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LA PRIMA GUERRA MONDIALE E L’ECONOMIA GIAPPONESE

Nel periodo che va dall’inizio delle riforme Meiji alla fine della prima guerra mondiale, grazie a
condizioni favorevoli, il Giappone si è rapidamente trasformato da paese feudale a potenza
imperialista.
Nella trasformazione capitalistica sono presenti un ritardo nel settore dei beni strumentali rispetto a
quello dei beni di consumo (in particolare prodotti tessili) e un ruolo fondamentale svolto dal
capitale statale
In questo periodo la nuova classe dominante è in grado di attuare la politica del FUKOKU KYOHEI
(paese ricco ed esercito forte)
Il passaggio allo stadio del capitalismo monopolistico fu favorito dal conflitto con la Russia zarista
(1904-05) durante il quale ricevette impulso l’industria pesante bellica
In questo periodo sono presenti un processo di concentrazione e di centralizzazione del capitale e un
consistente ricorso a prestiti occidentali destinati ad interventi sul continente asiatico e al
finanziamento di nuove imprese produttrici
Si assiste alla trasformazione da monopoli fondati su capitale mercantile a monopoli moderni
ZAIBATSU (gruppi finanziari).Questa trasformazione (1910) è parte del processo di passaggio al
capitalismo monopolistico ed è rilevabile dalla fusione del capitale zaibatsu e di capitale statale e
dal perfezionamento dei meccanismi della accumulazione del capitale zaibatsu stesso
L’economia giapponese trasse giovamento dalla guerra: i suoi prodotti sostituirono quelli dei paesi
imperialisti sui mercati asiatici e comparvero sempre più in occidente, il che fece aumentare di 5
volte la produzione industriale. Sommato all’incremento registrato in agricoltura, provocò una
crescente accumulazione di capitale in tutti i settori produttivi
Accanto a questa crescita economica, il Giappone presentava ancora alcuni punti deboli: gli
occupati in agricoltura erano oltre la metà della popolazione attiva e l’esodo verso le aree urbane fu
molto contenuto.
La struttura della forza lavoro e la debolezza dell’industria pesante indicavano come in Giappone
esistevano squilibri interni e come il paese dovesse ancora colmare il distacco con le nazioni più
forti (Stati Uniti e Gran Bretagna su tutti)
Nonostante il commercio estero giapponese si stese evolvendo in modo da aumentare le
esportazioni di macchinari e materiali metallici, fu il settore tessile a costituire la quota maggiore
delle esportazioni
L’aumento della produzione e del commercio con l’estero stimolò i mezzi di trasporto; anche i
collegamenti interni su rotaia beneficiarono della situazione economica favorevole
L’espansione produttiva si rifletté sulla bilancia dei pagamenti dell’impero, che accumulò enormi
crediti verso l’estero

Tutti i grandi capitali zaibatsu avevano la caratteristica di essere controllati in vari modi da tutta la
famiglia.
I rapporti tra i diversi membri della famiglia erano soggetti a regole precise: l’importanza del
consiglio di famiglia era nella limitazione che esso poteva imporre riguardo a scelte personali. Tra i
membri della famiglia esisteva una stretta interconnessione che mirava a garantire il
raggiungimento del comune scopo economico

LE SOCIETA’
I principali strumenti di intervento e di indirizzo della politica economica delle singole imprese
erano costituiti da incroci azionari, consigli direttivi, accordi manageriali e prestiti concessi dalla
banca
Nel periodo bellico furono create alcune società per azioni operanti nella cantieristica e nel settore
metalmeccanico e minerario. Nell’ immediato dopoguerra fu fondata la banca Mitsubishi.
L’indipendenza delle diverse società aveva limiti precisi che garantivano un continuo controllo da
parte della società madre GOSHI
Il presidente della goshi manteneva il supremo potere di decisione, divenendo il difensore
dell’interesse della famiglia proprietaria
Gli zaibatsu si avvantaggiarono non solo della situazione creata dalla guerra attraverso l’incremento
produttivo, ma anche dallo sfruttamento avviato in Cina: una politica di prestiti volta a favorire la
dipendenza economica cinese
I legami sempre più stretti che l’economia giapponese aveva allacciato con il mercato
internazionale influirono sull’economia stessa: negli anni ’20 alla fine del conflitto, ci fu una crisi
economica causata dalla caduta del commercio estero. Questo fu causato dall’incapacità della classe
dominante di stabilizzare i prezzi, i costi e i cambi dello yen. I mancati o errati interventi non
consentirono il mantenimento dell’equilibrio nella bilancia dei pagamenti
Lo stimolo dell’economia amplificò lo sfruttamento della classe lavoratrice e l’ineguale
distribuzione del reddito causò conflitti all’interno stesso della borghesia

