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I DIFETTI DEL GESTO

DIRETTORIALE SECONDO LA
TECNICA CLASSICA
DI WALTER MARZILLI · PUBBLICATO 20 GIUGNO 2009 · AGGIORNATO 21 MARZO 2017
Questo e i prossimi articoli che seguiranno traggono ispirazione da una serie di scritti che
sono apparsi sulla Rivista “La Cartellina”. Costituiscono inoltre un breve estratto e una
anticipazione di un libro sulla direzione del coro che sarà pubblicato in seguito.  nel tentativo
di allontanarlo il più possibile dalle facili soluzioni personalistiche e soggettive. Queste
ultime corrono il rischio di apparire come le uniche soluzioni valide o le sole addirittura
possibili, non appena su di esse faccia in tempo a depositarsi la patina della consuetudine. La
sclerotizzazione di eventuali cattive abitudini – le quali non mostrano nessun freno nel
dilagare rovinosamente sugli aspetti fondamentali della direzione quali la concertazione,
l’emissione vocale e la gestualità – è spesso causa di un drammatico declino del coro, che
purtroppo ha termine solo con la sostituzione del direttore.
E’ necessario raggiungere innanzitutto il possesso di una tecnica di movimento chiara e
ineccepibile in qualunque situazione concertativa. Stiamo per mostrare dove la tecnica
direttoriale classica nasconde numerosi punti deboli.
Analizziamo il tipico gesto in quattro movimenti secondo le normali consuetudini della
tecnica gestuale. Esso può essere rappresentato graficamente in questo modo:[1]

Fig.1

Di facile e immediata rappresentazione grafica all’interno di un lavoro a stampa, questa


schematizzazione impatta contro tutti i limiti con i quali si imbatte chi deve parlare di
gestualità senza poter mostrare altro che alcune linee su un foglio di carta. Ad ogni modo è
un ottimo punto di partenza per riconoscerne i difetti.
Quattro punti di lavoro…
Con questo tipo di gesto il direttore colpisce ben quattro diversi punti nell’aria. Durante il
complicato flusso di informazioni – limitiamoci solo a quelle di ordine ritmico, senza
considerare quelle relative alla concertazione, al fraseggio, al suono ecc. – tra il direttore e
gli esecutori, avviene un fatto strano: il direttore si mette a percuotere un tamburo
inseguendolo dappertutto,[2] come se qualche bizzarro buontempone si divertisse a spostarlo
continuamente di qua e di là, di sopra e di sotto, facendogli assumere le quattro improbabili
posizioni raffigurate in Figura 2.

Fig.2

Si capisce bene come questo continuo “girovagare” del direttore finisca per ostacolare il
processo comunicativo del suo pensiero musicale verso gli esecutori.
Il rallentando…
Ma quello che appare più grave – e che dovrebbe spingere a cercare una soluzione migliore –
è costituito dal fatto che in occasione di un rallentando le dimensioni del gesto del direttore
spontaneamente si allargano. I quattro punti, che il coro si era ormai abituato in qualche
modo a riconoscere, vengono allora improvvisamente destabilizzati e sostituiti con altri
quattro, necessariamente tutti spostati verso l’esterno (ma di quanto?). Queste nuove zone di
lavoro daranno vita a inevitabili imprecisioni nella risposta degli esecutori, come si può
intuire dalla Figura 3.

Fig.3

Le nuove linee tratteggiate sono infatti facilmente causa di una indeterminatezza di azione da
parte degli esecutori, che non sanno prevedere dove e quando si fermerà la mano del
direttore, dopo aver oltrepassato il consueto punto. Alcuni cantori cercheranno di fare
qualcosa all’incirca nel vecchio punto (già: chi glielo ha detto che non è più valido?), altri
prenderanno l’iniziativa durante il movimento del braccio lungo la linea tratteggiata, i più
attenti e i più fedeli reagiranno più o meno nel nuovo punto, infine la maggioranza del coro
sarà capace di reagire dopo aver visto il nuovo punto, ma con i tempi di reazione propri di
ogni individuo, diversi l’uno dall’altro. E’ facile immaginare quale possa essere il risultato.
[3] Durante questo periodo di indeterminatezza, l’indecisione sarà interrotta solo
dall’intraprendenza di qualche corista. A muoversi saranno soprattutto i cantori che sono
considerati le guide delle sezioni,[4] in buona compagnia di quelli notoriamente più distratti
o superficiali.[5] I primi finiranno per prendere le redini della situazione e stabilire i contorni
di questa poco definita circostanza. Tutto si svolge in poche frazioni di secondo, ma un
ascolto attento, magari in cuffia, metterà a nudo le numerosissime situazioni simili a questa
che regolarmente avvengono durante le incisioni discografiche, anche nel caso di complessi
corali o orchestrali di grande fama, sia dal vivo che in studio.
L’accelerando…
L’ipotesi di un accelerando, seppure meno frequente di quella di un rallentando, diminuisce
la gravità della situazione, ma non gli effetti deleteri. Essi risultano però meno espansi
rispetto ad un rallentando, a causa delle dimensioni ridotte dello spazio e del tempo
impiegato. Nella realtà pratica il gesto del direttore, anziché subire una contrazione spaziale
che ne riduca le dimensioni – come sarebbe necessario in situazioni come queste – può
subire anche in questo caso una dilatazione, conseguenza della ricerca di una maggiore
visibilità, che però si rivela illusoria. Questo allungamento del gesto costringe infatti il
braccio del direttore a muoversi molto più velocemente, dal momento che deve riuscire a
coprire un percorso maggiore in un tempo minore (a causa dell’accelerazione che si vuole
imprimere al tempo). Nel caso che il direttore scelga di rimpicciolire il gesto per indicare
l’accelerando vorrà dire che ciò che in un rallentando si verifica verso l’esterno dei
precedenti quattro punti adesso si verificherà all’interno. Nel frattempo in entrambi i casi il
coro si mette alla ricerca dei nuovi quattro punti di lavoro… Le cause di indeterminazione
gestuale ed esecutiva, come si vede, non mancano nemmeno in questa circostanza.
Il crescendo…
Le cose non migliorano durante l’indicazione di un crescendo. Anche in questa occasione il
desiderio di comunicare questo importante elemento del fraseggio e la necessità di
risvegliare la reattività del coro, costringono il direttore ad ingrandire notevolmente il suo
gesto, anche per sottolineare meglio l’accresciuto spessore sonoro. Succede però che la
durata dei quattro movimenti rimane la stessa (o meglio, dovrebbe), mentre è aumentata la
distanza da coprire. Risultato: il gesto diventa più veloce e il coro accelera. Inoltre si patisce
la stessa indeterminatezza ritmica del rallentando, a causa dello spostamento verso l’esterno
dei quattro punti.
Il decrescendo…
In un decrescendo, invece, il direttore spontaneamente rimpiccolisce il suo gesto, ma anche
in questo caso, dato che l’andamento dovrebbe rimanere costante, il gesto tende a rallentare,
in modo da coprire una distanza minore nello stesso tempo. Il risultato è analogo al
precedente, ma contrario: il coro rallenta.
In definitiva possiamo affermare che se il coro accelera nel crescendo e rallenta nel
decrescendo, seguendo una consuetudine tanto radicata quanto inaccettabile, la colpa non
deve essere attribuita ai cantori, ma unicamente al gesto inesatto del direttore, legato a quella
che ormai potremmo iniziare a definire una tecnica gestuale sorpassata, o quanto meno da
superare.[6]
La suddivisione…
Il gesto descritto in Fig. 1 possiede altri aspetti negativi sui quali è opportuno far convergere
l’attenzione. Può infatti capitare che all’interno di una cadenza si renda necessaria la
suddivisione degli ultimi due movimenti della battuta, o della battuta intera. In questi casi,
non possedendo il gesto al suo interno una insita suddivisione, si deve ricorrere a qualcosa
che lo trasformi in un altro movimento, fatto rispettivamente di 6 o 8 spostamenti, sparsi un
po’ alla meglio nello spazio intorno:

