IL DIVORZIO SU RICHIESTA
CONGIUNTA
Capitolo 1
LA LEGGE N. 74/87
La legge n. 898/1970 sul divorzio segna l'inizio della riforma del diritto di famiglia, sino a
quel momento legato ancora a precetti e norme di origine ottocentesca, retaggio dell'ormai
inadeguato Statuto Albertino.
L'introduzione del divorzio nel nostro ordinamento rappresenta, dunque, una vera e
propria rivoluzione sociale e morale, legittimata dalla volonta del popolo italiano espressa
mediante una scelta referendaria, la piu importante dopo quella del '46, ma che non e
stata sufficiente a sopire le polemiche ed i contrasti sorti in seno all'opinione pubblica.
Tali contrasti hanno pesantemente condizionato il lavoro del legislatore, che spesso si e
trovato a dover svolgere un'opera di mediazione tra le opposte posizioni: un compromesso
che non ha estinto le velleita delle controparti e che in alcuni casi ha lasciato la
sensazione di un'occasione perduta.
Si sono resi cosi necessari ulteriori interventi legislativi: il primo con legge n. 436/1978, di
"portata programmatica e limitata a talune questioni urgenti"; il secondo con la legge n.
74/1987, che qui osserveremo nelle sue linee generali. L'innovazione principale introdotta
dalla novella dell'87 e sicuramente il divorzio su richiesta congiunta, che sara oggetto
specifico di questo studio, e per la cui trattazione approfondita si rimanda ai capitoli
seguenti.
Occorre qui menzionare, tra le piu significative innovazioni, la diminuzione dei termini di
comparizione di cui all'art. 163-bis CPC, ridotti ora alla meta, che ha portato ad uno
snellimento dei tempi del processo; il passaggio da cinque a tre anni del periodo di
separazione, sia essa legale che volontaria; il riconoscimento, tra le cause di divorzio,
della rettifica di sesso ed in ultimo, ma non per questo meno importante, una minuziosa
previsione normativa per l'assegno di divorzio.
Questi, in sommaria sintesi, sono i punti salienti che costituiscono l'ultima riforma
dell'istituto del divorzio, una riforma certo piu estesa che non quella attuata nel 1978; un
lavoro pero che, come nota Quadri, risente negativamente nella sua linearita sia del
tentativo di far convergere sul testo le vedute di schieramenti politici ispirati a diversi
concetti sociali, sia di una troppo rapida approvazione in sede parlamentare, che non ha
consentito i necessari aggiustamenti anche solo di carattere tecnico. La maggiore
conseguenza di cio e che non si e riusciti ad evitare la frammentarieta di disciplina, con
inevitabili duplicazioni e contraddizioni dovuti al mancato inserimento di tale riforma nel
corpo codicistico.
La legge n. 74/1987, pur avendo inciso in maniera sensibile sulla disciplina processuale
del divorzio contenzioso, ha sostanzialmente lasciato immutato il complesso delle cause
legittimanti il divorzio previsto dall'art.3 l. n. 898/1970. Unica variazione di rilievo, come
annunciato nel paragrafo precedente, e stata l'introduzione, ex art.7 novella, della
rettificazione dell'attribuzione di sesso, che sia riconosciuta con sentenza passata in
giudicato, conformemente a quanto disposto dalla legge del 14 aprile 1982 n.164. A parte
cio, e stato rilevato come sia rimasta inalterata la asistematicita della previsione legale
delle cause di divorzio che ne impedisce una rigorosa classificazione.
Seguendo l'ordine dell'art.3 l. n.898/1970, nel n.1 lett.a) si rinviene la prima causa
legittimante il divorzio: condanna all'ergastolo o a pena superiore a quindici anni. I delitti
cui si riferisce il legislatore non devono essere colposi e sono esclusi i reati cd. politici.
L'art.3 n.1 lett.b) prevede la possibilita di richiedere il divorzio se uno dei coniugi sia
condannato per uno dei reati di cui agli articoli 519 (violenza carnale), 521 (atti di libidine
violenta), 523 (ratto a fine di libidine), 524 (Ratto di persona minore di anni quattordici, a
fine di libidine o matrimonio) e 564 (incesto) c.p., nonche reati collegati alla prostituzione.
Per quanto riguarda la causa di cui all'art.3 n.1 lett.c), la riforma, sostituendo l'espressione
originale "discendente o figlio adottivo" con quella di "figlio", ha reso irrilevante (come
causa di divorzio) l'omicidio di un discendente che non sia un figlio.
La lett.d) dell'art.3 n.1 prevede la rilevanza della condanna a "qualsiasi pena detentiva,
con due o piu condanne per i delitti di cui agli articoli 582, aggravato ex art.583, (lesioni
volontarie personali e gravissime), 570 (violazione degli obblighi di assistenza familiare),
572 (maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli) e 643 (circonvenzione d'incapace) c.p., in
danno di un coniuge o di un figlio. L'art.3 l.74/87 ha disposto, qui, l'eliminazione delle
parole "anche adottivo", parificando cosi la situazione del figlio adottivo a quella del figlio
naturale o legittimo.
Da notare che la gravita dei comportamenti previsti dall'art.3 n.1 lett.b) e c) e tale per cui
essi sono rilevanti di per se stessi, oggettivamente, a prescindere dalla circostanza che
essi abbiano dato luogo ad una condanna.
Infatti, nei casi di cui all'art. 3 n.2 lett.a), b) e c), la non imputabilita o la sopravvenuta
causa d'estinzione del reato non impediscono all'altro coniuge di chiedere il divorzio,
essendo solo richieste al giudice, in questi casi, delle valutazioni circa "l'inidoneita del
convenuto a mantenere o a ricostituire la convivenza familiare" o circa la sussistenza, nei
fatti commessi, "degli elementi costitutivi e delle condizioni di punibilita dei delitti stessi".
La legge, poi, precisa che, in tutti i casi sopra elencati, "la domanda non e proponibile dal
coniuge che sia stato condannato per concorso nel reato ovvero quando la convivenza
coniugale e ripresa".
Proseguendo la rassegna delle cause di divorzio cosi come elencate nell'art.3, al n.2
lett.a) la legge stabilisce il caso in cui il coniuge e stato assolto da uno dei reati di cui al n1
lett.b) e c) per vizio totale di mente, se e accertata l'idoneita del convenuto a mantenere o
a ricostituire la convivenza familiare. A questo proposito rimane solo da notare come, in
sede di riforma, sia stata respinta la proposta di aggiungere la dichiarazione d'interdizione
giudiziale; la scelta del legislatore appare sensata, soprattutto avuto riguardo alle attuali
tendenze in materia d'infermita di mente.
Grande importanza riveste il dettato del n.2 lett.b), il quale prevede il caso in cui "e stata
pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi,
ovvero e stata omologata la separazione consensuale ovvero e intervenuta separazione di
fatto quando la separazione stessa e iniziata almeno due anni prima del 18 settembre
1970". Si puo affermare, senza timore di smentita, che la separazione sia la causa
assolutamente prevalente di divorzio, separazione mantenuta nella legge del '70 con
l'intento di rendere meno traumatico il passaggio ad un sistema in cui il matrimonio e visto
per la prima volta in un ottica di dissolubilita, nonche per concedere ai coniugi un periodo
di tempo in cui i contrasti potrebbero essere ricomposti, prima dello scioglimento definitivo
del vincolo matrimoniale. La legge innovativa n.74/87 ha ridotto da cinque a tre anni il
tempo di separazione necessario decorrente dal giorno della comparizione dei coniugi
davanti al presidente del tribunale, per chiedere il divorzio su tale base. La legge specifica
che il periodo di separazione deve essersi protratto ininterrottamente, e che eventuali
interruzioni vanno eccepite dalla parte convenuta.
Per ovviare a disparita giuridiche e morali cui potrebbe andare incontro il cittadino italiano
coniugato a cittadino straniero, l'art.3 n.2 lett.e) concede il divorzio quando il coniuge
straniero "ha ottenuto all'estero l'annullamento o lo scioglimento del matrimonio". Poiche la
legge espressamente richiede che il coniuge sia cittadino straniero, occorre determinare il
momento cui fare riferimento ai fini del possesso della cittadinanza straniera: prevale
l'opinione che considera rilevante solo il momento del fatto (divorzio o annullamento
ottenuti all'estero) cui il nostro ordinamento accorda rilievo per la concessione del divorzio.
L'ipotesi del nuovo matrimonio assume cosi valore residuale, perche al cittadino italiano
sara sufficiente addurre il divorzio o l'annullamento stranieri, senza attendere la
celebrazione di nuove nozze dell'ex-coniuge straniero; non e necessario che il nuovo
matrimonio abbia validita nel nostro ordinamento, bastando che esso sia efficace per
l'ordinamento in cui e stato contratto nel momento in cui, in Italia, viene chiesto il divorzio
sulla sua base.
Il nuovo secondo comma appresta una descrizione specifica del contenuto del ricorso; il
presidente ha ora cinque giorni, dal deposito in cancelleria, per fissare la data di
comparizione dei coniugi davanti a se (nuovo art.4, 5?co.). Ex art.4, 6?co riformato, tra la
data di notificazione del ricorso e quella dell'udienza di comparizione devono intercorrere i
termini di cui all'art.163-bis CPC ridotti della meta. L'ottavo comma subordina il potere del
presidente di sentire i figli minori alla "stretta necessita" ed alla valutazione della loro eta;
inoltre e disposta l'applicazione dell'art.189 disp. att. CPC., per cui l'ordinanza
presidenziale con cui sono adottati provvedimenti urgenti e temporanei nell'interesse dei
coniugi acquista efficacia di titolo esecutivo.
Tali modifiche non sono particolarmente problematiche; occorre invece un'analisi piu
ravvicinata per le nuove norme sulla fase della decisione e sulle impugnazioni.
L'art.4, 9?co., nel primo periodo stabilisce che: "nel caso in cui il processo debba
continuare per la determinazione dell'assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva
relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio". In tale caso il
tribunale non esercita un potere discrezionale: accertata l'esistenza di una delle cause di
cui all'art.3 (vedere par.1.2.1), deve dichiarare il divorzio e rimandare ad un momento
successivo la decisione relativa alla domanda sull'assegno, se questa necessita di
ulteriore istruzione. Ci si chiede se tale norma si applichi anche nel caso in cui il
procedimento debba proseguire in relazione ad ogni altra questione di natura economica
dipendente dalla domanda di divorzio. La risposta e negativa: se il processo deve
continuare per questioni diverse da quelle dell'assegno, si applicano le regole generali.
Il 9? comma prosegue poi stabilendo che contro sentenza non definitiva di divorzio e
ammesso solo appello immediato.
Il 10?comma dell'art.4 rinnovellato prevede che "quando vi sia stata la sentenza non
definitiva, il tribunale, emettendo la sentenza che dispone l'obbligo della somministrazione
dell'assegno, puo disporre che tale obbligo produca effetti fin dal momento della
domanda". Qui Cipriani rileva che, in passato, l'assegno di divorzio presupponeva sempre
il divorzio; ora invece, secondo quanto disposto dal legislatore, l'assegno puo decorrere
dalla domanda (di assegno) che in genere e proposta all'inizio del procedimento, non
potendosi cosi piu dire che questo possa essere riconosciuto al massimo a partire dal
giudicato della sentenza di scioglimento del matrimonio. Tale norma parrebbe essere stata
inserita per vanificare eventuali tattiche dilatorie del coniuge contro cui e chiesto l'assegno:
ma il potere discrezionale del tribunale di far decorrere l'assegno dalla domanda e
"subordinato solo alla circostanza che il divorzio sia stato dichiarato con sentenza non
definitiva; in ogni altro caso e escluso che il tribunale possa far decorrere l'assegno dalla
domanda".
Un'ultima osservazione va spesa per il comma dodici, per cui "l'appello e deciso in camera
di consiglio". E' bene affrontare subito questo chiarimento, poiche la materia dell'appello e
di comune interesse sia per il divorzio contenzioso che per il divorzio su richiesta
congiunta.
Sul dispositivo dell'art.4, 12? co., tanto la Cassazione quanto la Corte costituzionale sono
pervenute alla soluzione per cui l'appello, nel processo di divorzio, debba essere
assoggettato al rito camerale di cui all'art.737 e SS. CPC.
Mentre subito dopo la novella la dottrina si era divisa in due blocchi contrapposti (chi
riteneva che l'appello andasse celebrato col rito camerale e chi invece sosteneva che il
legislatore avesse voluto incidere solo sulla fase della decisione), attualmente tanto la
dottrina quanto la giurisprudenza hanno convenuto che l'articolo 4, 12? Co., incide solo sul
rito, cioe sulla struttura del procedimento, non anche sul mezzo impugnatorio, che era e
rimane l'appello.
E' comunque fuor di dubbio che il mezzo per impugnare la sentenza di divorzio sia
l'appello: oltre alla lettera della legge, inequivocabile, si parla d'appello anche nel 9?
comma del medesimo articolo, quando si ha riguardo alle sentenze non definitive.