IDEOLOGIA E POLITICA DELLA CLASSE DOMINANTE

Quando le potenze occidentali avevano imposto al Giappone con i trattati ineguali la fine
dell’isolamento politico e l’apertura del paese al commercio, ci furono numerose reazioni xenofobe
da parte di samurai che recitavano lo slogan “sonno joi” (onore all’imperatore e espulsione dei
barbari) nel quale si ribadiva la superiorità della cultura orientale. Il Giappone dovette cambiare
atteggiamento: la politica di rinnovamento Meiji faceva leva sullo slogan “fukoku kyohei” (paese
ricco ed esercito forte).

L’oligarchia che diresse il movimento riformatore seppe usare elementi della tradizione giapponese
per creare all’interno un’immagine nazionale nuova che prima non era necessaria.
Le resistenze ai trattati ineguali non si manifestarono solo nell’ambito della classe dominante: i
sentimenti xenofobi nel corso degli anni 80 aumentarono e a livello popolare la dipendenza del
Giappone dalle potenze occidentali era visibile. Le posizioni a riguardo erano 3:
- gli elementi più tradizionali sostenevano che l’impatto con l’Occidente e le scelte politiche degli
oligarchi Meiji avevano prodotto l’abbandono dell’insegnamento della tradizione confuciana,
che andavano ripristinati
- gli intellettuali giapponesi erano i paladini di una occidentalizzazione che eliminasse ogni
residuo confuciano e tradizionale della cultura nipponica
- una linea mediana prevalse e si basava sulla nipponizzazione . Si trattava di favorire una
occidentalizzazione compatibile con la tradizione giapponese

Le attività e le produzioni culturali dei vari gruppi ponevano in primo piano il problema
dell’identità culturale e dell’immagine nazionale del Giappone
Con il procedere del processo di transizione al capitalismo, la politica del fukoku kyohei contribuì
alla ridefinizione del kokutai (sistema nazionale); esso era giustificato storicamente nella
fondazione della dinastia divina e dal carattere sacro del territorio giapponese. Il kokutai era il
sistema che assicurava l’attuazione del fukoku kyohei e si fondava sull’ideologia dell’unità e della
solidarietà nazionale.
La politica dei giapponesi verso l’esterno mirava all’espansione e alla conquista come uniche
garanzie di difesa del kokutai. Il fine ultimo era la prosperità dello stato che dipendeva dall’armonia
tra chi governa e chi è governato.Nelle campagne il governo intervenne allo scopo di mantenere
vivi i valori della cooperazione che si stavano perdendo a causa della differenziazione contadina e
della formazione di una classe di grandi proprietari assenteisti. L’azione del governo si ispirò al
nohonshugi (ruralismo) che denunciava il processo di modernizzazione ed era convinto che
l’agricoltura fosse indispensabile per creare un paese stabile.
La dottrina sociale della classe dominante non si fondava soltanto su valori tradizionali: l’ideologia
del kokutai era connessa con la logica capitalistica. All’interno del paese l’unione tra elementi
tradizionali e moderni avveniva in relazione all’ideale confuciano di armonia.

POLITICA

Secondo la costituzione, il governo era libero da interferenze parlamentari e al di sopra dei partiti
che avrebbero rappresentato una parte ma non tutto lo stato. Esso era protettore dell’interesse
particolare delle classi non rappresentate nella Camera bassa in quanto escluse dal voto.

La formazione dei vari partiti politici furono il risultato di vicende travagliate che non aiutavano
alla formazione di linee politiche chiare. Fu principalmente opera di ex samurai che avevano fatto
parte del movimento riformatore aikoku koto (partito patriottico) jiyuto (partito liberale) entrambi
fondati da Itagaki Taisuke .

