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ERODOTO

Erodoto è il padre della storia greca.  La storia greca comincia come genere letterario
nel V secolo a.C.  Prima del V secolo il panorama letterario greco vede la diffusione
solo della poesia.
I primi scrittori in prosa, che sono considerati precursori degli storici, furono i
logografi (da "logos", parola in prosa).  I logografi scrissero opere di carattere
geografico ed etnografico, facendo spesso ricorso al mito.  La storia si differenzia da
questi precedenti perché pone al centro della vicenda le azioni umane e si basa
unicamente su fonti scritte o orali che le conferiscono veridicità.  La parola greca
"historia" deriva dalla radice "ιδ" del verbo "οράω", che indica quello che si è visto,
cioè una narrazione condotta sulla base di una visione autoptica.  Erodoto proveniva
da Alicarnasso (in Asia Minore).  Nella sua vita compì molti viaggi che gli fornirono
materiale per i suoi racconti.  Erodoto si trovò anche ad Atene, dove conobbe Pericle
e apprezzo il suo sistema politico;  scrisse nove libri di storie, che i grammatici
alessandrini nominarono col nome delle 9 Muse.  Le Storie di Erodoto sono
incentrate sul conflitto greco-persiano, del quale parla solo a partire dal quinto libro. 
I libri precedenti contengono una serie di "lógoi", cioè racconti indipendenti sui
popoli che vennero a contatto con i persiani.  A questo proposito è nata una
"questione erodotea":  si pensa, cioè, che Erodoto volesse scrivere questi racconti
indipendenti, dei quali sappiamo che dava pubbliche letture ad Atene, in cambio di
compenso.  Solo quando conobbe Pericle maturò in lui l'idea di parlare del conflitto
greco-persiano.  Secondo altri, invece, l'autore, fin dall'inizio, intendeva parlare della
guerra persiana e avrebbe introdotto i racconti precedenti per dimostrare l'ipertrofia
Dell'impero persiano, che finì con lo sfociare nella ύβρις e quindi generare il
conflitto.

IL METODO STORIOGRAFICO DI ERODOTO


Erodoto dice di essersi avvalso per la sua indagine (ιστοπία) di tre fonti:
-fonti scritte;
-οψσις;
-testimonianze orali (ακοή).
I documenti scritti sono le "Epigrafi" (scritte su pietra, incisione), le testimonianze
dei logografi le testimonianze poetiche.  La όψις, invece, è la conoscenza tramite
visione diretta, Erodoto poteva contare sulle sue conoscenze anche perché aveva
viaggiato molto.  L'unico limite Dell'autopsia (visione diretta) era per i fatti molto
lontani.  Le testimonianze orali sono quelle acquisite tramite le parole di altri. 
Erodoto dice di essersi avvalso soprattutto dei "λόγιοι άνδρες", cioè dei testimoni
oculari dei fatti.  Per tutte le testimonianze egli ha usato il vaglio della sua γνώμη
(giudizio critico);  in nome di questo giudizio egli distingue quello che ritiene
credibile da quello che non ritiene credibile.  Sostiene, però, che nell'opera è presente
anche quello che lui ritiene incredibile, perché il lettore deve conoscerlo per
formulare un suo giudizio.  Erodoto adopera anche il criterio del "verosimile",
tuttavia il suo verosimile, in alcuni casi, è discordante rispetto al nostro.  Crede, Per
esempio, all'esistenza dei serpenti alati.

CARATTERISTICHE DELLA STORIA ERODOTEA


La storia di Erodoto lascia largo spazio all'elemento fantastico, al meraviglioso e alle
novelle (λόγοι).  Il poeta accredita fiducia anche agli oracoli ed alla voce della
divinità (ο Θεός).  Le novelle sono incentrate su temi come l'eros, l'intrigo,
l'ineluttabilità del destino e la precarietà della sorte umana.  Come miti in Platone, le
sue novelle mirano a fornire insegnamenti;  la scelta di questa da parte di Erodoto è
motivata anche dal fatto che l'opera veniva anche recitata e quindi doveva mirare ad
attirare il pubblico con la piacevolezza del racconto.

