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Le origini dell’utilitarismo moderno: Bentham

Fondatore dell’utilitarismo moderno è da considerarsi Jeremy Bentham (1748-1832). La


peculiarità dell’utilitarismo benthamiano rispetto alla principale tradizione utilitarista precedente,
quella epicurea, sta nel tentativo di fondare la filosofia morale sulla base di un unico principio e di un
unico metodo di calcolo; è facile riconoscere in tale impostazione l’impianto razionalistico tipico della
maggior parte delle filosofie moderne, col loro tentativo di imitare metodologicamente le scienze
fisico-matematiche. Già Locke, nel suo Saggio sull’intelletto umano aveva considerato l’etica come
scienza vera, capace di dimostrazioni rigorose, a patto di partire da definizioni esatte. Ebbene,
Bentham ritiene di possedere tali definizioni e quindi di poter finalmente costruire una filosofia
morale come scienza rigorosa: egli intende essere il Newton del mondo morale. Da questo punto di
vista, Bentham ripercorre la strada già imboccata da Hume, da cui lo differenzia però l’orientamento
prescrittivo e normativo che intende dare alla sua scienza morale. Il contesto in cui si muove Bentham
è infatti quello della riforma della legislazione e, in particolare, della legislazione penale. Egli vuole
fornire alla politica e alla giurisprudenza una scienza morale che consenta una esatta codificazione
delle leggi, e ciò al fine di enunciare una lista completa di reati con le rispettive pene da rendere
pubblica, in modo che tutti i sudditi possano sapere in anticipo con certezza che cosa aspetta loro nel
caso in cui decidano di infrangere la legge. L’idea di partenza per realizzare tale progetto è quella di
fondare un’etica che ci consenta di decidere, attraverso un ragionamento, l’azione da compiere fra le
varie possibilità, e di darci la sicurezza di non sbagliare. Il principio è quello dell’utilità, considerata
come entità quantificabile in modo tale da permetterci un calcolo con essa.
Ma che cos’è l’utilità? Nella sua opera fondamentale al riguardo — Introduzione ai principi della
morale e della legislazione, scritta tra il 1765 e il 1780, ma pubblicata solo nel 1789 a Londra —
Bentham dice: “per ‘utilità’ si intende quella proprietà di ogni oggetto per mezzo della quale esso
tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità (in questo contesto tutte queste cose si
equivalgono) oppure a evitare che si verifichi quel danno, dolore, male o infelicità (di nuovo tutte
queste cose si equivalgono) per quella parte il cui interesse si prende in considerazione”. Alla base
ditale principio sta un’assunzione di carattere antropologico che, a parere di Bentham e degli
utilitaristi, risalta con evidenza incontestabile da un’osservazione rigorosa dell’esperienza comune
degli uomini: “La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e
il piacere. Spetta a essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare quel che
faremo. Da un lato il criterio di ciò che è giusto o ingiusto, dall’altro la catena delle cause e degli
effetti sono legati alloro trono”. Il principio utilitarista è quindi un principio edonistico.
Ma come fa il principio utilitarista a regolare la convivenza? A un primo sguardo, infatti, esso
sembrerebbe incapace di andare al di là di una visione puramente egoistica dell’uomo e della società.
Nella definizione suddetta di utilità si dice che essa va considerata rispetto a quella parte di cui si
considera l’interesse. Se questa è una comunità, qual è allora il suo interesse? Secondo Bentham la
“comunità è un corpo fittizio, composto dalle singole persone considerate come sue membra”; il suo
interesse è “la somma degli interessi dei vari membri che la compongono”; quindi, “un’azione si può
definire conforme al principio di utilità [...] quando la sua tendenza ad aumentare la felicità della
comunità è maggiore di ogni sua tendenza a diminuirla”. E’questo il principio della massimizzazione
dell’utilità. Il principio di azione morale è il raggiungimento della utilità generale intesa come
“massima felicità possibile per il maggior numero possibile di persone”.