Ito, uno dei più potenti oligarchi del Meiji era convinto che la costituzione e una assemblea elettiva
fossero indispensabili per ottenere la revisione dei trattati ineguali.
La difficoltà dei partiti politici nel contrastare le scelte autoritarie dell’oligarchia dominante
derivavano dalla mancanza di obbiettivi unitari e dalla poca energia dimostrata come forze di
opposizione.
La Camera alta era composta da nobili di nomina imperiale mentre la Camera bassa (l’unica
elettiva) era quasi senza poteri e questo poneva dei limiti all’azione dei partiti.
La nomina dei governi era compito dell’imperatore. La maggioranza in parlamento non era vitale
per la vita di un governo o per la scelta del primo ministro che era competenza del consiglio dei
genro. Nel 1918 un uomo di partito, Hara Takashi, diventò primo ministro.
Il potere legislativo limitato dalla volontà dell’imperatore (contro la quale il parlamento non poteva
agire) era ulteriormente ristretto dalla facoltà dell’imperatore di emettere ordinanze con valore di
legge.
Il consiglio dei genro era un organismo informale extracostituzionale di cui facevano parte
personaggi importanti della politica. Costituiva una barriera tra imperatore e sudditi e come organo
al di sopra delle parti era decisivo nella scelta dei capi di governo. Senza la approvazione dei genro
non era possibile avere una carriera brillante.
Un altro centro di potere era la corte imperiale che svolgeva un ruolo decisionale in virtù dei poteri
conferiti all’imperatore dalla costituzione.
In Giappone la decisione politica era articolata in più centri di potere con obbiettivi omogenei; le
differenze riguardavano i mezzi per raggiungere lo scopo comune: la realizzazione del kokutai per il
quale era indispensabile una vigorosa interpretazione del fukoku kyohei.

ECONOMIA E SOCIETA’ RURALE DEGLI ANNI VENTI

Nel 1918 a causa dell’aumento del prezzo del riso dovuto alla scarsità di trasporti marittimi, al
cattivo raccolto e alla speculazione dei grandi importatori, scoppiarono in Giappone i moti del riso
(kome sodo). Queste agitazioni denunciavano l’esistenza di problemi sociali irrisolti e per superarli
le masse iniziarono a fare ricorso alle rivendicazioni di lotta, mentre lo stato rispose con una dura
repressione poliziesca.
Dopo la fine della prima guerra mondiale, il Giappone a seguito dello sviluppo economico
vorticoso, risentì maggiormente della depressione mondiale del 1920 e il capitalismo entrò in una
fase di recessione cronica.
Con la fine della guerra, la crisi di sovrapproduzione si manifestò in pochi mesi. Questo fu dovuto
alle riduzioni delle esportazioni sui mercati e alla diminuzione della domanda di merci giapponesi.
Nel 1920 ci fu crisi sia produttiva sia commerciale tanto che gli indici di esportazione e di
importazione quasi dimezzarono.
Da un lato si verificò la caduta dei prezzi in tutti i settori e dall’altro si registrò il fallimento di
importanti attività finanziarie e di imprese bancarie che furono salvate soltanto grazie all’intervento
governativo.
Il governo attuò una politica incentrata sulla concessione di prestiti a basso interesse e
sull’allargamento del credito, con gravi conseguenze inflazionistiche che avrebbero impedito poi di
fronteggiare le successive depressioni.
Nel 1922 gli altri paesi importanti avevano superato la fase di recessione, ma il Giappone era ancora
lontano dal riuscirci. Le difficoltà economiche furono aggravate poi nel 1923: un terremoto
nell’area di Tokyo che costò al paese mezzo miliardo di Yen di danni; si aggravò la bilancia
giapponese dei pagamenti a seguito della massiccia importazione di beni necessari.
Gli eventi negativi nell’economia si riversarono anche sull’agricoltura: agli effetti positivi della
guerra (generati dall’aumento dei prezzi), fece seguito una lunga fase di stagnazione agricola. Le
cause di questo tracollo rurale furono molteplici, come ad esempio l’importazione dalla corea e
Taiwan di riso a livelli superiori al periodo prebellico. A ciò si deve aggiungere il crollo dei prezzi
della seta grezza e del cotone dovuto alla diminuzione della domanda sul mercato internazionale: ne
risentirono i bilanci delle famiglie rurali. Tutti toccarono il fondo nel 1922, ma poi le cose
migliorarono dal 1925 in poi, grazie ad un piccolo incremento della produzione agricola dovuto
all’applicazione di tecniche e di tecnologie più avanzate.
Mentre cresceva la produttività in agricoltura, diminuì l’esodo dalle campagne: la disoccupazione
industriale fece ritornare la ex forza lavoro ai villaggi di origine.
L’incremento della produttività agricola permise di assorbire meglio la diminuzione
dell’emigrazione verso la città e il ritorno dalla città dei disoccupati: il numero delle famiglie rurali
aumentò un po’.

