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Etica e Politica
Fu Benedetto Croce, nelle sue annotazioni su Machiavelli, che notò come la messa a fuoco della
dicotomia tra morale e politica è da vedersi come la vera e propria fondazione di una filosofia della
politica.
Nel Principe Machiavelli vuole farci comprendere che il politico deve avere la capacità di infrangere
il comandamento morale perché il fine della politica, che è quello supremo, deve prevalere su ogni
altro e quindi prendersi cura della comunità; le considerazioni fra giusto e ingiusto passano in
secondo piano. Non si tratta di una scissione tra etica e politica, ma al conflitto di due etiche: da un
lato un’etica centrata sull’individuo e sulla sua coscienza del bene e del male, dall’altro un’etica
della polis dove il principale valore diventa la partecipazione alla vita della comunità, nella quale
l’individuo realizza la sua virtù e afferma la sua libertà. Anche se, secondo Machiavelli, l’uomo che
si batte per il bene della patria deve essere pronto a sacrificarle anche il bene della sua anima.
Il conflitto etica-politica è uno dei temi più centrali della filosofia politica: alcuni hanno posto questo
conflitto come strutturale e insuperabile, altri come conciliabile (tra cui spicca Max Weber).
Secondo Weber l’azione morale si pensa in almeno due modi:
- chi agisce seguendo l’etica della convinzione, agisce conformemente a ciò che si ritiene essere il
comandamento della morale (faccio ciò ritengo giusto), disinteressandosi delle conseguenze;
- chi agisce seguendo l’etica della responsabilità, invece, si sente in dovere di rispondere anche
delle prevedibili conseguenze della propria azione. L’azione moralmente giusta non è quella che si
limita a rispondere a un precetto, ma quella che attua concretamente un bene nel mondo, o
concretamente impedisce un’ingiustizia.
Il grande politico è solo colui che riesce a seguire l’etica della responsabilità (vocazione). Il politico
responsabile deve sapere che, entrando in una dimensione dove vigono il potere e la forza, non
può fare a meno di entrare in contatto con persone demoniache, col male; ma al tempo stesso sa
che non è un semplice cedimento al male, ma è proprio ciò che gli impone la sua etica di
responsabilità. L’etica della convinzione e l’etica della responsabilità sono complementari e al
tempo stesso creare una possibile tensione (fra etica personale e agire politico). Ad es. il politico è
totalmente contrario alla guerra ma nella nazione di confine vi è in atto un genocidio, che potrebbe
minacciare la sua nazione e allora è costretto ad intervenire; quindi vengono meno i valori privati
ma si mette in risalto il problema della collettività. A questo punto la responsabilità nel guidare il
paese diviene etica.
3. Tommaso d’Aquino
Alla metà del XIII secolo, con la diffusione delle traduzioni delle opere di Aristotele, il pensiero
cristiano dà luogo ad un grande rinnovamento, segnato dalla figura di Tommaso d’Aquino. Mentre
in Agostino la riflessione sulla politica partiva da un antropologia pessimistica, in Tommaso, anche
in seguito alla ricezione del pensiero politico di Aristotele, subentra una visione improntata alla
prosecuzione e alla continuità: la natura e la realizzazione del bene terreno si superano e si
compiono nella dimensione della grazia e della realizzazione del bene spirituale. In questo
orizzonte, la politica costituisce una sfera che, anche se collocata sul piano umano, ha la sua
autonomia e il suo positivo spazio in quanto attraverso di essa si attua il bene dell’uomo.
La legge che sta al di sopra di tutte e che governa l'intero universo è la legge eterna che coincide
con la sovranità di Dio su tutte le creature. Questa legge coincide con la ragione divina che ordina
tutto in vista del meglio, noi esseri umani, inclusi i pagani, non possiamo coglierla fino in fondo
anche se dotati di ragione. Per questo anche le creature ragionevoli vi sono sottoposte, ma in
maniera particolare: il modo in cui gli uomini dotati di ragione partecipano della legge eterna è la
legge naturale (verità che riusciamo a cogliere anche se non si è cristiani, data la ragione umana),
nota a tutti gli uomini, valida in ogni tempo, le cui prescrizioni sono finalizzate al bene comune e
alla felicità. Essa prescrive tutto ciò che giova a conservare la vita dell’uomo, mentre proibisce ciò
che va contro questo fine. Gli uomini però devono essere educati alla disciplina della virtù, e siano
puniti qualora se ne allontanino: questa è la funzione delle leggi umane o della legge positiva di
modo che le passioni e le cattive abitudini non li condizionino. La funzione delle leggi umane è
assicurare che tra gli uomini regni la pace, che siano bandite le ingiustizie reciproche, grazie al
timore del castigo. Le leggi umane o positive hanno il loro fondamento nella legge di natura, che
non devono mai contraddire. La giustizia è definita come la volontà costante di dare a ciascuno il
suo, mentre il diritto viene distinto in diritto naturale, che deriva dalla natura stessa della cosa; e il
diritto positivo, deriva o da un accordo privato, o da un patto pubblico, o da ciò che è stabilito dal
principe. Poiché l’animo umano è corruttibile a volte risulta difficile perseguire la legge positiva è
proprio in questo contesto che interviene la legge divina, che indice quella verità che cogliamo
dalle sacre scritture, che a disciplina a seconda del contesto storico, la legge positiva decisa dal
sovrano o dal legislatore.
Tommaso considera il vivere in società come conforme alla natura dell’uomo (zoon politikon):
l’uomo fa parte della famiglia, e questa della città, e il bene del singolo non è fine ultimo, ma lo è il
bene comune (che non è in conflitto con il bene del singolo perché realizza il suo bene in un
contesto più vasto: comunità, famiglia). Il potere politico, quello che si esercita sugli uomini liberi
(non su servi o schiavi), è una necessità per la convivenza umana, che non dipende dalla natura
umana corrotta dal peccato originale, ma dal bisogno della moltitudine di una direzione per
orientarsi al bene comune. Tommaso sostiene che anche nello stato di innocenza servirebbe il
potere politico.
Vediamo la distinzione di Tommaso dei vari tipi di ingiustizia:
- se la legge ingiusta comanda qualcosa contro Dio, gli uomini non sono tenuti a obbedire. Il
comando di Dio è superiore al comando del principe e vincola l’uomo contro di esso;
- se le leggi sono inique, attentano al bene comune che la legge dovrebbe promuovere, ma
possono essere ingiuste in vari sensi: o perché mirano solo a soddisfare il bene del principe, o
perché escono dai limiti di competenza di chi le emana, o perché impongono ai sudditi oneri in
modo iniquo. Queste leggi non obbligano in coscienza, ma sarebbe consigliabile rispettarle per
evitare scandali o disordine. Il governo tirannico è una legge ingiusta, poiché la legge non è
indirizzata al bene comune ma al solo vantaggio del despota. Secondo Tommaso, che in generale
condanna la ribellione come peccato, non considera la resistenza al despota come tale, a meno
che non sfoci in mali peggiori di quelli che i cittadini subivano sotto il potere tirannico. Inoltre non è
lecito uccidere il tiranno.
Per quanto riguarda la migliore forma di governo, anche qui Tommaso segue la Politica di
Aristotele. Nella Summa Teologica, Tommaso sostiene che la forma migliore di regime politico è
una forma “mista” che riassuma in sé i vantaggi delle tre forme pure, cioè monarchia,
dell’aristocrazia e della democrazia: il potere di comando deve essere detenuto da un’autorità
unica (monarchia), che però è affiancata da un ampio corpo di cittadini qualificati (aristocrazia),
scelti nell’ambito del popolo ed eletti dal popolo stesso (democrazia).
