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1.

Filosofia politica: uno sguardo preliminare


La filosofia politica si occupa delle interazioni fra gli uomini in società, in quanto esse sono
influenzate o regolate da relazioni di potere, che assicurano l’integrazione tra i diversi attori sociali
e ne governano i comportamenti anche attraverso l’uso della coercizione (sanzioni). L’oggetto
centrale sono le problematiche del potere, quindi relazioni di potere che danno luogo a discussioni
e conflitti in riferimento a come il potere debba essere distribuito e organizzato.
Per potere possiamo intendere la capacità che qualcuno ha di controllare, attraverso la propria
influenza o con la minaccia di sanzioni, il comportamento di altre persone, ovvero di vedere
obbedite la propria disposizione.
Esistono sia forme di potere formali, la politica appunto, sia forme di potere informali, che
strutturano i rapporti in tutti i tipi di relazioni sociali.
Con queste premesse è lecito chiedersi di cosa si occupano i filosofi e gli studiosi: la tradizione più
canonica della filosofia politica si è occupata delle forme di potere istituzionalizzate, quelle che si
depositano nelle leggi e si incorporano nelle istituzioni statali; mentre i pensatori eterodossi, come
Marx e Faucault, hanno insistito sulle relazioni di potere dislocate fuori dai luoghi canonici dello
stato e del diritto, nei diritti di proprietà o nella “microfisica del potere” (Marx).
La filosofia politica, però, ha a che fare prevalentemente con le forme di potere istituzionalizzate,
che possono essere definite come potere statale.
Lo Stato, secondo Weber (nella conferenza La Politica come pressione - 1919), è, come le
associazioni politiche che storicamente lo precedono, un rapporto di dominio di uomini su uomini
basato sul mezzo della forza legittima (cioè considerata legittima).
Le caratteristiche del potere dello stato sono la possibilità di esercitarsi su un determinato territorio
e il monopolio della forza legittima.
La filosofia politica ha 2 volti:
• da una parte, ragiona sul fenomeno del potere, del conflitto per il potere, del suo mantenimento:
quindi i vari aspetti dell’agire politico (Machiavelli);
• dall’altra, a partire dalla Repubblica di Platone, la filosofia politica si pone la questione di quale
sia il modo giusto di organizzare la nostra convivenza e quali forme di potere siano legittime.

2. Filosofia e filosofia politica


Prima di parlare di filosofia politica, non dobbiamo dimenticare di chiederci cosa sia la filosofia. Leo
Strauss, nel saggio Che cosa è la filosofia politica del 1955, afferma che la filosofia è una forma di
sapere che deve sempre dimostrare la sua, eventuale, legittimità. Egli ne parla come una “pratica
discorsiva” del tutto particolare, è una forma sofisticata e istituzionalizzata di discorso che, quanto
al metodo, si avvale fondamentalmente di un’unica risorsa, quella dell’argomentazione pubblica,
critica e aperta, mentre, quanto all’oggetto, affronta la questione del nostro orientamento nel
mondo. la filosofia nasce dal tentativo di spiegare l’archè, quindi la struttura e la nascita della
realtà, il principio di tutto.
La peculiarità della filosofia sta nel fatto che:
- cerca di affrontare con gli strumenti del dialogo razionale quei problemi ai quali le scienze positive
sono costitutivamente impossibilitate a dare risposte: perché esse ci insegnano come stanno le
cose, ma non come dobbiamo scegliere, quali sono i modi migliori ecc.
- si pone problemi che non possono essere risolti restando sul terreno di un accertamento di fatti:
questioni normative, quando cerca di costruire argomenti per rispondere ai dilemmi che pone la
società, e questioni strutturali, che riguardano la natura della realtà, l’essenza del potere e la
natura dell’agire politico. (politica: gestione della cosa pubblica).
La filosofia politica, poiché non è scienza, si confronta proprio con problemi di questo genere, e per
questo si configura come una filosofia ultima. Anche per questo, la filosofia politica non è
autosufficiente; anzi, essa entra necessariamente in contatto con molte altre discipline, come
filosofia morale, antropologia filosofica, teoria del diritto, scienza politica, teoria sociale, di cui
rappresenta il punto di convergenza.

3. Le domande della filosofia politica


Bobbio (conferenza 1970) delineò i diversi significati che si potevano dare all’espressione filosofia
politica, che, in sostanza, identificavano quattro questioni alla quali, nel corso del suo sviluppo, la
filosofia politica aveva cercato di dare risposte: 1. l’ottima costituzione politica; indagine incentrata
sull’ottimo Stato, come dovrebbe essere organizzata la comunità politica. Per alcuni studiosi
questo tipo di indagine è l’unico modo per praticare la filosofia politica. Secondo Strauss individua
la verità ultima sulla politica, una dimensione universale che va al di là del contesto storico. Ci
sono diversi modi per intendere il dover essere della politica, x es. nel mondo greco si credeva che
il compimento individuale e associato derivasse dal fatto che la natura umana avesse un fine
iscritto dentro sé stesso. Nel mondo moderno i principi del dover essere cambiano, non più l’idea
del mondo finalistica bensì meccanicistica.
2. il fondamento dell’obbligo politico, ovvero chi deve detenere il potere legittimo, quindi chi deve
governare e perché (in Platone il primo e il secondo modo di praticare la filosofia politica
coesistono mentre in Hobbes no)
3. la natura dell’agire politico e la sua definizione, ad es. Machiavelli si interroga sul come funzioni
la politica e cosa contraddistingue il politico e la politica. In uno Stato ci sono valori e principi
giuridici-etici che garantiscono la coesistenza fra gli individui. Una caratteristica che
contraddistingue l’agire politico è sicuramente il conflitto e la conquista del potere (società
pluralistica e quindi inevitabilmente conflittuale): la guerra è una relazione politica fra Stati; la
guerra civile genera conflitto nella stessa società politica; la lotta per la leadership. Nello Stato
queste relazioni conflittuali vengono arginate dal diritto. (realismo politico opposto all’approccio
normativo).
4. studio sul linguaggio politico, dominante nel mondo anglosassone nel 900. In questo caso il
compito della filosofia politica è quello di elaborare un linguaggio politico universale data che non
esiste più una verità assoluta (relatività). A causa di questa relatività si parla della fine della
filosofia politica che si trasforma scienza politica. Infatti La scienza agisce con metodi scientifici per
studiare la realtà politica, si tratta di una funzione propedeutica in modo da comprendere le
tendenze di fondo (es. si può diminuire il numero dei parlamentari?).

3.1. L’Approccio realistico: da Machiavelli a Weber


Il Principe di Machiavelli è il testo più classico ed emblematico del realismo politico, opposto
all’approccio normativo. Di conseguenza, piuttosto che interrogarsi sullo stato come dovrebbe
essere, il realismo politico (soprattutto nella sua figura machiavelliana) si pone come una
riflessione sull’agire politico così come esso è, nella sua aspra realtà effettuale, sull’agire strategico
della politica (Weber es. il politico crea consenso?).
Il primo punto che deve essere fissato è quello per cui l’agire politico viene concettualizzato come
lotta per il potere. In quest’ottica la sfera dell’agire politico è rappresentata come il campo in cui
agiscono attori in conflitto di potere. Ciò non vuol dire, come dice Weber, che lo scopo dell’agire
politico sia il potere fine a sé stesso. Però, ciò che caratterizza il realismo politico è la messa a
fuoco della dimensione politica come dimensione/ambito conflittuale, dove gli attori si confrontano
in ragione della forza (influenza o minaccia) di cui dispongono. In questo caso la politica viene
ammessa nella sfera dell’agire strategico, viene letta come conflitto e rapporto di forze. Secondo
Weber, la forza è il “mezzo decisivo” di cui l’agire politico non può in nessun caso fare a meno.
Si può comprendere facilmente come il realismo politico si sposi spesso con una visione cruda, se
non addirittura pessimistica, della natura umana: visione antropologica pessimistica (secondo
Machiavelli, gli uomini, avidi di ricchezza e potere, hanno come unica ragione la forza e solo grazie
a essa si possono governare). L’uomo è dominato dalle passioni e per poter eliminare la
componente irrazionale si utilizza il diritto, il quale prescrive il comportamento umano creando una
società razionale, infatti il legislatore è un agente razionale; tuttavia il diritto non funziona tanto più
che si aumentano sempre di più le leggi.
Tuttavia, non è per nulla scontato il binomio realismo politico - pessimismo antropologico: il primo
può prescindere da secondo, come vediamo con Sheldon Wolin in Politica e visione. Wolin
sostiene che la politica è un’attività:
- incentrata sulla ricerca di un vantaggio competitivo fra gruppi, individui o società;
- condizionata da un ambiente mutevole caratterizzato da relativa scarsità;
- è tale che la ricerca di un vantaggio determina conseguenze di vasta portata, che riguardano
l’intera società o una parte importante di essa.
Il realismo ha tutte le ragioni finché ci ricorda che la dimensione del polemos è inseparabile da
quella dell’agire politico, ma rischia di sconfinare in una visione unilaterale se assume il polemos
come l’unica dimensione che caratterizza l’agire politico.

Etica e Politica
Fu Benedetto Croce, nelle sue annotazioni su Machiavelli, che notò come la messa a fuoco della
dicotomia tra morale e politica è da vedersi come la vera e propria fondazione di una filosofia della
politica.
Nel Principe Machiavelli vuole farci comprendere che il politico deve avere la capacità di infrangere
il comandamento morale perché il fine della politica, che è quello supremo, deve prevalere su ogni
altro e quindi prendersi cura della comunità; le considerazioni fra giusto e ingiusto passano in
secondo piano. Non si tratta di una scissione tra etica e politica, ma al conflitto di due etiche: da un
lato un’etica centrata sull’individuo e sulla sua coscienza del bene e del male, dall’altro un’etica
della polis dove il principale valore diventa la partecipazione alla vita della comunità, nella quale
l’individuo realizza la sua virtù e afferma la sua libertà. Anche se, secondo Machiavelli, l’uomo che
si batte per il bene della patria deve essere pronto a sacrificarle anche il bene della sua anima.
Il conflitto etica-politica è uno dei temi più centrali della filosofia politica: alcuni hanno posto questo
conflitto come strutturale e insuperabile, altri come conciliabile (tra cui spicca Max Weber).
Secondo Weber l’azione morale si pensa in almeno due modi:
- chi agisce seguendo l’etica della convinzione, agisce conformemente a ciò che si ritiene essere il
comandamento della morale (faccio ciò ritengo giusto), disinteressandosi delle conseguenze;
- chi agisce seguendo l’etica della responsabilità, invece, si sente in dovere di rispondere anche
delle prevedibili conseguenze della propria azione. L’azione moralmente giusta non è quella che si
limita a rispondere a un precetto, ma quella che attua concretamente un bene nel mondo, o
concretamente impedisce un’ingiustizia.
Il grande politico è solo colui che riesce a seguire l’etica della responsabilità (vocazione). Il politico
responsabile deve sapere che, entrando in una dimensione dove vigono il potere e la forza, non
può fare a meno di entrare in contatto con persone demoniache, col male; ma al tempo stesso sa
che non è un semplice cedimento al male, ma è proprio ciò che gli impone la sua etica di
responsabilità. L’etica della convinzione e l’etica della responsabilità sono complementari e al
tempo stesso creare una possibile tensione (fra etica personale e agire politico). Ad es. il politico è
totalmente contrario alla guerra ma nella nazione di confine vi è in atto un genocidio, che potrebbe
minacciare la sua nazione e allora è costretto ad intervenire; quindi vengono meno i valori privati
ma si mette in risalto il problema della collettività. A questo punto la responsabilità nel guidare il
paese diviene etica.

3.1 L’Approccio normativo. Qual è il giusto ordine normativo?


Le prime due domande sollevate da Bobbio sono strettamente interconnesse; di esse si occupa
quello che abbiamo chiamato approccio normativo della filosofia politica.
Ci si chiede quali caratteri debba avere l’ordine politico per meritare l’obbedienza da parte di coloro
che a esso sono sottoposti, cioè per essere considerato un ordine politico legittimo. La filosofia
politica normativa si propone di delineare l’ordine politico nel prospettiva del dover essere, per
poter essere riconosciuto come buono, giusto, legittimo. Dobbiamo però ricordare che il modo di
intendere la natura della normatività non è, nel corso dei secoli, sempre stato lo stesso, così come
non uguale è il rapporto tra realtà e norma e tra realtà e valore:
2- in Aristotele la norma non veniva intesa come qualcosa di separato dalla realtà, ma come ciò
che corrisponde alla sua più vera natura e al suo fine intrinseco. Inoltre, gli antichi parlavano di un
ordine politico giusto e legittimo riferendosi ai valori di giustizia e di bene comune;
- con Hume si è diviso l’essere dal dover essere, il momento descrittivo da quello normativo, con la
conseguenza di pensarli eterogeneamente, in modo che dal primo non si posso ricavare il
secondo. Per la tradizione più influente del pensiero politico moderno, il supremo valore cui l’ordine
politico dovrà essere commisurato è la libertà.
Accanto a costruzioni politiche che collocano la realizzazione del sommo valore in un mondo
differente (Platone, Moro, Marx), ve ne sono altre che pensano il buon ordine politico come una
rettificazione dell’ordine politico già dato, che ne conserva gli aspetti fondamentali (il liberismo di
Hayek, per limitare la democrazia illimitata a favore del liberismo economico, e il liberismo
egualitario di Rawls, per arginare le disuguaglianze con principii di giustizia). Più raro è il caso di
teorie che pongono un’identità
dell’ordine politico migliore con quello già dato.
Le teorie normative, quindi, possono differenziarsi secondo tre linee:
a) la modalità ontologica del rapporto essere/dover essere (che può essere pensato come
continuità o come separazione più o meno netta);
b) la determinazione del dover essere attraverso un certo valore supremo (il bene, la giustizia, la
libertà o altro);
c) il grado di distanza del modello normativo dalla realtà fattuale.
Nel pensiero filosofico della Grecia classica, la discussione politica pubblica tra i cittadini e la
filosofia nascono insieme. I filosofi discutono sulle questioni di giustizia nella polis e la politica
prende la forma di un agon: un duello di argomenti che ha per teatro l’agora; ne consegue che tra
politica e logos c’è un legame reciproco. L’arte politica consiste nel maneggiare il linguaggio; e il
logos che coscienza della sua efficacia attraverso la sua funzione politica. Azione politica, filosofia
e teoria politica normativa costituiscono 3 momenti geneticamente e concettualmente connessi.

