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SPAZI CONTESI SPAZI CONDIVISI.

GEOGRAFIA DELL’INTERCULTURALITA’ Prefazione


Chiave di lettura del testo è la possibilità o impossibilità di definire o tracciare confini. L'operazione
originaria prevede il tracciare una linea di demarcazione temporale e territoriale a partire da cui si
costruisce lo spazio quantificabile e matematizzabile. È il momento della nascita della triade
fondamentale alla base del movimento della conoscenza: soggetto, distanza, oggetto. Inutile
nascondere la difficoltà di dare una definizione della cultura, Taylor, la definisce come un insieme
che include le conoscenze, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra
capacità e abitudine. Se ne deve poi sottolineare la profonda compenetrazione con l'economia e con
la lingua. La cultura costituisce perciò un vero e proprio strumento essenziale alla sopravvivenza
dell'uomo in quanto il suo bagaglio organico non riesce da solo ad orientarlo e a guidarlo, gli
fornisce quindi la modalità di adattarsi e mutare l'ambiente, e dunque è essa stessa, l'ambiente
dell'uomo. Si può perciò ritenere che l'uomo “si foggia negli spazi in cui vive”. Se la cultura è lo
strumento primario che orienta l'uomo, e se è vero che essa trova attuazione in forme particolari e
locali, allora sorgono molteplici interrogativi sulla configurazione spaziale e culturale delle città
odierne spiccatamente pluriculturali. È noto che tutte le società stanno diventando sempre più
multiculturali, e più aperte alle migrazioni multinazionali. Parlare, però, di integrazione, di
multiculturalismo, come rilevano Buttitta e Banini, non è un passaggio immediato, e anzi può
considerarsi problematico. Alessandro Di Blasi discute della città e del suo assetto urbano
contestando l'inadeguatezza delle pianificazioni urbanistiche ai fini dell'incontro sociale.
Consapevole della duplicità della città come luogo d'incontro con una alterità non sempre
rassicurante è Marco Picone nella sua ricostruzione della tolkeniana Brea. Daniela Santus contesta
la difesa della presunta neutralità dello Stato condotta in Francia mediante una legge che vieta ogni
ostentazione di simboli religiosi nella scuola pubblica e ribadisce l'opportunità della comprensione
verso costumi diversi in quanto “essere pronti all'accoglienza non vuol dire snaturarci per creare
spazi acritici da riempire”. Non si deve dimenticare però la precarietà della cultura; caratteristica
precipua di essa è l'alternanza di ripetizione e mutamento. Siamo difronte ad un paradosso in cui
l'uomo dipende dalla cultura la quale è un modello che non esiste al di fuori delle azioni individuali
e dei luoghi culturali. Questa dialettica propria dei modelli culturali che oscilla tra conservazione e
mutamento è proprio nell'ambito di processi migratori messa a dura prova, prestandosi a
estremizzazioni e forme di sclerotizzazione. Secondo Elena dell'Agnese è proprio la volontà di
fedeltà alla propria cultura, sottratta a mutamento che produce il cambiamento, con i conseguenti
fenomeni di nazionalismo nelle comunità diasporiche. Ulteriore esempio di difficile coesistenza
culturale è lo studio condotto da Leonardo Mercatanti sul conflitto nello Sri Lanka, in cui è proprio
la volontà di dialogo e di integrazione a mancare. Si stratta di un interessante esempio di come “il
settore pubblico giochi un ruolo centrale nell'allocazione delle risorse e nella formazione delle
identità”. Quali sono le ragioni dei movimenti migratori? Nella miseria estrema e nella disperazione
è la disuguaglianza e l'assenza di opportunità di soddisfare i bisogni primari che annulla le
differenze culturali nelle società di partenza come di arrivo. Quale possibilità interculturale si può
configurare laddove il problema è ancora quello della fame e della insicurezza sanitaria? Ne discute
l'articolo di Banini a partire dal legame tra sottosviluppo e immigrazione, in cui si rileva il carattere
strutturale del sottosviluppo, a differenza dalla povertà congiunturale caratteristica dei paesi europei
in passato, sede di ingenti influssi emigratori. Ne discute anche la riflessione di Elena Di Liberto
sulla questione alimentare, che fa emergere da un punto di vista etico e interculturale le
contraddizioni etnocentriche di cui siamo prigionieri quando ci facciamo paladini di determinati
diritti in casa d'altri. Le altre culture esistono e dobbiamo vivere sempre, sia su scala mondiale sia
strettamente mescolati in ogni singola società(Taylor). PARTE PRIMA Franco Farinelli: Prima
della Geografia Origine non è una parola da prendersi alla leggera. Benjamin distingueva l'origine
dalla genesi. L'origine non riguarda la storia, ma quello che viene prima e dopo il fenomeno cui si
riferisce. L'origine è qualcosa che sta prima della causa di quel che accade, essa preesiste ai modelli
e alle strutture. Essa non può che essere il processo in cui linearità e causalità vengono alla luce.
Tale nascita è perciò la più dolorosa e cruenta che la cultura occidentale conosce, proprio perché da
essa tutte le altre dipendono. Il suo racconto è consegnato al canto IX dell'Odissea, in i protagonisti
sono Ulisse ed il ciclope Polifemo. Questo nome significa: che dice più cose, che chiama una cosa
con più nomi, dunque che nel suo linguaggio la relazione tra i nomi e le cose non è biunivoca. Così
quando Ulisse dice di chiamarsi Nessuno altro non fa che imitare il suo antagonista assumendone se
non la logica il linguaggio. In questo canto vediamo la nascita del soggetto segue l'invenzione dello
spazio che è la vera trovata in virtù della quale i greci prigionieri del Ciclope riescono a salvarsi.
Polifemo viene ingannato perché ragiona in termini di mondo e non di spazio: il primo infatti
funziona per livelli, il secondo invece è costituito dalla loro versione formale, cioè bidimensionale.
Seduto sulla soglia dell'antro e con le spalle rivolte al mondo esterno è nella stessa condizione del
portiere di calcio. Insieme alla dimensione, però, quel conta è la posizione di Polifemo. Sdraiato a
terra durante il cruenti attacco che lo renderà cieco, seduto durante l'evasione dei suoi nemici, si
ergerà in tutta la sua natura soltanto durante la loro fuga, episodio finale in cui la trilogia
epistemologica fondamentale (il soggetto, la distanza, l'oggetto) avrà definitivamente preso forma.
Una volta che lo spazio è compiuto la geografia potrà iniziare. E con essa la versione del mondo che
conosciamo, ma che oggi sappiamo non essere più sufficiente. Antonino Buttitta: i nuovi schiavi
ovverosia del multiculturalismo improbabile PRESENZE E MEMORIA Per quanto il flusso
migratorio abbia raggiunto una consistenza di portata massiva nessuno si è posto il problema dei
suoi esiti futuri. Il dibattito politico e i conseguenti provvedimenti legislativi, le soluzioni adottate,
le asettiche ricerche e analisi elaborate da studiosi di vari ambiti hanno ignorato o glissato il fatto
che perdurando gli attuali ritmi, entro il prossimo ventennio il profilo antropologico del nostro
continente subirà una radicale trasformazione. Pure quanti questo fatto sembrano percepire, in realtà
non ne hanno valutato appieno gli effetti in ambito economico, sociale, culturale e dunque anche
politico. Rispetto al fenomeno considerato, passato e presente mostrano tratti differenziali. Nella
preistoria, il trasferimento si determinò per gruppi etnicamente omogenei, mentre oggi si attua per
infiltrazioni disarticolate; per l'aspetto sociale, dall'alto con tendenza a dilatarsi verso il basso, nel
primo caso, e dal basso con l'aspirazione ad accedere all'alto per il secondo. Le ragioni sono
evidenti. Nel passato s trattava della conquista di nuovi territori. Oggi invece è dovuto alla arcaicità
e insufficienza dei sistemi produttivi delle aree di provenienza, richiamate dal più alto regime di vita
assicurato da strutture produttive più avanzate. Occorre considerare anche le analogie tra i fenomeni
migratori del passato e quelli del presente. La ricerca di nuovi spazi vitali può essere definitiva o
temporanea. I due fenomeni hanno in comune il carattere della definitività. In analogia con le grandi
migrazioni dell'Ottocento e dei primi del Novecento verso le Americhe, la maggior parte degli
attuali immigrati in Europa tende a permanere. È possibile prevedere con certezza quali
modificazioni questo fatto determinerà in termini sociali e culturali. Sappiamo però che gli
immigrati attuali nei paesi europei tendono a permanere nella loro cultura: nella sfera religiosa,
linguistica e alimentare. Di conseguenza potrebbero prodursi reali e ben definite situazioni
multiculturali. Questa eventualità appare tuttavia molto problematica. Perché possa realizzarsi sono
infatti necessari radicali mutamenti istituzionali e legislativi. Le scelte della Comunità Europea non
segnalano purtroppo cambiamenti significativi in questa direzione. La legislazione italiana è molto
significativa al riguardo: un esempio è la legge del 6 marzo 1998 n°40 “Disciplina
dell'immigrazione e norma sulla condizione dello straniero. Si è data rigida applicazione alla
volontà espressa dai legislatori di attivare in ogni forma iniziative per l'integrazione linguistica degli
immigrati e dei loro figli attraverso le strutture scolastiche. Viene applicata così una politica della
integrazione linguistica forzata. D'altra parte essendo la domanda a precedere la risposta finiranno
con rafforzare e stabilizzare una situazione già di fatto esistente: l'uso dell'inglese come lingua di
scambio. In ogni caso, sia nel riconoscimento della parità linguistica, sia nell'imposizione della
lingua dello stato ospite, è erroneo pensare a esiti eterodiretti. L'ASLI (Associazione per la Storia
della Lingua Italiana) ha proposto di: promuovere l’insegnamento delle lingue straniere in chiave di
diversità culturale, e non di ibridazione, allo scopo di acquisire le conoscenze interlinguistiche
necessarie per la costruzione dell’unione Europea1. Ma quando le cultura entrano in contatto tra
loro, si producono sempre processi di scambio, e non si determina in genere la cancellazione totale
di una di esse. Si può affermare che l'imporsi dell'anglofonia, ha fatto della cultura statunitense una
replica di quella inglese. Sarebbe difficile capire a nascita del jazz senza tener conto della presenza
negra sia pure in situazione di assoluta subalternità. Al di là di ogni previsione sul futuro
dell'identità culturale dei paesi europei è sicuro che la massiccia presenza degli immigrati
determinerà mutamenti notevoli. A parte l'ambito religioso, fatti significativi è già possibile
registrarne nel settore alimentare. In tutti i supermercati si trovano sempre più spesso spazi dedicati
ad alimenti non appartenenti alle tradizioni culinarie europee, e non c'è città che non conti esercizi
dove sono in vendita derrate alimentari consumate solo da asiatici e africani. A parte la moda, è un
fatto che le abitudini alimentari degli immigrati tendono ad espandersi Nel 1975 a Salerno si parlò
per la prima volta dell'arrivo di stranieri in un paese quale l'Italia che aveva sempre “esportato”
notevol8i quantità di persone in cerca di lavoro. Il contributo intitolato: Esodo agricolo e
immigrazione in Sicilia occidentale è di Costantino Caldo il quale, accanto ad una attenta analisi
delle cause e delle conseguenze economiche e sociali legate all'immigrazione straniera in Sicilia,
presta una particolare attenzione agli scambi culturali connessi alla mobilità geografica della
popolazione. Collega infatti l'immigrazione agli antichi legami tra Sicilia e Tunisia verso la quale
erano emigrati molti isolani diffondendo le conoscenze sulla loro terra. In un saggio successivo
Caldo, parlando degli immigrati in Piemonte ne denuncia la “marginalità sociale e culturale”
analizzandone le condizioni di lavoro, quelle economiche, le scarse possibilità di espressione dei
loro modelli di vita e di dialogo con la cultura che li ospita e con quella degli altri stranieri a causa
anche della mancanza di conoscenze linguistiche e di centri associativi. È quindi opportuno
proporre alcune riflessioni su questi argomenti di cui la ricerca geografica del nostro paese ha
iniziato ad occuparsi diffusamente solo alcuni anni dopo i suoi lavori. Una significativa eccezione a
quanto appena detto è rappresentata dalla scuola di Palermo, dove per anni ha lavorato anche Caldo.