L'ATTEGGIAMENTO DI ERODOTO VERSO I BARBARI


Nell'opera di Erodoto vengono nominati moltissimi popoli barbarici con i quali i
persiani vennero a contatto.  L'elemento greco compare solo a partire dal quinto libro,
di fronte ai barbari Erodoto mantiene un atteggiamento imparziale tanto che arriva a
lodare alcuni valori e alcune usanze loro:  per esempio, loda la religiosità degli
egiziani, il senso di giustizia degli Sciti.  Per questo atteggiamento equanime Erodoto
fu chiamato con tono ironico "filobarbaro" da Plutarco.  Nonostante questo
atteggiamento verso i barbari, lui riconosce la superiorità dei greci nell'ambito
politico, infatti sostiene che la ragione per cui i greci vinsero contro i persiani è da
rintracciare nel fatto che sono un popolo che combatte per difendere la sua libertà,
che gli è garantita dall'ordinamento democratico, mentre i persiani sono un popolo
oppresso, che obbedisce a un despota.  Nel colloquio fra Serse e il re spartano
Demarato, Serse sostiene che l'esercito persiano è più numeroso e quindi avrà la
meglio su quello greco e sottolinea che è impossibile che un popolo di uomini liberi
possa vincere, proprio perché non ha il peso dell'imposizione.  Demarato risponde
affermando che il padrone dei greci è il νόμος, che è anche la fonte della loro libertà.

LA VISIONE POLITICA DI ERODOTO


Erodoto condivide l'idea che la politica sia spesso il mondo della disonestà e della
slealtà.  I comportamenti illegittimi molte volte trionfano più di quelli legittimi:  egli,
dunque, disgiunge la politica dalla moralità.  Quanto alla forma ideale di governo,
Erodoto sostiene che la suddivisione dei poteri (πολυκοιραρανίη) non è mai
opportuna perché genera discordia, è quindi preferibile il governo di uno solo,
specialmente quando la monarchia è radicata nella tradizione (costumi patri).  La
monarchia secondo lui dovrebbe essere come è stata la tirannide ad Atene, che ha
lasciato comunque a ciascuno la libertà del singolo.

LA CONCEZIONE RELIGIOSA DI ERODOTO


Erodoto parte dalla convinzione che ciascun popolo abbia un proprio νόμος e che non
è giusto che un altro popolo tenti di imporre il suo νόμος;  questa imposizione si
configura come "ύβρις" e innesca l'intervento della giustizia divina (Δίκη) per
ripristinare l'ordine violato.  Un esempio di ύβρις è quello di Serse, Che per
conquistare la Grecia profana e costruisce un ponte di barche sull'Ellesponto.  L'idea
di giustizia che Erodoto difende è la giustizia apodotica (compensativa), cioè la
giustizia che compensa e le equilibrio infranto dall'atto di ύβρις, ripristinando il
κόσμος iniziale.  In Erodoto si riscontra anche il principio della "ereditarietà della
colpa", cioè la convinzione che la colpa dei genitori ricada sui figli.  Nel suo mondo
etico-religioso è anche rintracciabile il principio della "Θόνος Θεών", "Invidia degli
Dei", cioè la convinzione che una felicità eccessiva finisca inevitabilmente per essere
punita dagli dei, che molto spesso sono invidiosi.  Infatti, secondo Erodoto, nessuna
vita può essere considerata veramente felice, se non si conclude felicemente.  Lo
scrittore è molto vicino ai poeti tragici, con i quali ha in comune il meccanismo della
ύβρις-Αίκη, l'idea che spesso un personaggio apparentemente destinato alla rovina
possa, a conclusione della sua vita, ribaltare la sua sorte e rivelarsi un prescelto dalla
divinità (nella tragedia è Edipo, che diventa il protettore di Atene;  nella storia di
Erodoto c'è il personaggio di Creso, che dopo essere stato sconfitto dai persiani,
diventa consigliere di Dario.)