Fig.3

Se poi ad essere suddiviso dovesse essere tutto il brano a causa di unadagio allora questo è il
tipico gesto in grado di mettere in imbarazzo qualunque direttore di fronte agli esecutori,
mancando totalmente di eleganza e maturità espressiva.
Ineguaglianza…
Probabilmente ce n’è abbastanza per mettere in dubbio una tecnica che possiamo considerare
almeno lacunosa, ma per concludere aggiungiamo un ultimo aspetto da non sottovalutare.
Osservando le figure precedenti non si può non notare come il primo movimento percorra
una linea più lunga rispetto al secondo, e così il terzo rispetto al quarto. Nel caso del primo e
del terzo movimento si tratta infatti delle due diagonali di un poligono; il secondo e il quarto
sono invece i lati, che geometricamente sono in genere più corti delle diagonali. Se si
trattasse solo di una raffinatezza pitagorico-euclidea sarebbe superfluo trattare la questione.
In realtà un ascolto attento della prassi comune può evidenziare una certa “fretta esecutiva”
del quarto movimento di una battuta, soprattutto in occasione di una cadenza in rallentando.
Oppure, quando va bene, si vede la mano del direttore compiere elaborati giri prima di
cadere sul primo tempo della battuta successiva, perché deve percorrere uno spazio più breve
in un tempo maggiore… In effetti, anche in condizioni di normale scorrevolezza del
fraseggio, la regolarità deltactus mal si combina con la irregolarità dei segmenti che la mano
deve percorrere.
In realtà la situazione può essere ancora più critica di come sia stata finora descritta, dal
momento che il classico gesto di Fig. 1 è stato espresso per mezzo di semplici segmenti.
Nella pratica direttoriale esso invece appare sempre annebbiato e confuso da inevitabili
curve e artistici arabeschi, e gli esecutori sono costretti a cercare di seguire il girovagare
delle mani del direttore nello spazio per capire quale sarà il momento giusto per reagire.[7]

Fig.5

Ascoltando con attenzione il risultato sonoro, si potrà notare come il coro e anche gli
strumentisti normalmente siano soliti procedere in ritardo rispetto al gesto del direttore.
Questo fatto ha causato la diffusione della falsa credenza secondo la quale il gesto del
direttore debba essere sempre in anticipo rispetto alla risposta degli esecutori. Niente di più
illusorio e ingannevole, dal momento che in questo modo risulterebbero falsati tutti i
parametri di reazione ai comandi del direttore, ma soprattutto pericolosamente filtrate e
indebolite tutte le sue intenzioni dinamiche, agogiche e concertative in generale.[8] Tale
pesantezza nell’andamento diventa palpabile durante l’esecuzione di un tempo composto in
sei, anche nel caso in cui il gesto del direttore sia
[1] Ciò che diremo a proposito del gesto in quattro movimenti vale anche per i gesti degli altri tempi semplici.
[2] In fondo, dal punto di vista puramente tecnico e descrittivo, il direttore non fa altro che percuotere un invisibile tamburo
quando deve ritmare una esecuzione. Non a caso i primi direttori d’orchestra impugnavano un bastone con il quale percuotevano
il pavimento. Un retaggio di questo primitivo modo di dirigere lo si può ancora intravedere nella figura del mazziere della banda.
Egli apre la processione dei musicanti, agitando in alto e in basso un elegante bastone rifinito con frange, senza ormai più
arrivare a percuoterlo sul terreno. Anzi, per la visibilità durante la marcia della banda, normalmente il tactus ritmico viene
colpito dal basso in alto…
[3] Il più lampante sarà la sovrapposizione di note che appartengono a due accordi diversi. Il meno in vista, seppure ugualmente
dannoso, sarà la perdita dei suoni armonici, causata dalla mancanza di contemporaneità nell’emissione delle note, con il
conseguente indebolimento del timbro.
[4] E questo contribuirà a rafforzare la loro prestanza psicologica e la necessità della loro presenza fisica, alle quali si
attaccheranno volentieri i cantori più deboli, con il risultato di diminuire l’autorità del direttore…
[5] Questo caso è certamente assai peggiore del precedente, perché il rallentando, che è un momento molto importante e
qualificante dell’esecuzione, sarà privo di maturità artistica.
[6] Essa risulta comunque più apprezzabile dell’ancor più antico sentore solfeggistico emanato dal fatidico “due in battere, due
in levare”. Anche Carlo Maria Giulini alla fine si “convertì” alla tecnica moderna, quella del cosiddetto punto focale,
abbandonando le sue caratteristiche curve…
[7] Se la dipendenza del cantore dal gesto è certamente una cosa positiva, dobbiamo anche ammettere la necessità che il
direttore non si metta a fare troppo il “misterioso”, ma faccia capire esattamente agli esecutori quali siano le sue reali volontà e
le sue precise intenzioni. Se egli ne fosse privo, allora varrebbe la pena di nascondersi dietro gesti pieni di curve e poco definiti.
[8] Il transitorio d’attacco della voce e soprattutto degli ottoni è piuttosto lento, specialmente nelle sonorità e negli attacchi
leggeri, e questo contribuirebbe ad aumentare il discostamento del suono dal gesto. Ferma restando, in condizioni normali, una
particolare attenzione nell’attacco agli ottoni.
ALLA SCOPERTA DELLA TECNICA
GESTUALE MODERNA Parte
Seconda
DI WALTER MARZILLI · PUBBLICATO 24 OTTOBRE 2009 · AGGIORNATO 6 FEBBRAIO 2018
Essa si basa sulla ricerca e l’utilizzo di un unico punto, che d’ora in avanti indicheremo
come Punto Focale (PF). Tale punto deve permettere di raggiungere una tecnica gestuale
attraverso la quale il direttore possa emanare tutta la forza comunicativa di cui dispone, sia
essa relativa agli aspetti di natura strettamente tecnica, come anche concertativa, artistica e
interpretativa, persino poetica.

Fig.1

Per iniziare la nostra ricerca partiamo dalla tecnica gestuale classica, e precisamente dal
gesto della misura in quattro tempi come lo troviamo indicato in quasi tutti i manuali di
direzione:[1]

In realtà, come si vede nella Fig. 1, il gesto classico contiene già un punto particolare che
sembra essere accomunato a tutti e quattro i movimenti, indicato in Fig. 2 dalla lettera O.

Fig.2

Purtroppo nella situazione di Fig. 2 esso non possiede ancora nessuna validità gestuale, dal
momento che la mano del direttore, mentre descrive nell’aria il secondo e il quarto
movimento addirittura non lo tocca. Durante il primo e il terzo movimento semplicemente lo
attraversa, ma senza che in quel preciso istante accada nulla. Occorre invece fare in modo
che quel punto centrale – situato all’incrocio dei gesti e per questo già dotato di una virtù
interessante come appunto la centralità della sua posizione  – acquisisca una valenza
[2]

significativa in relazione alla pulsione ritmica della mano, che in esso dovrebbe concentrare i
suoi movimenti per illuminare una zona di lavoro che possa essere facilmente riconosciuta
dagli esecutori.