Anche il processo d'appello e formato da tre fasi (introduzione, istruzione e decisione), per
cui una norma che si limiti a stabilire come dev'essere svolta la fase di decisione non puo
incidere sulle altre. La fase della decisione e a sua volta complessa: si apre con la
remissione al collegio e si chiude con la pubblicazione della sentenza; tra tutte queste
sottofasi la deliberazione e sempre presa in camera di consiglio. Cosi, aderendo ad
autorevole dottrina, "poiche, per caso, la fase della decisione di un procedimento di
competenza di un organo collegiale puo contemplare un'udienza pubblica o svolgersi in
camera di consiglio, l'interprete puo ben affermare che il legislatore, stabilendo che
l'appello e deciso in camera di consiglio, ha voluto solo sopprimere l'udienza di
discussione [...]. Sembra pertanto del tutto corretto dedurre che nel nostro caso il
legislatore non abbia voluto imporre un altro rito ma solo modificare la fase della decisione
dell'appello ordinario."
Dunque, volendo trarre delle conclusioni, la norma va ad incidere solo sulla fase della
decisione dell'appello ordinario che, per il resto, continuera a svolgersi secondo le norme
generali, essendo escluso il ricorso all'art.737 e SS. CPC sui procedimenti in camera di
consiglio.
1.2.3 - Il procedimento
La legge descrive puntualmente il contenuto del ricorso, che deve indicare anche le prove,
la causa petendi ed il petitum. La costituzione dell'attore si verifica con il deposito del
ricorso in cancelleria, che segna anche l'inizio del decorso del termine di cinque giorni
entro cui il presidente del tribunale deve fissare, tramite decreto, il giorno della
comparizione dei coniugi ed il termine per la notificazione del ricorso e del decreto.
Entro tale termine i coniugi devono comparire personalmente, salvo gravi e comprovati
motivi (art.4, 7?co.). in dottrina prevale l'opinione che, oltre a farsi rappresentare da un
procuratore, le parti possono, sin da questo momento, essere assistite da difensori; tale
orientamento e stato motivato con l'assenza, a differenza che nel giudizio di separazione,
di un divieto che impedisca ai difensori di partecipare all'udienza. La comparizione delle
parti davanti al presidente e necessaria affinche questo possa tentarne la riconciliazione,
ex art.4,7? co; il giudice deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente:
se il convenuto non compare o se la conciliazione non riesce, il presidente, dopo aver
sentito i figli ( ma solo se strettamente necessario ), prende, anche d'ufficio, con ordinanza
i provvedimenti temporanei ed urgenti che ritiene opportuni nell'interesse dei coniugi e
della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione delle parti dinanzi
a questo (art.4,8?co).
Alcuni autori hanno ritenuto di poter salutare, con la nuova legge, l'introduzione nel nostro
ordinamento di un divorzio consensuale: non e cosi. La maggior parte della dottrina ha
ravvisato nel divorzio su richiesta congiunta degli elementi, quali il controllo del giudice
circa le statuizioni predisposte nell'interesse dei figli e la valutazione della sussistenza di
una valida causa di scioglimento del matrimonio, tali da non poter consentire di sostenere
la tesi di una "privatizzazione" del divorzio.
Cio non toglie che in tale nuova fattispecie processuale siano stati introdotti elementi
consensualistici di primaria importanza; la concorde volonta delle parti viene in rilievo in
ordine alla scelta del tribunale competente a pronunciare la sentenza di divorzio, alle
condizioni patrimoniali dei coniugi ed alle statuizioni inerenti alla prole: tutti elementi che
dovranno esplicitamente essere indicati nel ricorso da depositarsi presso la cancelleria.
Anche il divorzio su richiesta congiunta va domandato sulla base di una delle cause
previste dall'art.3 l.n.898/1970 per il procedimento contenzioso; ma sia in seno alla
dottrina che alla giurisprudenza sono sorti dei pareri contrastanti circa l'ammissibilita, nel
procedimento in oggetto, di quei fatti legittimanti la richiesta di divorzio che necessitino di
un'istruzione probatoria (segnatamente l'inconsumazione e la separazione di fatto). La
questione e stata risolta dalla Cassazione nel senso dell'ammissibilita del ricorso
congiunto per tutti i casi elencati nel suddetto art.3, in quanto le esigenze istruttorie non
sono incompatibili con il rito camerale ne con le caratteristiche di celerita che esso
comporta e garantisce.
Anche dal punto di vista della legittimazione ad agire le questioni originariamente sorte
sono state soddisfacentemente risolte: se la legittimazione spetta ad entrambi i coniugi,
non c'e alcun problema; nel caso, invece, della cd legittimazione esclusiva (che spetta,
cioe, ad uno solo dei divorziandi), ci si trova di fronte ad un'azione e ad una relativa
adesione.
L'art.4 rinnovellato non menziona mai il pubblico ministero; cio ha portato taluni a ritenere
che la sua presenza non fosse richiesta ma ,ancora una volta, la dottrina e stata compatta
nel sostenere la necessita dell'intervento della parte pubblica, ritenendo applicabile anche
a tale processo la disposizione dell'art.70 CPC, in quanto norma di valenza generale.
Le parti devono stare in giudizio con l'ausilio di difensori ma, tuttavia, e stata ammessa la
possibilita del difensore unico per entrambi i coniugi, stante la mancanza di un conflitto tra
le parti, le quali sono praticamente d'accordo su tutto; se durante il processo
sopravvenisse un conflitto d'interessi sarebbe necessaria la nomina di distinti procuratori.
Il giudizio si svolge in camera di consiglio nei modi e nelle forme indicate dal codice di
procedura civile per il rito camerale. Se nel corso del procedimento il giudice rileva che le
statuizioni previste in relazione alla prole non sono soddisfacenti, dispone la rimessione
degli atti al presidente ed il procedimento continuera, cosi, secondo il rito ordinario.
Capitolo 2
QUALIFICAZIONE, COMPETENZA E QUESTIONI PRELIMINARI NEL DIVORZIO SU
RICHIESTA CONGIUNTA
Vi e chi ritiene che "la previsione del ricorso congiunto e del procedimento camerale
rappresenta [...] la prova migliore della natura volontaria del divorzio rimedio", e che "oggi,
ad onta della sentenza e del giudicato ,si e qui in presenza di un provvedimento di
volontaria giurisdizione che estingue un rapporto, quello di coniugio, non piu in grado di
svolgersi come dovrebbe e che percio interest rei pubblicae (e non solo ai coniugi)
estinguere".
Per Dogliotti e un dato di fatto quasi scontato che si tratti di volontaria giurisdizione, tant'e
vero che le parti possono stare in giudizio personalmente, a nulla rilevando che il
procedimento si concluda con sentenza. Cio che porta i citati autori ad abbracciare tale
opinione e il fatto che il processo di divorzio su richiesta congiunta e strutturato come un
procedimento di volontaria giurisdizione, anche se in questo caso la decisione e presa con
sentenza suscettibile di passare in giudicato. Inoltre il divorzio viene considerato come un
interesse obiettivo, predeterminato dalla legge, a che sia estinto il rapporto di coniugio
quando sia venuta meno l'affectio matrimoniale: in quest'ottica il processo di divorzio non
tende a riaffermare il diritto soggettivo nei confronti di un soggetto che lo abbia violato, ma
attua l'ordinamento proprio tutelando l'interesse di cui si e detto.
In stretta correlazione con la questione della natura del procedimento vi e quella relativa
alla qualificazione del divorzio su richiesta congiunta; anche su tale punto la dottrina e
divisa in due posizioni ben distinte. Secondo alcuni autori, con il divorzio su richiesta
congiunta il legislatore avrebbe inserito nell'ordinamento italiano la figura del divorzio
consensuale, largamente ispirata al procedimento di separazione consensuale e quindi
caratterizzata da una larga disponibilita del rapporto, contrastante con quella, piu ristretta,
prevista per il divorzio come disciplinato nella legge del 1970. Altro autore, concordando
su questo punto, specifica che il consenso dei coniugi, per essere efficace, dovra
aspettare il decorso del termine triennale della separazione consensuale, dopodiche il
giudice non dovrebbe fare altro che "omologare" la richiesta dei coniugi, omologa resa piu
agevole dal fatto di poter presentare la domanda a qualsiasi tribunale della Repubblica.
Anche l'esclusione della presenza del PM, deducibile dal silenzio della legge, secondo
Trabucchi, rinforzerebbe il carattere consensuale di tale provvedimento, ne cio potrebbe
essere negato dal richiesto accertamento che dev'essere compiuto sulla domanda in
ordine alle disposizioni relative ai figli. Lapertosa ritiene, infine, che nonostante sia
necessaria una verifica dei "presupposti di legge", non si puo negare che in un
procedimento senza istruttoria, come questo, l'accertamento dell'impossibilita di
mantenere o ricostituire una comunione tra coniugi e gia desumibile dalla volonta
concorde di sciogliere il vincolo matrimoniale manifestata con la presentazione del ricorso
congiunto.
Tuttavia, sempre secondo tale Autore, la necessita della verifica dei presupposti legali
limita la liberta delle parti, talche non si puo parlare di divorzio consensuale vero e proprio,
almeno in senso tecnico, ma quanto meno di una linea evolutiva che "tende sempre piu ad
esaltare il momento volontaristico e a svalorizzare la penetrazione del controllo
giurisdizionale".
Alla tesi su esposta si e opposta gran parte della dottrina, che ha negato la consensualita
del divorzio su richiesta congiunta. Secondo alcuni autori non si puo parlare di divorzio
consensuale per via del fatto che lo scioglimento del matrimonio, anche in questo caso
cosi come nel divorzio contenzioso, puo essere pronunciato solo previa verifica dei
presupposti di legge ex art.3 l. 898/70. La non consensualita non puo, invece, ricavarsi dal
fatto che rimane intatta la possibilita per il giudice di decidere circa l'ammissibilita delle
condizioni relative alla prole proposte dalle parti: cio, invero, puo verificarsi anche
nell'ambito della separazione consensuale, senza per questo revocare in dubbio la
consensualita di tale giudizio.
Cipriani nota che la previsione di un tale modello di procedimento non implica che nel
nostro ordinamento sia stato ammesso il divorzio consensuale: il carattere del divorzio
dipende infatti, non gia dalle norme processuali, che possono al massimo incidere sui
tempi tecnici facilitando l'ottenimento del giudicato, bensi dalle norme sostanziali, le quali
non hanno subito modificazioni cosi rilevanti. E sull'accelerazione dei tempi concorda
anche un altro autore, che ritiene che questo sia l'unico effetto di rilievo a cui porta la
concorde volonta di divorziare, mentre non ha alcuna incidenza sulla connotazione del
divorzio. In tal caso, la norma relativa alla completezza degli accordi sui rapporti economici
e sulla prole "e stata finalizzata alla giustificazione della procedura camerale, ritenuta, in
base all'esperienza della prassi giudiziaria, piu celere del rito ordinario".
Vi e chi, poi, come il Tommaseo, vede nell'intervento del PM (negato dai sostenitori della
tesi consensualistica) la risposta migliore a chi ritiene che il divorzio su richiesta congiunta
sia una fonte di "privatizzazione" dei rapporti tra coniugi e dello scioglimento del
matrimonio: la presenza del PM tende ad assicurare la verificazione dei fatti rilevanti in
causa, ma anche a denunciare eventuali collusioni delle parti volte a frodare la legge. In
tale ottica, il consenso dei coniugi non opera come causa del divorzio, ma come causa
dell'assetto dei rapporti post-matrimoniali, un accordo che potrebbe anche formarsi nel
corso del giudizio contenzioso.
Oggetto del presente paragrafo sara l'esame di tutti i punti su cui, piu o meno
marcatamente, viene ad incidere il consenso delle parti; infatti benche non si possa
parlare di divorzio consensuale, come invece vorrebbe certa dottrina, tuttavia il consenso
dei coniugi, in quanto presupposto fondamentale del divorzio su richiesta congiunta,
ricopre un ruolo di primaria importanza nella fattispecie processuale in oggetto, tale da
caratterizzarla nettamente dalla controparte contenziosa.
La volonta congiunta delle parti investe molteplici aspetti di questo nuovo divorzio: dalla
determinazione del giudice competente, al regolamento delle statuizioni economiche e
relative alla prole che, dopo la proposizione congiunta del ricorso, costituisce l'altro
presupposto del procedimento non contenzioso. Non bisogna poi dimenticare le vicende
che possono travolgere o mutare il consenso: e il caso dell'incapacita di uno dei coniugi e
della sopravvenuta mancanza del consenso stesso.
Il tredicesimo comma dell'art.4, introdotto ex novo dall'art.8 l.n. 74/87, stabilisce che la
domanda congiunta dei coniugi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del
matrimonio e proposta con ricorso al tribunale in camera di consiglio; non e qui, pero,
indicato quale sia il tribunale competente a pronunciarsi sul ricorso: occorre dunque
riferirsi a quanto stabilito dal 1? comma, che contiene disposizioni relative tanto al divorzio
contenzioso quanto a quello congiunto..