Approccio esistenzialista: Hannah Arendt (“La Banalità del male”).


Oltre alla dimensione della politica come competizione per la ricerca di potere e ricchezza, legata
alla ricerca di una legittimazione razionale in termini di giustizia e libertà, vi è quella dimensione,
meno evidente, che è la ricerca di senso, che costituisce una delle strutture inaggirabili dell’umano
essere in società.
Secondo Hannah Arendt la comprensione del senso della politica necessita di un più largo raggio
di veduta, che prende le mosse da una riflessione sulla condizione umana (non si può ridurre la
politica solo al sistema di regole [approccio normativo] né attraverso l’agire strategico politico
[approccio realista]. In “Vita Activa” attraverso un approccio fenomelogico e quindi partendo
dall’agire umano trova ciò che caratterizza l’uomo:
1. sfera del lavoro l’attività lavorativa: è necessaria perché l’uomo deve riprodurre le condizioni
materiali della sua vita;
2. l’operare: risponde al dato per cui l’esistenza umana, a differenza di quella animale, ha come
sua condizione la creazione di un mondo artificiale di cose, permanente e nettamente distinto
dall’ambiente naturale;
3. l’azione: in questa dimensione si radica la politica e ha a che fare con i rapporti diretti tra gli
uomini, e va compresa secondo due aspetti:
• pluralità: vivere significa non solo essere tra gli uomini, ma essere tra uguali e diversi: la pluralità
è il presupposto dell’azione umana; siamo uguali perché umani, ma viviamo l’unicità della
personalità che ci caratterizza. E in questa unicità trova radice l’azione politica, poiché questa è la
dimensione nella quale gli uomini, con parole e fatti, manifestano la loro identità agli altri,
costituiscono il senso sempre precario della loro identità stabilizzandolo nell’atto in cui lo rendono
manifesto agli altri.
• natalità: proprio perché ogni individuo è unico, esso ha la capacità di iscrivere nella realtà
qualcosa di inedito. Secondo Arendt, sebbene un elemento di natalità sia intrinseco in ogni attività
umana, è nell’azione politica che la categoria della natalità trova la sua corrispondenza più diretta.
Nell’azione che fonda un organismo politico nuovo, o che ne rinnova uno esistente, si esprime
tanto la natalità che caratterizza l’umano, quanto il suo contro-polo, cioè il ricordare, perché
l’irruzione del nuovo crea le condizioni per il ricordo e per la storia.
Il nostro concetto di politica si fonda, secondo la Arendt, nella polis greca, in cui l’azione che è
degna di essere ricordata è capace di trascendere la mortalità del singolo uomo per attingere
all’immortalità. Si connettono quindi natalità e immortalità: l’uomo, in quanto soggetto d’azione,
possiede la capacità di generare l’inatteso, che proprio in quanto tale si sottrae al mero circolo
della vita naturale e si afferma nella permanenza dell’immortalità.
L’apparire davanti agli altri nell’azione politica che si compie nello spazio pubblico è il modo in cui
l’individuo può mettere in scena di fronte agli altri, e quindi anche rendere stabile di fronte a sé
stesso, la sua identità unica. Al tempo stesso, questa è la condizione perché ciò che si è compiuto
possa essere ricordato e tramandato, conservandone la memoria.
L’agire nella sfera pubblica al cospetto degli altri e con gli altri è salvezza contro l’evanescenza del
senso e la futilità delle pratiche umane puramente produttive.
Nell’immaginario greco la dimensione privata (domestica-familiare) può essere comparata ad
un’organizzazione gerarchica naturale (l’uomo domina sulla donna, figli e schiavi); mentre nello
spazio pubblico/politico della polis non vi è più una gerarchia fra le forze perché gli uomini si
confrontano su un piano paritario utilizzare il logos, nel quale dovrebbe prevale l’argomento più
“ragionevole”. Questa modalità è un modo di concepire la libertà positiva, ovvero l’ideale di uomo
libero è colui che partecipa alla gestione della polis. Alla luce di ciò la Arendt definisce la politica =
libertà. Nel suo libro “Origine del Totalitarismo”, al contrario di come si potrebbe pensare, ovvero in
un regime totalitario vi è un eccesso di politica, dato il controllo capillare e pervasivo; la Arendt
afferma il contrario non vi è un eccesso di politica bensì non vi è politica in quanto viene negata la
libertà. E non si elimina solo la libertà democratica ma anche l’individualità (differenza totalitarismo
e dittatura, descritto nel libro “Arcipelago Gulag”), infatti l’obiettivo dei campi di concentramento è
quello di omologare tutti gli individui: razza ariana, uomo sovietico. Quando vengono negati i
caratteri della pluralità e natività viene negata la libertà umana. Quindi per la Arendt la libertà
positiva è la realizzazione dell’essenza umana, in particolare la libertà di realizzare sé stessi; il fine
dell’uomo è praticare il logos e la libertà di manifesta nella gestione della cosa pubblica.
Oggi vi è una progressiva perdita di questa eccezione greca di libertà, chiamato processo di
depoliticizzazione in quanto si ci allontana dall’agire politico. La Arendt spiega come la società
occidentale sia sempre è più organizzata e burocratizzata, infatti l’uomo diventa sempre più
anonimo e la burocrazia porta alla perdita della passione, in quanto siamo solo degli ingranaggi
introdotti in una società produttice e consumistica.
Si può citare un altro filosofo politico contemporaneo come Habermas, il quale ha individuato le
distinte dimensioni della razionalità dell’azione umana. All’agire politico appartiene la dimensione
della razionalità strategica (competizione tra attori), ma anche la dimensione morale (della
giustizia) e quella della costituzione simbolica di senso della realtà umana e della espressione
autentica di sé.

Parte seconda. 1. “Polis” e democrazia.


La politica come la intendiamo oggi ha un origine nella polis della Grecia classica, ovvero la città-
stato che nasce tra il VII e il VI secolo a.C. dalla crisi delle forme tradizionali, regali e sacrali della
sovranità. Il potere non è più in mano a stirpi aristocratiche, ma passa in quello che è il centro
simbolico della città:
l’agorà, lo spazio pubblico comune a tutti i cittadini, in cui compare per la prima volta la discussione
politica nello spazio pubblico. Con essa nasce il discorso argomentativo, la filosofia, il dibattito, il
pensiero politico. La sovranità nella polis viene sempre più laicizzata e diventa oggetto di dibattito;
il comando non è più proprietà esclusiva di qualcuno, ma è il risultato di un confronto dialettico, di
una sfida ai migliori discorsi e alle migliori qualità. Nasce la legge scritta, “regola comune a tutti ma
superiore a tutti”, anche se non si arriva alla simmetria dei diritti: l’uguaglianza consiste nel fatto
che i diritti sono distribuiti con un criterio di proporzionalità e che la legge è la stessa per tutti i
cittadini e che tutti possono far parte dei tribunali come dell’assemblea.
Il modello classico della polis democratica è quello delle istituzioni politiche di Atene del 508 a.C., e
successivamente, quello della metà del V secolo con le riforme di Pericle. L’istituzione nella quale
si incarna la sovranità politica è l’Assemblea dei cittadini di pieno diritto (ekklesia): essa è aperta a
tutti i cittadini maschi e liberi con più di 18 anni, tutti hanno diritto di parola e le decisioni vengono
prese a maggioranza.
L’assemblea rappresenta la più alta autorità decisionale sulle questioni legislative e di governo,
mentre l’attività amministrativa era esercitata dal consiglio dei 500 (boule). Molte delle principali
cariche politiche venivano attribuite per sorteggio ed era previsto un compenso per chi era
designato a ricoprirle. La politica ateniese era dunque un sistema di democrazia diretta e
partecipativa, era una democrazia che, a differenza di quelle moderne, era priva di un vero e
proprio apparato statale, che metteva in primo piano il confronto degli argomenti.
È nel contesto della città che si manifestano le prime forme di pensiero politico: i sofisti risaltano la
convenzionalità del nomos, rispetto ad una presunta giustizia naturale, e affermano che la giustizia
sia solo l’utile del più forte. Protagora legittima la democrazia, sostenendo che la capacità di fare
politica non è un talento speciale ma un’attitudine che tutti i cittadini possono acquisire; e afferma
che il giusto e l’ingiusto dipendono da ciò che la città stabilisce, non esiste una verità/realtà
oggettiva: istanza relativista, ecc…Per Platone le teorie dei sofisti erano pericolose, in quanto
quest’ultimi ritenevano che il sapere poteva essere trasmesso, bastava insegnarlo.

2. La visione platonica del Bene politico.


La morte di Socrate e la giovinezza di Platone si collocano in una fase di crisi della democrazia.
Infatti, dopo il governo dei Trenta Tiranni, verso cui Platone nutre grandi speranze, si instaura
nuovamente un governo democratico che, nel 399 a.C, si assume la responsabilità di condannare
Socrate per empietà e di ucciderlo.
Queste sono le considerazioni che Platone stesso scrive nella Lettera VII, in cui afferma che il “mal
governo”, in particolare la democrazia, è un male comune a tutte le città e sostiene che solo la
vera filosofia permette di distinguere ciò che è giusto dall’ingiustizia, sia nella vita pubblica che in
quella privata, quindi permette di curare la società. Per questo solo i filosofi potrebbero essere dei
buoni governanti.
Nel Politico Platone definisce la politica come l’arte suprema che deve orientare tutte le altre e la
vita della comunità nel suo complesso. Essa deve attuare il bene di ognuno nel bene della
comunità ma deve anche rendere migliori i cittadini. Se la politica si riduce a una competizione
feroce per gli onori e per il potere, risulta inadeguata al raggiungimento dei suoi fini. Una buona
politica, quindi, potranno farla solo i filosofi che, conoscendo il vero bene, non si azzufferanno per
la ricerca del potere e della ricchezza.
Alla risolti della polis democratica e ai discorsi persuasivi, Platone riafferma la vera filosofia e il
principio di competenza, che rovescia il principio democratico secondo cui tutti sarebbero in grado
di giudicare gli affari pubblici.
Come la città ha bisogno dei filosofi, anche i filosofi hanno bisogno della città: la saggezza e la
ricerca della perfezione e della felicità, cioè le attività del filosofo, richiedono lo scambio e la
relazione con gli altri. Nella Repubblica, Platone delinea le caratteristiche di una città ideale
fondata sulla giustizia, cosa che presuppone il dialogo con chi nega la validità dell’idea di giustizia.
Il governante-filosofo è colui che riesce a mantenere un equilibrio gerarchico tra i membri della
città. Così nella città, così nell’individuo stesso: in esso convive una pluralità, in cui vige la giustizia
solo se si instaura un’unità armonica tra le parti e, quindi, realizzare il bene per sé. In interiore
homine, nell’anima individuale, Platone distingue tre momenti:
- anima appetitiva (o concupiscibile): che mira alla soddisfazione dei piaceri del corpo;
- anima razionale: che cerca la conoscenza e la verità;
- l’anima volitiva (o animosa): cioè l’energia del volere, grazie alla quale l’anima si dirige verso.
l’uno o l’altro dei suoi obbiettivi, con maggiore o minore determinazione e coraggio. Per Platone il
mondo delle idee è interiorizzato nell’anima ma appena quest’ultima si incarna nel corpo perde
questa verità oggettiva perfetta; quindi la verità non può si acquistare dai sofisti perché essa si
apprende dopo un lungo processo, in particolare tramite la ragione e la filosofia.
L’individuo giusto è colui in cui le tre parti dell’anima non sono in conflitto tra loro, ma danno luogo
a un’intima armonia realizzata da una giusta gerarchia tra gli elementi. L’uomo giusto è quello in
cui domina la parte razionale, sostenuta da quella volitiva (o animosa) su quella appetitiva (o
concupiscibile), poiché solo così l’individuo attinge al vero bene, cioè alla sua felicità più autentica.
Ai tre tipi di anima corrispondono tre tipi di uomini, quindi vi è una propensione naturale nell’uomo:
quelli che ricercano la saggezza (filosofi), quelli che ambiscono agli onori (guardiani della città) e
quelli che bramano il guadagno (commercianti/produttori), e, per ognuno di loro, la felicità
maggiore corrisponde al modo di vivere cui si dedica. I filosofi sono coloro che lodano il piacere
dell’intelletto, che conoscono anche gli altri tipi di piacere che ritengono meno validi (cosa che gli
altri non possono fare); e per questo il loro giudizio è più attendibile. Inoltre l’apprendere e il
conoscere sono, rispetti agli altri, gli unici beni che possiamo conseguire in modo illimitato senza
per questo doverli sottrarre ad altri, anzi si regalano volentieri ad altri. Solo affidandosi al governo
dell’anima razionale sulle altre, l’uomo potrà raggiungere la felicità e l’autorealizzazione. Così
nell’individuo, così nella comunità. La società, secondo Platone, nasce dal bisogno, dal fatto che
l’uomo, da solo, non è in grado di bastare a se stesso e per vivere instaura rapporti di
collaborazione e di scambio. A soddisfare le necessità materiali, allora, provvederà la classe dei
produttori e dei commercianti (uomini desiderosi di guadagno).
Accrescendosi, la città entro in conflitto con altre comunità, per cui è necessaria una classe di
guardiano che protegga la città (uomini desiderosi di onori).
Ma superiore a tutto c’è il governo della città, per cui è designata la classe dei filosofi, cioè di
coloro in cui domina l’anima razionale. Solo con un’armonia tra queste tre classi si può instaurare
la città ideale, che assicura ai diversi tipi di uomini la possibilità di vivere nel modo cui il loro
temperamento li indirizza, ma tenendoli entro quei limiti che fanno sì che essi contribuiscano,
ciascuno a suo modo, al bene della città. In forza di ciò che si è detto, ovvero del conflitto che
nasce dal trarre più guadagno di altri, Platone afferma che la classe dei reggitori (politici che
governano) deve rimanere lontana da tutto ciò che implichi un privato interesse acquisitivo.
Perciò, essi non devono possedere proprietà privata, ma devono avere tutto in comune, anche
abitare e mangiare insieme, e i loro figli saranno considerati figli della città e allevati in comune.
Per quanto riguarda l’appartenenza alle tre classi, Platone ricorre a ciò che lui designa come una
nobile menzogna: gli uomini appartengono a una classe a seconda che nella loro natura sia
mescolato oro (filosofi), argento (guerrieri) o ferro e bronzo (artigiani e commercianti). Così, i
giovani apparterranno di regola alla classe di chi li ha generati, ma non senza eccezioni, tentativo
di migliorare la “prole”: filosofi e filosofi. (potremmo dire una visione teleologica, in quanto
l’essenza della natura umana ha un fine predefinito e l’uomo sarà felice solo se realizza questo
fine).
Nella Repubblica, Platone delinea le forme di degenerazione a partire dalla città ideale, in un
processo di decadimento progressivo:
- timocrazia: prevarrà la parte animosa, quindi i governanti saranno coloro che bramano onori e
ambizioni;
- oligarchia: alla ricerca di onori, si sostituisce il desiderio di ricchezze, creando una scissione nella
società tra un’élite ricca e una massa povera (bramosa di una rivoluzione);
- democrazia: quando i poveri si ribellano, in cui regna un’apparente liberà che si traduce nel
dominio dei demagoghi e nel rifiuto di qualsiasi obbedienza, fino all’anarchia;
- tirannide: che si imporrà per porre fine all’anarchia.
Nel libro V della Repubblica, Platone ribadisce la sua convinzione che l’instaurazione di uno stato
giusto sia possibile, attraverso un governo gestito da filosofi. Ovviamente egli, nel IX libro, scrive
che l’ottimo stato esista solo a parole, ma la sua teoria rimarrà un modello cui ispirarsi, soprattutto,
rimarrà un paradigma più etico che politico. Platone è uno degli esponenti dell’approccio normativo
in quanto tende a portare la prassi verso un ideale: portare la verità e la giustizia nella polis
attraverso la filosofia e creare un ordine fra le 3 classi individuate in base alla predisposizione
naturale.