L’esperienza di lavoro come lavoratori industriali fece capire ai fittavoli che potevano avere più
denaro come lavoratori che come affittuari e che il carico di lavoro era spesso più leggero e l’orario
di lavoro più breve.
I modesti incrementi della produttività rendevano comunque precarie le condizione di vita dei
contadini e degli affittuari, che dovevano versare al proprietario il 50% del raccolto; aumentò così il
numero delle locali unioni degli affittuari che nel 1922 formarono la nihon nomin kumiai (unione
dei contadini giapponesi) fondata da Sugiyama Motojiro. Questo movimento ebbe un buon
sviluppo, ma non era un movimento unitario né negli obbiettivi né nell’organizzazione.

Ma l’estendersi delle organizzazioni provocò la reazione della classe proprietaria che vedeva posti
in discussione e in pericolo i propri interessi e privilegi.
Le associazioni di proprietari terrieri si moltiplicarono e condussero un’azione di pressione sulle
autorità locali e nazionali per i problemi che stavano causando loro gli affittuari. I grandi e medi
proprietari volevano contrastare l’azione delle Unioni contadine che costituivano un pericolo per il
diritto di proprietà: in questo ambiente nascono le basi di massa del fascismo giapponese.
Le unioni contadine valutavano come unica risorsa di lotta il boicottaggio dei pagamenti e l’uso
dello strumento legislativo. I proprietari fecero petizioni rivolte al governo e al parlamento come
strumento di pressione sulle autorità competenti per la repressione delle rivolte contadine.
Queste furono le conseguenze più vistose delle difficili condizioni economiche nelle campagne del
paese, che portarono alla prima crisi agricola generale determinata dalla caduta del prezzo del riso
nel 1921. Questo crollo dei prezzi che colpì altri prodotti fondamentali per l’economia delle
famiglie rurali, aumentò il divario tra le condizioni di vita nelle città e nelle campagne dove ci fu un
costante indebitamento delle famiglie
Per attenuare la crisi nelle campagne, il governo potenziò la bonifica e tentò il controllo dei prezzi
del riso. Per quanto riguarda la bonifica, le nuove terre coltivabili aumentarono di quasi 30 volte in
15 anni, ma nel controllo dei prezzi del riso, i suoi sforzi per stabilizzarli furono del tutto inefficaci.
Più tardi, dopo il 1930, fu raggiunta la stabilizzazione economica.
L’intervento del governo avvenne anche attraverso le cooperative agricole, che offrivano prestiti a
breve termine ai piccoli coltivatori il cui credito personale fosse abbastanza alto, ma non
intervenivano in favore degli affittuari poveri, favorendo così l’espansione capitalistica.

PROLETARIATO E CETI MEDI DEGLI ANNI VENTI

La transizione accelerata al capitalismo diede origine ad una notevole concentrazione urbana. Il