Rispetto al rapporto tra potere politico e potere religioso, Tommaso ribadisce che il potere
spirituale del pontefice sia superiore a quello secolare; quest’ultimo deve presiedere alle attività
umane e assicurare l’attuazione di una vita buona su questa terra; però è soggetto alle
intromissioni del primo solo in ciò che tocca il fine della beatitudine eterna (e non la felicità
terrestre).
Solo con il Monarchia di Dante (XIV secolo) questa subordinazione viene messa in discussione:
non vi è un potere spirituale posto in un piano più elevato dal potere secolare, poiché anche il
primo riceve la sua investitura direttamente da Dio, senza intermediari. Il potere politico dovrà
rispetto e devozione a quello religioso, senza però che si traduca in una vera e propria
subordinazione.
Tommaso, inoltre, si chiede data l’esistenza dei principi cristiani come si ci debba porre nei
confronti della guerra, e quindi quando la guerra può essere ritenuta giusta e individua 3 criteri:
deve essere decisa dall’autorità; che vi sia una giusta causa (x es. difendersi da invasioni
nemiche); che sia sorretta da una motivazione retta, es. l’intenzione deve essere quella di riportare
la pace.
4. Il liberalismo radicale di John Stuart Mill (1806-1873). Inglese, anche il padre era un filosofo.
La lettura di Democrazia in America di Tocqueville esercitò una notevole influenza sul pensiero di
Mill, portandolo all’elaborazione di un originale liberalismo radicale, caratterizzato, per un verso,
dall’apertura nei confronti del socialismo; per l’altro, da una difesa della libertà e
dell’anticonformismo individuale.
L’utilitarismo di Jeremy Bentham pone come fine della morale e della legislazione la realizzazione
della massima felicità per il maggior numero di persone, ovvero sostiene che la giustizia è una
questione di utilità (la legge è utile nei confronti della collettività?) e Mill, riflettendo su tale principio,
si rende conto che la felicità non può essere intensa solo come la ricerca del benessere individuale
sul piano utilitaristico, perché bisogna considerare anche la crescita personale e delle capacità
umane.
La sua visione progressiva e umanistica, lo porta a guardare con molta simpatia al movimento
socialista, e ad esprimere le sue teorie nei Principi di economia politica del 1848. Una delle tesi più
caratteristiche del Mill economista è: mentre le leggi che governano la produzione della ricchezza
sono del tutto indipendenti dalla volontà umana, la distribuzione della ricchezza dipende dalle leggi
e dalle consuetudini della società, ed è quindi modificabile attraverso l’intervento cosciente degli
uomini. Quello che Mill critica è il modo in cui la ricchezza viene distribuita nella società del suo
tempo, infatti “chi lavora di più ha meno compenso”. È questa proporzione erroneamente inversa
che deve essere modificata, magari tramite un sistema comunistico. Tuttavia Mill ritiene che
questo sistema produce dei rischi per quanto riguarda lo sviluppo libero della personalità umana,
che rimane il fine fondamentale per l’autore. Quindi sarebbe preferibile combinare l’istituto della
proprietà privata con delle politiche di riforma sociale, partendo dall’istruzione e dalla limitazione
della crescita della popolazione: misure che reputa efficaci per abbattere la povertà, aggiungendo
ad es. lo sviluppo della produzione cooperativa tra lavoratori oppure tra lavoratori e datori di lavoro.
Nei “Principi”, Mill critica del capitalismo il fatto che esso si basi su una distribuzione ineguale delle
proprietà, mentre difende il principio della libera concorrenza, con la sola eccezione della
concorrenza fra i lavoratori. Egli non crede che l’accumulazione illimitata e che la lotta alla
concorrenza possa durare all’infinito, prima o poi l’umanità lascerà alle spalle la continua corsa
verso la crescita dei guadagni.
Per quanto riguarda il contributo di Mill alla filosofia politica, lo troviamo soprattutto nella sua opera
più letta, On liberty, del 1859. Mill, come Tocqueville, è preoccupato che l’invadenza dello stato e
la tirannia della maggioranza possano soffocare la libertà individuale delle persone. Quindi Mill si
interroga sull’esercizio della libertà individuale e di come poter risolvere il problema in cui
l’individualità venga annullata dalla cosiddetta “volontà generale” tipica della società di massa.
Il testo si propone di determinare i limiti che il potere pubblico e la legislazione non possono
varcare, ovvero quelle sfere di libera azione individuale nelle quali non deve incidere. Il principio di
questa limitazione è che lo stato non può vietare alcuna azione dell’individuo che non rechi danno
ad altri. Grande importanza è affidata alla libertà di opinione; il potere politico che pretende di
vietare la pubblica espressione di opinioni che l’autorità o la maggioranza ritengono deleterie o
sbagliate, commette un duplice torto sia nei confronti dei sostenitori di queste opinioni (che
verrebbero limitati nella loro libertà) sia contro l’umanità in generale e ancor di più per quelli che
verranno: in quanto se l’opinione ritenute sbagliata fosse in realtà giusta, la proibizione sarebbe un
ostacolo nei confronti dell’umanità che ricerca il vero; ma qualora fosse proibita anche una
opinione sbagliata, il proibirla renderebbe impossibile all’opinione vera di motivare sé stessa nel
confronto con la sua negazione. Quindi proibire la libertà di opinione e di discussione non
permetterebbe all’umanità di migliorarsi.
Questo ragionamento sulle opinioni si applica anche agli stili di vita e ai comportamenti: il libero
sviluppo dell’individualità permette all’uomo di seguire gli impulsi più spontanei e personali,
sottraendosi alla tirannia conformistica della maggioranza (concetto già espresso in Tocqueville).
Da ciò deriva la critica al paternalismo, che ha la pretesa di proibire agli individui comportamenti
(come il bere e l’assunzione di sostanza nocive) che, senza recar danno ad altri, sembrano però
contrari al loro stesso bene. Lo stato (paternalistico) non può dire al singolo cosa deve fare per
raggiungere la sua felicità, dato che il miglior giudice della propria felicità, della propria
autorealizzazione è il soggetto stesso.
Qui arriviamo alla punta più radicale e controversa del liberalismo milliano, perché, in primo luogo,
è difficile distinguere un comportamento che reca danni ad altri e uno che non lo fa, e ciò dipende
anche dai criteri di liceità della società cui ci si riferisce, criteri che cambiano da stato a stato, ma
anche nel tempo. In secondo luogo, se ammettiamo che sia lecito impedire a qualcuno di
suicidarsi, anche con la forza, allora dobbiamo anche ammettere che sia lecito proibire l’uso di
sostanze nocive per l’individuo al suddetto soggetto? Si pensi alla droga, ma anche al vizio del
fumo, l’alcool, il mangiare in modo malsano, ecc. Mill esprime la sua opinione attraverso una serie
di argomenti:
1. il singolo è la persona più interessata al proprio benessere, più di quanto lo sia la società;
2. attraverso l’educazione la società ha avuto modo di prevenire nel singolo comportamenti
sgraditi;
3. se non si ponessero limiti all’ingerenza del pubblico sui comportamenti privati, questo finirebbe
per punire, come è già accaduto nella storia, non ciò che risulta dannoso per i singoli stessi, ma
tutto ciò che va contro le sue preferenze (come le persecuzioni religiose). Vi sono però delle
eccezioni:
- è lecito proibire agli individui di vendersi come schiavi, a causa del principio di libertà (la facoltà di
alienare la propria libertà non è libertà);
- l’istruzione non è violazione della libertà;
- il principio della libertà individuale non ha niente a che fare con la dottrina del libero scambio. Il
commercio non è un’attività privata ma sociale, soggetta alle leggi che la società prescrive (es:
limitare la concorrenza è quasi sempre sbagliato, ma non è un attentato alla libertà).
