproni controllavano insieme ben il 64% del mercato. Nel 1938 le fabbriche di
velivoli e propulsori salirono a ventitré, quelle di manutenzione a diciotto,
impiegando complessivamente 47.000 addetti: per apprezzare le potenzialità di tale
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Gran parte dei problemi riscontrati sui velivoli acquisiti dalla regia aeronautica era
legata al difficile accoppiamento fra cellula e propulsore, oltre che a scelte progettuali
conservatrici: una nefasta alchimia che causò fra i piloti-collaudatori perplessità
destinate a trasferirsi inevitabilmente nelle stanze ministeriali e a tradursi in continue
richieste di modifiche che rallentarono lo sviluppo e influirono negativamente sui
tempi di produzione e consegna.
L’eccessivo ingombro dei motori radiali prodotti da Alfa Romeo (AR 126), Fiat (A 74)
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e Piaggio (P. XI), oltre alla loro scarsa potenza – ben al di sotto dei 1500 cavalli
disponibili, per es., sulle coeve unità tedesche Daimler-Benz – obbligò i progettisti a
realizzare aerei trimotori, con inevitabili controindicazioni aerodinamiche e limiti
prestazionali delle cellule, fino al 1939 costruite totalmente o parzialmente in legno.
Nel giugno del 1937 erano in produzione diciotto tipi di aeroplani, saliti a ventidue nel
1938; nel 1939 si cercò di limitare l’ipertrofica differenziazione di modelli e
motorizzazioni, ma la guerra complicò tali tentativi. Un cospicuo nucleo di
documentazione, anche fotografica, riguardante le specifiche tecniche dei mezzi aerei
entrati in servizio o testati dalla regia aeronautica, nonché i rapporti con le industrie,
è conservato in vari fondi dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’aeronautica di
Roma, in gran parte non ancora oggetto di studi sistematici.
Al di là dei dati statistici e dei risultati operativi descritti in alcune relazioni tecniche
già note e riprese in vari saggi, le conseguenze di questa fallimentare politica
industriale possono essere colte attraverso gli indizi che trapelano dagli epistolari
privati di alcuni protagonisti delle vicende aeronautiche dell’epoca. È il caso delle
lettere conservate presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma, spedite al capo di
gabinetto del ministro dell’Aeronautica Aldo Urbani dal generale Stefano Cagna, noto
trasvolatore atlantico e stretto collaboratore di Balbo: sono missive che esprimono
con illuminante immediatezza lo stato tecnico dell’aviazione militare alla prova della
guerra, scritte da un aviatore preparato che nella sua carriera aveva volato come
pilota collaudatore e mantenuto rapporti con i più importanti progettisti aeronautici
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Come certamente saprai, all’azione [su Biserta] hanno partecipato piloti appartenenti
a stormi differenti, per l’impossibilità di trovare, nello stesso stormo, tutti i piloti
necessari ad armare i dieci apparecchi che erano stati richiesti dall’ordine di
operazione. Se a questo aggiungi le difficoltà derivanti dalla bestiale disposizione
degli strumenti di navigazione sui cruscotti, sui quali non è stato nemmeno previsto
un impianto d’illuminazione, ti sarà facile farti un quadro della desolante situazione
in cui si trovano oggi gli stormi da bombardamento, per quanto riguarda il loro
impiego notturno. Al primo inconveniente rimedieranno i comandanti di stormo,
migliorando l’addestramento dei loro piloti; al secondo non c’è che l’autorità del Capo
di Stato Maggiore che vi possa rimediare ordinando cioè di montare sui cruscotti gli
strumenti di navigazione secondo la disposizione che fino ad oggi si è dimostrata la
più razionale e migliore di tutte. Ti prego, caro Urbani, di volerti interessare di questo
importante problema, la cui soluzione dovrebbe essere possibilmente rapida. Tu ne
capisci tutta l’importanza e sono certo che non perderai tempo.
Il generale Cagna venne abbattuto mortalmente il 1° agosto 1940 e fino a quella data
la situazione tecnica non pare fosse mutata, riflettendo la debolezza dell’intero
sistema industriale e militare.
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nel 1943 le sorti del conflitto erano già segnate per l’Italia e applicare il piano di
razionalizzazione fu assai complicato.
La fine del conflitto non significò per il comparto aeronautico nazionale la possibilità
di iniziare un percorso – per quanto accidentato – di ripresa: trattandosi di una
produzione strategica subì infatti le limitazioni imposte dai Paesi vincitori. Occorre
rilevare che al momento della Liberazione le industrie aeronautiche cercarono di far
fronte alla situazione attraverso una profonda riorganizzazione interna: in alcuni casi
le fabbriche rette dai Comitati di gestione a partecipazione operaia insediati dal
Comitato di liberazione nazionale (CLN) ottennero risultati positivi, come attestano le
esperienze della Siai-Marchetti (ex Savoia-Marchetti, dopo l’abbandono del richiamo
monarchico nella denominazione), della Macchi e della Fiat. In particolare, la
fabbrica torinese, tramite il commissario Antonio Cavinato, nominò amministratore
delegato l’ingegnere Giuseppe Gabrielli (1903-1987), in azienda dal 1931 dopo un
passato da progettista alla Piaggio: una scelta destinata a rivelarsi vincente per il
rilancio della Fiat.