processo di inurbamento si accentuò negli anni della prima guerra mondiale; il fenomeno migratorio
è facilmente rilevabile dalla crescita registrata dalle città.
La crescita urbana di Tokyo fu favorita dalla molteplicità delle funzioni proprie di capitale non
soltanto politica ma anche economica e culturale del paese: a Tokyo furono concentrate le più
importanti attività del paese. L’espansione della capitale fu segnata da un profondo cambiamento
strutturale: i lavoratori salariati concentrati a Tokyo aumentarono fino a diventare il 21.4 % del
totale nazionale.
Altre città crebbero a seguito delle correnti migratorie: Yokohama, Osaka, Kobe, Kyoto e Nagoya.
Le agglomerazioni industriali che sorsero nel nord dell’isola di Kyushu dovettero il loro sviluppo
all’esistenza di miniere di carbone e alla facilità di collegamenti con il continente .
Lo sviluppo degli agglomerati urbani conseguente al processo di industrializzazione, fu
caratterizzato dalla costruzione di edifici moderni nelle aree centrali, sedi di imprese e di uffici
pubblici e privati e dalla crescita disordinata di zone periferiche simili a baraccopoli che non a
quartieri residenziali.
La rapida espansione industriale e la contemporanea crescita della classe operaia furono pronunciate
negli anni della prima guerra mondiale. In Giappone non esisteva nessuna legislazione che
regolasse i rapporti di lavoro e le condizioni dei lavoratori erano totalmente lasciate a discrezione
dei singoli imprenditori.
La forza crescente della classe operaia aveva iniziato a lottare contro lo sfruttamento disumano cui
era sottoposta e indusse il governo a promulgare la kojoho (legge sui luoghi di lavoro). Con tale
provvedimento era vietato l’impiego nella produzione dei minori di 12 anni e l’orario di lavoro era
di 12 ore. Nel 1925 le imprese in cui la legge era applicata, erano scese a poco più della metà e,
considerando anche le piccole imprese, la legge sul lavoro era operante soltanto nell’1,6% delle
imprese industriali!
Per la classe lavoratrice il problema principale era rappresentato dall’aumento del costo della vita e
dalla disoccupazione causata dalla diminuzione del commercio con l’estero e della produzione. Il
raddoppio numerico della classe operaia unita alla pressione governativa, con la continua riduzione
della libertà di espressione politica e sindacale, provocarono un costante aumento dei conflitti di
lavoro.
Gli interventi del governo non riuscirono a cancellare totalmente le lotte sindacali in Giappone
anche se esse diminuirono.
Nel 1912 ci fu la costituzione della yuaikai (associazione della fratellanza) grazie all’iniziativa di
un intellettuale cristiano: Suzuki Bunji e di altri 13 lavoratori. Alla sua costante crescita corrispose
l’aumento delle lotte operaie, alle quali l’associazione dava il proprio appoggio partecipando alle
trattative con la controparte. Queste azioni provocarono la reazione delle imprese che intervennero
con l’appoggio dell’autorità governativa per sciogliere le sezioni della yuaikai. La sua consistenza
però aumentò con i moti del riso.
Suzuki Bunji propose al congresso della yuaikai di trasformarsi in sodomei ,che fu riorganizzata in
sindacati di settore a base federativa regionale e rivendicò la promulgazione di una legge per la
previdenza sociale, l’abolizione del lavoro notturno e il miglioramento della condizioni di lavoro
dell’artigianato.
Con la fondazione della sodomei trasse beneficio e slancio per le proprie lotte a partire dal 1920,
anno della crisi postbellica.
La concentrazione urbana verificatasi nel paese fu determinata dallo sviluppo del settore terziario, a
seguito dell’estendersi delle attività commerciali e finanziarie, delle comunicazioni e delle libere
professioni causato dall’aumento della produzione e del commercio estero.
Parallelamente al processo di espansione e di concentrazione industriale si accentua la
specializzazione degli impiegati e dirigenti con un aumento del numero dei laureati. Con
l’inserimento di un numero di laureati specializzati a livello dirigenziale, le relazioni all’interno
delle imprese si caratterizzarono come comunicazioni della dirigenza verso le diverse divisioni e
sezioni a loro volta sfruttate in modo più efficiente a seguito di una più precisa divisione del lavoro
e dei compiti.
La crescita dell’economia determinò la rapida espansione del sistema burocratico statale:
aumentarono i funzionari statali, anche se spesso a determinare le loro scelte politiche, più delle
esigenze e delle condizioni economiche, erano determinate dalla difficoltà di trovare un diverso