La sua visione dell’uomo come essere autonomo e originale ha influenzato anche la visione della
democrazia. Nel saggio Sul governo rappresentativo (1861), Mill sostiene che il suffragio
universale applicato secondo la regola un uomo/un voto porrebbe il potere legislativo nella mani
della maggioranza più povera e meno colta, comportando il rischio di una legislazione classista, e
ingiusta poiché interessata solo agli interessi immediati della maggioranza.
A questi inconvenienti, Mill pensò che si potesse porre rimedio senza eliminare il suffragio
universale, ma introducendo il voto plurimo, in modo tale che tutti avessero a disposizione un voto
(escludendo gli analfabeti e coloro che non pagavano le tasse), ma che le persone più istruite,
esperte e qualificate ne avessero più di uno. In questo modo si sarebbe potuta ottenere una
legislazione non classista e sensibile agli interessi generali. Inoltre, nella prospettiva di una
democrazia dell’intelligenza (antilivellatrice), Mill riteneva che le leggi non dovevano essere
elaborate dal Parlamento, ma da una cerchia ristretta e qualificata mentre quest’ultimo
semplicemente le doveva approvare o respingere.
Proprio perché il suo pensiero costituisce il tentativo di tener insieme molte e diverse esigenze
intellettuali, Mill è all’origine non solo del liberalismo radicale, ma anche del liberalsocialismo e di
un modello di democrazia centrato sullo sviluppo culturale degli individui, che è stato
opportunamente definito, da Macpherson, democrazia dello sviluppo.
Marx
Con il pensiero moderno e gli ideali della Rivoluzione Francese, si riflette sull’idea che
l’uguaglianza politica debba riflettersi nell’eguaglianza o giustizia sociale, un’uguaglianza
sostanziale, materiale sul piano della ricchezza e dell’opportunità. Sempre in questo periodo in
Inghilterra essendo una nazione più industrializzata, nasce la classe proletaria e il movimento
socialista. Da un lato Marx critica i liberali perché i diritti politici (partecipazione alla vita politica e la
libertà politica) costituiscono una garanzia dei diritti dell’uomo, ma per Marx ciò significa che
l’eguaglianza politica è solo un’illusione. Infatti in essa i proprietari dei mezzi di produzione, dei
capitali e della terra, esercitano un vero e proprio dominio su coloro che, essendone privi, si
trovano nell’impossibilità di riprodurre la propria vita e quindi sono costretti a vendere la loro forza-
lavoro come merce. E dunque i liberali accettano e riconoscono la società ineguale. Dall’altro lato
Marx critica anche il socialismo che lui definisce utopistico, perché il limite dei socialisti è quello di
aver sottovalutato il ruolo rivoluzione del proletariato. Tanto più che Marx si definisce un socialista
scientifico perché per poter organizzare una critica al capitalismo bisogna utilizzare un metodo
scientifico.
Marx dà merito a Hegel di essere riuscito a cogliere la moderna separazione fra società civile,
intesa come il terreno sul quale agiscono gli individui con i loro interessi particolari, e lo stato, cioè
il luogo dell’interesse universale, e di aver dato vita al concetto di dialettica. Infatti il filosofo applica
il concetto dialettico al funzionamento del sistema capitalistico, perché la società funziona tramite
una logica dialettica tuttavia si discosta da Hegel perché il momento più importante non è la
sintesi, che coincide con lo Stato ma l’antitesi, in quanto è la consapevolezza sulla contraddizione
a muovere la storia. Critica Hegel di essere un pensatore idealista, perché non parte tutto dal
pensiero, dalle idee; al contrario lui si definisce un pensatore materialista perché tutto parte dalla
realtà materiale, dato che l’uomo produce il suo sistema di idee a partire dal lavoro. L’unica chiave
di lettura per comprendere il mondo e la storia è il conflitto di classe: se dobbiamo studiare un
periodo storico dobbiamo capire il sistema economico di quella società e il conflitto di classe che
da esso deriva. Nella sua opera “il capitale” Marx spiega che per studiare il capitalismo bisogna
capire le contraddizioni che caratterizzano questo sistema. Per fare ciò opera una distinzione fra la
struttura, che paragona alle fondamenta di un palazzo, e che coincide con l’economia di quella
società dalla sovrastruttura che si organizza tramite il sistema economico e che rappresenta la
cultura, l’arte, la religione, la politica, la filosofia, il diritto, l’istruzione, ecc..
alla luce di ciò Marx critica Hegel, in quanto quest’ultimo pensa che lo stato è quel momento ultimo
Alla luce di ciò Marx critica Hegel, il quale pensava che lo stato è il momento ultimo nel quale si
annulla la distinzione fra il dover essere e l’essere, nel quale tutti si riconoscono, e nel quale
l’uomo gode della libertà sostanziale, ovvero si riesce a conciliare la libertà individuale con le
libertà collettive. Per Marx, invece lo Stato è l’elemento che appartiene alla sovrastruttura che
permette al proletariato di rimanere subordinato al borghese. Quindi la possibile riconciliazione fra
particolare e universale non può avvenire al livello del pensiero, ma solo a livello materiale, e non
si può passare dallo Stato borghese per raggiungere l’uguaglianza sostanziale lo stato è al
servizio della società borghese. Per poterla raggiungere bisogna cambiare, creare un nuovo
mondo, quindi la filosofia del passato non funzione perché essa ha semplicemente interpretato la
società moderna: la filosofia deve diventare prassi politica, un’azione di cambiamento; il pensiero
per poter essere critico non può essere scisso dall’azione.
Marx comunque attribuisce dei meriti al capitalismo perché è riuscito a creare il mercato globale e
proprio da ciò deriva la funzione universale del proletariato. A questo punto Marx introduce la
definizione di plus-valore: la quantità di lavoro dell’operaio non coincide con il prezzo di vendita
della merce, questo da origine al plus-valore, che permette al borghese di arricchirsi con lo
sfruttamento della classe proletaria (che si accontenta di prendere una paga minima per poter
sopravvivere). Nel momento in cui il proletariato prende coscienza del suo sfruttamento avverrà la
rivoluzione, la quale riguarderà la struttura della società e più in generale tutto il mondo, proprio da
qui emerge la funzione universale. Per poter superare il modello capitalista bisogna abbattere la
distinzione fra i proprietari dei mezzi di produzione e nullatenenti, creando un’unica classe, in
questo contesto lo stato smetterà di esistere perché si creerà una democrazia che parte dal basso,
e si annullerà la scissione fra particolare e universale, perché la riconciliazione può avvenire solo
in una società comunista. Infatti, La rivoluzione, come la pensa Marx nel Manifesto del partito
comunista (1848), sopprime l’antitesi fra società civile e stato politico, per rifondare la comunità
umana a partire dalla libera associazione dei produttori. Attraverso la conquista della democrazia,
il proletariato si impadronisce del potere politico e lo usa come leva per sopprimere la proprietà
capitalistica dei mezzi di produzione e quindi le differenze di classe. Una volta che queste, dopo
una fase di conflitti, saranno superate la produzione sarà tornata nelle mani degli individui associati
e il potere pubblico perderà il suo carattere politico. Infatti, riprendendo le sue stesse parole il
“potere politico” indica il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un'altra; superata la
contrapposizione fra le classi, di un potere politico separato dalla società non ci sarà più bisogno.