LA TRAGEDIA GRECA
La tragedia greca nasce e si sviluppa nell'Atene del V secolo.  La tragedia greca
aveva finalità e caratteristiche sconosciute al teatro moderno, infatti era, nello stesso
tempo, rito, gara ed assemblea.  Era un rito per la sua valenza religiosa perché veniva
rappresentata durante le feste Dionisiache.  Al centro dell'edificio teatrale era posto
un altare del Dio e la tragedia stessa si ispirava al mito, che per i greci era una sorta di
storia sacra.  Era poi assemblea per la sua valenza politica in quanto prevedeva la
partecipazione di tutti i cittadini allo spettacolo;  questi cittadini avevano
l'impressione di partecipare a un'assemblea politica e di assistere alla comunicazione
di messaggi importanti per tutta la comunità.  Era anche una gara perché gli autori
tragici svolgevano una competizione fra di loro dalla quale usciva un vincitore;  la
gara dava sfogo alla competitività che è insita nel popolo greco e stimolava gli autori
a scegliere i temi più coinvolgenti.

L'ORGANIZZAZIONE DEGLI SPETTACOLI


Le tragedie venivano rappresentate durante le feste per Dioniso:  le più importanti
erano le Grandi Dionisie fra marzo e aprile e prevedevano la sospensione delle
attività lavorative, quindi gli spettacoli teatrali costituivano una sorta di realtà
alternativa.  Tre giorni di queste feste erano destinati alla rappresentazione della
tragedia, il quarto alla rappresentazione della commedia.  Tre autori tragici
rappresentavano, ciascuno per un giorno, tre tragedie e un dramma satiresco (versione
comica della tragedia).  L'insieme delle tre tragedie è detto trilogia;  le tre tragedie
assieme al dramma satiresco costituiscono la tetralogia.  Gli autori venivano scelti da
un arconte eponimo fra quanti avessero presentato i loro lavori.  Fra i tre autori tragici
si svolgeva una gara, che decretava un vincitore.  L'organizzazione dello spettacolo
era gestita dallo Stato, che sceglieva un corégo, un cittadino facoltoso che in cambio
di prestigio finanziava lo spettacolo.  Gli abitanti pagavano un biglietto a basso
prezzo e i cittadini meno abbienti erano ammessi gratuitamente.  Il teatro ateniese
sorgeva alle pendici dell'Acropoli;  il semicerchio che ospitava gli spettatori si
chiama Θέατρον.  Al centro del teatro c'era una piattaforma circolare, chiamata
"orchestra", sulla quale si muoveva il coro (da "orcheanai", danzare).  Di fronte al
"teatron" era situato il palcoscenico, che originariamente era costituito da una tenda
(σκηνή) dietro alla quale gli attori si cambiavano, poi divenne un edificio che
rappresentava un palazzo o un tempio.  Nel teatro erano presenti anche due entrate
laterali destinate all'ingresso del coro (πάροδοι).  Le tragedie venivano rappresentate
all'aperto e ciò lo rendeva un evento unico perché le rappresentazioni cambiavano in
base agli eventi atmosferici, le scene di interno venivano rappresentate attraverso una
macchina teatrale Che permetteva di rendere visibili le scene di interno (εκκύκλημα),
mentre gli Dei comparivano attraverso gru dall'alto (μηχανάι).  I cambiamenti di
scena e i passaggi temporali erano raccontati da un messaggero;  il coro si esibiva con
l'accompagnamento del flauto ed era originariamente composto da dodici coreuti. 
Sofocle porto il numero dei coreuti a quindici e li divise in due semicori guidati da un
corifeo.  Originariamente l'attore era unico, poi sono stati aggiunti un secondo e
successivamente un terzo (presente già nelle ultime tragedie di Eschilo).

LA STRUTTURA DELLA TRAGEDIA


La tragedia cominciava con un prologo, che esponeva l'antefatto del dramma.  Al
prologo seguiva la párodo (dagli ingressi laterali), il canto di ingresso del coro.  Alla
párodo seguivano gli episodi;  tra un episodio e l'altro c'erano altri canti del coro che
si chiamano "stásimi" (da ίστημι, "stare fermo").  L'ultimo episodio della tragedia si
chiama "ésodo".  Il metro della tragedia è il trimetro giambico, mentre le parti corali
sono composte in metri lirici.  Nelle parti in distici i discorsi di lunga estensione si
chiamano "ρήσις", mentre lo scambio di battute di un solo verso si chiama
"sticomitía" (da "sticós", "verso" e "mythos", "racconto").  Sono presenti anche gli
"amebei", scambi di battute di più versi (αμέιβομαι, "rispondere").  Il corifeo dialoga
con gli attori come portavoce del coro;  le parti corali sono divise in strofe.