Fig. 3: Primo tempo

Per fare questo si rende subito necessario che il gesto relativo al primo tempo della
battuta non oltrepassi il PF: si genera allora una linea spezzata la quale, partendo
dall’alto (Fig. 3, punto A), vi ritorna dopo aver toccato il punto O, che già chiameremo
PF. In questo modo risultano anche facilmente definite le due suddivisioni che formano
il primo tempo, e questo fatto mostrerà tutta la sua efficacia ogni qual volta dovessimo
affrontare un tempo lento, tale da imporre l’adozione di un gesto suddiviso.  Nella [3]

seguente Fig. 3 i due segmenti del gesto sono mostrati leggermente divaricati tra di
loro, per rendere possibile una loro distinzione visiva. Nella pratica essi risultano
naturalmente coincidenti:

A questo punto, seguendo la consolidata prassi che vuole vedere il primo gesto di ogni
battuta indirizzato verso il basso (in battere), il penultimo verso l’esterno

Fig. 4: Secondo tempo

del direttore  e l’ultimo verso l’alto (in levare), non resta che mandare il secondo
[4]

movimento verso l’unica direzione lasciata libera da questa classificazione – quella


verso sinistra – senza tralasciare di passare prima attraverso il PF. Il tutto partendo
dalla fine del primo gesto (Fig. 4, punto A): [5]

Sarebbe stato infatti un grave errore rinnegare il PF e dirigersi a sinistra con una curva
indefinita, anche se molto spesso è proprio quello che succede (cfr. Fig. 5)in questo modo gli
esecutori non hanno la possibilità di prevedere dove si fermerà il braccio, il cui movimento
ha eluso il PF, annullando con essotutta la chiarezza e la leggibilità del gesto.

Fig.5

Abbiamo già avuto modo di denunciare le conseguenze di un tale comportamento, che [6]

sono sempre in agguato in tutti quei casi nei quali si debba o si voglia cambiare la
velocità, ad esempio…
Per quanto riguarda il terzo tempo, come abbiamo visto, esso va indirizzato verso l’esterno
del corpo del direttore – quindi verso destra nel nostro caso. La mano sinistra, volendo
raddoppiare il gesto, si muoverà a specchio verso sinistra. Come per il movimento sul
secondo tempo, esso passerà attraverso il PF provenendo proprio dalla seconda suddivisione
(cfr. Fig. 4, punto B), configurando così il seguente gesto:

Fig. 6: Terzo tempo

Facciamo un passo indietro. Se per il secondo tempo avessimo adottato un gesto ad angolo
retto come quello illustrato in Fig. 7 dalla linea tratteggiata, allora avremmo raggiunto la
posizione finale C del terzo movimento attraversando frettolosamente verso destra il PF con
una linea retta. Su di esso non avremmo quindi avuto nessuna possibilità di mostrare agli
esecutori una qualche minima scintilla ritmica-gestuale, e saremmo tornati alla situazione del
gesto della tecnica classica, cioè al punto di partenza..

Fig.7

Ecco perché è opportuno che la seconda suddivisione del secondo tempo formi un angolo
acuto con la verticale della prima suddivisione, come in Fig. 4. Nello stesso senso, pur
adottando un angolo minore di novanta gradi per il secondo movimento, occorrerà fare
sempre particolare attenzione a non spostarsi sbrigativamente dal punto di partenza, cioè
dalla posizione finale del secondo gesto (Fig. 8, punto B), tracciando una linea retta verso
destra (Fig. 8) o una curva (Fig. 9) per raggiungere il punto finale C del terzo tempo.

Fig.8

In questo caso torneremmo infatti ad usare la vecchia configurazione “a farfalla”, con


l’aggravante di tradire la validità del PF, ormai delineato, passandogli lontano senza
nemmeno toccarlo:

Fig.9

Siamo giunti al quarto e ultimo tempo della battuta, per il quale possiamo ripetere i
ragionamenti fatti per il terzo gesto. Una volta infatti giunti sul punto finale del terzo
movimento (Figg. 6 e 10, punto C), basterà ritornare alla posizione iniziale della battuta
situata in alto

Fig.10

(Fig.10, punto D coincidente con A di Fig. 3), passando rigorosamente ancora una volta per
il PF attraverso una linea spezzata (C-D).
A questo punto può essere utile disporre in sequenza i quattro movimenti per vederli
chiaramente uno dopo l’altro:
Fig.11

Per maggiore chiarezza e a scopo puramente esplicativo vogliamo anche collegare con una
curva tratteggiata la posizione finale di ogni gesto con quella iniziale del successivo:

Fig.12

Siamo quindi giunti all’ultimo passaggio, che consiste nel traslare i gesti sovrapponendoli al
primo, facendo coincidere uno sull’altro tutti i PF. Si ottiene così la figura definitiva del
gesto per la misura in quattro tempi, nella quale i punti ABCD non rappresentano
il tactus, ma costituiscono solo la seconda suddivisione di ogni movimento: [7]

Come si vede, in questo modo tutti e quattro i gesti si muovono sempre da e verso (per la
verità dovremmo meglio dire “verso e da”) lo stesso identico punto (PF), unico
vero tactus del movimento gestuale, che può rimanere immutato anche in relazione alle
diverse dinamiche del suono. [8]

Fig.13
Adottando questo tipo di gesto ci si accorgerà subito infatti che la differenza più appariscente
e pregnante rispetto a quello “a farfalla” (cfr. Fig. 1, e soprattutto le Figg. 2 e 3 del
precedente citato articolo) risiede nel fatto che il PF diventa il centro immutabile di una
circonferenza.  I raggi sono costituiti dalle tre diramazioni dei gesti: sarà la lunghezza di
[9]

questi ultimi a variare in riferimento alla dinamica, all’agogica e alla concertazione, ma non
il centro della circonferenza, che potrà stabilmente mantenersi fermo all’altezza del plesso
solare:
[10]

Fig.14

Con la Fig. 14 si vuole intendere, ovviamente solo in modo indicativo, che il gesto interno al
cerchio piccolo C può essere usato per indicare un piano, quello interno al cerchio B per
un mezzoforte e quello interno ad A per un forte. Indicativamente – dicevamo – poiché
sappiamo come la concertazione più efficace sia quella che deriva da una comunicazione più
che gestuale, da una trasmissione delle idee musicali dal direttore all’esecutore che sublima
il semplice muovere un braccio, che si nutre di sguardi, di complicità, di intelligenza
musicale, di sensibilità esecutiva…
Quali sono i pregi della moderna tecnica gestuale? Tutti quelli che nella tecnica classica ne
costituivano i difetti, e che adesso si sono trasformati in vantaggi.  E poi basta sperimentarla
[11]

per capire quanto diventi facile, diretta ed efficace la trasmissione del pensiero musicale dal
direttore verso l’esecutore.[12]
Per concludere, non è necessario specificare ancora che tutte le precedenti esemplificazioni
grafiche, condotte inevitabilmente attraverso l’utilizzo di linee rette, debbano essere
vivificate dal gesto del direttore che ne arricchirà i connotati, donando loro l’imprescindibile
fluidità e la necessaria sinuosità. C’è però assolutamente da augurarsi di mantenere sempre
sotto il massimo controllo il proprio gesto, per non incappare nel pericolo opposto: quello di
annebbiare e confondere la chiarezza dei movimenti con curve fumose e poco comprensibili,
nelle quali il legittimo pathos finisce inevitabilmente per offuscare la comunicativa del
direttore.
NB: Il presente articolo costituisce un breve estratto e una anticipazione di un libro sulla
direzione del coro che sarà pubblicato in seguito dall’autore.
 