L’utilitarismo è quindi una filosofia tendenzialmente ottimistica, in quanto ritiene possibile un accordo
tra interesse individuale e sociale. Questo è possibile tramite due strumenti: l’educazione (arte di
governo di se stessi) e la legislazione (arte di governo della comunità). L’educazione forma individui
in possesso delle due massime virtù, l’onestà e la benevolenza, il cui esercizio procura all’individuo
piaceri elevati; in tal modo l’esercizio ditali virtù è utile non solo per gli altri e la comunità in
generale, ma anche per colui che le esercita, realizzando così un’armonizzazione tra interesse
individuale e sociale. L’arte di governo della comunità realizza a sua volta tale armonizzazione
attraverso la legislazione, la quale rende l’obbedienza alle leggi più utile della disobbedienza. Ma
come è possibile calcolare l’utilità? Se l’utile è il piacere e il dolore il suo contrario Bentham ritiene di
poter misurare i piaceri e i dolori, in base, per esempio, alla loro durata e alla loro acutezza. In tal
modo sarebbe possibile stabilire equazioni che permettano di decidere questioni politico-sociali in

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conformità al principio di massimizzazione.
L’utilità è in Bentham in primo luogo un concetto descrittivo, individuabile nella natura umana (gli
individui si comportano così …), ma diviene anche un principio normativo, quando diviene una regola
di valutazione morale e un orientamento per l’azione.

Il principio di utilità (J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione [1789], Torino
1999, cap. I.)

§ 1. La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta ad
essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare quel che faremo. Da un lato il criterio
di ciò che è giusto o ingiusto, dall’altro la catena delle cause e degli effetti sono legati al loro trono. Dolore e
piacere ci dominano in tutto quel che facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo: qualsiasi
sforzo possiamo fare per liberarci da tale soggezione non servirà ad altro che a dimostrarla e confermarla. A
parole si può proclamare di rinnegare il loro dominio, ma in realtà se ne resta del tutto soggiogati. Il principio di
utilità riconosce tale soggezione, e la assume a fondamento di quel sistema il cui obiettivo è innalzare l’edificio
della felicità per mezzo della ragione e della legge. I sistemi che tentano di mettere in discussione tale
soggezione spacciano rumori per suoni sensati, capriccio per ragione, oscurità per luce. Ma basta con le
metafore e le declamazioni. Non è con questi mezzi che si può far progredire la scienza morale.
§ 2. Il principio di utilità costituisce il fondamento della presente opera: è perciò opportuno iniziare con un
resoconto esplicito e preciso di cosa si intenda con esso. Per principio di utilità si intende quel principio che
approva o disapprova qualunque azione a seconda della tendenza che essa sembra avere ad aumentare o
diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione; o, che è lo stesso concetto in altre parole, a
seconda della tendenza a promuovere tale felicità o a contrastarla. Mi riferisco a qualsiasi azione, e perciò non
solo ogni azione di un privato individuo, ma anche ogni provvedimento di governo.
§ 3. Per utilità si intende quella proprietà di ogni oggetto per mezzo della quale esso tende a produrre beneficio,
vantaggio, piacere, bene o felicità (in questo contesto tutte queste cose si equivalgono) oppure ad evitare che si
verifichi quel danno, dolore, male o infelicità (di nuovo tutte cose che si equivalgono) per quella parte il cui
interesse si prende in considerazione: se quella parte è la comunità in generale, allora l’interesse della comunità,
se è un individuo in particolare, allora l’interesse di quell’individuo.
§ 4. L’interesse della comunità è una delle espressioni più generiche che si possano trovare nella fraseologia
della morale: non c’è da meravigliarsi che il suo significato vada spesso perduto. Quando ha un significato è il
seguente. La comunità è un corpo fittizio, composto dalle singole persone considerate come sue membra.