L'ORIGINE DELLA TRAGEDIA


Delle origini della tragedia parla Aristotele nella "Poetica", che dice che la tragedia
nacque da quelli che intonavano i "ditirambo" (canto per Dioniso);  Erodoto, invece,
parla di "cori tragici" destinati a cantare le sofferenze di un eroe, quindi collega il
canto corale alle vicende degli eroi che sono i personaggi delle tragedie.  Il nome
"tragedia" è composto dal termine "τράγος", "caprone" e dal termine "ωδή", "canto". 
Il nome può voler dire "canto sul caprone", identificando il caprone con Dioniso,
oppure "canto del caprone", cioè "canto dei coreuti travestiti da caproni" (quindi
travestiti da satiri, creature metà uomo e metà capre), seguaci di Dioniso.

L'IDEA DEL TRAGICO PER I GRECI


Secondo Aristotele la tragedia è l'imitazione (μίμησις) di un'azione seria e in sé
compiuta che, attraverso pietà e terrore provoca la κάθαρσις, di siffatte passioni. 
L'affermazione di Aristotele si spiega col fatto che la tragedia era rappresentata in un
momento di sospensione di tutte le attività:  questo andava a creare una grande
immedesimazione dello spettatore in ciò che vedeva, che era una realtà alternativa a
quella di tutti i giorni.  L'evento tragico suscitava nello spettatore pietà per il lutto a
cui assisteva e contemporaneamente terrore che questa stessa catastrofe potesse
capitare anche a lui;  questo spettacolo causava in lui una sorta di abbattimento, dal
quale riusciva a risollevarsi, tanto da risultare "guarito" alla fine della
rappresentazione, in cui il conflitto viene sanato.  Lo stesso Aristotele parla anche di
"αμαρτία", ''errore'';  questa secondo Aristotele è una sorta di peccato originale che
l'uomo si porta con sé che lo spinge inevitabilmente a sbagliare e a meritare la
punizione divina.  Della tragedia in età romantica parla Goethe, che scrive che la
tragedia nasce da un conflitto.  Nel mondo greco la tragedia esprime il conflitto fra
libertà e necessità, che si estrinseca particolarmente nel V secolo.  Per l'uomo del V
secolo è la possibilità di realizzare le sue aspirazioni e dimostrare la sua capacità
come era avvenuto nel conflitto con la Persia, in cui il mondo greco aveva dimostrato
le sue potenzialità.  La necessità è invece rappresentata dagli ostacoli che
impediscono all'uomo la sua piena realizzazione;  infatti, non appena finisce il
conflitto con la Persia, la Grecia dovette impostare la democrazia e fronteggiare il
problema antico della rivalità fra le città (in primis fra Sparta ed Atene).  Nella
tragedia la necessità è rappresentata in Eschilo dagli Dei, in Sofocle dal destino, in
Euripide dalle convenzioni sociali.  Tutti questi ostacoli impediscono agli eroi delle
tragedie la loro piena realizzazione, anche perché spesso, nonostante gli si presentino
due vie d'uscita, è obbligato a seguirne una sola;  anche quando compie un'azione
rivolta a uno scopo buono, ha come esito una soluzione dolorosa.  L'uomo tragico
realizza la sua libertà e la sua grandezza in questa resistenza alle avversità, che lo
porta ad agire nonostante sappia di essere destinato alla sconfitta.  La tragedia fu
studiata anche da Nietzsche, il quale scrisse che essa è l'espressione di un conflitto
insanabile nello spirito greco:  il conflitto fra apollíneo e dionisiaco;  L'apollineo è la
tendenza all'ordine, alla misura, all'equilibrio, il dionisiaco, invece, è la tendenza
all'irrazionale, all'incontrollato, allo sfogo dell'inconscio.  Secondo Nietzsche la
tragedia esprime lo spirito dionisiaco in tutto il suo corso, in cui si manifestano gli
impulsi irrazionali ed incontrollati degli uomini.  L'apollineo, invece, si realizza nella
conclusione della tragedia, in cui viene ristabilito un ordine anche se doloroso.