posto di lavoro anche in conseguenza del consolidamento dell’assunzione a vita che tendeva a far
scartare coloro che si ponevano come dipendenti non fedeli.
Negli anni a ridosso della prima guerra mondiale, la classe media crebbe notevolmente e iniziò ad
esprimere una propria cultura e proprie idee politiche tendenzialmente progressiste, liberali, in
antagonismo con il capitale monopolistico zaibatsu. Numerosi giornalisti democratici ebbero un
ruolo di primo piano nella lotta per l’istituzione di un governo parlamentare, che avesse cioè
l’appoggio della maggioranza della Camera bassa.
La fine del conflitto mondiale che aveva segnato la vittoria del liberalismo, del progressismo e della
democrazia contro l’autoritarismo, avrebbe dovuto condurre ad un periodo di grande cambiamento.
Le classi popolari avevano l’urgenza di ampliare le proprie libertà e i propri diritti attraverso
l’introduzione da parte dello stato di una serie di riforme sociali che garantissero una politica
assistenziale in favore dei lavoratori e che riconoscessero i sindacati.
Si trattava di applicare in Giappone il minponshugi (governo del popolo). Le richieste di
ricostruzione e di rappresentanza politica si unirono nel fusen undo (movimento per il suffragio
universale).l’allargamento della base elettorale era la premessa essenziale per l’attuazione del
minponshugi.
La classe operaia, a causa della continua oppressione governativa e poliziesca, non aveva mai
potuto darsi un’organizzazione politica efficace e stabile. Negli anni di relativa democrazia il
proletariato ebbe la possibilità di occupare spazi di azione politica. Oltre alla sodomei venne
fondata la lega per il socialismo, anche se il governo ne decretò lo scioglimento prima della sua
seconda assemblea per paura dell’espandersi delle manifestazioni, anche se non riuscì ad impedire
la fondazione di altre organizzazioni politiche della classe operaia.
Nel 1922 si tenne un incontro segreto, il primo congresso del Nihon kyosanto (partito comunista
giapponese); dopo la persecuzione poliziesca fu sciolto nel 1924 per poi essere ricostituito
clandestinamente nel 1926. In quell’anno si affacciano sulla vita politica del paese il partito degli
operai e dei contadini giapponesi e il partito socialista di massa
L’elezione a primo ministro di Hara Takashi nel 1918, per il fatto che il suo governo fu composto
esclusivamente da parlamentari del partito di maggioranza, alimentò le speranze dei sostenitori del
movimento democratico. Tali speranze andarono deluse sia per i rapporti di forza esistenti tra i vari
gruppi di potere, sia per le relazioni personali che Hara stesso aveva intrecciato negli anni di
direzione del ministero degli interni con la frazione dominante della camera dei pari.
Il tentativo di intraprendere una politica conciliativa nei confronti della classe operaia derivava dal
fallimento delle associazioni dei riservisti sostenute dall’esercito: nonostante militari e dirigenti
d’azienda collaborassero per rafforzare l’ordine ed eliminare le agitazioni operaie in fabbrica i loro
successi erano limitati perché nelle aree urbane non esisteva la necessità di armonia e di
collaborazione come nelle campagne, e perché i lavoratori giapponesi cominciarono ad organizzarsi
sindacalmente e a tentare di imporre la contrattazione collettiva. Al di la delle proposte conciliative,
l’azione del governo rimase ostile al movimento sindacale.
La politica antioperaia del governo non migliorò quando dopo l’assassinio di Hara Takashi alla
carica di primo ministro venne chiamato il generale Kato Tomosaburo:
sotto il suo governo nel 1923, 13 iscritti alla sezione di Nagoya del partito comunista furono
arrestati dalla polizia. La repressione antioperaia fu particolarmente sanguinosa dopo il grande
terremoto del Kanto del 1 settembre 1923.
Nonostante la costante repressione poliziesca, la classe operaia diede vita ad una serie di lotte e si
organizzò meglio: su una popolazione attiva operaia nel settore industriale, l’adesione dei lavoratori
giapponesi fu esigua. Il sindacato era debole anche per la diversità di adesioni tra i diversi settori
occupazionali.
Il fulcro della nuova legge per il mantenimento dell’ordine pubblico fu la protezione del kokutai
(sistema nazionale): diffondere lotte di classe e chiedere un diverso equilibrio nella gestione del
potere statuale significava mettere in discussione il kokutai e rompere l’armonia sociale. Le lotte
politiche e sindacali di classe divennero crimini politici.
I due maggiori partiti, il Seiyukai e il Kenseikai (minseito) si schierarono a favore della legge per
paura del confronto politico con i partiti proletari.

