Profilo storico
della
Letteratura spagnola
MEDITERRÁNEA
Scritture di frontiera tra identità e modernità
Quadro storico
Monroe del 1823, la Spagna perde il suo impero d'oltremare, diventando una
piccola e marginale potenza europea.
A seguito di una politica non certo popolare, Fernando perde anche l'appoggio
di una parte dei settori realisti, e questo si rivela della massima importanza nello
scoppio della questione dinastica legata alla sua successione. In base alle leggi
vigenti, l'erede al trono di Fernando è suo fratello Carlos María Isidro. Ma nel
1829 la regina María Amalia muore, e Fernando si sposa in seconde nozze con
María Cristina di Borbone, da cui ha due figlie, Isabel e Luisa Fernanda. La
successione era regolata dalla legge salica promulgata nel 1713, che escludeva le
donne. Questa legge era stata revocata dalla costituzione del 1812, e rimessa in
vigore successivamente: in realtà era diventata il tema di uno scontro politico,
stante anche il fatto che Fernando si era riavvicinato alla Francia, mentre Carlos
manteneva una posizione antirivoluzionaria. Alla fine l'abolizione della legge
salica avviene seguendo una procedura illegittima: alla morte di Fernando, viene
proclamata come erede al trono Isabel, con la reggenza della madre María
Cristina, e i sostenitori di Carlos, i carlisti, contestano la legittimità della
successione e passano all'opposizione armata, dichiarando la prima delle guerre
carliste (1833-1840).
Questo conflitto, che in pratica attraversa tutto il secolo, ha radici molto
complesse. Da un lato vi è un evidente contrapposizione ideologica: c'è uno
schieramento grosso modo liberale e filofrancese contro uno schieramento
tradizionalista. Ma dall'altro lato c'è la complessità del tradizionalismo rurale
spagnolo, che include tra i suoi principali valori la difesa del sistema tradizionale
di autonomie, una politica anticentralista e un'acuta attenzione al problema
sociale, soprattutto riguardo alle campagne: con i carlisti erano schierati i piccoli
proprietari terrieri, i mezzadri, i braccianti, gli operai urbani e il clero rurale (l'alto
clero era a favore del governo), la bassa nobiltà, soprattutto nei Paesi Baschi.
La guerra provoca una serie di sconvolgimenti politici nel governo e nel 1840
la reggente María Cristina va in esilio. Segue un triennio di reggenza di
Baldomero Espartero, durante il quale avvengono novità importanti, come la
nascita di un movimento repubblicano, la formazione di associazioni operaie di
mutuo soccorso e l'insurrezione repubblicana di Barcellona, città che viene
bombardata. Espartero viene sostituito dal generale Ramón María de Narváez,
con cui inizia il cosiddetto decennio moderato. Isabel viene proclamata, con
anticipo, regina (Isabel II) e si riprende il tentativo di centralizzare lo stato
spagnolo. Si forma un nuovo blocco sociale tra nobiltà, borghesia e Chiesa. Non
cessano tuttavia i disordini interni e le lotte, ormai di chiaro segno ideologico, tra
progressisti e conservatori. Nel 1868 la Spagna è in preda alla rivoluzione.
La rivoluzione del 1868 mette fine al regno di Isabel, proclama il suffragio
universale e promulga una costituzione che garantisce molti diritti individuali,
aprendo la strada alla diffusione di partiti socialisti e anarchici. Sul trono viene
chiamato Amedeo di Savoia, mentre riprendono le ostilità dei carlisti. Amedeo
rinuncia al trono, e si ha un'effimera fase repubblicana, cancellata da un
intervento dell'esercito, un vero e proprio golpe che restaura la monarchia
(Alfonso XII) e cerca di recuperare un minimo di legalità. Il governo, guidato da
Antonio Cánovas del Castillo, tenterà di realizzare un liberalismo minimo,
386 il romanticismo
Il romanticismo
deve cercare se stesso non attraverso astratte leggi morali, ma attraverso una
propria intima vocazione, un proprio genio. La contemplazione estetica di Goethe
sembra porsi agli antipodi della conoscenza razionale di Kant.
Ben presto questo antagonismo tra il pensiero di Kant e quello di Goethe
appare come una frattura tra vita e ragione, che richiede di essere superata.
Friedrich Schiller (1759-1805) interpreta questo antagonismo tra vita e ragione
come uno dei tanti, presenti in germe nella natura, che debbono trovare la
soluzione in una concezione armonica. All'estetica spetta il compito di
rintracciare questa armonia.
Bisogna dire che questo tentativo di conciliare l'anima kantiana con quella
goethiana non va a buon fine, anche perché in filosofia irrompe la personalità
potente di Fichte, che mette in secondo piano la ragione kantiana. Il massimo
teorico del romanticismo tedesco, Friedrich Schlegel (1772-1829), è entusiasta di
Fichte, non ha sensibilità per il classicismo e si orienta verso una nuova
sensibilità. Romantica è per lui un'arte totale, specchio dei tempi e della società,
che nasca però dalla suprema libertà dell'artista e dalla necessità di esprimere
l'assoluto.
Schlegel prende molte idee dalla filosofia fichtiana: la libertà del soggetto, il
ruolo dell'immaginazione e del genio nell'ispirazione, una certa sacralità dell'arte.
Fondamentale è la nozione di ironia, la costante parodia di se stessi, il gusto per il
paradosso e l'umorismo che caratterizzano la scrittura romantica. A partire dalle
intuizioni di Schlegel, il romanticismo tedesco prende corpo grazie ad alcune
opere dal fascino indiscusso, che ne diffondono i principali elementi stilistici e
tematici.
Novalis (Friedrich Leopold von Hardenberg, 1772-801), che segue a Jena le
lezioni di Fichte e Schiller e frequenta Schlegel a Lipsia, introduce con accenti
molto intensi la tematica della morte negli Inni alla notte (Hymnen an die Nacht,
1797, pubbl. 1800): vi celebra, in prosa ritmica, Sophie von Kühn, la sua
fidanzata morta quindicenne di tisi, e la cui figura viene ora idealizzata. Nei Canti
spirituali (Geistliche Lieder, 1799) Novalis esalta la religiosità popolare,
devozionale, sentimentale che caratterizza molti romantici, poco interessati alle
astrazioni della speculazione teologica.
Questo sentimento religioso e l'ammirazione per il passato, concorrono a far
nascere in molti romantici una vera e propria passione per il medioevo (peraltro
conosciuto più in chiave estetica che in chiave storica): nel saggio Cristianità o
Europa (Die Christenheit oder Europa, 1799) Novalis teorizza quella particolare
forma di tradizionalismo romantico che, nel bene come nel male, giunge fino ai
giorni nostri. Esso da un lato richiama l'attenzione sulla tradizione europea e
inizia la doverosa rivalutazione dell'epoca medievale, liquidata in modo troppo
banale come età dei secoli bui; dall'altro, però, fornisce una visione del medioevo
idealizzata, basata più sui romanzi cavallereschi che sulle cronache storiche, e in
una certa misura costruisce un'immagine della tradizione che ha pochi legami con
la realtà.
Riguardo alla concezione della natura Novalis esalta l'unità tra il visibile e
l'invisibile e richiama suggestivamente il mito di Narciso nel romanzo incompiuto
I discepoli di Sais (Die Lehringe zu Sais, 1798): alla dea Sais, personificazione
388 il romanticismo
della natura, viene tolto il velo, e al discepolo si presenta la sua stessa immagine.
È un'idea perfettamente complementare al mito di Dioniso fanciullo che, quando
si guarda allo specchio, vede riflesso l'intero universo.
Questa concezione unitaria e mistica, che richiama molto la magia
rinascimentale, intesa come filosofia della natura, conduce Novalis a teorizzare
un idealismo magico in cui, per il Soggetto Assoluto, i pensieri diventano cose, e
le cose pensieri, sulla scorta dell'amore inteso come forza creatrice. Per Novalis la
distinzione tra soggetto e oggetto, la frattura tra io e mondo, non rappresenta la
condizione reale dell'uomo o la struttura stessa della realtà, ma è la conseguenza
di una perdita. Questo tema torna in altri autori e lo si può considerare un aspetto
della più generale contrapposizione tra natura e cultura, descritta dal
romanticismo. Se ne trova la formulazione in un romanzo di Christian Friedrich
Hölderlin (1770-1843), Iperione, o l'eremita in Grecia (Yperion oder der Eremit
in Griechhenland, 1797-99). Hölderlin studia Kant, Spinoza, Rousseau, quindi
segue le lezioni di Fichte, anche se non ha accesso all'insegnamento: vive buona
parte della sua vita facendo il precettore, finché la schizofrenia non distrugge
completamente la sua attività creatrice verso il 1806.
Iperione è un greco moderno che racconta la sua vita e, soprattutto, comunica
la sua nostalgia per la Grecia antica, che assurge a modello ideale e quasi
perfetto: si tratta di un mondo perduto e irrecuperabile sul piano storico, ma
conquistabile nell'ideale e sul piano spirituale. Questo recupero ideale della
perfezione greca è concretamente il culto della bellezza e la cura della natura
sulla terra: la natura è bella, divina, poetica, è ideale. Sulla scorta del pensiero
greco presocratico (Eraclito ed Empedocle in particolare), Hölderlin concepisce
la natura come totalità organica e unitaria, in cui si conciliano le opposizioni.
Diotima, protagonista femminile del romanzo, dice che noi apparteniamo alla
natura, non ci è possibile uscirne: nella natura c'è il vivere e il morire, e il legame
mistico d'amore che lega eternamente tutti gli esseri. Diotima era il nome della
donna che aveva insegnato a Socrate la dottrina dell'eros nel Convito platonico,
ed era il nome che Hölderlin aveva assegnato alla sua musa ispiratrice, Suzette
Gontard.
La formulazione più sistematica della funzione dell'arte nel romanticismo è
probabilmente dovuta a Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854), nel suo
Sistema dell'idealismo trascendentale (1800) e nella Filosofia dell'arte (1802-
1803). L'arte è un prodotto del genio, cioè della facoltà che consente di cogliere
gli aspetti profondi e spirituali del reale, oltre (o dentro) le apparenze sensibili, e
riflette sia l'attività cosciente sia quella incosciente. Va ricordato che in ambito
idealista l'attività inconscia, cioè spontanea e naturale, è l'estrinsecazione di una
natura intesa come prodotto o manifestazione dell'Assoluto; dunque non fa
riferimento ad una sfera sub-personale, ma è una manifestazione della
trascendenza: l'inconscio è natura, ma la natura è a sua volta spirito. Nell'opera
d'arte vengono conciliate attività conscia e inconscia, e questa conciliazione è la
bellezza: l'espressione finita dell'infinito. L'arte esprime l'assoluto nel mondo
sensibile, mostrandone la bellezza.
In Inghilterra il romanticismo si manifesta con forme apparentemente
contraddittorie: singolarmente aggressivo e quasi rivoluzionario sul piano
il romanticismo 389
che, di fronte agli eccessi rivoluzionari, il reazionario sarebbe uno che chiede
ordine e sicurezza; e questo, a sua volta, equivale a dire che, per un reazionario
insicuro e spaventato, tanto vale una dittatura bonapartista quanto un re cristiano
e santo del medioevo, il che è assurdo. Il reazionario romantico non vuole
qualcuno che fermi la rivoluzione, chiunque egli sia, ma vuole instaurare una
società opposta a quella dei rivoluzionari. Il problema è che questa società, a cui
si ispira, non esiste storicamente e non è mai esistita: è un'idealizzazione,
un'invenzione, e anche una costruzione ideologica controriformista. Ma chiarito
questo, mi pare evidente che, nel suo recupero idealizzato di un'altra epoca, il
romanticismo continui a chiedere all'illuminismo di pagare i suoi conti: perché in
fondo i rivoluzionari hanno distrutto un regime antico, che aveva anche dei valori
di riferimento, per sostituirlo con cosa? Con una società a democrazia teorica,
dove conta soltanto il borghese o l'affarista? Ma nessuna società tradizionale
(tranne forse la Spagna antisemita, che "tradizionale" non era) ha mai impedito ai
suoi membri di arricchire con gli affari, solo che non si riteneva che questo fosse
il senso collettivo della vita e lo scopo della società. Che poi si indicassero scopi
e valori rimasti sulla carta (è un'utopia pensare che, ad esempio, la giustizia
feudale fosse giusta), è vero, ed è la ragione storica che porta alla nascita
dell'illuminismo; ma per i romantici era inaccettabile che l'illuminismo stesso
fosse la soluzione del problema. Da qui il recupero, in una parte dei romantici, di
un ideale di vita incarnato nell'immagine di un passato idealizzato; però questo
recupero si inseriva in un quadro di libertà. Una volta affermata la libertà della
persona concreta, contro l'individualismo razionalista, tale libertà si esplica
attraverso le scelte libere di questa persona, una delle quali è il rifiuto del presente
e l'esaltazione del passato. Altre scelte andranno nella direzione di un liberalismo
compiuto e di una democratizzazione effettiva della vita sociale.
Sul piano estetico tutto questo porta all'esigenza, che si era già affacciata
durante il barocco, di superare formule fisse e consacrate, a vantaggio di estetiche
personali, che mescolano i generi, creano formule nuove e sperimentano nuove
possibilità artistiche. Non si arriva alla libertà assoluta dell'artista contemporaneo
perché questa ricerca di novità è comunque legata a una sensibilità abbastanza
ben delineata: il romantico cerca la libertà di poter esprimere come meglio crede
il suo modo di sentire la vita, la natura, i grandi temi della società, ma l'apertura
di orizzonti che si ottiene è la grande premessa dell'arte e della letteratura
contemporanee.
nato nel 1809 e morto suicida nel 1837. Larra aveva vissuto in Francia, dove suo
padre, di fede liberale, si era trasferito per evitare persecuzioni, e conosceva bene
la cultura francese. Nel 1821 rientra in Spagna con la famiglia, completando gli
studi. Nel 1828 pubblica una rivista satirica di cui escono cinque numeri: El
duende satirico del día, con articoli dedicati ad avvenimenti di attualità, dove si
nota il suo talento per le descrizioni di quadri di costume. Ha un matrimonio
fallimentare, che gli ispira l'ironico El casarse pronto y mal, e pubblica molti
articoli su riviste, ottenendo un successo notevole.
Larra coltiva molti generi letterari: il romanzo storico (El doncel de don
Enrique el Doliente), il teatro (Macías), il giornalismo politico, letterario e
costumbrista. Negli articoli di costume preferisce lo schizzo rapido che descrive
scene quotidiane, di cui coglie soprattutto gli elementi negativi. Questi articoli,
che lo hanno fatto considerare il miglior giornalista della sua epoca, esprimono un
giudizio pessimista sulla società spagnola, che appare grossolana, pigra, corrotta,
al confronto soprattutto con la società francese.
José Zorrilla
funebre per Larra, dove, di fronte a un pubblico numeroso e commosso, legge una
poesia di omaggio che gli procura notorietà presso i giovani più aperti al
rinnovamento, che assistevano al funerale e avevano in Larra una sorta di
riferimento culturale e morale. Zorrilla vive in modo disordinato e bohémien, con
poco interesse per la tranquillità borghese, ma al tempo stesso unisce questa sua
dimensione di ribellione personale a un sentimento profondamente cattolico.
Muore nel 1893.
Rappresentante illustre del romanticismo conservatore, è autore di poesie: le
sue Leyendas sono poesie narrative molto musicali, mentre accenti più lirici si
trovano nelle sue Orientales. I suoi temi, tanto per le poesie quanto per il teatro,
sono tratti dalla tradizione spagnola, e gli ispirano scene molto vive, con
descrizioni essenziali, ma molto efficaci. In teatro riprende la figura di don
Giovanni, con Don Juan Tenorio (1844), opera brillante e basata su un'analisi
psicologica del personaggio, che manca nell'originale attribuito a Tirso. In questa
versione don Juan si salva dall'inferno, graziato dall'amore. Altre opere teatrali di
Zorrilla sono El zapatero y el rey e Traidor, inconfeso y mártir.
Nel Don Juan Tenorio, Juan e Luis, che si erano sfidati a sedurre il maggior
numero possibile di donne, si ritrovano dopo un anno per verificare chi sia il
vincitore di questa singolare scommessa: naturalmente ha vinto don Juan, e Luis
lo sfida a tentare l'impossibile: la conquista di una novizia; Juan rilancia e dice
che conquisterà anche la fidanzata di un amico che sta per sposarsi: si tratta dello
stesso Luis che, pur restando scandalizzato dalla sfida di Juan, implicitamente
l'accetta, anziché tirar fuori la spada, come avrebbe fatto un nobile di altri tempi:
Juan e Luis sono arrestati da due ronde: ciascuno dei due, di nascosto, aveva
fatto denunciare l'altro per impedirgli di vincere la scommessa, o per ostacolare la
vittoria. Liberato grazie alla garanzia di un idalgo, Luis teme le azioni di don Juan
e decide per prudenza di passare la notte nella casa di donna Ana, che dovrebbe
sposare l'indomani. Però, vilmente, don Juan lo fa catturare dai suoi uomini, che
lo legano, togliendolo di torno. Intanto Juan pensa a vincere la prima parte della
scommessa, cioè sedurre una novizia (Inés), cosa che realizza con l'aiuto di una
"beata", Brígida:
394 il romanticismo
Il don Juan di Zorrilla, a differenza del burlador di Tirso (o chi per lui) ha la
stoffa del corteggiatore e sa affascinare con la parola, anche se, al momento
dell'incontro, si comporta cialtronescamente: Inés sviene, e Juan la porta via di
il romanticismo 395
peso. Il padre di Inés, don Gonzalo, arriva troppo tardi per proteggere la figlia e
fa in tempo solo a vedere Juan che sta fuggendo.
Come si può notare, più che la donna, Juan cerca il rischio, l'impresa
pericolosa, la sfida ritenuta impossibile: non tanto la seduzione, che semmai è
un'arma per riuscire nell'impresa, quanto la cattura di una preda, costi quel che
costi, per il gioco di catturarla: "Un diavolo in carne mortale", lo definisce Ciutti.
Anche questo è un carattere che manca al protagonista dell'opera di Tirso, che si
presenta piuttosto come un cialtrone, capace solo di sostituirsi a un amante, nel
caso delle sue conquiste nobili, e di promettersi come sposo, nel caso delle donne
del popolo. Del don Juan di Zorrilla si può dire che sia un immorale, non che sia
un vigliacco. Questo dà all'opera un maggiore spessore, perché il protagonista ha
un carattere forte, che ben si presta al dramma.