Lo sviluppo delle ricerche sugli scambi culturali, è stato illustrato da Giulia De Spuches nel 1997
descrivendo un ampio progetto di ricerca internazionale sui “Reseaux transnationaux entre Europe
et Maghreb”sottolineando che le comunità magrebine immigrate in Sicilia non interrompono i
propri legami con la società di partenza, ma tendono ad instaurare un rapporto complesso con
entrambe le società”. IMMIGRAZIONE E GEOGRAFIA CULTURALE La dispersione territoriale
delle persone costituenti i singoli gruppi etnici, se da un lato ne favorisce l'interazione con gli altri
cittadini, dall'altro non pregiudica gli scambi sociali e culturali tra persone di una stessa nazionalità
grazie alle facili e relativamente poco costose opportunità di spostamento di notizie, persone e beni
a breve, medio e lungo raggio. Con la mobilità la mobilità a breve e medio raggio si raggiungono i
negozi etnici, i luoghi di culto, ecc. Gli spostamenti a lungo raggio sono invece facilitati dai servizi
di trasporto internazionale e intercontinentale che consentono agli immigrati di ritornare alle terre di
origine anche più volte all'anno recandovi ogni genere di beni di consumo durevole e riportandovi i
prodotti tradizionali. Un contributo importante nella diffusione dei contatti tra le persone di una
medesima etnica e cultura è dato pure dal telefono mentre i call center consentono di abbattere
ulteriormente i costi delle comunicazioni internazionali. La dispersione territoriale degli immigrati
in una città o area metropolitana senza l'adozione di adeguate politiche di integrazione degli stessi,
non contribuisce che in parte al superamento delle esclusioni dai diritti di cittadinanza sociale e
culturale. Le pur innegabili “barriere” tra immigrati e società ospitante non sono comunque
impenetrabili e ciò genera un processo di “creolizzazione3” di alcuni aspetti delle diverse culture:
emblematici, sono i modelli alimentari. La diffusione di questi è favorita dalla “mercificazione”
dell'immagine delle cucine nazionali correlata a visioni stereotipate delle stesse da parte dei
consumatori e dai conseguenti adeguamenti imposti dal mercato agli operatori economici. In futuro
è auspicabile che il dialogo cresca passando dagli aspetti commerciali “ad un rapporto
tendenzialmente simmetrico di scambio”. Coppola e Memoli hanno dedicato un saggio alla
“geografia indiziaria” dell'immigrazione studiando i quartieri di Napoli. Gli “indizi” raccolti sono di
tre tipi: il primo consiste nei “nomi dei luoghi”, cioè nell'attribuire denominazioni italiane agli
stranieri e agli spazi in cui vivono; il secondo riguarda i “nodi” e le “traiettorie”, cioè i punti di
incontro ed i percorsi degli immigrati nella città; il terzo si riferisce ai “luoghi di ricomposizione”,
cioè alle temporanee aggregazioni sul territorio delle singole comunità. Il termine “indizi” ci ricorda
che i “paesaggi dell'immigrazione” sono più sovente “paesaggi interstiziali” e “invisibili”. Talvolta
possono essere “letti” solo dalla comunità straniera che li ha creati, talaltra si tratta di “segni
esogeni” risultato di una strategia per ottenere riconoscimento. CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE. È necessario capire meglio i bisogni di cittadinanza e le “geografie dell'esclusione”
legati ai fenomeni immigratori in atto nel nostro paese. Si tratta di bisogni connessi al modo di vita
delle persone e che, non ci si può illudere di regolamentare e soddisfare soltanto in base a norme di
legge calate dall'alto senza renderci conto della complessità del dialogo tra le diverse culture con
“indizi”, “invenzioni dell'etnicità”e creazioni di “paesaggi etnici”. Questa è la sfida dei prossimi
anni nei quali si spera di “uscire dall'emergenza” e di arrivare ad una “integrazione ragionevole”
degli stranieri che non potrà comunque essere ottenuta limitandoci ai problemi del lavoro, della casa
o dei clandestini, ma dovrà estendersi alla sfera delle culture, tenendo sempre conto dei “limiti
valori ali fissati dalla Costituzione”. Anche la geografia culturale può aiutarci in questi sforzi e
pertanto deve progredire dal punto di vista metodologico e da quello dell'analisi dei casi di studio.
Daniela Santus: interculturalità Vs. multiculturalità La maggior parte degli stranieri residenti in
Italia regolarmente è di religione islamica. L'islam, ormai, è la seconda religione presente sul
territorio italiano dopo il cattolicesimo. BREVE STORIA DELL'ISLAM IN ITALIA Nel 1973 fu
creata a Roma l'Associazione Musulmana del Littorio(Aml) per garantire ai musulmani i servizi
religiosi essenziali, curando anche l'applicazione del diritto coranico in campo civile e familiare.
L'Aml fu disciolta dopo il fascismo. Nel 1947 alcuni esuli albanesi fondarono l'Unione islamica in
occidente (Uio). Studenti simpatizzanti nel 1971, crearono, all'università per stranieri di Perugia
l'Unione studenti musulmani in Italia (Usmi). In realtà prima degli anni '80 la presenza islamica più
importante in Italia consistette nella presenza temporanea di diplomatici e uomini d'affari. Fu re
Faysal nel 1966 che propose di edificare una moschea a Roma. Così nel '69 fu costituito il Centro
islamico culturale d'Italia. Nel '71 l'ente morale si trasformò con l'ingresso nel consiglio di
amministrazione degli ambasciatori dei paesi musulmani interessati al progetto. Il Coreis (Comunità
religiosa islamica italiana), che nasce dall'associazione internazionale per l'informazione sull'islam
viene ammesso nel 2000. Paolo VI, nel 1975, diede il benestare per la costruzione a Roma della
prima moschea italiana. L'anno successivo, la giunta comunale di sinistra concesse gratuitamente i
terreni dell'area di Monte Antenne, ma i lavori andarono a rilento e dopo la guerra del Golfo,
l'Arabia Saudita arrestò i finanziamenti. A quel punto subentrò il Marocco che finanziò 30 miliardi
e riuscì ad assicurare l'inaugurazione nel 1995. L'INTEGRALISMO ISLAMICO IN ITALIA
L'organizzazione principale è l'Ucoii costituita ufficialmente nel 1990, la cui leadership è
rappresentata soprattutto dall'élite siro-giordano-palestinese ben integrata e politicizzata. In realtà,
più che l'Italia sono i paesi d'origine a rappresentare il loro orizzonte di riferimento. Quindi l'Ucoii
non differisce molto dall'81% di musulmani britannici che si considera prima musulmano e poi
britannico. Il passaggio dall'Usmi all'Ucoii ha rappresentato l'attuazione di un ponderato piano
strategico che mirava e mira al reclutamento e all'indottrinamento all'ideologia integralista delle
masse di immigrati. Da notare che l'Ucoii gestisce almeno l'85% delle 127 moschee e oltre 200 sale
di preghiera islamica in Italia. A partire dal 1998 l'Ucoii sembrava stesse cercando di acquisire un
profilo più moderato, motivo per cui subì la scissione dell'Istituto culturale islamico di Milano. In
Italia, accanto al Centro e all'Ucoii, vi è anche un terzo islam, che è quello wahhabita4 della Lega
musulmana mondiale. Ufficialmente lo sbarco in Italia della Lega «non si propone di porsi in
concorrenza per cercare di soppiantare le altre associazioni islamiche presenti in Italia. Il suo
obiettivo rimane quello dell'unità, agendo per la difesa degli interessi musulmani in Italia e per la
firma di un'intesa con lo stato italiano». Si tratta di dirigere un tentativo di mediazione tra «islam
delle moschee» e «islam delle ambasciate»: non solo per arrivare all'intesa, ma anche per
condizionare i fratelli musulmani. IMMIGRAZIONE ISLAMICA: È VERA INTEGRAZIONE?
Gli immigrati musulmani stanno vivendo quella che Magdi Allam5 definisce una sorta di
schizofrenia identitaria. Abbiamo già detto che l'81 dei musulmani britannici si definisce prima
musulmano e poi britannico, dato simile si è registrato sia in Spagna che in Germania. Sempre
secondo Magdi Allam i musulmano europei condividono alcune posizioni di fondo degli estremisti
islamici: molti condannano gli USA e si schierano a favore dell'Iran e del Pakistan. In Italia non più
del 5-10% degli immigrati islamici si reca alla preghiera del venerdì, contro il 10-20% di frequenza
dei cattolici italiani alla messa alla messa domenicale. Di ciò oltre un terzo si giustifica lamentando
di non avere luoghi di culto nelle vicinanze. Pur se il 39% dei musulmani dice di essere venuto in
Italia «perché offre lavoro», una cifra aggregata ancor maggiore confessa che sta nel nostro paese
perché è più facile entrarci. Il 73% dice di aver avuto poi difficoltà ad ottenere lavoro o casa o
documenti regolari. INTEGRAZIONE: UNICA VIA POSSIBILE PER UNA CITTADINANZA
CONSAPEVOLE Tra le specificità di inserimento dell'islam italiano possiamo citare almeno i
seguenti aspetti: • la diversificazione dei paesi di provenienza, che impedisce l'identificazione con
un solo paese; • la maggior velocità di ingresso e di insediamento rispetto ad altre realtà europee; •
che la presenza islamica si renda visibile nello spazio pubblico già con la prima generazione; • la
più diffusa condizione di irregolarità; • la scarsità di provenienze da ex colonie con un legame
preesistente con l'Italia, e una tradizione di conoscenza reciproca; • il ruolo importante giocate dai
convertiti nella “produzione sociale dell'islam”. Di conseguenza, la situazione della “nostra”
immigrazione ha caratteristiche specifiche che la distinguono da quelle di altri paesi europei.