Sicuramente un evento che permette a Marx di riflettere sulla questione dello stato politico è stata
l’insurrezione della “comune di Parigi” (1871): in essa egli vede il modello abbozzato di una
organizzazione politica di tipo nuovo, che si distingue dalla democrazia rappresentativa borghese
perché in essa il potere viene esercitato o direttamente dal popolo oppure attraverso delegati, che
percependo salari da operai, possono in qualsiasi momento essere revocati dagli elettori. Dunque,
la Comune è fondamentale perché dà corpo all’idea marxiana di uno stato che deve essere
strettamente subordinato alla società, che deve organizzarsi quanto più possibile nella forma
dell’autogoverno. Qualche anno dopo Marx chiarisce ulteriori aspetti della trasformazione
rivoluzionaria della società, basata sul principio distributivo: nella prima fase della società
collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, la distribuzione dei beni
avverrà secondo il principio “a ciascuno secondo il suo lavoro”; nella fase più matura della società
comunista, invece, dopo che le forze produttive e la ricchezza si saranno sviluppate oltre ogni
possibilità, la società potrà finalmente lasciar spazio a un principio più libero e più elevato: tutti gli
uomini riceveranno in base ai loro bisogni, e daranno in base alle loro capacità. Questo sistema
non costituirà un problema perché i principi borghesi vengono superati: perché si tratta di una
comunità unica che lavora e si autoalimenta.
(Differenze socialismo/ comunismo ruota intorno al concetto di rivoluzione; mentre i socialisti
hanno il fine di cambiare il mondo con delle riforme muovendosi sempre nell’ambito liberal-
democratico; i comunisti pretendono di creare un nuovo mondo.)
Marx crede che il presupposto per una società marxista è l’ateismo, “la religione è l’oppio dei
popoli”, in quanto condiziona l’uomo a sopportare e a obbedire in vista di una vita nell’aldilà. Marx
non sa quanto potrà avvenire questa rivoluzione, ma comunque presenta sempre una visione della
storia lineare e progressista, e dato che di tratta di una teoria della filosofia della storia Carl Popper
dirà che può essere soggetta alla critica e che si tratta solo di un’ideologia... per la teoria
comunista presenta delle contraddizioni in quanto in Russia, così come in Cina, ancora non vi era
un sistema capitalistico ma un sistema feudale, secondo Popper Marx anticipa il totalitarismo.
Critica su Marx riguardo l’analisi economica e del plus-valore, in quanto il prezzo di una merce non
dipende dalla quantità di lavoro ma dal rapporto domanda/offerta.
-il comunismo va contro la psicoanalisi di Freud, perché per Freud l’alienazione dell’individuo
proviene dalla società, in quanto essa reprime le pulsioni interne del singolo e quindi nessuno può
essere totalmente conciliato con la società… al contrario Marx ritiene che una società comunista
l’individuo non si vivrà più un’esistenza alienata.
Fra l’altro nel 900 si nota come la classe operai piuttosto che provocare la rivoluzione auspicata da
Marx, tende a diventare borghese con la crescita economica.
Eventi storici importanti del 900: rivoluzione russa, 1° e 2° G. mondiale, l’esperienza del
totalitarismo.
Negli anni 20 e 30 si assiste a un cambiamento paradigmatico sul linguaggio. Il linguaggio non è
uno strumento neutrale ma preforma il nostro pensiero e la nostra esperienza, ovvero tutto viene
mediato linguisticamente e quindi culturalmente. L’uomo è un animale linguistico e il linguaggio
crea la nostra esperienza. Prima si ci interrogava su Dio, sulla natura dell’uomo, sul mondo adesso
si ci interroga del come parliamo di questi “oggetti”. Partendo da questo presupposto si creano due
filoni di pensiero principali: la filosofia analita opposta alla filosofia continentale.
Non si può più praticare la filosofia in modo metafisico/ontologico, ovvero non si può più rispondere
alla domanda platonica sulla costruzione della ottima Repubblica e non ci si può più domandare
chi e cosa sia l’uomo, qual è la sua essenza/natura, perché il filosofo è per sempre un uomo quindi
non possiede una verità assoluta e oggettiva. La filosofia politica diventa un’indagine sul come
parliamo di etica, politica e giustizia.
Nel mondo anglosassone si sviluppa la filosofia politica, con la teoria dell’utilitarismo di J. Betham,
ovvero ciò che è giusto è ciò che è utile per la maggioranza. Le leggi possono essere considerate
corrette quando hanno una funzione utile.
Al contrario il filone continentale fa propria l’ideologia marxista, la quale riduce tutto all’economia e
al conflitto di classe che ne deriva.
La filosofia analitica si trasforma in scienza politica, ovvero un sapere empirico che opera con la
metodologia della scienza sociale. Il filosofo opera tramite categorie linguistiche non ha un punto di
vista universale, non possiede un sapere superiore, facendo crollare così il paradigma normativo.
Ad es. per il filosofo Heidegger possiamo parlare di essere solo con la poesia, per Nistchez solo
con l’arte.
Nel secondo dopoguerra, alla luce di ciò si accende il dibattito e la domanda se è tutto relativo o se
esistono dei valori universali. Possiamo dire che da un lato abbiamo quei filosofi che tentano di
ritrovare de principi universali: Rawls, Habermans. Dall’altro lato il filone “Nicchiano”, che sostiene
che qualunque discorso universalistico è una lotta di potere, un dibattito ideologico.
Il pensiero dell’uomo è già situato culturalmente (si ci avvicina a Hegel, che considera l’uomo
immerso nella società ma viene spezzata anche l’idea dell’universale, che per H. si realizzava
nello stato). Approccio del nichilismo: incapacità di attingere all’universale, si parla di politeismo dei
valori richiama a Nitschez; dall’alto il richiamo all’universalismo Kantiano con Ralws e
Habermans.
John Rawls
Rawls nel 1971 pubblica la sua opera più importante “A theory of Justice”, che diviene un modello
centrale per tutte le teorie filosofiche del fine 900, intanto come punto di partenza per costruire
delle teorie filosofiche alternative e critiche, dall’altro lato per una ragione puramente di dominio
culturale. Rawls era un filosofo americano liberale che insegnò all’università di Harward.
Con la sua opera “una teoria della giustizia” riapre il modello normativo. Egli distingue le questioni
sulla verità e le questioni relative alla convivenza organizzata, di cui se ne deve occupare la
giustizia (mentre la verità è il campo della scienza).
Il problema che vuole risolvere è quello della giustizia sociale (distribuzione delle risorse). R. ritiene
che l’approccio utilitaristico sia sbagliato, cioè scegliere i criteri distributivi delle risorse per
massimizzare l’utilità della maggioranza è un approccio aggregativo/ macro che riguarda
l’efficienza sociale; E Questi criteri non garantiscono la giustizia sociale, perché non si può ridurre
tutto all’efficienza in quanto le minoranze vanno a discapito della maggioranza, quindi si tratta di un
problema morale di equità/giustizia.
Rawls è anche contrario al secondo approccio (esistente nel mondo anglosassone) del Intuitismo
morale, il quale sostiene che tutti riconosciamo in modo intuitivo bene e male, in quanto con
questa teoria non ci sarebbe più il pluralismo. Una concezione universale del bene non esiste, tutti
abbiamo punti di vista diversi e “una propria concezione del bene” chiamata da R. dottrina
comprensiva.
Dato che esiste il “fatto” del pluralismo Ralws si chiede se si può trovare un consenso universale
dei principi di giustizia e in quale campo dell’esperienza umana possono essere applicati. R. ritiene
che i criteri di giustizia debbano riguardare la struttura di base della società, cioè devono agire solo
a livello costituzionale e quindi il modo di distribuire diritti e doveri fra i cittadini, (e non in tutta
l’esistenza individuale e associata in quanto liberale).
