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Professoressa: Egle Corrado

Sbobinatore: Vita Augusta


Controsbobinatore: Lorenzo Trapani
Lezione n°3

Ipertensione: classificazione, fattori di rischio, diagnosi, terapia, caso clinico


Oggi parleremo come terzo argomento dell’ipertensione nella sua fisiologia, epidemiologia e trattamento.
L’ipertensione arteriosa è definita tale quando i valori di pressione sistolica superano i 140mmHg e quelli di
pressione diastolica superano i 90mmHg.

Questa accanto è l’ultima classificazione dei


livelli di pressione arteriosa, che leggiamo
facendo particolare attenzione al valore di
sistolica isolata caratteristica degli anziani.

La relazione continua tra livelli di pressione


arteriosa e rischio cardiovascolare rende
arbitraria ogni definizione o classificazione
numerica dell’ipertensione. Infatti la
valutazione non si deve basare solo sul valore
numerico della pressione arteriosa, ma anche
sulla stima del rischio cardiovascolare globale
del paziente. In Italia il 33% degli uomini e il
31% delle donne è iperteso, cioè o con valori
uguali a superiori di 160/95 o in trattamento farmacologico e circa il 50% degli uomini e il 34% delle donne
non viene trattato farmacologicamente.

Questi accanto sono numeri che


rendono l’idea di quanto sia
diffusa l’ipertensione arteriosa e
di quanto sia una condizione
comune nella popolazione
adulta. Ovviamente essa diventa
più comune all’aumentare
dell’età e soprattutto sembra
essere molto frequente nei
soggetti che presentano un’età
superiore ai 60 anni.

Se dovessimo chiedere alla


popolazione generale “Quanti
conoscono i valori di pressione
arteriosa e colesterolemia
ideali?” questi sarebbero i dati
che otterremmo: circa il 70% degli intervistati conosce i valori desiderabili di pressione, circa il 33% quelli di
colesterolemia.

Per quanto riguarda i gruppi di età, i soggetti tendono soprattutto in età giovanile a non misurarsi la
pressione arteriosa poiché probabilmente lo ritengono un problema dell’età più avanzata. Infatti con
l’avanzare dell’età sempre più soggetti tendono a misurarsi la pressione arteriosa, spesso anche perché uno
dei familiari è affetto.
Se dovessimo però considerare quanto incide la
pressione arteriosa sulla mortalità
cardiovascolare, questo è un dato molto
importante perché l’ipertensione arteriosa è
molto legata alle malattie del sistema
cardiocircolatorio e le malattie del sistema
cardiocircolatorio costituiscono una grande fetta
di incidenza di morte in Italia.

Classificazione dell’ipertensione arteriosa


In base all’eziologia noi solitamente
distinguiamo:

 Una forma primitiva, detta essenziale o


idiopatica;
 Una forma secondaria, ad eziologia nota. L’ipertensione secondaria comprende soltanto il 5-10%
dei casi e solitamente origina da una patologia sottostante a livello renale, endocrino, vascolare o
neurogeno.

L’ipertensione arteriosa primaria è sicuramente la forma più frequente di ipertensione arteriosa ed è di


solito ad eziologia sconosciuta. L’interazione di condizionamenti ambientali (stress, livello di sedentarietà,
obesità e comportamenti della dieta) e di influenze genetiche può favorire l’aumento dei valori ed
influenzare il decorso e la prognosi. Per esempio, proprio per l’alimentazione molto ricca di sale e spezie,
l’ipertensione è una patologia molto frequente nei soggetti di origine non europea. Anche la familiarità è un
fattore di rischio molto importante e solitamente i figli di genitori ipertesi tendono in età adulta a diventare
ipertesi.

Il discorso cambia per l’ipertensione secondaria, che ha meccanismi patogenetici conosciuti. Si sviluppa a
causa di una patologia sottostante che, se identificata in tempo, può essere corretta con la conseguente
risoluzione dello stato ipertensivo. L’ipertensione secondaria deve essere sospettata nelle persone giovani
che hanno un’ipertensione severa (parliamo di livelli di pressione molto elevati) e che rispondono male alla
terapia medica. Solitamente sono soggetti che fanno associazione di più farmaci antiipertensivi.
Dunque, quando dobbiamo sospettare un’ipertensione secondaria?