Nonostante ciò, la successiva conquista di Ana risulta essere un imbroglio,
perché Juan si sostituisce a Luis. Don Luis, naturalmente, vuole vendicarsi,
benché egli stesso non sia privo di colpe, dato che ha scommesso sulla sua
promessa sposa; i due si incontrano e stanno per duellare, quando arriva anche
don Gonzalo, accompagnato da gente armata. Juan convince Luis a rinviare il
duello e si presenta da Gonzalo. Qui si ha un colpo di scena che, pur non
sembrando credibile all'inizio, risulterà essere il nucleo più drammatico del testo.
Infatti, mentre lo spettatore si aspetta un don Juan cinico e sprezzante, Zorrilla
presenta un personaggio che ha subito un repentino cambiamento: addirittura si
inginocchia davanti a Gonzalo, chiedendo di essere ascoltato. Gonzalo,
comprensibilmente, pensa che si tratti di una recita dettata dalla paura degli
uomini armati che ha con sé, e lo accusa di vigliaccheria, ma Juan dichiara di
essersi pentito e di essere realmente innamorato di Inés. Non essendo creduto, e
trovandosi deriso e a rischio della vita, il suo carattere orgoglioso ha il
sopravvento: colpisce Gonzalo con un colpo di pistola e Luis con la spada,
uccidendoli entrambi, quindi fugge.
Passano gli anni e Juan, non riconosciuto, torna nella sua casa, trasformata in
panteon, dove uno scultore, seguendo la volontà di suo padre, Diego Tenorio, ha
collocato le statue delle sue vittime, Gonzalo, Luis e Inés, morta di dolore per
l'abbandono di Juan:
In effetti don Juan è pentito veramente, e gli anni passati servono a dare
credibilità a questo suo sentimento manifestatosi in una situazione così poco
396 il romanticismo
credibile. Anzi, ha maturato un tale ribrezzo per ciò che ha commesso, da pensare
che il Cielo rifiuti il suo pentimento.
Questo risvolto dà al personaggio uno spessore psicologico che manca
nell'originale attribuito a Tirso: nella versione di Zorrilla il tema trattato non è
quello del comportamento morale della classe nobiliare, né il carattere fatuo di un
giovanotto che conta su un lungo tempo per pentirsi delle sue malefatte, ma è la
vicenda di un autentico nichilista, abituato a compiere imprese negative ma
coraggiose, che si ritrova vittima di una circostanza creata dalle sue stesse sfide
alla morale. Disposto a cambiar vita nel momento meno favorevole, uccide per
salvarsi un amico e il padre della donna di cui, contro ogni sua stessa aspettativa,
si è innamorato, e prende coscienza della totale mancanza di valore della sua vita,
dell'impossibilità che un Dio possa accettare il suo pentimento, essendo
irreparabile il male causato. In questo contesto, che è un vero conflitto tra il
carattere titanico di Juan e la morale cristiana del perdono, svolge un ruolo
diverso il tema del fantasma, della statua che prende vita per dialogare col
protagonista; appare infatti l'ombra di Inés:
Inés risponde di aver offerto a Dio la sua anima in cambio di quella di Juan, e
di avere come risposta:
Anche in questa versione della storia si svolge la cena con la statua del morto,
che ora viene incaricato di una missione provvidenziale: portare Juan a un vero
pentimento, cioè non solo al rifiuto delle sue imprese, ma anche a chiedere
perdono a Dio, confessando i suoi peccati. Il tempo è finito, dice don Gonzalo: gli
mostra il fuoco e la cenere, segni della perdizione eterna che solo il suo
pentimento può evitare.
Così dice Juan, che lamenta di aver potuto conoscere il potere di Dio quando
ormai non c'è più tempo: è impossibile che un istante di pentimento cancelli
trent'anni di delitti. Ma nel momento estremo, quando già rintocca la campana
che annuncia la sua morte, don Juan trova il suo pentimento, e appare donna Inés
che lo prende per mano.
Il Duca di Rivas
che voleva rapire, e successivamente un suo figlio, che gli dava la caccia, ancora
una volta senza premeditazione. Dopo la fuga, entra in un convento, dove però
viene scoperto da un altro fratello di Leonor, Alfonso, che lo sfida a duello.
Naturalmente, Alfonso viene ferito: accorre Leonor che, ignara di tutto, viveva
nelle vicinanze. Alfonso, allora, sospetta che la sorella abbia una relazione
segreta con Álvaro e, prima che sia possibile ogni spiegazione, la uccide. Ad
Álvaro, disperato, non resta che il suicidio. Ora, se abbandoniamo la semplice
trama e passiamo all'effettiva teatralità dell'opera, questo schema lamentoso,
lungi dall'essere mortalmente noioso, si anima in un'azione molto dinamica, con
tratti intensi e suggestivi, che ne fanno uno dei drammi migliori dell'epoca. Non a
caso l'opera suscita reazioni aspre nel pubblico per il suo carattere innovatore, e
viene rappresentata poche volte all'epoca.
Rivas è autore anche di poesie ispirate ai temi tradizionali della Spagna. El
moro expósito, che riprende il tema epico degli infanti di Lara, viene considerato
come il poema romantico per eccellenza. Successivamente, nel 1841, pubblica
una raccolta di Romances históricos, che si ispirano ai romances tradizionali e
sono il miglior esempio dell'interesse romantico per questo genere.
In Don Álvaro, o la fuerza del sino Don Álvaro è un ricco ed elegante
pretendente alla mano di doña Leonor, ma il padre, il marchese di Calatrava, non
vuole acconsentire al matrimonio, apparentemente perché il giovane non è nobile.
In effetti la gente vede in Álvaro un certo mistero: lo si vede camminare senza
che si sappia dove va, e senza dare confidenza a nessuno. Il Marchese vorrebbe
maritare la figlia con uno dei due pretendenti, Carlos e Alfonso, ma Leonor non
sembra entusiasta. In effetti ha deciso di fuggire proprio con Álvaro, non potendo
sposarlo alla luce del sole. Ma al momento della fuga si odono rumori: è il
Marchese che ha scoperto la tresca e irrompe nella stanza dei due amanti. Nella
lite che ne segue, Álvaro viene pesantemente insultato, ma dopo momenti di
tensione decide di non reagire, e di assumersi tutte le colpe: getta in terra la
pistola con cui aveva minacciato il Marchese, ma disgraziatamente da questa
parte il colpo che ferisce mortalmente il padre di Leonor.
Questa beffa del destino avvia una catena di sangue che sembra essere una
maledizione. In seguito all'accaduto, Leonor e Álvaro fuggono, ricercati dagli
altri due figli del Marchese, che vogliono vendicarne la morte. Però nella fuga
sono costretti a separarsi e si perdono di vista. Leonor, rimasta sola, decide di
rinchiudersi in convento, vivendo sola e come eremita, per espiare la sua colpa
nella morte del padre. Lo fa nel più totale incognito, quasi a voler segnare con
una morte virtuale e una rinuncia a se stessa, la sua chiusura nei confronti del suo
mondo e del suo passato. Solo il padre guardiano conoscerà la sua vera identità.
Intanto Álvaro, che non è riuscito a ritrovare Leonor, si è arruolato nell'esercito,
è sconvolto dall'accaduto e vuole espiare la sua parte di colpa, andando in cerca
della morte nelle situazioni più pericolose.
Passato del tempo, il caso vuole che egli intervenga in difesa di don Carlos
(che non conosce), aggredito da una congrega di bari che aveva smascherato nel
gioco. Lo salva, e si presenta con il suo falso nome, don Fadrique, con cui è
famoso come soldato. Poco dopo Álvaro viene ferito in battaglia, e viene salvato
proprio da don Carlos. Álvaro avrebbe preferito morire; quando il medico, per
il romanticismo 399
animarlo, dice che potrebbe essere nominato cavaliere di Calatrava, Álvaro entra
in agitazione, sentendo questo nome, lo stesso del marchese che aveva ucciso
involontariamente. Sentendosi morire, prega don Carlos, che è lì presente, di
fargli un favore: bruciare alcune carte di sua proprietà, quando sarà morto, ma
leggendo queste carte, Carlos capisce di avere di fronte Álvaro, l'uccisore di suo
padre.
Álvaro sopravvive; Carlos si adopera perché la sua convalescenza sia
proficua e possa recuperare bene. Solo allora si rivela e lo sfida. Costretto ad
accettare il duello, Álvaro lo uccide Carlos; viene arrestato, perché ha infranto
una legge che vieta agli ufficiali i combattimenti, e su di lui incombe una
condanna a morte. Però la città di Velletri, in cui si trova acquartierato l'esercito
spagnolo, è invasa improvvisamente dal nemico: Álvaro, anziché fuggire,
partecipa alla difesa, ancora cercando la morte, ma non la trova, ed anzi ottiene la
grazia. Tornato in Spagna, decide di abbandonare la vita mondana ed entra in un
convento francescano. Qui lo trova l'altro figlio del marchese, Alfonso, quattro
anni dopo.
Álvaro resiste a varie provocazioni, ma poi, schiaffeggiato, accetta la sfida di
Alfonso, che nel duello viene ferito a morte. Consapevole del suo stato, chiede la
confessione, e Álvaro corre a chiamare un santo eremita che si trova nelle
vicinanze. L'eremita è appunto Leonor, che si era rifugiata in incognito, senza
mai rivelarsi a nessuno: i due si riconoscono:
José de Espronceda
Una figura coperta dal mantello si aggira in questa notte di visioni e fantasmi:
non ci viene detto il nome, ma si scoprirà poi che è Diego, fratello di Elvira.
Elvira è la ragazza che Félix, personaggio perverso dal carattere libertino e
sprezzante, vicino in qualche tratto al don Juan Tenorio, ha sedotto e poi
abbandonato.
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Era passata mezzanotte, / raccontano antiche storie, / quando, avvolta la terra nel
sonno e nel silenzio tenebroso, / i vivi sembrano morti, / i morti lasciano la tomba. / Era
l'ora in cui forse / risuonano voci spaventose / informi, in cui si sentono / taciti passi vuoti
/ e paurosi fantasmi / tra le dense tenebre / vagano, e ululano i cani / impauriti alla loro
vista: / in cui forse la campana / di qualche chiesa in rovina / fa misteriosi suoni / di
maledizione e anatema, / che di sabato convoca / le streghe alla loro festa. / Il cielo era
scuro, / non brillava alcuna stella, / lugubre il vento sibilava, / e nell'aria, come neri /
fantasmi, si disegnavano / le torri delle chiese, / e del gotico castello / gli altissimi merli, /
dove canta o forse prega / impaurita la sentinella. / Infine, tutto a mezzanotte riposava / ed
era tomba dei suoi addormentati viventi / l'antica città bagnata / dal Tormes, fiume
fecondo, / citato dai poeti, / la famosa Salamanca.
402 il romanticismo
Nella seconda parte viene descritta Elvira, in realtà il suo bianco fantasma,
che si muove nella notte - una notte ora serena e dominata da dolcezza e
malinconia. C'è un contrasto tra la notte in cui si muove Diego, torbida e
inquietante, e quella in cui si muove Elvira, serena e tranquillizzante, ma si vedrà,
proseguendo nella storia, che la serenità di questa notte è un inganno, forse una
trappola, o il modo in cui la natura, complice, agevola il compito del fantasma di
vendicarsi dell'abbandono:
44
- ¡Oh ven; ven tú!
44
- Io sono ardente e sono mora, / io sono il simbolo della passione, / di ansia di
godimenti è piena la mia anima. / È me che cerchi? / Non te, no. // - La mia fronte è
pallida, le mie trecce d'oro, / posso offrirti gioie senza fine. / Io di tenerezza custodisco un
tesoro. / È me che cerchi? / Non te, no. // - Io sono un sogno, un impossibile, / vano
fantasma di nebbia e di luce; / sono incorporea, sono intangibile: / non posso amarti. / -
Oh, vieni, vieni tu.
il romanticismo 405
Questa notizia non suscita alcuna paura in Beatriz che lo sta ascoltando:
Rosalía de Castro
Romanticismo e realismo
Alla grande stagione del romanticismo segue, nella cultura europea, una fase
dominata dall'esigenza di un maggiore realismo. Questa evoluzione si verifica sia
per ragioni interne allo sviluppo dell'arte e della letteratura, sia per l'influenza di
importanti fattori sociali. Riguardo alle ragioni interne, si può indicare il fatto che
il romanticismo aveva esplorato alcune dimensioni della realtà, con preferenza
per l'intimità della persona o per i temi fantastici, trascurandone altre, che pure
hanno la loro importanza e possono essere trattate artisticamente: ad esempio,
tutta la dimensione sociale della vita, che viene posta al centro dell'attenzione dal
naturalismo e dal verismo. Riguardo ai fattori sociali, si può evidenziarne due che
hanno diretta attinenza con la creatività.
In primo luogo, lo sviluppo delle prime forme di industria culturale: la
maggiore diffusione delle pubblicazioni periodiche e l'aumento delle tirature
comportano l'esigenza di un'accresciuta quantità di testi da pubblicare. Una delle
forme di questa industria si può vedere nel cosiddetto romanzo d'appendice, una
letteratura popolare che tende a modellarsi sui gusti del pubblico, piuttosto che su
una scrittura raffinata, destinata a lettori colti. Questo tipo di scrittura, che in ogni
caso non va svalutata pregiudizialmente, anche se frequentemente è di scarsa
qualità, tende ad insistere su temi sentimentali, lacrimosi, e sulla creazione di
trame ricche di continui colpi di scena, che fanno presa sul lettore, inducendolo
all'acquisto del testo, soprattutto se viene pubblicato a puntate. Si verifica così
un'inflazione di elementi, peraltro già presenti nel primo romanticismo, anche se
trattati a un livello qualitativo superiore: l'eccessivo sentimentalismo, l'indulgenza
verso toni moraleggianti e storie edificanti, anche se improbabili, favorisce, per
reazione, la diffusione di un'esigenza di realismo.
In secondo luogo, l'evoluzione della società europea procede rapidamente
all'introduzione di forme di vita sempre più legate ai valori borghesi, sempre più
fondate sulla tecnica e sulla razionalizzazione della produzione e dei rapporti
sociali. Il pensiero scientifico, sulla cui verità all'epoca non si hanno dubbi,
acquista una posizione preminente nel dibattito culturale e le scienze esatte
forniscono un modello di sapere la cui influenza si estende anche all'arte. Un
mondo progressivamente dominato dalla mentalità positivista, non può che
reagire con fastidio all'universo fantastico e sentimentale del romanticismo,
soprattutto quando tale universo si commercializza, per così dire, e si diffonde,
molto più di quanto non avessero fatto le opere di qualità, con scritture ripetitive.
Di fronte a questa svolta realista dell'arte europea occorre però evitare giudizi
troppo netti e classificazioni troppo rigide: si potrebbe essere indotti a pensare
che romanticismo e realismo siano due realtà, o due scelte stilistiche, opposte e
incompatibili, ma questo sarebbe un errore dalle conseguenze molto gravi.
Bisogna dunque precisare due punti fondamentali per la comprensione dell'arte
contemporanea: il primo è che romanticismo e realismo non sono affatto
il realismo 409
entità diverse e che l'immagine di una cosa non è la cosa stessa: la descrizione
realista non è la realtà stessa, ma crea l'illusione che quanto si dice, si dipinge o
si scrive sia reale. Va aggiunto che, proprio per questo motivo, le forme del
realismo dipendono dal modo in cui un'epoca o una civiltà concepiscono la realtà:
quando Rojas mette in scena, nella Celestina, l'invocazione al diavolo, non rompe
il realismo complessivo dell'opera, perché nell'idea generale della realtà che si
aveva alla fine del Cinquecento, era compresa la presenza del diavolo e la
possibilità di entrare in contatto con lui. In altri termini, esiste un rapporto diretto
tra la descrizione realista e la realtà consensuale, ovvero ciò che noi riteniamo
comunemente essere vero. La realtà consensuale, a sua volta, è un'immagine della
realtà, un'interpretazione (benché comune a un numero enorme di persone), e non
è la realtà stessa, la realtà in sé e per sé, la realtà indipendente dalle nostre
interpretazioni.
Insomma, ciò che consideriamo realtà è sempre interpretazione della realtà:
da qui la possibilità di varie tipologie di descrizione. Il Poema de mio Cid, come
si è già notato, appartiene a un realismo che potremmo definire "prospettico": il
mondo letterario costruito dall'autore riflette il suo pensiero e le sue valutazioni; è
realista, ma tratta solo una parte della realtà: la vicenda del Cid osservata e
interpretata a partire dal presupposto che Rodrigo de Vivar abbia ragione e gli
Infanti di Carrión abbiano torto. Nessuno storico serio può pensare che gli
antagonisti del Cid e il partito leonese, nella storia vera, non abbiano ragioni da
portare avanti in un ipotetico processo, ma nel mondo letterario le loro ragioni
non sono prese in considerazione; c'è il personaggio positivo e gli avversari
negativi, il bene e il male, separati e nettamente distinti. Invece nella Celestina la
costruzione del realismo (dell'illusione di realtà) è più complessa: ogni
personaggio ha la sua parte di ragione e la sua parte di torto, o errori, e nella
vicenda trovano spazio i punti di vista di ciascuno: da qui il conflitto, che in
fondo è la struttura portante dell'opera.
Questa capacità del realismo di creare un'illusione di realtà viene sfruttata a
piene mani dagli autori barocchi e poi si ritrova nel romanticismo, che per il
barocco, soprattutto quello spagnolo, ha grandissima ammirazione. Naturalmente,
questo non obbliga un autore romantico ad essere sempre realista, ma vuol dire
semplicemente che il realismo fa parte dei ferri del mestiere a cui il romantico
ricorre quando ne ha bisogno. Così, per prendere ad esempio due autori
apparentemente lontani da un'estetica realista, vediamo che Coleridge abbandona
la descrizione della realtà quando si ispira al sogno o alle visioni, ma De Quincey
usa il realismo (s'intenda: una forma di scrittura realista, cosa che non significa
affatto una scrittura vera, una confessione sincera) quando descrive la sua stessa
storia personale nelle Confessioni di un mangiatore d'oppio.
Riassumendo, una contrapposizione tra romanticismo e realismo, in termini
generali, non è proponibile, così come non lo sarà una contrapposizione tra
realismo e decadentismo. Tuttavia sappiamo che verso la metà del XIX secolo si
sviluppa una letteratura diversa da quella romantica, con lo scopo di reagire
proprio ad alcuni caratteri del romanticismo, che forse erano stati amplificati da
scritture di scarso valore, destinate a un pubblico non qualificato. Questa reazione
si sviluppa soprattutto in Francia e prende il nome di naturalismo. Il naturalismo
il realismo 411
dovrebbe avere forma: sentimenti, stati d'animo, non solo come espressione di
stati psichici, ma come riflesso di valori e di una profondità che non è
semplicemente contrapposta alla realtà (come se un sentimento fosse irreale), ma
è ciò che di reale si trova appena oltre la superficie. Diceva Ortega che la
profondità di una cosa, proprio perché è reale, si deve mostrare nella superficie,
ma deve farlo senza perdere il suo carattere di profondità: ecco che l'esame
attento della superficie può arrivare a un punto in cui è possibile andare oltre le
apparenze e cogliere il profondo. Orbene, procedere dalla superficie alla
profondità per il naturalismo era possibile solo nei termini scientifici (della
scienza psicologica o di quella sociale): non era attrezzato per affrontare realtà
irrazionali senza la pretesa di razionalizzarle. Gli impressionisti, che partono dalla
premessa del realismo, hanno cercato un'arte della realtà totale, non solo di
frammenti di realtà: il sociale, lo storico, persino l'ideale, non sono che frammenti
di realtà.