Rawls definisce la società: è un’associazione di persone che nelle loro relazioni reciproche
riconoscono certe norme di comportamento, con cui sono favorevoli e che si basa su una certa
ripartizione degli oneri e dei benefici della cooperazione sociale tra i partecipanti. La società si
pone su un piano collettivo che è differente dalla dimensione privata/individuale. Proprio per
questo viene etichettato un liberale di sinistra (liberal), perché riconosce la distinzione fra sfera
pubblica e privata ma è un liberalismo che si pone il problema della collettività e dell’equità sociale.
L’oggetto della “teoria della giustizia” è la distribuzione equa dei beni primari necessari
all’esistenza umana: libertà, diritti, reddito, opportunità. Tra i beni primari uno dei più importanti è il
rispetto per sé stessi, senza questo bene l’individuo proverebbe vergogna (sensibilità nei confronti
degli ultimi). L’individuo deve riuscire a formulare un piano vita razionale, ovvero deve prefissarsi il
raggiungimento di obiettivi economici e sociali; per fare ciò deve avere la possibilità di migliorare la
sua posizione iniziale di esistenza. E quindi tutti devono essere messi nelle condizioni di
competere per migliorare la propria esistenza. Per ottenere una distribuzione equa dei beni primari
e ritrovare quei principi di giustizia che devono essere validi per la società Rawls richiama il
contratto sociale, chiamato neo-contrattualismo del 900, e quindi di dar origine a un modello
normativo o idealizzato. Immagini gli uomini nel momento in cui stanno facendo nascere la società,
quindi vi saranno le parti in posizione di partenza che devono creare la struttura di base della
società. Non chiama questo stato pre-politico stato di natura ma parla di posizione di partenza o
posizioni originarie. Per Rawls dei principi giusti non possono esistere in un ipotetico stato di
natura, in quanti gli individui sono portatori di differenze (fisiche, mentali, abilità, ecc…) e quindi le
parti che sottoscriverebbero il patto risentirebbero di queste ineguaglianze e quindi on potrebbe
mai essere considerato giusto; inoltre ognuno ha una propria concezione personale di bene e
giusto. Proprio per questo R. specifica le condizioni le situazioni nelle quali i contraenti si devono
trovare per dar luogo a un giusto contratto. Partendo dalla considerazioni che le parti tendono a
promuovere il proprio bene e che non sono né altruiste né invidiose, il vincolo fondamentale che
deve essere imposto alle parti è il velo dell’ignoranza, che non gli permette di conoscere a priori i
cosiddetti “esiti della lotteria sociale”, ovvero non sapranno se nasceranno in contesti o in una
situazioni svantaggiata o favorevole, e gli “esiti della lotteria naturale”, ovvero quale sarà la loro
dotazione originaria psico-fisico (maschio o femmina, intelligente o no, forte o no, ecc…).
questa condizione permette di scegliere quei criteri di giustizia che non saranno orientati a priori
dalla nostra personale visione. Questo consentirebbe all’uomo di acquisire l’autonomia morale,
ricollegandosi a Kant, il quale riteneva che facendo l’imperativo categorico noi ci saremmo
sottomessi a una legislazione universale, basata sul consenso razionale che le conferiamo… R.
sostiene che per attuare correttamente l’imperativo categorico dobbiamo abolire ciò che ci riguarda
personalmente, un contratto giusto è quello sottoscritto da parti imparziali e daranno il loro
consenso solo nel caso in cui l’accordo tutala in pari misura gli interessi di ciascuno. E Quindi solo
con questo velo dell’ignoranza possiamo ragionare sul tema della giustizia.
Allora, le parti in posizione originaria oltre a non essere altruiste sono libere e uguali e sono dotati
di due poteri morali: 1) il senso di giustizia, ovvero esiste una fiducia reciproca che assicura che
tutti seguiranno questi criteri o principi di giustizia; 2) la concezione parziale del bene, ovvero le
parti danno che devono scegliere quei principi di giustizia che gli consentono di possedere il più
alto il numero più alto di beni primari di cui potranno usufruire nella società che sta per nascere.
Seguendo la teoria del comportamento razionale gli individui cercheranno di massimizzare il più
possibile il profitto, intenso in senso ampio del termine (es. beni civili, spirituali, ecc..).
i principi di giustizia per R. sono 2:
1) Il più importante: La libertà, cioè eguali libertà fondamentali per tutti, da cui derivano uguali
diritti. E verrà scelto per via del principio del maximin, secondo il quale, ammettendo che le
part siano ignoranti ma comunque razionali, gli uomini sceglieranno le stesse libertà in
quanto si tutelano qualora nascano in un contesto sfavorevole, in riferimento agli esiti della
lotteria sociale e naturale. Cioè l’individuo si tutela nel caso peggiore (teoria del
comportamento razionale).
2) Principio di differenza, (economiche, sociali, psico-fisiche), esse vanno giustificare se –
vanno a favore di quelle parti meno avvantaggiate nel lungo andare, e che - le varie cariche
siano aperte a tutti in un regime di equa-concorrenza.
Le diseguaglianze sono legittimate perché altrimenti limiterebbe la possibilità di migliorare la
posizione di partenza, facendo emerge il merito e il talento, usufruendo così di esiti migliori della
lotteria sociale e economica.
Il velo dell’ignoranza rende gli individui noumenici, ovvero guidati dalla ragione e rendono le parti
autonome. Per Rawls la posizione originaria è una visione procedurale dell’imperativo categorico e
i principi di giustizia sono gli statuti di quest’ultimo.
Quindi tra i principi distributivi vi è quello meritocratico e dall’altro lato un principio utilitarista, che
afferma che si deve massimizzare l’utilità media prevista, preferendo così una situazione dove
mediamente tutti hanno di più, infatti per R. anche chi avrà di meno avrà comunque di più di quello
che gli sarebbe toccato in una situazione di eguaglianza e anche i più dotati accetteranno il
principio di differenza: in quanto devono in ogni caso cooperare nella società con i meno dotati, e
hanno quindi bisogno che questi ultimi accettino una distribuzione sociale ineguale; tuttavia
quest’ultimi non la accetteranno se dal contributo dei più dotati non verrà anche un miglioramento
per la loro posizione. Quindi il principio di differenza è la condizione per una cooperazione sociale
che non è solo giusta, ma anche stabile e accattabile da tutti, evitando la creazione di una
polarizzazione nella distribuzione dei beni primari.