Questa fase di trasformazione rappresenta uno tra gli snodi più interessanti della
storia industriale nazionale, non solo del settore aeronautico: le scorte di legname
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immagazzinate per produrre le carlinghe degli aerei furono destinate alla costruzione
di arredi e di componentistica per automobili, la Macchi realizzò lampade a petrolio –
indispensabili nell’Italia postbellica ancora priva di funzionanti linee elettriche –,
mentre la Caproni si dedicò alle riparazioni dei tram.
Alcuni prodotti come i motofurgoni Macchitre, usciti dalle linee di montaggio che in
passato avevano sfornato pezzi del sogno alato andato in frantumi durante la Seconda
guerra mondiale, diventarono protagonisti della ripresa italiana: fra tutte le
realizzazioni della riconversione industriale lo scooter Vespa della Piaggio fu, a
partire dal debutto nel 1946, quello maggiormente in grado di creare un inedito
immaginario sociale e di depositarsi indelebilmente nella memoria collettiva
nazionale, funzionando da mezzo per la ripartenza, metaforica e reale, di un intero
popolo.
Al momento della firma del trattato di pace, il 10 febbraio 1947, in Italia circolavano
già più di 2500 Vespa: un’affermazione commerciale in piena espansione che almeno
per la Piaggio rappresentò una valida alternativa alle limitazioni imposte alla
produzione aeronautica. In base ad alcune clausole fissate dagli accordi
internazionali, l’aviazione militare italiana avrebbe infatti potuto disporre al massimo
di 350 velivoli, di cui 150 caccia, mentre era vietato l’impiego di aerei da
bombardamento e di missili.
Nel 1949 l’adesione dell’Italia alla NATO (North Atlantic Treaty Organization) segnò
una svolta, il superamento di un punitivo blocco della produzione che consentì di
risollevare il comparto industriale aeronautico nazionale. Ciò avvenne nell’ambito di
un’alleanza politica e militare che rese possibile la pianificazione di un vasto
programma di ripotenziamento della linea di volo dell’aeronautica militare: se, da
una parte, l’industria venne alimentata grazie a commesse su licenza, soprattutto
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Dal 1953 in Italia iniziò la costruzione su licenza statunitense del caccia a reazione
North American F.86 Sabre e nell’industria aeronautica gli addetti risalirono a circa
7000 unità: una rinascita sancita nel 1958 dal successo del Fiat G.91, ispirato alla
formula costruttiva dell’F.86, dotato del propulsore a getto inglese Orpheus prodotto
dalla Bristol Siddeley engines su licenza dalla Fiat. Quell’anno, il G.91 venne
selezionato per ricoprire il ruolo di caccia leggero della NATO: il jet italiano portava la
firma dell’ingegnere Gabrielli, che aveva già progettato i primi aviogetti Fiat G.80/82
realizzati solo in piccolissima serie per l’aeronautica militare italiana. Il G.91, nelle
varie versioni, venne invece prodotto in circa 800 esemplari e destinato a una lunga
carriera operativa nelle forze aeree italiane e nella Luftwaffe tedesca. Alla metà degli
anni Cinquanta in Italia l’assetto industriale aeronautico si sviluppò quindi lungo tre
proficui filoni legati ai programmi NATO, alla realizzazione di aerei da addestramento
e allo sviluppo di un avanzato polo elicotteristico che consentirono nel decennio
successivo l’acquisizione di una certa autonomia progettuale e significative
affermazioni commerciali in ambito internazionale.
Opere
Aviazione, idroaviazione: origine, storia, sviluppi, dagli albori alle traversate aeree
dell’Atlantico. Note, documenti, disegni, progetti, studi, esperienze ideate ed
effettuate dall’eroico generale Alessandro Guidoni, note e documenti ordinati da G.
Mattioli, Roma 1935.
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G. Caproni, Gli aeroplani Caproni. Studi, progetti, realizzazioni dal 1908 al 1935,
Milano 1937.
L’industria aeronautica italiana a dieci anni dalla sua rinascita 1947-1957, Roma
1957.
Bibliografia
G. Costanzi, L’apporto italiano allo sviluppo della tecnica aeronautica, s.n.t., estratto
monografico dalla «Rivista aeronautica», 1959, 3.
F. Spairani, A. Venier, Una politica aeronautica per l’Italia. L’industria italiana fra
autonomia e collaborazione, Milano 1988.
L. Ceva, A. Curami, Air army and aircarft industry in Italy, 1936-1943, in The
conduct of the air war in the Second world war. An international comparison, ed. H.
Boog, New York-Oxford 1992, pp. 85-107.
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L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, a cura di P. Ferrari, Milano 2004
(in partic. A. Curami, La nascita dell’industria aeronautica, pp. 13-42; F. Minniti, La
realtà di un mito: l’industria aeronautica durante il fascismo, pp. 43-67; G. Garello,
L’aviazione civile fra le due guerre mondiali, pp. 69-80; M. Ferrari, Trasformazioni
e ridimensionamento dell’industria aeronautica nel secondo dopoguerra, pp.
115-42).
Le ali del ventennio. L’aviazione italiana dal 1923 al 1945. Bilanci storiografici e
prospettive di giudizio, a cura di M. Ferrari, Milano 2005 (in partic. R. Gentilli,
L’aeronautica italiana nel primo dopoguerra, pp. 13-30).
L’industria bellica nella storia d’Italia. Economia e tecnologia negli studi di Andrea
Curami, a cura di P. Ferrari, «Italia contemporanea», 2010, 261, pp. 575-719 (con
un’antologia di interventi di Andrea Curami).
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