Quindi che cos’è l’interesse della comunità? La somma degli interessi dei vari membri che la compongono.
§ 5. È vano parlare dell’interesse della comunità senza comprendere quale sia l’interesse dell’individuo. Si dice
che una cosa promuove un interesse, o che è a favore dell’interesse di un individuo, quando va ad aggiungersi
alla somma totale dei suoi piaceri, o, che è la stessa cosa, a ridurre la somma totale dei suoi dolori.
§ 6. Quindi un’azione si può definire conforme al principio di utilità, o, per brevità, conforme all’utilità (intesa
rispetto alla comunità in genere) quando la sua tendenza ad aumentare la felicità della comunità è maggiore di
ogni sua tendenza a diminuirla.
§ 7. Un provvedimento di governo (che altro non è che un particolare tipo di azione, compiuta da una
particolare persona o gruppo di persone) può essere definito conforme al principio di utilità o da esso dettato
quando, allo stesso modo, la sua tendenza ad aumentare la felicità della comunità è maggiore di ogni sua
tendenza a diminuirla.
§ 8. Quando si suppone che un’azione, o in particolare un provvedimento di governo, sia conforme al principio
di utilità, può essere conveniente, ai fini del discorso, immaginare un tipo di legge o dettame, detto legge o
dettame dell’utilità, e parlare dell’azione in questione come di un’azione conforme a tale legge o a tale dettame.
§ 9. Si può dire che un uomo è seguace del principio di utilità quando l’approvazione o la disapprovazione che
egli attribuisce a ciascuna azione o provvedimento è determinata dalla tendenza che secondo lui l’azione ha ad
aumentare o diminuire la felicità della comunità, ed è proporzionata a tale tendenza, o, in altre parole, al suo
essere o meno conforme alle leggi o ai dettami dell’utilità.
§ 10. Di un’azione conforme al principio di utilità si può sempre dire che è un’azione che deve essere compiuta,
o almeno che non è un’azione che non deve essere compiuta. Si può dire inoltre che è giusto, o almeno che non
è ingiusto, che debba essere compiuta; si può dire che è un’azione giusta, o almeno che non è ingiusta. Quando
sono così interpretate, le parole deve, giusto e ingiusto e altre di questo genere hanno un significato, altrimenti
non ne hanno alcuno.
§ 11. È stata mai formalmente contestata la correttezza di questo principio? Sembra che lo sia stata da coloro
che non sapevano cosa intendevano. E suscettibile di qualche prova diretta? Sembrerebbe di no, poiché ciò che
viene usato per provare ogni altra cosa, non può essere a sua volta provato: una catena di prove deve avere un
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cominciamento da qualche parte. Fornire tale prova è tanto impossibile quanto non necessario.
§ 12. Non esiste e non è mai esistita una creatura umana vivente, per quanto stupida o perversa, che non abbia
fatto riferimento al principio di utilità in molte, forse nella maggior parte delle situazioni della sua vita. Per la
naturale costituzione della struttura umana, nella maggior parte delle situazioni della loro vita gli uomini
generalmente abbracciano tale principio senza rifletterci, se non per regolare le loro azioni e quelle di altri
uomini, almeno per giudicarle.
Allo stesso tempo non ci sono stati molti uomini, nemmeno tra quelli più intelligenti, che sono stati disposti ad
abbracciare questo principio integralmente e senza riserve. Sono inoltre pochi quelli che non hanno colto
l’occasione di attaccarlo, o perché non sempre ne capivano l’applicazione, o per qualche pregiudizio che
avevano timore di portare alla luce o a cui non potevano sopportare di rinunciare. Perché questa è la stoffa di
cui è fatto l’uomo: in via di principio come nella pratica, sulla retta via e su quella cattiva, la più rara delle
qualità umane è la coerenza.