2° tipo di critica viene mossa dai liberali di destra, etichettati “libertali”. In particolare nel 1974
Robert Nozick in “anarchia, stato, utopia”, propone una visione della giustizia radicalmente
alternativa a quella di Ralws, descrivendolo come un “liberale travestito da socialista”, in quanto R.
vuole affrontare il tema della giustizia sociale e secondo i liberali di destra vengono violati in tal
modo i diritti individuali. Allora Nozick, ispirandosi a Locke, ritiene che i diritti che appartengono agli
individui prima e a prescindere dall’istituzione dello stato. Immaginandosi una situazione pre-
statale, Nozick avanza un’altra teoria per uscire dallo stato di natura rispetto alla teoria del
contratto; infatti per N. la nascita di uno stato legittimo si può spiegare non secondo una logica di
contratto ma di mercato: per garantirsi la sicurezza, gli individui inizieranno a costruire
associazione di protezione, e poi, con la divisione del lavoro, ad acquistare protenzione da altre
compagnie che vendono tale servizio. Prima o poi tra le diverse compagnie ne resterà una sola,
ovvero la compagnia di protezione dominante. E poiché l’adesione alla compagnia di protezione è
volontaria, alcuni potranno scegliere di continuare a farsi giustizia da soli. Tuttavia ciò può far
nascere conflitti fra coloro che aderiscono e gli indipendenti quindi la compagnia di protezione
dominante, per garantire ai suoi clienti sicurezza e la risoluzione delle controversie, dovranno
proibire agli indipendenti di farsi giustizia da soli. Ma questo meccanismo governato da una “mano
invisibile” non viola i diritti di nessuno, perché coloro a cui è stato impedito di farsi giustizia da soli,
per la sicurezza di tutti, verranno risarciti gratuitamente dei servizi di protezione e non avranno,
quindi, subito alcun torto. (diciamo che questo passaggio è controverso perché anche se vengono
risarciti, l’inclusione forzosa degli indipendenti dello stato sembra in contrasto con la visione
libertaria). Quindi Nozick nega la base contrattualistica della teoria di Ralws perché dimostra la
costituzione di uno stato minimo ma legittimo senza passare dal contratto ma contesta anche i
criteri distributivi. Rifacendosi a Locke: se io sono libero e quindi padrone di me stesso, sono
anche padrone dei miei talenti e delle mie capacità, e di ciò che produco e guadagno; di
conseguenza se lo stato mi impone di pagare tasse per finanziare servizi educativi o sanitari, o
sussidi per disoccupati, esso dà luogo a una violazione dei miei diritti di autoappartenenza. Uno
stato più che minimo è legittimo solo quando garantisce la sicurezza e l’amministrazione della
giustizia, fissando una tassazione per finanziare tali servizi. Infatti l’unica teoria della giustizia
accettabile per Nozick è “la teoria del titolo valido”: ognuno possiede legittimamente ciò che ha
acquisito o attraverso una giusta acquisizione iniziale, o attraverso un libero trasferimento del bene
da qualcuno e qualcun altro.
Ovviamente i liberali di destra sono fortemente contrari all’ideologia comunista, seconda la quale il
mercato deve essere regolato e gestito solo dallo stato, in quanto lo stato deve essere arbitro e
non un attore. Senza il libero mercato verrebbe meno il merito e la competizione sarebbe guidata
dall’alto, quindi si costituirebbe uno stato ingombrante e troppo assistenzialista che finirebbe per
comprimere i diritti individuali.
3° tipo di critica nei confronti di Ralws è stata avanzata da Amartya Sen. Per Sen, Ralws ignora le
reali condizioni degli individui, perché i beni primari considerati da quest’ultimo sono troppo
minimali per discutere il problema della giustizia sociale. Perché per Sen la giustizia sociale indica
il raggiungimento della libertà sostanziale. Alla luce di ciò introduce 2 concetti: 1) funzionamento,
che riguarda ciò che una persona desidera fare o essere. Quindi funzionamenti a cui viene
conferito un valore vanno dai più elementari, come l’essere nutrito, ad attività o condizione
personali molto complesse, come l’essere in grado di partecipare alla vita della comunità e l’avere
rispetto di sé. 2) la capacitazione di una persona che è l’insieme delle combinazioni alternative di
funzionamenti che quest’ultima è in grado di realizzare. Quindi per Sen la società desiderabile non
è quella che massimizza la dotazione primaria dei beni primari per gli individui, ma quella che
massimizza la loro libertà sostanziale, intensa come possibilità di scelta tra diversi insieme di
funzionamenti o possiamo anche dire di mettere in atto più stili di vita alternativi. Non tutti i
funzionamenti hanno medesima importanza, infatti per S. l’etica e la teoria politica devono
occuparsi anche della questione di quali siano i funzionamenti da includere nell’elenco delle cose
importanti da realizzare. Il problema che si deve porre alla discussione pubblica e alla teoria
politica è la qualità di vita e in questo senso il discorso di Rawls si base troppo sul reddito e sulla
ricchezza materiale. Di conseguenza il problema del bene rientra decisamente nella riflessione
politica. Per es. secondo la pensatrice Martha Nussbaum, sostiene che bene e giusto possono
accompagnarsi in modo reciproco, perché una teoria della giustizia stabilisce come e perché tutti
devono avere accesso ai beni fondamentali, mentre una teoria dei beni si occupa della natura di
quest’ultimi.
Dopo di che Ralws (forse a seguito delle critiche e dei vari dibattiti che si sviluppano negli 70/80)
nel 1993 pubblica l’opera intitolata “liberalismo politico”. Sottolinea che è un’opera di filosofia
politica, infatti i principi di giustizia* che devono essere per tutti vincolanti non possono essere più
ispirati solo ad una moralità di stampo liberale/Kantiano ma devono essere accettati anche dai
sostenitori di visioni diverse, quindi bisogna dargli* una giustificazione puramente politica, in modo
da essere accettati da ogni persona ragionevole, quali che siano i suoi orientamenti ideali e morali.
Cioè il tema che vuole affrontare Ralws è il problema della stabilità sociale e come si possono
risolvere o evitare i conflitti, dato il pluralismo delle società moderne. Quindi per realizzare una
società equa e assicurare l’adesione di tutti ai principi di giustizia (oltre ovviamente alla posizione
originaria e il velo di ignoranza) introduce il concetto di “consenso per intersezione”, che garantisce
l’adesione non solo da parte di coloro che hanno una visione liberale della vita e della politica, ma
anche di coloro che sono portatori di dottrine diverse (es. socialisti). Quindi sarà possibile trovare
un compromesso sulla visione del bene trovando dei principi politici e quindi costituzionali comuni.
Sempre collegato a quest’ultimo concetto ne introduce un altro, ovvero quella ragione pubblica, e
quindi la ragione dei cittadini che opera nella sfera pubblica. Per R. bisogna sforzarsi di porsi dal
punto di vista dei cittadini e ciò non riguarda solo i politici ma anche gli elettori, cioè l’autore
inizialmente sosteneva che anche il voto dovesse essere questione pubblica e non privata, ma
successivamente ritratta questo punto togliendo il cittadino.
Anche per questa opera la critica principale sollevata è che i concetti sono troppo idealizzati, in
quanto la visione personale interviene sempre (es. nell’interpretazioni delle leggi).
Infine, R. riflette nel suo testo “il diritto dei popoli” (1999) sui principi che dovrebbero regolare la
convivenza tra popoli, e in particolari tra i popoli liberali e quelli che non lo sono e che hanno idee
di giustizia differenti e che chiama “popoli gerarchici decenti” (fa l’esempio del Kazanistan, un
paese islamico teocratico, che però rispetta i diritti umani fondamentali, e anche se non
democratico, prevede istituzioni di consultazione dei vari gruppi che lo compongono). Tra i principi
che verrebbero scelti, in una posizione originaria, dai rappresentati dei popoli per regolare la loro
convivenza, oltre il rispetto dell’indipendenza, della sovranità e dei trattati, il principio di onorare i
diritti umani e un secondo principio, secondo il quale: i popoli hanno il dovere di assistere altri
popoli che versano in condizioni sfavorevoli tali da impedire loro di avere un regime sociale e
politico giusto o decente.
Habermans (1929), fu allievo di Adorno, appartenente alla Scuola di Francoforte ed è un sociologo
e filosofo, si definisce un repubblicano neo-Kantiano. Habermans accetta fino in fondo la svolta
linguistica e rifiuta l’idea di un sapere metafisico, e quindi di un sapere filosofico assoluto.