Se la ricostruzione che ho fornito risulta convincente, allora credo si debba
accettare anche il suo corollario: che il naturalismo non è, in definitiva, un
movimento contrapposto al romanticismo, ma è lo sviluppo di alcune possibilità
artistiche che lo stesso romanticismo aveva dischiuso. Il romanticismo ha aperto
molte strade, ma non le ha percorse tutte, perché ha aperto (o riaperto) la
possibilità che l'artista stesso definisse la sua arte e quindi creasse un'estetica
nuova. Ha fatto questo in un arco di tempo piuttosto lungo, perché ha dovuto farsi
accettare dal pubblico, dai committenti, dagli editori, dalla censura, ma alla fine
lo ha fatto: ha messo ogni artista o gruppi di artisti in grado di definire su un loro
manifesto ciò che pensano e i criteri a cui si ispirano nella creazione. Questa
libertà, che è uno degli elementi essenziali del romanticismo, è come il
contenitore in cui si è mosso il naturalismo: ha aperto una prospettiva, l'ha
sviluppata fino alle estreme conseguenze, fino ad andare oltre le sue stesse
premesse e, in questo oltre, ritrovare - ma con la possibilità di una lettura nuova e
approfondita - ciò che credeva di aver lasciato dietro le spalle. Naturalmente,
sono da aggiungere alle cose antiche anche le novità che le trasformazioni sociali
portano con sé: quando Manet espone il suo quadro, mancano meno di vent'anni
al nuovo secolo. Pochi anni dopo, iniziando la sua straordinaria avventura
intellettuale, José Ortega y Gasset avrebbe combattuto il positivismo non usando
come parola d'ordine l'antipositivismo, ma rivendicando la necessità di un
positivismo assoluto contro un positivismo parziale: un realismo che, come si
diceva, non si fermi alla superficie, ma trovi l'accesso alle dimensioni profonde,
altrettanto reali. È facile notare che, per un artista, queste dimensioni trovano
migliore espressione nel mito e nei simboli, piuttosto che nel linguaggio
discorsivo o razionale, sicché un'espressione surrealista, tecnicamente molto
diversa da un'espressione naturalista, può rivelarsi nondimeno altrettanto realista,
se riesce a cogliere adeguatamente una realtà psicologica.
È chiaro che questo discorso non può portare a dilatare il significato del
termine romanticismo, fino ad affermare che tutto è romantico: significherebbe
l'impossibilità di capire differenze essenziali. Però è certo che il romanticismo si
trova all'inizio di un processo, lungo, complesso, a volte contraddittorio, che
arriva fino ai giorni nostri e, di fatto, rimane senza nome. Si può chiedere, allora,
414 il realismo
perché non iniziare il processo dal barocco, visto che buona parte dei temi
romantici era presente già nel Seicento. C'è una ragione oggettiva. Come si
ricorderà, abbiamo caratterizzato l'età barocca come una "seconda modernità",
volendo con ciò significare che la modernità rinascimentale subiva profonde
trasformazioni: principalmente, la spaccatura in due prospettive contrapposte
(entrambe moderne) come la controriforma e il pensiero scientista o razionalista.
Orbene, questa frattura, che accompagna il Seicento e il Settecento, comincia a
sanarsi a partire dal romanticismo. Ecco perché inizia nell'Ottocento un processo
nel quale ancora oggi siamo coinvolti: inizia la costruzione dell'età
contemporanea, cioè dell'età in cui, finalmente, tutto ciò che esiste è a
disposizione contemporaneamente, da un antica poesia cinese a una raccolta di
versi futuristi, da un'opera medievale alla rete di computer, da rovine romane in
Turchia a una festa di aborigeni australiani.
Fernán Caballero
All'inizio del romanzo realista in Spagna sta la figura di Cecilia Böll de Faber
(1796-1877), che scrive con lo pseudonimo di Fernán Caballero. L'opera di
questa scrittrice è singolare, perché il suo stile è realista, ma le sue idee sono
lontane dalla sensibilità del naturalismo francese: Fernán Caballero è molto
cattolica, molto reazionaria e, in definitiva, molto romantica; rappresenta dunque
un primo esempio del dibattito sul realismo, a cui si alludeva nelle pagine
precedenti. A differenza degli autori francesi, Fernán Caballero poteva contare su
una lunga tradizione picaresca e costumbrista, di cui inserisce le situazioni, le
"scene", in una struttura romanzesca che fa da cornice. Il suo proposito, molto
"naturalista", era dare un'idea esatta e vera della Spagna e della società spagnola,
basandosi sull'osservazione diretta, anche se non manca nelle sue pagine una
certa idealizzazione. La formazione cattolica poi la porta a dare rilievo a
un'intenzione moralizzatrice e a un certo sentimentalismo: questa è una nota
abbastanza comune al realismo spagnolo dell’Ottocento. Come scrive Leopoldo
Alas, conosciuto con lo pseudonimo di Clarín, nel Prólogo a La cuestión
palpitante de Emilia Pardo Bazán
José María de Pereda (1833-1906), nasce da una famiglia della bassa nobiltà
in provincia di Santander, e trascorre quasi tutta la sua vita nella sua regione, che
descrive nelle sue Escenas montañesas, raccolta di quadri costumbristi pubblicata
nel 1864 in cinque volumi. La montagna è il suo grande tema letterario, ma anche
il suo limite, benché Pereda ne fornisca descrizioni eccellenti e molto realiste.
Cattolico tradizionalista di salde convinzioni, Pereda si cimenta anche nel
romanzo a tesi: El buey suelto (1877) è una critica del celibato; De tal palo tal
astilla (1879) critica l'incredulità in materia di religione; però le migliori prove
come romanziere le fornisce quando si ancora saldamente alla sua regione,
mostrando di avere eccellenti doti nella descrizione paesaggistica. In particolare,
le sue opere più importanti sono Sutileza, del 1884, apprezzata per la descrizione
il realismo 417
dell'ambiente marinaro, della tempesta e della lotta dei pescatori contro il mare, e
Peñas arriba, del 1883, storia di un giovane di Madrid che, tornato in campagna,
dove era nato, passa dall'odio per il mondo contadino e montanaro
all'ammirazione, fino alla decisione di fermarsi e abbandonare la vita cittadina.
La trama è semplice, quasi un pretesto per eccellenti descrizioni della vita
patriarcale, dei suoi usi e della montagna.
Nella difesa della regione, della sua cultura locale, Pereda vede in realtà la
difesa della tradizione castiza spagnola, cioè degli elementi autentici, autoctoni,
che identifica - in modo un po' unilaterale - con la vita patriarcale della
campagna, la critica della corruzione delle città, l'avversione alla borghesia e al
liberalismo, e la difesa della tradizione cattolica.
Juan Valera
recepisce, con una sua rielaborazione personale, temi dibattuti in ambito post-
naturalista o simbolista, anche se non carica la sua scrittura di simboli o
atmosfere decadenti.
Valera inizia a scrivere romanzi quando è già sulla cinquantina, dopo aver
pubblicato articoli, racconti, poesie e saggi; la sua prima opera, Pepita Jiménez
(1874), ha una buona accoglienza da parte della critica, ed è considerata anche
oggi la sua opera migliore. Seguono altri romanzi: Las ilusiones del doctor
Faustino (1875), descrizione del fallimento di un intellettuale travolto dalle
trasformazioni della società; El Comendador Mendoza (1877), Juanita la larga
(1896), a carattere costumbrista; Genio y figura (1897), che descrive la scalata
sociale di una prostituta; Morsamor (1899), che introduce elementi magici,
rompendo il carattere realista delle precedenti opere.
Pepita Jiménez è un romanzo scritto con uno stile conciso, in un periodo in
cui si scriveva spesso in maniera lenta e prolissa. È ambientato in Andalusia e
racconta l'innamoramento di un giovane seminarista, Luis de Vargas, per una
vedova, Pepita, che a suo tempo era stata corteggiata dal padre del giovane, e che
finisce per sposarlo. Il romanzo è scritto in parte in forma epistolare e, data la
trama, è facile immaginare che Varela curi particolarmente l'analisi psicologica
dei personaggi e del conflitto tra l'amore terreno e la vocazione sacerdotale,
nonché l'analisi della differenza tra la realtà oggettiva e la sua percezione
soggettiva. Inizialmente il romanzo viene apprezzato negli ambienti liberali per
l'ironia nei confronti del mondo ecclesiastico, tuttavia non era questo il suo tema
dominante, e oggi viene apprezzato soprattutto per le sue qualità artistiche.
realtà nel corpo e nel volto di un umorismo che era forse la forma più
geniale della nostra razza. Tornando a casa, l'onda veniva radicalmente
sfigurata: passando dalle parti di Albione, le avevano portato via la
furberia spagnola, che fu abilmente trasformata in humour inglese dalle
mani abili di Fielding, Dickens e Thackeray, e privato di quella sua
caratteristica elementare, il naturalismo cambiò la sua fisionomia nelle
mani francesi: ciò che aveva perso in grazia e leggiadria, lo guadagnò in
forza analitica e in estensione, applicandosi a stati psicologici che non
entrano facilmente nella forma picaresca. Abbiamo ricevuto dunque, con
perdite e profitti (e non spaventiamoci della similitudine commerciale) la
mercanzia che avevamo esportato, e quasi non riconoscevamo il nostro
sangue e il respiro dell'anima spagnola che quell'essere letterario
conservava dopo le alterazioni causate dai suoi viaggi. Insomma: la
Francia, con il suo incontrastabile potere, ci imponeva una riforma della
nostra stessa opera, senza sapere che era nostra; noi l'abbiamo accettata
restaurando il Naturalismo e restituendogli ciò che gli avevano tolto,
l'umorismo, usandolo nelle forme narrativa e descrittiva conformemente
alla tradizione cervantina.
porta a una discussione in cui, per la prima volta dopo secoli, la stessa cultura
europea deve tener conto delle obiezioni che le vengono mosse: Zola conosceva i
realisti spagnoli ed era colpito dal modo in cui interpretavano il naturalismo,
rendendolo compatibile con valori religiosi, tradizionali e spesso persino
reazionari.
D'altra parte si è già visto che Valera, come persona, vive in una dimensione
culturale internazionale e, come spagnolo, si sente dentro il mondo europeo. La
stessa cosa avviene a Galdós, che è nel suo tempo una figura molto moderna di
scrittore puro, informato e aggiornato sull'evoluzione artistica e culturale del
continente: la principale caratteristica della sua vita è una costante dedizione al
mestiere di scrivere, che gli procura successi e delusioni.
Galdós progetta e realizza una lunga serie di romanzi storici, che ha il titolo
generale di Episodios nacionales: si tratta di 46 volumi divisi in cinque serie,
scritte dal 1873 al 1912, un lungo racconto dell'Ottocento spagnolo, dagli inizi del
secolo alla Restaurazione. La prima serie è ambientata nella guerra
d'indipendenza; la seconda, arriva fino alla morte di Fernando VII; la terza è
dedicata alla guerra carlista; la quarta al periodo che va dalla rivoluzione del 1848
alla deposizione di Isabel II; la quinta prosegue fino alla Restaurazione.
Per il tema contemporaneo, gli Episodios nacionales si differenziano dal
romanzo storico romantico, che cercava le sue ambientazioni nel passato
medievale o in luoghi esotici. Inoltre, effettivamente Galdós tiene conto della
verità storica, anche se le vicende che racconta sono di fantasia. Il risultato è
un'immagine verosimile della Spagna ottocentesca e, al tempo stesso, una
scrittura molto vivace. Peraltro, dato il tempo intercorso tra il primo e l'ultimo
romanzo, vi sono cambiamenti nello stile e nella stessa costruzione del testo.
Inizialmente Galdós è più vicino al romanzo a tesi, esprimendo idee liberali e
anticlericali e descrivendo personaggi impegnati a favore del progresso, in
contrapposizione a personaggi fanatici e oscurantisti: ad esempio Doña Perfecta
(1876), Gloria, Marianela (1878). Più che la religione, Galdós attacca la sua
istituzionalizzazione, la sua trasformazione in un sistema di dogmi indiscussi e di
potere opprimente, sostenuto con una massiccia dose di ipocrisia. Doña Perfecta
racconta la lotta di Pepe Rey, ingegnere progressista e aperto all'Europa, contro
l'oscurantismo di Perfecta e il suo potere di proprietaria terriera appoggiata dalla
Chiesa: la contrapposizione è netta e radicale, senza mezze misure, e sarebbe
anche ingenua, se prendessimo i romanzi come trattati di sociologia.
Successivamente, dalla terza serie in poi, Galdós adotta una posizione più
neutrale, descrivendo la società con tecniche vicine a quelle del naturalismo: è il
caso di Fortunata y Jacinta (1886-87), una delle sue opere migliori. In questa
serie i personaggi sono più numerosi e vari e la costruzione dei romanzi ricorda la
"Commedia umana" di Balzac. I personaggi sono prevalentemente borghesi. I
primi episodi della serie sono quelli più vicini al naturalismo: La desheredada
(1881) e Lo prohibido (1885); però Galdós è abile anche nello sperimentare
tecniche nuove. Ad esempio, in un romanzo allegro e scritto in prima persona, El
amigo manso (1882), introduce il dialogo tra il personaggio letterario e l'autore
del romanzo stesso. La borghesia è descritta con più ombre che luci: raggiunte, in
qualche modo, posizioni di potere, per Galdós ha smarrito gli ideali progressisti
il realismo 421
che aveva professato nella sua fase rivoluzionaria, cercando solo il profitto e
curando la propria immagine pubblica, ma non la formazione personale: la
vicenda storica della borghesia e, per l'epoca, il suo fallimento politico avevano
contribuito, secondo Galdós, alla crisi della Spagna, allo sconcerto generale, alla
mancanza di prospettive. Da qui l'interesse dello scrittore per il dramma e la
condizione di uomini comuni, uomini della strada, spesso vittime di meccanismi
che non possono controllare. Fortunata y Jacinta, romanzo costruito sul più
classico dei triangoli amorosi, mostra la mancanza di affidabilità della borghesia
proprio a causa della sua inconsistenza morale.
Si tratta di un romanzo molto lungo, e certamente la trama, ridotta all'osso,
non rende giustizia alla sua complessità. Juanito Santa Cruz, figlio di una
famiglia di ricchi commercianti, ama la popolana Fortunata, ma si sposa con una
ragazza del suo ceto sociale, Jacinta. Continua, però, a frequentare Fortunata, e
anche dopo che costei si è sposata i due amanti continuano a incontrarsi. Dopo la
loro separazione definitiva, Fortunata, che ha avuto un figlio da Juanito, lo affida
poco prima di morire alla famiglia Cruz, dove Jacinta non ha avuto figli. Questa
vicenda è lo schema su cui è costruito uno dei migliori romanzi dell'Ottocento, la
cui importanza supera i limiti della letteratura nazionale spagnola.
In seguito, dopo il 1890, Galdós dà un ruolo di maggiore peso alla dimensione
affettiva, sentimentale e spirituale dei personaggi, dando spazio a un
cristianesimo, sebbene non dogmatico, non basato su considerazioni teologiche,
ma vissuto praticandone le virtù della carità e della comprensione: ne è un
esempio illustre Misericordia, del 1897, da cui è tratto il brano seguente, dove, in
modo piacevolmente sottile, sono messe a confronto diverse maniere di vivere la
religione, privatamente o in forma sociale.
Come si può notare, le obiezioni di Emilia Pardo Bazán, come di altri autori e
autrici che intervengono nel dibattito, non consistono nel condannare
apoditticamente le idee di Zola, accusandolo di essere un bieco materialista, o
cose del genere; richiamano invece il naturalismo francese a una coerenza
interna, cioè a non contraddire la premessa dell'osservazione diretta della realtà
con un'interpretazione ideologica dei dati osservati. Prosegue la scrittrice:
In questa materia è accaduta a Zola una cosa che in genere capita agli
scienziati dilettanti: ha preso le ipotesi per leggi, e sulla fragile base di
due o tre fatti isolati ha eretto un edificio enorme. Forse ha immaginato
che fino a Claude Bernard nessuno aveva formulato le mirabili regole del
metodo sperimentale, così feconde di risultati per le scienze della natura.
È già da tempo che il nostro secolo applica queste regole, madri dei suoi
progressi. Ad esse Zola vuole assoggettare l'arte, e l'arte si oppone, come
si opporrebbe l'alato destriero Pegaso a tirare una carretta; e Dio sa che
questo paragone non è nelle mie intenzioni irrispettoso verso gli uomini di
scienza; voglio solo dire che il loro oggetto e le loro strade sono diversi da
quelle dell'artista.
E qui conviene notare il secondo errore dell'estetica naturalista,
errore curioso, che a mio parare si deve attribuire ugualmente alla scienza
mal digerita di Zola. (...)
L'artista di razza (e non voglio negare che Zola lo sia, ma solo
osservare che i suoi pruriti scientifici lo inducono in errore in questo caso)
nota in sé qualcosa che si solleva davanti all'idea utilitaria che
rappresenta il secondo errore estetico della scuola naturalista. Questo
errore lo ha combattuto più di chiunque altro lo stesso Zola, in un libro
intitolato I miei odi (precedente Il romanzo sperimentale), rifiutando
l'opera postuma di Prouhon, Del principio dell'arte e della sua funzione
sociale. È da vedersi Zola indignato perché Proudhon cerca di convertire
gli artisti in una sorta di confraternita di operai consacrati al
perfezionamento dell'umanità, e da leggersi come protesta in nome
dell'indipendenza sublime dell'arte, dicendo con grazia che lo scopo dello
scrittore socialista è mangiarsi le rose nell'insalata. Non c'è artista che si
adatti a confondere così i domini dell'arte e della scienza: se l'arte
moderna esige riflessione, maturità e cultura, l'arte di tutte le età richiede
principalmente la personalità artistica, ciò che Zola, con una espressione
il realismo 423
tremanti dei lampioni, parte fino alle insegne di carta male incollata agli
angoli, e c'era qualche piuma che arrivava a un terzo piano, e polvere che
si incrostava per giorni o per anni sui cristalli di un armadio a vetri,
aggrappata a un pezzo di piombo.