[1] Cfr: Walter Marzilli, I difetti del gesto direttoriale secondo la tecnica classica, in: “La Cartellina, Marzo-Aprile 2002, n°
140”
[2] Giustamente si è soliti suggerire di battere il tempo insistendo all’altezza del plesso solare, più o meno corrispondente allo
sterno. Non è da sottovalutare il fatto che l’adozione del punto centrale O permetta subito di posizionare il gesto nel punto giusto.
Qualunque altra posizione risulterebbe infatti rispettivamente troppo bassa (punto 1 del gesto in Fig. 2), troppo a sinistra (punto
2), troppo a destra (punto 3) o troppo in alto (punto 4).
[3] In aggiunta ai suddetti casi di suddivisione, si devono considerare tutte le frequentissime occasioni in cui nella cadenza
compaiono le suddivisioni dell’unità di tempo e il rallentando viene condotto in modo sostenuto: per non lasciare liberi gli
esecutori di rallentare secondo le proprie sensazioni (tante e plurime quanti sono i cantori) si rende necessario indicare
entrambe le crome (nel tempo in quarti), suddividendo il gesto. La presenza di un movimento di andata e uno di ritorno dal PF
permette facilmente di farsi capire, mostrando ai cantori ogni suddivisione con un opportuno rimbalzo sul PF.
[4] Si tratta di una zona aperta, nella quale il braccio trova tutto lo spazio di cui può avere bisogno per attuare un rallentando in
una cadenza. Il penultimo movimento risulta infatti in questi casi molto importante perché prelude all’ultimo gesto del
rallentando, prima dell’evento che seguirà: o l’apparizione di un motivo tematico o la conclusione del precedente. In questo
senso si capisce perché in questa catalogazione delle direzioni non risulta preso in considerazione il gesto sul secondo
movimento di una qualunque misura in quattro tempi, ma solo quelli sul primo, il terzo (penultimo) e il quarto (ultimo). In seguito
probabilmente avremo modo di osservare come il secondo gesto non aggiunga ulteriori utili informazioni all’esecutore rispetto a
quelle fornite dal primo gesto, e questo sia in fase di attacco (tutto sarà indicato già prima dell’attacco stesso, nel gesto di
preparazione: respiro, dinamica, agogica, atteggiamento mentale, pathos…) che di chiusa, dove la progressività del rallentando
impedisce al secondo tempo – e quindi al relativo gesto – di assumere dimensioni ragguardevoli, che sarebbero contrastate dalla
presenza del corpo stesso del direttore. Nel penultimo e ultimo tempo della battuta, ben più pregnanti dal punto di vista agogico, i
gesti relativi possono contare su una maggiore possibilità di estendersi rispettivamente all’esterno e verso l’alto.
[5] Questo tipo di direzionalità dei gesti all’interno di una qualunque battuta risulta diffuso e rispettato in modo pressoché
universale in tutto il mondo. Soltanto alcune correnti di natura soprattutto solfeggistica, e comunque non recentissime, prevedono
altre possibilità, ma queste si rivelano meno adatte ed efficaci ai fini di una direzione accorta e scrupolosa nei confronti delle
necessità dell’esecutore.
[6] Cfr: Walter Marzilli, I difetti…, op. cit..
[7] Ricordando che i due segmenti che formano il primo gesto, come già detto in precedenza, sono coincidenti e non divergenti.
[8] Si noterà inoltre come tre sole linee siano sufficienti per indicare i quattro movimenti della battuta.
[9] Si paragoni la stabilità e la chiarezza che questa situazione attribuisce al PF, e le si metta in relazione all’idea espressa nel
precedente già citato articolo, secondo la quale nel gesto a farfalla i quattro movimenti sembravano inseguire affannosamente un
fantomatico tamburo nei suoi imprevedibili continui spostamenti.
[10] In questo senso risulta opportuno tenere il PF in una posizione non troppo alta, in modo da permettere la dilatazione del
gesto verso l’alto senza essere costretti ad estendere completamente il braccio. In ultima analisi, sarebbe bene che il direttore si
lasciasse sempre la possibilità di fare qualcosa di più in ogni situazione del dirigere: da intendersi non tanto come reale
opportunità da attuare veramente, quanto come fattore limitante nei confronti di qualunque esagerazione gestuale (e quindi
anche interpretativa).
[11] Cfr. Walter Marzilli, I difetti, op. cit..
[12] In questo caso si intende un esecutore impersonale, che può anche essere una formazione orchestrale, con la quale questa
tecnica, con l’aiuto della bacchetta, dà risultati ancora più qualificati e specifici. Non è invece adatta per i movimenti strumentali
veloci di presto, per i quali non è consigliabile adottare il gesto moderno con le suddivisioni. In questi casi ci dovremo fermare
sui punti esterni della struttura gestuale, senza passare di nuovo dal PF.

ALLA SCOPERTA DELLA TECNICA


GESTUALE MODERNA – Parte Terza
DI WALTER MARZILLI · PUBBLICATO 2 GENNAIO 2010 · AGGIORNATO 3 FEBBRAIO 2018
Il gesto in tre movimenti
Si vuole subito ricordare come il precedente gesto in quattro movimenti sia stato definito
attraverso l’utilizzo di tre sole direzioni, una in meno rispetto al numero dei movimenti.

Fig.1

A questo proposito è opportuno riproporre di seguito i quattro movimenti e le tre direzioni


risultanti: 1

Fig.2

Sovrapponendo i quattro PF coincidenti, ave vamo potuto ottenere la configurazione


3

definitiva, costituita appunto da tre sole direzioni:


Si può quindi immaginare che anche per il gesto in tre tempi ci si possa limitare a due sole
direzioni, una in meno rispetto ai movimenti. In effetti, anche ricordando la convenzione di
attribuire al primo movimento la direzione verso il basso, al penultimo quella verso l’esterno
del direttore e all’ultimo quella verso l’alto, si potrà facilmente determinare la seguente

configurazione:5

Fig.3

Facendo sovrapporre i PF coincidenti si otterrà la figura seguente:

Fig.4

Sarà ovviamente possibile – in alcuni casi ad dirittura necessario – aprire l’angolo di lavoro,
adesso piuttosto acuto, per indirizzare la seconda suddivisione del secondo tempo più in
basso verso destra rispetto a quella in figura 4, per aprire il braccio verso l’esterno.
6

L’apparente schematicità del gesto proposto deve ovviamente considerarsi soltanto


indicativa. L’essenzialità del disegno non impedirà infatti di impossessarsi del gesto e di
renderlo plastico, in rapporto alla propria sensibilità artistico-gestuale e alle personali
caratteristiche morfologiche. Il necessario arricchimento del gesto, però, non deve andare a
discapito della sua chiarezza, che è frutto immediato, diretto, ma soprattutto estremamente
efficace dell’uso del PF. Per questo si raccomanda, almeno all’inizio, di mantenersi quanto
più possibile fedeli al PF durante la scansione dei movimenti, specialmente quando si
desideri intervenire variando i parametri della dinamica e dell’agogica.
Durante il movimento delle mani si dovrà avvertire una speciale attrazione centripeta verso il
PF – ma questo in tutte le misure di tutti i tempi quando adottiamo la tecnica del Punto
Focale – evitando perciò di allontanarsi velocemente verso l’esterno dopo averlo toccato.
Così facendo finiremmo con tutta probabilità per scandire il tactus ritmico con un leggero
anticipo. Dovremmo cioè evitare tutte le tentazioni gestuali di tipo centrifugo, che spingono