Contestualmente non ci si deve perdere in falsi problemi. Sappiamo ad esempio che i francesi sono
preoccupati per le minacce alla neutralità delle leggi della Repubblica derivanti da comportamenti
pubblici riferibili all'islam, come l'uso del velo. La classe politica, influenzata dalle impressioni di
intellettuali autoproclamatisi specialisti dell'islam, condivide nella sua grande maggioranza questi
timori. Tanto da aver trovato con estrema urgenza una legge che proibisce l'«ostentazione» di
qualsiasi segno religioso nelle scuole. In Italia non dobbiamo ripetere un simile errore. L'equilibrio
dello stato laico può davvero essere messo in pericolo dal velo? Ovviamente intendendo per velo il
semplice jihab, non certo il niqab o il burqa. Questi ultimi, addirittura, sono vietati anche in Iran, in
Egitto, in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi. È DUNQUE POSSIBILE IMMAGINARE
UN'ACCOGLIENZA RISPETTOSA, MA AL CONTEMPO SICURA? Parlando di questioni legate
specificamente all'immigrazione islamica, Magdi Allam suggerisce di avvalersi dell'esperienza di ci
chi ha preceduto sul piano dell'accoglienza degli immigrati e sottolinea in particolare come la
conoscenza della lingua e dei valori fondanti la società debbano essere prerequisiti necessari per la
concessione del visto d'ingresso per ragioni di lavoro o di ricongiungimento familiare. Un test da
effettuarsi nel proprio paese d'origine presso le ambasciate o i consolati europei, che attesti la ferma
volontà di intraprendere il percorso d'integrazione. Occorrerebbe, altresì, studiare un piano
insediativo che prevenga la formazione di ghetti etnici che non favoriscono l'integrazione. La
concentrazione abitativa degli immigrati nei quartieri più poveri e nelle periferie urbane dovrebbe
essere evitata. Come dovrebbe essere evitata ola ghettizzazione scolastica. A questo scopo i
bambini immigrati dovrebbero essere inseriti in scuole italiane. Va sottolineato che l'insegnamento
della lingua materna rientra nei diritti dell'infanzia. Si tratta cioè del diritto a mantenere la propria
identità nazionale, culturale, linguistica e religiosa. Il che vale anche per i bambini italiani. Privare i
bambini di scuola elementare dell'albero di Natale perché c'è un allievo islamico è inutile e dannoso
almeno quanto obbligare lo stesso bambino a scrivere gli auguri di Natale alla propria famiglia. È
dunque necessario monitorare con attenzione e competenza le moschee, al fine di individuare quelle
che potrebbero aiutare l'integrazione piuttosto che ostacolarla, fungendo da collegamento tra la
cultura degli immigrati e quella occidentale. Il tradizionalismo religioso dovrebbe essere combattuto
con le armi della conoscenza. Dev'essere chiaro che, in Italia, le moschee non dovranno mai essere
utilizzate come luoghi di incitamento all'odio razziale alla jihad (guerra santa), né potranno mai
esistere come madrasse (scuole islamiche) o scuole con programmi contrari a quelli
dell'ordinamento scolastico italiano. Ma l'accoglienza non può essere illimitata. La limitazione degli
interessi diviene pratica di rispetto necessaria, anche per evitare di renderci “complici” dello
sfruttamento di giovanissime ragazze sulle strade italiane, di spaccio e quant'altro. Infine, il
problema della sicurezza. Parlare di sicurezza non dovrebbe significare implicitamente parlare di
“repressione”. Richiedere il rispetto delle leggi e garantire la certezza della pena in caso queste non
venissero rispettate, è semplice buon senso. Una misura altrettanto semplice potrebbe consistere nel
varare una norma che richieda a tutti di depositare le proprie impronte digitali. Italiani e stranieri
dovrebbero essere invitati a fornire le proprie impronte digitali per la sicurezza di tutti. Il fatto di
“non essere in grado” o di non voler fornire le proprie generalità non può continuare ad essere
garanzia di impunità! Il senso di insicurezza deriva anche dalla consapevolezza di una giustizia
realmente giusta per tutti. Quanto alle forze dell'ordine, queste dovrebbero poter esprimere una
maggiore e reale vicinanza alle esigenze della popolazione con “veri” presidi volanti nelle aree a
rischio. Di significativa utilità potrebbero poi essere assunzioni “mirate” di personale di polizia con
“origini” diverse. CONCLUSIONE Essere pronti all'accoglienza, nell'accezione che si sta
percorrendo, non vuol dire snaturarci per creare acritici spazi da riempire. Anzi, quanto più un
modello sociale è culturalmente, religiosamente, normativamente connotato, tanto più è in
condizione di difendere se stesso sena ricorrere a misure estreme di chiusura. Si può, per questo
motivo, ritenere che il nostro territorio abbia le migliori caratteristiche per difendersi e accogliere
gli altri senza correre rischi troppo elevati. Elena dell'Agnese: identità meticce: deriva e
nazionalismo della diaspora nell'esperienza del contatto con l'Altro. potrebbe assumere i connotati
di un segnale si sottosviluppo, dando luogo ad una evidente confusione tra causa ed effetto, poiché
allo stato attuale è la ricchezza a determinare la compresenza plurietnica e non viceversa.
PROCESSI INELUTTABILI E INCONGRUENZE ETNOCENTRICHE Il dibattito sul
multiculturalismo in Europa si è intensificato a seguito dei rilevanti flussi immigratori dai paesi del
sottosviluppo. Nei vari scritti sull'argomento il multiculturalismo è affrontato in termini di
inevitabilità, come questione su cui è necessario assumere al più presto una posizione dati i suoi
preoccupanti connotati. Il riferimento alle cause di questa immigrazione appare solamente come
vago riferimento causale, come se anch'esso fosse un processo ineluttabile. Immigrazione e
sottosviluppo risultano così inseriti nella medesima logica auto-poietica dell'attuale sistema globale
e in effetti, essi costituiscono feedback negativi, cioè retroazioni che garantiscono la stabilità del
sistema dominante, fatto di paesi ricchi che si arricchiscono e di paesi poveri che si impoveriscono.
Questa disarmante accettazione dell'esistente fa sì che si ragioni su come adeguarsi agli effetti e non
su come rimuovere le cause che determinano tanti fenomeni. Il problema viene dunque identificato
nel come conciliare la compresenza nei paesi economicamente avanzati di popolazioni
profondamente diverse. Sarebbe scorretto generalizzare e non tener conto di quelle persone,
organizzazioni, associazioni che muovono da tutt'altre premesse e che si impegnano in prima
persona a favore del sottosviluppo; ma è altrettanto evidente che molti di quelli che affrontano
argomenti del genere ignorano o sottovalutano il fatto che il nostro continente ha la sua buona dose
di responsabilità nel perpetuare il disagio estremo in cui versa la maggior parte della popolazione di
questo pianeta. In Europa si parla tanto di valorizzazione delle culture locali, di recupero delle
radici identitarie, ed è innegabile che la cultura stia diventando sempre più fattore di sviluppo
territoriale. Tuttavia il dibattito sul multiculturalismo restituisce un'idea di sviluppo locale come
obiettivo valido solo all'interno dei confini europei, come se le aree del sottosviluppo non ne
avessero diritto. Più o meno esplicitamente, i fautori del multiculturalismo sostengono che in questo
modo l'Europa potrebbe configurarsi come laboratorio propedeutico dell'etica e del progresso,
affinché si pervenga ad un modello di convivenza interetnica valido su scala universale. Ma si
tratterebbe comunque di universo limitato ai paesi economicamente avanzati. Ma forse se si
attribuisse priorità al problema di come avviare e sostenere processi di sviluppo reale nelle aree del
sottosviluppo l'Europa non avrebbe più modo di sperimentare progetti così eticamente elevati,
ovvero, più realisticamente, di perpetuare quelle logiche di sfruttamento che le consentono di
mantenere la propria condizione privilegiata. SVILUPPO LOCALE, METICCIATO CULTURALE
E SOTTOSVILUPPO Anche nei territori del sottosviluppo è auspicabile parlare di cultura locale,
identità culturale e senso di appartenenza, perché i progetti di sviluppo locale in Europa si stanno
configurando proprio attorno ad una riscoperta delle culture, delle tradizioni e del trascorso storico
delle comunità locali. La coesione sociale risulta fondamentale per lo sviluppo locale, inteso come
processo “dal basso”, condiviso e dunque privo di conflittualità interne rilevanti. Da qualche tempo
tuttavia i concetti di cultura, identità e senso di appartenenza sono sottoposti a processi di revisione,
tanto in ambito sociologico, antropologico che geografico. Una revisione sollecitata dalle dinamiche
della globalizzazione, e a seguito dell'intensificazione dei processi migratori. Si sostiene l'idea di
un'identità complessa, magari facendo ricorso all'espressione del “meticciato culturale”, pertanto è
necessario riscoprire le radici che accomunano i popoli e non le diversità. L'idea del “meticciato
culturale” risulta indubbiamente utile per smorzare i toni della contrapposizione. Importante è il
fatto che l'idea apra la strada al confronto e alla comunicazione reciproca, favorendo l'affermazione
di principi universali di pace e amicizia tra i popoli sicuramente condivisibili. Mettere in
discussione l'accezione tradizionale di cultura locale e di identità culturale comporta inevitabilmente
il porre in discussione anche il senso di appartenenza ad una comunità ovvero un importante fattore
di coesione sociale, fondamentale per garantire lo sviluppo locale. L'idea del meticciato culturale è
indubbiamente positiva per il cammino dell'umanità verso la fratellanza e la convivenza pacifica tra
i popoli, ma sorge il dubbio che sia qualcosa da realizzare in una fase successiva, quando anche i
paesi sottosviluppati avranno raggiunto i loro traguardi economici, politici e sociali e non certo
finché la cultura occidentale con i suoi potenti mezzi economici e tecnologici avrà il predominio
sulle altre. A prescindere dai legami tra cultura, economia e sviluppo, la diversità culturale è un
valore di per sé. La cultura popolare potrebbe configurarsi non solo come fattore di coesione sociale
e di sviluppo locale, ma anche come “deposito secolare di una saggezza capace di sottrarsi ai
condizionamenti storici e di mercato”, dunque diversità culturale come importante elemento
attraverso cui opporsi alle spinte omologanti e diseguaglianti della globalizzazione. I LIMITI DEL
SOTTTOSVILUPPO Pur di non mettere in discussione l'attuale configurazione del sistema globale
sembra dunque che si preferisca dubitare della validità di concetti fondamentali come quello di
cultura e di identità, incorrendo così in evidenti contraddizioni e in visioni della realtà palesemente
etnocentriche. Ma il sottosviluppo ha i suoi limiti e in assenza di un inversione di tendenza
continuerà comunque a manifestare i suoi drammatici effetti sull'intero globo. Oggi sarebbe
opportuno riflettere sui”limiti del sottosviluppo” tenuto conto che nella maggior parte delle terre
emerse del pianeta vigono condizioni di insostenibilità ambientale e sociale che costituiscono un
fattore di rischio per l'intero pianeta. L'immigrazione dai paesi sottosviluppati è in aumento, questa
è sollecitata da forze di espulsione per cui ancora non è stata trovata una soluzione. Si tratta di
contesti di provenienza privi di condizioni strutturali per lo sviluppo come povertà cronica, carenza
di infrastrutture, istruzione e formazione professionale, presenze di conflitti e guerre. Il
sottosviluppo è “ l'impossibilità cronica generalizzata a vasti strati della società, riferita a un
territorio vasto e ben definito prolungata nel tempo di soddisfare tute o alcune esigenze di base”.
L'immigrazione delle aree del sottosviluppo ha per protagonisti popoli profondamente diversi, tra
loro e rispetto al mosaico etnico ed europeo, con cui non è sempre facile trovare punti di incontro e
gli stati europei non facilitano di certo l'entrata degli immigrati extracomunitari. A parziale
giustificazione del fenomeno si sostiene anche che l'immigrazione è utile ai paesi sottosviluppati
poiché le rimesse degli emigranti servono per fare entrare denaro e mettere in moto processi di
sviluppo. In realtà queste rimesse danno un po' di sollievo ma non servono certo a innescare un
processo di sviluppo. In questo scritto ciò che importa è di porre in rilievo il fatto che le persone che
nel nostro globo si muovono alla ricerca di migliori condizioni esistenziali sono molto più di quanti
si è soliti immaginare. Altrettanto significativa è la rappresentazione di un altro dato riferito al saldo
migratorio per paese. È evidente la differenza tra un sud del mondo che emigra e un nord che
accoglie, ma si evidenziano anche numerose aree del sud che presentano un saldo positivo tra questi
diversi paesi africani richiamano immigrati per motivazioni politiche. È ovvio che i dati sui
movimenti migratori no possono dare un'immagine reale delle condizioni di precarietà in cui
versano le aree del sottosviluppo, sia per la notevole entità dei flussi clandestini sia perché non tutti
quelli che vorrebbero partire riescono a farlo. I LIMITI DELL'INTEGRAZIONE L'intensità del
dibattito sul multiculturalismo mostra una sorta di schizofrenia che da un lato si pone obbiettivi
spiritualmente elevati e dall'altro non si chiede se ci sono i presupposti per realizzarli. Si parla così
di multiculturalismo senza sapere se è davvero voluto con l'aggravante che l'integrazione deve
essere il risultato di una volontà popolare. I connotati di questa immigrazione disperata e fortemente
voluta dimostra che si tratta di una necessità, ciò significa che è alquanto probabile che gli
immigrati farebbero a meno di partire se nei loro paesi ci fossero condizioni di vita migliori.
Abbiamo detto che l'integrazione deve essere voluta sia dalla popolazione residente che da quella
immigrante. L'atteggiamento della popolazione europea è oscillante tra sofferenza e insofferenza.