3. Aristotele e il pluralismo del Bene


Come Platone, per Aristotele la città rimane il punto di riferimento privilegiato; e, come per Platone,
l’oggetto primario di riflessione della politica è il Bene, sia del singolo uomo che della città, perché
il bene dell’individuo, che consiste nell’attività dell’anima secondo virtù, si attua nel contesto della
relazione con gli altri. La politica quindi è la scienza più direttiva e architettonica, perché si occupa
del bene umano nel suo contesto più ampio, cioè coordinare tutte le condizioni all’interno delle
quali gli individui possono vivere bene e attingere la loro felicità. Ma rispetto alla filosofia platonica,
mutano le coordinate teoretiche dalle quali la ricerca sul bene per l’uomo viene guidata.
1. Cambia il modo di intendere lo statuto teorico del sapere pratico, etico e politico: il bene pratico
non può essere oggetto di un sapere rigoroso (come Platone) ma bisognerà accontentarsi di una
verità conosciuta a grandi linee, che non può avere rigore dimostrativo.
2. Cambia la visione del bene: Aristotele critica la concezione platonica di un’unica idea del bene in
sé, di cui i beni particolari partecipano, poiché altrimenti esisterebbe una scienza di esso, mentre
invece esistono molte scienze che trattano di ciò che è bene.
L’unità platonica che si riflette nel pensiero politico viene criticata da Aristotele, il quale sviluppa in
modo paradigmatico le tesi del carattere naturale dello stato e dei rapporti di comando/obbedienza
che fondano la comunità umana. In principio non c’è l’individuo solo, ma subito la comunità
(originaria) che unisce, da un lato, maschio e femmina in vista della riproduzione; dall’altro,
l’intelligente che ha natura di capo con colui che ha forza fisica ed è per natura subordinato. La
natura dell’uomo è zoon politikon che, a partire dalla più piccola cellula familiare, dà vita a
comunità via via più ampie di discendenza, di villaggio, e infine alla città dove può attingere i beni
della vita civile.
Il concetto aristotelico di natura è teleologico: la natura di una cosa è il fine cui tende il suo
sviluppo, e in questo senso la comunità civile è iscritta nella natura dell’uomo. La natura non fa
niente per caso, quindi se gli uomini hanno la parola, il senso del bene e del male, del giusto e
dell’ingiusto è perché questi possano essere sviluppati e attuati nella comunità. L’essenza, il fine
nell’uomo è quello di esercitare la ragiona, costruire senso e fare politica; tuttavia il senso è
pluralistico e inoltre Aristotele possiede una visione pessimistica perché l’uomo ha la ragione ma è
anche guidato dalle passioni e quando entra in gioco la passione subentra la forza e la violenza…
quindi Aristotele cerca di capire come armonizzare unicità e pluralità? E su cosa si deve reggere
l’ordine politico?
Secondo Aristotele naturale è il rapporto di subordinazione (padrone/schiavo): così come, nel
singolo uomo, l’anima domina sul corpo e l’intelligenza sull’appetito, come gli uomini tutti dominano
sugli animali, allora gli uomini più dotati di intelligenza e di capacità di comando dominano su quelli
più dotati di forza fisica, quindi atti a servire, a essere strumenti animati.
Anche le famiglie sono strutturate in quest’ottica di subordinazione: l’uomo libero, il signore e
padrone, comanda (in modi diversi) allo schiavo, alla femmina e ai figli. Altro difetto di Platone,
secondo Aristotele, è quello di aver sacrificato la famiglia e la proprietà in nome dell’unità dello
stato. Aristotele esamina diversi possibili ordinamenti della proprietà, distinti da quello in cui
possesso della terra e consumo dei prodotti sono privati, e cioè proprietà privata della terra, ma
uso comune dei prodotti; e proprietà comune con uso privato. Aristotele si scaglia contro la
proprietà comune (che Platone prevedeva per i custodi), perché essa può creare contrasti tra
coloro che lavorano di più e ottengono tanto quanto coloro che lavorano di meno, oltre che tra
coloro che sono costretti a una comunanza forzata. A favore della proprietà privata, invece, vi è la
maggiore cura del bene privato da parte di chi lo possiede, oltre che è fonte di felicità e di amore
per se stessi (ma non eccessivo, altrimenti si sfocia nell’egoismo) e permette la liberalità. Inoltre
l’uguaglianza delle proprietà ha un carattere statico, mentre la società umana è in continuo
movimento.
Il sistema migliore è quello dove alla proprietà privata si accompagna anche un uso largamente
comune dei beni privatamente posseduti.
Il problema fondamentale della comunità politica è per il filosofo quello del rapporto fra unità e
differenze: certamente lo stato, come famiglia, deve realizzare l’unità, ma non in modo assoluto;
deve essere un’unità la cui forza sta nel sapere ospitare dentro di sé i diritti legittimi della
particolarità. Il fine dello stato non è né garantire la sicurezza, né quello di facilitare l’attività
economica. Malgrado tutto ciò sia necessario, il fine dello stato è più alto: il suo oggetto è
un’esistenza pienamente realizzata, il vivere in modo felice e bello.
Il governo politico deve essere ben distinto da altre forme di comando; tra i liberi e gli eguali, tutti
ricoprono a turno il ruolo di governante e di governato: quando sono al potere lo esercitano
nell’interesse dei governati, mentre possono occuparsi dei propri interessi quando ritornando nella
condizione di governati.
Aristotele indica sei forme di costituzione, divise in due gruppi:
a. le costituzioni giuste (monarchia, aristocrazia e politeia): in cui il potere di governo viene
esercitato per il bene di tutti, in vista di un interesse comune;
b. le costituzioni degenerate (tirannia, oligarchia e democrazia): in cui i governanti assicurano il
loro interesse e non quello dei governati.
La politica per Aristotele è un’arte, una saggezza basata sulla prudenza, perché non si ha un
rigore matematico, si tratta di un sapere contingente.
All’interno di questi gruppi, le forme di governo si distinguono a seconda che, a esercitare il potere,
siano uno, pochi o molti. Aristotele afferma come il miglior governo è quello dei molti, sia perché
nel loro insieme e confronto hanno una saggezza maggiore al migliore individuo singolo, sia
perché sono numericamente rilevanti ed escluderli potrebbe essere pericoloso, sia perché, anche
se non hanno l’arte del governo, possono giudicare chi governa. La forma di governo migliore,
quindi, è la politeia, una vera democrazia ma senza i suoi difetti di governo di una moltitudine
povera: è più la commistione tra il governo dei pochi e il governo dei molti, anche se più incline
verso il secondo. In essa governa il ceto medio: lo stato migliore è quello in cui tutti i cittadini
possiedono sostanze sufficienti ed è anche il più stabile, perché l’eccesso di ricchezza o di povertà
suscitano rivolte che portano alla tirannide.
Nella Politica, Aristotele affronta il problema di quale sia la vita buona per l’uomo. Questo dispone
dei tre tipi fondamentali di beni: esteriori, del corpo e dell’anima. Mentre i primi due devono essere
cercati senza eccesso e nella misura in cui sono necessari, i beni dell’anima non hanno questi
limiti e sono quelli ad assicurare la felicità (che consiste nell’esercizio delle virtù, sia quelle
dianoetiche della vita teoretica, sia quelle etiche della vita pratica. La vita felice è quella in cui la
virtù si esplica in entrambe le direzioni, e la città migliore è quella che consente ai cittadini di
esplicitare la loro attività secondo virtù.
Perciò la polis deve possedere determinati requisiti, come una popolazione e un territorio non
troppo grandi. Tra i cittadini, però, vengono esclusi coloro che non sono idonei all’attività politica: le
donne e gli schiavi, ma anche i lavoratori manuali. Quindi la felicità nella polis non è un valore che
può essere universalizzato: la libertà di alcuni presuppone altri che si fanno carico della necessità:
le attività necessarie, infatti, devono essere subordinate alle attività con fine in se stesse, come
l’attività politica e teoretica. La politica deve creare le condizioni per permettere ai cittadini di
realizzare la loro felicità.
Aristotele credeva fortemente sulla repubblica, è qualcosa di pienamente realizzabile (non una
costruzione utopica). Ogni polis è un unita particolare, il modo di stare insieme cambia da polis a
polis. Chi non è greco è barbaro ed è governato da un tiranno (come i persiani, seconda la visione
greca del tempo); infatti i greci si consideravano superiori, potremmo dire una visione razzista, che
i sofisti cercano di abolire.

4. Dalla polis alla cosmopolis


Con l’impero di Alessandro Magno, la forma politica della politeia e della polis era già entrata nella
fase della sua decadenza. L’orizzonte politico si universalizza e si affermano nuove forme
politiche, all’interno delle quali diventa impensabile una partecipazione diretta del cittadino.
La distinzione fra Greci e barbari cade, e comincia ad affermarsi l’idea della eguaglianza fra tutti gli
uomini, di una natura umana che è la stessa in ciascuno. Per un verso, gli individui che non
trovano più l’autorealizzazione nella politica, si affermano così le cosiddette “Scuole post-
aristoteliche”. 1) Scuola di Epicuro. Epicuro considera per la prima volta la rottura tra ambito
privato e pubblico; pensa che la felicità consiste nell’assenza di turbamento (dimensione
dell’atarassia) che si realizza nell’individualità, nel privato e ritiene che la politica è quello luogo nel
quale vigono le passioni. il saggio epicureo coltiva l’ideale di vivere nascosto e non prende parte
alla vita politica, quindi si tratta di un allontanamento dell’uomo dalla politica: depolicizzazione.
2) lo stoicismo si nutre della prospettiva della cosmopolis, di una grande repubblica in cui i popoli
diversi possano vivere in pace rispettandosi paritariamente, purché si sottopongano tutti all’unica e
universale legge della ragione. Nel mondo preesiste un ordine e la felicità consiste nel perseguire
questa ragione delle cose, evitando le passioni. Il saggio stoico è l’uomo superiore alle passioni,
fedele alla virtù e al dovere, capace di accettare serenamente il destino e la morte (Seneca, Marco
Aurelio, Cicerone). Con queste premesse lo stoicismo anticipa il cristianesimo: vi è questo ordine
preesiste e l’uomo non appartiene più alla polis ma al mondo, alla cosmopolis. Bisogna vivere
tramite la ragione e partecipare a questo logos universale (non più il particolarismo della polis).
Visione olistica, perché la famiglia e la comunità preesiste rispetto al singolo.
Mondo romano, precristiano. I romani inventano il diritto. Cicerone affida centralità al concetto di
diritto: a fondamento dell’ordine giuridico vi è una legge di natura o legge della ragione, che è
eterna e immutabile e vale per tutti gli uomini. Essa incarna la Giustizia ed è superiore a tutte le
leggi umane. La res publica, cioè la comunità politica, è un’unione fra uomini che si associano per
la loro utilità comune vincolandosi sotto una certa legge cui danno loro il consenso (la legge tutela
la comunità e il singolo). La comunità politica è vista come una società di uomini tenuta insieme dal
vincolo del diritto. Il compito del magistrato (detentore del potere di governo) è quello di mettere in
opera il diritto: egli è la legge che parla, ed è nella legge che vive la res publica. Si afferma in tal
modo una nuova concezione che pensa lo stato e la politica a partire dalla centralità delle
categorie giuridiche.