 In caso di un’ipertensione insorta


in età giovanile, solitamente
sotto i 40 anni (più frequente fra
i 20 e i 30 anni di età);
 Quando ha un esordio repentino;
 Se è refrattaria ai trattamenti,
quindi è iporesponsiva o non
responsiva a tre o quattro classi
di farmaci antiipertensivi in
combinazione;
 Se associata a segni o sintomi di
patologie che possono
determinare un’ipertensione
secondaria.
Le possibili cause di ipertensione secondaria sono indicate qui accanto.

a. Tra le cause renali reversibili identifichiamo:


- La stenosi dell’arteria renale (la causa in assoluto più frequente);
- L’idronefrosi;
- La pielonefrite;
- Il tumore secernente renina.
b. Le cause endocrine sono ascrivibili a:
- Ipercortisolismo;
- Feocromocitoma;
- Iperaldosteronismo;
- Iper-ipo-tiroidismo;
- Iperparatiroidismo.
c. Le cause vascolari riguardano soprattutto l’età molto giovanile e sono:
- La coartazione aortica;
- Le vasculiti, come la sindrome di Takayasu, la poliarterite e la sclerodermia.
d. Tra le cause iatrogene troviamo l’assunzione di:
- Farmaci, come FANS, glucocorticoidi, decongestionanti nasali;
- Liquirizia;
- Alcol;
- Caffeina.
e. Tra le cause neurologiche distinguiamo:
- Il tumore endocranico;
- La sindrome di Guillain-Barrè;
- La quadriplegia;
- L’encefalite.
f. Come invece cause irreversibili renali abbiamo:
- L’insufficienza renale cronica (IRC);
- Il rene policistico.

In conclusione, l’ipertensione secondaria tende ad essere rara in confronto alla molto più diffusa
ipertensione essenziale. Però è importante, soprattutto di fronte a soggetti giovani o che non rispondono
alla terapia, prendere in considerazione tutte le cause che possono determinare un’ipertensione secondaria
in modo tale da porre in diagnosi differenziale l’ipertensione essenziale con la secondaria e le cause di
ipertensione secondaria fra loro. La diagnosi è sempre di esclusione, in quanto si devono escludere in
anticipo tutte le cause determinanti una refrattarietà alla terapia antiipertensiva.

L’ipertensione primitiva è come già detto la forma più frequente. Ricordiamo che la pressione arteriosa è
data dalla portata cardiaca per le resistenze periferiche totali, dunque i meccanismi ipertensivi possono
agire o mediante un aumento della portata o un aumento delle resistenze.
Inoltre l’ipertensione è il primum movens dell’aterosclerosi, perché l’ipertensione tende a dare uno stress
sulla parete vascolare che, oltre ad inspessirsi, può dare origine al danno endoteliale con modificazione del
metabolismo dei lipidi, richiamo dei macrofagi e quindi la formazione dell’aterosclerosi.

La prognosi dell’ipertensione arteriosa dipende da:

 Origine (primitiva o secondaria), gravità e durata dell’ipertensione;


 Adeguatezza del controllo terapeutico;
 Presenza di fattori di rischio, di patologie associate, e soprattutto dal danno d’organo. Infatti se
l’ipertensione ha già dato danno d’organo avrà un impatto diverso sulla prognosi rispetto ad una
ipertensione che non lo ha dato perché di recente riscontro e che riusciamo a controllare bene con
la terapia antiipertensiva.

L’ipertensione dà luogo a tutta una serie di complicanze che interessano tutti i distretti vascolari, come
indicato nell’immagine sottostante.

L’ipertensione, inoltre, pone il paziente a rischio di altre malattie, come si può vedere dagli importanti dati
mostrati nelle immagini sovrastanti. Dunque in generale possiamo dire che il paziente iperteso, rispetto al
normoteso, ha una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari che possono interessare tutto l’albero
vascolare, quali ictus, scompenso cardiaco, coronaropatia, vasculopatia periferica, nefropatia terminale.

Quando noi valutiamo un paziente con ipertensione dobbiamo:

1. Prima di tutto stabilire quali sono i sui livelli di pressione;


2. Identificare le cause secondarie di ipertensione;
3. Valutare il rischio cardiovascolare globale ricercando la presenza di altri fattori di rischio, di danno
d’organo e di patologie concomitanti.