In base a tale disposizione "la domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli
effetti civili del matrimonio si propone al tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto ha
residenza o domicilio, oppure, nel caso di irreperibilita o di residenza all'estero, al tribunale
del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente e, nel caso di residenza all'estero di
entrambi i coniugi, a qualunque tribunale della Repubblica. La domanda congiunta puo
essere proposta al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'uno o dell'altro
coniuge".
Occorre, a questo punto, risolvere una questione connessa alla rilevanza della volonta
concorde delle parti: ci si domanda infatti cosa succeda, relativamente alla competenza,
se in corso di procedimento una delle parti revochi il proprio consenso; la soluzione
portata dalla dottrina non prevede conseguenze: infatti la competenza si determina in
riferimento al momento della proposizione della domanda, ex art. 5 CPC, rendendo
irrilevante ogni questione successiva.
A questo punto si deve pero registrare una voce dissenziente. Un'opinione, decisamente
minoritaria, ritiene che, oltre che nel caso appena previsto, i coniugi che abbiano
intenzione di proporre ricorso congiunto siano liberi di presentarlo in qualsiasi caso a
qualunque tribunale della repubblica, senza doversi limitare alla scelta del tribunale del
luogo di residenza o domicilio di uno dei due.
Tale dissenso nasce dall'analisi letterale della norma in oggetto, la quale afferma che "la
domanda congiunta puo essere proposta al tribunale del luogo di residenza o di domicilio
dell'uno o dell'altro coniuge". Cio che susciterebbe perplessita sarebbe l'utilizzo del verbo
"puo": tale forma verbale vorrebbe significare che le parti non hanno l'onere, bensi la
facolta di scegliere uno dei tribunale dei luoghi di residenza, ben potendo optare per
qualsiasi altro.
Come gia riferito, comunque, questo e un indirizzo rimasto isolato nonche criticato dal
resto della dottrina, che lo ha rigettato.
Proseguendo l'analisi degli elementi su cui incide la volonta dei coniugi, e opportuno
ricordare nuovamente che se il consenso delle parti circa lo scioglimento del matrimonio e
il primo presupposto per l'ammissibilita del ricorso congiunto, l'accordo dei coniugi circa le
disposizioni relative alla prole ed alle rispettive condizioni patrimoniali ne costituisce il
secondo; naturalmente solo le parti possono formulare le determinazioni che verranno
presentate al giudice. Volendo qualificare tale accordo, esso presenta carattere negoziale
ed una struttura bilaterale: la sua funzione sarebbe quella di un accertamento consensuale
delle situazioni economiche dei divorziandi.
In sede parlamentare si era puntualizzato che le condizioni relative alla prole si sarebbero
dovute indicare solo in caso di esistenza della prole; tuttavia non e escluso che anche per
cio che riguarda le statuizioni economiche i coniugi decidano di non dire nulla, dovendosi
intendere il silenzio come sintomo di inesistenza di pretese patrimoniali. Infatti la
compiutezza delle condizioni e riservata alle parti; e pur vero che la legge non fa menzione
delle conseguenze dell'eventuale incompletezza o della mancanza dell'accordo sui
rapporti economici, anche se la volonta concorde di divorziare e espressa nel ricorso
congiunto.
Occorre, anzitutto, stabilire che cosa s'intenda per completezza dell'accordo: si e ritenuto
che la legge abbia voluto un'affermazione di volonta dei coniugi relativa all'attribuzione
dell'assegno di divorzio e all'uso della casa coniugale; se l'accordo risulta incompleto,
questo e in contrasto con gli interessi dei coniugi. Ora, in tale ipotesi e sicuramente da
scartare la soluzione del rigetto della domanda di divorzio, poiche questa avverrebbe
nonostante la prova della sua fondatezza. La necessita di compiutezza e piu apparente
che reale, in quanto non puo impedire al ricorso di giungere alla cognizione del tribunale.
D'altronde, circa la libera determinazione delle statuizioni economiche, conferma positiva
viene dal Tribunale di Monza, con sentenza del 24 ottobre 1988: qui il Collegio e stato
chiamato a giudicare la legittimita della sottrazione dell'assegno a qualsiasi criterio
automatico di adeguamento. L'art. 5 l.n.898/1970 dispone che "la sentenza deve stabilire
anche un criterio di adeguamento automatico dell'assegno, almeno con riferimento agli
indici di svalutazione monetaria", ma il Collegio ha deciso che tale norma non puo trovare
applicazione in relazione alle domande congiunte di divorzio: di fatto l'art. 4, 13? comma,
contiene una disciplina speciale, autonoma e compiuta del cd divorzio "consensuale" che
si sottrae in generale a quella prevista per il giudizio ordinario.
Dunque "tale sistematica autonomia non appare ristretta all'aspetto processuale del
giudizio, se e vero che ai fini dell'accoglimento della domanda congiunta il tribunale deve
solo verificare i presupposti di legge per la pronuncia di divorzio e valutare la rispondenza
sostanziale delle condizioni all'interesse dei figli, omettendo invece qualsiasi valutazione di
meritevolezza sui rapporti economici tra i coniugi, sufficiente essendo il controllo che la
domanda indichi anche compiutamente le condizioni inerenti a tali rapporti".
Il tribunale puo rifiutarsi di provvedere sugli accordi se questi sono illeciti, contrari alla
legge, all'ordine pubblico, al buon costume o a norme cogenti; vi e chi ha cercato
comunque, anche per il divorzio in oggetto, di rinvenire la possibilita di un controllo di
merito circa le statuizioni di ordine economico predisposto dai coniugi: e sembrato, infatti,
di poter dedurre tale potere, di cui non e fatta menzione nella legge, da tre elementi.
Il primo indizio sarebbe dato dall'art. 5, 8? comma l.div., che prevede un controllo
sull'equita della determinazione consensuale delle parti con cui l'assegno viene
corrisposto in un'unica soluzione; gli altri elementi verrebbero integrati dal carattere
assistenziale che l'assegno ha assunto con la riforma del 1987 e dal potere giudiziale di
assegnare in uso la casa familiare a coniuge diverso dal titolare del relativo diritto.
Una simile soluzione sembra pero male inserirsi nel contesto del divorzio su richiesta
congiunta; si e, infatti, gia detto della specialita della disciplina relativa al divorzio non
contenzioso, peculiarita che la sottrae all'applicazione delle norme inerenti al divorzio
ordinario: riprova di cio ne e la sentenza del Tribunale di Monza, di cui sopra, che ha
rifiutato l'applicazione della norma relativa allo stabilimento di un criterio automatico di
adeguamento dell'assegno, previsione tipica nel procedimento contenzioso.
Non si ritiene quindi opportuno ricostruire un potere d'indagine sul merito degli accordi
stabiliti dai coniugi basandosi, come e stato fatto, su articoli che interessano il
procedimento ordinario: un tale controllo, se fosse necessario, sarebbe stato
esplicitamente previsto dal legislatore il quale, invece, non ha stabilito alcunche. Anche la
dottrina maggioritaria, d'altro canto, ritiene che il giudice non possa sindacare le scelte
operate dai coniugi, ma deve limitarsi a verificare la non contrarieta alle norme di legge, al
buon costume e cosi via. Gli e che, per la peculiarita mostrate dal ricorso congiunto,
sembrerebbe quasi un contrasto esaltare dapprima la liberta di determinazione dei
divorziandi e poi drasticamente limitarla, soggiogandola ad un controllo cosi penetrante
quale e quello di merito. Infatti, nel procedimento di divorzio su richiesta congiunta,
l'attivita d'indagine sugli accordi accessori al divorzio sara necessariamente sommaria,
stante anche la necessita di terminare il procedimento nel piu breve tempo possibile,
mentre e la sola attivita istruttoria relativa all'accertamento delle cause di scioglimento del
matrimonio che potra richiedere uno sviluppo piu approfondito.
Qualora il giudice in camera di consiglio abbia ritenuto gli accordi illeciti, contrari al buon
costume, a norme cogenti o all'ordine pubblico dovrebbe rifiutare in toto l'accordo, anche
se questo e viziato solo da singole clausole. A questo punto, non potendo permettere che
una simile evenienza impedisca di giungere ad una sentenza, e stata considerata con
favore l'ipotesi che il procedimento possa portare ad una sentenza non definitiva: viene
dichiarato il divorzio, ma il procedimento prosegue di fronte al giudice istruttore nelle forme
ordinarie relativamente ala questione dei rapporti economici fra i coniugi.
Una questione collaterale che, pero, mette ancor piu in risalto la decisiva importanza della
volonta delle parti in ordine alle determinazioni economiche del divorzio non contenzioso e
fornita dal caso, tutt'altro che remoto, che i coniugi, dopo aver presentato ricorso
congiunto non siano pervenuti ad un accordo circa le reciproche pretese economiche. Su
questa evenienza si e espresso il Tribunale di Napoli, che con sentenza del 19 gennaio
1989 ha ritenuto il ricorso inammissibile, motivando che "dalla formulazione letterale della
norma risulta evidente che il ricorso deve contenere [...] una completa indicazione delle
condizioni inerenti alla prole, sia sotto il profilo personale che patrimoniale, nonche la
regolamentazione dei rapporti economici tra coniugi. Presupposto indispensabile per
l'ammissibilita di tale forma di divorzio e quindi il consenso dei coniugi, consenso che deve
concernere non solo lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ma
anche tutte le conseguenze, sia di ordine patrimoniale che di ordine familiare, che il
divorzio stesso comporta".
Per quanto riguarda invece le condizioni inerenti ai figli, anche a tal proposito l'art. 4
subordina le relative statuizioni al consenso dei coniugi, cui spettera determinare le
modalita di affidamento, il mantenimento ed ogni altro fatto inerente alla vita della prole.
Ma a differenza che per i rapporti economici, qualora il giudice ritenga che gli accordi
relativi ai figli siano in contrasto con gli interessi degli stessi si procede all'applicazione del
comma 8 dell'art. 4: il processo subisce un mutamento di rito e verra svolto, tanto per la
richiesta di divorzio quanto per le domande accessorie, secondo il rito ordinario, cioe il rito
contenzioso.
Come e ormai chiaro, il consenso dei coniugi circa la proposizione del ricorso e circa le
statuizioni relative alla prole ed ai rapporti economici sono i presupposti dell'ammissibilita
del divorzio su richiesta congiunta. Nel paragrafo precedente, l'esame della sentenza del
Tribunale di Napoli del 19 gennaio 1989 ha chiarito che l'iniziale mancanza del consenso
sulle condizioni economiche o sulle condizioni inerenti ai figli porta il giudice a dichiarare
inammissibile il ricorso stesso.
E' necessario ora analizzare due evenienze: il caso in cui il consenso venga meno una
volta che il ricorso sia stato presentato e si sia instaurato il processo, e quello,
diametralmente opposto, in cui sopravvenga il consenso tanto sulla volonta di divorziare
quanto sulle domande accessorie, quando il procedimento sia stato intrapreso secondo il
rito ordinario.
Riguardo invece al primo, la dottrina concorda nel ritenere che non sia applicabile a tale
fattispecie la normativa prevista per il procedimento di separazione consensuale, poiche
nel processo ex art. 711 CPC cio che rileva e il consenso prestato in udienza davanti al
presidente, non il ricorso, che potrebbe anche essere presentato da un solo coniuge; non
bisogna inoltre dimenticare che non esiste un divorzio consensuale per cui, a differenza
che per la separazione, "non si da luogo ad una fattispecie complessa di cui sono
elementi essenziali sia il consenso dei coniugi che il provvedimento del coniuge che lo
recepisce": il consenso dei coniugi e, nel divorzio non contenzioso, "solo" un presupposto
di ammissibilita.
E' anzitutto necessaria una premessa: occorre distinguere il caso in cui il consenso sia
revocato in ordine alla scioglimento del matrimonio, da quello in cui, invece, venga ad
incidere sulle domande accessorie.
Relativamente alla prima ipotesi la dottrina ha elaborato diverse soluzioni, aventi tutte
come denominatore comune la legittimazione ad agire.
Qualora, invece, il consenso venga revocato dal coniuge non autonomamente legittimato
a chiedere il divorzio, l'altro potra insistere nella sua richiesta. Infatti, oltre alla
considerazione che il ritiro dell'adesione e ininfluente nei confronti del coniuge che ha
presentato la domanda, occorre rilevare che la legge non richiede, per l'accoglimento della
domanda stessa che l'accordo permanga per tutto il processo, poiche, come ricordato
sopra, l'accordo e necessario per promuovere il rito camerale, ma non per l'accoglimento
della domanda, in quanto il tribunale non e qui chiamato ad omologare la concorde volonta
delle parti, ma decide con sentenza, proprio come nel rito contenzioso.
Ultima soluzione viene in evidenza qualora legittimati a chiedere il divorzio siano entrambi
i coniugi: la rinuncia dell'uno non compromette la possibilita per l'altro di ottenere la
sentenza; valgono anche per questo caso, dunque, le ragioni prospettate per la soluzione
precedente.