§ 13. Quando un uomo tenta di combattere contro il principio di utilità, lo fa, senza rendersene conto, in base a
ragioni tratte da quello stesso principio. Le sue argomentazioni, se riescono a provare qualcosa, non provano
che quel principio è ingiusto, ma che, secondo le applicazioni che egli suppone ne siano state atte, è mal
applicato. È possibile per un uomo sollevare la erra? Sì, ma deve prima trovare un’altra terra su cui appoggiarsi.
§ 14. L’appropriatezza del principio di utilità non può essere confutata mediante argomentazioni, ma, per le
cause citate, o perché si ha di esso una visione confusa e parziale, può accadere che qualcuno non sia disposto
ad apprezzarlo. Quando questo accade, se questa persona ritiene che valga la pena chiarire le proprie opinioni
sull’argomento, segua i passi seguenti e alla fine forse si riconcilierà col principio in questione. Stabilisca se il
suo rifiuto del principio è totale: se è così, consideri a cosa si riducono tutti i suoi ragionamenti, specialmente
su questioni politiche. Fatto ciò, che stabilisca se egli giudica e agisce senza alcun principio, o se ce n’è qualcun
altro in base a cui giudicare e agire. Se ce n’è uno, che esamini e si accerti se il principio che crede di aver
trovato sia davvero un principio intelligibile ben distinto, o se non sia un mero principio verbale, una specie di
frase che alla fine non esprime né più né meno che la pura affermazione dei propri infondati sentimenti, cioè
quel che in un’altra persona egli potrebbe essere propenso a chiamare capriccio. Se è incline a ritenere che la
propria approvazione o disapprovazione, congiunta all’idea di un atto, senza alcun riguardo per le sue
conseguenze, sia per lui un fondamento sufficiente in base al quale giudicare ed agire, si domandi se il suo
sentimento debba essere un criterio di giusto e ingiusto per ogni altro uomo, o se il sentimento di ogni uomo
abbia lo stesso privilegio di essere criterio di se stesso. Nel primo caso, si domandi se il suo principio non sia
dispotico ed ostile a tutto il resto della razza umana. Nel secondo caso, si domandi se non sia un principio
anarchico, e se di questo passo non si arrivi ad avere tanti criteri di giusto e ingiusto per quanti sono gli uomini;
e se non possa capitare che anche per lo stesso uomo una cosa che sembrava giusta oggi non possa risultare
ingiusta domani senza essere minimamente mutata nella sua natura; e se la stessa cosa non sia giusta e ingiusta
nello stesso luogo e allo stesso tempo; e in entrambi i casi, se tutta l’argomentazione non sia inconcludente; e
se, quando due uomini hanno affermato "Questa cosa mi piace" e "Questa cosa non mi piace" possano poi, in
base a tale principio, avere qualcosa da aggiungere. Se dovesse dire a se stesso " no ", poiché il sentimento che
egli propone come criterio deve essere fondato sulla riflessione, che dica a quali particolari debba rivolgersi la
riflessione. Se a particolari in relazione all’utilità dell’atto, allora dica se non stia forse abbandonando il suo
stesso principio, chiamando in aiuto proprio quello contro il quale lo ha innalzato. E se non a quei particolari,
allora a quali altri? Se volesse arrivare a una mediazione, affermando di adottare in parte il suo principio e in
parte il principio di utilità, dica fino a che punto adotterà quest’ultimo. Quando avrà deciso a che punto
fermarsi, allora dica come giustifica a se stesso l’adozione del principio fino a quel certo punto, e perché non
vada più oltre. Ammesso che un principio diverso da quello di utilità sia giusto, che sia un principio che per un
uomo è giusto perseguire; ammesso che la parola giusto possa avere (cosa non vera) un significato che non si
riferisca all’utilità, dica se può esistere per un uomo un motivo per seguirne i dettami; se c’è, dica qual è questo
motivo, e come vada distinto da quelli che fanno valere i dettami dell’utilità; se non c’è, dica infine a cosa può
servire allora questo suo principio.

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