L'insofferenza degli italiani ad esempio si riscontra sopratutto tra i lavoratori di settori informali o
instabili che si vedono minacciati dagli immigrati. Ciò significa che nei luoghi del confronto
interetnico si riproducono conflitti tra le classi sociali svantaggiate del globale e del locale. Questa
situazione induce a pensare che la vera questione sia in realtà il riconoscimento di concreti diritti
umani validi alla scala globale. Ci si chiede così come si possa parlare di multiculturalismo quando
la maggior parte delle presenze straniere è illegale. Il fatto è che gli immigrati servono a buona parte
della vecchia Europa: per la manodopera a basso costo, alle famiglie per i lavori domestici o ad
assistere anziani e malati, per un mercato del lavoro che in sostanza richiede flessibilità e prezzi
stracciati e gli immigrati riescono a soddisfare questa domanda riducendo all'osso le proprie
condizioni di vita. Consideriamo inoltre che nelle città che si addensa la maggior parte degli
immigrati. Ma qui il senso di appartenenza alla comunità è già di per se inesistente e si assiste ad
una polverizzazione di individualismi. Le città sono un crocevia di cultura ed etnie diverse per la
crescente presenza di immigrati ma anche per la presenza più o meno prolungata nel tempo di :
lavoratori, studenti, turisti e city users. I fautori del multiculturalismo vedono nell'incontro
interetnico un'importante opportunità per costruire una rinnovata coesione sociale su scala mondiale
e considerano la città come il laboratorio interetnico. Il contatto con l'altro e il diverso si intensifica
ma sempre più attraverso la comodità e la protezione di internet che porta il mondo a casa quando si
vuole e riduce il rischio di una delusione. Il successo delle chat line conferma la voglia di
socializzare ma anche quella di non mettersi in gioco più di tanto. CONCLUSIONI questo
contributo ha cercato di portare argomentazioni a sostegno della necessità di impiegare risorse e
impegno concreto in direzione dei profondi squilibri e delle ingiustizie perpetue anziché sulla
questione del multiculturalismo alla cui soluzione mancano i presupposti necessari. Porre soluzione
al sottosviluppo è obbiettivo ancor più utopico, se non vengono perseguite queste chimere di
fondamentale importanza, rincorrerne altre è ancora più inopportuno. A fronte di quanto detto
sembra si possa concludere che il problema prioritari risieda nella necessità di diffondere la
conoscenza reale e la consapevolezza del sottosviluppo il che significherebbe acquisire una massa
considerevole al di là di canali informativi tradizionali. Si ha tuttavia la sensazione che la stessa
opera di conoscenza vada diretta anche a chi è nato e cresciuto nei luoghi di sottosviluppo. Tiziana
Banini: teano a Roma. Pratiche interetniche in una microcittà INTRODUZIONE Roma è una città
variegata sotto il profilo socio-territoriale. Alla tradizionale diversità sociale si è aggiunta anche
quella culturale, per effetto dei rilevanti flussi immigratori dalle aree del sottosviluppo.
Comprendere l'impatto della diversità etnica a Roma significa fare riferimento alla grande scala, a
quei circuiti di vita che si svolgono all'interno di piccoli contesti di quartiere, ove si pratica
l'esperienza quotidiana dell'andare in aree diverse della città e quella del tornare. Il sentimento di
appartenenza a questi piccoli contesti di quartiere è forte, quanto meno perché in essi si svolge la
maggior parte dell'esistenza ordinaria delle persone. La presenza immigrata in questi piccoli
contesti di quartiere sta producendo delle modificazioni visibili nel vissuto degli abitanti, nei luoghi
della relazionalità sociale,nei legami impalpabili ma essenziali che intercorrono tra le persone e il
territorio dell'abitare. Poco senso ha dunque palare di immigrazione e multiculturalismo se non si
scende a questa scala di analisi il caso qui trattato riguarda un microambito del comune di Roma,
nato come periferia popolare e divenuto semi- centrale, che da qualche hanno a questa parte sta
conoscendo rilevanti trasformazioni proprio grazie alla presenza immigrata. L'intento è quello di
raccontare spaccati di vita vissuta in una piccola parte di Roma aperta alla diversità eppure alle
prese con problemi di convivenza, nella convinzione che il modo migliore per combattere le
potenzialità e i limiti del tanto auspicato multiculturalismo alla grande scala sia quello di parlare
delle esperienze di chi il confronto interetnico lo vive in prima persona. APERTRE E CHIUSURE
NELLA CITTÀ ETERNA Per comprendere l'impatto della presenza straniera nel piccolo contesto
di quartiere oggetto di questo studio è necessario soffermarsi prima sulla configurazione socio-
spaziale di Roma. Si tratta di una città che si è evoluta parimenti alla netta contrapposizione tra
ricchi e poveri, tra potenti e subalterni e che ha mantenuto nel tempo la propria singolare
“immagine di permanenza in un mondo in cambiamento”. Ancora oggi vi sono profonde dicotomie
ben radicate nello nello spazio suburbano:da una parte i quartieri ricchi dislocati nelle zone centrali;
dall'altra i quartieri popolari. A Roma il quartiere in cui si abita è una sorta di biglietto da visita che
dice molto sullo status sociale, sul reddito percepito, sullo stile di vita ecc. il quartier popolare può
essere un sigillo che impedisce di estendere le proprie conoscenze e amicizie al di là di certe
barriere. Il mercato immobiliare contribuisce a mantenere inalterata questa situazione: anche per chi
riesce ad acquistare una posizione sociale migliore risulta difficile permettersi un appartamento nei
quartieri bene. La città consente dunque la mobilità sociale, ma riproduce ad oltranza le sue
divisioni interne. L'architettura dei quartieri, non facilita, poi, la relazionalità sociale: file di
palazzoni, assenza di spazi collettivi aperti, dove comunque sarebbe impossibile stare per la densità
di auto, rumore e traffico. Se vuoi incontrare qualcuno, allora devi inscriverti in qualche categoria
sociale e rinchiuderti nei relativi spazi. Eppure, anche qui, è possibile individuare sensi di
appartenenza e modalità di relazione sociale che sanno di piccola comunità. Roma è sempre stata
meta di flussi immigratori, soprattutto dall'Italia meridionale. Furono soprattutto i quartieri popolari
ad essere protagonisti del fenomeno, ma il processo d'integrazione fu rapido e indolore. Adesso
invece si è in presenza di un fenomeno tanto intenso quanto indefinito. Persone che pur non volendo
intimoriscono, che rappresentano la fragilità e la precarietà della condizione umana, che si
configurano come portatori delle differenze di cui abbiamo più paura. EVOLUZIONI DI UNO
SPAZIO VISSUTO Il caso qui riportato riassume la storia di un contesto di quartiere che da
periferico è diventato semi-centrale, da popolare a medio-borghese, carente di spazi pubblici, da
qualche anno meta di immigrazione dalle aree del sottosviluppo. Il quartiere comprende un
territorio alquanto vasto ed eterogeneo, ma di cui gli abitanti evitano di parlare. Il nome prescelto
per questo quartiere sarebbe “Teano” in previsione del fatto che la linea della metropolitana avrà
una fermata proprio lungo l'omonima strada. Per il resto dello scritto, comunque, si proseguirà a
chiamare questo ambito “quartiere”. Sia che si tratti di attività economiche o di ragioni abitative, il
decentramento ha fallito i suoi scopi. Tranne in tre casi: grandi centri commerciali decentrati, centri
di eccellenza e di ricerca tecnologica, siti divenuti nodi-chiave delle reti telematiche, informatiche
ed elettroniche. HUMUS E VISIONE Ogni città ha il proprio humus. Percepirlo è più facile di
quanto si possa pensare. Le osservazioni visive ed oculari rivelano fatti profondi di una città.
Bisognerà senz'altro conoscerne la vicenda geostorica. Ma se si vorrà conoscerne l'humus bisognerà
osservarne le bellezze artistiche ed architettoniche, la trama delle sue strade, i suoi mercati, le
piazze e i luoghi di incontro, quelli di transito, le sue reti di trasporti intraurbani ed i circuiti delle
informazioni che vivono nella città. Gli abitanti di una città con le loro abitudini e costumi ci
racconteranno molto del luogo che abitano. PROMEMORIA DI UN VIANDANTE La sorte delle
città di oggi e dei loro problemi è affidata alla sensibilità delle classi dirigenti, allo spirito di
partecipazione e di attenzione territoriale delle comunità, ma anche alla capacità di astrazione di
coloro i quali studiano la città. Aurelio Rampello: appunti di geografia linguistica: effetti del
contatto culturale PREMESSA Il contatto tra gruppi umani è già di per sé un atto culturale; tale
evento prevede la trasmissione di dati e informazioni sotto forma di nozioni e concetti. Questo
trasferimento avviene nella maggior parte dei casi attraverso il linguaggio verbale. Una geografia
del contatto culturale deve prendere in considerazione l'uso che l'uomo fa del linguaggio nello
sviluppo delle sue attività culturali, è necessario però fare delle precisazioni di carattere
epistemologico e sociologico per poter stabilire ciò che può essere meritevole d'interesse per poter
effettuare alcune osservazioni preliminari utili a mettere a fuoco gli aspetti più degni di nota dello
studio in esame. 1.VARI TIPI DI CONTATTO I vari tipi di contatto culturale consentono la
categorizzazione dei fenomeni che da essi discendono; è opportuno sottolineare che i criteri che
sovrintendono a queste categorizzazioni sono molteplici e vengono selezionati in relazione allo
scopo che la categorizzazione stessa si prefigge. Esaminando gli effetti sulla lingua è di notevole
importanza conoscere la tipologia del contatto tra i gruppi di parlanti poiché è possibile mettere in
relazione i fenomeni linguistici al tipo di contatto che li ha prodotti. 2.ASPETTI
EPISTEMOLOGICI La geografia linguistica è ritenuta una settore sia della linguistica sia della
geografia, essa si occupa di studiare l'estensione nello spazio dei fenomeni linguistici e la loro
distribuzione geografica. Da essa i origina, però, un problema epistemologico: in che modo e con
quali scopi il geografo può accostarsi allo studio dei fenomeni linguistici senza temere di invadere
un campo che non è di sua competenza? Il motivo più profondo di tale promiscuità disciplinare
risiede nel fatto che il mutamento delle lingue è spesso il frutto di contatto tra diverse comunità di
parlanti. 3.INTERFERENZA Quando due comunità alloglotte vengono a contatto esiste la
possibilità che uno dei due idiomi influenzi l'altro. Si determina così il fenomeno del cosiddetto
contatto linguistico che si realizza attraverso la sovrapposizione di codici differenti. Questo
fenomeno è denominato interferenza. Una valutazione più scientifica ha l'obbligo di prescindere dai
giudizi e deve limitarsi alla descrizione dei fenomeni e alla loro esplicazione. Il bilinguismo può
produrre interferenza sia nella prima che nella seconda lingua a causa della reciproca influenza. Vi è
dunque, l'imitazione di un modello linguistico in un contesto diverso da quello di pertinenza. La
lingua che esercita l'interferenza viene denominata lingua modello, la lingua che ne subisce gli
influssi è chiamata lingua replica. Se l'interferenza rimane confinata all'atto linguistico individuale
non produce mutamento all'interno del sistema, diversamente coinvolge un gruppo di parlanti,
allora essa provocherà un'alterazione del sistema-lingua che è una forma del più generale fenomeno
del mutamento linguistico. La forma più completa di interferenza è il cosiddetto code switching,
cioè la commutazione del codice linguistico: si tratta di un fenomeno occasionale consistente nel
passaggio dalla lingua A alla lingua B da parte del singolo parlante spesso grazie allo spunto offerto
da qualche parola. 4.PRESTITI Tra le forme d'interferenza, le più interessanti sono i prestiti: si
parla di prestito quando la lingua assimila materiale proveniente da un'altra lingue. Una lingua A
importa items da una lingua B e questi vengono assimilati fino a fare parte del sistema. Tra le
motivazioni del prestito vi sono fattori condizionanti quali: il bisogno di designare oggetti e
situazioni nuove; l'improvviso avvento dei prodotti informatici. Un altro motivo è da ricercarsi
nell'influsso culturale della lingua modello sulla lingua replica. Tale influsso rispecchia il prestigio
che la comunità della lingua modello gode agli occhi dei parlanti della lingua replica. Talvolta,
alcuni fattori di comodità possono agevolare i prestiti. Alcuni prestiti avvengono perché il modello
è dotato di particolare espressività. Un ruolo non trascurabile va poi attribuito ad una certa moda
xenofila. Accade infine che prestiti stranieri servano a chiamare concetti e realtà che sarebbe
sconveniente esprimere nella propria lingua. 5.TIPI DI PRESTITI La riproduzione pedissequa di un
modello alloglotto in una lingua replica, nel caso del prestito non implica la riproduzione dell'esatto
significato del termine. Il prestito può avvenire in modo diretto, che predilige una via di
trasmissione orale, o a distanza, attraverso modelli scritti. È accaduto in passato che una lingua sia
divenuta mediatrice dei rapporti con altre due. Si parla i questo caso di prestiti mediati. Infine, i
prestiti di ritorno sono costituti da termini rientrati a loro volta come prestito nella lingua che
originariamente aveva svolto le funzioni di modello. 6.IL PROCESSO DI ASSIMILAZIONE
L'imitazione che dà luogo al prestito non confina la lingua replica ad un ruolo passivo: quest'ultima
infatti reagisce all'influsso esterno adattando il materiale linguistico importato alle sue proprie
strutture. La diffusione del prestito conosce varie tappe: se da un lato si manifesta un fenomeno di
assimilazione, dall'altro si manifesta un processo di acclimatamento che può culminare
nell'integrazione del termine nello standard ufficiale della lingua. La reazione al prestito da parte
della lingua replica consiste in quei fenomeni di adattamento del termine che ne favoriscono la
mimetizzazione all'interno di essa. 7.CALCHI Il processo di imitazione di cui si è parlato sopra può
anche non riguardare unità di significato, ma limitarsi ad unità di rango linguistico inferiore: si
hanno in questo caso i calchi, in cui l'imitazione del modello alloglotto viene realizzata con
materiale indigeno. 8.COMMUTAZIONE DI CODICE La commutazione di un codice linguistico
consiste nel passaggio da una lingua all'altra nel corso di una conversazione. Tale fenomeno è
conseguenza quasi inevitabile del bilinguismo. In una situazione di plurilinguismo, la scelta della
lingua sembra essere ispirata da regole sociali. Questo tipo di commutazione viene detta
situazionale. Il plurilinguismo ha un'origine che vede sovrapporsi motivazioni di ordine geografico
e di ordine geopolitico a motivazioni di ordine sociale. L'azione sinergica di questi fattori ha
perturbato il sistema lingua originario provocandone il mutamento attraverso un rimescolamento dei
codici linguistici presenti nell'area geografica in questione. Le suddette cause fanno sì che tale
rimescolamento abbia come esito il plurilinguismo, la formazione di una nuova lingua o la
formazione di un pidgin. 9.PIDGIN E CREOLI Una lingua pidgin è l'esito più traumatico e radicale
che il contatto tra comunità possa produrre. I pidgin si sono sviluppati in passato in aree geografiche
soggette a processi di conquista o di colonizzazione. Questi eventi hanno portato a contatto la
comunità indigena on quella dei conquistatori, provocando la necessità di comunicazione. Gli esiti
sono consistiti nella formazione dei pidgin, lingue a struttura molto semplificata col precipuo scopo
di consentire la comunicazione basilare tra i due gruppi. Il lessico viene attinto dalla lingua del
gruppo dominante, e la forma interna dal gruppo sottomesso. Altri pidgin vanno formandosi ai
nostri giorni a causa delle massicci migrazioni dall'Africa e dall'Asia verso l'Europa. L'eccessiva
semplificazione della struttura linguistica fa sì che i pidgin non siano considerati lingue vere e
proprie ma semplicemente lingue ausiliarie. Tuttavia, alcuni dei pidgin utilizzati nei secoli scorsi
dagli schiavi d'America o da comunità colonizzate stanno divenendo in effetti lingue primarie: le
lingue che ne sono derivate prendono il nome di lingue creole e il processo in questione prende il
nome di creolizzazione. Marina Bertoncin, Andrea Pase: saperi dell'acqua a confronto. Disegni
esogeni e pratiche tradizionali dei monti Mandara La difficile sostenibilità territoriale degli
interventi derivanti da un approccio allo sviluppo fondato su una massiccia infrastrutturazione e
sull'impatto di una radicale modernizzazione tecnologica ha favorito negli ultimi due decenni la
crescita di interesse verso le collettività locali e le loro pratiche di costruzione e di uso del territorio.