A tal proposito occorre ricordare la sentenza del Tribunale di Napoli del 15 marzo 1988
che ha dichiarato l'inammissibilita della domanda congiunta, essendo venuto meno, in
udienza di comparizione l'accordo relativo alle modalita di affidamento dei minori. La
motivazione di tale decisione, inevitabilmente, parte ancora dall'interpretazione del dato
normativo, per cui risulta che "presupposto del cd divorzio congiunto e la concorde volonta
dei coniugi, che deve investire non solo la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ma
anche le condizioni inerenti alla prole ed ai rapporti economici [...]. In coerenza con gli
esposti principi, non vi e dubbio che, nel caso in esame, avendo uno dei coniugi, in sede
di comparizione, dichiarato di non essere d'accordo sulle modalita di affidamento dei figli,
e venuto meno il presupposto dello speciale procedimento, presupposto individuato dal
legislatore nel consenso concorde dei ricorrenti. Ne vale obiettare che l'ultima parte
dell'art. 4 comma 13 prevede la trasformazione del procedimento, con conseguente
nomina del giudice istruttore. Tale ipotesi e diretta, infatti, ad evitare che le condizioni
relative all'affidamento possano incidere negativamente sull'equilibrato sviluppo della
prole. Trattasi, pertanto, di disposizione avente carattere eccezionale, certamente non
applicabile all'ipotesi in cui, per il dissenso manifestato da uno dei coniugi, sia pure in
ordine al solo affidamento, sia venuto meno il presupposto del procedimento medesimo."
Questa sentenza nega la validita di uno dei primi indirizzi dottrinari in merito, secondo il
quale, in caso di sopravvenuta mancanza di consenso, sarebbe opportuno rimettere parti
e causa innanzi al presidente del tribunale, non dovendosi considerare tassativo il
disposto dell'ultima parte del tredicesimo comma che vuole tale rinvio consentito solo per
l'ipotesi relativa al contrasto in ordine agli interessi della prole.
Tale negazione e stata accettata anche dalla dottrina successiva alla sentenza, la quale
conferma la tassativita dei casi di mutamento di rito, che puo avvenire solo quando
espressamente previsto dalla legge. Tuttavia questa dottrina, di cui portavoce e il Cipriani,
non condivide la soluzione d'inammissibilita cui perviene il tribunale partenopeo: essa
ritiene che, come e possibile che il coniuge aderisca alla nuova condizione proposta
dall'altro, oppure che entrambi, in sede di audizione, la modifichino concordemente, cosi al
tribunale non dovrebbe essere impedito il giudizio quando la variazione delle condizioni sia
unilaterale.
Nulla vi sarebbe, infatti, nella legge che possa legittimare a pensare che il ricorso divenga
improcedibile se uno dei coniugi cambia idea nel corso del processo: "non e necessaria
una norma ad hoc per stabilire quando il processo puo proseguire. La norma ad hoc,
invece, e essenziale per stabilire quando un processo puo o deve non proseguire".
Dunque se manca una norma in tal senso, l'interprete deve concludere che il tribunale non
deve fare altro che giudicare sul merito, tenendo in considerazione la nuova domanda
presentata nel processo. Ed effettivamente cio sembra legittimo: bloccare l'iter
processuale quando uno dei coniugi cambia idea circa le condizioni proposte sarebbe una
soluzione piuttosto drastica per entrambe le parti, che restano comunque in accordo circa
la volonta di sciogliere il matrimonio.
Ugualmente il tribunale dovra svolgere un'identica forma di giudizio qualora uno dei
coniugi muti la sua volonta in ordine ad uno o piu punti dell'accordo, senza invocare
l'inammissibilita del ricorso.
Cio che conta, dunque, e solo la volonta concorde espressa nel ricorso: il consenso infatti
non influenza la sentenza che e e rimane "frutto della decisione del tribunale".
A conclusione di tale questione e necessario fare una puntualizzazione che liberi il campo
da eventuali equivoci: se le parti hanno il potere di emendare gli accordi previsti nel ricorso
congiunto essi, pero, non possono unilateralmente, a mezzo di suddetti emendamenti,
inserire nel ricorso stesso nuove domande: in questa evenienza l'inammissibilita verrebbe
giustamente invocata.
Una panoramica relativa al ruolo del consenso dei coniugi nella fattispecie processuale in
oggetto non potrebbe essere considerata completa se si omettesse di verificare gli effetti
sul ricorso congiunto di eventuali vizi della volonta delle parti.
Occorre anzitutto valutare il modo in cui il consenso dei coniugi si e formato. In tal caso
viene in evidenza la sentenza del Tribunale di Monza del 23 aprile 1990, che ha ritenuto
improcedibile il ricorso congiunto presentato da un coniuge in evidente stato di assoluta
capacita naturale a carattere permanente, anche se non ancora interdetto.
Leggendo i motivi della sentenza, il giudice rileva che ex artt. 75 e 78 CPC, in tema di
capacita processuale, la persona dichiarata legalmente incapace non puo, neanche con
rappresentante, proporre domanda di divorzio, stante il carattere personalissimo
dell'azione che consente solo all'interessato di effettuare una valutazione sulla sua
opportunita: colui che non ha capacita processuale "non ha diritto al divorzio, non essendo
legittimata neanche a mezzo di sostituti, a proporre la domanda a cio necessaria".
Tale diritto potestativo, invece, spetta all'incapace naturale, in quanto la sua condizione
non incide sulla capacita processuale, ma solo dal punto di vista sostanziale, come
ragione di annullamento a istanza dello stesso incapace. Il 5? comma dell'art. 4
l.n.898/1970 deroga al sistema generale della capacita processuale, poiche relativo al
coniuge convenuto "malato di mente" attribuisce rilievo processuale all'incapacita naturale,
ammettendone la sostituzione con un curatore speciale; tale deroga non e pero applicabile
al caso in cui l'incapace naturale sia l'attore, stante il suddetto carattere personalissimo
dell'azione. Dunque, la natura non contenziosa del procedimento in oggetto vede
nell'incapacita giuridica del ricorrente un ostacolo giuridico alla pronuncia giudiziale
richiesta; anche se, come gia piu volte ricordato, non ci si trova di fronte ad un divorzio
consensuale, qui il presupposto speciale di tale procedimento e "un accordo completo che
investe consapevolmente le condizioni inerenti alla prole ed ai rapporti economici [...]. Ma
quando risulta che, per qualsiasi causa, [...] l'accordo in realta non esiste o non e frutto di
libera e consapevole autodeterminazione negoziale, il tribunale non puo far altro che dare
atto del difetto del presupposto sostanziale indispensabile per la pronuncia sul merito della
domanda congiunta e deve conseguentemente dichiarare il ricorso improcedibile,
ancorche proposto da persona legalmente capace".
Secondo certa dottrina l'attivita istruttoria del collegio, in questo caso, si sarebbe svolta
verso una verifica preordinata non alla volonta di giungere ad una sentenza di divorzio
dalla parte dei coniugi, ma al merito del regolamento posto in essere, anche se solo in
relazione all'elemento volontario dello stesso. Cio che viene criticato e il fatto di aver
ritenuto improcedibile il ricorso per via dell'incapacita naturale di uno dei coniugi: infatti
anche se la verifica dei presupposti di legge consente al Collegio di indagare sulla
manifestazione del consenso, tale regime non puo pero riguardare la volonta delle parti,
vale a dire la capacita di intendere e di volere di chi l'ha posto in essere. Il negozio
stipulato dall'incapace naturale sarebbe certamente annullabile su istanza della persona
stessa o suoi aventi diritto, ex art. 428 CC; nel caso del divorzio il regolamento posto in
essere dal coniuge incapace naturale deve ritenersi produttivo di effetti fino ad una
sentenza di annullamento ex art. 1425 CC.
Nonostante la critica di cui sopra, l'attivita del tribunale volta a verificare l'elemento
volontario dell'accordo raggiunto dalle parti (senza fermarsi alla valutazione della semplice
volonta di divorziare) non sembra da biasimare: sarebbe infatti inutile nonche
svantaggioso, in termini di economia processuale, che il giudice avallasse un accordo che
poi il coniuge incapace potrebbe impugnare, chiedendone l'annullamento. Con cio non si
vuol certo dire che le parti debbano comparire ogni volta innanzi al giudice affinche questo
possa determinare la capacita d'intendere e di volere, ma solo che nei casi in cui lo stato
mentale dell'attore sia palesemente tale da lasciare intravedere la mancanza di una libera
autodeterminazione (come nel caso riportato in sentenza), il tribunale dovra comportarsi di
conseguenza.
L'art. 3 l.n.898/70 contenente l'elenco delle cause legittimanti il divorzio e stato oggetto di
esame nel capitolo precedente; come gia ampiamente riferito, e piu opportuno parlare di
elenco che non gia di sistema di cause, in considerazione della asistematicita delle cause
riportate dal testo di legge.
Per una maggiore scorrevolezza della trattazione si puo tentare di raggruppare le cause di
divorzio in due categorie generali; la prima e composta dalle "fattispecie conflittuali di
divorzio" e ricomprende, anzitutto, le ipotesi a carattere penale di cui all'art. 3 n.1 l.div..
Sempre in tale fattispecie sono ricompresi l'annullamento, scioglimento del matrimonio e
contrazione del nuovo matrimonio all'estero.
E' importante rilevare che fulcro di tale distinzione risiede nel fatto che l'interesse ad agire
spetti ad uno solo o ad entrambi i coniugi (casi esemplificativi sono, rispettivamente, il
divorzio per condanna penale e per separazione consensuale).
La prima tesi, piu radicale, dunque considera proponibile il ricorso congiunto solo in
funzione della legittimazione di entrambi i coniugi, per cui sarebbe possibile solo per il
caso di separazione, inconsumazione del matrimonio o cambiamento di sesso. Tale
soluzione sarebbe avallata dal fatto che "la previsione della domanda congiunta
presuppone necessariamente la legittimazione alla proposizione dell'istanza di
scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, laddove l'accordo sulle
conseguenze accessorie della pronuncia costituisce requisito ulteriore e diverso e non
sostitutivo del primo".
Essa avrebbe, inoltre, il pregio di tenere sempre in viva considerazione il principio per cui
la legittimazione spetta solo al coniuge che non abbia dato causa, col suo comportamento,
alle condizioni che legittimano il divorzio.
Se, dunque, un coniuge non legittimato propone la domanda congiunta, il tribunale con
sentenza dovrebbe o dichiarare "l'improponibilita della stessa per carenza di azione di una
delle parti", non potendosi applicare il disposto dell'art. 4, 8? comma, che entra in vigore
solo nel caso di disaccordo sulle condizioni relative ai figli, oppure non ritenere tassativa
tale previsione e, "come sembra preferibile, rimettere parti e causa innanzi al presidente,
per un principio di economia processuale".
La seconda soluzione offerta dalla dottrina ritiene che il divorzio su richiesta congiunta
possa essere invocato anche per i casi in cui la legittimazione spetta ad uno solo dei
coniugi.
Si puo cosi ritenere che il ricorso congiunto possa essere proposto sempre, anche nei casi
di legittimazione esclusiva: ci si troverebbe cosi di fronte ad un'azione e ad una adesione,
e non a due azioni fuse in una domanda sola.
Sebbene le cause di divorzio previste dall'art.3 l.n.898/1970 siano valevoli tanto per il
divorzio contenzioso che per quello su richiesta congiunta, per quest'ultimo sia la
giurisprudenza che la dottrina hanno fatto registrare dei contrasti al loro interno circa
l'applicabilita a tale fattispecie processuale delle cause di divorzio per inconsumazione e
per separazione di fatto. Infatti, per queste due cause, e necessario condurre, in sede
processuale, delle piu o meno accurate attivita istruttorie volte a stabilire se non vi sia
stata consumazione del matrimonio o, rispettivamente, interruzione della separazione; nei
primi anni successivi alla novella la giurisprudenza dei tribunali ha tendenzialmente
escluso che tali fattispecie potessero essere applicate in relazione al ricorso congiunto.
Esemplare, a questo riguardo, e la sentenza emessa dal Tribunale di Napoli il 15 marzo
1988 circa una richiesta di pronuncia di scioglimento del matrimonio ex art. 3 n.2 LETT. f)
l.n.898/1970.
Nei motivi della decisione si legge che la questione mira a stabilire se il procedimento su
ricorso congiunto possa essere applicato ad ogni previsione dell'art. 3 oppure solo in
quelle per cui non sono richieste particolari indagini istruttorie, soluzione questa che
porterebbe all'esclusione proprio della inconsumazione e della separazione di fatto. Il
giudice, qui, ex art. 12 disp.prel. CPC, si produce in un'interpretazione letterale del
tredicesimo comma dell'art. 4; la norma afferma che il tribunale verifica l'esistenza dei
presupposti di legge e valuta la rispondenza delle condizioni all'interesse dei figli. E
proprio il termine "verificare" indicherebbe che il tribunale deve limitarsi a prendere atto
dell'esistenza dei presupposti di legge, che devono risultare dagli atti, non potendo a tale
scopo eseguire accertamenti o indagini istruttorie: il controllo e puramente formale.