CRISI BANCARIE ED ECONOMIA DI GUERRA

L’economia giapponese degli anni venti fu caratterizzata da una successione di crisi di varia
dimensione le cui origini sono dati dalla persistente debolezza del settore chimico e pesante, la
quale non consentì l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti con l’estero e nella mancanza di una
politica deflazionistica.
Gli zaibatsu non investirono nell’industria pesante e chimica, in quel settore il nucleo era composto
ancora dal capitale statale. Altrettanto importante è il capitale monopolistico nell’industria cotoniera
che poté mantenere un alto livello di autofinanziamento.
Questi fattori di squilibrio resero l’economia giapponese più debole rispetto a quelle occidentali. A
questa instabilità si aggiunse il grave terremoto nel Kanto del 1923.
Nel periodo 1926-27 il governo decise di risolvere il problema dei titoli perduti durante il
terremoto: tale misura era stata suggerita dal ministro delle finanze allo scopo di rilanciare la
concorrenzialità del Giappone sul mercato internazionale. Quasi tutte le banche alle prese con questi
titoli perduti, erano in situazioni tragiche e molte di esse non poterono far fronte alle richieste di
rimborso dei conti a causa dei depositi in passivo.
Il governo elargì prestiti, ma si rivelò insufficiente e la ditta commerciale Suzuki fece bancarotta per
i debiti non rimborsabili.
Il governo Wakatsuki voleva dare prestiti speciali agli istituti in difficoltà, ma era il consiglio
privato si oppose e il governo si dimise. Nei tre giorni di vuoto al potere il disordine nel settore
bancario crebbe ulteriormente.
Il nuovo governo si diede da fare e fece sospendere i pagamenti delle banche nazionali e la Banca
del Giappone diede prestiti d’emergenza. Queste norme raggiunsero l’obbiettivo, ma ci fu una
riorganizzazione nel settore bancario: i depositi rimborsabili si concentrarono dalle piccole banche
ai conti correnti postali e nelle maggiori banche, in tal modo le cinque grandi banche dei maggiori
gruppi zaibatsu consolidarono la loro supremazia, il loro dominio economico-finanziario e il loro
controllo monopolistico sull’industria.
Agli effetti negativi della grande crisi si sommarono gli effetti del ripristino della liberalizzazione
dell’oro che produsse nel paese una perdita di valuta estera.
Questo ripristino era appoggiato dalle grandi banche zaibatsu che erano attratte da esportazioni di
capitali più proficue. C’erano poi le imprese di esportazione che risentivano delle continue
oscillazioni del cambio dello Yen.
Le pressioni di queste forza economiche indusse il governo a ritornare alla situazione precedente il
1917, allo scopo di diffondere lo Yen nei confronti delle monete degli altri paesi capitalistici che
avevano reintrodotto la liberalizzazione dell’oro.
Quando il Giappone decise di fare altrettanto, c’era già stato il crollo di Wall Street : ci fu una
violenta caduta dei prezzi e una contrazione della produzione industriale, i prezzi diminuirono del
17%. Gli effetti negativi si ebbero soprattutto sulla produzione ed esportazione della seta che
dipendevano dalla prosperità americana. La crisi delle famiglie contadine, i licenziamenti nel settore
richiesero l’intervento del governo che con il ricorso alla “legge per l’indennità di stabilizzazione
del prezzo della seta”, diede finanziamenti per oltre 100 milioni di Yen.
Gli effetti della grande crisi furono meno rilevanti nel settore finanziario, la cui riorganizzazione
consentì alle banche maggiori di consolidare la tendenza ad incrementare il loro giro d’affari,
aumentando le percentuali dei depositi e dei prestiti.
Ci fu anche un ampliamento delle spese per gli armamenti necessari a sostenere l’invasione
giapponese della Manciuria iniziata nel 1931. La politica degli armamenti fu molto più importante e
incisiva all’interno dell’economia giapponese di quella degli interventi a favore dell’agricoltura.
Le misure adottate per superare la recessione aumentarono il divario tra piccola e grande impresa, a
vantaggio anche dei nuovi zaibatsu che puntavano sulla chimica per entrare in concorrenza con i
vecchi zaibatsu.
L’abbandono del sistema monetario aureo voluto da Takahashi Korekiyo, provocò la svalutazione
dello Yen: con il deprezzamento della moneta, le esportazioni giapponesi aumentarono. Grazie alla
politica di Takahashi il Giappone cominciò a riprendersi dalla crisi. La politica economica dello
stato ormai proteggeva e stimolava il capitale monopolistico e diede inizio al processo di transizione
al capitalismo.
I nuovi zaibatsu erano nati per contrastare la supremazia assoluta di quelli vecchi e furono facilitati
dall’atteggiamento dei monopoli tradizionali, in quanto questi erano poco inclini ad ampliare i
propri investimenti nei settori in sviluppo; questo per necessità economiche e organizzative interne
ai vecchi zaibatsu.
Il ruolo che svolse la burocrazia non soltanto fu quello di difendere la proprietà privata, ma anche
quello di tutore delle manovre a beneficio del grande capitale, attraverso l’elaborazione di
appropriati strumenti giuridici.
Nel periodo compreso tra la conquista della Manciuria e l’invasione della Cina, il capitale
monopolistico incrementò i propri investimenti grazie allo sfruttamento imperialista delle colonie.
Il Giappone così si inserì nella contesa interimperialistica e si schierò a fianco di altre potenze
fasciste