H. si discosta da Adorno e dalla sua idea pessimistica, infatti per A. con il linguaggio l’uomo
domina sulla natura, arrivando ad affermare il proprio dominio sugli altri uomini, tanto più che
l’olocausto è il momento finale, nel quale gli uomini affermano il proprio domini sugli altri. Per H.
Adorno non ha fatto propria la svolta linguistica e il suo intento è quello di ricercare la superiorità
morale dell’ordinamento democratico rispetto ad altri ordinamenti politici, come ad es. la dittatura e
totalitarismi perché altrimenti si cade nel nichilismo. Infatti l’autore accetta pienamente lo Stato di
diritto (repubblicano) e la sua funzione emancipativa. Per es. per Adorno anche i paesi liberali-
democratici non riescono a cogliere fino in fondo le categorie emancipative.
Attraverso la svolta linguistica-comunicativa avanza un progetto di teoria critica, ovvero per
muovere una critica alla società bisogna rintracciare le contraddizioni che la caratterizzano,
riallacciandosi alla teoria marxista. Per H. bisogna osservare gli aspetti paradigmatici del
linguaggio (e non solo gli aspetti sematici),e la svolta linguistica ci permette di capire che esistono
2 ragioni: la razionalità strategica-strumentale, nel quale il mezzo diventa uno strumento per
dominare; la razionalità comunicativa, attraverso la quale gli uomini parlano, si confrontano. È qui
che avanza una critica radicale nei confronti di Adorno perché quest’ultimo possiede una visione
così pessimistica da non aver colto la potenzialità emancipativa della razionalità comunicativa.
Infatti H. ricollega la razionalità comunicativa al concetto di zoon politicon formulato da Hannah
Arenth, ovvero gli uomini si confrontano su un piano paritario e di eguale libertà, nel quale
dovrebbe prevalere il discorso più ragionevole, e quindi migliore.
Da due tipi di razionalità discendono l’agire strategico-strumentale, che caratterizza scienziati e
imprenditori, di fatto quest’ultimi studiano la realtà per controllarla; e l’agire comunicativo che
interessa il dibattito pubblico.
A partire da tali premesse nel 1981 pubblica l’opera la “teoria dell’agire comunicativo”, chiamata
anche etica del discorso. Con questa opera H. si inserisce all’interno del paradigma normativo,
infatti si immagina come debba essere “una situazione linguistica ideale”, ovvero un ideale di
comunicazione trasparente, dove individui si riuniscono per discutere su delle norme. Con questa
opera vuole tentare di salvare l’universalismo, ormai entrato in crisi con il pluralismo che
caratterizza la società moderna. Infatti si chiede quali siano le condizioni universali e necessarie
per una situazione linguistica ideale: egli rintraccia 4 caratteristiche essenziali che chiama pretese
di universalità: - giustezza: correttezza nei confronti delle norme della situazione argomentativa, e
abbandonare il proprio p. di vista se si dimostra più debole rispetto a quello degli altri; -vericidità:
sincerità; -verità e -comprensibilità.
In questo momento ideale quando tutte le pretese saranno rispettate, si raggiungerà un consenso
unanime e l’opinione pubblica si potrà formare correttamente perché se la comunicazione viene
manipolata o distorta scaturiscono le patologie sociali, cioè un’alienazione totale dell’individuo (e
quindi non è basata esclusivamente dal piano economico, come credono i marxisti). La
comunicazione in questa modalità acquisisce un valore cognitivo, perché con il dialogo arricchisco
la mia conoscenza, maturo e progredisco come persona morale.
Per H. dobbiamo immaginarci la società nel suo processo di secolarizzazione, le società
democratiche con il loro processo di emancipazione coincidono con la modernità stessa.. quindi si
può dire che in età moderna con la secolarizzazione il valore svolto dal sacro, dalla religione viene
svolto dal progetto e delle procedure democratiche, che indicano un certo stile vita, una prassi
partecipativa, dove nascono delle istanze emancipative che diventano istanze normative. L’autore
sottolinea che Al fine di mantenere viva la sostanza comunicativa della democrazia, è importante
che il parlamento, e quindi il discorso istituzionalizzato, sia sempre stimolato e controllato dal
discorso libero e informale dell’opinione pubblica, attraverso la stampa, i movimenti e le iniziative
dei cittadini. Inoltre deve essere arginata l’invadenza di quei poteri che colonizzano in vario modo,
per es. con il possesso delle risorse o dei mezzi di comunicazione, e che costituiscono una
minaccia per l’autentica sostanza comunicativa della democrazia.
Alla luce di ciò H. ritiene che solo con un modello normativo, idealizzato possiamo avanzare delle
critiche tuttavia la sua teoria in parte è già in atto tramite le procedure democratiche, quindi egli
propone un modello neo-normativo.
Nello stato di diritto e nella società democratica esistono 2 istanze contrapposte: -istanza della
razionalità comunicativa, che coincide con il dibattito pubblico e include il diritto, la politica e la
morale; e -istanza strategica-strumentale, che include l’economia e la burocrazia.
Il problema per H. sta nel fatto che l’istanza strategico strumentale prevale, e quindi vi è il primato
economico sul dibattito pubblico/politico.
Nei primi anni 90 pubblica “fatti e norme”, e si fa portavoce della democrazia deliberativa, ovvero
l’essere cittadini ci riguarda sempre, l’essere liberi nella sfera pubblica e intendere la democrazia
come forma di vita. Nell’opera H. distingue fattualità e normatività: la dimensione fattuale è
caratterizzata dalle patologie sociali (discriminazione, disuguaglianze) dove però possiamo
riscontrare la dimensione normativa che permettere di muovere critiche. Quindi fra fattualità e
normatività vi è una continua tensione.
Per H. il momento democratico e il momento liberale sono due facce della stessa medaglia, in
quanto i diritti esistono perché partecipiamo alla prassi discorsiva, quindi parliamo di un momento
democratico, nel quale i diritti possono essere modificati ed estesi, infatti è il popolo che stabilisce i
vari diritti. Ed è qui che interviene l’istanza universale determinata dal fatto noi cittadini siamo
chiamati ad argomentare le nostre opinioni in quando viviamo in un mondo secolarizzato e
pluralistico, che chiama principio del discorso. E Da qui si ricollega all’elemento razionale kantiano:
una norma, giuridica o morale, è valida quando dopo un dibattito i destinatari di tale norma le
conferiscono il loro consenso quindi il principio di maggioranza è strettamente connesso all’ideale
di situazione comunicativa, che dà origine alla vera democrazia. (unanime/ e senza distorsione
comunicative non si generano le patologie sociali).
Quindi la modernità è un grande progetto di emancipazione, di fatto è un processo ancora
incompiuto ma bisogna comunque difendere la democrazia.
H. delinea quelle categorie di diritti fondamentali che devono presenti in uno stato democratico
legittimo: - diritti che tutelano le pari libertà individuali; - i diritti che definiscono lo status di
individuo; - diritti ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti; - diritti a partecipare ai processi
discorsivi di creazione del diritto, e quindi esercitare i propri diritti politici e democratici; - diritti di
ripartizione sociale, cioè diritti a godere di condizioni di vita che consentano di utilizzare con pari
opportunità le varie categorie dei diritti.
(H. critica i neo-liberali, in quanto non può essere ridotto tutto a merce, non vi deve essere il
primato dell’economia sul pubblico.)
Il limite della teoria di H. sta nel raggiungere idealmente l’unanimità che porta inevitabilmente alla
negazione del pluralismo, negli anni 80 l’autore pensava che solo sul piano normativo-teorico ciò
può avvenire, ma successivamente pensa che non si possa negare il pluralismo neanche
idealmente.