Vetusta, la nobilissima città, in un tempo lontano corte, digeriva il
lesso e la zuppa, e riposava sentendo nel dormiveglia il monotono e
familiare rumore della campana delle ore canoniche, che rimbombava in
alto dalla snella torre della Santa Basilica. La torre della cattedrale,
poema romantico di pietra, inno delicato, dalle dolci linee di bellezza muta
e perenne, era opera del sedicesimo secolo, benché iniziata prima, in stile
gotico, però, bisogna dirlo, moderato da un istinto di prudenza e armonia
che modificava le volgari esagerazioni di questa architettura. La vista non
si stancava contemplando ore ed ore quell'indice di pietra che indicava il
cielo; non era una di quelle torri la cui punta si spezza per la sottigliezza,
più magre che snelle, manierate, come signorine volgari che stringono
troppo il corpetto; era massiccia, senza perdere nulla della sua spirituale
grandezza, e persino il secondo ballatoio, elegante balaustrata, saliva
come un forte castello, lanciandosi poi da lì in forma di piramide
dall'angolo grazioso, inimitabile nelle sue misure e proporzioni. Come un
fascio di muscoli e nervi la pietra, avvitandosi sulla pietra, si arrampicava
verso l'alto, facendo nell'aria equilibrismi da acrobata; e come un
prodigio di giochi di prestigio, una grande sfera di bronzo dorato si
sosteneva su una punta di calcare, come calamitata, e un'altra più piccola
al di sopra, e sopra ancora una croce di ferro che terminava in
parafulmine.
Quando nelle grandi solennità il capitolo faceva illuminare la torre
con lampioni di carta e vasi colorati, aveva un bell'aspetto, risaltando
sulle tenebre, la sua romantica mole, ma con questi addobbi perdeva
l'eleganza del suo profilo e assumeva i contorni di una bottiglia di
champagne. Era meglio contemplarla nella chiara notte di luna, quando
risaltava su un cielo puro, circondata da stelle che sembravano la sua
aureola, raddoppiandosi in pieghe di luce e ombra, fantasma gigante che
vegliava per la città piccola e nerognola, addormentata ai suoi piedi.
Età contemporanea
Immaginazione qui non significa copia del reale, ritratto dal vero, ma indica
la capacità di concepire l'opera d'arte: la capacità di cogliere la bellezza che poi il
lettore o l'osservatore troveranno nei versi, nel romanzo o nel quadro. Usando
un'espressione che torna nella riflessione sull'estetica contemporanea, si può dire
che immaginazione è la facoltà di concepire un oggetto estetico. Non è
necessario, dunque, che questo termine faccia riferimento a una storia di fantasia:
nel senso in cui la intende Baudelaire, è immaginazione sia la vicenda di Astolfo
che vola sulla luna alla ricerca el senno di Orlando, a cavallo dell'ippogrifo, sia i
giochi di luce e fumo in un quadro che raffigura l'arrivo di una locomotiva a
vapore nella stazione - in entrambi i casi percepiamo una bellezza che è stata
prima immaginata da chi ha scritto la storia o dipinto il quadro.
Parlando di pittura, dice Baudelaire che un buon quadro deve essere prodotto
“come un mondo”, nel senso che la creazione complessiva è il risultato di tante
unità compositive che dànno un aspetto di realtà all’idea, al progetto realizzato
dall’opera. Da questo ruolo dell’immaginazione, Baudelaire indica, sia pure in
termini molto ampi, un duplice atteggiamento possibile: un atteggiamento
realista, parola che definisce ambigua e dal significato mai determinato con
precisione, che potrebbe essere sintetizzato così: “Io voglio rappresentare le cose
come sono, o meglio come sarebbero supponendo che io non esista”; e un
atteggiamento immaginativo, che potrebbe essere sintetizzato così: “Voglio
illuminare le cose con il mio spirito e proiettarne il riflesso sugli altri spiriti”.
Baudelaire nota acutamente che il primo atteggiamento, più che realista,
andrebbe chiamato positivista: la descrizione delle cose come sarebbero se io non
esistessi, ovvero la trattazione di un tema non influenzata dai miei pregiudizi e
dalla mia personale sensibilità. Questo atteggiamento potrebbe essere chiamato
oggi fenomenologico, nel senso che mette nell’opera d’arte ciò che appartiene al
fenomeno e si impegna ad escludere, almeno in via programmatica, ciò che
appartiene all’osservatore del fenomeno, e di esso si deve dire in modo netto e
deciso una cosa principale: non si tratta di riprodurre artisticamente la realtà, ma
di produrre artisticamente qualcosa che sembri reale. Non esiste nessuna realtà in
nessuna opera d’arte, a parte quella che deriva dalla materia di cui è fatta: la tela
del quadro, la carta del libro. Nelle immagini del quadro, nel racconto del
romanzo, non c'è la realtà, ma immagini e parole che, osservate e lette, suscitano
l’illusione che sembra vero.
Leggendo la descrizione di Charles Bovary, nelle prime pagine del romanzo
di Flaubert, possiamo convenire che si tratta di un adeguato ritratto del ragazzo di
campagna. Ma la persona concreta e vivente di un ragazzo di campagna, con la
sua storia e il suo contorno sociale, è integrata da un infinito numero di elementi
che non possono essere tutti inseriti in un’opera d’arte. L’artista, dunque, opera
una selezione, li riduce ad un piccolo numero, e con essi crea il ritratto: se avesse
selezionato altri elementi, avrebbe dato luogo a un ritratto diverso. A posteriori,
avendo davanti il ritratto eseguito e la nostra personale esperienza, conveniamo
che nella pagina di Flaubert si può riconoscere un tipico ragazzo di campagna in
età contemporanea 429
una certa situazione. Il criterio che è stato seguito nella selezione degli elementi
che entrano nel ritratto è l’immaginazione che quegli elementi, disposti in un
certo ordine, avrebbero dato come risultato il ritratto del ragazzo di campagna,
cioè avrebbero dato corpo, realizzazione a un progetto estetico elaborato
dall’artista. Dunque la descrizione realista del tema, non influenzata da giudizi e
pregiudizi dell’artista, non è incompatibile con l’immaginazione, e anzi la
richiede.
Anche l’altro atteggiamento, quello in cui si vuole illuminare le cose con il
proprio spirito e proiettarne i riflessi negli altri spiriti, richiede immaginazione: la
differenza sta nel fatto che lo scopo ora non è quello di dare al lettore, ovvero
osservatore, un’immagine in cui riconosca una realtà nota, ma di dargli
un’immagine che non ha mai visto, che è stata vista dall’artista, e che, una volta
osservata, conduce a dire: questa rappresentazione mi mostra qualcosa di nuovo
della realtà. Ciò significa che possiamo avere l’immaginazione nella
rappresentazione realista e il realismo nella rappresentazione immaginativa.
Proprio parlando di Madame Bovary, Baudelaire difende l’opera da alcune
critiche con queste parole:
esegeta e interprete della vicenda. Si tratta piuttosto di una narrazione pura dei
fatti e della loro concatenazione, coerente con i personaggi e con ciò che nel
racconto svolge il ruolo di realtà. È del tutto evidente che in Flaubert
l’impersonalità non implica una rappresentazione, per così dire, fotografica della
realtà: si tratta semplicemente di eliminare sistematicamente l’intrusione
dell’autore nell’opera, rinunciando al suo ruolo di personaggio surrettiziamente
inserito per parlare di se stesso – cosa che può avvenire sia descrivendo la vita di
provincia contemporanea, sia trattando storie avvenute in epoche lontane, sia,
addirittura, descrivendo situazioni visionarie, come nel caso dell’altra grande
opera di Flaubert, La tentazione di Sant’Antonio.
Come si può vedere, questa concezione nuova dell’arte (non in assoluto
nuova, ma certamente lontana dal pensiero estetico che aveva dominato nei due
secoli precedenti), può avere molti esiti, può generare molti progetti artistici,
anche diversi e lontani tra loro, sempre accomunati, però, da questa sostanziale
autonomia del mondo artistico e del processo creativo. Qualunque sia il tema
dell’opera (e ovviamente la materia di cui è fatta: quadro, suoni, parole…),
l’opera è così come è per via di ragioni che essa stessa contiene al suo interno e
che si trovano solo nell’opera stessa. Ne consegue che qualunque opera d’arte ha
un elemento di arbitrarietà, in quanto si giustifica da sé, e nient’altro la
giustifica, se non la sua presenza – e al tempo stesso, nessuna opera d’arte riceve
valore dalla sua morale, da un’ideologia o da qualunque considerazione extra-
artistica. Se un’opera d’arte vale, vale per sé: cioè, non abbiamo soltanto il fatto
ovvio che all’opera è richiesto di essere bella, ma abbiamo anche il fatto,
estremamente innovativo, che ogni opera, virtualmente, è chiamata a inventare
un’idea nuova di bellezza. In altri termini, da qualunque situazione o tema, anche
il più squallido e ripugnante, può scaturire l’arte, se l’immaginazione artistica
riesce a trovare in quel tema un progetto estetico valido, e se l’artista è in grado di
condurlo in porto, di realizzarlo, secondo la coerenza che tale tema richiede, e
anzi impone.
La conseguenza immediata è che l’arte e la letteratura cominciano ad
occuparsi di temi che non venivano mai trattati nelle produzioni accademiche e
più formali, trovando nuove forme di bellezza in ciò che abitualmente era
considerato privo di valori estetici, o addirittura escluso dalla sfera dell'arte. Ad
esempio, nella poesia di Baudelaire, la descrizione della vita metropolitana, anche
negli aspetti più perversi, o il tema del disadattamento e della noia; più in
generale, prendere come tema estetico la tecnica (le locomotive dipinte dagli
impressionisti, ad esempio), o inserire nella sensibilità artistica europea le forme
d’arte di altre civiltà, dalle stampe giapponesi per gli impressionisti, alle sculture
africane per i cubisti.
Questa problematica, in cui ancora una volta Baudelaire si rivela una delle
menti più acute del suo tempo, non coinvolge solo la condizione dell’artista
quando deve scegliere un tema per la sua opera, coinvolge il rapporto complesso
tra modernità e tradizione. Parlando della pittura accademica del suo tempo,
Baudelaire notava sconsolato: “Se gettiamo uno sguardo sulle nostre esposizioni
di quadri moderni, ci colpisce la tendenza generale degli artisti ad abbigliare ogni
soggetto con i costumi antichi. Quasi tutti si servono di mode e mobili del
età contemporanea 431
rinascimento”. Non si tratta del fatto che, essendo stati scelti soggetti greci o
romani, li si abbiglia come era loro costume, ma del fatto che non si vuole ritrarre
soggetti moderni in abito moderno, come se l’abito moderno non avesse
dimensione estetica e non potesse competere con l’antico:
Per una coincidenza della storia, tanto Madame Bovary quanto Les fleurs du
mal vengono pubblicati (e processati per oscenità) nel 1857. Un anno dopo, in un
altro Paese, a Londra, William Morris ultimava La regina Ginevra, un’opera
destinata a scardinare ancora di più le vecchie nozioni di realismo e idealismo
nell’arte. Come Flaubert e Baudelaire, Morris aveva una sostanziale antipatia per
la civiltà borghese, per la massificazione che si stava realizzando in Europa
invece della qualificazione di un numero sempre più vasto di persone; ma a
differenza di Flaubert, Morris concretizzava la sua critica in senso progressista,
con l’adesione al socialismo e con una militanza anticapitalista. Pur avendo un
indubbio amore per il mondo medievale, soprattutto per le sue leggende e la sua
rappresentazione ideale, Morris si pone il problema del rapporto dell’artista col
mondo delle macchine e trova una soluzione non nel rifiuto della macchina come
tale, ma in un suo uso nuovo: come artista lavora nelle arti applicate, o forse
sarebbe il caso di dire che le crea, che crea quella moderna forma di designer che
nasce con l’art nouveau.
Nel ritratto della regina Ginevra si può vedere la metafora del tentativo di
Morris di collegarsi a una tradizione ideale, senza voler perdere i contatti con il
mondo reale: se Ginevra è un personaggio mitico e, nel quadro, si muove in un
ambiente che non è quello contemporaneo, nondimeno tutto, in questo ambiente,
è dipinto con un realismo minuzioso e straordinario che avrebbe suscitato una
buona dose di invidia in ogni pittore verista. L’estetica dei preraffaelliti produce
spesso quadri in cui un realismo raffinato e preciso è applicato alla raffigurazione
di personaggi del mito: si ispira a un medioevo esoterico, alla poesia di Blake a
un evidente simbolismo, restando tuttavia concretamente consapevole delle
inquietudini del mondo vittoriano e della necessità di profondi cambiamenti.
Pensare che nell’arte nuova esista un’antitesi o una frattura tra realismo e
simbolismo, sarebbe pensare il nuovo con le categorie del vecchio e condannarsi
all’incomprensione. In effetti, se si vuole capire l’arte nuova bisogna, a mio
avviso, pensare simbolismo e realismo non come ambiti contrapposti e nemmeno
come prospettive complementari, ma come due poli che non possono esistere
l’uno senza l’altro, analogamente all’intreccio dinamico tra lo yin e lo yang del
taoismo o ai poli della corrente elettrica.
età contemporanea 433
Realismo e simbolismo
qualunque oggetto reale può essere il tema dell'opera pittorica: non ha alcuna
importanza se sia una cosa nobile o quotidiana; solo conta la sincerità con cui
l'artista descrive ciò che vede. Questa sincerità che non rispetta alcuna regola
estranea al puro vedere, è anche dipingere senza interessarsi dei gusti del
pubblico, senza adeguare la propria pittura al modo in cui il potenziale acquirente
del quadro immagina e interpreta la realtà. È un altro elemento importante
dell'arte nuova: se l'obiettivo è la creazione di un oggetto estetico valido in sé, per
la bellezza che lo caratterizza, allora questa arte può risultare difficile e
impopolare - anzi, in molte occasioni l'impopolarità dell'opera e l'atteggiamento
elitario dell'autore vengono cercati programmaticamente o proclamati in modo
provocatorio. Sia però chiaro che, in linea generale, l'arte contemporanea si
allontana dai gusti del pubblico e appare difficile non per una volontà di stupire e
rimarcare la distanza culturale dell'artista dal pubblico, ma come risultato
coerente delle nuove idee estetiche: continuando nell'esempio precedente, se il
pubblico si sorprende vedendo in un quadro l'erba blu, e non la capisce, ciò non si
deve alla volontà dell'artista di stupire con una bizzarria, ma ai presupposti teorici
che lo hanno portato a dipingere l'erba con quel dato colore che appariva in un
dato momento, senza tener conto delle convenzioni e delle abitudini
dell'osservatore.
Questa adesione alla realtà e alla sincerità come criterio dell'arte è parte di
una più generale avversione per le astrazioni e le falsificazioni, rivolta anche a
molti aspetti della vita sociale: gli impressionisti denunciano l'atteggiamento
ipocrita del borghese e criticano il suo modo di vivere e la sua organizzazione
sociale. Questo atteggiamento di diffusa avversione alla borghesia si traduce in
varie posizioni politiche: dagli impressionisti che, come Pissarro, salutarono con
entusiasmo la comune di Parigi, agli atteggiamenti aristocratici di Degas, dal
disinteresse di Renoir, per il quale la politica era un mondo di chiacchiere, alla
conversione al cattolicesimo di Cézanne.
Un elemento su cui poggia l'intera estetica impressionista è il carattere
mutevole della realtà. In effetti siamo in un'epoca che comincia a rendersi conto
che la realtà non è statica, ma intrinsecamente dinamica e in essenziale
movimento. La luce è lo strumento per cogliere il movimento, o per fissarne
un'istantanea, e per rendere la corposità degli oggetti.
Questa posizione realista dell'impressionismo è stata a volte confusa con il
positivismo, il quale rappresenta invece una limitazione degli orizzonti, un
restringimento e, in fondo, un'incoerenza. Infatti, vuole osservare la realtà avendo
escluso tutto ciò che non sia materiale o che abbia una dimensione simbolica,
affettiva, psicologica. Questa restrizione, in sé, non fa parte del pensiero
impressionista, che invece implica un allargamento di orizzonti, una revisione di
pregiudizi storici, in piena coerenza con gli sviluppi della filosofia europea.
Contemporaneaneamente al primo quadro impressionista (Claude Monet,
Impression. Soleil levant - Parigi, Musée Marmottan, 1872), Nietzsche pubblica
La nascita della tragedia e, l'anno successivo, Considerazioni inattuali. Il 1873 è
anche l'anno di pubblicazione di Una stagione all'inferno, di Rimbaud. È vero
che si tratta di opere e autori che non sono facilmente collegabili in una
definizione unica, tuttavia è anche vero che, in contemporanea o quasi, si
età contemporanea 435
i germi del suo superamento, perché si stabilisce che la realtà genera, per così
dire, molte immagini, molte apparenze, ciascuna delle quali è il risultato di
un'osservazione prospettica. La realtà è mutevole e il quadro impressionista, con
tutto il suo realismo, è l'istantanea del suo aspetto: è - si badi bene - la
rappresentazione di un'apparenza, ma non è la realtà. Più ancora:
l'impressionismo è la dimostrazione che la realtà non era stata mai studiata con
sufficiente attenzione dagli artisti, e che, quindi, potrebbe essere molto diversa da
come la immaginiamo. Questo apre una prospettiva in cui il naturalismo risulta
insufficiente. D'altra parte, che l'impressionismo fosse una "descrizione" e che un
realismo meramente descrittivo di apparenze dovesse essere superato, è cosa che
sapevano gli stessi impressionisti. L'avevano imparato dalla fotografia.
La fotografia comincia a diffondersi verso il 1840, in contemporanea con
l'interesse per una riproduzione fedele della natura, ma proprio l'uso di uno
strumento oggettivo di riproduzione, come l'obiettivo fotografico, mostra quanto
sia variabile l'apparenza fenomenica e come sia ingenuo pensare che la
descrizione esaurisca la realtà. Al tempo stesso la fotografia, riuscendo a fermare
i movimenti, congelandoli nell'istantanea, mostra anche pose che nessun artista
aveva mai rappresentato, ponendo in fondo un problema: che l'istantanea è solo in
un certo senso una descrizione reale della realtà, proprio perché le manca il
movimento. Parlando con rigore, l'istantanea è l'astrazione di un istante, di una
posizione (ad esempio nel caso della foto di un cavallo in corsa) dal flusso
continuo del movimento reale, ma non contiene questo movimento e non sempre
lo esprime. Invece la pittura o la scultura possono esprimere il movimento,
comunicarne l'idea, magari alterando le posizioni naturali degli arti del cavallo.
Questo sposta l'attenzione dalla descrizione fedele dell'oggetto, alla
costruzione dell'oggetto artistico - si badi bene: una costruzione che ha per scopo
la sua rappresentazione realista. La domanda che ci si potrebbe porre, infatti, è la
seguente: come mai, prima degli impressionisti, nessuno aveva visto l'erba blu?