il gesto verso l’esterno e spostano il tactus proprio dove si trovano “appostate” le seconde
suddivisioni, pronte ad essere innescate anche quando non sia necessaria la loro presenza, o
peggio quando essa sia addirittura controproducente.
È offerta una variante molto interessante per scandire il tempo ternario in modo diverso dal
precedente, dipendentemente dalla velocità. Nel caso di un andamento alquanto veloce non è
infatti consigliabile scandire tutti e tre i movimenti. E qui il direttore è posto di fronte a un
bivio. Se la velocità lo permette passerà a dirigere “in uno” scandendo un unico movimento
verticale, ma questo è ben noto. È il caso più comune dei passaggi in tempo ternario o
senario di epoca medievale e anche rinascimentale. Quando invece la velocità non sarà tale
da poter condurre in uno – per non lasciare troppo soli i cantori scandendo il tactus ogni tre
note (men che meno se i cantori dovranno cantare note suddivise…) – ma non sia nemmeno
agevole battere “in tre”, allora scandiremo il tempo ternario con la via di mezzo, cioè “in
due”! Già, tornando a ciò che dicevano gli antichi musici del Rinascimento, converrà
scandire il ternario con due movimenti in battere e uno in levare.8 Si avrà cura di fermarsi un
istante sul PF al primo tempo, e poi rimbalzare su di esso per indicare il secondo tempo e
spostare il braccio verso l’alto per… lasciare che passi il tempo necessario perché trascorra il
terzo tempo. Al di là del fatto che si tratta di un gesto molto elegante e molto musicale, si
rifletta su come tale singolare movimento del braccio sia in grado di fornire una particolare
vitalità ritmica al fraseggio. Cercando di scendere un po’ nella pratica – per quanto sia
possibile farlo su un foglio di carta… – si consideri una frase ternaria di ¾ con la presenza di
una minima seguita da una semiminima: il gesto del direttore dovrà scandire inversamente
una semiminima seguita da una minima. L’impulso della ripercussione sul PF dato sul
secondo tempo creerà una valida sollecitazione per i cantori – per non dire obbligo… – a
muovere la voce sulla loro semiminima posta sul terzo tempo. Un po’ di sperimentazione da
parte del direttore e anche dei cantori, trattandosi di una scansione di nuovo tipo, permetterà
di raggiungere risultati molto intensi dal punto di vista del fraseggio e del ritmo.
Il gesto in due movimenti
Sembra ormai acquisita dalla prassi comune la possibilità di poter scartare subito il gesto
con formato secondo il vecchio sistema dell’uno in battere e uno in levare. Il motivo risiede
nel fatto che qualunque impulso o comando gestuale che sia dato verso l’alto (levare) non
contiene in sé nessuna chiara sollecitazione per il cantore, e non ne suscita una reazione
convinta. Ci limitiamo a riflettere sul fatto che in un gesto siffatto il battere acquisirebbe un
carattere ritmico particolarmente incisivo, mentre il levare mostrerebbe tutta la sua
evanescenza e la sua trasparenza a causa del fatto che non colpisce qualcosa, ma vola via
dissolvendosi. Questo sancirebbe la configurazione di un primo tempo forte e di un secondo
tempo debole, scontrandosi con la usuale situazione in cui uno stesso tema polifonico
compare dapprima sul primo tempo della moderna battuta e successivamente sul secondo
tempo, senza che ovviamente in quest’ultimo caso la sua presenza debba in nessun modo
apparire qualitativamente e/o quantitativamente minoritaria.9 Inoltre nel caso in cui si
adottasse un primo tempo con un movimento perpendicolare dall’alto verso il basso simile ai
gesti in tre e quattro movimenti già trattati, il disagio della situazione appena descritta
aumenterebbe a causa dell’incisività percussiva perpendicolare di un tale gesto.
E’ anche per evitare quest’ultima situazione che si preferisce adottare la figura della
parabola 10 per scandire il gesto in due movimenti, in modo da limitare le personali
interpretazioni della pur legittima dicitura “uno in battere e uno in levare”, che portano la
gestualità nell’ambito incontrollato del soggettivismo e del personalismo, dando vita a
figurazioni altrettanto legittime, se vogliamo, quanto fumose e complicate:

Fig.5

La parabola, già dotata di per sé di regolarità e simmetria tali da consentirne una immediata
“lettura” da parte degli esecutori, permette di “accarezzare” il punto focale lateralmente,
in modo più morbido e meno netto, ma non per questo meno preciso della percussione
perpen dicolare. Si tratta in pratica di disegnare una “U” con il vertice coincidente sul PF:

Fig.6

Come si può vedere dal disegno, si suggerisce di orientare il primo tempo verso l’esterno del
corpo. Si tratta infatti di un comando per l’eventuale gesto d’attacco che appare più
propositivo nei confronti di quello rivolto verso l’interno, più introverso e per questo meno
adatto ad un momento particolarmente significativo come l’inizio di una frase. Inoltre viene
così rispettata la consuetudine internazionale riguardante la direzione dei gesti. Il primo
movimento di una misura in due tempi va infatti verso il basso essendo primo tempo, ma
anche verso l’esterno essendo contemporaneamente penultimo tempo. In questo modo, come
accennato poc’anzi, il PF viene accarezzato lateralmente, e questo movimento è in grado di
rendere molto bene la fluida scorrevolezza delle frasi polifoniche, soprattutto nella musica
coeva. In essa non contava l’accento sul primo tempo della battuta – che non esisteva nello
stesso modo in cui la conosciamo noi – ma l’accento delle parole.
Si curi anche che i due lati della figura non siano disuguali (cfr. fig. 7), per non incorrere
nell’er rore di aumentare la velocità del movimento del braccio nel tratto più lungo e di
diminuirla in quello più corto, fornendo all’andamento un incedere in certo senso affannoso
e in qualche modo irregolare:

Fig.7

Ogni qual volta si dovesse sentire il bisogno di una scansione gestuale più netta e incisiva,
che non conceda troppo spazio alla poetica discorsività del testo musicale ma che si
preoccupi par ticolarmente del sincronismo dell’assieme corale e dell’esattezza ritmica,
basterà rendere appuntito l’angolo della parabola sul PF, passando dalla forma a “U” a
quella a “V”:

Fig.8

Anche in questo caso, come per gli altri tempi, il vantaggio, oltre che nella coincidenza dei
due tempi in un unico PF, risiede nella possibilità di effettuare facilmente una suddivisione
tutte le volte che essa si dovesse rendere necessaria, dal momento che si possono distinguere
facilmente una prima metà di ogni gesto sul PF, e una se conda metà all’estremità del
movimento. Basterà fermarsi sul PF e rimbalzare.
Emerge anche un altro notevole vantaggio della tecnica del PF rispetto a quella classica: la
possibilità di creare facilmente attraverso il gesto un fraseggio legato. Nella tecnica classica
la mano era costretta a fermarsi una volta giunta su ogni tempo della battuta, poiché il
movimento finiva lì e non poteva proseguire. A meno di non procedere adottando quelle
curve sinuose ma anche fumose che il direttore d’orchestra è solito impiegare proprio per
ottenere il legato laddove il gesto si dovrebbe fermare. La tecnica del PF non prevede di
norma una fermata all’arrivo su ogni tempo, ma prosegue per percorrere la seconda
suddivisione del tempo. In questo modo, volendo, il gesto crea un continuum che può non
fermarsi mai, creando negli esecutori lo stimolo a fraseggiare in modo ben legato.
Probabilmente non è necessario precisare che queste descrizioni, così apparentemente
meticolose dal punto di vista geometrico, vanno in realtà in tutt’altra direzione rispetto al
tentativo di omologare e uniformare in modo stereotipato e soprattutto inflessibile ciò che di
per sé non può esserlo per sua natura, e cioè la gestualità direttoriale. Essa rientra di diritto
nella sfera personale della morfologia, della fisiologia muscolare, della cultura e del vissuto
di ogni direttore: per questo è opportuno ripetere che dovrà essere riveduta e rivisitata
secondo quelle che sono le variabili fisico-psichiche di ognuno. Quello che si sta cercando di
fare è di fornire alcuni parametri che permettano di scegliere fra tanti gesti quelli dotati di
oggettiva efficacia, pensati, provati e ben assimilati, che permettano al pensiero musicale del
direttore di fluire liberamente, senza nessun ostacolo, dalla sua mente alle sue mani
attraverso le sue braccia, fino all’ultimo esecutore.
In fondo è quello che succede quando si impara una qualunque lingua, compresa la lingua
madre: vengono fornite indicazioni assolute a riguardo della grammatica e della sintassi,
degli errori da non compiere, dell’uso corretto delle forme verbali e lessicali, ma poi ognuno
parlerà la lingua secondo le caratteristiche del proprio pensiero e della propria
organizzazione mentale, creando e seguendo uno stile personale. Anche in tema di pedagogia
e didattica musicale nel campo della composizione, ad esempio, si imparano le regole da
osservare, per poi magari anche poterle infrangere con convinzione e soprattutto con
una mirata e consapevole finalità.
Quindi, per allargare il discorso sulla direzione d’orchestra, per la cui tecnica gestuale
11 