II. La città dell’uomo e la città di Dio


1. La rivoluzione cristiana. Paolo e Agostino.
L’intreccio tra cristianesimo e politica, per la storia dell’Occidente, è stato determinante. Per prima
cosa si passa sul piano filosofico-teologico dal politeismo al monoteismo.
Il carattere rivoluzionario del messaggio cristiano consiste nella trasvalutazione (=cambiamento di
stima del sistema dei valori) dell’eguaglianza di tutti gli uomini (concetto stoico) come creature
aventi valore infinito poiché creati da Dio e siamo tutti figli di Dio. Non si tratta più di un Dio
impersonale, ma un Dio che si persona e che dà origine ad un’alleanza fra Dio e popolo eletto.
(Prima che cristianesimo diventasse religione di Stato nell’Impero romana, i romani consideravano
i cristiani atei, in quanto il mondo è stato creato da un Dio trascendente che elimina la divinità della
natura, contrariamente all’immaginario greco e romano, nel quale gli dei erano all’interno della
phiusis). Come conseguenza, decade il valore delle distinzioni sociali (padroni e schiavi).
I valori della società vengono ribaltati dal cristianesimo, dato che si afferma il concetto di anima
immortale e quindi di un’esistenza dopo la morta che influenza tutta la vita terrena (nel mondo
l’essere immortali indicava l’essere ricordati attraverso il compimento di gesta eroiche): al posto
della forza e della potenza si predica la carità e la fratellanza, al posto della ricchezza la povertà.
Ci si volge con misericordia verso i poveri, gli umili, i peccatori, cioè verso coloro che erano
considerati come impossibilitati a realizzare la virtù. Malgrado ciò, la rivoluzione cristiana non è
pensata come una rivoluzione politica, e non vuole esserlo. Infatti, non esorta i servi alla ribellione,
ma all’obbedienza, e ai padroni si consiglia di comandare nel modo giusto. I cristiani non aspirano
a fondare un nuovo regno, Cristo insegna che il suo regno non è in questo mondo. Ma una
predicazione così radicale non poteva non minare le basi degli ordinamenti politici del tempo. Dare
a Cesare quello che è di Cesare significava rispetto per l’imperatore, cui non deve essere dato più
di quanto gli spetta. Il cristiano, quindi, è tenuto a una doppia lealtà, verso Cesare e verso Dio,
anche se quest’ultima prevale (relativizzazione dell’assolutezza del potere politico).
La rottura con il concetto di polis è ormai netta: col cristianesimo è posta la distinzione fra ciò che è
dovuto allo stato e ciò che invece non gli appartiene, come la dimensione spirituale dell’individuo.
Dopo la fine delle persecuzioni romane a seguito della conversione di Costantino, il cristianesimo
comincia a interrogarsi sulla legittimità, fondamento, autonomia e limiti del potere politico,
producendo soluzioni anche in contrasto tra loro. Secondo il Paolo della Lettera ai Romani i
cristiani devono obbedienza all’autorità politica perché questa autorità proviene da Dio, e quindi
opporsi ad essa equivale mettersi contro un ordine legittimato da Dio. Afferma che chi si comporta
bene non ha nulla temere nei confronti dell’autorità pubblica mentre chi si comporta male deve
essere punito dalla giustizia, in quanto esecutrice di un comando divino. L’obbedienza che i
cristiani devono al potere pubblico non deve essere motivata sola dal timore della punizione, ma è
anche un obbligo di coscienza.
Dopo la conversione di Costantino, quando il cristianesimo acquista piena cittadinanza nell’Impero,
i problemi politici e dottrinali diventano assai più complessi. Diviene necessario stabilire i limiti e le
competenze dei due poteri, spirituale (città di fede) e temporale (città terrena), che devono
coesistere, e traccerà la strada per una serie di conflitti che si protrarranno per tutta la storia della
cristianità.
Il rapporto tra le due città e al centro dell'opera di Agostino De Civitate Dei (la città di Dio), con cui
l'autore cerca di difendere il cristianesimo dall'accusa che i pagani (invasioni barbariche) gli
avevano mosso, dopo il sacco di Roma, di aver determinato la crisi dell’impero. In questo contesto
Agostino afferma che la Roma pagana non è una vera res publica,perché le mancava la vera
giustizia, in particolare fuori dalla vera giustizia cristiana non c'è un popolo, un ordine politico, uno
Stato che sia realmente legittimo. La necessità dello Stato non è qualcosa che risponde alla natura
dell'uomo, ma rimanda alla natura umana corrotta e disordinata, che si è determinata in seguito al
peccato originale. Nel disegno divino non c'era il dominio dell'uomo su altri uomini, ma solo quello
dell'uomo sugli animali. Il dominio degli uomini sugli uomini, il governo coercitivo, è reso
necessario dalla corruzione del peccato originale e ne è anche il castigo. Tuttavia Agostino afferma
che l'ordine politico che non attinga alla giustizia ha sempre una sua funzione che deve essere
però riconosciuta come significativa e positiva. Un'associazione politica soddisfa il suo scopo
quando riunisce una moltitudine di esseri ragionevoli uniti nel perseguire il bene che prediligono, e
assicura loro un ordinamento di pace di concordia, quindi la politica serva a evitare il peccato e il
conflitto. Allora i Romani furono effettivamente un popolo e una res publica, la cui funzione
fondamentale fu quella di unificare il mondo preparando il terreno per l'avvento della predicazione
cristiana. Ma riconosce che una comunità perfettamente giusta non può esistere, dato l’esistenza
del peccato, quindi per Agostino non esiste il modello teocratico, anche se vi è questa tensione
continua verso la giustizia.
Quello che veramente importa nella storia dell’uomo non è la grandezza degli imperi, ma la lotta
fra la civitas Dei e la civitas terrena. Le due città non si identificano rispettivamente con la Chiesa e
con lo stato, ma designano due opposti modi di vivere, 2 categorie esistenziali: la città terrena è
un’unione che nasce per soddisfare il desiderio di gloria, l’ambizione; è governata dall’amore di sé,
spinto fino all’indifferenza nei confronti di Dio. Invece, la città celeste è governata dalla legge
dell’amore, dell’umiltà, del sacrificio del sé; è la società dei giusti che vivono questo mondo da
stranieri, come un transito verso la redenzione; vivere nella città di Dio significa essere convinti di
una vita dopo la morte, e quindi l’uomo accetta il messaggio di salvezza annunciato dal vangelo.
Agostino dice che o puoi accettare la fede cristiana e quindi sei battezzato oppure sei pagano,
tuttavia riconosce che un uomo si può battezzare ma continua a vivere da pagana, così come un
pagano, non battezzato, può vivere da “cristiano”.
Il dualismo fra le città terminerà solo nella fine escatologica, quando si instaurerà la città di Dio e
con essa la perfetta concordia e la perfetta giustizia, infatti solo la dimensione trascendente può
arginare il peccato.
A partire da questo orizzonte, Agostino pensa i rapporti fra la Chiesa e lo stato cristiano, cioè
quello stato che processa la vera fede. Ognuno dei due poteri ha la sua sfera autonoma di azione:
- lo stato si occupa dell’uomo nella sua dimensione materiale;
- la Chiesa cura gli interessi della sfera spirituale (considerata superiore perché la sua giurisdizione
non è limitata nello spazio e nel tempo: mentre gli stati sono soggetti al tempo, la Chiesa ne è al di
sopra e si serve dello stato come lo strumento per reprimere l’eresia).

2. Il potere del pontefice e il potere politico


Tutta la storia del Medioevo è attraversata dal rapporto fra il sacro potere del pontefice e quello
politico dei re e degli imperatori. Le loro funzioni sono diverse, e per questo devono rimanere poteri
distinti, ma il vero problema è se si debbano considerare entrambi come derivanti direttamente da
Dio, e quindi posti su un piano di cooperazione malgrado ognuno rimanga nella sua sfera di
competenza (questa per es. era la teoria di Dante 1200); o se, partendo dal fatto che il potere della
Chiesa si colloca spiritualmente su un piano più alto, si debba porre una supremazia del pontefice
e far discendere da lui anche la legittimazione del potere politico.
La dottrina del primato del potere papale su quello secolare verrà sostenuta dalla Chiesa con
sempre maggiore energia nei secoli che seguono la morte di Agostino. Si parlerà di «agostinismo
politico», anche se tale visione si allontana dalle originarie tesi agostiniane, e troverà in papa
Gregorio Magno (fine VI secolo) uno dei suoi primi sostenitori. Nell’800, con l’incoronazione di
Carlo Magno a Roma da parte di Leone III, si instaura una sorta di alleanza fra Chiesa e
imperatori; mentre, con il successivo regno di Ottone I di Germania, il potere imperiale accrescerà,
tanto che Ottone II pretenderà di esercitare il proprio controllo anche sul papato, scegliendo lui
stesso i vescovi-conti. La Chiesa e il potere papale riacquisteranno autonomia con Papa Gregorio
VII nel 1073: l’imperatore Enrico VI di Germania, cercò di depositare papa Gregorio, ma egli
rispose scomunicando l’imperatore umiliandolo poiché questo dovette implorare il perdono del
pontefice. In modo ancora più netto, la superiorità del potere papale sarà riaffermata da Innocenzo
VI contro Federico II, con la cui sconfitta crollerà il sogno degli imperatori tedeschi di restaurare la
monarchia universale.Da questo momento, però, l’universalismo della Chiesa di Roma non dovrà
più misurarsi con un altro universalismo, quello imperiale, ma con la nuova realtà delle città e dei
regni.

3. Tommaso d’Aquino
Alla metà del XIII secolo, con la diffusione delle traduzioni delle opere di Aristotele, il pensiero
cristiano dà luogo ad un grande rinnovamento, segnato dalla figura di Tommaso d’Aquino. Mentre
in Agostino la riflessione sulla politica partiva da un antropologia pessimistica, in Tommaso, anche
in seguito alla ricezione del pensiero politico di Aristotele, subentra una visione improntata alla
prosecuzione e alla continuità: la natura e la realizzazione del bene terreno si superano e si
compiono nella dimensione della grazia e della realizzazione del bene spirituale. In questo
orizzonte, la politica costituisce una sfera che, anche se collocata sul piano umano, ha la sua
autonomia e il suo positivo spazio in quanto attraverso di essa si attua il bene dell’uomo.
La legge che sta al di sopra di tutte e che governa l'intero universo è la legge eterna che coincide
con la sovranità di Dio su tutte le creature. Questa legge coincide con la ragione divina che ordina
tutto in vista del meglio, noi esseri umani, inclusi i pagani, non possiamo coglierla fino in fondo
anche se dotati di ragione. Per questo anche le creature ragionevoli vi sono sottoposte, ma in
maniera particolare: il modo in cui gli uomini dotati di ragione partecipano della legge eterna è la
legge naturale (verità che riusciamo a cogliere anche se non si è cristiani, data la ragione umana),
nota a tutti gli uomini, valida in ogni tempo, le cui prescrizioni sono finalizzate al bene comune e
alla felicità. Essa prescrive tutto ciò che giova a conservare la vita dell’uomo, mentre proibisce ciò
che va contro questo fine. Gli uomini però devono essere educati alla disciplina della virtù, e siano
puniti qualora se ne allontanino: questa è la funzione delle leggi umane o della legge positiva di
modo che le passioni e le cattive abitudini non li condizionino. La funzione delle leggi umane è
assicurare che tra gli uomini regni la pace, che siano bandite le ingiustizie reciproche, grazie al
timore del castigo. Le leggi umane o positive hanno il loro fondamento nella legge di natura, che
non devono mai contraddire. La giustizia è definita come la volontà costante di dare a ciascuno il
suo, mentre il diritto viene distinto in diritto naturale, che deriva dalla natura stessa della cosa; e il
diritto positivo, deriva o da un accordo privato, o da un patto pubblico, o da ciò che è stabilito dal
principe. Poiché l’animo umano è corruttibile a volte risulta difficile perseguire la legge positiva è
proprio in questo contesto che interviene la legge divina, che indice quella verità che cogliamo
dalle sacre scritture, che a disciplina a seconda del contesto storico, la legge positiva decisa dal
sovrano o dal legislatore.
Tommaso considera il vivere in società come conforme alla natura dell’uomo (zoon politikon):
l’uomo fa parte della famiglia, e questa della città, e il bene del singolo non è fine ultimo, ma lo è il
bene comune (che non è in conflitto con il bene del singolo perché realizza il suo bene in un
contesto più vasto: comunità, famiglia). Il potere politico, quello che si esercita sugli uomini liberi
(non su servi o schiavi), è una necessità per la convivenza umana, che non dipende dalla natura
umana corrotta dal peccato originale, ma dal bisogno della moltitudine di una direzione per
orientarsi al bene comune. Tommaso sostiene che anche nello stato di innocenza servirebbe il
potere politico.
Vediamo la distinzione di Tommaso dei vari tipi di ingiustizia:
- se la legge ingiusta comanda qualcosa contro Dio, gli uomini non sono tenuti a obbedire. Il
comando di Dio è superiore al comando del principe e vincola l’uomo contro di esso;
- se le leggi sono inique, attentano al bene comune che la legge dovrebbe promuovere, ma
possono essere ingiuste in vari sensi: o perché mirano solo a soddisfare il bene del principe, o
perché escono dai limiti di competenza di chi le emana, o perché impongono ai sudditi oneri in
modo iniquo. Queste leggi non obbligano in coscienza, ma sarebbe consigliabile rispettarle per
evitare scandali o disordine. Il governo tirannico è una legge ingiusta, poiché la legge non è
indirizzata al bene comune ma al solo vantaggio del despota. Secondo Tommaso, che in generale
condanna la ribellione come peccato, non considera la resistenza al despota come tale, a meno
che non sfoci in mali peggiori di quelli che i cittadini subivano sotto il potere tirannico. Inoltre non è
lecito uccidere il tiranno.
Per quanto riguarda la migliore forma di governo, anche qui Tommaso segue la Politica di
Aristotele. Nella Summa Teologica, Tommaso sostiene che la forma migliore di regime politico è
una forma “mista” che riassuma in sé i vantaggi delle tre forme pure, cioè monarchia,
dell’aristocrazia e della democrazia: il potere di comando deve essere detenuto da un’autorità
unica (monarchia), che però è affiancata da un ampio corpo di cittadini qualificati (aristocrazia),
scelti nell’ambito del popolo ed eletti dal popolo stesso (democrazia).
Rispetto al rapporto tra potere politico e potere religioso, Tommaso ribadisce che il potere
spirituale del pontefice sia superiore a quello secolare; quest’ultimo deve presiedere alle attività
umane e assicurare l’attuazione di una vita buona su questa terra; però è soggetto alle
intromissioni del primo solo in ciò che tocca il fine della beatitudine eterna (e non la felicità
terrestre).
Solo con il Monarchia di Dante (XIV secolo) questa subordinazione viene messa in discussione:
non vi è un potere spirituale posto in un piano più elevato dal potere secolare, poiché anche il
primo riceve la sua investitura direttamente da Dio, senza intermediari. Il potere politico dovrà
rispetto e devozione a quello religioso, senza però che si traduca in una vera e propria
subordinazione.
Tommaso, inoltre, si chiede data l’esistenza dei principi cristiani come si ci debba porre nei
confronti della guerra, e quindi quando la guerra può essere ritenuta giusta e individua 3 criteri:
deve essere decisa dall’autorità; che vi sia una giusta causa (x es. difendersi da invasioni
nemiche); che sia sorretta da una motivazione retta, es. l’intenzione deve essere quella di riportare
la pace.