(visto artisticamente, s'intende). E la risposta è sorprendente: per descrivere la
realtà non basta la passiva osservazione, come se il semplice aprire gli occhi
permettesse all'artista di cogliere tutto il contenuto dell'apparenza. Occorre invece
un vedere attivo, un cercare - cosa che equivale a dire che occorre costruire un
punto di osservazione.
C'è un vedere passivo e un vedere attivo, penetrante, che è proprio dell'artista.
ma questo non basta. Dice Rodin, confermando quanto si dichiarava più sopra
circa il realismo e la fotografia:
Da qui la conclusione:
età contemporanea 437
Avanguardismo
Gli fa eco Paul Gauguin: "Metto in questo ritratto ciò che l'animo ha permesso
agli occhi di vedere e soprattutto, penso, ciò che gli occhi soli non avrebbero mai
visto". Baudelaire, in Correspondances, vero e proprio manifesto della sua
concezione estetica, aveva scritto:
significati ricevuto dalla tradizione. Questo carattere sarà una costante nell'arte
contemporanea e, almeno fino alla pop art, l'artista tenderà a staccarsi dai gusti
del pubblico, a volte a disprezzarli, a volte a sacrificare il successo per seguire la
fedeltà al suo progetto artistico, sempre, comunque, mantenendo un certo
atteggiamento elitario. Il secondo carattere importante, nel complesso di stili che
chiamiamo simbolismo, è che l'artista non sta idealizzando il reale, cioè non parte
da un oggetto naturale per poi usarlo come ponte per esprimere il profondo e il
misterioso; al contrario, parte da una visione del profondo e costruisce su di essa
un oggetto artistico capace di esprimerla, cioè di comunicarla anche a coloro che
non sono attualmente in grado di vederla. Questo sembra l'occasione per produrre
una varietà di stili e di atteggiamenti, alla cui base c'è, in fondo, un fenomeno
unico: l'arte consiste nella costruzione dell'oggetto artistico. Così scrive Maurice
Denis in Du symbolisme au classicisme: "Ricordarsi che un quadro, prima di
essere un cavallo di battaglia, una donna nuda o un qualsiasi aneddoto, è
essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori accostati con un certo
ordine". Per Guillaume Apollinaire
a) Il futurismo
sul vecchio mondo borghese, sulle monarchie e sulle istituzioni della città di
Paralisi, e andarono a combattere, spesso senza più tornare.
b) Il dadaismo
c) Il surrealismo
Come è facile intuire, dada ha vita breve. Non si può sostenere, come
avveniva in passato, che il dadaismo sia una sorta di movimento propedeutico al
surrealismo, dato che l'autonomia e l'originalità non possono esserne messe in
dubbio, però è anche vero che l'esperienza dadaista è molto importante per André
Breton, fondatore del surrealismo. Breton entra in contatto con Tzara già nel '19 e
lo invita a Parigi nel '20: inizia allora il periodo parigino del dadaismo (1920-23),
dopo quello di Zurigo, e nel '24 Breton pubblica il Manifesto del surrealismo. Il
Manifesto è un'esaltazione della libertà e anche un attacco al nazionalismo e al
realismo borghese, alle descrizioni piatte e banali che riempiono i romanzi in
voga (si ricorda la frase di Paul Valéry che si sarebbe rifiutato di scrivere: La
marchesa uscì alle cinque, ma ci si chiede se Valéry abbia mantenuto il suo
età contemporanea 445
E ancora:
La generazione del 98
Con tali premesse, è ovvio che il modernismo, più che una scuola, sia una
comunità di atteggiamenti (provocazione, ricerca della bellezza, ricerca stilistica,
ecc.) su cui ciascuno innesta la propria personale creatività, la propria originalità.
Già nel 1902 Eduardo López Chavarri, scriveva:
adottano gravi atteggiamenti provocatori nei confronti del mondo in cui vivono,
esistono alcuni presupposti che è bene esplicitare. In primo luogo c'è il
presupposto di una grande tradizione culturale (quella francese e, più in generale,
quella europea): a vario titolo e in varia misura si accusa la borghesia di averne
causato la crisi, la scomparsa, o semplicemente l'accantonamento, a tutto
vantaggio di una vita utilitaristica, volgare e priva di valori superiori. In secondo
luogo c'è il presupposto ovvio che esista una borghesia, che essa si scandalizzi,
che il gesto provocatorio sia un utile scossone per portare l'attenzione su qualcosa
che manca nella vita borghese. Proprio il confronto, anche duro, con una
mentalità borghese esistente permette a Baudelaire e ad altri di difendere a
oltranza la tradizione (sia pure in un'interpretazione molto estetizzante) e
contemporaneamente di pensare al nuovo: il borghese domina di fatto la scena
sociale, dunque, se vi sarà ancora cultura e civiltà, sarà solo perché nella
modernità viene scoperta una nuova forma di bellezza, e perché il borghese viene
educato all'arte. Su questo punto, le posizioni di Baudelaire e quelle di Morris
sono praticamente equivalenti, ed entrambi propongono un cocktail ideologico e
culturale costruito con gli stessi ingredienti, quasi nelle stesse dosi. In altri
termini, l'esistenza di fatto della borghesia e un certo buon senso intellettuale
permettono di integrare un atteggiamento antiborghese nostalgico, cioè basato
sull'evocazione del mondo pre-borghese, con un atteggiamento chiaramente
orientato verso una forma di post-modernità: la borghesia è la modernità per
antonomasia, perciò se si va oltre i valori borghesi, si è post-borghesi, post-
moderni, contemporanei.
Ora poniamoci una questione elementare ma dirompente: quando la
provocazione bohemienne si sposta dalla Francia alla Spagna, chi è che si
scandalizza? C'è in Spagna un bourgeois da épater? Qualcuno ci sarà senz'altro,
ma a me sembra che a scandalizzarsi siano soprattutto i tradizionalisti. La Spagna
è un paese in cui ancora è il tomismo ottocentesco la filosofia dominante, in cui
ancora la censura è forte, in cui ancora la chiesa cattolica è l'asse portante
dell'organizzazione sociale. In altri termini: non c'è (o non è applicabile come
schema interpretativo) in Spagna una grande tradizione distrutta dall'utilitarismo
borghese, perché non c'è un dominio della borghesia; non c'è dunque una
modernità borghese che ha minato la tradizione. Al tempo stesso tale tradizione,
che arriva fino agli uomini del XIX sec., è talmente malmessa ed entrata in crisi
da celebrare, nel 1898, la fine di un lungo impero, con un'indecorosa perdita dei
suoi ultimi possedimenti oltremare. Pertanto il rinnovamento in Spagna non
passava attraverso la messa in discussione della borghesia, ma attraverso la messa
in discussione della tradizione patria. Dice giustamente Unamuno:
di noi sapeva bene in realtà ciò che cercava. Eppure sì, lo sapevamo bene,
molto bene. Ciascuno di noi cercava di salvarsi come uomo, come
personalità; cercava di affermare in se stesso l'uomo. In quel naufragio
della civiltà, cioè dell'umanità della Spagna, ciascuno di noi cercava di
salvarsi come Uomo. Però: uomini e senza una patria? Per questo
partimmo a conquistarne una. (La hermandad futura)
Rubén Darío
Altra grande opera di Darío, in cui lo spirito modernista trova una sua perfetta
incarnazione, è Prosas profanas, del 1896: vi è ancora più esplicito il richiamo
alla tradizione simbolista francese, ma anche alla poesia barocca e ad alcuni poeti
il modernismo 453
Ma aggiunge:
45
Io sono colui che appena ieri diceva / il verso azzurro e la canzone profana, / nella
cui notte c'era un usignolo / che era allodola di luce per il domani./ Sono stato padrone
del mio giardino di sogno, / pieno di rose e di cigni vaghi, / il padrone delle tortore, il
padrone / delle gondole e delle lire nei laghi / e molto diciottesimo secolo e molto antico /
e molto moderno, audace cosmopolita, / con Hugo forte e con Verlaine ambiguo, / e una
sete di illusioni infinita./ Io seppi del dolore dall'infanzia; / la mia giovinezza... fu
giovinezza la mia?/ Le sue rose ancora mi lasciano la fragranza.../ una fragranza di
melancolia.../ Puledro senza freno si lanciò il mio istinto, /la mia giovinezza montò un
454 il modernismo
Manuel Machado
Manuel Machado Ruiz (1874-1947), fratello maggiore del più noto Antonio, è
un attivo poeta modernista, estetica alla quale resta sostanzialmente fedele in tutta
la sua produzione. Collabora con il fratello in alcune opere teatrali di
ambientazione andalusa, di cui la più nota è La Lola se va a los Puertos, che ha
avuto anche delle trasposizioni cinematografiche. Altri titoli in collaborazione: La
duquesa de Benamejí, La prima Fernanda, Juan de Mañara, Las adelfas, El
hombre que murió en la guerra, Desdichas de la fortuna o Julianillo Valcárcel.
Con lo scoppio della guerra civile, i due fratelli seguono due strade politiche
opposte, pur conservando buoni rapporti personali. Manuel resta a vivere a
cavallo senza freno; /correva ubriaca e con un pugnale alla cintola; / e se non cadde fu
perché Dio è buono. / Nel mio giardino fu vista una statua bella, /fu ritenuta marmo ed
era carne viva; un'anima giovane vi abitava, / sentimentale, sensibile, sensitiva.
il modernismo 455
Madrid fino alla sua morte nel 1947. La sua adesione politica al franchismo,
peraltro non acritica, gli aliena le simpatie dei giovani poeti negli ultimi anni
della dittatura o dopo la sua caduta, tuttavia questa confusione tra giudizio
politico e giudizio estetico appare del tutto insensata. Manuel è un poeta di
estrema finezza, ben radicato nella tradizione lirica andalusa, nel flamenco e nel
cante jondo, a cui attingerà anche García Lorca, di cui fu anche un attento
studioso.
La sua prima opera di chiara fattura modernista è Alma, del 1901 o 1902: vi si
vede una delle caratteristiche principali della poesia di Manuel: la coesistenza di
versi di chiara derivazione dalla tradizione simbolista e versi che recuperano il
patrimonio lirico tradizionale dell'Andalusia. Il sapere popolare racchiude tutto il
sapere, dice il poeta in Cante hondo:
È il sapere popolare
che racchiude l'intero sapere,
che è saper soffrire, amare,
morire e disprezzare.
Alejandro Sawa
46
Ho una volontà e una pena. / La pena vuole che viva, / la volontà vuole che muoia.
456 il modernismo
Salvador Rueda
Modernismo catalano
Miguel de Unamuno
Personalità vigorosa, grande scrittore e filosofo, Miguel de Unamuno nasce a
Bilbao nel 1864. Si dedica alla carriera universitaria, e insegna dal 1891 Lingua e
letteratura greca all'Università di Salamanca. Nel 1901 diventa Rettore
dell'Università, ma da questa carica viene destituito nel 1914 per attività
antimonarchiche. Ottenuto nuovamente l'incarico, viene ancora destituito nel
1924 per la sua opposizione alla dittatura del generale Primo de Rivera. Esiliato
in Francia, ottiene la carica di Rettore per la terza volta al ritorno in patria, nel
1930. Muore nel 1936, poco dopo il colpo di stato del generale Franco, e
un'ulteriore destituzione per i suoi dissensi con il fronte nazionalista.
A parte queste vicende politiche, la vita di Unamuno non è legata alla boemia
artistica, tuttavia il suo atteggiamento è stato quello di una costante ribellione
intellettuale contro ogni forma di conformismo o di adesione passiva a qualunque
dogma sociale. In molte occasioni, per non dire quasi sempre, Unamuno mette in
primo piano il suo io e sostiene la necessità di affermazioni arbitrarie, fino a farne
un vero e proprio metodo intellettuale. Scrive ad esempio:
Questa gratuità, specifica nello stesso articolo, si lega al fatto che la persona
umana non è un ente logico: "Né tu, né io possiamo provarci logicamente, e
poveri noi se lo potessimo! Non saremmo allora uomini, ma formule". Rifiutare
gli schemi razionali e partire dalla propria realtà significa allora comunicare una
parte della propria esperienza, della propria sostanza umana, e sottoporla a una
libera discussione: "Io non voglio lasciarmi incasellare, perché io, Miguel de
Unamuno, come qualunque altro uomo che aspiri alla pienezza della coscienza,
sono una specie unica" (Mi religión). E in En torno al casticismo precisa il
carattere metodico della sua arbitrarietà:
radicale di questo coinvolgimento? Dove sta scritto che esso sia ininfluente? Più
ancora: quale metodo rigoroso autorizza a prescinderne? Quando la persona
concreta è alle prese col tema della morte trova come dato il suo desiderio di non
morire, la sua volontà di persistere, la sua angoscia davanti alla prospettiva del
nulla. Naturalmente, questo dato non chiarisce affatto cosa sia la morte in sé,
come evento, però dice molto su chi sia l'uomo, sulla natura stessa di colui che
appunto muore. L'uomo è, secondo le frasi di Spinoza che Unamuno amava
citare, lo sforzo di perdurare nel proprio essere, uno sforzo che implica tempo
infinito. In concreto, Unamuno fa riferimento al dogma cristiano della
resurrezione della carne e al concetto fondamentale della patristica greca della
theosis: Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventasse Dio.
Nel trattato del 1913 le due prospettive dell'immortalità cristiana e della morte
totale sono messe a confronto e si rivelano inconciliabili e irriducibili. Si
scontrano, senza che l'una sconfigga definitivamente l'altra, perché entrambe
trovano il loro fondamento nella persona concreta. La conoscenza razionale e
quella religiosa sono scoperte dall'uomo attivando le facoltà che gli servono
concretamente per vivere: la ragione e il sentimento, la logica e l'amore. La
ragione non può negare valore al sentimento (anzitutto al sentimento della propria
sostanzialità immortale) perché amputerebbe la vita stessa: la logica, non è la vita
e non la cattura. Ma il sentimento non può prescindere dalla ragione, specie
quando chiede l'immortalità per il nostro corpo materiale, fisico e soggetto alle
leggi della fisica. Perciò queste due grandi facoltà umane generano due ambiti di
conoscenza separati e relativi, incapaci di integrarsi. I ragionamenti sono soltanto
ragionamenti e, benché siano validi sul piano logico, non hanno senso dentro la
sfera sentimentale, che pure ci consente di vivere. Dal canto suo, per definizione,
il sentimento non ha alcuna influenza sul ragionare.
Dunque c'è un conflitto radicato nell'uomo stesso. È vero che Unamuno
rovescia l'ordine gerarchico stabilito dal razionalismo, che assegnava alla ragione
un primato sul sentimento, ma è anche vero che il conflitto rimane: le due sfere
della personalità umana continuano a contraddirsi tanto quanto prima, solo che
ora mettiamo in primo piano il sentimento, attraverso un atto concreto della
volontà. Permane, sia pure con un'inversione di gerarchia, una scissione profonda
nel seno dell'uomo in carne e ossa.
Sostanzialmente, La agonía del cristianismo conferma questo quadro, anche
se dà uno spessore maggiore al sentimento inteso come facoltà che produce la sua
conoscenza e dà fondamento alla cultura religiosa umana. Il cammino
sentimentale è la via alla scoperta di quel Dio che, di sua iniziativa, si offre
costantemente all'uomo, un Dio che nel sentire umano trova la strada per
condurre l'uomo stesso, gradualmente, alla conquista della Rivelazione: l'uomo
acquista consapevolezza di sé come essere destinato alla vita eterna proprio
quando si rende conto con angoscia della morte. Questa angoscia è la spinta a
cercare Dio che, dal canto suo, si fa trovare lungo questa via, cioè si fa sentire, e
si mostra. Il Dio che in questo modo viene trovato non è un concetto intellettuale,
ma una persona vivente; però da un lato la logica non riesce a catturarlo proprio
perché è Vita, dall'altro neppure l'esperienza religiosa dell'incontro col Dio vivo
appare in grado di debellare i dubbi quando la ragione si desta a dimostrare che
il modernismo 461
l'uomo non può perdurare oltre la morte. Anche nella prospettiva dell'Agonía del
cristianismo il conflitto resta, ed anzi entro certi limiti si aggrava, dal momento
che per Unamuno il conflitto stesso è la premessa per un'esperienza religiosa
autentica.
Accanto al tema esistenziale e religioso, Unamuno affronta anche il tema della
Spagna, della sua crisi, del suo destino. Nella sua opera principale dedicata a
questo tema, la Vida de don Quijote y Sancho, propone un recupero dell'anima
spagnola più mistica, più visionaria, contro la cultura borghese moderna che
identifica con l'Europa. Spagna ed Europa, contrapposte, sono la fede contro la
ragione, il sentimento contro il meccanicismo spersonalizzante, la generosità
della nobile impresa contro l'utilitarismo, la vita mistica di Santa Teresa contro
una religiosità ridotta a mera pratica automatica, in una parola: la nobile pazzia di
don Chisciotte contro i gentiluomini della ragione. Identificando Europa,
modernità e borghesia, Unamuno crea lo spazio per una rinnovata missione della
Spagna, che ha nella sua tradizione innumerevoli testimonianze di dedizione a
valori più elevati di quelli borghesi, e che, nella sua storia, ha saputo far fronte a
grandi compiti spirituali, missionari, e ha saputo impegnarsi in battaglie gloriose
e costose contro una concezione volgare della vita. Naturalmente, la Spagna può
rivendicare questo ruolo solo se risulta in grado di ridestarsi e recuperare quelle
qualità umane che sono indispensabili per portarlo a compimento. Perché una
cosa è chiara a Unamuno: che queste qualità, nella società del suo tempo, non ci
sono. Lo spagnolo, inteso come il Conquistatore (di imperi o di mondi interiori)
non esiste più; non è presente in una élite, in un'avanguardia o un movimento
politico: lo si trova solo in un'immagine mitica, nel mito di don Chisciotte. Tema
della Spagna e tema religioso-esistenziale si intrecciano costantemente nell'opera
letteraria di Unamuno. Al riguardo bisognerebbe prestare molta attenzione, in una
lettura sistematica dell'autore, alle differenti sfumature e ai differenti punti di
vista da cui questi temi sono messi a fuoco: è facile, ma sbagliato, pensare,
quando Unamuno affronta per l'ennesima volta i suoi temi preferiti, che si tratti
sempre dello stesso discorso.
La prosa letteraria di Unamuno è, d'altronde, di grande qualità. Il suo primo
romanzo, Paz en la guerra (1897) racconta la propria esperienza dell'assedio di
Bilbao, quando era adolescente, durante la seconda guerra carlista. Nel suo titolo
contraddittorio e così caratteristico dei gusti del nostro scrittore, viene interpretato
come una grande descrizione della vita quotidiana, popolare, che per Unamuno
rappresentava l'intrahistoria, la vera essenza della tradizione: al di sotto dei
grandi eventi, che sono come la superficie spumeggiante del mare, sta la vita
quotidiana di milioni di persone, anonime certo, ma che ogni giorno vivono,
lavorano, trasformano lentamente le realtà e, soprattutto, hanno una fede e un
senso della vita nato dall'esperienza, più che dal chiacchiericcio intellettuale.