Tali pratiche si fondano su saperi e capacità tecniche che evidenziano la loro rilevanza nel momento
in cui lo sviluppo non passa più solo attraverso il macro-progetto esogeno che uniforma i territori.
Nello specifico della gestione delle risorse idriche, la crisi strisciante o conclamata dei grandi
schemi irrigui o la problematica diffusione delle pompe meccaniche nell'Africa saheliano-sudanese
hanno creato le premesse per la riscoperta e valorizzazione dei saperi dell'acqua sedimentati nelle
popolazioni locali. Molti interventi di piccola idraulica e di idraulica di villaggio sembrano poter
assumere e ritradurre tali saperi integrandoli alle tecniche moderne. La lunga durata dei processi di
territorializzazione idraulica è stata presa in considerazione dalle nuove proposte di sviluppo. Gli
abitanti della regione montuosa incontrano durante il periodo secco particolari difficoltà nel
reperimento dell'acqua. Nonostante una discreta piovosità, con il procedere della stagione secca si
verifica una rapido abbassamento delle falde. Anche se più che di falde è giusto parlare di “tasche”
d'acqua. I POGRAMMI DI IDRAULICA DI VILLAGGIO A partire dagli anni '60 i monti Mandara
sono stati interessati da programmi di idraulica di villaggio gestiti dallo stato e da organizzazioni
non governative. Per molto tempo la proposta delle ONG si è concretizzata nella creazione di nuovi
punti d'acqua e nell'approfondimento di quelli già esistenti. Clément individua 4 fasi successive nel
dispiegarsi di tali interventi: 1. la “modernizzazione dei pozzi”, è determinata dal passaggio dagli
attrezzi tradizionali per lo scavo a utensili moderni, dal passaggio all'uso del cemento e di strutture
circolari in calcestruzzo; 2. la “meccanizzazione dello scavo”, implica compressori e/o esplosivi per
perforare le roccia; 3. la “meccanizzazione dell'estrazione”, introduce pompe che sostituiscono la
corda e il secchio; 4. la “delega”, è determinata dall'avvento dei forage, delle perforazioni in grado
di raggiungere acquiferi profondi. Complessivamente le popolazioni locali perdono autonomia
mentre le organizzazioni di sviluppo acquistano centralità nella riproduzione territoriale. Per i
diversi enti di sviluppo, la realizzazione di punti d'acqua è una operazione di notevole visibilità che
risulta particolarmente gratificante. I progetti di idraulica di villaggio andranno però incontro a
molteplici difficoltà. UN NUOVO APPROCCIO: I BIEF Verso la metà degli anni '80 inizia a
prendere forma un nuovo approccio fondato sull'idea di facilitare il rinnovo degli acquiferi. La
soluzione individuata è quella di costruire delle soglie attraverso i letti mayo10. Sono delle micro-
dighe per rallentare la velocità di scorrimento e per trattenere una parte dell'acqua delle piene.
Queste costruzioni prenderanno il nome di bief. Dighe e micro-dighe sono un monopolio
dell'amministrazione statale ed è stato quindi necessario individuare un termine che possa
sviluppare con più libertà questa tecnica. Alcune esperienze di dighe avevano già interessato l'area
dei Mandara. Ma l'introduzione dei bief costituisce il vero fattore di innovazione. I bief sono
costruiti nei punti dei talweg11 perché le fondamenta devono poggiare sulla roccia solida. Si
possono individuare diversi tipi di bief: in particolare i distinguono quelli in pietra a secco e quelli
in pietra e cemento. Il primo è formato da tre parti: le grandi pietre murate a secco ancorano la base
su cui posano le pietre a secco e determina la massa dell'opera; il terrapieno aumenta la massa e
assicura l'impermeabilizzazione. Il vantaggio è che i materiali sono reperibili in loco e la tecnica
costruttiva è nota alle popolazioni locali. Il secondo tipo è costituito da una struttura in pietre
squadrate unite da malta di cemento. Questo tipo di bief comportano l'acquisto del cemento, il
reperimento della sabbia e un notevole uso di acqua, la tecnica è più complessa ed esige personale
competente. In una prima fase le ONG privilegiarono i bief in pietre e cemento, ma dal '92-93 si
favorisce la tecnica in pietra a secco. L'obiettivo è quello di attrezzare il letto di un mayo con più
bief. Inoltre i bief permettono la coltivazione a valle di piccoli orti e frutteti. La conversione delle
ONG alla tecnica è motivata dallo scacco subito dagli interventi precedenti e dalla probabilità che
questi progetti hanno di ottenere finanziamenti. Una notevole accelerazione nella costruzione dei
bief si ha con l'avvio della collaborazione tra il Camerun e l'UE nel '96. l'obiettivo è di ridurre le
disparità tra vita del Nord e del Sud del paese. La regione dei Mandara è stata riconosciuta Riguardo
alle conseguenze dell'uso di questo geni a lungo termine, si teme che da un lato la resistenti agli
insetti farà sorgere insetti nuovi e più resistenti che si troveranno ad avere meno competitori; e
dall'altro col passaggio di geni tra le piante ci troveremmo di fronte all'irrobustimento anche delle
piante selvatiche. Talvolta non si tiene conto che molti sono i mezzi tecno-scientifici che
permettono di impedire l'incrocio con altre specie mediante l'introduzione delle colture modificate
in luoghi distanti dai loro simili selvatici oppure mediante l'adozione di tecniche capaci di evitare
che i geni passino ad altre piante vicine o selvatiche. Uno degli aspetti più controversi è la loro
allergenicità, per cui incrociare specie diverse porterebbe a mimetizzare sostanze a cui il
consumatore sa di essere allergico e così non gli permettere di scegliere consapevolmente di evitare
un prodotto pericoloso per sé. Da qui l'acceso dibattito sull'obbligatorietà dell'etichettatura dei
prodotti OGM o dei loro componenti. Altra questione dibattuta è se sia pericoloso mangiare
alimenti transgenici in quanto questo comporterebbe il possibile passaggio del gene della resistenza
agli antibiotici usato come marcatore, dagli alimenti ingeriti ai batteri che ospitiamo nel nostro
intestino o ai batteri presenti nel terreno, i quali porterebbero a rendere del tutto inutilizzabili gli
antibiotici. Si tende infatti a evitare l'uso dei geni resistenti agli antibiotici e comunque ad usare
geni controllabili. Dal punto di vista sanitario la ricerca è anzi orientata all'introduzione di geni che
permettono di aumentare l'acquisizione di vitamine, integratori alimentari e vaccini mediante le
specie vegetali che costituiscono la base dell'alimentazione. I benefici sociali a favore dell'uso di
OGM sono però da considerare anche nelle loro conseguenze dal punto di vista dei sistemi
produttivi: talvolta se ne critica l'introduzione in quanto accentuerebbe la dipendenza dei paesi in
vie di sviluppo da quelli più avanzati. In alcuni casi, invece, la società produttrice ha rinunciato a far
valere i propri brevetti, ad esempio sul riso destinato ai PVS, conservando in cambio l'esclusività
della licenza per il suo sfruttamento commerciale nei paesi del Nord del mondo. Al di là della
stereotipata contrapposizione tra natura e artificio, tradizione e innovazione, le considerazioni
esposte devono far riflettere sul fatto che l'uso delle nuove biotecnologie da solo non può risolvere
problemi che presentano implicazioni molto complesse. D'altro canto, il principio secondo cui “non
tutto ciò che è tecnicamente possibile è per ciò stesso moralmente lecito” non è da prendere in senso
assoluto. Esso dev'essere accolto nella misura in cui produce un danno alle persone, ai loro diritto.
ETICA E AGRICOLTURA Il principio di precauzione e l'ethos scientifico Si può parlare di una
divaricazione tra l'urgenza della decisione e le incertezze fattuali a cui riferirsi. Il problema della
decisione politica assume grande valore in quanto il diritto si trova a decidere in via prescrittiva. I
criteri prudenziali scaturiti dalle istanze ecologiche sono stati prima la valutazione d'impatto e poi il
principio di precauzione. Quest'ultimo ha evidenziato che nei processi decisionali non si ha a che
fare solo con questioni di carattere tecnico, ma anche di carattere sociale, che richiedono
valutazioni. Il principio di precauzione non è neutrale, ma orientato alla salvaguardia della sicurezza
e viene evocato in sede decisionale in materia ambientale e sanitaria. Bartolommei intende chiarire
che il principio di precauzione può essere inteso o come norma assoluta e quindi essere limite etico
da contrapporre all'avanzamento scientifico, o come norma procedurale che permette almeno
l'incontro ed il confronto. In questo senso la precauzione non è altro che la scelta caso per caso di
strategie alternative di valutazione del rischio e il tipo di precauzione da prendere. Un excursus
storico potrebbe mostrare il persistente ritorno di un movimento di forte opposizione alla scienza
che si può enucleare in alcune critiche fondamentali che le vengono rivolte. La sua mancanza di
umanità, la dimenticanza della soggettività, l'assenza di creatività e intuizione, ecc. L'adozione delle
posizioni rigidamente di precauzione della convenzione di Rio de Janeiro prima e dell'UE poi,
manifesta proprio l'istanza antiscientifica, un'ostilità alla scienza che si esprime variamente. ETICA
E AGRICOLTURA: DOVERI PERFETTI O IMPERFETTI RIGUARDO ALLA FAME DEL SUD
DEL MONDO? Il dibattito sugli OGM si presta a riflessioni di più ampio carattere etico e culturale.