ESCHILO
Eschilo assiste alle guerre persiane, infatti partecipa alla battaglia di Maratona e a
quella di Salamina e scrive la maggior parte delle sue tragedie durante il periodo di
affermazione della democrazia.  Eschilo fu l'autore più apprezzato dai suoi
contemporanei per il suo nazionalismo e lo spinse a scrivere un autoepitafio in cui,
anziché celebrarsi come poeta, volle essere ricordato come combattente a Maratona. 
Eschilo fu considerato un grande educatore dal suo popolo, sperimentò la caduta della
tirannide e la democrazia di Clistene, che aveva posto fine alla suddivisione in classi
sociali su base del censo (riforma timocratica) e aveva introdotto una suddivisione su
base territoriale.  Questa riforma di Clistene, che poi fu perfezionata da Pericle, aveva
avviato il processo di decadenza dei γήνη aristocratici.  Dal punto di vista di Eschilo
le guerre persiane rappresentavano l'affermazione della democrazia contro il
dispotismo orientale.  Dopo le guerre persiane ad Atene si afferma la democrazia nel
senso più pieno del termine e Atene diventa la "scuola della Grecia".  Nelle sue
tragedie Eschilo canta il trionfo di Dike contro ogni forma di ingiustizia e di
prevaricazione.  La Dike, nelle tragedie di Eschilo, soprattutto nelle ultime, è
incarnata nella pólis, che rappresenta il trionfo dello Stato nel suo complesso. 
Eschilo aveva scritto più di cento tragedie, ma annoi ne sono pervenute solamente
sette.  Alcune di queste facevano parte di trilogie concatenate, cioè trilogie che
avevano come argomento le vicende di un'unica stirpe.  L'unica trilogia che ci è
giunta è l'Orestea, che comprende "Agamennone", "Coefore" ("portatrici di
libagioni") ed "Eumenidi" (le benevole).  Le altre quattro tragedie che ci sono giunte
sono i "Persiani", i "Sette contro Tebe", il "Prometeo incatenato" e "Le Supplici". 

"I PERSIANI"
Sono la prima tragedia eschilea che ci è giunta, scritta otto anni dopo la battaglia di
Salamina (480 a.C.).  "I Persiani" esemplificano il contrasto fra ύβρις e δίκη.  Il
persiano Serse incarna la ύβρις perché pretende di infrangere un κόσμος, un
equilibrio, profanando la natura con la perforazione del monte Athos e la costruzione
di un ponte di barche sull'Ellesponto.  La sconfitta di Serse da parte dei greci nella
visione eschilea rappresenta il trionfo della δίκη.  Eschilo introduce in questa tragedia
il concetto di άτη, accecamento.  L'uomo, pur consapevole che un suo gesto potrebbe
essere punito, è indotto comunque sbagliare da una forza misteriosa, άτη, che si
presenta con un atteggiamento seduttivo e ingannevole e confonde i concetti di male
e bene e inganna l'uomo, portandolo inevitabilmente all'errore.  Questa stessa forza
contiene in sé il richiamo alla punizione, che inevitabilmente scatta per l'uomo che ha
sbagliato.  Nella parte finale della tragedia, quando Serse appare in scena come un
mendico, Eschilo porge un monito ai greci;  li invita a guardarsi dalla fortuna
eccessiva perché anche un sovrano magnifico come Serse e non sfugge ai colpi della
sorte.

"IL PROMETEO INCATENATO"


Ha destato perplessità per la presentazione della figura di Zeus come sovrano
dispotico e ingiusto.  Questa "aporia", difformità rispetto al solito, veniva risolta nelle
successive tragedie della trilogia, in cui avveniva la riconciliazione tra Zeus e
Prometeo e quest'ultimo rivelava al Dio il segreto che custodiva, cioè che la donna
con la quale non avrebbe mai dovuto unirsi era Teti per non generare un figlio troppo
potente.  Questa tragedia di Eschilo ha avuto risonanza anche nel romanticismo, in
cui l'atteggiamento prometeico È quello di chi si ribella a tutto ciò che è ordine anche
a costo di sacrifici.