Anche alcuni commentatori hanno appoggiato la soluzione fornita dal Tribunale di Napoli,
benche vi sia chi abbia ravvisato che la norma in questione non autorizzi una tale
interpretazione.
Un'autorevole parte della dottrina ha pero manifestato il suo dissenso nei confronti della
sentenza di cui sopra, controbattendo validamente punto per punto i motivi addotti dal
tribunale partenopeo. L'incipit della critica fa notare che non esistono norme di diritto
positivo che impediscano l'applicazione del divorzio su richiesta congiunta ai casi di
inconsumazione o di separazione di fatto ultraventennale; infatti, anche se generalmente
nel procedimento camerale non vi sono prove costituende da assumere, bisogna dire che
il legislatore "non ha voluto subordinare la proposizione del ricorso congiunto al fatto che
la domanda sia fondata su prova scritta, bensi al fatto che i coniugi, al momento della
proposizione del ricorso, siano d'accordo su tutto". Gli oppositori dell'indirizzo intrapreso
dalla suddetta sentenza hanno convenuto che le indagini istruttorie non sono incompatibili
con le finalita del rito camerale: questo e stato introdotto alla scopo di semplificare e di
sveltire il divorzio, ma se un'istruttoria e necessaria lo e tanto per il rito contenzioso
quanto, e a maggior ragione, per quello in camera di consiglio. Accettare la giustificazione
data dal Tribunale significherebbe menomare gravemente l'attivita del pubblico ministero e
del giudice cui sarebbe impedito di disporre d'ufficio l'assunzione di mezzi di prova.
La questione e stata definitivamente risolta dalla Cassazione con sentenza n.10763 del
1995, che ribalta la giurisprudenza dei tribunali formatasi prima di quel momento. La
Suprema Corte, nei motivi della decisione, chiarisce che il termine "verifica", usato dalla
legge indica sicuramente un accertamento minore, il quale pero "nell'ambito di un
procedimento decisorio, sia pure di tipo camerale, non puo esaurirsi in una mera presa
d'atto di situazioni evidenti o inconfutabili, e deve includere, in difetto di disposizioni
derogative, quei compiti d'indagine e successivo esame critico dei corrispondenti risultati
che competono al giudice anche nel rito in camera di consiglio, dopo l'esercizio, se del
caso, della facolta di assumere informazioni ( art. 738 CPC)". Tale regola, sempre
secondo la Cassazione, e cosi in linea con le finalita di celerita e semplificazione che
sottendono al divorzio su richiesta congiunta.
La Suprema Corte ha cosi dissolto i dubbi che si erano formati dopo la novella e ha
coronato la tesi della dottrina prevalente; il legislatore puo scegliere il rito camerale oppure
no: tuttavia, se, come in questo caso, lo prevede, non puo limitare o, addirittura, escludere
il diritto della prova, che e una componente fondamentale del diritto d'azione e della
difesa.
2.5 - Rappresentanza delle parti in giudizio
A contrastare tale opinione concorrono sia il resto della dottrina, che anche quando
abbraccia la soluzione della natura di volontaria giurisdizione prevede, pero, la necessaria
presenza in ogni caso di procuratori, sia la giurisprudenza, con sentenza del Tribunale di
Monza del 21 marzo 1989.
La decisione del tribunale lombardo ha infatti ritenuto affetto da nullita assoluta il ricorso
proposto personalmente da i coniugi non a mezzo di procuratore legale.
Il giudice ha stabilito che "ai sensi dell'art.82 CPC, infatti, davanti ai tribunali ed alle Corti
d'appello le parti debbano stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente
esercente. Conseguentemente, ove le parti non si siano fatte rappresentare da chi rivesta
tale qualita, tutti gli atti del giudizio dalle stesse posti in essere sono affetti da nullita
assoluta.
Ne tale conclusione puo essere contestata sul presupposto che l'art.4 della l.n 898/1970
non indica gli estremi della procura ed il nome del procuratore tra i requisiti del ricorso. La
norma va, infatti, integrata con quella di cui all'art.125 CPC che disciplina in via generale il
contenuto degli atti di parte [...]".
Anche il Tribunale e giunto a concludere che il rito camerale non puo autorizzare la
formulazione di congetture infondate sulla natura del ricorso congiunto: esso rimane un
giudizio contenzioso, che si conclude con un provvedimento avente forma di sentenza e
che, pertanto, necessita dell'intervento di procuratori a tutela delle parti.
Un'altra sentenza, quella del Tribunale di Monza del 23 aprile 1990 precedentemente
menzionata (par.2.2.4), importa la pronuncia d'improcedibilita del ricorso per mancato
conferimento di delega al procuratore da parte di uno dei coniugi coricorrenti.
A parte voci isolate, l'opinione prevalente propende per l'ammissibilita, nel ricorso
congiunto, del patrocinio di un solo procuratore per entrambi i coniugi.
A tale proposito e stato fatto notare che, seguendo la giurisprudenza della Corte di
Cassazione, il patrocinio di due parti in conflitto anche potenziale non potrebbe essere
demandato allo stesso difensore. Il problema che si pone e il seguente: volendo accettare
tale indirizzo giurisprudenziale e, cosi, considerare il contrasto anche solo potenziale, si
verrebbe inevitabilmente ad escludere sempre la possibilita di un unico procuratore, in
quanto, come gia si e avuto modo di osservare, i coniugi hanno piena liberta di cambiare
idea in ordine a qualsiasi punto dell'accordo, originando cosi una posizione di contrasto.
Tuttavia, questo raffronto analogico e da rigettare, in quanto frutto di una svista dell'autore
che lo ha formulato, il quale ha confuso e sovrapposto due situazioni affatto differenti.
Si puo quindi ritenere che i coniugi divorziandi possano essere rappresentati in giudizio
dallo stesso difensore.
Tale situazione non puo pero resistere al sopraggiungere di una mancanza di consenso
da parte di uno od entrambi i coniugi, che origina un conflitto d'interessi. In questo caso
nasce un contrasto: le parti sono in disaccordo su un elemento del ricorso ed avanzano
pretese tra di loro inconciliabili. E' logico che da questo momento un solo procuratore non
potra gestire il ricorso come in precedenza, pertanto il giudice dovra nominare distinti
procuratori alle due parti, in base al principio valevole per il giudizio di scioglimento delle
comunioni ma, secondo la dottrina, applicabile anche al divorzio, per cui la circostanza
che piu condividenti siano rappresentati dallo stesso difensore non determina alcuna
nullita delle procure ove solo successivamente si realizzi un conflitto d'interessi fra le
diverse posizioni delle parti, con la conseguenza che le procure sono valide per tutti gli atti
compiuti in ordine ai quali non sussiste tale conflitto, mentre, per il periodo successivo, le
procure stesse diventano inefficaci per inidoneita di raggiungimento dello scopo cui sono
per loro natura dirette."
Anche la giurisprudenza e pervenuta ad una tale conclusione con sentenza del Tribunale
di Napoli del 11 febbraio 1988, con cui ha disposto, in seguito all'insorgere di un conflitto
d'interessi tra le parti che erano assistite dal medesimo procuratore, la nomina di difensori
distinti per ciascun coniuge.
Capitolo 3
SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO IN CAMERA DI CONSIGLIO
Il tema della rappresentanza legale delle parti durante il processo e stato analizzato nel
capitolo precedente, al par. 2.5. Occorrera ora studiare il caso della rappresentanza
volontaria, il problema della comparizione delle parti nel procedimento di divorzio su
richiesta congiunta, nonche tentare di rispondere alla questione, che ha diviso dottrina e
giurisprudenza, sulla necessita del tentativo di conciliazione nel divorzio non contenzioso.
La rappresentanza volontaria e "la volonta di agire in nome altrui, non per incapacita del
rappresentato, bensi per sua volonta"; di tale istituto e fatta menzione nel codice di
procedura civile all'art. 77, il quale precisa che un tale mandato puo essere conferito ad un
terzo solo insieme alla rappresentanza sostanziale in ordine al rapporto poi dedotti in
giudizio.
Se, infatti, la rappresentanza fosse conferita solo in riferimento alla sfera processuale,
questa sarebbe invalida, come invalida sarebbe la procura alle liti conferita sulla sua base.
La qualita di rappresentante nel campo sostanziale e sostrato necessario per quella
processuale; infatti il destinatario di tale procura, secondo l'art. 77 CPC, non e un soggetto
qualsiasi ma solo il "procuratore generale e quello preposto a determinati affari".
Come stabilito dalle sezioni unite della Cassazione la parte rappresentata da un terzo in
giudizio non perde la sua legittimazione processuale, potendo cosi proporre ricorso per
cassazione contro la sentenza che abbia definito quel giudizio stesso.
Il conferimento della rappresentanza deve avvenire, salvo eccezioni, con procura scritta;
anche nel caso della rappresentanza volontaria e necessario, da parte del rappresentante,
la contemplatio domini, ovvero la spendita del nome di colui che ha conferito la procura.
Alla base di tale decreto vi e l'invocazione, da parte di uno dei coniugi, della applicazione
analogica al divorzio congiunto dell'art.111 CC in tema di matrimonio per procura. E'
proprio sulla valutazione di tale richiesta che il giudice scaligero, come riferito, ha perso di
vista il fulcro della questione, pervenendo ad una soluzione per certi aspetti controversa.
Il decreto del 1988 ha dovuto esprimere un giudizio sull'applicabilita, per analogia, di tale
norma di diritto sostanziale alla disciplina del divorzio su richiesta congiunta.
Anche le critiche rivolte a tale soluzione hanno risentito della mancanza di chiarezza che
ha funestato il decreto in esame.
Ricercando, pero, la soluzione nella figura del procuratore legalmente esercente, ex art.
82 e SS. CPC, tali autori hanno erroneamente sovrapposto la rappresentanza volontaria
alla rappresentanza tecnica, giungendo ad una conclusione forzata ed inaccettabile
Volendo risolvere la questione, dunque, occorre evitare ogni riferimento alle norme inerenti
alla rappresentanza tecnica in giudizio, poiche altrimenti si finisce con l'invadere un campo
totalmente estraneo alle problematiche ora in esame. D'altronde qualsiasi tentativo volto
all'applicazione analogica di altre norme del codice di procedura civile appare quanto
meno inutile, perche sembra sensato sostenere che, almeno su un punto, il Tribunale di
Verona ha ragione: "se, per un evento di straordinaria rilevanza quale e il matrimonio, il
legislatore ha reputato possibile la celebrazione in assenza di uno dei coniugi, sostituito
da un nuncius, portatore della volonta dell'assente, cosi un siffatto meccanismo puo
essere riprodotto per l'atto che scioglie il vincolo coniugale, avuto riguardo al fatto che nel
contesto di un procedimento giudiziario il fattore prevalente e la volonta dei coniugi".
Tale e una soluzione dettata dalla logica e dal buon senso, e consegue a quanto gia
illustrato circa le caratteristiche del divorzio su richiesta congiunta.
Come, infatti, e stato ricordato poco sopra, non si e avuta una privatizzazione del divorzio;
tuttavia, l'ampia sfera di autonomia concessa alle parti puo permettere al coniuge che, per
motivi particolari, non possa personalmente prestare il proprio consenso al ricorso
congiunto, di conferire procura ad un terzo di sua fiducia affinche questo agisca in giudizio
proprio come il nuncius previsto dall'art.111 CC.
Sulla base di queste considerazioni, quindi, pare opportuno ammettere la possibilita della
rappresentanza volontaria nel ricorso congiunto, originando in tal modo una sorta di
"divorzio per procura".
La questione relativa alla necessita della comparizione personale delle parti in giudizio ha
costituito, dopo quella della rappresentanza volontaria, l'oggetto dell'altro punto
controverso del decreto del Tribunale di Verona del 2 aprile 1988.
Infatti, relativamente a questo problema, il Collegio ha ritenuto che la presenza delle parti
davanti al giudice sia necessaria, poiche "la comparizione personale e condizione
essenziale perche possa essere pronunciata la sentenza secondo il rito camerale
semplificato. Infatti, solo attraverso la presenza dei coniugi, il tribunale puo percepire se la
volonta trasfusa nel ricorso congiunto corrisponda fedelmente alla volonta reale delle
parti".
A cio il tribunale veneto aggiunge un argomento di natura letterale: manca, nel 13? comma
dell'art. 4, la menzione invece presente nel 7? comma dell'impedimento a comparire, che
tuttavia consente la prosecuzione del giudizio. Dunque, "il tribunale ritiene che il ricorso
presentato congiuntamente da entrambi i coniugi non sia sufficiente, se non
accompagnato dalla comparizione personale dei medesimi".
Dunque: qualora le parti compaiono il giudice potra chiedere loro se intendano proseguire
il procedimento oppure rinunciare al ricorso, altrimenti sara sufficiente che vengano
rappresentati dal proprio procuratore, "il quale ben potra riportarsi alla domanda proposta
nel ricorso e chiederne l'accoglimento". Qui ci si trova in una fattispecie processuale
autonoma rispetto al divorzio ordinario: l'assenza di conflitti tra le parti unitamente alla
manifestazione di volonta (nel senso dello scioglimento del matrimonio) manifestata nel
ricorso congiunto rendono quasi superflua la loro presenza davanti al giudice che, se non
deve compiere indagini istruttorie, non deve far altro che valutare la congruita della
statuizioni concordate dai divorziandi e la sussistenza di una valida causa di divorzio.