Amor y pedagogía (1902) è il ritratto satirico di un individuo, don Vito
Carrascal, la cui vita è un'adesione totale e acritica allo stupidario positivista, fino
al punto di scegliersi una moglie in base a considerazioni sociologiche (benché, al
momento di dichiararsi, con una specie di relazione scientifica, è attratto da
un'altra donna e si sposerà con costei). Avrà un figlio, che tenta di educare con
un'applicazione metodica dei principi della pedagogia, fino a portarlo al suicidio.
462 il modernismo
Esisti solo come ente di finzione; povero Augusto, non sei altro che un
prodotto della mia fantasia e di quelle dei miei lettori che leggeranno il
racconto delle tue finte disgrazie scritto da me; tu sei solo un personaggio
del romanzo.
Fin dall'inizio del racconto Angela scrive: “Ho trascorso in collegio cinque
anni, che ora mi sfuggono, come in un sogno del mattino, nella lontananza del
ricordo”. E subito aggiunge, dicendo che dopo quegli anni era tornata in paese,
che era tornata da “don Manuel, con il lago e con la montagna”. E più avanti:
“Quegli anni passarono come un sogno”. E aggiunge, citando brevi periodi di
assenza dal paese: “Avevo sete della vista dell'acqua del lago e fame della vista
delle rocce della montagna; soprattutto sentivo la mancanza del mio don
Manuel”.
In un'altra occasione è don Manuel a presentare la contrapposizione tra il
transitorio e l'intemporale, parlando di una pastorella che vede cantare:
“E correva il tempo”, scrive Angela. E dice, dopo la morte di don Manuel, nel
paragrafo conclusivo della sua narrazione:
Don Manuel, il lago, la montagna, una vita vissuta senza pensare al tempo;
una vita che però passa, e quando ci volgiamo indietro ci appare come un sogno.
E invece non lo era; anzi, quel sogno era più reale delle preoccupazioni che ci
assalgono quando ci svegliamo alla temporalità, al senso del tempo. Il sogno era
reale quando, immersi con pienezza nella vita, non appariva in essa lo spettro del
tempo che corrode e consuma.
La montagna è dunque l'immagine dell'eterno. Lázaro, che sente nostalgia
della pace vera dopo la morte di don Manuel, dice: “È un altro il lago che mi
chiama; è un'altra la montagna. Non posso viverne senza”. E la montagna torna
come immagine a rappresentare la comunità di don Manuel e dei suoi
parrocchiani che prega: “Una voce semplice e unita, tutte fuse in una, formando
come una montagna la cui vetta, perduta a volte tra le nubi, era don Manuel”. Ma
una montagna che fosse solo immagine potrebbe rappresentare una soluzione al
problema della morte? Finora abbiamo caratterizzato questa immagine in
negativo, dicendo ciò che essa non ha: non ha attinenza col tempo; permane per
indicare una durata non temporale, che però potrebbe anche essere vista come
fissità e assenza di vita. Come potrebbe rappresentare una condizione appetibile
per l'uomo?
il modernismo 465
Però la vita senza il senso del tempo non è obbligatoriamente una condizione
ebete. Forse lo stesso don Manuel aiuta a capire che la mancanza della percezione
del tempo ha un risvolto ben sostanzioso. Dice infatti:
Io sto qui per far vivere le anime dei miei parrocchiani, per farli felici,
per far sì che si sognino immortali, non per ammazzarli. Quello che è
necessario qui è che vivano in modo sano, che vivano con unanimità di
sentimento, e con la verità, con la mia verità, non vivrebbero. Che vivano.
don Manuel e a Lázaro che non credevano; è il mistero della provvidenza che
salva ciò che ora appare inspiegabile. Ma si noti un fatto di estrema importanza: il
guazzabuglio teorico è una risposta allo stato di dubbio indotto proprio
dall'avvertire che il tempo passa, anzi è passato. Rimasta sola, Angela si scopre
vecchia e la sua certezza s'incrina. Tutto ciò che prima era senso pienamente
vissuto, ora è solo ricordo; a quel significato ormai manca la carne e possiamo
permetterci il lusso di dubitarne: non lo viviamo più, nonostante la realtà sia
ancora lì, a portata di mano, a testimoniare se stessa. Nevica sui miei ricordi, dice
Angela:
Scrivendo questo ora, qui, nella mia vecchia casa materna, ai miei
cinquant'anni e passa, mentre s'imbiancano insieme la mia testa e i miei
ricordi. [...] Io non so che è verità e che è menzogna, né cosa ho visto e
cosa ho solo sognato - o meglio cosa ho sognato e cosa ho solo visto - né
cosa ho saputo né cosa ho creduto.
Naturalmente, il tempo passa ora così come passava prima; però ora si è perso
il significato: qualcosa manca e l'essere umano si scopre incompleto, non
permanente, e chiede alla ragione di recuperare una condizione di certezza. Ma
quella condizione precedente, ora perduta, non era di certezza razionale; era uno
stato di esperienza piena e realizzante dell'intera persona. Pertanto, nella nuova
condizione di dubbio la ragione può rispondere quel che vuole, ma non può
recuperare l'esperienza stessa. Può giustificare o distruggere le speranze e le
aspirazioni, i sentimenti... ma tanto la giustificazione quanto la loro distruzione
dipendono dall'aver perso qualcosa che non era aspirazione, né speranza, né mero
sentimento: era molto di più, era pienezza di vita. Insomma le posizioni in
conflitto - quella sostenuta dalla ragione e quella fondata sul sentimento - sono
entrambe prodotte da una perdita reale: è venuta meno l'esperienza realizzante
dell'amore che si comunica e che, in se stesso, rende piena e permanente la vita.
Unamuno è andato oltre il livello fissato nelle sue opere precedenti, ha
radicalizzato il problema scoprendo la dimensione di un amore che ha senso in se
stesso e comunica senso a tutti, checché possano pensare o non pensare. E questa
esperienza dell'amore, lungi dall'annullare il tempo, lo trascende rendendolo
significante, cioè fa sì che abbia senso spenderlo in un certo modo.
L'amore spinge a operare e si comunica attraverso le opere, nel dono di sé.
Non è egoista né quiescente e travalica le interpretazioni teoriche che lo stesso
amante può darne. È esso stesso comunione. Per questo la gente del paese, non
intellettualizzata, lo sente, lo corrisponde, e non si interessa alle sue motivazioni
razionali: “La gente non s'intende di parole - dice Angela a suo fratello-; la gente
non ha inteso altro che le vostre opere”. E naturalmente, nel contesto dell'opera di
Unamuno, questo amore è l'esperienza vissuta di quel Dio che è amore, anche se
noi, cercandolo con un volto che abbiamo costruito attraverso chissà quali
percorsi, non lo riconosciamo in un'esperienza così intima e personale al tempo
stesso. Eppure, se san Paolo scrive che siamo, viviamo e ci muoviamo in lui, Dio
deve essere talmente immediato a noi da starci sostenendo qui ed ora e sempre.
Ma, direbbe Unamuno, che noi non lo si riconosca è cosa poco importante,
addirittura ininfluente di fronte al fatto che comunque Dio ci sta sostenendo e
il modernismo 467
reggendo per mano. Il problema non è zittire la ragione con una fede
intellettualizzata, né distruggere la fede con una ragione assolutizzata. Piuttosto, e
non sembri blasfemia, è curarsi dell'una e dell'altra, per immergerci in quella
realtà tangibile, concreta, trasfigurante e, in definitiva, deificante, che è l'amore.
Riprendendo la parola in prima persona, al termine del racconto di Angela,
Unamuno dice la sua parola conclusiva sul problema della morte e
dell'immortalità:
So bene che in ciò che si narra in questo racconto non succede niente;
ma spero che sia perché in esso tutto rimane, come rimangono i laghi e le
montagne e le sante anime semplici fissate al di là della fede e della
disperazione, che in loro, sui laghi e le montagne, fuori dalla storia, sul
divino romanzo [=il vangelo] hanno trovato riparo.
Pío Baroja
Pío Baroja nasce nel Paese Basco, a San Sebastián, nel 1872. Frequenta studi
regolari di medicina, giungendo alla laurea, ma esercita la professione di medico
per breve tempo, preferendo dedicarsi in pieno alla sua vocazione letteraria.
Scrittore famoso e di successo, entra nella Real Academia nel 1935. Va in esilio
allo scoppio della guerra civile spagnola, rientrando poi a Madrid nel 1940, dove
ha qualche problema con la censura: non gli viene concesso di pubblicare il
romanzo Miserias de la guerra, né la sua continuazione, A la desbandada,
quest'ultima pubblicata nel 2007. Muore nel 1956 ed è sepolto nel cimitero civile
come ateo, con grande scandalo della Spagna ufficiale, che esercitò forti pressioni
sul nipote Julio Caro Baroja affinché le volontà dello scrittore non fossero
rispettate. La sua bara viene portata a spalla, tra gli altri, da Ernest Hemingway e
Camilo José Cela.
Baroja conosce e frequenta i principali intellettuali e scrittori della sua epoca.
In gioventù, insieme ad Azorín e Maeztu aveva costituito il cosiddetto gruppo "de
los tres", che aveva pubblicato nel 1901 un Manifiesto per un nuovo stato sociale
in Spagna. I tre scrittori, reduci da un'esperienza non entusiasmante nel
socialismo militante, proponevano l'applicazione delle nuove scienze sociali per
risolvere le misere condizioni di vita della maggior parte della popolazione
spagnola: svelare la miseria dei contadini, la diffusione della fame, la
468 il modernismo
Quando mi domandano quali sono le mie idee religiose, dico che sono
agnostico - mi piace essere un po' pedante con i filistei-: ora aggiungerò
che sono anche dogmatofago. Il mio primo movimento in presenza di un
dogma, sia religioso, politico o morale, è trovare il modo di masticarlo e
digerirlo. Il pericolo di questo disordinato appetito di dogmi è sprecare
troppi succhi gastrici e ammalarsi di dispepsia per il resto della vita.
antenato. Ha scritto anche saggi, libri di viaggi, biografie, una raccolta di poesie,
Canciones del suburbio, e sette volumi di Memorias.
Baroja dà un contributo fondamentale alla narrativa degli inizi del secolo, nei
primi dieci anni del quale si assiste a una eccezionale concentrazione di romanzi
di alto livello. Nel 1900 pubblica La casa de Aizgorri. Aventuras, inventos y
mixtificaciones de Silvestre Paradox (1901) ha per protagonista uno stravagante
inventore legato al mondo bohemien, che finirà avventurosamente per diventare
re e preparare riforme di stampo anarchico. Nel testo è presente anche la critica
del colonialismo europeo e l'antipatia di Baroja per la tradizione francese.
Camino de perfección (1902), presenta la storia della crisi del protagonista,
Fernando Ossorio, che attraverso vari viaggi conosce una Spagna torbida e
moralmente disfatta; da qui il suo atteggiamento nichilista, da cui trova una via
d'uscita solo attraverso la riscoperta della natura e di una vita spontanea, opposta
lle menzogne politiche e religiose.
A questo periodo risalgono anche la trilogia della La lucha por la vida: La
Busca (1904) Mala Hierba (1904) e Aurora Roja (1905), e la trilogia de El
pasado: La feria de los discretos (1905), Los últimos románticos (1906), e Las
tragedias grotescas (1907).
El árbol de la ciencia è uno dei suoi romanzi più perfetti e il carattere del
protagonista, Andrés Hurtado, rispecchia in buona misura il carattere dell'autore e
le sue delusioni. Andrés cerca di colmare il senso di solitudine della sua infanzia
vuota con gli studi di medicina, scoprendo la crisi dell'università spagnola, e del
suo sapere; scopre poi il dolore e la malattia dei ricoverati negli ospedali, e la sua
rabbia si dibatte tra una voglia di rivoluzione radicale e un senso di inutilità e di
depressione. Altre sventure personali lo portano a una condizione di angoscia che
esplode dopo la morte di sua moglie Lulú e di suo figlio, portandolo al suicidio.
Il romanzo è straordinario: la caratterizzazione degli ambienti, dei personaggi,
del paesaggio, della Madrid fine secolo ne fanno una delle opere migliori del
periodo. Quasi tutti i temi più abituali in Baroja vi sono concentrati: i conflitti
esistenziali, il tema della lotta per la vita, la mancanza di senso della stessa, il
vuoto delle pratiche religiose, il fallimento del sapere scientifico, la crudeltà, la
rinuncia a vivere sono racchiusi in una storia esemplare (in negativo), nella
descrizione di un mondo che non sembra lasciare alcuna via d'uscita.
Nei romanzi posteriori di Baroja ha molta importanza l’azione: l’accavallarsi
veloce delle situazioni, l’intrigo, l’avventura. L’uomo d’azione, d’altronde, è per
lo scrittore altamente stimabile perché, anche in un mondo che resta privo di
senso, prova a dare alla vita una direzione e a imporle il significato in cui egli
crede.
Antonio Machado
47
La mia infanzia sono i ricordi di un patio di Siviglia, / e un giardino chiaro dove matura
il limone; / la mia gioventù, vent'anni in terra di Castiglia; / la mia storia, alcuni casi che
non voglio ricordare./ Né un seduttore Mañara [licenzioso cavaliere sivigliano del
Seicento], né un Bradomín sono stato.
48 Ho tagliato le vecchie rose del giardino di Ronsard, /ma non amo i trucchi della
cosmetica odierna.
il modernismo 471
In effetti bisogna aspettare il 1924 per una nuova raccolta, Nuevas canciones,
in cui si affacciano inediti interessi filosofici. Il clima letterario è cambiato e,
anche se i giovani poeti dell'avanguardia provano per Machado un profondo
rispetto, il poeta non si sente a suo agio con le nuove estetiche.
Continua a comporre, aggiungendo le sue nuove opere alle varie edizioni di
Poesías completas. Tra queste c'è un Cancionero apócrifo di Abel Martín, poeta
filosofo inventato da Machado. Tra le sue opere in prosa va segnalato il Juan de
Mairena, raccolta di scritti vari ed eterogenei pubblicati a partire dal 1934, e in
gran parte dedicati a temi filosofici.
49 Viandante, le tue orme / sono il cammino, e nient'altro; / viandante, non c'è cammino: /
della vita di questa regione rurale e marinara. Certamente si tratta di temi letterari,
ma è anche vero che il mondo sociale da essi evocato non è costruito
immaginativamente e nostalgicamente dallo scrittore, ma è un mondo
effettivamente esistente, concreto e presente: da un certo punto di vista, la Galizia
rappresenta una cultura tradizionale effettivamente esistente e contrapposta alla
modernità borghese dominante. In vario modo, la Galizia patriarcale, popolare,
con le sue leggende, con la sua anima sognante e (secondo l'interpretazione
diffusa) celtica, rappresenta un complemento reale degli estetismi simbolisti.
In questi anni iniziali del secolo, comunque, il vertice della produzione
letteraria di Valle è rappresentato dalle quattro Sonatas: Sonata de otoño (1902),
Sonata de estío (1903), Sonata de primavera (1904) e Sonata de invierno (1905).
Esse costituiscono, nel loro insieme, le memorie di un immaginario Marchese di
Bradomín, raffinato ed elegante decadente, esteticamente amorale.
Bradomín è definito da Valle come un don Giovanni feo, sentimental y
católico, brutto, sentimentale e cattolico. La sua relazione, e le differenze, con il
don Juan della tradizione letteraria spagnola sono evidenti. Bradomín rappresenta
una vita in cui il bello è il fondamento dell'esistenza. Nell'epoca in cui
l'aristocrazia non ha più un ruolo politico (o se lo ha vuol dire che si è
imborghesita nell'animo), Bradomín trova la sua giustificazione (la sua personale,
non quella di una classe) nel gesto bello, cioè non utilitario, elegante e non
pragmatico, dispendioso e non produttivo di utili. Segue la bellezza, che in sé non
ha alcuna caratterizzazione morale: è bello anche il peccaminoso, in epoca
decadente. Ciò lo differenzia da don Juan Tenorio che non ha senso morale. Il
cattolico Bradomín ha il senso del peccato, ma non si spaventa di fronte alla sua
bellezza, mentre don Juan, che il senso del peccato non ce l'ha, si mostra
quantomeno superficiale: un esteta incompleto, che imbroglia come un volgare
cialtrone, e non si oppone alla morale - si limita a pensare che ha tempo
sufficiente per pentirsi delle sue malefatte. Al don Juan Tenorio di Tirso de
Molina (altro discorso va fatto per la versione di Molière o di Mozart) manca
esattamente la dimensione estetica. Invece è proprio in essa che si colloca la sfida
di Bradomín al senso borghese della vita, al suo moralismo (più che morale): la
sua proclamazione del gusto fine a se stesso, in un'epoca che non ha più gusto,
diventa provocatoria. Il tutto, infine, è collocato nel passato: Bradomín scrive le
sue memorie, quindi descrive un'epoca rimpianta nostalgicamente, e non un
presente possibile.
Le Sonatas sono tra le migliori opere della letteratura spagnola
contemporanea: capolavoro di raffinatezza e di stile, rappresentano la più perfetta
creazione di un mondo decadente e aristocratico all’interno della produzione
modernista.
L'ambiente galego torna nel ciclo successivo delle Comedias bárbaras: Águila
de blasón (1907), Romance de lobos (1908) e, più tardi, Cara de plata (1922).
Sono testi che descrivono un clima diverso, realista, con personaggi strani,
violenti, tarati, che si muovono in un clima di miseria attorno a don Juan de
Montenegro, nobile dai tratti tirannici, che rappresenta una figura eroica in un
mondo in piena decomposizione. Il linguaggio, giovandosi anche della forma
teatrale, diventa più forte e si adegua a personaggi e situazioni. Si tratta di testi
474 il modernismo
molto originali, tanto che si è discusso sulla loro effettiva rappresentabilità, che
sembrano chiudere un ciclo: è come se si prendesse atto dell'impossibilità di
assumere la tradizione galega come alternativa alla modernità borghese, per il
fatto, incontestabile, che questa tradizione è ormai in fase di disgregazione e sta
vivendo i suoi ultimi giorni; è un mondo residuale, dove il passato implode e il
futuro manca. Non era così pochi decenni prima, ai tempi della guerra carlista,
descritta da Valle in una trilogia di romanzi comprendente Los cruzados de la
causa, El resplandor de la hoguera, Gerifaltes de antaño (1908-09). Valle
evidenzia il contrasto tra l'eroismo romantico dei guerriglieri carlisti e la brutalità
della guerra.