"I SETTE CONTRO TEBE"


Faceva parte di una trilogia, a cui appartenevano anche il Laio e l'Edipo.  "Laio"
discendeva dalla stirpe dei Labdacidi.  Laio aveva ricevuto il responso che non
avrebbe mai dovuto generare un figlio, perché questo figlio lo avrebbe ucciso e
avrebbe sposato la madre.  Laio, però, una sera, ubriaco, si unì alla moglie e diedero
luce ad Edipo.  Per evitare che si avverasse la profezia Laio espose Edipo, che però fu
ritrovato dai pastori del re di Corinto.  Divenuto adulto, Edipo, che conosceva il
responso che riguardava Laio, si allontanò da Corinto, ma lungo la strada incontrò
Laio senza riconoscerlo e, in una lite per questione di precedenza, lo ammazzò. 
Giunto a Tebe, si imbatte nella città devastata dal pericolo della Sfinge, che
sottoponeva chiunque la sfidasse a un indovinello.  Edipo risolse le righe e ottenne in
sposa Giocasta, sorella di Creonte e moglie di Laio, dall'unione di Edipo e Giocasta
nascono quattro figli:  Antigone, Ismene, Eteocle e Polinice.  Quando a Tebe scoppiò
una pestilenza, l'indovino Tiresia rivelò che questa pestilenza era dovuta alla presenza
Dell'assassino di Laio.  Edipo, animato da una straordinaria voglia di conoscere, parti
alla ricerca dell'assassino di Laio e scopre di essere lui stesso.  Di fronte a questa
scoperta Giocasta si impicca ed Edipo si acceca.  I due figli maschi non lo
rispettavano più e Edipo lanciò su di loro una maledizione dicendo che avrebbero
diviso il potere col sangue.  Infatti, inizialmente i due avevano deciso di avvicendarsi
sul trono di Tebe consecutivamente ogni anno;  dopo il primo anno di regno, Eteocle
si rifiutò di lasciare il potere al fratello e Polinice si rifugiò ad Argo e organizzò un
esercito per marciare contro Tebe.  "I Sette contro Tebe" di Eschilo è un "dramma
pieno di Ares" e racconta la guerra fra l'esercito argivo, comandato da Polinice e
l'esercito tebano, comandato da Eteocle.  Alle porte di Tebe vengono collocati sette
guerrieri argivi che si scontrano contro sette guerrieri tebani.  All'ultima porta è
collocato Eteocle che deve sfidare Polinice.  Prima della sfida Eteocle esprime la
considerazione che solo attraverso questa lotta fratricida, nella quale uno dei due
sarebbe morto, si potrà porre fine alla catena di delitti che interessa la stirpe di Laio. 
Il sangue che è stato versato da parte dei membri di questa stirpe potrà essere
riscattato solo con l'eliminazione della componente maschile del γήνος;  infatti
Eteocle si lancia contro il fratello pur consapevole che morirà.  La tragedia si
conclude con l'assassinio reciproco dei due familiari.  Questa tragedia esprime il
contrasto fra πόλις e γήνος e fra libertà e fato.  Eteocle e Polinice fanno parte di un
γήνος aristocratico nel quale vige l'idea della ereditarietà della colpa e sono entrambi
colpevoli:  Polinice di aver portato guerra alla sua stessa città ed Eteocle di aver
causato la guerra per il suo comportamento.  Questa colpa deriva all'oro dalla
contaminazione (μίασμι) che grava sull'intero γήνος.  Nell'Orestea Eschilo supererà
questa idea dell'ereditarietà della colpa con l'esaltazione della democrazia che
sostituisce alla vendetta la giustizia.  In questa tragedia Eteocle e Polinice sono legati
a questo destino di figli del colpevole.  Hanno però una certa libertà di scelta,
scegliendo autonomamente di lanciarsi nel combattimento, pur consapevoli di morire.

"AGAMENNONE"
Clitemnestra nella tragedia è una donna coraggiosa e artefice di piani malvagi così
come potrebbe esserlo un uomo (dal senno virile).  Lei sceglie Egisto per uno scopo
ben preciso;  il padre di Agamennone aveva punito suo fratello, Tieste, cioè il padre
di Egisto, facendogli mangiare le carni dei figli, però Egisto si era salvato.  Da quel
momento Tieste cova un odio smisurato verso Atreo.  Clitemnestra sceglie Egisto per
quest'odio atavico fra i due cugini.  Agamennone incarna il concetto di ereditarietà
della colpa;  dall'altra è incarnazione della ύβρις che è da lui attuata sia con il
sacrificio di Ifigenia, sia quando cammina sui tappeti di porpora, segno di regalità e
l'atto di oltrepassarli rende pari ad un Dio chi lo compie.  Al contrario di
Clitemnestra, Eschilo attribuisce ad Agamennone l'esitazione per la consapevolezza
delle possibili conseguenze.  Nell'Agamennone è contenuto il contatto di παθειμαθος:
Eschilo dice che il dolore è un importante strumento di conoscenza di se stessi e degli
altri;  attraverso il dolore si acquista consapevolezza.  Il παθει μαθος non è concesso
ad Agamennone, ma sarà concesso ad Oreste.