Misurazione della pressione arteriosa


I valori che noi misuriamo in ambulatorio, sia in un ambulatorio di medicina generale sia in uno di
cardiologia, con lo sfigmomanometro devono essere uguali a quelli di riferimento, anche se sappiamo bene
che un solo rilievo di pressione arteriosa elevata non è bastevole per fare diagnosi di ipertensione. Il
monitoraggio nelle 24h (che vedremo più avanti a proposito delle indagini diagnostiche nel paziente
iperteso) deve essere preso in considerazione quando ci rendiamo conto che c’è un’eccessiva variabilità dei
valori clinici o grande discrepanza tra i valori clinici che rileviamo noi e quelli che misura il paziente a casa.
Solitamente quello che conviene, e che dobbiamo fare, è sempre incoraggiare l’automisurazione a
domicilio, cioè il paziente con sospetto di ipertensione arteriosa deve essere educato a fornire alla visita
successiva al medico un diario della
pressione arteriosa dove per 7-10
giorni può appuntare due volte al
giorno (non in continuazione!) i valori
pressori nel corso della giornata.

Qui accanto abbiamo delle


raccomandazioni da seguire nella
misurazione della pressione arteriosa.
Lasciare il paziente seduto per qualche
minuto in una stanza tranquilla per
esempio è funzionale ad evitare la
comune ipertensione cosiddetta da
camice bianco. Come indicato nel
secondo punto, una terza misurazione
è necessaria per discrepanze di 30-
40mmHg.

Ovviamente misurare la pressione


arteriosa in entrambe le braccia alla
prima visita (primo punto immagine a
lato), sebbene molto utile, è di scarsa
applicazione, soprattutto se il numero
di visite è elevato. Il secondo punto
va preso in considerazione anche
nell’anziano, in cui una terapia molto
potente non è da incoraggiare perché
il soggetto anziano va spesso incontro
a ipotensione ortostatica (il farmaco
antipertensivo molto potente
potrebbe aggravarne l’ipotensione
ortostatica).
Dovranno sempre essere utilizzati
come riferimento i valori pressori
rilevati da noi nell’ambulatorio, anche
perché il paziente potrebbe utilizzare
lo strumento per la misurazione in
maniera non adeguata o lo stesso
strumento potrebbe non essere tarato
bene. Nel caso di una considerevole
variabilità tra i valori pressori rilevati
ambulatorialmente e quelli riferiti dal
paziente, allora va incoraggiato e
prescritto il monitoraggio della
pressione arteriosa. Tutto ciò per
cercare di capire se il paziente ha una
resistenza al trattamento, se esiste
davvero una discrepanza tra i valori, se
la terapia è adeguata.

Questi accanto sono i valori pressori che dovremmo rilevare


sia nella misurazione ambulatoriale che nel monitoraggio a
domicilio. Ovviamente è da tenere in conto che in un soggetto

deep si avrà sempre un decremento della


pressione arteriosa nelle ore notturne.

Fattori di rischio
Quello che occorre fare è anche stratificare i
pazienti in base al rischio cardiovascolare
globale, tenendo conto, oltre che dei livelli
pressori, anche dei fattori di rischio aggiuntivi
(tabella a lato), degli eventuali danni d’organo,
del diabete mellito (glicemia a digiuno >126 mg/dl e glicemia post prandiale >198 mg/dl), delle condizioni
cliniche associate.

In base a tali dati si raggiunge una valutazione del rischio che determina un valore pressorio da non
superare in base al grado di rischio.

Ogni volta che associamo il


fattore di rischio
all’ipertensione di grado 1 o di
grado 2 il suo rischio tende ad
aumentare. Vedete infatti
come pazienti con pressione
normale con uno o due fattori
di rischio presentano un rischio
cardiovascolare aggiunto basso,
ma man mano che o la
pressione aumenta o
aumentano i fattori di rischio il
soggetto tende ad aumentare il
suo rischio cardiovascolare.
Così come un paziente di grado
3 cioè un paziente con
un’ipertensione elevata in
assenza di fattori di rischio presenta un rischio aggiuntivo elevato. Quindi va da sé che è sempre necessario
valutare il rischio cardiovascolare globale del paziente, perché la presenza di più fattori di rischio
solitamente non aggiunge ma moltiplica il
rischio cardiovascolare.

La sindrome metabolica è l’esempio


perfetto di quello che abbiamo appena
detto, perché è la costellazione di fattori
di rischio maggiori, di stili di vita, di fattori
di rischio emergenti; i pazienti infatti
hanno elevata incidenza di cardiopatia
ischemica. Essa viene definita dall’OMS
come la presenza di più di tre fattori di
rischio fra quelli indicati nella tabella
accanto.