Negli anni che precedono il 1920, Valle pubblica altre opere, tra cui farse e
drammi come La cabeza del dragón, Cuento de abril, Voces de gesta, La
marquesa Rosalinda, El embrujado, e i suoi tre libri di poesie: Aromas de
leyenda, del 1907, pienamente inserito nell'estetica modernista, La pipa de kif, del
1919, una delle poche ammissioni nella letteratura spagnola dell'uso di
stupefacenti e del ricorso a paradisi artificiali; e El pasajero, del 1920.
Il teatro spagnolo, negli anni in cui Valle produce la sua opera drammatica,
era ancora legato alle forme della commedia borghese. Il modernismo, se si
eccettua Barcellona, aveva prodotto solo un teatro poetico, che cercava i suoi
temi nelle leggende o nella storia remota (Francisco Villaespesa), o aveva visto i
tentativi di rinnovamento di autori come Unamuno o Azorín, interessanti ma non
risolutivi. Jacinto Benavente Martínez (1866-1954), Premio Nobel nel 1922,
abbraccia ogni genere teatrale, con una vastissima galleria di personaggi di ogni
ceto sociale e descrizioni di tipo realista e costumbrista. Tra le sue opere
principali: La noche del sábado (1903), El dragón del fuego (1903) e Los
intereses creados (1907), forse il suo testo più originale. Autori di grande
successo di pubblico sono all'epoca Serafín Álvarez Quintero (1871-1938), e il
fratello Joaquín (1873-1944), con un teatro comico di tipo borghese,
tranquillizzante e privo di conflitti drammatici.
In questo contesto teatrale irrompe, si può dire, l'innovazione di Valle-Inclán.
Il 1920 è un anno di capitale importanza, per il rinnovamento completo dello stile
e della tematica di don Ramón. Pubblica in questo anno quattro opere teatrali:
Farsa italiana de la enamorada del rey, Farsa y licencia de la reina castiza,
Divinas palabras, e Luces de bohemia. Con la prima scopriamo un Valle-Inclán
che mette alla berlina i suoi personaggi con una caricatura pungente, che li
trasforma in maschere grottesche. Questo tono procede nella seconda, che è uno
spietato ritratto della corte isabellina. Diversa nel tono, ma altrettanto spietata
nella descrizione di un mondo sordido è la terza, certamente una delle opere più
riuscite di Valle-Inclán. Divinas palabras, ancora un testo ambientato in Galizia,
è la storia di un nano esibito nei paesi come spettacolo dai suoi parenti, scritta con
una stupefacente coesistenza di estetica modernista e ricorso al grottesco.
Ciò che unisce le tre commedie citate è un tipo di deformazione sistematica e
cosciente che Valle-Inclán teorizza nella quarta, Luces de bohemia, dandole il
nome di esperpento. Questo termine indica nel linguaggio normale una persona o
una cosa stravagante e assurda; in Valle-Inclán diventa una sistematica
il modernismo 475
Luces de bohemia poté essere rappresentata in Spagna solo nel 1969, dopo
che era diventato un successo mondiale il suo allestimento a Parigi nel 1963. Si
scoprì allora la potenza del teatro di Valle-Inclán, che aveva anticipato di decenni
molte concezioni attuali dello spettacolo teatrale.
Azorín
distanza dal tipo di teatro borghese imperante all'epoca. Azorín era tuttavia molto
legato all'attività teatrale: è interessato alla relazione tra teatro e cinema, alla
drammatizzazione di conflitti inconsci, a un'azione rapida, tenue e contraddittoria,
adeguata ai ritmi della vita contemporanea e, in conclusione, a un teatro di respiro
europeo, che la società spagnola del tempo, nella sua arretratezza, non era
preparata ad apprezzare, così come avviene per le opere di Unamuno e Valle-
Inclán.
Felipe Trigo
iniziata in modo legale con una vittoria elettorale, viene fatta cessare illegalmente
con il colpo di stato del 18 luglio del '36, che scatena la guerra civile durata fino
al '39. La vittoria delle forze reazionarie apre l'era di Franco (1939-1975), la cui
pesante dittatura vedrà qualche timida apertura solo negli anni Cinquanta. Negli
Anni Sessanta, anche per gestire una crescente opposizione sia interna che
internazionale, il regime avvia una politica di sviluppo industriale che comporta,
di fatto e per la prima volta, l'europeizzazione della Spagna. Alla morte di Franco
la società spagnola è molto più integrata con l'Europa di quanto non lo fossero le
strutture del regime, e realizza in pochi anni una stupefacente e rapidissima
transizione pacifica dalla dittatura alla democrazia.
Questa integrazione politica e sociale con l'Europa aveva avuto un precedente
(e forse una delle sue cause) nell'integrazione culturale che si realizza (o, per
meglio dire, si perfeziona) nei primi decenni del Novecento, subito dopo il
periodo modernista. Da un certo punto di vista il modernismo rappresenta l'inizio
di un processo che, pur avendo varie fasi e venendo identificato con varie
etichette, resta sostanzialmente unitario. La critica ha individuato tre nuclei di
questo processo, indicandoli con i nomi di Novecentismo, Vanguardia e
Generazione del 27: si tratta certamente di fenomeni che compaiono in
successione, ma, dato il ristretto numero di anni in cui operano, in larga misura si
sovrappongono e si influenzano a vicenda, risultando quasi come prospettive
complementari. Bisogna anche tenere presente che nel periodo che va dal 1898 al
1936 sono ancora attivi, e rappresentano importanti punti di riferimento, autori
della generazione precedente come Unamuno, Machado o Valle-Inclán. Pertanto,
nel definire schematicamente le caratteristiche di ogni prospettiva, bisogna tenere
presente che ciascuna di esse interagisce con le altre e non occupa mai totalmente
il primo piano della scena letteraria, artistica e filosofica spagnola. Per esempio, il
maggior esponente del novecentismo, Ortega y Gasset, è in costante dialogo,
anche polemico, con Unamuno ed è, al tempo stesso, il miglior teorizzatore
dell'estetica delle avanguardie.
Il novecentismo
Nei manuali il novecentismo viene indicato spesso come generazione del '14,
seguendo ancora una volta un'indicazione di Azorín, che ne vedeva le
caratteristiche in una maggiore preoccupazione per il metodo, il rigore scientifico
e il sapere accademico. Questo aspetto è indubbiamente presente, ma non si può
definire esclusivo. Di novecentismo si parlava già nel 1906: in Catalogna
Eugenio D'Ors designava come noucentisme le tendenze artistiche che si
allontanavano da quelle ottocentesche, e intorno a questa data il giovane Ortega
esprimeva la sua esigenza di un sapere più rigoroso di quello abituale negli
intellettuali della generazione precedente. In uno scritto del 1908, Algunas notas,
dice:
novecentismo e avanguardia 481
Esigere un sistema, come faccio io, non ha niente a che vedere con lo
scolasticismo della Sorbona [...] In ogni istante è necessario che la verità
del mondo sia un sistema o, in altri termini, che il mondo sia un cosmos o
universo. Sistema è unificazione dei problemi.
Inoltre, negli anni Dieci Ortega teorizza uno dei punti chiave del
novecentismo: il superamento della modernità. Ortega non arriva mai a una
posizione antimoderna, nel senso reazionario o del tradizionalismo ideologico;
tuttavia non risparmia critiche alla modernità. Semplicemente, la ritiene esaurita e
pensa a un'epoca nuova che ne corregga gli errori, conservandone gli aspetti
positivi. Un breve articolo di Ortega, che è quasi un manifesto o una divisa
intellettuale, s'intitola Nada moderno y muy siglo XX: "niente affatto moderno e
molto XX secolo". In questo articolo, il superamento della modernità, e
soprattutto della sua fase culminante, l'Ottocento, è visto come conditio sine qua
non per la sopravvivenza della cultura: “Non si può dubitare che il nostro futuro
si radichi nel superare la condotta di questo secolo [XIX]”. La modernità, pur con
tutti i suoi meriti storici, è ormai diventata una superstizione: "Ci si rifletta un
poco: come tollererà un secolo che ha chiamato se stesso moderno il tentativo di
sostituire le sue idee con altre, e di conseguenza di dichiararle antiquate, non
moderne? Io spero che un giorno sembrerà un'insolenza questa audacia di
un'epoca che ha chiamato se stessa moderna".
Modernità significa qui la cultura e la società borghese dell'Ottocento, rispetto
alla quale si vuole di andare oltre. Questa posizione di Ortega si collega a due
altre proposte: la prima è la necessità di integrare la Spagna nella cultura europea,
contemporanea, i cui valori sono diversi da quelli del positiismo ottocentesco e
dal razionalismo: la seconda è la già vista necessità di sistema e rigore culturale.
Si può notare, su questo tema, la distanza tra Ortega e Unamuno. Per Unamuno,
almeno in una fase del suo pensiero e in presenza di molte contraddizioni, spesso
volutamente formulate, Europa è sinonimo di modernità, e dunque di tutti i valori
antitradizionali che considera estranei alla tradizione spagnola; per Ortega,
invece, la modernità si avvia alla fine, le sue idee sono state in larga misura
superate e si sente, quantomeno, l'esigenza di cambiare pagina: Ortega vede nella
cultura europea un orizzonte che potremmo chiamare post-moderno, e che non è
ideologicamente e pregiudizialmente ostile alla cultura tradizionale spagnola.
Ortega afferma che l'Europa, prima di essere progresso, organizzazione tecnica,
efficientismo e commercio, è soprattutto scienza, cioè rigore e disciplina
intellettuali, un modo di affrontare i problemi. Per Unamuno, invece, l'Europa si
identificava con alcune soluzioni date ai problemi; da qui l'evidente differenza di
prospettive: uno potrebbe essere spagnolo, fedele alla sua cultura, alle sue
risposte, e tuttavia esserlo in modo rigoroso, rinunciando all'improvvisazione
482 novecentismo e avanguardia
Francisco Ayala
Gabriel Miró
vivono il forte conflitto tra le loro tendenze naturali e il sistema sociale repressivo
e l'oscurantismo religioso che li domina.
Dal punto di vista formale, Miró ha uno stile molto poetico: la sua prosa
ricorre al frammentarismo, alla scomposizione della narrazione in scene non
ordinate cronologicamente, ma legate al filo della riflessione o della
rimembranza. È lontano dall’intellettualismo e dall’arte disumanizzato
dell’avanguardia, e la sua scrittura sembra orientata alla creazione di una prosa
poetica, anche se Miró non ha mai scritto versi. La sua posizione nel quadro della
letteratura del Novecento ha pochi paralleli: Miró è un autore originale, non
classificabile in scuole o tendenze letterarie. Si è detto che nessuno meglio di lui
ha saputo esprimere con esattezza le sensazioni, i colori, i profumi delle cose.
José Bergamín
ricorda abitualmente che in Teoría del zumbel, del 1930, impiega otto pagine per
descrivere un incidente automobilistico.
Jarnés fa uso di una grande libertà compositiva, mescola versi e prosa e tratta
una grande varietà di temi, generalmente legati alle sue preoccupazioni. La sua
formazione è umanista e difende la modernità, soprattutto nei suoi valori ideali di
libertà e accettazione dell'altro. Anche nella sua filosofia di vita è profondamente
influenzato dal pensiero di Ortega e collabora assiduamente con la Revista de
Occidente.
Concha Espina
raccolte di racconti, tra cui Icada, Nevda, Diada (1971), pubblica le raccolte
poetiche A la orilla de un pozo (1936), Versos prohibidos (1978) e Poesía (1931-
1991) (1992).
Ancora occorre ricordare, tra gli intellettuali del novecentismo: Manuel Azaña
Díaz (1880-1940), scrittore e uomo politico, ultimo presidente della Repubblica
Spagnola, autore, tra l’altro, di La velada en Benicarló, che tratta della guerra
civile e degli Anni Trenta in Spagna.
La poesia novecentista:
Juan Ramón Jiménez
La prima fase della sua attività poetica ha una marcata influenza modernista e
vi predominano il sentimentalismo, la proiezione degli stati d’animo nel
paesaggio (un paesaggio romantico, che riflette l’anima del poeta, e non un
paesaggio reale, conosciuto camminando, come quello di Machado), la musicalità
e i temi del ricordo, del sogno, della malinconia, la ricerca della perfezione
formale. Tra le raccolte di questa fase spiccano: Rimas (1902), che inaugura una
scrittura votata alla massima semplicità e all’espressione della sua malinconia,
Arias tristes (1903), Jardines lejanos (1904). In queste raccolte al tema della pena
e della malinconia si aggiunge la sofferenza per un amore perennemente
insoddisfatto; la descrizione della realtà cede spazio al sogno e alle visioni che si
mescolano con essa. Carattere più modernista e barocco hanno altre raccolte
dell’epoca: Elegías (1907), La Soledad Sonora (1911), Pastorales (1911),
Laberinto (1913). Appartiene a quest’epoca la sua opera più famosa, Platero y yo
(1914), scritta in una prosa poetica considerata tra le sue migliori pagine.
In coincidenza con il viaggio in America, nuovi temi si introducono nella
poesia di Juan Ramón Jiménez, che si allontana progressivamente dal
modernismo. Emergono ora in primo piano ambienti più reali, senza sogni o
evocazioni, e il linguaggio si fa più asciutto ed essenziale. A partire da Estío
(1916) e Diario de un poeta recién casado (1916) si assiste a una vera
purificazione da tutti gli elementi caratteristici del modernismo. Tra le opere
pubblicate in questa seconda fase: Primera antología poética (1917), Eternidades
(1918), Poesía (1917-23), Belleza (1917-23). Con questa nuova dimensione
assunta dalla sua poesia Juan Ramón sperimenta un uso del linguaggio che verrà
poco dopo ripreso dai poeti della generazione del 27. La sua estetica viene
esposta esplicitamente in Piedra y cielo (1919) in cui teorizza la poesia come
oggetto artistico creato dal poeta che, come un dio, è autore di un universo nuovo.
La fase successiva comprende tutta la sua produzione poetica nell’esilio, a
partire dal 1936: Animal de fondo (1949), Tercera antología poética (1957), En el
otro costado (1936-42) y Dios deseado y deseante (1948-49).
Al di là delle differenti fasi della sua poesia, Juan Ramón crede fermamente
nella bellezza e nella creazione poetica come cammino per raggiungerla. Da qui
una poesia che non si adatta alle circostanze e non tiene conto del momento
storico in cui vive il poeta, ma che anzi chiede a costui di abbandonare il suo
tempo e penetrare nel mistero:
L'avanguardia in Spagna
Ancora, in un manifesto del ’21, che ha tra i firmatari Jorge Luis Borges:
Las tinieblas floridas (1927) e Los amores de Agliberto y Celedonia, nel quale
difende modelli femminili autonomi e vitalisti.
Muore a Buenos Aires, quasi completamente cieco. Tra le sue ultime opere:
Minorías y masas en la cultura y el arte contemporáneo (1963), Al pie de las
letras (1967), La metamorfosis de Proteo (1967).
La generazione del 27
García Lorca
El campo
de olivos
se abre y se cierra
como un abanico.
L’immagine del lampo nella notte, che per un istante illumina l’oliveto, è resa
attraverso il gesto nervoso di un ventaglio che si apre, lascia intravedere il suo
disegno, e poi viene chiuso di scatto. Segue un’atmosfera notturna e piovosa, che
a ben vedere fa ricorso ad elementi naturali, come la pioggia, il cielo scuro, gli
uccelli, e tuttavia incarna un sentimento, una pena che non appartiene al
paesaggio, ma agli uomini:
Los olivos
están cargados
de gritos.
Una bandada
de pájaros cautivos,
que mueven sus larguísimas
colas en lo sombrío.
Empieza el llanto
de la guitarra.
Se rompen las copas
de la madrugada.
Empieza el llanto
de la guitarra.
Es inútil callarla.
Es imposible
callarla.
(...)
¡Oh, guitarra!
Corazón malherido
por cinco espadas.
La elipse de un grito,
va de monte
a monte.
Desde los olivos,
será un arco iris negro
sobre la noche azul.
¡Ay! (...)
Tierra de 1uz,
cielo de tierra.
Lorca evoca il cante jondo e il tema gitano senza fare del folclorismo e senza
perdersi nel pittoresco. Al contrario, vede in questa antica forma d'arte la
presenza di una cultura vecchia e misteriosa che rivendica i suoi diritti. In una
conferenza dedicata appunto al Cante jondo, primitivo canto andaluz, scrive:
Lorca ha protestato contro chi lo considerava una sorta di poeta del folclore,
dichiarando che per lui il tema gitano era un tema letterario e niente di più.
Naturalmente si può aggiungere: niente di meno. Un tema letterario significa
ricostruire in forma moderna una vera e propria mitologia centrata sulla figura di
un emarginato molto particolare: non un bohemien o un disadattato individuale,
ma un intero popolo, una cultura completa, coi suoi pregi e i suoi difetti, una
tradizione, insomma, che merita pieno diritto di cittadinanza dentro l'idea di
Spagna.
Con Poeta en Nueva York Lorca traduce letterariamente l'impressione violenta
ricevuta dalla vita americana, dal suo ritmo disumano, dal capitalismo nichilista,
dalla violenza delle differenze sociali, ed esprime tutto questo attraverso una
poesia surrealista, come se nessun altro linguaggio fosse adeguato a una realtà
che in sé gli sembra surreale, e ancora una volta simpatizza con le culture
emarginate, con le tradizioni culturali che conservano la dignità della persona,
come quella dei neri americani o il mondo più solare dell'america latina.
Altrettanto importante, come si diceva, sono le opere teatrali, nelle quali
Lorca dimostra una straordinaria maturità di scrittore e una grande capacità di
innovazione. Il poeta considera il teatro uno strumento fondamentale per la
crescita di un paese, “una tribuna libera che può mettere in evidenza morali
vecchie o equivocate e spiegare con esempi vivi le norme eterne del cuore e del
sentimento umano”: si può vedere in questo programma non solo l’aspirazione a
un teatro di qualità, libero dai condizionamenti della censura e dalla volgarità
commerciale, ma anche la ragione delle opere più importanti di Lorca stesso.
502 novecentismo e avanguardia
Jorge Guillén
Temi molto diversi si trovano invece nel suo libro successivo, Clamor, scritto
dopo l’esperienza della guerra civile. Qui il poeta abbandona l’universo
immaginario e prende contatto con le contraddizioni della storia e della vita reale:
la guerra, la morte, la sofferenza, che ostacolano il desiderio di vivere.
novecentismo e avanguardia 503
Nel 1967 pubblica Homenaje, che contiene omaggi letterari. Seguono Y otros
poemas (1973) e Final (1982). Guillén cerca una poesia essenziale, eliminando
tutto ciò che è aneddotico, narrativo, prosaico, ed elabora un linguaggio
personale, volto a comprendere attraverso l’arte l’unità del reale: del mondo
visibile dell’esperienza e del mondo invisibile della metafisica.