4. La rottura della res publica christiana e la Riforma protestante


La crisi dei due universalismi, la Chiesa e l’Impero, è già aperta nella Monarchia di Dante (1285-
1321). Fallisce il tentativo teocratico di Bonifacio VIII di ricondurre all’obbedienza il re Filippo il
Bello, così come fallisce l’impresa imperiale di Enrico VII. Marsilio da Padova, invece, condanna le
pretese ecclesiastiche di egemonia sul potere politico (plenitudo potestatis), il quale deve
governare e deve essere frutto della volontà dei cittadini. Guglielmo di Ockam si batte contro la tesi
della superiorità del potere papale, perché conduce alla peggiore delle tirannidi.
La Chiesa attraversa una gravissima crisi all’inizio del Trecento, come dimostra il trasferimento
della sede papale ad Avignone e il grande sisma d’Occidente (con due e poi fino a tre papi). La
nascita degli stati nazionali fa sì che i nuovi sovrani cerchino di controllare le chiese nazionali, che
devono essere rese indipendenti da Roma. A ciò si aggiunge la grande corruzione degli
ecclesiastici, che portarono a primi movimenti di critica e di riforma, come Wyclif e Hus, fino alla
diffusone del movimento luterano, che spaccherà l’unità cattolica europea.
Nel 1517 Lutero affigge sulla porta del castello di Wittenberg tesi contro il commercio delle
indulgenze e, 3 anni dopo, brucia la bolla di scomunica che era stata emessa contro di lui da papa
Leone X.
La riforma distrugge la struttura gerarchica della Chiesa: per Lutero, infatti, non c’è più un ruolo
specifico del sacerdozio come intermediario tra Dio e i fedeli; egli sostiene la dottrina del
sacerdozio universale dei credenti, e riduce il numero dei sacramenti riconoscendone solamente
tre (eucaristia, battesimo e penitenza). Afferma il principio del libero esame, per cui ogni credente
può rapportarsi direttamente al testo sacro e interpretarlo, senza la mediazione dell’autorità
ecclesiastica. Per questo traduce la Bibbia in tedesco e ne sollecita la diffusione fra i credenti. Alla
negazione dell’autorità ecclesiastica gerarchicamente strutturata, però, corrisponde in Lutero un
altrettanto forte insistenza sul dovere dell’obbedienza alle autorità politiche vigenti, che lo porterà
ad appoggiare la repressione da parte dei principi tedeschi della rivolta dei contadini.
Lutero radicalizza la tesi agostiniana delle due città e sostiene che il regno di Dio è regno di grazia
e di misericordia che l’uomo non può guadagnarsi con le opere, ma dipende dalla predestinazione:
la grazia è un puro e gratuito dono divino. Invece il regno terreno è irrimediabilmente segnato dal
disordine della natura umana, derivato dal peccato originale. Per Lutero non vi è mediazione fra i
due regni, e quello terreno, spogliato di ogni intrinseco valore e positività, si oppone polarmente a
quello della grazia e della misericordia. Si nota come tale scissione consegni il mondo dell’uomo a
una pura malvagità e immanenza, priva di una regola finalistica, che pone alcuni dei presupposti
culturali per la modernità politica come sarà pensata a partire da Hobbes, nel suo orizzonte di
pessimismo antropologico e radicale individualismo.
Prima della riforma luterana, ricordiamo la scissione fra cristiani e ortodossi. E dopo nel 1537 viene
creata in Inghilterra la chiesa anglicana. Iniziano così le guerre (civili) di religione fra cattolici e
protestanti in Europa che terminarono con la pace di Westfalia (1648) si sancisce il principio che
ogni Stato è libero e sovrano e può decidere in modo autonomo la religione. Inizia la fase della
politica moderna e tramonta l’universalismo della res publica cristiana, dando il via al processo di
secolarizzazione, che indica l’autonomia del potere politico e religioso, nel quale il primo coincide
con lo Stato e supera quello religioso.

IV. Il paradigma del contratto


Stato Sovrano, nel 500 si sviluppa il concetto di sovranità, ovvero sopra lo Stato, e quindi i
monarchi o i re non vi è alcuna autorità, nulla vi è al di sopra. La forza (cratos) che si impone è
assoluto (in età medioevale il sovrano è Dio).
Hobbes viene considerato il padre della filosofia politica moderna. L’opera più importante di
Hobbes è il Leviatano (mostro marino dell’antico testamento), nel quale avanza una tesi ipotetica,
ovvero immagina l’uomo prima del suo ingresso nella società che chiama “Stato di natura”; vivere
in questo “Stato” indica che non c’è nessun ordire strutturato, non vi sono regole né autorità (caos
totale). Se mancano queste regole si intende che l’uomo è totalmente libero e lotta perennemente
con gli altri, data la scarsità di risorse, per la sua sopravvivenza, indentificato come un diritto di
natura.
Hobbes viene anche ricordato perché cerca di smentire la premessa con la quale Aristotele partì
per giustificare la sua concezione di politica, ovvero il fatto che, per natura, alcuni uomini sono più
saggi di altri, e quindi che alcuni uomini sono predestinati al comando e altri all’obbedienza. Così
come smentisce la naturale aggregazione degli uomini in un ordine istituito al quale sottostanno.
Le due tesi principali di Hobbes sono:
- tesi della naturale eguaglianza degli uomini;
- tesi della naturale conflittualità degli uomini.
Ciò porta il filosofo a pensare gli uomini eguali per natura, nel senso che anche le diseguaglianze
che pur sussistono (forza fisica, facoltà mentali) non alterano questa fondamentale parità, e quindi
non potrebbero mai giustificare un rapporto di subordinazione “naturale”.
Ma questo rapporto tra uomini è altamente conflittuale in uno stato di natura, per due ragioni:
- per diffidenza, poiché nessuno ha la certezza di non venir aggredito e ucciso da altri, perciò
ciascuno dovrebbe a sua volta aggredire e uccidere per evitare quella stessa fine;
- perché animati dalla “gloria e dalla passioni”, poiché gli uomini provano soddisfazione nel
compararsi con gli altri e nel veder affermata la loro superiorità; ma se ognuno vuol essere
superiore, il confronto non potrà che trasformarsi in conflitto.
A questo Hobbes aggiunge la teoria della necessità del conflitto nello stato di natura: se si
ammette che ogni uomo ha per natura diritto ad autoconservarsi, e a usare tutti i mezzi atti a tale
scopo, allora ne consegue che, non essendoci una legge comune condivisa, ognuno è il solo
giudice di ciò che è necessario alla propria conservazione. Quindi finché non vi è una legge
comune, ognuno ha diritto a tutto; ma, poiché tutti hanno diritto a tutto, allora gli individui entrano
necessariamente in conflitto, vivendo in uno stato di guerra in cui non è garantito alcun diritto.
La radice più profonda di tale clima conflittuale sta proprio nella fondamentale eguaglianza fra gli
uomini: poiché gli uomini sono eguali, nessuno accetterà “naturalmente” di sottomettersi ad altro.
Quindi il conflitto potrà nascere in ogni momento, finché gli individui non avranno modo di istituire
un potere comune. Lo stato di natura è uno stato di guerra, una situazione di tutti contro tutti. Lo
stato prepolitico di natura*, quindi, è uno stato di pericolo, di insicurezza e di morte da cui gli
individui non possono che desiderare di uscire, infatti ciò che lo* caratterizza è la paura. Ogni
uomo, per prima cosa, desidera conservarsi in vita, ed è questa la ragione che muove l’uomo alla
ricerca del conseguimento della pace. Le regole di condotta che assicurerebbero loro la pacifica
convivenza sono le leggi di natura, che comandano agli uomini di astenersi da tutti quei
comportamenti che, costituendo un torto nei confronti degli altri, produrrebbero la guerra e dunque
metterebbe a repentaglio l’autoconservazione. Le leggi di natura sono i precetti di una morale
razionale della reciprocità che, se fosse seguita da tutti gli uomini, consentirebbe loro di vivere
bene e in pace. Quindi la legge di natura ci impone innanzi tutto di rinunciare al nostro diritto sopra
tutte le cose, e di conservare solo tanta libertà nei confronti degli altri quanta ne concediamo agli
altri nei confronti di noi stessi.
Il problema è che, finché manca un potere comune, le leggi di natura non sono realmente
vincolanti, perché nello stato di natura non c’è garanzia del fatto che gli altri non uccideranno, che
gli altri mantengano la parola data, quindi devo fare agli altri quei torti che temo da loro. Questo è
l’unico comportamento razionale in una situazione in cui non c’è un ordine pubblico: ogni uomo
deve salvaguardare se stesso.
Per uscire da questa situazione, gli uomini devono stringere tra di loro un patto o contratto sociale
in forza del quale ognuno di loro rinuncia, a condizione che gli altri facciano altrettanto, a tutti i
diritti che aveva nello stato di natura e li trasferisce (aliena) a un sovrano (al Leviatano), sotto il
potere del quale tutti i torti saranno puniti e si potrà vivere sicuri, quindi baratto la mia libertà tipica
dello stato natura in cambio della mia sicurezza.
Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata civitas. Attraverso il patto:
- gli uomini istituiscono un potere sovrano (processo di secolarizzazione), in modo da vivere in un
ordinamento di pace e giustizia è questo lo scopo del potere legittimo: garantire la pace e l’ordine
efficacemente;
- la legge naturale viene sostituita dalla legge civile o positiva, cioè da quella che il sovrano riterrà
giusto emanare;
- il potere che gli uomini hanno ceduto ad uno solo è assoluto, in quanto non è soggetto a limiti:
• né dal patto grazie al quale è nato (il patto è stipulato fra individui, non fra individui e sovrano);
• né dalle leggi di natura (sostituite dalle leggi positive);
• né dalle leggi positive (emanate dal sovrano), perché il sovrano legibus solutus, ne sta al di
sopra;
• né da un altro potere, perché, se così fosse, ci sarebbe un potere superiore al sovrano stesso
(es. non può essere al di sotto del potere e del volere del pontefice).
Tali condizioni però non implicano che i sudditi non godano della giusta libertà. Per Hobbes libertà
significa assenza di impedimenti (libertà «negativa» possibile solo nello Stato di natura), quindi vi è
sempre libertà finché l’individuo può disporre di spazi d’azione nei quali muoversi a piacimento
senza esserne impedito. Per es. Hobbes credeva errata la convinzione che un uomo che vive in un
comune fosse più libero di quello che vive in un impero, al massimo ci sono diversi gradi di libertà
ma comunque non si può dire che quest’ultimo sia totalmente libero (nell’età classica e per la
Arendt l’uomo è libero se partecipa alla vita politica concetto di libertà positiva). Tanto più che
secondo alcuni interpreti Hobbes elabora la concezione liberale che coincide che l’assenza di
interferenze da parte di leggi e forze esterne; nel momento in cui l’uomo entra in una comunità
cede la propria libertà assoluta.
Nb: è chiaro che il sovrano può commettere abusi, salvo il suo personale rapporto con le leggi
naturali e divine, ma, sostiene il filosofo, anche la più dura sovranità assoluta è preferibile alla
condizione misera e incerta dello stato di natura.
La legittimità dell'ordine politico si basa sul fatto che gli individui che ne fossero privi
sceglierebbero, per ragioni di utilità, di dare vita a esso, onde evitare i mali che altrimenti lo stato di
natura riserverebbe loro. Ogni individuo deve spogliarsi dei propri diritti a favore del sovrano, il
quale, però, può commettere abusi, perché non c'è istanza che la tenga freno, tranne il proprio
rapporto con le leggi naturali e divine. Ma anche la più dura sovranità assoluta è preferibile alla
condizione incerta dello stato di natura. Se il sovrano non garantisse più pace e sicurezza, il corpo
politico perderebbe la sua ragion d’essere e i sudditi non sarebbero più in alcun modo tenuti
all’obbedienza.