Una ulteriore riflessione è quella seconda la quale H. ritiene che per sfuggire agli aspetti di
mercificazione della vita, e abbattere il primato dell’economico bisognerebbe far dialogare la
società laica con le religioni, perché esse richiamano delle dimensioni normative che possono
essere utilizzate nel dibattito pubblico questo aspetto suscitò numerose critiche, dato
l’importanza che egli stesso attribuiva al processo di secolarizzazione. Viene anche criticato dai
marxisti e dalla sinistra, in quanto accetta lo stato di diritto.
La Biopolitica.
Biopolitica: il potere si può esercitare sulla vita delle persone. Ormai la scienza, la genetica e la
biotecnologia hanno fatto dei passi in avanti senza precedenti tali da riuscire ad intervenire sul
vivente e a manipolarlo: parliamo ad es. della riproduzione di embrioni per scopri terapeutici o di
ricerca, aumentare le prospettive di vita e di salute tramite la mappatura dei geni. Habermas negli
anni 2000 si pone il problema della genetica liberale nella sua opera “rischi di una eugenetica
liberale”, e quindi tenta di capire sul piano etico quando si può o non si può intervenire, in
particolare interrogandosi sulla manipolazione degli embrioni umani. A tal fine compie una
distinzione fra gli strumenti genetici funzionali a diagnosticare patologie e a migliorare la vita
dell’individuo una volta nato e la manipolazione sugli embrioni per particolari qualità (ad es.
l’intelligenza, la forza fisica, qualità fisiche, ecc..) attuate per il volere dei genitori. Per dare risposta
a questo quesito ritorna all’etica/principio del discorso, e quindi con il problema del consenso e
della asimmetria che si viene a creare nei rapporti fra genitori o tutori e figli. Perché per H. nel
futuro il bambino, una volta diventato un soggetto maturo potrà essere grato e quindi dare il suo
consenso nel caso in cui la manipolazione ha avuto uno scopo migliorativo per la sua esistenza; al
contrario variare i geni e quindi modificare l’embrione può mettere in crisi l’identità del futuro
individuo, perché potrebbe iniziare a percepirsi come uno strumento programmato.
Quando parliamo di clonazione riproduttiva,( sia in senso migliorativo sia in senso di determinare a
priori il patrimonio genetico dell’embrione), vi è sempre il problema del mancato rispetto simmetrico
e reciproco tra gli individui: perché qualcuno impone ad un altro la proprie scelte, senza
quest’ultimo abbia una capacità di controllo su stesso e su colui che ha scelto. È ragionevole
pensare che interventi terapeutici troveranno il consenso del futuro individuo ma ciò pone il quesito
di quei interventi genetici volti al miglioramento per es. accrescere l’intelligenza; è possibile
pensare che anche interventi di questo tipo potrebbero trovare consenso. Tuttavia H. ritiene che i
piccoli difetti fisici possono, delle volte, possono rivelarsi dei vantaggi.. quindi chi pretende di avere
il diritto di eliminarli modificherebbe la biografia di qualcun altro in modo irreversibile, creando
nuovamente una situazione di asimmetria dei vari rapporti fra individui.
Michelle Foucault (morto nel 1984) è uno dei padri del paradigma del post-moderno, che inizia a
partire dalla rivoluzione del 1968. F. venne molto influenzato dal Nicche.
Nitche pone una critica radicale alla filosofia occidentale, improntata dalla visione Platonica/
cristiana che definisce nichilista, in quanto hanno portato ad uno sdoppiamento del mondo,
ponendo una distinzione: nel caso di Platone l’iperuranio e il mondo, nel caso cristiano il paradiso
e il mondo. infatti per Nicce bisogna abbandonare l’idea della perfezione e di un ordine prestabilito
a cui dobbiamo uniformarci, e sottolinea come il pensiero greco sia stato deformato, in quanto in
Grecia vi era la tenzione fra ordine = apollinico e disordine = dionisiaco. Per Nicche dobbiamo
ritornare alla vita, perché questo tipo di visioni sono nichilistiche passive, cioè portano alla perdita
della vita stessa e sostituirle con un nichilismo attivo, ovvero l’oltre-uomo deve essere colui che
pone i propri valori, e l’ordine. Un ulteriore elemento importante nel pensiero di Nicche è la teoria
dell’eterno ritorno dell’uguale: cioè vi è una concezione lineare del tempo nell’orizzonte cristiano
per cui la storia è vista come un percorso che deve condurre alla salvezza, che potrà compiersi
solo con il ritorno del Messia; con l’illuminismo invece questo percorso va verso il compimento,
verso la perfezione che realizza l’uomo da solo con la sua ragione… potremmo dire che è
avvenuto una secolarizzazione del messaggio di salvezza cristiano. Per Nicchè bisogna ritornare a
una visione ciclica della storia tipica dell’era classica, dove è l’oltre-uomo che sceglie come vivere.
Michelle Foucault è caratterizzato da un primo periodo, nel quale aderisce alla corrente culturale
dello strutturalismo, il quale predicava la morte dell’uomo, intenso in senso metafisico, in quanto
quest’ultimo è il prodotto delle strutture culturali, linguistiche, religiose, ecc… alle quali appartiene.
Dopo di che negli anni 70 decide di abbandonare il partito comunista francese e inizia lo studio
sulla microfisica del potere elaborando la tesi della “teoria del potere”. F. nella sua analisi si rende
conto che il potere viene definito in termini casualistici, ovvero la concezione prevalente di potere è
intesa come il poter influire sul pensiero e sul comportamento di una persona o di un gruppo, al di
là delle diverse forme dell’ordine politico… infatti secondo la concezione liberale, e soprattutto i
liberali di destra ritengono che più vi sono leggi, più diminuisce la libertà; o la concezione marxista,
nel quale il potere e dominio vengono eserciti dalla classe borghese; Torcquiville l’opinione
pubblica. E F. non condivide questa idea repressiva del potere; ritiene che il potere è un potere
produttivo e si identifica come l’altra faccia del sapere. Noi abbiamo a che fare con una forma di
potere che produce forme sociali (impronta strutturalista). E mentre prima tutto era pensato in
termini teleologici, nella modernità tutto è incentrato nel sapere scientifico-tecnologico, oggi si parla
del controllo dei mezzi di comunicazione, di biopolitica, del potere della medicina; è il sapere che
produce le forme sociali.. ad es. se si viene arrestati o internati in un ospedale psichiatrico è
perché l’individuo non rispetta i valori che la società predilige, ed esercita un potere coercitivo
sull’individuo. E quindi per il filosofo non si può configurare nessun elemento di potere, se
quest’ultimo non è conforme a un insieme di regole, che derivano da un certo tipo di discorso
scientifico, che varia in base all’epoca storica. Infatti ogni società, dato il binomio potere/sapere, ha
un proprio episteme dominante, ovvero quel sapere che struttura le diverse epoche storiche. Ed è
il potere a strutturare la soggettività e i comportamenti, quindi esso è onnipervasivo… da qui la
visione micro del potere.
Tuttavia il potere è produttivo e si modella in relazioni di forza, che generano a loro volta il contro-
potere, ovvero le varie forme di resistenza, in quanto ogni azione comporta una reazione; cioè F.
identifica la resistenza come un atteggiamento morale e politico, che si potrebbe definire come la
decisione di non essere governati.
Dopo di che riprendendo il metodo genealogico, che rilegge la storia tramite le discontinuità, e
quindi quei valori che si sono imposti a discapito di altri (filone nicchiano), ritiene che la modernità
non è un grande progetto di emancipazione, in quanto l’uomo non esiste.