Luis Cernuda
Pedro Salinas
Rafael Alberti
en tierra, La amante (1926) e El alba del alhelí (1927). In queste opere riesce a
sintetizzare l’estetica dell’avanguardia, soprattutto per quanto riguarda la
costruzione dell’immagine, con lo spirito più autentico della poesia popolare e dei
canzonieri del medioevo e del rinascimento. La raccolta successiva, Cal y canto
(risalente al 1926-1927) si muove nella scia della poesia gongorina e mostra
l’evoluzione verso una poesia dai toni meno luminosi e solari. Questa tendenza
prende il sopravvento in Sobre los ángeles (risalente al 1927-1928), che adotta
un’estetica surrealista come strumento per esprimere una profonda crisi personale
del poeta. Le immagini si fanno più dense e il classicismo delle opere precedenti
cede il posto a un mondo onirico e cupo. Questa atmosfera si ritrova anche nella
raccolta successiva, Sermones y moradas, risalente al 1929-1930, e infine si
stempera nell’umorismo sarcastico e surreale di Yo era un tonto y lo que he visto
me ha hecho dos tontos (1929).
Successivamente la poesia di Alberti adotta toni più politici, a partire da Con
los zapatos puestos tengo que morir (1930). Questa tendenza si rafforza con
l’avvento della Repubblica, l’anno successivo, e con il progressivo deteriorarsi
della situazione: Consignas (1933), Un fantasma recorre Europa (1933), 13
bandas y 48 estrellas (1936), Nuestra diaria palabra (1936) e De un momento a
otro (1937), testi che costituiscono un ciclo raccolto da Alberti sotto il titolo
generale di El poeta en la calle (1938). In questo ciclo Alberti si mette
completamente al servizio della causa repubblicana e partecipa alla guerra in
prima persona.
Recatosi in esilio dopo la fine della guerra, continua a scrivere poesie di tema
politico e civile - Entre el clavel y la espada (1941) - ma si apre anche ad altri
temi, recuperando lo stile neopopolare delle origini, la nostalgia, l’amore:
Retornos de lo vivo lejano (1952), Oda marítima (1953), Abierto a todas horas
(1964), Roma, peligro para caminantes (1968), Canciones para Altair (1988).
Alberti ha scritto anche vari testi teatrali: El hombre deshabitado (1930),
Fermín Galán (1931), De un momento a otro (1938-39), El trébol florido (1940),
El adefesio (1944), La Gallarda (1944-45) e Noche de guerra en el Museo del
Prado (1956).
Vicente Aleixandre
L’esperienza della guerra si riflette nei suoi versi: compaiono temi sociali e la
compassione per la sofferenza umana, espressa in uno stile più accessibile:
Historia del corazón e En un vasto dominio. Solo col tempo, rimarginate le ferite
morali, la sua poesia torna all’irrazionalismo giovanile, esaltato di contro alla
vecchiaia incipiente: Poemas de la consumación, Sonido de la guerra e Diálogos
del conocimiento.
Dámaso Alonso
Gerardo Diego
León Felipe
Miguel Hernández
Miguel Mihura Santos (1905-1977) autore di teatro, scrive nel 1932 Tres
sombreros de copa, considerata oggi un capolavoro del teatro comico spagnolo.
Interessato ai temi della libertà e dell’anticonformismo - ¡Sublime decisión!
(1955), Mi adorado don Juan (1956) y La bella Dorotea (1963) - Mihura è autore
di testi che ancora oggi vengono rappresentati, come El caso de la señora
estupenda (1953), A media luz los tres, Ni pobre ni rico, sino todo lo contrario
(1943), A media luz los tres (1953), Melocotón en almíbar (1958), Maribel y la
extraña familia (1959), La bella Dorotea (1963), Ninette y un señor de Murcia
(1964) e La decente (1968).
Dal dopoguerra all’attualità
Emilio Prados
Gabriel Celaya
La sua poetica, che influenza molti scrittori di ispirazione sociale, consiste nel
trattare le occupazioni e i problemi quotidiani ed è opposta all'idea avanguardista
dell'arte disumanizzata: "Nada de lo humano debe quedar fuera de nuestra obra".
In questa ottica viene rifiutata la poesia pura, perché si considera la creazione
poetica come uno strumento, non come un fine, che contribuisce a trasformare il
mondo. Carattere sperimentale hanno le poesie di Campos semánticos (1971).
José Hierro
José Hierro del Real (1922-2002), poeta, incarcerato per cinque anni dopo la
guerra civile, con l’accusa di far parte di un’organizzazione di assistenza a
prigionieri politici, esce da questa esperienza con un senso di profondo
scoramento e sradicamento, evidente nei due libri che pubblica quasi
simultaneamente appena fuori di prigione: Tierra sin nosotros (1947) e Alegría
(1947). Successivamente mette in versi una storia d’amore dall’esito infelice, Con
las piedras, con el viento (1950), quindi si orienta verso una poesia antirealista
con Quinta del 42 (1953), Cuanto sé de mí (1957), e soprattutto Libro de las
alucinaciones (1964) in cui trionfa l’irrazionalismo insieme alla distruzione di
ogni relazione cronologica o spaziale tra gli oggetti. Tra le sue ultime opere,
Agenda (1991), Emblemas neurorradiológicos (1995) e Cuaderno de Nueva
York.
Blas de Otero (1916-1979) è uno dei più importanti autori di poesia sociale
negli Anni Cinquanta. Di formazione cattolica, la sua vita cambia a seguito di una
grave crisi esistenziale e depressiva, nella quale compone le prime opere che lo
rendono famoso: Ángel fieramente humano, Redoble de conciencia e Ancia,
anche se gli creano qualche ostilità negli ambienti cattolici. Dalla crisi esce con
una posizione esistenzialista, alla ricerca di un dialogo con Dio, che in realtà
finisce col rafforzare la sua solitudine. Contemporaneamente si apre a temi sociali
e aspira a sentirsi parte di una comunità, un “noi”. Insofferente per le condizioni
della Spagna, si trasferisce in Francia dove aderisce al Partito Comunista. Poeta
ormai famoso e considerato tra i maggiori del suo tempo, torna in Spagna e vive
di lavori umili, spostandosi da un paese all’altro della Castiglia. Da questa
esperienza nascono Pido la paz y la palabra (già iniziato a Parigi) e En
castellano, che la censura gli impedisce di pubblicare. Fuori dalla Spagna, sempre
per gli ostacoli della censura, pubblica Esto no es un libro (1963) e Que trata de
España (1964).
Los Novísimos
Nel 1970 il critico José María Castellet pubblica un'antologia dei poeti più
innovativi degli anni precedenti, col titolo Nueve novísimos poetas españoles.
Con questa antologia nasce un gruppo poetico che annovera Manuel Vázquez
Montalbán, Antonio Martínez Sarrión, José María Álvarez, Félix de Azúa, Pere
Gimferrer, Vicente Molina Foix, Guillermo Carnero, Ana María Moix e
Leopoldo María Panero. La scrittura del gruppo mostra una completa libertà
formale, il ricorso a tecniche come il collage o la scrittura automatica,
l'introduzione di elementi esotici o artificiosi, l'attenzione ai mezzi di
comunicazione di massa e alla cultura pop: musica, cinema, fumetti, influenza di
Andy Warhol.
La formazione culturale dei novísimos si basa soprattutto su opere ed autori
stranieri come Ezra Pound, Eliot, Cafavis, i surrealisti francesi; il loro carattere
cosmopolita li porta a disinteressarsi di buona parte della tradizione letteraria
spagnola, con le eccezioni di Aleixandre, Cernuda e pochi altri, tra cui i poeti
maledetti come Octavio Paz, Oliverio Girondo, José Lezama Lima.
Il romanzo:
Camilo José Cela
Miguel Delibes
Juan Marsé
Juan Faneca Roca (Juan Marsé, dal cognome dei genitori adottivi dopo la
morte di parto della madre naturale, 1933), romanziere catalano, pubblica nel
1962 Esta cara de la luna, opera che ha ripudiato ed espunto dalle sue opere
complete. Nel 1970 appare il romanzo che lo rende famoso, La oscura historia de
la prima Montse, cui fanno seguito altre grandi opere: El amante bilingüe, El
embrujo de Shangai, Últimas tardes con Teresa, Si te dicen que caí, La
muchacha de las bragas de oro..., in varie occasioni adattate per il cinema. Le
opere di Marsé sono legate a Barcellona, o meglio al suo quartiere natale del
Guinardó e trattano fatti del dopoguerra o della dittatura.
Elena Soriano
Álvaro Pombo García de los Ríos (1939), poeta e romanziere molto originale,
autore delle raccolte di poesia Protocolos (1973) e Variaciones (1977). Dello
stesso anno la raccolta di racconti Relatos sobre la falta de substancia, con un
gruppo di storie a tema omosessuale. In El parecido (1979) affronta il tema del
doppio, dell’ambiguità, di un’omosessualità latente e sognata. Nel 1983 pubblica
El héroe de las mansardas de Mansard, primo di una serie di opere apprezzate e
premiate, singolare romanzo di formazione al contrario, cioè orientato alla
malizia e alla vita galante. La sua opera più apprezzata è El metro de platino
iridiado (1990), in cui difende la necessità dell'etica e del bene.
518 dopoguerra e attualitò
Teatro
La transizione e l'attualità
Tra gli scrittori più importanti di questo periodo si possono citare: Antonio
Martínez Sarrión, 1939. Figura nell'antologia di José María Castellet Nueve
novísimos poetas españoles. Personaggio ribelle, ammiratore della letteratura beat
e della cultura ad essa collegata, ne introduce lo stile in Spagna, senza discostarsi
da un sostrato surrealista che è la sua caratteristica più originale. Tra le sue opere:
Teatro de operaciones, 1967, Pautas para conjurados, 1970, Una tromba mortal
para los balleneros, El centro inaccesible. Poesía 1967-1980, Horizonte desde la
rada, Sequías, De acedía, Ejercicio sobre Rilke, Cantil, Poeta en diwan, ...
Carmen Conde Abellán (1907-1996) prima donna ammessa nella Real
Academia Española, nel 1979, poetessa autrice di raccolte come: Brocal, Júbilos,
con introduzione di Gabriela Mistral e illustrazioni di Norah Borges, Pasión del
verbo, Ansia de la Gracia, Signo de amor, Mujer sin Edén, La noche oscura del
cuerpo, Soy la madre, Canciones de nana y desvelo.
Félix de Azúa 1944, presente nell'antologia dei novísimos, autore di una
poesia fredda ed ermetica, legata ai temi del vuoto e del nulla. Tra le sue raccolte:
Cepo para nutria (1968), El velo en el rostro de Agamenón (1966-1969), Edgar
en Stéphane (1971), Lengua de cal (1972), Pasar y siete canciones (1977), Farra
(Madrid, Hiperión, 1983).
Tra i suoi romanzi: Las lecciones de Jena (1972), Las lecciones suspendidas
(1978), Mansura (1984), Historia de un idiota contada por él mismo (1986),
522 dopoguerra e attualitò
Eduardo Mendoza
Eduardo Mendoza 1943, pubblica nel 1975 il suo primo romanzo, con cui si
inaugura la nuova corrente di narrativa poliziesca centrata sull'analisi sociale: La
verdad sobre el caso Savolta, opera che segna una svolta nella narrativa
contemporanea, e che porta per la prima volta sulla scrittura la descrizione della
Spagna alla fine della lunga dittatura (Franco sarebbe morto poco dopo la
pubblicazione del romanzo)
Pubblica poi, nel 1982, El laberinto de las aceitunas, secondo romanzo
poliziesco, caratterizzato da elementi parodici, e infine La aventura del tocador
de señoras, nel 2001. Fuori dal romanzo giallo, una delle sue opere più
apprezzate è La ciudad de los prodigios (1986), che descrive la trasformazione di
Barcellona tra le due esposizioni universali del 1888 e del 1929. Tra le altre sue
opere: Sin noticias de Gurb (1990) e El último trayecto de Horacio Dos (2001).
Tra i suoi saggi: Baroja, la contradicción, e Barcelona modernista.
dopoguerra e attualità 523
(1979), Los helechos arborescentes (1980), La bestia rosa (1981), Los ángeles
custodios (1981), Las ánimas del purgatorio (1982), Trilogía de Madrid (1984),
Pío XII, la escolta mora y un general sin un ojo (1985), Nada en el domingo
(1988), El día en que violé a Alma Mahler (1988), Leyenda del César Visionario
(premio de la Crítica, 1992), La forja de un ladrón (1997), Historias de amor y
Viagra (1998), Madrid, tribu urbana (2000) o Los alucinados (2001).
Ignacio Aldecoa (1925-1969), esordisce come poeta con Todavía la vida,
1947, e Libro de las algas, 1949. Nel 1954 pubblica il suo primo romanzo, El
fulgor y la sangre. Sono molto apprezzati i suoi racconti, raccolti Espera de
tercera clase, Vísperas del silencio, El corazón y otros frutos amargos. Tra gli
altri romanzi: El fulgor y la sangre, Gran Sol, Con el viento solano.
Javier Marías (1951) inizia a pubblicare molto giovane i suoi romanzi: Los
dominios del lobo è del 1970, cui fa seguito nel 1972 Travesía del horizonte. Tra
le altre opere: El monarca del tiempo, del 1978, El siglo, del 1983, El hombre
sentimental (1986), Todas las almas (1988), Corazón tan blanco (1992), Mañana
en la batalla piensa en mí (1994: questi ultimi due titoli sono tratti da versi di
Shakespeare), Negra espalda del tiempo (1998), dove si racconta la storia del
finto regno di Redonda, di cui Marías è attualmente re; Tu rostro mañana (2002).
Marías è stato oggetto di una singolare critica: lo si è accusato di scrivere con
uno stile che si allontana dalla tradizione narrativa spagnola: visti i risultati, è
bene che lo faccia e continui a farlo.
Lucía Etxebarria Asteinza (1966), personaggio controverso e trasgressivo,
esordisce con una biografia di Courtney Love e Kurt Cobain, il cantante suicida
dei Nirvana: La historia de Kurt y Courtney: aguanta esto (1996, poi nel 2004 col
titolo Courtney y yo). Seguono due romanzi di successo: Amor, curiosidad,
prozac y dudas (1997) e Beatriz y los cuerpos celestes (1998). Il loro contenuto è
in parte autobiografico, in parte una descrizione della sua generazione, con toni
marcatamente femministi. L’anno dopo pubblica Nosotras que no somos como
las demás. Scrive inoltre varie sceneggiature e una interessante raccolta di saggi
di ispirazione femminista, La Eva futura. La letra futura (2000).
Altri romanzi sono: De todo lo visible y lo invisible (2001), Un milagro en
equilibrio e Actos de amor y placer (2004), Ya no sufro por amor (2005). Risale
al 2003 una raccolta di racconti, Una historia de amor como otra cualquiera, e al
2001 una raccolta di poesie, Estación de infierno (2001), che le vale l’accusa di
plagio del poeta Antonio Colinas.
Javier Cercas (1962), scrittore catalano, esordisce con El móvil (1987) e
pubblica poi i romanzi El inquilino (1989), El vientre de la ballena (1997) e
l’eccellente Soldados de Salamina (2001), di cui viene realizzata anche una
versione cinematografica. Si tratta di un romanzo tra i migliori dedicati alla
guerra civile, che ben si inserisce nel tentativo attuale di rivendicare la differenza
morale tra vinti e vincitori e il diritto di non dimenticare la tragedia e le sue
cause.
Il suo ultimo romanzo, La velocidad de la luz (2005), è dedicato alla guerra
del Vietnam, con accenti piuttosto pessimisti sulla capacità umana di sconfiggere
il male con il bene.
dopoguerra e attualità 525
Alicia Giménez Bartlett (1951) scrittrice catalana, esordisce con Exit (1984),
per poi diventare famosa con la serie di romanzi polizieschi di eccellente fattura,
che hanno per protagonisti Petra Delicado e Fermín Garzón, tra cui Ritos de
muerte (1996), Día de perros (1997), Mensajeros de la oscuridad (1999),
Muertos de papel (2000), Serpientes en el paraíso (2002), Un barco cargado de
arroz (2004), Nido vacio (2007). Tra le sue opere a carattere non poliziesco,
Secreta Penélope (2003). Ironica, saggiamente laica, progressista, femminista,
Alicia Giménez-Bartlett è una delle migliori penne della narrativa spagnola
contemporanea.
José Antonio Gabriel y Galán (1940-1993), poeta e romanziere, è stato un
grande animatore della movida di Madrid negli anni successivi alla morte di
Franco. Tra le sue opere: Descartes mentía, 1977, Un país como este no es el
mío, 1978, Razón del sueño, Punto de referencia, 1981, La memoria cautiva,
1981, Muchos años después, 1992.
Eduardo Haro Ibars (1948-1988), poeta spagnolo, grande amico di Leopoldo
María Panero e come lui trasgressivo e irrazionalista, muore quarantenne di aids
contratto a seguito dell’uso di eroina. Tra le sue opere: Gay rock (1974),
Pérdidas blancas (1978), Empalador (1980), Sex Ficción (1981) e En rojo
(1985), che tratta della sua esperienza di tossicodipendente. Il tema delle droghe
torna anche nel suo utlimo scritto: ¿De qué van las drogas?
José Benito Fernández ha pubblicato in Los Pasos del Caído, una biografia di
Haro Ibars e in El contorno del abismo la biografia Leopoldo María Panero.
Antonio Muñoz Molina (1956) esordisce con Beatus ille, 1986, e poi prosegue
la sua carriera con i fortunati romanzi El invierno en Lisboa (1987) e nel 1991 El
jinete polaco, Beltenebros (1989, su intrighi politici nella Madrid del
dopoguerra), Los misterios de Madrid (1992 ) Sefarad (2001). Tra i suoi saggi:
Córdoba de los Omeyas, La verdad de la ficción, La realidad de la ficción.
Ildefonso Falcones (1959), avvocato catalano, apparentemente estraneo al
mondo letterario, ha pubblicato dopo quattro anni di lavoro uno straordinario
romanzo storico che risulta tra le opere più vendute e tradotte della narrativa
spagnola contemporanea: La catedral del mar.
Indice
Al-Ándalus..............................................................................................17
Il mester de clerecía................................................................................ 64
Il rinascimento ........................................................................................97
528
L'erasmismo............................................................................................130
La Lozana andaluza................................................................................167
Lazarillo de Tormes................................................................................179
Garcilaso de la Vega...............................................................................194
La letteratura idealista.............................................................................209
Cervantes ................................................................................................216
Il barocco ................................................................................................249
El burlador de Sevilla.
La prosa barocca.....................................................................................332
Il romanticismo.......................................................................................384
Il realismo ...............................................................................................408
Età contemporanea..................................................................................426
Il modernismo.........................................................................................446