4. Il contratto liberale di John Locke


Nel 1517 con la Riforma Luterana e le guerre di religione in Europa, cade lo schema naturale
esistente nel Medioevo in quanto l’istanza assoluta era Dio e il suo unico vicario era il papato,
infatti si scioglie la res publica cristiana e iniziano a svilupparsi gli Stati. A causa di questi
cambiamenti bisognava trovare un altro modo per legittimare il potere politico (non è più il papa a
legittimare come sovrano). E a questo punto che si sviluppano le correnti dei contrattualisti:
secondo Hobbes alieno la mia assoluta libertà al Leviatano e questo in cambio mi garantisce pace
e sicurezza e il potere assoluto è l’unico modo per poterle garantire (esco dalla Stato di natura),
proprio per questo Hobbes è detto il padre dell’assolutismo; mentre per Locke (anche lui inglese)
immagina un modo diverso per poter uscire dallo Stato di Natura.
Locke è considerato il fondatore del contrattualismo liberale (liberismo classico), a causa del ruolo
centrale che svolgono nel suo pensiero i temi (per certi versi opposto ad Hobbes):
- dei diritti naturali (vita, proprietà e libertà e non solo la libertà come credeva Hobbes);
- dei limiti che i diritti naturali impongono allo stato;
- il concetto di proprietà: diritto sacro e inviolabile.
Il potere politico è definito come il diritto di formulare leggi che contemplino la pena di morte e, di
conseguenza, tutte le pene minori, in vista di una regolamentazione e conservazione della
proprietà; di usare la forza della comunità per rendere esecutive tali leggi e per difendere lo stato
da attacchi esterni, tutto ciò per il bene pubblico.
Il punto di partenza di Locke è che gli uomini sono per natura eguali e nessuno può pretendere di
avere sugli altri più potere e autorità di quando gli altri abbiano su di lui: l'eguaglianza indica questa
condizione di perfetta reciprocità per quanto riguarda la soggezione e il dominio reciproco.
Poiché gli uomini sono eguali e indipendenti la ragione comanda loro il precetto secondo il quale
nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi. La legge di natura è
la regola il cui rispetto assicura la pace e la sopravvivenza di tutto il genere umano ed è per tutti
vincolante: essa obbliga in modo pieno perché, anche nello stato di natura, i modi di punire chi la
tradisce ci sono: ognuno ha il diritto di punire coloro che attentano alla legge. Il problema è come
funziona concretamente questa punizione. La questione dell'amministrazione della giustizia è ciò
da cui avviene il passaggio dallo stato di natura allo stato civile.
Locke distingue stato di natura e stato di guerra: lo stato di guerra è stato di inimicizia, malvagità,
violenza e può essere sia un risultato della degenerazione dello stato pacifico di natura, sia una
sorta di interruzione che si verifica dentro lo stato civile, quando un uomo vuole sottomettere un
altro con la forza. Lo stato di natura, invece, è stato di pace, benevolenza, difesa reciproca.
Lo stato di natura corre sempre il rischio di degenerare in stato di guerra più dello stato civile
(quindi non è del tutto o sempre conflittuale come pensava Hobbes): nello stato civile intervengono
la polizia e la legge e lo stato di guerra cessa, nello stato di natura lo stato di guerra una volta
iniziato, tende a non finire più.
La conclusione è che per allontanare il rischio di ricadere continuamente nello stato di guerra, gli
uomini devono associarsi tra loro abbandonando lo stato di natura e istituire un potere sovrano e
un giudice comune che possa risolvere imparzialmente le controversie. Lo stato civile quindi
conferma la legge di natura, ma assicura la possibilità di risolvere le controversie in modo
imparziale.
Locke stabilisce uno stretto legame tra la proprietà privata e la libertà individuale: vita, libertà e
averi sono tutti proprietà dell’individuo.
Lo stato civile ha come suo compito primario quello di assicurare e difendere quella proprietà che
già si può acquistare nello stato di natura. (per Hobbes la proprietà privata può esserci solo dopo
l’istituzione dello Stato in quanto tutti hanno diritto a tutti, quindi si può istituire un diritto di proprietà
privata mentre per Locke la proprietà privata precede lo Stato). Il punto di partenza di questo
concetto è la proprietà comune, cioè una condizione originaria in cui le cose naturali sono di tutti
collettivamente considerati.
La legittimità della proprietà privata si basa sull’assunto fondamentale che l’uomo è proprietario
della sua persona. Da tale base si sviluppa tutta l’argomentazione lockiana: se l’uomo è
proprietario di se stesso, lo è anche del suo lavoro e di ciò che il suo lavoro produce (il lavoro
legittima l’individuo). Ciò significa che, per Locke, l’uomo ha diritto di appropriarsi della terra che
lavora, a condizione che resti materia lavorabile anche per gli altri, altrettanta e altrettanto buona.
In particolare Locke pensava che l’uomo è un essere razionale, nel senso che è in grado di
calcolare le conseguenze delle sua azioni, che lo aiutano a sopravvivere nello Stato di natura,
dopodiché è convinto che gli uomini sono portati a collaborare, quindi vi è una maggiore
socievolezza.. ricollegando ciò alla proprietà privata, prima o poi l’uomo lavorerà per sopravvivere,
per es. inizia a coltivare un terreno e se qualcuno dovesse rubare qualcosa dal mio terreno, io
proverò sicuramente un risentimento morale, in quanto io ho diritto sui beni che produco e che mi
permettono di sopravvivere e nel momento in cui ne ho in abbondanza devo condividere. (ma
poiché vi è sempre il rischio di essere attaccati, si attiva il contratto sociale che garantisce i 3 diritti
di natura). Quindi l’uomo acquisisce la proprietà sui prodotti e sulla terra che li produce con il
proprio lavoro (proprietà privata è conforme sia nello Stato di Natura sia nella società civile, dove i
rapporti di proprietà sono fissati dalle leggi positive), ma vi sono dei limiti: ognuno può prendere
tanto quanto può consumare; sarebbe contrario alla legge di natura, su qualcuno pescasse pesce,
sottraendolo alla potenziale raccolta degli altri. Fra l’altro chi lavora la terra contribuisce
all’accrescimento dei beni che la comunità ha a sua disposizione.
Un'altra questione riguarda il valore dei beni, che dato molto più dal lavoro che non dalla materia
prima, e quindi chi ci ha messo il lavoro ha molto più diritto su un bene del proprietario della
materia prima, il valore della quale, se non lavorata, tende a zero (teoria del valore-lavoro).
Però vi sono delle diseguaglianze molto più grandi nella ripartizione delle proprietà, per cui ci si
chiede se esse siano o meno legittime: finché non c’era il denaro, scrive Locke, non si poteva
accumulare più di tanto, perché i prodotti si deterioravano; mentre con l’introduzione del denaro
diventa possibile un’accumulazione illimitata. La legittimità di questa disuguaglianza non riposa su
un patto, ma sulla scelta condivisa dagli individui di utilizzare il denaro. L'accettazione del denaro
equivale all’accettazione dell’eventualità dell’accumulazione illimitata. Locke definisce il capitalismo
come accumulazione illimitata e fine a se stessa.
I punti deboli della teoria lockiana della proprietà sono:
a) il concetto della proprietà di sé non sembra del tutto convincente, perché nessun uomo può
legittimamente vendersi come invece può vendere le sue proprietà
b) le abilità di qualcuno non gli appartengono in modo esclusivo perché egli le ha apprese da altri
che gliele hanno insegnate e quindi anche nel suo lavoro il contributo propriamente individuale è
una piccola parte;
c) il problema delle generazioni: perché chi arriva dopo, quando tutto è diventato proprietà privata
di qualcuno, dovrebbe accettare il fatto che con il denaro si sia resa possibile la proprietà senza
limiti? Locke risponderà che «anche il più povero bracciante inglese sarà più ricco di qualunque re
dei selvaggi, e quindi in ogni caso non ha nulla di cui lamentarsi.» Tale risposta e il pensiero che la
anima daranno luogo ad una ripresa del pensiero liberare che da Adam Smith si muoverà fino a J.
Rawls.
Lo Stato nasce dunque per salvaguardare quei diritti che gli individui hanno già in forza della legge
di natura. Locke insiste sul fatto che, associandosi con lo stato, gli individui istituiscono un giudice
che è legittimato a risolvere i contrasti in quando è al di sopra dei contendenti. Ma se questa è
l’essenza del passaggio dallo stato di natura a quello civile, allora ne consegue che la sovranità
non può essere, come invece aveva sostenuto Hobbes, assoluta. Il potere assoluto anziché
superare lo stato di natura, lo riafferma nel rapporto tra sudditi e sovrano. La tesi di Locke, che
diventerà una delle tesi fondamentali del liberalismo moderno, consiste nel fatto che non si esce
veramente dallo stato di natura se non c’è una salvaguardia nei confronti del potere sovrano.
Le caratteristiche principali che contrassegnano secondo Locke il patto politico sono:
- il patto è sottoscritto dagli individui liberamente,
- chi vuole può non aderire a esso;
- formando un unico corpo politico, tutti si impegnano a seguire il volere della maggioranza;
- lo scopo del patto non è solo quello di sopravvivere, ma di vivere bene nella pace reciproca.
Unendosi nello stato gli individui istituiscono un supremo potere, che è innanzitutto potere di fare
leggi e di risolvere le controversie: questo è per loro il potere legislativo, che può avere forma di
democrazia, oligarchia o monarchia, ma è obbligato a sottostare ad alcuni vincoli:
1. Diritti inalienabili: deve muoversi nell’ambito fissato dalla legge di natura e nel rispetto dei diritti
inalienabili che da essa discendono;
2. Principio di legalità: il potere deve governare attraverso leggi generali certe e non attraverso
decreti estemporanei o ad personam;
3. Intangibilità della proprietà: il potere supremo non può togliere a un uomo una parte della sua
proprietà senza il suo consenso (le tasse per mantenere lo stato devono avere il consenso dei
sudditi);
4. Il legislativo non deve trasferire ad altri il potere di legiferare, né affidarlo a mani diverse da
quelle cui l’ha affidato il popolo.
La sicurezza che il potere legislativo rimanga in questi limiti è da ricercarsi nella teoria
dell’articolazione dei poteri. Bisogna distinguere chiaramente il potere legislativo da quello
esecutivo: il primo deve riunirsi solo periodicamente, e non in permanenza, per legiferare; mentre il
secondo deve assicurare coattivamente l’obbedienza dei cittadini alle leggi. Chi dispone della
coazione non dispone della legge, e anzi, a essa è vincolato; mentre chi legifera non ha alcun
potere diretto di coazione. Il potere legislativo è quello supremo, ma la coazione spetta a quello
esecutivo.
Se però il potere legislativo non si attenesse alle regole previste, Locke argomenta la sua
(problematica) teoria del diritto di resistenza: mancando un giudice superiore a cui appellarsi, il
popolo, nel caso in cui quest’ultimo volesse renderlo schiavo o incidere sui suoi diritti naturali, ha il
diritto di appellarsi (rovesciare il governo) ad una legge superiore a quella positiva, cioè quella
naturale (ma si ricade nello stato di natura). Un ordine politico è giusto se garantisce i diritti di
natura. (quindi per Hobbes il Leviatano obbliga i cittadini di fare A in modo di avere la pace; per
Locke lo Stato obbliga di fare A per garantire i diritti di naturale.. è ovvio che più leggi ci sono, più
non si garantiscono questi diritti).
Locke affronta anche il tema della tolleranza religiose (non si parla di libertà religiosa), infatti per
Locke nella sfera privata puoi professare qualsiasi religione e si deve essere tolleranti anche con i
cattolici (Inghilterra anglicanesimo) e con gli atei; riconoscendo tuttavia che il cattolico ha come
unica istanza superiore il Papa che supera il potere politico e ciò potrebbe danneggiare l’ordine
pubblico; invece per l’ateo, secondo le convinzioni dell’epoca, è un uomo a cui non si può far
affidamento, per es. è un uomo che non presta giuramento a Dio, in quanto no crede e quindi può
mettere in crisi l’ordine prestabilito.
Liberalismo. Per i liberali può esistere la pace senza dover accedere la mia totale libertà nei
confronti dello Stato e degli altri cittadini. Nel 900 di parlerà di diverse anime del liberalismo, in
particolare: liberalismo di sinistra e liberalismo di destra. Nel primo caso, questi liberali ritengono
che lo Stato deve intervenire per fare in modo di avere una distribuzione meno iniqua della
ricchezza, quindi di tratta di una regolamentazione del mercato, es. pagare le tasse in base alla
ricchezza che si possiede (quest’ultimi si rifanno a Rosseau e Kant). Nel secondo caso, l’ideale è
che noi siamo l’autorità di noi stessi e lo Stato non deve intervenire ma solo fare da arbitro,
fissando solo le regole, altrimenti corrode i diritti di libertà dell’individuo, quindi ad es. non
accetterebbero mai di pagare tasse più alte in base alla loro ricchezza, perché sarebbe una
violazione da parte dello Stato del diritto di possedere beni, capitali (si rifanno a Locke).
3. Il patto democratico di Spinoza (metà 1600, olandese ed ebreo).
Spinoza formula una declinazione democratica del patto sociale. Nello stato di natura il diritto e la
potenza coincidono, e il diritto di ognuno si estende proprio fin dove arriva la sua potenza. Non
essendoci leggi vincolanti per tutti, nello stato di natura ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò
che è in suo potere: ognuno ha diritto di conservare sé stesso e a perseguitare il proprio utile (in
relazione alla potenza che dispone). Perciò nello stato di natura non solo non viene peccato, ma
non ci sono neppure il bene e il male, il giusto e l'ingiusto: il fatto che ognuno affermi se stesso per
quanto glielo consente la sua potenza non dà luogo, su questo piano puramente naturalistico, ad
alcun giudizio morale. Nello stato di natura, privo di legge, parlare di bene o di male non ha senso.
Anche per Spinoza lo stato di natura non è una condizione nella quale sia piacevole rimanere. Se
gli uomini fossero tutti saggi e vivessero sotto la guida della ragione, le cose nello stato di natura
andrebbe ottimamente. Ma gli uomini sono soggetti agli affetti e alle passioni, che li spingono a
nutrire inimicizia per gli altri, a odiarli, danneggiarli e ingannarli (guerra perenne). Perciò se gli
uomini permanessero nello stato di natura sarebbero condannati a vivere in mezzo alle inimicizie e
agli odi, a non poter godere di una vita tranquilla e sicura. Ne deriva che, se gli uomini vogliono
ricercare davvero il loro utile e la loro sicurezza, devono uscire dallo stato di natura: devono
rinunciare al diritto su tutto, di cui godevano in quello stato, e cederlo alla collettività stringendo con
tutti gli altri un patto sociale. Con questo patto gli individui rinunciano al loro diritto di natura e lo
cedono alla collettività dando vita dello Stato: da questo momento in poi solo l'autorità statale ha il
diritto di imporre le leggi e di punire; e la minaccia della punizione è il modo più sicuro per
convincere i cittadini ad astenersi dal danneggiare ingiustamente gli altri.
Per quanto riguarda la migliore forma di governo, secondo Spinoza è la democrazia: il diritto di cui
ognuno godeva nello stato di natura non viene trasferito a un individuo particolare (come credeva
Hobbes), ma alla collettività di tutti coloro che hanno sottoscritto il patto sociale. L'ordinamento
democratico è quello che maggiormente rispetta la libertà che la natura ha concesso a ognuno.
Infatti secondo Spinoza non sarebbe una scelta razionale, quella di spogliarsi dei propri diritti e di
cederli a un individuo a un gruppo di individui particolari, piuttosto che cedergli alla totalità dei
cittadini di cui egli stesso è parte.
Inoltre per Spinoza il patto sociale, una volta sottoscritto, non è irrevocabile. Gli uomini che lo
hanno sottoscritto, lo hanno fatto per meglio garantire il proprio utile; ma se la società non attua
quella utilità comune che è la vera ragione del patto, esso non ha più alcun motivo di esistere, e
dunque può venire annullato e distrutto.
Proprio perché la ragion d'essere del patto è la comune utilità, inoltre, l'autorità sovrana che col
patto viene istituita non ha un potere assoluto sui sudditi: nessuno si spoglia dei suoi diritti al punto
di rinunciare a ciò che caratterizza la sua natura di uomo.
La rinuncia ai diritti naturali non è totale e illimitata perché una simile rinuncia non sarebbe
razionale, e perché vi sono diritti cui l'uomo non può rinunciare senza cessare di essere uomo, ad
es. lo Stato non deve fare nulla contro la libertà di pensiero, parola e insegnamento. Ogni cittadino
ha diritto al libero esercizio della sua ragione, anche se se ne serve per criticare i decreti dello
stato; ciò che allo stato deve interessare è il comportamento del cittadino, non le sue idee.