Questa soluzione puo rappresentare un corollario necessario alle intenzioni che hanno
giustificato la previsione di un procedimento camerale di divorzio: se il legislatore ha voluto
introdurre un processo che evitasse lo strepitus fori ai coniugi che si trovano in una
situazione particolarmente delicata, ne consegue che questi possono non presentarsi in
tribunale, delegando ogni compito al proprio difensore, se e stato concordato ogni punto
che potrebbe dare origine a contrasti o conflitti d'interesse.
E' questa la previsione del tentativo di conciliazione, incombenza obbligatoria per il giudice
qualora le parti compaiano personalmente. Lo scopo di cio risiede nella volonta del
legislatore di cercare di sanare i contrasti che stanno per condurre allo scioglimento del
vincolo matrimoniale, benche vi sia chi abbia rimarcato l'inutilita, per non dire l'illogicita, di
tale tentativo nel procedimento di divorzio ordinario.
Come detto, le parti devono comparire personalmente, "salvo gravi e comprovati motivi":
cio comporta, per il coniuge impedito, la possibilita di farsi rappresentare da un
procuratore speciale.
Chi ha aderito alla prima tesi, quella positiva, afferma che l'espressione "sentiti i coniugi"
riportata nell' art.13, 13? co., sia da ricondurre all'esperimento del tentativo di
conciliazione, benche con scarse speranze: infatti, uno dei poteri del giudice anche in tale
processo e l'accertamento della sussistenza delle condizioni per la pronuncia del divorzio,
tra cui quella prevista dagli artt.1 e 2 l.div., ovvero l'irreversibilita della frattura coniugale.
La mancanza di una menzione esplicita di tale tentativo sarebbe un'omissione grave del
legislatore, contrastata tra l'altro da una prassi dei tribunali orientata in senso contrario.
Tale dottrina e imperniata tutta sull'attuale vigore degli artt.1 e 2 l.n.898/1970, il cui dettato
non e stato mutato dalla legge n.74/1987. La valenza di tali disposizioni avrebbe portata
generale, nel senso di una loro applicazione al procedimento di scioglimento del
matrimonio, sia esso condotto nelle forme ordinarie che col rito camerale. Gli articoli in
oggetto presuppongono che il giudice pronunci sentenza di divorzio dopo aver accertato
l'irreparabilita della frattura coniugale: tale accertamento, che e presupposto
indispensabile del divorzio, potrebbe essere compiuto solo tramite il tentativo di
conciliazione previsto dal settimo comma dell'art.4.
Cosi il tentativo di conciliazione dovrebbe svolgersi secondo le regole valide per l'udienza
presidenziale nel procedimento contenzioso, nelle forme del rito camerale davanti al
collegio.
Quella parte di dottrina che, invece, ha negato la necessita del tentativo nel divorzio non
contenzioso trae spunto dalla mancanza di un'indicazione espressa all'interno del
tredicesimo comma, il quale, come gia ricordato, si limita ad affermare che il giudice
pronuncia il divorzio "sentiti i coniugi".
Chi ha cercato di rinvenire la volonta del legislatore e giunto ad una conclusione orientata
all'esclusione dell'udienza presidenziale e del tentativo di conciliazione che, a causa del
tempo trascorso dalla separazione o per altri gravi motivi che sono alla base della
domanda e per la concorde volonta dei coniugi in ordine allo scioglimento del matrimonio,
sembra oltretutto superfluo. Non sempre, pero, c'e chiarezza in questa soluzione poiche vi
e stato chi, pur sostenendo l'esclusione del tentativo di conciliazione per via della
specialita del rito camerale autonomamente previsto nell'art.4, ha rilevato "la valenza
sostanziale dell'incombente preliminare, che l'art.1 l.898/1970 eleva in generale a rango di
presupposto della pronuncia di divorzio e che, come tale, sarebbe catalogabile tra i
presupposti di legge soggetti a verifica nel procedimento camerale."
L'irreparabilita della frattura coniugale e, come ormai chiaro, il presupposto del divorzio,
che nel procedimento contenzioso viene valutato in sede di tentativo di conciliazione; il
fatto che, quindi, tale presupposto valga anche per il divorzio congiunto non costituisce
oggetto di dubbio. Tuttavia non e con la conciliazione tentata dal giudice che questo
elemento viene appurato nella fattispecie processuale in oggetto, perche il fatto stesso di
una proposizione unanime e volontaria di ricorso volto a chiedere lo scioglimento
dell'unione coniugale e indice della impossibilita della riconciliazione. Sulla stessa linea di
pensiero s'inserisce poi la considerazione per cui l'irreparabilita della frattura, in quanto
tale, non e piu contestabile ne dalle parti ne, tanto meno, dal giudice che pertanto non puo
neppure tentare la conciliazione, che avrebbe un senso solo nel procedimento ordinario,
ove potrebbero esistere dei contrasti tra coniugi anche in ordine alla volonta di divorziare.
Anche gli esponenti di questa dottrina hanno compiuto un esame coordinato degli artt. 1, 2
e 4 l.div. ed il risultato non e variato: il tentativo di conciliazione e obbligatorio per il
procedimento introdotto con ricorso da uno solo dei coniugi, non invece per il divorzio su
richiesta congiunta, in cui il legislatore ha valutato la volonta dei coniugi nel richiedere il
divorzio come situazione escludente ogni possibilita di conciliazione.
D'altronde la lettura dei tre articoli summenzionati "impone il tentativo di conciliazione nei
casi in cui e previsto, senza alcuna possibilita di estenderlo a quelle ipotesi che tale
tentativo non contemplano".
La questione relativa alla partecipazione del pubblico ministero nel processo di divorzio su
richiesta congiunta ha reso necessaria un'interpretazione per relationem, vale a dire con
riferimento a norme del codice di procedura civile o ad altri articoli della stessa legge. Cio
e dovuto alla completa mancanza di qualsiasi riferimento alla presenza della parte
pubblica nel procedimento in oggetto: in tutto l'articolo e soprattutto, per cio che riguarda il
divorzio non contenzioso, nel tredicesimo comma, non e mai fatta menzione del pubblico
ministero ne della sua attivita.
Il silenzio della legge a questo proposito ha indotto una parte della dottrina a ritenere che
sia esclusa la partecipazione del pubblico ministero in tale processo, dal momento che,
altrimenti, la legge stessa ne avrebbe sancita la presenza (come ad esempio nell'art. 9
l.div.). La questione e stata pero risolta diversamente dalla stragrande maggioranza della
dottrina, la quale e pervenuta ad una soluzione di segno positivo. Innanzitutto si e ritenuto
efficace il disposto dell'art. 70 n.3 CPC, che ha valenza di regola generale, in quanto
prevede l'intervento del pubblico ministero nelle cause riguardanti lo stato delle persone;
non vale, a negare cio, l'invocazione dell'art.9, 1? comma l.div., che prevede la
partecipazione necessaria del pubblico ministero nel giudizio di revisione relativo ai figli, in
quanto riguarda materia diversa dallo status delle persone. L'art. 5 l.div., in riferimento al
procedimento contenzioso, dispone l'intervento obbligatorio del pubblico ministero:
orbene, si deve ritenere che, quando il ricorso e proposto con domanda congiunta , il
dettato di tale articolo debba essere adattato alla struttura del rito camerale; da qui il
richiamo all'art. 738, 2? comma CPC, per cui gli atti vanno comunicati al pubblico
ministero, il quale stende le sue conclusioni in calce al provvedimento del presidente.
Appare inoltre opportuna la giustificazione di tale scelta: infatti l'art.9 l.div., che regola i
procedimenti camerali di revisione dei provvedimenti relativi alla prole adottati sia
nell'ambito del divorzio non contenzioso che di quello ordinario, prevede la partecipazione
necessaria del pubblico ministero a tali procedimenti; sarebbe allora assurdo escludere la
parte pubblica dal procedimento di divorzio su richiesta congiunta se poi la sua presenza e
ammessa, anzi richiesta, in un procedimento successivo in cui devono essere modificate
delle statuizioni adottate durante un'udienza a cui egli non aveva potuto partecipare.
3. - Attivita istruttoria
Si e visto nel capitolo precedente che la presentazione congiunta del ricorso ed il relativo
procedimento camerale che ne consegue non comportano l'esclusione dell'attivita di
istruzione probatoria, la quale deve invece svolgersi, se necessaria, proprio come in un
procedimento ordinario.
L'istruttoria puo anzitutto rendersi necessaria per la valutazione della sussistenza dei
presupposti del divorzio; per quanto riguarda il caso statisticamente piu frequente, vale a
dire la separazione legale protratta, il tribunale sara chiamato a verificare sia l'esistenza
del verbale sul fallimento (o l'impossibilita) del tentativo di conciliazione nel processo di
separazione personale, il quale dev'essere avvenuto almeno tre anni prima della data di
deposito del ricorso per il divorzio, sia l'esistenza di un decreto di omologazione della
separazione consensuale, ormai irrevocabile, o di una sentenza di separazione giudiziale
passata in giudicato.
Il divorzio per inconsumazione del matrimonio potra essere provato sia per testimoni che
per consulenza tecnica. L'attivita probatoria dei presupposti del divorzio, soprattutto nel
caso di prove costituende, deve essere svolta accuratamente, impiegando i tempi ed i
mezzi richiesti a tale scopo dal caso in esame.
L'attivita istruttoria si svolge dunque nelle forme previste per il rito camerale;
indipendentemente dalla maggiore o minore accuratezza del suo svolgimento, essa e
comunque un momento imprescindibile per l'intero procedimento in quanto, a seguito di
tale attivita, si forma la conoscenza attorno ad atti e fatti che andranno poi valutati dal
collegio al fine di emanare sentenza di divorzio e di avallare (oppure no) le statuizioni
proposte dai coniugi.
Un'altra questione e sorta in ordine alla legittimita della nomina di un giudice relatore, in
seno al collegio, che svolga l'attivita istruttoria e ne riferisca al collegio stesso. Tale
soluzione, generalmente accettata dalla dottrina in riferimento ai procedimenti camerali
nonche dalla prassi corrente dei tribunali e stata contrastata da una pronuncia della Corte
di cassazione, prontamente criticata da molti autori.
La legge parla, a proposito del divorzio, di giudice in generale, senza specificare di quale
giudice si tratti. Poiche il ricorso congiunto dev'essere presentato al tribunale in camera di
consiglio occorre riferirsi alle norme disciplinanti il rito camerale per tutto cio che non e
espressamente previsto dalla legge rinovellata. Si ha riguardo, dunque, in via integrativa
agli artt. 737 e ss. CPC.
Dall'art.4, 13? comma l.n.898/1970, si legge che " il tribunale, sentiti i coniugi, verificata
l'esistenza di presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all'interesse
dei figli, decide con sentenza"; tale formulazione ha fatto sorgere il dubbio se l'attivita
istruttoria debba essere svolta dall'intero collegio oppure da un giudice relatore nominato
dal presidente. E' questo il momento di ricorrere alle norme regolanti i procedimenti in
camera di consiglio: l'art.738, 1? comma, CPC dispone che "il presidente nomina tra i
componenti del collegio un relatore, che riferisce in camera di consiglio"; tale dizione
sarebbe illuminante, nel senso dell'affidamento dell'istruttoria al giudice relatore, se non
fosse per la presenza del terzo comma, il quale aggiunge che "il giudice puo assumere
informazioni".
Se si considera il termine "informazioni" comprensivo dei mezzi prova ne risulta che tanto
il collegio quanto il giudice relatore possano compiere attivita istruttoria. Ma l'opinione
comune propende per la soluzione per cui e il giudice delegato ad assumere i mezzi
istruttori, e cio anche per ragioni di opportunita: il singolo giudice, meglio dell'intero
collegio, puo sviluppare un approfondimento ed una comprensione maggiore dei fatti.
Se cosi e, sara il relatore che, dopo la nomina, fissera l'udienza di comparizione delle parti
ove sentira i coniugi separatamente e poi congiuntamente (ovviamente, se questi
decidono di presentarsi personalmente).
Lasciando ora da parte lo svolgimento dell'udienza e l'istruzione della causa, che saranno
oggetto dei prossimi paragrafi, occorre ritornare alla designazione del giudice relatore da
parte del presidente del collegio perche, come detto, se la dottrina ammette una tale
delega, questa e invece stata negata dalla summenzionata sentenza della Cassazione, I
sez. civile, n.7629 del 3 settembre 1994.
Tale sentenza, emessa relativamente all'assunzione di prove nei procedimenti camerali di
competenza dei tribunali dei minorenni, non riguarda direttamente un caso di divorzio su
richiesta congiunta ma, poiche va ad incidere sui procedimenti camerali, investe di riflesso
anche il divorzio non contenzioso.