In base a quanto detto, il trattamento


deve essere tanto più aggressivo quanto
sono più presenti i fattori di rischio, ad
esempio nei pazienti diabetici o nefropatici vanno suggeriti valori stabili sotto i 130/80.
Dunque la decisione di iniziare un trattamento antiipertensivo si basa sia sul livello di pressione sistolica e
diastolica, sia sul rischio cardiovascolare globale. Il goal primario del trattamento è quello di raggiungere il
minor rischio cardiovascolare globale.

Terapia farmacologica e non


L’immagine sottostante mostra ciò che ci suggeriscono le ultime principali linee guida. Cioè di iniziare il
trattamento sicuramente in un grado 1 di ipertensione accompagnato da un corretto stile di vita, mentre
per pazienti con valori normali-alti di pressione arteriosa va effettuata in prima istanza la correzione dello
stile di vita e va considerato il trattamento farmacologico se i pazienti presentano una malattia
cardiovascolare associata.

Questi sono i livelli di


pressione arteriosa
suggeriti in base alla
presenza di
ipertensione, diabete,
malattia coronarica,
renale cronica, stroke o
TIA. Mostra come in
pazienti con più fattori di
rischio o malattie
cardiovascolari vengono
suggeriti valori pressione
arteriosa più bassi
possibile, mai sotto i
120mmHg ma
sicuramente inferiori
130/80.

Oltre al trattamento farmacologico è da consigliare una modifica dello stile di vita, che è dimostrato riduca
il rischio cardiovascolare e l’ipertensione. E quindi: abolizione del fumo, calo ponderale, riduzione
dell’eccessivo consumo di bevande alcoliche, esercizio fisico, dieta iposodica, incremento dell’apporto
alimentare di frutta e verdura e riduzione dell’assunzione di grassi totali e saturi.
I farmaci antiipertensivi disponibili vanno dai diuretici ai beta-bloccanti, ai calcio antagonisti, agli ACE
inibitori, agli antagonisti recettoriali di angiotensina II, agli alfa1-bloccanti, fino ai bloccanti dei recettori
adrenergici centrali.

 I diuretici hanno varie sedi di


azione e il loro meccanismo si
esplica attraverso la natriuresi, che
causa riduzione della gittata
cardiaca e della volemia, e la
vasodilatazione. I più usati sono
idroclorotiazide, clortalidone,
indapamide, bendrofluazide.
Bisogna considerare che tutti
farmaci hanno effetti collaterali:
quello principale in ambito di
diuretici tiazidici è l’ipokaliemia o
l’alcalosi metabolica, seguito da
ipomagnesiemia, iperiuricemia,
ridotta tolleranza glicidica, ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia e impotenza.

 I beta-bloccanti li distinguiamo in selettivi


beta, non selettivi e sia beta che alfa. Il più
usato è il carvedilolo; il bisoprololo invece
è il farmaco cardine per lo scompenso
cardiaco. Esplicano il loro meccanismo
antiipertensivo attraverso la riduzione
della gittata cardiaca (sia della gittata
sistolica che della frequenza cardiaca), il
resettaggio barocettoriale, l’attività
antireninica e l’aumento delle
prostaglandine. Anche questi presentano
effetti collaterali quali astenia, disturbi del
sonno, impotenza, estremità fredde,
aumento della trigliceridemia e del
colesterolo LDL (e riduzione di quello
HDL), e infine ridotta tolleranza glicidica.
Nei broncopatici i non selettivi posso dare
broncospasmo, dunque si usano i selettivi.

 Dei calcio antagonisti conosciamo


l’amlodipina, la nifedipina, la lacidipina.
Hanno un marcato effetto vasodilatatore
periferico molto importante. Alcuni di
questi come il diltiazem e il verapamil
hanno un effetto sulla conduzione e sulla
contrattilità cardiaca. Hanno effetti metabolici assenti, ma possono dare effetti collaterali tra cui i più
frequenti sono gli edemi periferici nel caso dei farmaci diiropiridinici, associati a Flushing e tachicardia;
invece le benzodiazepine e le fenilalchilamine possono dare stipsi, blocchi cardiaci e riduzione della
contrattilità.

