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L'epoca successiva alla prima guerra mondiale vide la completa affermazione dell'Impero giapponese come

grande potenza: dopo aver inglobato parte delle colonie tedesche dell'Oceano Pacifico e aver assunto il
controllo di diverse lucrose rotte commerciali nel bacino, con il Trattato navale di Washington del 6
febbraio 1922 il Giappone ottenne il diritto di disporre della terza più grande flotta da battaglia del mondo,
una condizione che gli garantiva una superiorità militare visto che i suoi più forti contendenti (gli Stati Uniti
e il Regno Unito) dovevano dividere le loro flotte tra Pacifico e Atlantico. Lo scoppio della grande
depressione nel 1929 spinse il paese a cambiare il suo focus economico, prima concentrato negli scambi
commerciali con gli Stati Uniti, e a guardare con più interesse ai mercati asiatici; escluso dalle spartizioni
coloniali del XIX secolo, il Giappone si ritenne privato dell'accesso alle ricche risorse dell'Asia dalle potenze
europee e decise di compensare questo stato di cose con una serie di aggressive manovre di espansionismo
territoriale[1].

Lo scivolamento del Giappone verso una politica di imperialismo venne favorito da una forte
militarizzazione della società nipponica, iniziata già alla metà degli anni venti: la pervasività dei militari,
capaci di condizionare la vita politica nazionale tramite le azioni delle potenti forze di polizia segreta (la
Tokubetsu Kōtō Keisatsu) e militare (la Kempeitai), divenne esemplare nel campo dell'istruzione delle
nuove generazioni, tramite la destinazione come insegnanti nelle scuole pubbliche di numerosi ufficiali
dell'esercito rimasti senza incarichi. L'influenza dei militari nella società portò a recuperare il concetto
filosofico medievale del Gekokujō, secondo il quale un ufficiale inferiore può disobbedire agli ordini
superiori se lo ritiene moralmente giusto; oltre a degenerare in una serie di sanguinosi ma fallimentari
tentativi di colpo di stato da parte di ufficiali ultrareazionari (come l'incidente del 26 febbraio 1936), questo
principio fu la giustificazione adottata dai generali nipponici per portare avanti campagne di espansionismo
territoriale in maniera del tutto autonoma dai desideri del governo nazionale vero e proprio[2].

Truppe giapponesi occupano Pechino nell'agosto 1937

Lo sbocco primario di questo espansionismo fu la Cina, indebolita da una decennale guerra civile che
vedeva contrapposte le forze comuniste di Mao Zedong a quelle del Kuomintang nazionalista di Chiang Kai-
shek. Agendo in totale autonomia dal governo, i generali giapponesi orchestrarono il 18 settembre 1931 un
finto sabotaggio ferroviario a Mukden, utilizzato come pretesto per avviare l'invasione della regione della
Manciuria nel nord della Cina dove fu insediato lo stato fantoccio del Manciukuò. L'occupazione della
Manciuria portò a uno stato di profonda tensione diplomatica e militare tra Giappone e Unione Sovietica,
degenerato in una serie di schermaglie di confine proseguite fino al settembre 1939; ciò portò a un
avvicinamento diplomatico tra Giappone e Germania nazista in chiave antisovietica, formalizzato con la
stipula del Patto anticomintern il 25 novembre 1936. Il conflitto tra giapponesi e cinesi esplose infine in una
guerra totale a partire dal luglio 1937: le forze nipponiche diedero il via all'invasione della Cina centrale e
meridionale occupando nel giro di pochi mesi Pechino e Nanchino ma si ritrovarono poi invischiate in un
lungo conflitto di guerriglia, in particolare dopo la stipula di una formale alleanza in chiave anti-giapponese
tra i comunisti di Mao e i nazionalisti di Chiang; la vittoria nella lunga guerra contro i cinesi era quindi l'asse
portante della politica estera nipponica al momento dello scoppio delle ostilità in Europa[3].

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