Con siffatta pronuncia la Suprema Corte ha negato cio che aveva finora sempre
sostenuto, cioe che "un giudice puo essere delegato alla raccolta di elementi da sottoporre
alla piena valutazione del collegio"; ora invece, se la prova non e assunta dal collegio si
incorre in nullita per vizio di costituzione del giudice, secondo l'art.158 CPC, sebbene la
stessa corte ne abbia escluso la rilevabilita d'ufficio in ogni stato e grado cadendo,
secondo chi ha criticato tale decisione, in una incoerenza, dato che e l'articolo stesso che
prevede tale rilevabilita. Inoltre la Prima sezione ha preso spunto da una precedente
sentenza emanata dalla Terza sezione in tema di controversie sul lavoro, in cui la
Suprema Corte, "per salvare i processi dai drastici effetti dell'art.158, ha enucleato una
nuova species di nullita, quella assoluta ma non rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado,
trasformando cosi la nullita ex art.158 da assoluta in relativa, e dimostrando coi fatti di
reputare eccessivo e antieconomico che, per assicurare la cd. oralita, le prove debbano
necessariamente essere assunte dall'intero collegio." E' stato inoltre notato che la Prima
sezione avrebbe dovuto basare le sue ragioni su argomenti diversi da quelli tratti dalla
giurisprudenza sul processo del lavoro: infatti il processo camerale e un procedimento
speciale, le cui lacune vanno colmate con ricorso alle norme relative al procedimento
ordinario e non con riferimento alle regole che sottendono al processo del lavoro il quale, a
sua volta, e un altro procedimento speciale.
Dunque la pronuncia della Cassazione mostra molteplici contraddizioni, tale per cui non si
presenta come la soluzione migliore per la questione in oggetto. Si e gia osservato che e
regola generale che per colmare le lacune dei procedimenti speciali occorre riferirsi alle
norme disciplinanti il procedimento ordinario. Ora, nel procedimento ordinario e previsto
che sulle prove si pronunci per primo il giudice istruttore: il fatto che una tale figura non
esista nel processo camerale potrebbe far pensare ad una illegittimita, in tale sede, della
delega ad un giudice relatore. Ma questa conclusione non e per nulla pacifica ne, tanto
meno, opportuna. Secondo la dottrina, la mancanza del giudice istruttore nel procedimento
camerale, se da un lato esclude che le prove siano ammesse ed assunte da un singolo
giudice ed indica che queste possono essere ammesse solo dal collegio, non comporta
necessariamente che le prove ammesse dal collegio debbano essere assunte dal collegio
stesso.
Quindi, nel procedimento ordinario di primo grado il collegio puo disporre le prove ma non
davanti a se, dovendo rimettere l'assunzione all'istruttore (salvo poter riassumere prove
gia assunte in precedenza dall'istruttore).
Trasportando queste norme nel campo del procedimento camerale di primo grado, ci si e
chiesti quale fosse la ratio della riserva di assunzione all'istruttore; la risposta piu
convincente coinvolge questioni di opportunita, poiche si e reputato eccessivo che le prove
venissero assunte da un intero collegio. Percio, "quando le prove sono ammesse dal
collegio, la posizione dell'istruttore e ben differente da quella solita, in quanto egli, in
questo caso, e si investito di tutti i poteri per l'ulteriore trattazione della causa (art.280, 3?
comma CPC) ma non puo regolarsi come meglio crede, ma deve obbedire al collegio ed
eseguirne la decisione. Cio significa che, quando la prova e ammessa dal collegio,
l'istruttore, nell'assumerla, si comporta come il giudice delegato del vecchio codice
(delegato dal collegio) e come l'attuale giudice delegato ex art.710, 2? comma CPC."
Da qui pare possibile concludere che in tutti quei procedimenti camerali per i quali nulla e
detto circa l'assunzione delle prove si faccia applicazione della regola per cui il collegio
deve rimettere l'assunzione ad uno dei suoi componenti. Non fa eccezione il procedimento
di divorzio su richiesta congiunta: in primo grado l'assunzione delle prove potra essere
delegato dal collegio ad uno dei suoi componenti (il giudice relatore).
Una volta delegato dal presidente, il giudice fissa l'udienza di comparizione delle parti
davanti a se.
Questo, pero, non e un percorso che debba essere seguito fino in fondo necessariamente
ogni qual volta sia presentato un ricorso congiunto: puo infatti accadere che un
procedimento di divorzio instaurato secondo le forme camerali debba poi proseguire e
concludersi secondo le norme del procedimento contenzioso.
Non e inoltre da escludersi l'ipotesi inversa, ovvero quella per cui un procedimento
ordinario di divorzio si trasforma in un procedimento di divorzio non contenzioso.
L'ultima parte del tredicesimo comma dell'art.4 l.div. prevede che "qualora il tribunale
ravvisi che le condizioni relative ai figli siano in contrasto con gli stessi, si applica la
procedura di cui al co. 8".
Tuttavia il rinvio all'art. 4, 8? comma, ha fornito alla dottrina uno spunto dal quale sono
stati ricavati diversi indirizzi interpretativi.
Una prima tesi aderisce al significato letterale della norma, per cui a fronte del rinvio al
succitato ottavo comma il tribunale dovrebbe emettere con ordinanza i provvedimenti
temporanei ed urgenti nell'interesse dei coniugi e della prole e nominare il giudice
istruttore che proseguira la trattazione della causa nei modi ordinari.
Altro indirizzo ritiene che, essendo tale misura posta a tutela degli interessi della prole, il
tribunale in sede camerale possa pronunciare una sentenza non definitiva di scioglimento
del matrimonio, talche il procedimento ordinario andrebbe applicato solo per la definizione
delle questioni relative ai figli, poiche per tutto cio che riguarda i coniugi la proposizione di
una domanda congiunta dovrebbe avere eliminato qualsiasi contestazione.
Un'ultima tesi, infine, segue meno la lettera della legge ma sembra sistematicamente piu
coerente: non si parla di trasformazione di rito ma, considerata l'improcedibilita del rito
camerale, questo si concluderebbe con una pronuncia meramente processuale, cui
farebbe seguito un nuovo normale procedimento di divorzio ad istanza dei coniugi, come
regolato dall'art. 4, 1? comma e SS.; in tal caso "il richiamo alla procedura di cui all'ottavo
comma del presente articolo sarebbe inteso come formula di rinvio al processo ordinario
tout court".
Quelle che prevedono un passaggio dal rito camerale a quello ordinario portano la
necessaria conseguenza che i due coniugi debbano assumere la qualifica,
rispettivamente, di attore e convenuto per continuare un giudizio in cui l'unico contrasto
deriva da una valutazione fatta dal giudice relativa ad un elemento su cui c'era accordo fra
le parti. Il problema principale e qui rappresentato dalla difficolta di attribuire a ciascun
coniuge un ruolo di antagonista.
La terza ed ultima tesi, invece, non tiene conto del significato letterale della norma, per
altro abbastanza chiaro e probabilmente fedele alla volonta del legislatore il quale "ha gia
mostrato un'inedita quanto anomala tendenza, di origine giurisprudenziale, alla
trasformazione del rito tenendo conto di una sempre piu accentuata esigenza sociale di
rapida composizione dei conflitti coniugali".
Chi aveva sostenuto la tesi del divorzio consensuale ha visto una similitudine tra le norme
in oggetto e l'art.158 cc relativa alla separazione consensuale, secondo cui il giudice puo
riconvocare i coniugi al fine di imporre loro delle variazioni alle condizioni inerenti ai figli,
qualora esse non fossero opportune ed, eventualmente, di rifiutare l'omologazione della
separazione se le parti non si fossero adeguate alle modificazioni imposte. Tuttavia, nel
caso che si ha qui in esame non avviene nulla di tutto cio ed il mutamento di rito investe
non solo la prole, ma anche ogni altra domanda connessa a quella principale.
E' stato pero fatto notare che l'art.4, 13? comma, ultima parte, cosi come e sembra legare
le mani al tribunale che, pertanto, non sarebbe libero di esercitare i propri poteri sulle
domande proposte. E' da ricordare invece che il tribunale in camera di consiglio "decide
con sentenza" e, proprio come nel procedimento ordinario, puo avvalersi di tutti i normali
poteri di un tribunale, e pertanto anche di quelli in ordine alla prole, poteri che, "per
espressa previsione normativa sono sganciati dalle domande delle parti e dal loro
eventuale accordo e possono essere esercitati anche previa assunzione d'ufficio dei
mezzi di prova (art.6, 9?comma l.div.)".
Dunque sarebbe piu giusto ritenere che se il giudice non e vincolato dall'accordo delle
parti ma, anzi, puo giudicare, non ha senso prevedere il mutamento del rito per il caso di
statuizioni contrastanti con gli interessi della prole, potendo invece adottare subito la
decisione migliore per i figli. Da qui la necessita di un'interpretazione restrittiva della
norma, la quale dovrebbe consentire il mutamento di rito soltanto quando l'accordo sulla
prole sia in aperto contrasto, e non solo semplicemente inopportuno, con gli interessi della
stessa, per cui viene ad essere necessaria l'audizione della medesima; il mutamento di
rito e provvedimento eccezionale che puo trovare applicazione solo nei casi di legge e non
altrimenti. Tale opinione sembra condivisibile, al contrario di quella che ritiene non
tassativa la previsione dell'art.4, 13? comma l.div., e quindi, per un principio di economia
processuale, vorrebbe estendere il mutamento di rito anche a questioni affatto differenti
quali quelle relative alla legittimazione ad agire.
Solo nei casi tassativamente previsti dalla legge (art.4, 13?comma l.div.) il procedimento di
divorzio su richiesta congiunta passa dalle forme camerali a quelle ordinarie.
Nulla invece e stabilito per il caso opposto, vale a dire per il passaggio da un divorzio
contenzioso ad un divorzio congiunto. Sull'onda delle previsioni in tal senso della dottrina,
gia subito dopo la comparsa della legge n.74/1987 si e diffusa nei tribunali italiani la prassi
per cui il giudice dispone il mutamento del rito che permette al procedimento di continuare
e terminare secondo le forme camerali, quando i coniugi, che abbiano intrapreso un
processo di divorzio secondo il rito ordinario, vengono a trovarsi in completo accordo sia
sul divorzio che sulle condizioni accessorie a questo.
E' vero che la legge nulla dice di tale evenienza, ma in questo caso, a differenza che in
quello trattato nel paragrafo precedente, la negazione di una tale possibilita
significherebbe, per dirla con Cipriani, attestarsi su posizione di mero formalismo; infatti,
anche se tale opportunita fosse negata ai coniugi, questi potrebbero sempre, liberamente,
abbandonare il giudizio ordinario per intraprenderne uno nuovo nelle forme piu celeri di
quello camerale. Percio, qualora si verificasse una uniformita di vedute tra i coniugi circa la
volonta di divorziare e le statuizioni inerenti alla prole ed alle condizioni economiche, il
giudice (presidente o istruttore, a seconda del momento) deve rimettere la causa alla
cognizione del tribunale in camera di consiglio per la decisione.
Il mutamento di rito e, dunque, un meccanismo a doppio senso che permette, seppur per
cause e motivazioni differenti, il passaggio da una fattispecie processuale all'altra.
Compiuta l'attivita istruttoria, gli atti sono comunicati al pubblico ministero, secondo quanto
previsto dall'art.738 CPC, il quale deve stendere le sue conclusioni.
Esaurita anche quest'ultima incombenza, si aprono le porte alla sentenza, che viene
emessa dal collegio, ovviamente in camera di consiglio, dopo aver valutato le prove
assunte dal giudice relatore e gli accordi stipulati dalle parti.
Secondo il disposto dell'art.5 l.n.898/1970, "il tribunale adito [...] accertata la sussistenza
di uno dei casi di cui all'art.3 pronuncia con sentenza lo scioglimento la cessazione degli
effetti civili del matrimonio [...]". Il giudice, nell'atto di emanare una sentenza, si dovra
attenere alle norme relative al procedimento ordinario, vale a dire all'art.276 CPC, che
disciplina la deliberazione del collegio in camera di consiglio.
Non va esclusa una terza possibilita: la pronuncia di una sentenza non definitiva. Si e
infatti osservato che, se il giudice ritiene di non dover accettare le condizioni economiche
stabilite dai coniugi, cio non puo impedire di giungere alla sentenza di scioglimento del
matrimonio: in questa situazione il collegio potra dichiarare con sentenza non definitiva il
divorzio, per occuparsi poi, con l'assunzione di nuove prove, delle questioni di ordine
patrimoniale rimaste irrisolte.
Per quanto, infine, riguarda le spese processuali queste sono liquidate dal giudice e vanno
poste a carico di entrambe le parti.
Questione dibattuta da piu parti e quella relativa al passaggio in giudicato della sentenza
di accoglimento del divorzio pronunciata secondo le forme del rito camerale.