"COEFORE"
Clitemnestra, leggendo questo sogno come presagio di sventura, invia le coefore
presso la tomba di Agamennone.  Intanto, in casa di Clitemnestra e Egisto è rimasta
la sola Elettra che, legatissima al padre, medita la vendetta contro la madre.  Lei si
augura che questa vendetta venga compiuta dal fratello Oreste, che lei stessa ha
allontanato dalla casa, temendo che la madre, per sterminare la stirpe degli Atridi,
uccidesse anche lui.  Elettra non può compiere la vendetta perché, essendo donna,
non può punire un assassino, perché la punizione dell'assassino spetta solo ai maschi
del γήνος.  Oreste ritorna ad Argo in compagnia dell'amico storico Pilade, visita la
tomba del padre e lascia su di essa una ciocca di capelli;  la sorella Elettra riconosce
questa ciocca e fra i due avviene un incontro, dal quale Capisce che la vendetta
auspicata sta per avverarsi.  Oreste e Pilade decidono di presentarsi a casa di
Clitemnestra con l'aspetto di mendichi e vengono accolti da Egisto;  dietro le quinte si
compie l'assassinio di Egisto e, attraverso le grida dell'amante, Clitemnestra
comprende che la vendetta ha cominciato il suo corso, perciò afferma che "i morti
uccidono il vivo".  Oreste, quindi, si presenta alla madre e lei, per farlo desistere dal
suo proposito, gli mostra il seno che lo ha allattato.  Oreste, allora, si trova in una
situazione di αμηχανία, "incertezza", "imbarazzo", "titubanza" e chiede a se stesso τι
δρασω ("che cosa devo fare"?).  Egli non vorrebbe uccidere la madre, ma è incalzato
da Apollo che gli ricorda l'obbligo di vendicare il padre, perché si deduce che la
figura paterna è più importante di quella materna.  Dunque uccide la madre ma sente
su di sé la minaccia delle Erinni, dee antichissime antecedenti agli dei olimpici che
puniscono chi ha ucciso un consanguineo e sostengono che l'assassinio di
Clitemnestra è meno grave di quello di Oreste e, soprattutto, difendono il principio
matrilineare, cioè che la figura materna sia superiore a quella paterna.

EUMENIDI (le benevole)


All'inizio delle "Eumenidi" Oreste è perseguitato dalle Erinni che lo minacciano di
cibarsi del suo sangue fino a ridurlo ad ombra.  Quando le Erinni si addormentano,
Apollo raggiunge Oreste e gli consiglia di recarsi ad Atene per mettersi sotto la
protezione di Atena.  Intanto lo spettro di Clitemnestra risveglia le Erinni, le quali
rimproverano Apollo di aver osato sfidare dee come loro, che sono più antiche di lui
e inseguono Oreste fino ad Atene.  Dal momento che Oreste continua a sostenere le
sue ragioni e le Erinni esigono la vendetta, Atena decide di creare il Tribunale
dell'Areopago, tribunale antichissimo di Atene deputato a giudicare i reati di sangue. 
Oreste viene sottoposto a processo e ad un certo punto, i voti di assoluzione e quelli
di condanna sono uguali.  È risolutivo il voto di Atena, che essendo nata dalla testa di
Zeus, sostiene che la madre non sia necessaria per la procreazione;  Oreste quindi
viene assolto.  Dopo la soluzione di Oreste, le Erinni minacciano di devastare l'Attica
ma Atena le placa trasformandole in Eumenidi, dee protettrici di Atene e dell'Attica. 
La conclusione dell'Orestea è la celebrazione da parte di Eschilo della democrazia
della pólis rispetto alle leggi del γήνος, cioè la superiorità della sovrapersonalità dello
Stato rispetto alla parzialità dei γήνη.

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