5. I due patti di Jean-Jacques Rousseau


Con Rousseau tutta la problematica del contrattualismo hobbesiano e lockiano viene sottoposta a
un rovesciamento critico radicale: il contrattualismo cessa di porsi come un orizzonte entro il quale
si legittimano i poteri vigenti, per trasformarsi in leva di un pensiero tendenzialmente rivoluzionario.
In particolare Rousseau è un filosofo del 700, è calvinista; e in questo periodo la cultura dominante
è l’illuminismo, nella quale si afferma l’idea che l’uomo si contraddistingue dagli animali in quanto è
dotato di ragione (la legge è un atto di ragione). Sempre nel 700 si sviluppa il concetto di storia del
genere umano, vista come un percorso lineare e progressivo, che porta dall’irrazionalità alla
razionalità, verso la perfezione, dove l’uomo ha il controllo assoluto sulla sua esperienza
individuale e associata; prima del 700 si parlava di storie (nell’era classica la storia era vista come
un moto circolare). Rousseau si distacca dall’illuminismo per 2 ragioni: -intanto, ritiene che il
sentimento sia più importante della ragione; - è contrario all’idea di vedere la storia lineare come
un percorso positivo, bensì afferma che si tratta di un percorso regressivo, che va dal meglio al
peggio. Secondo l’autore, lo Stato di natura è caratterizzato dalla abbondanza di bontà, dalla
tranquillità assoluta, nel quale l’uomo è in totale armonia con la natura (quindi non è uno stato
conflittuale o di perenne guerra). Sulla base di ciò R. pone alla radice del patto sociale il fatto che
gli uomini sono liberi ed eguali, eppure tale eguaglianza originaria è schiacciata da quelle strutture
di dominio e di oppressione che, secondo lui, segnano e inquinano ogni società civile moderna.
Rousseau si distingue poiché non solo fa della diseguaglianza sociale oggetto di denuncia, ma
essa è compresa nella sua razionale necessità. Dunque, con la nascita della società civile
l’eguaglianza non si conserva, bensì si rovescia, diventando disuguaglianza, dando origine
all’esclusione e alla corruzione, a cui partecipano la scienza, le armi, il libero mercato e
l’industrializzazione.
Quindi Il primo compito della teoria diventa quello di svelare come le strutture inegualitarie del
dominio abbiano potuto sorgere, e godere perfino del consenso degli oppressi.
Innanzitutto partiamo dallo stato di natura. Rousseau contesta quello hobbesiano, dicendo che il
limite di fondo della teoria di Hobbes è che lo stato di natura è popolato da uomini avidi, orgogliosi,
desiderosi di opprimersi l’un l’altro. Secondo Rousseau quello che Hobbes sta descrivendo è
l’uomo civilizzato, corrotto e rovinato da una civiltà malsana.
Diversa è la critica per lo stato di natura lockiano: egli incorre in un peccato di apologia, a causa
della sua visione continualistica fra stato di natura e stato civile.
Per Rousseau, in
vece, con una visione scientifica, afferma che lo stato di natura non è uno stato di
guerra per il semplice motivo che è uno stato di isolamento. L’uomo naturale è un uomo solo che
abita una natura ostile, ma con essa non ha difficoltà nel soddisfare i suoi limitati bisogni. Lo stato
di natura non è affatto una condizione miserabile, anzi, Rousseau lo definisce «il più adatto alla
pace, il più conveniente al genere umano». Infatti, Lo Stato di Natura è uno pacifico, in cui l’uomo
gode della libertà naturale, non vive in catene, è felice, vive un’esistenza appagata al contrario
nella società civile, l’uomo vive un’esistenza alienata, è scisso in quanto cittadino di una comunità
e individuo (tra particolare e universale) e non riesce a riconciliarsi con la società perché non vive
di relazioni autentiche.
Non vi è quindi alcuna necessità che costringe l’uomo a uscire dallo stato di natura (semmai il
problema è come se ne sia usciti, visto il suo carattere pacifico e stabile); inoltre, il passaggio allo
stato civile è determinato solo da cause esterne fortuite che potevano anche non verificarsi.
Sulla questione di come si costituisce l’ineguaglianza che caratterizza la società civile, secondo
Rousseau, ruota attorno al concetto di proprietà. Il discorso lockiano viene così criticato: la
proprietà non è un’acquisizione legittima, ma una sagace impostura. L’ineguaglianza delle
proprietà è il vero stigma della società corrotta, è la rottura maggiore nel fatale percorso storico
verso la società borghese.
Il processo degenerativo di cui Rousseau tratta, ponendosi così anche fra i fondatori della
moderna scienza antropologica e sociale, si ricollega alla dimensione della socialità che soppianta
quella dell’originaria solitudine. Quando l’uomo si unisce ad una comunità, sviluppa subito quel
sentimento che è l’amor proprio, quella stima della propria superiorità che è la radice prima dello
sviluppo dell’ineguaglianza.
Sulla scia di Hobbes, Rousseau afferma che la passione dell’orgoglio spinge l’uomo a competere
con i suoi simili per superarli, ma tale sentimento non appartiene all’uomo dello stato di natura (il
quale è solitario), bensì a quello civilizzato. La socialità è, in questo contesto, definita come un
morbo che spinge l’uomo al confronto e a dipendere dall’opinione altrui.
Dunque, l’uomo selvaggio che passa ad uno stato civile acquisisce tale sentimento in forma
“leggera” e inizia così l’ineguaglianza, ma questo stadio è definito dal filosofo embrionale. È stato
lo sviluppo delle tecniche, dell’agricoltura, del lavoro, e la differenza di talenti, di proprietà, a
spianare la strada dell’ineguaglianza nel suo sviluppo senza limiti: la proprietà nasce dal lavoro,
come in Locke, ma, poiché gli uomini hanno diversa forza, capacità e talento, il lavoro di alcuni
procura loro maggior proprietà di quanto non accada ad altri.
È così completamente spianata la via verso la corruzione, verso una società divisa in padroni e
servi, dove l’apparire grandi, ricchi e superiori agli occhi degli altri diventa più importante di ciò che
davvero si è. È qui allora, nella società non ancora politicamente organizzata, e non nello stato di
natura, che si ha lo stato di guerra. E da esso gli uomini sono usciti con un patto politico che è
stato proposto dai ricchi ai poveri. Esso è un patto iniquo e che i poveri accettano solo per
ingenuità, perché, mentre distruggeva la libertà naturale, legittimava la legge della proprietà e della
diseguaglianza.
Anche il patto descritto da Locke è considerato iniquo da Rousseau, perché non è razionale che i
nullatenenti accettino di lasciare la loro libertà naturale sottomettendosi alla legge civile, senza
pretendere che venga rimessa in discussione anche la distribuzione delle proprietà. In esso i ricchi
ci guadagnano troppo, e poveri troppo poco, rispetto a ciò che cedono. Se anche il patto fosse
fatto, quindi, sarebbe comunque nullo.
Importante è sottolineare come il Rousseau, che fin qui abbiamo descritto, è quello del Discorso
sull’ineguaglianza, testo nel quale la socialità si configura come una dimensione di caduta e
alienazione, ma è attraverso una visione più complessa e meno negativa del rapporto sociale che
giunge a porre le condizioni per delineare il quadro di quel patto equo e razionale designato nel
Contratto sociale. In esso Rousseau considera gli uomini come di fatto sono, nella loro conflittuale
particolarità, e le leggi come possono essere, in modo da poter associare la giustizia all’utilità,
dunque, ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive. I punti di partenza fondamentali
della concezione rousseuiana non sono lontani da quelli di Hobbes e Locke:
- l’ordine sociale non è dato per natura, ma è un ordine artificiale che deve essere istituito da
uomini originariamente liberi ed eguali;
- non sono accettate le teorie che vedono il potere sovrano come derivazione di quello patriarcale,
o come scaturente da una superiorità naturale di uni rispetto ad altri (dato che la forza non produce
nessun diritto e quindi alla base di autorità legittima restano solo le convenzioni);
- il potere legittimo non può essere pensato come il risultato di un patto di sottomissione in cui il
popolo aliena la sua libertà nei confronti di un sovrano diventandone suddito, perché cio sarebbe
irrazionale. I motivi per cui Rousseau considera il patto non razionale, e quindi nullo, sono:
a) è irrazionale che i sudditi si spoglino della libertà per ottenere in cambio una sicurezza non
garantita, oltretutto sotto il comando di un sovrano che può dichiarare guerre a suo piacimento;
b) un patto nel quale una parte cede qualcosa in cambio senza ottenere nulla è nullo;
c) nessuna generazione di uomini può alienare la libertà delle generazioni successive, perché essa
non le appartiene;
d) la libertà è qualcosa che non si può alienare (inteso come “cedere”) come accade per una
proprietà. Se ciò fosse considerato vero, significherebbe negare all’uomo la responsabilità delle
sue azioni;
e) perché un popolo possa darsi a un re è necessario che esso si sia prima costituito come popolo:
un pactum subjectonis non può darsi se non si presuppone un anteriore pactum unionis. Per poter
decidere qualcosa, tutti devono prima aver deciso, all’unanimità, di unirsi e di sottomettersi a ciò
che la maggioranza deciderà.
Poste queste premesse, bisogna trovare una forma di associazione legittima. Rousseau propone
come soluzione il seguente patto: gli individui rinunciano ad autogovernarsi; dunque alienano
totalmente i loro diritti in favore di un corpo politico comune. In tal modo l’individuo accetta che gli
altri abbiano diritto su di lui, ma al tempo stesso acquisisce un diritto sugli altri, e quindi non perde
nulla della sua libertà.
Ora che la libertà è messa in comune, l’individuo ri-ottene ciò che cede, e in più ha la certezza di
poter godere della libertà che ha, cosa che nello stato di natura non avveniva perché la forza di
altri poteva negarla.
Sebbene Rousseau critichi il potere assoluto assunto da Hobbes, quando si tratta di descrivere la
clausola del patto egli segue la sua scia, allontanandosi radicalmente da Locke: il patto, infatti,
esige da ciascuno l’alienazione totale dei diritti in favore della comunità; la ragione è che se gli
individui conservassero dei diritti contro la comunità, cioè contro il potere politico sovrano, non
essendoci un giudice superiore ad ambo le parti per risolvere le eventuali controversie, queste si
trasformerebbero in contese, e si ritornerebbe a quello stato di natura da cui invece il patto doveva
assicurarne l’uscita; il sovrano ora è la comunità, dunque, i diritti contro il sovrano non sono presi
in considerazione, perché esso è formato da privati che non possono avere interessi contrari ai
loro.
In rapporto ai membri della comunità, lo stato è padrone di tutti i loro beni, ma ciò non significa che
i beni debbano passare di mano, piuttosto che il diritto di ciascun privato sul suo terreno è sempre
subordinato al diritto della comunità su tutto.
Il compito del patto sociale è quello di rinforzare l’uguaglianza naturale nella forma di
un’eguaglianza morale e legittima; quindi l’istituzione dello Stato è legittima sia per uscire dallo
stato di natura sia e soprattutto per perseguire l’interesse comune.
Lo stato rousseriano è una costituzione dell’eguaglianza, dove “eguaglianza” non significa che si
debba essere identici, ma che nessun cittadino dev’essere in grado di imporre la sua volontà a un
altro se non in forza delle leggi, e che nessuno dev’essere abbastanza ricco da poter comprare un
altro e, ancora, nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi.
L’eguaglianza è condizione di uno stato che abbia come fine il bene comune ma, più in profondità,
è condizione della libertà stessa. Se l’uomo è libero non può delegare un altro a governare
(autogoverno = libertà positiva), quindi l’ideale di comunità politica è la democrazia diretta, nel
quale non vi sono rappresentanti e delegati (in certo senso, potremmo dire che riprende la riforma
di Lutero, ovvero non vi è bisogno di intermediari fra il credente e Dio sacerdozio universale
connesso all’ideale di democrazia diretta). Quando si parla di volontà generale, R. intende che
deve prevalere l’idea maggioritaria dal punto di vista qualitativo e non quantitativo, in quanto
questa idea corrisponde a ciò che è bene per la comunità; in questo contesto la minoranza,
attraverso un processo cognitivo deve capire di aver sbagliato, uniformandosi, (potremmo dire
carattere totalitario della democrazia, dato che è molto difficoltoso distinguere la maggioranza
qualitativa da quella quantitativa).
Tuttavia, è la stessa «forza delle cose» che tende a distruggere l’eguaglianza: malgrado vi sia un
interesse comune, la comunità politica di Rousseau diventa il terreno di una lacerazione
drammatica, perché, là dove vi è società, vi sono individui con interessi particolari.
L’arte politica ha il difficile compito di governare la società a partire da questo interesse, di cui la
volontà generale è voce, senza lasciarsi travolgere dalla spinta centrifuga degli interessi
antagonisti. La volontà generale può divergere dalla volontà di tutti che, invece, è una semplice
somma di interessi particolari; e il popolo può essere ingannato, fra l’altro più la società si divide in
fazioni e partiti (contrario ai partiti, si dovrà aspettare il marxismo, con cui si diffonde l’idea di
partito con funzione positiva) più diventa difficoltoso la percezione e la realizzazione del bene
comune. Fra l’altro riconosce che una democrazia partecipativa e diretta può esistere solo in una
piccola comunità e non in uno Stato. Per tutti questi motivi, Rousseau viene considerato il
fondatore della democrazia moderna, in quanto ricerca un modo per tenere insieme il cittadino
dedito alla vita repubblicana e al bene comune e l’uomo della società civile, impossibilitato a
trascendere dalla sua particolaristica natura. Potremmo dire che Rousseau pone un modello
normativo, ovvero un ideale di società, una volta usciti dallo Stato di Natura.