Tale punto e importante non solo perche e necessario stabilire quando il cancelliere deve
trasmettere la sentenza all'ufficiale dello stato civile per l'annotazione in calce all'atto di
matrimonio, ma anche perche "va assodato se il coniuge, che muoia dopo la
pubblicazione della sentenza di accoglimento della domanda congiunta e prima che siano
scaduti gli ordinari termini per impugnare, muoia da coniuge o da ex coniuge."
I dubbi nascono principalmente dal fatto che un procedimento in camera di consiglio viene
definito con un atto da questo sconosciuto (la sentenza) che viene ivi ricondotto da
speciali previsioni di legge: la soluzione e, cosi, in bilico tra l'applicazione dei termini
previsti per i decreti pronunciati in camera di consiglio oppure l'osservanza dei normali
termini di decorrenza per l'impugnazione delle sentenze di primo grado.
E' stato osservato che la scelta piu appropriata dovrebbe essere quella che si attiene alle
norme previste per i procedimenti in camera di consiglio, scelta che rispecchia il
procedimento di divorzio congiunto, che si e svolto tutto secondo tali prescrizioni; la
sentenza passerebbe in giudicato, dunque, decorso il termine per il reclamo di dieci giorni
dalla comunicazione del provvedimento.
Tuttavia il fatto che, nel caso in esame, si ha a riguardo una sentenza e non un decreto,
consiglia di escludere tale soluzione, che male si attaglierebbe al provvedimento che ha
dichiarato lo scioglimento del matrimonio.
E' necessario quindi ritornare a giudicare attorno alle regole ordinarie sulla formazione
della cosa giudicata formale; in tale ambito, pero, ci si trova ad affrontare un ulteriore
problema: nel procedimento su richiesta congiunta, in caso di accoglimento della domanda
di divorzio, non si puo parlare di parte soccombente e parte vincitrice, poiche la domanda
e stata proposta di comune accordo e non contro qualcuno che vi si e opposto.
Parte della dottrina, a tale proposito, ha ritenuto che, stante la mancanza della
soccombenza, che e presupposto essenziale per poter validamente impugnare, le norme
ordinarie sulla formazione del giudicato non sarebbero qui applicabili. Non solo, ma vi e
chi, su questa linea, e andato oltre, affermando che le formule degli articoli 5, 1? comma,
10, 1? comma e 4, 9? comma l.div. non stabiliscono che la sentenza vada trasmessa
all'ufficiale dello stato civile dopo che sia passata in giudicato, "e che percio l'interprete
non e tenuto a dar per scontato che esista un lasso di tempo in cui la sentenza di divorzio,
pur essendo in hoc mundo, non sia ancora passata in giudicato".
Dunque, una delle soluzioni ipotizzabili e questa: inapplicabilita delle norme circa la
formazione dl giudicato ed affermazione per cui la sentenza nasce, da quando e
pubblicata, con l'autorita del giudicato.
Una simile tesi non sembra pero condivisibile. Una sentenza che nasce con autorita di
giudicato sarebbe un caso unico nel nostro panorama giuridico, ma sarebbe ammissibile,
in deroga alle norme sulla formazione del giudicato, solo se fosse esplicitamente previsto
dal legislatore; allo stato attuale, non vi e alcuna norma che possa legittimare l'interprete a
ricavare una tale conclusione. Infatti, nel nostro ordinamento e principio generale
indiscusso che se e disposto un determinato termine per proporre impugnazione contro un
provvedimento, quest'ultimo acquistera efficacia solo dopo la decorrenza del termine
stesso, essendo invece irrilevante la conformita del provvedimento alle richieste delle
parti.
Ora, seguendo questa logica, dato che la pronuncia di scioglimento del matrimonio ha
efficacia, agli effetti civili, dal giorno dell'annotazione della sentenza e l'annotazione e
possibile solo quando la stessa sia passata in giudicato, ex art.10, 1? e 2? comma l.div.,
se ne conclude che l'annotazione potra essere effettuata solo dopo il decorso del termine
di un anno dalla pubblicazione della sentenza previsto dall'art.327 CPC, non potendosi
applicare il termine breve di trenta giorni per la proposizione dell'appello, in quanto non si
da luogo alla notifica, prevista dall'art.326, che presupporrebbe un contraddittorio tra le
parti.
Per superare il pericolo di una tale impasse rimane una soluzione tecnicamente poco
elegante ma il cui fine giustifica i mezzi: una delle parti dovrebbe proporre appello contro
la sentenza e, poi, rinunciare al gravame. L'impugnazione di tale soggetto sara dichiarata
inammissibile, in quanto egli era vincitore e non soccombente nella causa di primo grado e
quindi difetta dell'interesse ad impugnare; l'inammissibilita dell'impugnazione provochera il
passaggio in giudicato non gia della sentenza che dichiara l'inammissibilita, ma proprio di
quella inammissibilmente impugnata, cioe quella che dichiara lo scioglimento del
matrimonio.
E' gia stato fatto notare che tale soluzione non e sicuramente ortodossa, tuttavia essa e
stata resa necessaria dall'imprevidenza del legislatore "che non ha tenuto completamente
sotto controllo i fini che erano sottesi all'introduzione del divorzio su richiesta congiunta."
Questa resta l'ipotesi piu accettabile perche, comunque, piu fedele alla lettera della legge:
essa si avvale delle opportunita offerte dal codice di procedura civile e non va a ricercare
soluzioni che si basano su nuove figure (come la sentenza che nasce con autorita di
giudicato), frutto di un lavoro dell'interprete che, pero, non ha alcuna base legale.
Qualora il giudice non riconosca, nella domanda proposta dalle parti, una valida causa di
divorzio, emette sentenza di rigetto. Puo anche accadere che la richiesta di divorzio sia
accolta, ma che la sentenza riporti delle statuizioni economiche o relative alla prole
difformi dalla volonta dei coniugi. In tali casi le parti possono impugnare il provvedimento,
appellandosi contro la mancata concessione del divorzio o relativamente alle sole
statuizioni accessorie che non hanno soddisfatto le loro attese.
1. - Legittimazione ad impugnare
Come e noto, e gia lo si e ricordato, perche sia possibile effettuare una valida
impugnazione della sentenza di primo grado occorre che almeno una delle parti coinvolte
nel giudizio sia risultata soccombente, abbia, cioe, visto rigettate tutte, o parte, delle sue
richieste. Al vincitore della causa, in quanto carente d'interesse ad impugnare, e preclusa
la possibilita di proporre ricorso in appello: se, nonostante cio, questi decidesse comunque
di procedere, vedrebbe respinta la sua impugnazione con sentenza che ne dichiarerebbe
l'inammissibilita.
Legittimati a proporre il ricorso in appello sono, come ovvio, i coniugi, le uniche persone
che possono disporre, se pure nei limiti previsti, del rapporto matrimoniale ; la natura
personalissima di tale istituto del diritto di famiglia, infatti, non permette a terzi di disporne
in alcun modo, tanto meno per chiederne lo scioglimento: anche la decisione di impugnare
la sentenza di primo grado che rigetta la richiesta di divorzio, pertanto, potra essere presa
solo dai diretti interessati.
E' stata sostenuta, in dottrina, l'opinione per cui al pubblico ministero spetterebbe un
potere d'impugnazione anche in relazione al capo della sentenza che dispone
l'accoglimento della richiesta di divorzio. La conferma di tale tesi, secondo l'autore che l'ha
avanzata, si potrebbe rinvenire in due riferimenti normativi: anzitutto nell'art. 72, 3? Co.
CPC, che attribuisce al PM il potere di impugnare le sentenze relative a cause
matrimoniali, escluse solo quelle di separazione; in secondo luogo, nel art. 4,13? l.div.,
che nulla direbbe circa una imitazione dei poteri d'impugnazione della parte pubblica.
Ora, e vero che il tredicesimo dell'art.4 non pone limiti alla facolta del PM di impugnare,
ma cio solo perche tale norma tace completamente sia riguardo all'appello che all'attivita
del PM stesso.
Sembra quindi quantomeno arbitrario ricavare da tali dati una simile espansione di poteri
della parte pubblica, la quale, cosi facendo, sarebbe legittimata ad interferire nelle
decisioni inerenti ad un rapporto che, come detto, ha natura personalissima e di cui solo i
coniugi possono deciderne le sorti.
In caso di sentenza che rigetta la richiesta congiunta di divorzio l'appello puo essere
presentato da uno solo dei coniugi, se l'altro non e piu d'accordo; cio e sempre possibile,
ma a maggior ragione lo e quando la domanda si fonda su fattispecie a legittimazione
unilaterale, per cui l'impugnazione potra essere presentata solo dal coniuge legittimato, in
primo grado, a proporre la domanda unilaterale.
2. - Il giudizio d'appello
"L'appello e deciso in camera di consiglio". Cio e tutto quello che la legge n.898 del 1970
ha stabilito circa l'impugnazione in appello della sentenza di divorzio. Le implicazioni di
tale affermazione sono state gia svolte nel Cap.1 (par.1.2.2), ma e bene riprenderle
brevemente, data l'importanza dell'argomento.
Della norma in oggetto sono possibili tre interpretazioni; la prima e quella di chi ha
rinvenuto nelle intenzioni del legislatore la volonta di subordinare l'intero procedimento
d'appello al rito camerale.
Ultima tesi, piu garantista, sostiene che sia assoggettata al rito camerale la sola fase
decisoria dell'appello, con conseguente soppressione dello scambio delle conclusionali e
dell'udienza pubblica per la discussione. La Corte costituzionale, nelle due pronunce
indicate, non e riuscita a dissolvere i dubbi che si sono formati attorno alla disposizione in
esame; si e resa, cosi, necessaria un'ulteriore attivita interpretativa.
Si e discusso, anzitutto, se l'atto introduttivo del processo di secondo grado debba essere
un ricorso o una citazione; per quel che riguarda il divorzio su richiesta congiunta si e
pervenuti alla conclusione, non problematica, che l'appello proposto congiuntamente dai
coniugi contro la sentenza di rigetto va introdotto secondo le forme previste per il giudizio
di primo grado, quindi con ricorso, da presentarsi nei termini propri dell'appello. Qualora,
invece, la sentenza sia impugnata da una sola parte, allora occorre riferirsi alle regole che
disciplinano il divorzio contenzioso; anche in tale caso, pero, i termini sono quelli ordinari,
non intervenendo alcuna deroga al diritto ordinario che possa essere lesiva del diritto
d'impugnazione.
Avvalendosi, poi, del riferimento all'art.359 CPC, che opera un rinvio per i procedimenti
d'appello alle norme dettate relativamente al processo di primo grado in quanto
compatibili, si e determinato che anche l'appello proposto dal singolo coniuge dev'essere
introdotto con ricorso, perche questo e l'atto previsto dall'art.4, 2? co. L.div., per l'avvio del
procedimento di divorzio, sia questo contenzioso oppure no.
Per quanto riguarda lo svolgimento del processo e necessaria una distinzione; se l'appello
e proposto da un solo coniuge, il procedimento si svolgera secondo quella che in
precedenza (Cap.1) e stata identificata come la soluzione migliore: l'appello e condotto
nelle forme ordinarie, fatta eccezione per la fase della decisione, la quale sara compiuta in
camera di consiglio, come stabilito dall'art.4, 12? Co. L.div.; si e infatti ritenuta piu idonea,
ai fini della riforma della sentenza, l'istruttoria ordinaria del giudizio d'appello, che e
rafforzata dalla collegialita del giudizio d'ammissibilita e di rilevanza dei mezzi di prova.
Qualora il ricorso sia proposto congiuntamente dalle parti non si dovrebbero avere ostacoli
nel vedere analogie con quanto succede per il ricorso congiunto di primo grado. E'
plausibile riferirsi ancora al dettato dell'art.359 CPC: per conseguenza si avra come norma
di riferimento l'art.4, 13? Co. L.div.; in tal caso non sembra errato sostenere che il
presidente della corte d'appello debba nominare un relatore e fissare il giorno per
l'audizione delle parti in camera di consiglio. Come e ovvio, la corte provvedera con
sentenza.
Il risultato e, dunque, un ricorso congiunto in appello che, alla pari di quello che ha
originato la sentenza di primo grado, viene trattato in camera di consiglio; fintanto che,
infatti, i coniugi sono ancora d'accordo circa la proposizione del ricorso, non deve
considerarsi estinta quell'esigenza di celerita di definizione del giudizio che era sottesa
anche al procedimento camerale di primo grado, col relativo impiego di mezzi e procedure
proprie di quel giudizio, nei limiti con la compatibilita dell'appello.
3. - Il ricorso in cassazione
Giunti al termine dell'esame di tale nuova fattispecie processuale di divorzio, non resta che
ricordare, non foss'altro che per spirito di completezza , che anche contro la sentenza
d'appello e ammesso, naturalmente, il ricorso per cassazione. Tale fase processuale non
ha dato luogo ad alcuna questione, dal momento che, anche nel caso di sentenza emessa
al termine di procedimento non contenzioso, si fa applicazione delle ordinarie norme
relative al giudizio di terzo grado. Bastera, dunque, ricordare che e possibile proporre un
ricorso congiunto anche presso la Corte di cassazione, ricorso che dovra essere
depositato direttamente in cancelleria