La fame nel mondo è fondamentalmente un problema distributivo che può essere risolto senza
sacrificare ulteriori foreste pluviali, o altre terre ecologicamente apprezzabili per gli usi agricoli. Gli
ostacoli hanno a che fare con la volontà politica. Si evidenzia perciò il complesso intreccio di
fenomeni sociali, economici e politici. L'obiettivo da perseguire dovrebbe assicurare quei diritti
fondamentali allo sviluppo umano che rendono la vita degna di essere vissuta. In questa stessa
direzione si colloca l'elaborazione di un indicatore complesso, l'ISU(indice di sviluppo umano) che
coniuga indicatori relativi allo sviluppo economico con altri relativi alle condizioni sociali, e
considera un processo volto a potenziare le possibilità di progresso sociale e materiale offerte agli
individui. Tra gli indicatori sulla condizione dei popoli nei paesi del terzo mondo ricordiamo il PIL,
la speranza di vita alla nascita, la mortalità infantile, ecc. Quando si assumono posizioni che
difendono il terzo mondo dal colonialismo biotecnologico si deve perciò riflettere anche sugli aridi
numeri espressi dai diversi indicatori. Leonardo Mercatanti: lo Sri Lanka e il conflitto etnico fra
tamil e singalesi Lo Sri Lanka conosciuto anche come Ceylon è uno stato insulare che si trova
nell'Asia meridionale. L'isola è divisibile in tre fasce: la fascia inferiore caratterizzata dalle pianure
costiere; un massiccio centro meridionale e una zona di altitudine intermedia formata da tavolati
solcati da valli che si diramano dal massiccio centrale. La maggioranza degli abitanti dello Sri
Lanka appartiene alla maggioranza Singalese, che è prevalentemente buddhista. L'altro maggiore
gruppo sull'isola sono i Tamil. Sono prevalentemente induisti e vivono in maggioranza nella parte
settentrionale e in quella orientale del paese. Il PIL pro capite è di 4.079 dollari USA, così da
collocare il paese nella fascia delle nazione medio-basso redditto. L'ISU è pari a 0.742 collocando il
paese al 104° posto della graduatoria mondiale. Lo stato, la cui forma di governo è oggi un
Repubblica democratica socialista presidenziale con parlamento unicamerale, è ripartito in nove
province, divise in distretti, divisi in divisioni Divisional Secretariat (DS), divisi in divisioni Grama
Niladhari(GN), per un totale di 25 distretti. DALLA LEGGENDA ALLA REALTÀ L'isola di
Ceylon è terra di miti e leggende: si narra che lì Adamo ed Eva siano stati cacciati dopo aver
commesso il peccato originale e che, tra l altre leggende, il Buddha vi abbia lasciato le sue
impronte. L'isola, per storia, paesaggi, resti e tradizioni non ha niente da invidiare agli altri paesi,
ma le sue potenzialità turistiche ed economiche sono mortificate dall'effetto dello tsunami del 26
dicembre 2004, e dalla guerra civile. In alcune leggende sulla nascita dell'isola si possono già
individuare diversi elementi conflittuali tra le de etnie principali: tamil e singalesi. I tamil sono
prevalentemente induisti e vivono in maggioranza nella parte settentrionale e in quella orientale del
paese, mentre la maggioranza singalese è prevalentemente buddhista e vivono in tutto il resto
dell'isola. Sia il singalese che il tamil hanno lo status di lingue ufficiali. Le lingue nazionali sono il
singalese, il tamil e l'inglese, che è lingua largamente parlata e compresa. Tutte e tre le lingue sono
utilizzate sia in ambito educativo sia amministrativo. Ma l'inglese vanta una posizione dominante
nei rapporti commerciali. La composizione sociale è dunque molto complessa. È possibile
discernere una divisione di tipo orizzontale e una di tipo verticale. La prima è quella riferente alle
diverse etnie. Oltre alle due principali sono presenti anche: pochissimi Veddah; i Mori, musulmani;
i Burgher, cattolici. È inoltre presente una forte divisione basata sul tipo di professione. Per quanto
riguarda i Tamil è possibile distinguerli in due tipologie: i Tamil dello Sri Lanka e i Tamil indiani,
presenti sull'isola per lavorare nelle piantagioni di tè. La divisione verticale è causata dal divario tra
una classe di formazione inglese e una classe meno elevata di cultura tradizionale. Lingua,
religione, consuetudini sociali distinguono la maggioranza singalese dai tamil. Questa composizione
è stata mantenuta nel tempo sotto controllo con buoni risultati dai colonizzatori inglesi, ma la
politica governativa successiva all'esperienza coloniale ha determinato lo sviluppo di un
malcontento che, dapprima latente si è poi concretizzato in sommosse, scioperi, contestazioni da
parte dei tamil. In sostanza ciascun gruppo etnico in conflitto sostiene di appartenere all'unica
popolazione originaria dell'isola. La questione nasce perché molto probabilmente entrambe
affermano il vero. I singalesi si riferiscono a tutta l'isola, mentre i tamil chiedono l'indipendenza
dello stato Tamil Eelam. IL CONFLITTO ARMATO Dopo anni di tensioni nel 1983 ha inizio la
sanguinosa guerra civile a causa della secessione nelle aree del nord e orientali ad opera delle
cosiddette Tigri per la Liberazione del Tamil Eelam. Il teatro dello scontro armato è rappresentato
prevalentemente dalla penisola Jaffna, anche se le azioni terroristiche si concentrano su Colombo.
Con l'inizio delle ostilità da un lato si è interrotto il positivo trend economico-finanziario raggiunto,
dall'altro sono state mortificate le ampie potenzialità turistiche del paese. Il conflitto etnico ha
determinato un consistente flusso migratorio di individui verso altri territori. Questi lunghi e costosi
viaggi sono avvenuti inizialmente con un forte carattere di clandestinità e attraverso due rotte
privilegiate: la prima verso il Kazakistan e la seconda attraverso l'Oceano Indiano per giungere in
Puglia. In Italia dal 2002 al 2007, vi è stato un incremento del numero di immigrati dello Sri Lanka
di oltre il 78%. L'ORIGINE DEL CONFLITTO L'inizio del conflitto non è riconducibile al 1983,
anche se quell'anno segnò l'inizio del conflitto armato. È possibile individuare tre fasi temporali
relative al conflitto etnico: la prima, dal 1505(periodo coloniale) al 1950, in cui tamil e singalesi
convivono pacificamente; la seconda, dal 1950 al 1983, in cui la politica acuisce le distanze tra le
due etnie, e la terza, dal 1983 ad oggi, caratterizzata dallo scontro armato. Fin dall'età coloniale i
singalesi e i tamil lottavano per controllare Ceylon e già allora i tamil reclamavano la parte
settentrionale dell'isola. I primi colonizzatori fecero di Ceylon un porto strategico e una terra di
commercio di spezie. Successivamente si ebbero gli inglesi. Il rapporto con questi colonizzatori è il
più pacifico. In questo periodo giungono i tamil che si stabilirono nel nord e nell'est del paese.
Bisogna considerare che i poveri lavoratori delle piantagioni venivano trasferiti a migliaia di
chilometri verso nuovi territori e culture, le loro residenze erano le une vicinissime alle altre e le
loro vite avrebbero dovuto assecondare le esigenze delle colture. Nonostante ciò essi riuscivano ad
iniziare ed attuare, nei confronti delle autorità continue piccole forme di resistenza e di sfida. IL XX
SECOLO Fin dai primi anni del nuovo secolo i singalesi più acculturati e quelli che avevo
frequentato le scuole inglesi, riuscirono ad avvicinarsi sempre più al potere: nel 1912 riuscirono ad
eleggere un loro rappresentante al Consiglio legislativo del Governatore e dopo dieci anni ottennero
una maggioranza elettiva. Tali rare concessioni possono sottintendere da un lato il pacato
atteggiamento dei leader singalesi, e dall'altro la fiducia da parte dei colonizzatori inglesi. Negli
anni trenta i singalesi poterono sperimentare la democrazia parlamentare. Il 4 febbraio del 1948
Ceylon fu dichiarata indipendente. Ceylon rimase nel Commonwealth e fu permesso per diversi
anni agli inglesi di mantenere la base militare. L'esplosione della polveriera etnica è essenzialmente
dovuta alle vicende e agli avvicendamenti politici avuti nell'isola dopo il 1948. eppure i
provvedimenti del primo governo avevano ottenuto il plauso di molti. Nonostante non vi fosse stata
una seria pianificazione economica né una riforma agraria venne promossa l'iniziativa privata
locale, incentivando gli insediamenti agricoli e i progetti di irrigazione. Il primo governo sembrava
dunque aprire uno spiraglio al raggiungimento di n pacifico compromesso tra etnie e religioni
differenti. Ma il risultato elettorale del 1952 fu ribaltato nel 1956. Lo Sri Lanka Freedom Party,
alimentò il sentimento di avversione nei confronti dei tamil e verso l'influenza cristiana, captando i
favori della cultura che si percepiva come minacciata su due fronti, dall'élite occidentalizzata e dai
tamil. Solomon Bandaranaike, fu nominato primo ministro nel 1956. Nel 1958 il primo tentativo di
rendere il singalese la lingua ufficiale fece scoppiare tumulti così gravi da fra dichiarare lo stato
d'emergenza. Il 26 settembre 1959 fu assassinato il primo ministro Solomon Bandaranaike e la
moglie Sirimavo sarà la prima donna eletta primo ministro al mondo nel 1960 stabilendo il
singalese come lingua ufficiale, il buddismo come religione ufficiale e marginalizzando la
minoranza tamil. Nel 1972 il nome venne cambiato da Ceylon in Sri Lanka. Ciò fu sentito come un
offesa nei confronti dei tamil. Negli anni '70 le tensioni etniche esplosero. Nascono i primi gruppi
clandestini per la liberazione dell'Eelam e nel 1976 nacque il movimento armato Liberation Tigers
of Tamil Eelam, mentre sul versante politico i tamil facevano sentire la loro voce: nel 1977 il partito
separatista tamil vince tutti i seggi nell'area di Jaffna. Il caso dello Sri Lanka evidenzia come il
settore pubblico giochi un ruolo centrale nell'allocazione delle risorse e nella formazione delle
identità. Esso avrebbe dovuto sviluppare opportuni meccanismi per regolare le differenze tra
diverse etnie. I molteplici interventi del governo hanno compromesso la già precaria coesione tra
etnie provocando lo scoppio della guerra civile: nel 1983 alcuni gruppi di ribelli tamil, tra cui le
tigri, iniziarono lo scontro aperto per separare la nazione. Uno degli strumenti adottati è l'azione
terroristica. Dall'inizio delle ostilità ad oggi si stimano circa 80.000 vittime. RIFLESSIONI Le tigri
tamil aspirano alla secessione e all'indipendenza dei territori settentrionali ed orientali dell'isola.
Secondo i tamil si tratta di una guerra di liberazione. Per il governo invece l'offensiva rappresenta
una campagna antiterrorismo. Le riflessioni finali riguardano le possibili proposte al caso dello Sri
Lanka e il rapporto tra i conflitti etnici del mondo e i media. Sono state avanzate diverse tesi per la
risoluzione del conflitto. Una di queste è la cosiddetta soluzione etnica che prevede la
determinazione di quote etniche per le cariche dello stato. Tale proposta presenta però un evidente
potenziale esplosivo in quanto la determinazione di quote etniche comporta il pericolo di accettare
una volta per tutte l'importanza dell'etnicità. Altra soluzione potrebbe essere la riforma della
Costituzione in senso federalista. Ma qui entra in gioco l'anima tessa dello scontro in quanto ciascun
gruppo etnico in conflitto nel paese ritiene di appartenere all'unica etnia originaria dello Sri Lanka.