Tutti i farmaci antiipertensivi possono essere combinati fra loro. In passato si tendeva a combinarne due,
oggi esistono molte molecole che prevedono per esempio l’associazione di calcio antagonisti, ACE inibitori e
beta-bloccanti. Quindi con un solo farmaco, soprattutto in pazienti che hanno un’ipertensione elevata di
grado 2 o 3, possiamo iniziare con un’associazione di due o più farmaci.

Esistono poi delle


controindicazioni assolute o
relative dei farmaci
antiipertensivi. Ad esempio
una controindicazione assoluta
dei diuretici tiazidici è la gotta,
mentre quelle dei beta-
bloccanti, proprio per la
riduzione della frequenza
cardiaca, sono i blocchi atrio-
ventricolari di secondo o di
terzo grado; gli ACE inibitori
infine sono assolutamente
controindicati sia per la stenosi
bilaterale delle arterie renali,
sia in corso di gravidanza.

Fra i trattamenti non


farmacologici, come accennato prima, sicuramente il primo è quello di suggerire al paziente di dimagrire,
cercare di praticare attività fisica e sportiva di tipo amatoriale, ridurre l’uso di sale da cucina. Questi
interventi diminuiscono di 7-8mmHg la pressione arteriosa sistolica e di 5mmHg la diastolica.

Per questo sono state istituite delle


linee guida che suggeriscono una sana
dieta mediterranea, che è la più adatta
in assoluto. La terapia dietetica deve
essere prima di tutto ipocalorica,
esistono ormai molti siti che
permettono di calcolare l’introito
calorico di un paziente in base alla vita
sedentaria o sportiva. Questo porta
oltre alla riduzione della pressione
arteriosa, anche alla riduzione dei livelli
di colesterolo, un minimo aumento del
valore del colesterolo HDL, che
sappiamo essere il cosiddetto
colesterolo buono, una riduzione del
fabbisogno di farmaci ipoglicemizzanti, ipotensivi e ipolipemizzanti.

In conclusione possiamo dire che trattare l’ipertensione, sia con terapia farmacologica che con la dieta (che
a sua volta consente di ridurre l’introito di farmaci) è non solo obbligatorio sulla base dell’evidenza clinico-
scientifica, ma anche vantaggioso dal punto di vista economico, perché così si riduce il rischio
cardiovascolare.

Caso clinico
Di seguito verrà proposto un caso clinico per rendere l’idea in pratica di ciò che abbiamo trattato in teoria,
con un paziente che rientra nell’ipertensione di grado 1.
Chiaramente tenendo conto della classificazione dell’ipertensione sulla base dei livelli pressori vista a inizio
lezione, possiamo inquadrare il paziente in un’ipertensione arteriosa di grado 1, quindi lieve. Come ridurre
allora il rischio cardiovascolare?

 Aumentando l’impatto educazionale;


 Stratificando il rischio cardiovascolare;
 Modificando lo stile di vita (anche un’attività
fisica blanda come salire le scale o
camminare negli spostamenti);
 Trattando in maniera efficace i fattori di
rischio;
 Considerando, se è il caso, il trattamento
integrato dei farmaci.

Visitiamo il paziente e questo è quanto evidenziamo


all’esame obiettivo.

A questo punto chiediamo un approfondimento


diagnostico, anche perché il paziente ci ha detto di
avere avuto un infarto miocardico giovanile nella sua
famiglia. A destra i risultati degli esami ematochimici
richiesti.
Su queste basi il paziente
presenta dei valori di
semaforo giallo per i valori di
glicemia, di colesterolemia, di
lipidi e proteinuria. È un
paziente con sindrome
metabolica positivo a tutti i
parametri.

Dopo un’indagine più dettagliata, possiamo dire che questo paziente, inizialmente inquadrato in una
ipertensione arteriosa di grado 1, ha un elevato rischio cardiovascolare aggiuntivo per la presenza di 3 o
più fattori di rischio (vedi tabella sulle categorie di rischio cardiovascolare). Il caso in questione è quello più
frequente che capita in ambulatorio: questo dimostra come non dobbiamo fermarci al solo dato numerico
che riscontriamo misurando la pressione arteriosa, ma bisogna individuare il rischio cardiovascolare del
paziente, perché questo modifica totalmente sia la sua prognosi che il nostro percorso diagnostico-
terapeutico.

Quindi nel signore G.L. non ci limitiamo ad


intervenire attraverso le sole modifiche
dello stile di vita, ma proprio in forza del
suo rischio cardiovascolare elevato,
dobbiamo anche iniziare una terapia
farmacologica.

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