valgono i medesimi parametri che stiamo valutando per il coro, in qualunque occasione sarà
sempre possibile riconoscere la tipicità di alcune posture direttoriali. Saltano facilmente agli
occhi di tutti alcuni tratti caratteristici e inconfondibili, come l’elegante raffinatezza della
mano sinistra di Abbado, il gesto divertito e scanzonato di Bernstein, quello roboante del
primo von Karajan e quello conciso e risolutivo delle sue ultime prestazioni, i movimenti
nervosi degli avambracci di Prêtre, la sinuosità della punta della bacchetta di Metha, lo scatto
del polso destro di Maazel…
Sembrerebbe opportuno adesso approfondire un argomento che riguarda i direttori nello
stes so modo come gli strumentisti ad arco. Essi si trovano di fronte alla stessa difficoltà
quando devono capire istintivamente quale dovrà essere la giusta velocità costante per
concludere la durata della nota utilizzando l’intero arco. Quando il direttore riuscirà a capire
la stessa cosa, allora otterrà un bellissimo suono legato. Il suo braccio, infatti, scorrerà
uniformemente, percorrendo i raggi delle ideali circonferenze della dinamica, il cui centro
coincide con il PF e di cui abbiamo già avuto modo di parlare in precedenza 12

Fig.9
Probabilmente la cosa sembrerà naturale ed istintiva, ma un’attenta osservazione del gesto
altrui metterà certamente in evidenza questa caratteristica del movimento, che compare
molto più frequentemente di quanto si possa immaginare. Si potrà notare in molti casi la
mano colpire il PF, rimbalzare, poi fermarsi sulla circonferenza, dove il braccio – giunto
troppo presto – attenderà l’arrivo del tempo successivo da scandire. La velocità del gesto
risulterà pertanto irregolare e discontinua. Di conseguenza il fraseggio sarà anch’esso privo
di continuità e di distensione, con un andamento irregolare particolarmente evidente in
occasione dell’ultimo movimento. Esso sarà debole come l’accento, ma anche contratto e in
qualche modo irrequieto. Anche le note lunghe risentiranno facilmente di qualche anomalia.
Analogamente una velocità eccessiva costringe sempre il direttore a compiere alcune curve
per “far trascorrere” il tempo, che confondono la chiarezza della conduzione e diminui scono
la sua comunicatività.13

Al contrario, una volta raggiunto il dominio necessario, il braccio dovrà riuscire a scorrere i
movimenti con grande uniformità, magari sfruttan do anche l’articolazione del polso per
ottenere maggiore fluidità e morbidezza, atteggiamenti entrambi essenziali per ottenere un
fraseggio elegante e legato. Astraendo queste riflessioni dal contesto sembrerebbe che stiamo
trattando della condotta dell’arco anziché della tecnica gestuale del direttore. In realtà il
concetto è applicabile ad entrambe le situazioni.
In effetti, uno dei limiti più comuni riscontrabili durante le esecuzioni corali sono proprio le
interruzioni del fraseggio, la frammentarietà delle frasi e della punteggiatura musicale, la
presenza di respiri che accorciano i valori delle note e in frangono la continuità delle linee
melodiche. A tutto ciò il direttore finisce a volte per abituarsi, fin tanto che qualcuno non
glielo fa notare, magari durante i colloqui con la giuria nei concorsi o in occasioni simili…
Nella maggior parte dei casi, però, è proprio alla frammentazione dei suoi stessi movimenti
che può essere ricondotta la tendenza del coro a interrompere il legato. In qualche modo
l’errore del direttore finisce per legittimare involontariamente una vocazione spontanea già
posseduta dai cantori, che è quella di prendere il fiato nei momenti meno opportuni (prima
delle note lunghe, dopo di esse, prima della risoluzione di una dissonanza, nei momenti più
delicati di un pedale, ecc.). Prima di accanirsi contro queste ben note situazioni inopportune
e poco eleganti, il direttore farebbe bene a percorrere a ritroso la strada che ha condotto il
14 

coro a comportarsi così: con un certo grado di attenta autocritica potrebbe riconoscere che la

causa non è distante da se stesso.


In questo caso è probabile che egli possa ancora migliorare la sua tecnica gestuale, anche se
per giudicare i movimenti di un direttore non c’è persona meno adatta di lui stesso. Al di là
di una eventuale manchevole capacità di autocritica, bisogna ammettere che nessuno di noi è
esente da una certa dose di amorevole indulgenza verso se stesso in materia di giudizio
estetico. Se poi al lato estetico si aggiunge la necessità di giudicare la reale efficacia
concertativa e direttoriale dei gesti, allora è inevitabile farsi scudo immediatamente di una
“immunità direttoriale” che ci vorrebbe preservare da ogni assalto. La risposta classica è: “il
mio non è un coro di professionisti, ma di dilettanti amatoriali”, oppure “i miei cantori mi
capiscono benissimo”.
Sono entrambe risposte che non permettono un dialogo costruttivo, ma che nemmeno
giu stificano il perseverare in una tecnica di qualità non sufficiente. Nel primo caso ci sono
tutte le premesse perché il coro di “dilettanti amatoriali” rimanga tale per sempre. Non è mai
così vero come nel coro, infatti, che tutto dipende dal “capo”. Per sua stessa natura, l’insieme
variegato dei cantori non è dotato di capacità auto-rigeneranti tali da innescare un qualunque
processo di qualificazione, e meno che mai dare ad esso continuità. E questo sia sul piano
vocale che – ancora di più – su quello della concertazione. Se il direttore non si pone a capo
di questa cordata e non trascina uno per uno, solidalmente, verso un obiettivo sempre nuovo,
la cordata si sfrangia e la metà delle persone si perde per strada. Compresa la qualità
artistica. Questo lento processo di sfaldamento porta ad una penosa agonia, nella quale il
coro può faticosamente ritrovarsi a languire anche per molto tempo prima di
autodistruggersi, o di cambiare direttore.
All’altrettanto comune affermazione secondo la quale, dopo tanti anni trascorsi insieme, il
coro saprebbe capire ogni gesto del suo direttore, si dovrebbe rispondere con la pratica,
cercando di mostrare quante delle potenzialità artistiche di quel coro siano rimaste per tanto
tempo addormentate e inespresse. Semplicemente perché non erano state stimolate attraverso
un gesto adatto che – non è necessario ricordarlo – costituisce l’unico mezzo di
comunicazione possibile a disposizione del direttore durante il concerto.
Ad ogni modo, anche limitandosi a valutare i fatti soltanto da un punto di vista concettuale e
non pedagogico, non è mai opportuno trattare il coro per tutta la sua vita con un linguaggio
gestuale semplificato fino al depauperamento. La paura di pretendere troppo da un gruppo
del quale, evidentemente, non si ha troppa stima, impedirà di raggiungere nel tempo una
duratura maturazione. Questo impedimento scaturisce in questo caso proprio dal direttore, il
quale lascerà incompiuto un processo artistico che, per essere veramente tale, deve essere
attraversato da uno sviluppo continuo.
Purtroppo è inevitabile anche fare i conti con la certezza che l’accontentarsi di quello che già
si possiede in fatto di tecnica gestuale da parte del direttore costituisce un forte ostacolo a
misurarsi con una metodologia nuova. D’altronde un certo sospetto iniziale può essere
considerato legittimo, finché esso non arrivi ad erigere un muro insormontabile che
impedisce di provare e di tentare altre soluzioni. Si aggiunga anche che per nessuno di noi è
facile mettersi nella situazione di chi, pur godendo di una autorità riconosciuta e
incontrastata, si debba mettere in discussione per migliorare se stesso, magari allontanando
abitudini tanto dannose quanto consolidate. Un rimedio infallibile? Usare la telecamera per
riprendere i concerti, e soprattutto le prove. Ma attenzione: si possono avere bruttesorprese.
Nelle prove non ci sono i freni inibitori del concerto (pubblico, colleghi, persone che per
qualche motivo risultano scomode), e la conduzione può raggiungere parametri eccessivi per
dimensioni, enfasi e carattere. Di contro, durante il concerto si è sottoposti a sollecitazioni
emotive ben più profonde e coinvolgenti, al punto da perdere potenzialmente il controllo dei
movimenti. Non solo delle braccia, ma di tutto il corpo: ondulamenti eccessivi, proporzioni
del gesto inadeguate alla situazione sonora contingente, gambe e ginocchia che si piegano
continuamente, baricentro troppo mobile ed instabile, movimenti di consenso della testa,
articolazioni del braccio usate troppo o troppo poco, posizioni inopportune delle dita ecc…
Tutti atteggiamenti inconsapevoli, che il direttore scopre di avere solo guardandosi attraverso
un occhio non compiacente come quello di una telecamera. Seguirà un fastidioso periodo di
incertezza, preludio alla guarigione dagli inconsapevoli difetti che minavano l’efficacia del
suo operato. Ne trarrà vantaggio lui stesso, ne guadagnerà il coro, troverà giovamento tutto
l’apparato che ruota intorno ad esso, ne godrà il pubblico durante l’ascolto e la visione…
Alla fine, la questione si risolve nel trovare una tecnica che permetta alle proprie idee
musicali di passare attraverso le braccia e di arrivare ai cantori in modo diretto, completo e
significativo. Non importa se siano dilettanti o professionisti. Le intuizioni musicali del
direttore non devono restare intrappolate nella rigidità delle braccia, o confuse fra movenze
offuscate o insolite. La tecnica di un attacco in levare, ad esempio, pur con tutte le sue
varianti, deve rimanere molto specifica e caratterizzata in ogni occasione, senza cedere alla
tentazione di chiamare l’attacco con una suddivisione, per esempio. E non importa se lo si
debba dare ad un coro parrocchiale o al coro di professionisti. Abbracciare soluzioni
15 