La soluzione allora deve essere politica e ampiamente condivisa. Il silenzio dell'UE che invece
dovrebbe acquisire una posizione forte e unitaria sullo scenario globale, e la marginale
considerazione dei media sui cruenti scontri di Jaffna aprono la strada ad una seconda riflessione.
Partendo dal presupposto che un conflitto etnico non può essere definito più meritevole di
attenzione rispetto ad un altro, appare riprovevole la quasi assoluta mancanza di diffusione delle
notizie e l'assenza di dibattiti relativi al conflitto in questione.

La geografia dell'interculturalità -
Appunti di Geografia economica,
Appunti di Geografia
Università degli Studi di Palermo

Prof. Girolamo Cusimano

Geografia

4.5
2Recensioni
SPAZI CONTESI SPAZI
CONDIVISI. GEOGRAFIA
DELL’INTERCULTURALITA’
Prefazione
Chiave di lettura del testo è la
possibilità o impossibilità di
definire o tracciare confini.
L'operazione originaria prevede
il tracciare una linea di
demarcazione temporale e
territoriale a partire da cui si
costruisce lo spazio
quantificabile e matematizzabile.
È il momento della nascita della
triade fondamentale alla base del
movimento della conoscenza:
soggetto, distanza, oggetto.
Inutile nascondere la difficoltà di
dare una definizione della
cultura, Taylor, la definisce
come un insieme che include le
conoscenze, le credenze, l'arte, la
morale, il diritto, il costume e
qualsiasi altra capacità e
abitudine.
Se ne deve poi sottolineare la
profonda compenetrazione con
l'economia e con la lingua.
La cultura costituisce perciò un
vero e proprio strumento
essenziale alla sopravvivenza
dell'uomo in quanto il suo
bagaglio organico non riesce da
solo ad orientarlo e a guidarlo,
gli fornisce quindi la modalità di
adattarsi e mutare
l'ambiente, e dunque è essa
stessa, l'ambiente dell'uomo.
Si può perciò ritenere che l'uomo
“si foggia negli spazi in cui
vive”.
Se la cultura è lo strumento
primario che orienta l'uomo, e se
è vero che essa trova attuazione
in forme particolari e
locali, allora sorgono molteplici
interrogativi sulla configurazione
spaziale e culturale delle città
odierne spiccatamente
pluriculturali.
È noto che tutte le società stanno
diventando sempre più
multiculturali, e più aperte alle
migrazioni multinazionali.
Parlare, però, di integrazione, di
multiculturalismo, come rilevano
Buttitta e Banini, non è un
passaggio immediato, e
anzi può considerarsi
problematico.
Alessandro Di Blasi discute
della città e del suo assetto
urbano contestando
l'inadeguatezza delle
pianificazioni
urbanistiche ai fini dell'incontro
sociale.
Consapevole della duplicità della
città come luogo d'incontro con
una alterità non sempre
rassicurante è Marco Picone
nella sua ricostruzione della
tolkeniana Brea.
Daniela Santus contesta la difesa
della presunta neutralità dello
Stato condotta in Francia
mediante una legge che vieta
ogni ostentazione di simboli
religiosi nella scuola pubblica e
ribadisce l'opportunità della
comprensione verso costumi
diversi in quanto “essere pronti
all'accoglienza non vuol dire
snaturarci per creare spazi
acritici da riempire”.
Non si deve dimenticare però la
precarietà della cultura;
caratteristica precipua di essa è
l'alternanza di ripetizione e
mutamento. Siamo difronte ad
un paradosso in cui l'uomo
dipende dalla cultura la quale è
un modello che non esiste al
di fuori delle azioni individuali e
dei luoghi culturali. Questa
dialettica propria dei modelli
culturali che oscilla tra
conservazione e mutamento è
proprio nell'ambito di
processi migratori messa a
dura prova, prestandosi a
estremizzazioni e forme di
sclerotizzazione. Secondo Elena
dell'Agnese è proprio la volontà
di fedeltà alla propria
cultura, sottratta a mutamento
che produce il cambiamento, con
i conseguenti fenomeni di
nazionalismo nelle comunità
diasporiche.
Ulteriore esempio di difficile
coesistenza culturale è lo studio
condotto da Leonardo Mercatanti
sul conflitto nello Sri
Lanka, in cui è proprio la volontà
di dialogo e di integrazione a
mancare. Si stratta di un
interessante esempio di come
“il settore pubblico giochi un
ruolo centrale nell'allocazione
delle risorse e nella formazione
delle identità”.
Quali sono le ragioni dei
movimenti migratori? Nella
miseria estrema e nella
disperazione è la disuguaglianza
e
l'assenza di opportunità di
soddisfare i bisogni primari che
annulla le differenze culturali
nelle società di partenza come
di arrivo.
Quale possibilità interculturale si
può configurare laddove il
problema è ancora quello della
fame e della insicurezza
sanitaria? Ne discute l'articolo di
Banini a partire dal legame tra
sottosviluppo e immigrazione, in
cui si rileva il
carattere strutturale del
sottosviluppo, a differenza
dalla povertà congiunturale
caratteristica dei paesi europei
in
passato, sede di ingenti
influssi emigratori. Ne discute
anche la riflessione di Elena
Di Liberto sulla questione
alimentare, che fa emergere da
un punto di vista etico e
interculturale le contraddizioni
etnocentriche di cui siamo
prigionieri quando ci facciamo
paladini di determinati diritti in
casa d'altri.
Le altre culture esistono e
dobbiamo vivere sempre, sia su
scala mondiale sia strettamente
mescolati in ogni singola
società(Taylor).
PARTE PRIMA
Franco Farinelli: Prima della
Geografia
Origine non è una parola da
prendersi alla leggera. Benjamin
distingueva l'origine dalla
genesi. L'origine non riguarda
la storia, ma quello che viene
prima e dopo il fenomeno cui si
riferisce. L'origine è qualcosa
che sta prima della causa
di quel che accade, essa preesiste
ai modelli e alle strutture. Essa
non può che essere il processo in
cui linearità e
causalità vengono alla luce. Tale
nascita è perciò la più dolorosa e
cruenta che la cultura occidentale
conosce, proprio
perché da essa tutte le altre
dipendono. Il suo racconto è
consegnato al canto IX
dell'Odissea, in i protagonisti
sono
Ulisse ed il ciclope Polifemo.
Questo nome significa: che dice
più cose, che chiama una cosa
con più nomi, dunque che
nel suo linguaggio la relazione
tra i nomi e le cose non è
biunivoca. Così quando Ulisse
dice di chiamarsi Nessuno altro
non fa che imitare il suo
antagonista assumendone se non
la logica il linguaggio.
In questo canto vediamo la
nascita del soggetto segue
l'invenzione dello spazio che è la
vera trovata in virtù della quale
i greci prigionieri del Ciclope
riescono a salvarsi. Polifemo
viene ingannato perché ragiona
in termini di mondo e non
di spazio: il primo infatti
funziona per livelli, il
secondo invece è costituito
dalla loro versione formale,
cioè
bidimensionale.
Seduto sulla soglia dell'antro e
con le spalle rivolte al mondo
esterno è nella stessa condizione
del portiere di calcio.
Insieme alla dimensione, però,
quel conta è la posizione di
Polifemo. Sdraiato a terra
durante il cruenti attacco che lo
renderà cieco, seduto durante
l'evasione dei suoi nemici, si
ergerà in tutta la sua natura
soltanto durante la loro fuga,
episodio finale in cui la trilogia
epistemologica fondamentale (il
soggetto, la distanza, l'oggetto)
avrà definitivamente
preso forma.
Una volta che lo spazio è
compiuto la geografia potrà
iniziare. E con essa la versione
del mondo che conosciamo, ma
che oggi sappiamo non essere
più sufficiente.
Antonino Buttitta: i nuovi
schiavi ovverosia del
multiculturalismo improbabile
PRESENZE E MEMORIA
Per quanto il flusso migratorio
abbia raggiunto una consistenza
di portata massiva nessuno si è
posto il problema dei
suoi esiti futuri. Il dibattito
politico e i conseguenti
provvedimenti legislativi, le
soluzioni adottate, le asettiche
ricerche
e analisi elaborate da studiosi di
vari ambiti hanno ignorato o
glissato il fatto che perdurando
gli attuali ritmi, entro il
prossimo ventennio il profilo
antropologico del nostro
continente subirà una radicale
trasformazione. Pure quanti
questo fatto sembrano percepire,
in realtà non ne hanno valutato
appieno gli effetti in ambito
economico, sociale,
culturale e dunque anche
politico.
Rispetto al fenomeno
considerato, passato e presente
mostrano tratti differenziali.
Nella preistoria, il trasferimento
si
determinò per gruppi
etnicamente omogenei, mentre
oggi si attua per infiltrazioni
disarticolate; per l'aspetto
sociale,
dall'alto con tendenza a dilatarsi
verso il basso, nel primo caso, e
dal basso con l'aspirazione ad
accedere all'alto per il
secondo. Le ragioni sono
evidenti. Nel passato s trattava
della conquista di nuovi territori.
Oggi invece è dovuto alla
arcaicità e insufficienza dei
sistemi produttivi delle aree
di provenienza, richiamate dal
più alto regime di vita
assicurato da strutture produttive
più avanzate.
Occorre considerare anche le
analogie tra i fenomeni migratori
del passato e quelli del presente.
La ricerca di nuovi
spazi vitali può essere definitiva
o temporanea. I due fenomeni
hanno in comune il carattere
della definitività. In
analogia con le grandi
migrazioni dell'Ottocento e dei
primi del Novecento verso le
Americhe, la maggior parte degli
attuali immigrati in Europa tende
a permanere. È possibile
prevedere con certezza quali
modificazioni questo fatto
determinerà in termini sociali
e culturali. Sappiamo però
che gli immigrati attuali nei
paesi europei tendono a
permanere nella loro cultura:
nella sfera religiosa, linguistica e
alimentare. Di conseguenza
potrebbero prodursi reali e
ben definite situazioni
multiculturali.
Questa eventualità appare
tuttavia molto problematica.
Perché possa realizzarsi sono
infatti necessari radicali
mutamenti istituzionali e
legislativi.
Le scelte della Comunità
Europea non segnalano
purtroppo cambiamenti
significativi in questa
direzione. La
legislazione italiana è molto
significativa al riguardo: un
esempio è la legge del 6 marzo
1998 n°40 “Disciplina
dell'immigrazione e norma sulla
condizione dello straniero.
Si è data rigida applicazione alla
volontà espressa dai legislatori di
attivare in ogni forma iniziative
per l'integrazione
linguistica degli immigrati e dei
loro figli attraverso le strutture
scolastiche. Viene applicata così
una politica della
integrazione linguistica forzata.
D'altra parte essendo la domanda
a precedere la risposta finiranno
con rafforzare e
stabilizzare una situazione già di
fatto esistente: l'uso dell'inglese
come lingua di scambio.
In ogni caso, sia nel
riconoscimento della parità
linguistica, sia nell'imposizione
della lingua dello stato ospite, è
erroneo pensare a esiti
eterodiretti.
L'ASLI (Associazione per la
Storia della Lingua Italiana) ha
proposto di: promuovere
l’insegnamento delle lingue
straniere in chiave di diversità
culturale, e non di ibridazione,
allo scopo di acquisire le
conoscenze interlinguistiche
necessarie per la costruzione
1
dell’unione Europea . Ma
quando le cultura entrano in
contatto tra loro, si producono
sempre processi di scambio, e
non si determina in genere la
cancellazione totale di una di
esse. Si può affermare che
l'imporsi dell'anglofonia, ha fatto
della cultura statunitense una
replica di quella inglese. Sarebbe
difficile capire a
nascita del jazz senza tener conto
della presenza negra sia pure in
situazione di assoluta
subalternità.