OPERAI E CONTADINI DURANTE LA GRANDE CRISI

Il processo di progressiva concentrazione e centralizzazione del capitale, sono segni chiari


dell’affermarsi sempre più del capitale monopolistico, ma rappresentano anche le barriere che si
frapposero alla possibilità di attuare una politica agraria che mirasse al miglioramento delle
condizioni economiche dei coltivatori: la necessità di mantenere i diritti dei jinushi (proprietari
terrieri) costituiva un freno all’attuazione di una diversa politica economica nelle campagne.
Fu soltanto nel 1938 con l’entrata in vigore della legge sulla terra coltivabile e della legge per il
controllo delle aree coltivabili che le scelte politiche governative penalizzarono la politica agraria
dei jinushi in favore dei coltivatori. Questo si realizzò attraverso stanziamenti statali per il
consolidamento dei debiti delle famiglie contadine, per l’assistenza all’artigianato e per aiuti tecnici.
La condizione dei contadini giapponesi era sempre al limite della sussistenza ed è confermato dalla
struttura della proprietà fondiaria: su oltre 5,5 milioni di famiglie contadine il 10% aveva proprietà
superiore ai 2 ettari.
Sull’economia rurale si fecero sentire gli effetti della grande crisi del 1929: a causa del raccolto
abbondante del 1930, il prezzo del riso precipitò; nei due anni successivi, a causa di pessimi
raccolti, il carico dei debiti e degli affitti divenne insostenibile.
Secondo dati ufficiali, il debito complessivo dei contadini si aggirava sui 5 miliardi di Yen;
mediamente ogni famiglia era indebitata per una somma superiore alle rendite di un anno! .
Nel 1932 il ministero elaborò un programma per la rinascita dei villaggi di campagna, montani e
marittimi tendente ad agevolare l’acquisizione di cibo, vestiario ed utensili agricoli da parte delle
comunità più povere.
Questo atteggiamento non era dettato da preoccupazioni ruraliste, ma era basato sulla convinzione
che l’economia di villaggio era essenziale per favorire l’autosufficienza alimentare del Giappone in
caso di guerra e che in qualche modo era necessario ripagare i contadini che a seguito del prelievo
fiscale sostenevano i finanziamenti statali degli armamenti.
Tra il movimento contadino giapponese e il movimento operaio che aveva preso vigore a seguito
della crescita numerica del proletariato, i legami rimasero labili. Oltre a questo fattore incisero su
tutto il movimento di classe giapponese, le restrizioni legislative e la repressione da parte della
classe dominante.
Il cardine della politica antiproletaria fu la chian ijiho (legge per il mantenimento dell’ordine
pubblico) entrata in vigore nel 1925.
La scoperta di un numero elevato di militanti comunisti tra gli studenti universitari, indusse la classe
dominante ad inasprire, fino all’introduzione della pena di morte, questa legge; ciò avvenne dopo
una riunione congiunta del Consiglio privato e del governo, tenuta alla presenza dell’imperatore.
L’azione di dissuasione contro gli elementi pericolosi, non avvenne solo con la repressione. Fu
ampio il ricorso da parte dei procuratori del pensiero al tenko (conversione, mutamento della
posizione ideologica).
Negli anni della crisi economica, la contrazione della produzione e la conseguente diminuzione
dell’occupazione industriale si ripercossero negativamente sul proletariato urbano e sugli strati
inferiori della società rurale (operai e piccoli coltivatori.
Sotto molti aspetti, l’invasione in Manciuria è un punto di svolta nello sviluppo del capitalismo
giapponese: essa rappresentò un tentativo della classe dominante di colpire il movimento
rivoluzionario cinese e di costruire una base di minaccia alla Russia; significò una più consistente
garanzia per gli investimenti imperialistici giapponesi e si rivelò lo strumento per superare le
contraddizioni di classe indicando un comune obbiettivo esterno.
La situazione dei lavoratori urbani precipitò costantemente durante la guerra, ma furono migliori le
condizioni di vita dei coltivatori; essi non soltanto dovevano rifornire i soldati al fronte e fornire
forza lavoro nelle fabbriche di munizioni, ma dovettero anche provvedere all’incremento della
produzione alimentare.
Le condizioni di vita non fiorenti dei lavoratori giapponesi subirono negli anni della grande crisi e
in quelli successivi nuove e più gravi limitazioni dovute all’ampliamento della quota di profitto a
favore della borghesia. Non furono le necessità della difesa nazionale a determinare la repressione
antiproletaria, bensì quelle della difesa degli interessi politici ed economici del capitale
monopolistico

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