oggettive allontanando quelle troppo personali e individualistiche non significa sacrificare il


proprio temperamento e ridurre all’anonimato la propria gestualità; e nemmeno soffocare la
propria personalità. L’indole di ognuno, infatti, non mancherà di manifestarsi ugualmente,
attraverso una connotazione del gesto che non potrà comunque in nessun modo separarsi dal

proprio personale carattere.


Si tratta di imparare un linguaggio che serva per esprimersi e farsi capire da tutti. Come
accade nel caso delle lingue: se chi parla possiede un vocabolario limitato, ma soprattutto
troppo personale, può soltanto raggiungere il risultato di mischiare i propri pensieri con
quelli dell’interlocutore, senza arrivare ad una vera e propria comprensione dei messaggi.
Come trovarsi in una Torre di Babele, dove ognuno parla senza nutrire troppe speranze di
essere capito. Il messaggio artistico ha invece bisogno di un vocabolario chiaro ed efficace,
perché i concetti da esprimere possono raggiungere ambienti molto delicati. Magari
attraversano la filosofia, oppure spaziano dall’estetica alla sociologia. Altre volte si
immergono negli antri più emozionali dell’essere, risvegliando sensazioni addirittura
ancestrali. In tutto questo può accadere che le note si rivelino essere soltanto una
componente marginale, o costituiscano solo la scintilla iniziale di un complicato processo
umano e artistico di alta levatura. Alta, come deve essere la qualità di tutti gli aspetti del
dirigere.
NB: Il presente articolo costituisce un breve estratto e una anticipazione di un libro sulla
direzione del coro che sarà pubblicato in seguito dall’autore.
[1] Cfr. Fig. 11 e Fig. 13 pubblicate nel precedente articolo: Walter Marzilli, Alla scoperta della tecnica gestuale moderna, in:
Farcoro, n° 3, 2009, rispettivamente pp. 9 e 10.
[2] Si ricorderà che la direzione verso il basso e quella verso l’alto, in realtà, coincidono. Viene utilizzata la separazione per
facilitare l’identificazione della doppia direzione delle suddivisioni.
[3] Nei precedenti articoli (Cfr. Farcoro, n° 2 e 3) si era convenuto di indicare con questa sigla l’unico Punto Focale che si veniva
a determinare.
[4] Cfr. articoli precedenti.
[5] Si ricorderà anche che l’identificazione di un unico PF suggeriva di passare attraverso di esso anche ad ogni seconda
suddivisione di ogni tempo, quindi anche prima di salire verso l’alto per l’ultimo movimento.
[6] Si raccomanda solo di non raggiungere l’ampiezza di un angolo retto per non rendere inopportuno e soprattutto inefficace il
movimento del terzo tempo, che attraverserebbe “silenziosamente” il PF.
[7] Non si ripeterà mai abbastanza che il gesto in anticipo reclamato dalle scuole di direzione d’orchestra diviene inutile – anzi
dannoso – con l’adozione della tecnica del PF.
[8] Cfr. fra gli altri Orazio Tigrini, Compendio della Musica, Venezia 1588, Libro IV, cap. 16.
[9] Sembra ormai consolidato il fatto che la polifonia antica debba essere condotta in due movimenti e non in quattro, ove
possibile, nonostante ancora esistano ambiti culturali di parere opposto.
[10] Non si tratta certo di una novità. Già nel 1611 Agostino Pisa nel suo trattato intitolato Della battuta musicale raccomandava
di usare la parabola per scandire il tempo in due movimenti.
[11] Ma solo per la sua maggiore incidenza sulla percentuale di presenza nei mezzi mediatici rispetto alla direzione del coro.
[12] Cfr. Walter Marzilli, Alla scoperta…, op. cit. p. 10.
[13] E’ ben noto come i direttori d’orchestra siano soliti condurre il movimento andando sul tactus con un certo anticipo rispetto
alla scansione ritmica. Ciò è certamente da ricondurre alla pratica di attribuire al gesto proprio quell’impulso centrifugo di cui
parlavamo poco fa. Non è da escludere che questo “prezioso” anticipo del direttore altro non sia che un semplice ritardo
dell’orchestra, che risponde con una certa indecisione ai gesti del direttore. Spesso l’orchestra concede infatti solo una prova
generale prima del concerto, e ciò non basta per raggiungere una comprensione profonda della tecnica del direttore invitato. Se a
questo si aggiunge la possibilità che i gesti possano essere troppo poco comprensibili a causa delle curve, si capisce che
l’orchestra attenda l’abbassarsi dell’archetto del primo violino per superare i passaggi pericolosi…
[14] Bisogna ammettere che questi ultimi due aggettivi possono essere spesso attribuiti anche alle reazioni del direttore durante le
prove. Qui, chi è senza peccato scagli la prima pietra…
[15] Anzi, nel secondo caso sarà assolutamente necessario, per non perdere autorevolezza e credibilità…

RIFLESSIONI: LA VOCALITÀ ANTICA


DI MAURO UBERTI · PUBBLICATO 24 OTTOBRE 2009 · AGGIORNATO 6 FEBBRAIO 2018
Il recupero della musica antica e della sua prassi è incominciato con gli strumenti,
mentre al problema della vocalità ci si è avvicinati molto più tardi. Non dimentichiamo
che, mentre ai tempi in cui la musica antica era moderna gli strumenti erano tributari
della voce, oggi avviene esattamente il contrario: la voce segue la prassi strumentale e
il fatto si riflette anche nell’esecuzione della musica antica. È comunque mancata, in
tutti questi anni, una seria ricerca sulla vocalità per un equivoco: si è creduto, infatti,
che fosse sufficiente allontanarsi dalla prassi romantica e verista per fare vocalità
antica, ma ci si è dimenticati del fatto che ogni epoca ha le sue radici in quelle che la
precedono. Ecco allora, ad esempio la “guerra del vibrato”.