Al di là di ogni previsione sul
futuro dell'identità culturale dei
paesi europei è sicuro che la
massiccia presenza degli
immigrati determinerà
mutamenti notevoli. A parte
l'ambito religioso, fatti
significativi è già possibile
registrarne nel
settore alimentare. In tutti i
supermercati si trovano sempre
più spesso spazi dedicati ad
alimenti non appartenenti alle
tradizioni culinarie europee, e
non c'è città che non conti
esercizi dove sono in vendita
derrate alimentari consumate
solo da asiatici e africani. A
parte la moda, è un fatto che le
abitudini alimentari degli
immigrati tendono ad espandersi
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Nel 1975 a Salerno si parlò per


la prima volta dell'arrivo di
stranieri in un paese quale l'Italia
che aveva sempre
“esportato” notevol8i quantità di
persone in cerca di lavoro. Il
contributo intitolato: Esodo
agricolo e immigrazione in
Sicilia occidentale è di
Costantino Caldo il quale,
accanto ad una attenta analisi
delle cause e delle conseguenze
economiche e sociali legate
all'immigrazione straniera in
Sicilia, presta una particolare
attenzione agli scambi culturali
connessi alla mobilità geografica
della popolazione. Collega infatti
l'immigrazione agli antichi
legami tra Sicilia e
Tunisia verso la quale erano
emigrati molti isolani
diffondendo le conoscenze sulla
loro terra.
In un saggio successivo Caldo,
parlando degli immigrati in
Piemonte ne denuncia la
“marginalità sociale e culturale”
analizzandone le condizioni di
lavoro, quelle economiche, le
scarse possibilità di espressione
dei loro modelli di vita e
di dialogo con la cultura che li
ospita e con quella degli altri
stranieri a causa anche della
mancanza di conoscenze
linguistiche e di centri
associativi.
È quindi opportuno proporre
alcune riflessioni su questi
argomenti di cui la ricerca
geografica del nostro paese ha
iniziato ad occuparsi
diffusamente solo alcuni anni
dopo i suoi lavori.
Una significativa eccezione a
quanto appena detto è
rappresentata dalla scuola di
Palermo, dove per anni ha
lavorato
anche Caldo.
Lo sviluppo delle ricerche sugli
scambi culturali, è stato illustrato
da Giulia De Spuches nel 1997
descrivendo un ampio
progetto di ricerca internazionale
sui “Reseaux transnationaux
entre Europe et
Maghreb”sottolineando che le
comunità
magrebine immigrate in Sicilia
non interrompono i propri legami
con la società di partenza, ma
tendono ad instaurare
un rapporto complesso con
entrambe le società”.
IMMIGRAZIONE E
GEOGRAFIA CULTURALE
La dispersione territoriale delle
persone costituenti i singoli
gruppi etnici, se da un lato ne
favorisce l'interazione con gli
altri cittadini, dall'altro non
pregiudica gli scambi sociali e
culturali tra persone di una stessa
nazionalità grazie alle
facili e relativamente poco
costose opportunità di
spostamento di notizie, persone e
beni a breve, medio e lungo
raggio.
Con la mobilità la mobilità a
breve e medio raggio si
raggiungono i negozi etnici, i
luoghi di culto, ecc. Gli
spostamenti
a lungo raggio sono invece
facilitati dai servizi di trasporto
internazionale e intercontinentale
che consentono agli
immigrati di ritornare alle terre
di origine anche più volte
all'anno recandovi ogni genere di
beni di consumo durevole e
riportandovi i prodotti
tradizionali.
Un contributo importante nella
diffusione dei contatti tra le
persone di una medesima etnica
e cultura è dato pure dal
telefono mentre i call center
consentono di abbattere
ulteriormente i costi delle
comunicazioni internazionali.
La dispersione territoriale degli
immigrati in una città o area
metropolitana senza l'adozione di
adeguate politiche di
integrazione degli stessi, non
contribuisce che in parte al
superamento delle esclusioni dai
diritti di cittadinanza sociale
e culturale.
Le pur innegabili “barriere” tra
immigrati e società ospitante
non sono comunque
impenetrabili e ciò genera un
3
processo di “creolizzazione ”
di alcuni aspetti delle
diverse culture: emblematici,
sono i modelli alimentari. La
diffusione di questi è
favorita dalla “mercificazione”
dell'immagine delle cucine
nazionali correlata a visioni
stereotipate delle stesse da parte
dei consumatori e dai
conseguenti adeguamenti imposti
dal mercato agli operatori
economici. In futuro è
auspicabile che il dialogo
cresca passando dagli aspetti
commerciali “ad un rapporto
tendenzialmente simmetrico di
scambio”.
Coppola e Memoli hanno
dedicato un saggio alla
“geografia indiziaria”
dell'immigrazione studiando i
quartieri di
Napoli. Gli “indizi” raccolti sono
di tre tipi: il primo consiste nei
“nomi dei luoghi”, cioè
nell'attribuire denominazioni
italiane agli stranieri e agli spazi
in cui vivono; il secondo
riguarda i “nodi” e le
“traiettorie”, cioè i punti di
incontro ed
i percorsi degli immigrati
nella città; il terzo si
riferisce ai “luoghi di
ricomposizione”, cioè alle
temporanee
aggregazioni sul territorio delle
singole comunità.
Il termine “indizi” ci ricorda che
i “paesaggi dell'immigrazione”
sono più sovente “paesaggi
interstiziali” e “invisibili”.
Talvolta possono essere “letti”
solo dalla comunità straniera che
li ha creati, talaltra si tratta di
“segni esogeni” risultato
di una strategia per ottenere
riconoscimento.
CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE.
È necessario capire meglio i
bisogni di cittadinanza e le
“geografie dell'esclusione” legati
ai fenomeni immigratori in
atto nel nostro paese. Si tratta di
bisogni connessi al modo di vita
delle persone e che, non ci si può
illudere di
regolamentare e soddisfare
soltanto in base a norme di legge
calate dall'alto senza renderci
conto della complessità del
dialogo tra le diverse culture con
“indizi”, “invenzioni
dell'etnicità”e creazioni di
“paesaggi etnici”.
Questa è la sfida dei prossimi
anni nei quali si spera di “uscire
dall'emergenza” e di arrivare ad
una “integrazione
ragionevole” degli stranieri che
non potrà comunque essere
ottenuta limitandoci ai problemi
del lavoro, della casa o dei
clandestini, ma dovrà estendersi
alla sfera delle culture,
tenendo sempre conto dei “limiti
valori ali fissati dalla
Costituzione”.
Anche la geografia culturale può
aiutarci in questi sforzi e
pertanto deve progredire dal
punto di vista metodologico e
da quello dell'analisi dei casi di
studio.
Nel 1975 a Salerno si parlò per
la prima volta dell'arrivo di
stranieri in un paese quale l'Italia
che aveva sempre
“esportato” notevol8i quantità di
persone in cerca di lavoro. Il
contributo intitolato: Esodo
agricolo e immigrazione in
Sicilia occidentale è di
Costantino Caldo il quale,
accanto ad una attenta analisi
delle cause e delle conseguenze
economiche e sociali legate
all'immigrazione straniera in
Sicilia, presta una particolare
attenzione agli scambi culturali
connessi alla mobilità geografica
della popolazione. Collega infatti
l'immigrazione agli antichi
legami tra Sicilia e
Tunisia verso la quale erano
emigrati molti isolani
diffondendo le conoscenze sulla
loro terra.
In un saggio successivo Caldo,
parlando degli immigrati in
Piemonte ne denuncia la
“marginalità sociale e culturale”
analizzandone le condizioni di
lavoro, quelle economiche, le
scarse possibilità di espressione
dei loro modelli di vita e
di dialogo con la cultura che li
ospita e con quella degli altri
stranieri a causa anche della
mancanza di conoscenze
linguistiche e di centri
associativi.
È quindi opportuno proporre
alcune riflessioni su questi
argomenti di cui la ricerca
geografica del nostro paese ha
iniziato ad occuparsi
diffusamente solo alcuni anni
dopo i suoi lavori.
Una significativa eccezione a
quanto appena detto è
rappresentata dalla scuola di
Palermo, dove per anni ha
lavorato
anche Caldo.
Lo sviluppo delle ricerche sugli
scambi culturali, è stato illustrato
da Giulia De Spuches nel 1997
descrivendo un ampio
progetto di ricerca internazionale
sui “Reseaux transnationaux
entre Europe et
Maghreb”sottolineando che le
comunità
magrebine immigrate in Sicilia
non interrompono i propri legami
con la società di partenza, ma
tendono ad instaurare
un rapporto complesso con
entrambe le società”.
IMMIGRAZIONE E
GEOGRAFIA CULTURALE
La dispersione territoriale delle
persone costituenti i singoli
gruppi etnici, se da un lato ne
favorisce l'interazione con gli
altri cittadini, dall'altro non
pregiudica gli scambi sociali e
culturali tra persone di una stessa
nazionalità grazie alle
facili e relativamente poco
costose opportunità di
spostamento di notizie, persone e
beni a breve, medio e lungo
raggio.
Con la mobilità la mobilità a
breve e medio raggio si
raggiungono i negozi etnici, i
luoghi di culto, ecc. Gli
spostamenti
a lungo raggio sono invece
facilitati dai servizi di trasporto
internazionale e intercontinentale
che consentono agli
immigrati di ritornare alle terre
di origine anche più volte
all'anno recandovi ogni genere di
beni di consumo durevole e
riportandovi i prodotti
tradizionali.
Un contributo importante nella
diffusione dei contatti tra le
persone di una medesima etnica
e cultura è dato pure dal
telefono mentre i call center
consentono di abbattere
ulteriormente i costi delle
comunicazioni internazionali.
La dispersione territoriale degli
immigrati in una città o area
metropolitana senza l'adozione di
adeguate politiche di
integrazione degli stessi, non
contribuisce che in parte al
superamento delle esclusioni dai
diritti di cittadinanza sociale
e culturale.
Le pur innegabili “barriere” tra
immigrati e società ospitante
non sono comunque
impenetrabili e ciò genera un
3
processo di “creolizzazione ”
di alcuni aspetti delle
diverse culture: emblematici,
sono i modelli alimentari. La
diffusione di questi è
favorita dalla “mercificazione”
dell'immagine delle cucine
nazionali correlata a visioni
stereotipate delle stesse da parte
dei consumatori e dai
conseguenti adeguamenti imposti
dal mercato agli operatori
economici. In futuro è
auspicabile che il dialogo
cresca passando dagli aspetti
commerciali “ad un rapporto
tendenzialmente simmetrico di
scambio”.
Coppola e Memoli hanno
dedicato un saggio alla
“geografia indiziaria”
dell'immigrazione studiando i
quartieri di
Napoli. Gli “indizi” raccolti sono
di tre tipi: il primo consiste nei
“nomi dei luoghi”, cioè
nell'attribuire denominazioni
italiane agli stranieri e agli spazi
in cui vivono; il secondo
riguarda i “nodi” e le
“traiettorie”, cioè i punti di
incontro ed
i percorsi degli immigrati
nella città; il terzo si
riferisce ai “luoghi di
ricomposizione”, cioè alle
temporanee
aggregazioni sul territorio delle
singole comunità.
Il termine “indizi” ci ricorda che
i “paesaggi dell'immigrazione”
sono più sovente “paesaggi
interstiziali” e “invisibili”.
Talvolta possono essere “letti”
solo dalla comunità straniera che
li ha creati, talaltra si tratta di
“segni esogeni” risultato
di una strategia per ottenere
riconoscimento.
CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE.
È necessario capire meglio i
bisogni di cittadinanza e le
“geografie dell'esclusione” legati
ai fenomeni immigratori in
atto nel nostro paese. Si tratta di
bisogni connessi al modo di vita
delle persone e che, non ci si può
illudere di
regolamentare e soddisfare
soltanto in base a norme di legge
calate dall'alto senza renderci
conto della complessità del
dialogo tra le diverse culture con
“indizi”, “invenzioni
dell'etnicità”e creazioni di
“paesaggi etnici”.
Questa è la sfida dei prossimi
anni nei quali si spera di “uscire
dall'emergenza” e di arrivare ad
una “integrazione
ragionevole” degli stranieri che
non potrà comunque essere
ottenuta limitandoci ai problemi
del lavoro, della casa o dei
clandestini, ma dovrà estendersi
alla sfera delle culture,
tenendo sempre conto dei “limiti
valori ali fissati dalla
Costituzione”.
Anche la geografia culturale può
aiutarci in questi sforzi e
pertanto deve progredire dal
punto di vista metodologico e
da quello dell'analisi dei casi di
studio.
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benny_lespaul
quasi 8 anni fa
Economia, Scienze del turismo (Laurea Triennale)

veruccia1
più di 8 anni fa
Scienze della formazione, Scienze dell'educazione degli adulti e della formazione
continua (Laurea Magistrale)

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