Meccanismo del vibrato: a ogni aumento di pressione la trachea si allunga e la laringe


risale. La cartilagine tiroide, vincolata allo sterno dai muscoli sterno-tiroidei, si inclina in
avanti e in basso stirando le corde vocali e modulandone la frequenza di vibrazione.
Sembrava che bastasse cantare con voce fissa per realizzare la prassi antica, senza capire, fra l’altro, che il
vibrato è una componente fondamentale dell’espressione vocale umana e non di questa o quell’epoca. La
problematica psicocustica del vibrato è poi così complessa che fare affermazioni in materia senza un minimo
di conoscenze scientifiche è piuttosto pericoloso.
Superata questa fase che io definisco “calvinista”, di reazione a tutto ciò che potesse avere un qualche
riferimento con Romanticismo e Verismo, si è arrivati ad accettare un tipo di vocalità che avesse almeno
caratteri liederistici. Di fatto, la pratica attuale del canto antico deriva più dalla tradizione liederistica che da
un ricerca autentica sulla vocalità preromantica.
La ricerca dovrebbe consistere, ad esempio, nella disamina dei caratteri dell’espressione verbale nelle
diverse culture ed epoche. E a questo punto il discorso si fa ampio. Si dimentica intanto che le due grandi
scuole vocali, prima che si formasse quella tedesca, furono quella italiana e quella francese, ciascuna delle
quali aveva caratteristiche legate alla propria cultura e alla propria lingua. Pensiamo al problema della
prosodia. Nell’italiano abbiamo un’articolazione in frasi principali e secondarie, con un accento principale
che, di solito, cade sulla penultima sillaba della frase mentre quelli secondari lo precedono con una intensità
molto variabile. Il periodo ha quindi una dinamica assai varia e un andamento morbidamente ondulato. Il
francese, viceversa, non distingue fra accenti principali e accenti secondari. Nella lingua tedesca, come in
quella italiana, si hanno accenti principali e secondari, ma l’accentuazione viene ottenuta sottolineando le
parole importanti col risultato, al nostro orecchio, di una prosodia “puntuta”, che calchiamo quando
vogliamo farne la caricatura. Il merito del recupero della vocalità italiana antica compete certamente agli
inglesi. Il guaio è che essi cantano usando spontaneamente la prosodia della propria lingua, che è affatto
diversa dalle altre tre e i risultati sconfinano sovente nel grottesco. Non solo: bisogna ricordare che la
prosodia cambia anche nel tempo, per cui c’è una grossa differenza tra l’affrontare laRappresentatione di
Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri o un melodramma di Vivaldi.

Un esempio dei problemi legati alla prosodia: se consideriamo il caso dei madrigali di Monteverdi, ad
esempio l’inizio della Sestina composta in morte di Caterinuccia Martinelli (“Incenerite spoglie, avara
tomba / fatta del mio bel Sol terreno cielo”, ecc.), vediamo in modo inequivocabile che le esclamazioni e le
sottolineature del testo, date dalle note puntate, si trovano in coincidenza degli aggettivi, mentre quasi tutte,
per non dire tutte, le esecuzioni moderne sottolineano i sostantivi seguendo la logica espressiva d’oggi. La
conseguenza è che tutta l’esecuzione, anche se presentata come filologica, prende i caratteri di un corale
tedesco invece che di un madrigale italiano.
Purtroppo non esiste una corretta scuola vocale per la musica antica. E dirò di più: è anche ferma la ricerca
su tutta la musica antica, perché, dopo aver scoperto gli aspetti più superficiali del problema – intendendoli
come quelli che, stando alla superficie, potevano essere più facilmente coltivati – ci si è accontentati e si è
smesso di ricercare. Si sono capite fondamentalmente due cose: la prima, che l’espressività moderna è
caratterizzata da una tensione continua (carattere che ha in comune con tutte le altre arti) mentre quella
antica presenta un’articolazione che viene progressivamente riducendosi nel tempo per essere sostituita da
altre componenti espressive. Di conseguenza si è compresa la necessità del recupero della variabilità,
dell’ineguaglianza, fattori senza i quali la musica antica rimane poco comprensibile e quindi noiosa. In
secondo luogo, si è capito che le musiche antiche erano da abbellire, ma è mancata la ricerca sulla funzione
rappresentativa degli abbellimenti e dei loro codici espressivi. L’esecuzione delle diminuzioni, soprattutto da
parte dei cantanti, risponde quasi sempre a una schematizzazione elementare e ripetitiva, che non tiene
conto, ad esempio, di quanto si potrebbe ricavare dall’analisi sistematica del rapporto fra parole e musica nei
casi, che sono infiniti, in cui le diminuzioni sono scritte.

Alessandro Moreschi (1858-1922): l’ultimo dei castrati

Per eseguire correttamente la musica antica occorrerebbe indagare, per esempio, su quanto c’è di idiomatico
nelle espressioni musicali vocali strumentali, in quanto la voce e ciascuno strumento hanno modi espressivi
propri, che, oltre a tutto, cambiano a seconda delle culture e delle epoche. Sarebbe opportuno approfondire
la ricerca sulle culture nazionali (culture in senso antropologico), che nel passato erano molto diverse fra
loro. Nel caso della musica vocale dovremmo anche considerare i guasti provocati dal successo commerciale
odierno dei falsettisti, che hanno fatto certamente parte della cultura francese, ma che sono sempre stati
estranei a quella italiana in quanto da noi, e non c’è da vantarsene, si preferiva castrar bambini in omaggio al
santo principio paolino e papalino: “mulieres in ecclesiistaceant”.
A proposito di parti scritte per castrati si presenta il problema di optare per esecuzioni moderne con
falsettisti o quelle con voci femminili. Certo, sia l’impiego di falsettisti che di voce femminili implicano un
tradimento: i falsettisti hanno gravi limiti espressivi perché la tecnica del falsetto riduce drasticamente la
variabilità fonetica della voce con la conseguenza che gioia e dolore vengono espresse con lo stesso colore
vocale; le voci femminili rispettano certamente la gamma originale della scrittura, ma tradiscono il
personaggio. Io, di fronte ad una donna che sul palcoscenico manifesta sentimenti d’amore per un’altra
donna, rimango sempre perplesso. Allora, tradimento per tradimento, anche se so di scandalizzare molti,
tolti i casi in cui esigenze concertanti non impongano di impiegare voci acute – e allora opto per le donne in
quanto più espressive – preferisco una terza soluzione: utilizzare voci maschili di classe corrispondente. So
benissimo che Haendel a Londra, non avendo a disposizione castrati, utilizzava voci femminili; ma la
situazione socio-culturale era diversa dalla nostra e, per quanto mi riguarda, credo che a teatro siano
fondamentali l’espressività della parola cantata e la credibilità del personaggio, per cui preferisco le voci
maschili e quelle femminili al falsetto. Quando si tratterà di cantare le arie delle Remarquescurieuses di
Benigne de Bacilly sarà tutto un altro discorso.

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