6. Kant e il contratto come idea della ragione


Kant è un filosofo tedesco, ed è uno dei principali esponenti dell’illuminismo del 700. Tutti i filosofi
politici che adottano all’approccio normativo si rifanno a Kant.
Prima della modernità l’elemento principale era la collettività, al contrario con la modernità si parla
di “istanza del soggetto”, dato che l’ordine è costruito dall’uomo, infatti è la ragione umana che
mette ordini nel caos. È proprio nel 700 che si pone il problema gnoseologico, ovvero come fa
l’uomo a conoscere il mondo dato che quest’ultimo è caratterizzato dal caos? . Per dare risposta a
questo quesito si sviluppano 2 linee di pensiero principali: 1) il razionalismo, nel quale prevale la
tesi che l’uomo possiede delle idee innate che ci permettono di capire e conoscere; 2) l’empirismo,
nel quale l’uomo è visto come un tabula rasa, ovvero l’individuo conosce l’impressione che una
determinata cosa gli suscita, conosce solo quello di cui ha fatto esperienza e abitudine, ad es. noi
sappiamo che il sorge sole sempre per abitudine, ma in realtà non possiamo sapere con certezza
che domani risorgerà, quindi si tratta in realtà di una regolarità apparente.
A questo punto Kant propone una sintesi fra i 2 approcci, anche perché nel 700 si afferma la
scienza moderna come forma di conoscenza stabile, che vale sempre. In particolare sostiene
Kant, che la conoscenza umana parte dell’esperienza e poi subentra il trascendentale (in
riferimento alla conoscenza), poiché l’uomo conferisce una struttura alla conoscenza con degli
schemi trascendentali che permettono di fare ordine; quindi una conoscenza fenomenica da cui
discendono schemi trascendentali (cognitivi) che tutti condividiamo. Questi schemi corrispondo a
delle categorie di spazio, tempo, qualità, quantità, proprietà, ecc… ne deriva che conosciamo gli
stessi fenomeni perché condividiamo questi schemi conoscitivi, forme innate che creano ordine,
tuttavia Kant riconosce che senza l’esperienza noi umani non potremmo conoscere nulla.--> Parla
Kant di rivoluzione copernicana.
Tuttavia all’uomo sfugge l’assenza ultima delle cose, infatti Kant divide il fenomeno: che è quello
che noi conosciamo tramite l’esperienza e a cui applichiamo questi schemi cognitivi, dal noumeno:
che è quella realtà che l’uomo non conosce. Potremmo dire che possediamo una conoscenza
filtrata del mondo, perché non possediamo IL modo di vedere le cose, ma un modo di vederle. A
partire da queste riflessioni Kant sviluppa i discorsi sui limiti della ragione umana: l’uomo fa parte
della natura, perché possiede gli istinti e le pulsioni ma sperimenta anche la libertà tramite la
morale con i suoi simili; la morale ci da la capacità di agire in un determinato modo rispetto ad un
altro, e l’uomo è libero perché è dotato di ragione collegata alla morale (ad es. non possiamo
colpevolizzare un uomo che ha ucciso senza la morale).
Come in Hobbes, anche in Kant la riflessione sulla politica prende le mosse da un presupposto
antropologico: la «insocievole socievolezza» dell’uomo. Se si osserva la storia vedo che l’uomo è
caratterizzato da relazioni caratterizzate da competizione, guerra e conflitto, ovvero fenomeni che
Kant ritiene violenti e irrazionali. Egli possiede una visione lineare e progressista della storia,
ovvero questi fenomeni irrazionali possiamo coglierli in modo razionale in una visione più ampia,
perché il futuro tende verso il meglio.
Kant sostiene, come Hobbes, che l’uomo è lupo per l’altro uomo, ma pone la questione in modo
più articolato: l’uomo ha una naturale inclinazione ad associarsi, perché solo nella società con gli
altri può sviluppare al meglio le sue disposizioni naturali/qualità, ma l’uomo ha altrettanto
fortemente una tendenza a dissociarsi, poiché è caratterizzato dalla proprietà insocievole di voler
condurre tutto secondo il proprio interesse. Inoltre, l’uomo si aspetta che anche gli altri facciano lo
stesso, e quindi, in questo senso, è sempre in guerra con loro. L’uomo kantiano è quindi sociale,
ma anche egoista e antisociale, e i due momenti non si possono separare, perché per prevalere
sugli altri bisogna porsi in relazione a essi.
Kant però compie una valutazione altamente positiva dell’insocievolezza dell’uomo, poiché essa
genera competizione, desiderio di prevalere, e spinge i talenti dell’uomo a emergere; ciò non
sarebbe possibile nella perfetta concordia. Se l’uomo non fosse abitato dall’insocievolezza, non
comprenderebbe il valore superiore della sua esistenza e delle sue potenzialità, ma sarebbe una
“pecora mansueta”.
Per Kant, la competizione non è un valore, ma un mezzo attraverso il quale si produce ciò che ha
valore, e cioè lo sviluppo della razionalità, della cultura, della scienza, della ricchezza. A causa di
questo presupposto, Kant non può non introdurre il tema dell’eguaglianza liberale (cioè delle
opportunità): per lui, è tollerabile una diseguaglianza anche considerevole nelle condizioni
economiche a patto che a nessuno sia impedito di riuscire, con il proprio merito/talento, ad
accedere ai più alti gradi della gerarchia sociale.
Riguardo la concezione kantiana dello stato di natura, essa presenta due aspetti:
1. il primo aspetto lo avvicina a Hobbes: lo stato di natura è uno stato di guerra, anche se non
sempre comporta lo scoppio delle ostilità, ma piuttosto la minaccia di esse. Lo stato di pace deve
dunque essere istituito (infatti l’astenersi dalle ostilità non è ancora sicurezza). Tuttavia lo stato di
natura, sebbene costituisca uno stato di guerra quantomeno potenziale, può essere definito uno
stato non giuridico: esso è tale perché non si è ancora costituita l’unione civile che dà luogo al
passaggio giuridico; ma, in un altro senso, non è del tutto non giuridico, poiché in esso sono già
vigenti dei rapporti di diritto privato tra gli individui, che Kant definisce provvisori e non perentori:
mentre nello stato civile sono indicate le condizioni che assicurano le esecuzioni delle leggi e le
possibili sanzioni, quindi vi è la presenza di un sigillo pubblico, un’autorità esterna, nello stato di
natura ciò non avviene, ed è questa l’unica differenza, perché anche nello stato di natura abbiamo
le proprietà, un “mio” e un “tuo” attorno ai quali ruotano le discordie, e cadendo nella passioni
l’uomo commette crimini che non possono essere sanzionati in quanto manca l’autorità pubblica.
Ciò comporta, per Kant, il doveroso passaggio alla creazione di uno stato giuridico. Egli non parla
di necessità, ma di dovere, poiché i diritti esistenti nello stato di natura, senza una legittimazione,
rimarrebbero ineffettuali. Ovviamente, l’uscita dallo stato di natura risponde anche agli interessi
degli uomini, costretti ad entrare in quello stato di coazione che è la pena.
2. il secondo aspetto lo allontana da Locke: mentre per Locke la decisione di spogliarsi della libertà
naturale è autonoma e chi non aderisce resta nello stato di natura, per Kant gli uomini hanno il
dovere di costringere coloro che si rifiutano a fare parte dello stato civile. Il punto è di estrema
rilevanza perché, mentre per Locke, e il liberalismo più generale, la legittimità dell’ordine politico
dipende dal consenso di fatto che gli individui hanno dato ad esso, per Kant la legittimità dipende
invece dal consenso che gli individui sono tenuti a dare, perché rifiutarsi ad esso vorrebbe dire
scegliere di rimanere in uno stato di ingiustizia; mentre l’adesione non è altro che l’adesione
doverosa a una legge della ragione, e non ha nulla a che vedere con una preferenza che gli
individui possono o meno nutrire. Infatti è la ragione ad imporre il dovere di uscire dallo Stato di
natura e di creare un ordine stabile, uno Stato civile, tramite un diritto pubblico. Tale pensiero si
colloca oltre il problema di motivare l’adesione al patto, ma si spinge nell’ambito normativo. Questo
dovere imposto dalla ragione è un dovere della ragione pratica, che integra la morale e l’ambito
giuridico, perché attengono dalla stessa fonte, ovvero la ragione.
Si può affermare che in Kant è proprio il diritto naturale (o di ragione), a costituire il tramite fra lo
stato di natura e quello civile.
Il fatto che gli altri individui possano obbligare i restanti a passare allo stato civile è ammesso
poiché la legge naturale è anteriore a quella positiva. C’è un obbligo anche se non c’è il legislatore.
Bisogna, però, sottolineare la distinzione kantiana tra:
- Leggi esterne, che appartengono al diritto e non alla morale, e sono leggi naturali che possono
essere riconosciute a priori dalla ragione;
- Leggi positive, che sono leggi che, senza una vera legislazione, non obbligano per nulla. Da
ricordare la seguente distinzione in Kant: Il criterio del giusto, secondo Kant, può essere formulato
come segue: «qualsiasi azione è conforme al diritto quando per mezzo di essa, o secondo la sua
massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una
legge universale.» Perciò, l’unico “diritto originario” che spetta all’uomo in forza della sua umanità è
la libertà come indipendenza dall’arbitrio costrittivo di altri, e in quanto essa può coesistere con la
libertà di ogni altre secondo una legge universale.
Quali sono le leggi giuste?
Secondo il filosofo esse non sono frutto di una volontà arbitraria, ma devono essere conformi alla
ragione. La legittimità di una legge non deriva semplicemente dal contratto o dal consenso dei
cittadini, ma dal contratto originario come idea della ragione, alla quale legislatore e cittadini
devono sentirsi vincolati.
Una legge è ingiusta quando sarebbe impossibile che tutto un popolo desse ad essa il consenso.
D’altra parte, la legge alla quale tutto il popolo “potrebbe” dare consenso è una legge razionale e
universale, ispirata all’unico principio di garantire il rispetto della libertà di ciascuno.
Con il suo repubblicanismo, Kant tenta di conciliare il momento liberale dei diritti individuali con
quello della volontà generale rousseauiana: la legge giusta è quella cui la volontà generale del
popolo potrebbe dare il suo assenso e perciò fondamento della legittimità è la volontà generale.
Ma la legge cui ognuno potrebbe dare il suo assenso non può accogliere alcun principio particolare
che differisca dall’unico principio universale e razionale, che è quello di garantire la eguale libertà
di tutti.
In tal modo, Kant costituisce un punto di riferimento essenziale per un pensiero politico che voglia
unire in modo coerente il principio liberale dell’autonomia dell’individuo e quello democratico della
sovranità del corpo collettivo dei cittadini.*
Secondo Kant, la caratteristica dell’ordine giuridico è che il diritto riguarda il rapporto tra le libertà
che i diversi individui hanno di agire nel mondo esterno; quindi, come già detto, è una legge
esterna. La funzione del diritto è regolare le relazioni fra gli uomini senza prescrivere loro i fini cui
debbano adeguarsi, ma soltanto ordinando il modo della loro coesistenza, affinché ognuno possa
esplicare il proprio arbitrio senza compromettere quello altrui. In forza di questo, si nota che il
diritto è inseparabile dalla coazione: se qualcosa è mio di diritto, ciò vuol dire al tempo stesso che
io ho diritto a costringere gli altri a rispettarlo.
Riguardo il giusto ordinamento giuridico secondo Kant, nel saggio Sul detto comune, egli stila un
elenco di principi a priori dello stato giuridico:
a. la libertà
- i diritti che concernono l’uso pubblico della propria ragione: fra i diritti inalienabili, Kant inserisce
la libertà di religione, di pensiero e quella di critica pubblica, perché l’uomo ha diritto di fare uso
pubblico della propria ragione in tutti i campi, anche di criticare le dottrine religiose e le autorità
pubbliche, infatti qualsiasi atto del potere sovrano teso a limitarli sarebbero illegittimo;
- il diritto di ognuno di ricercare la propria felicità come meglio crede, purché non pregiudichi l’altrui
diritto di fare altrettanto. Ne consegue che il compito dello stato non è quello di promuovere il bene
dei sudditi, ma quello di garantire le condizioni perché ognuno possa ricercare il suo benessere e
la sua felicità come meglio crede. Da un lato quindi lo stato deve lasciare gli individui liberi di
perseguire i fini che preferiscono, dall’altro deve essere retto non in modo arbitrario, ma secondo
leggi, ovvero, deve essere stato di diritto;
b. l’uguaglianza: di fronte alla legge e non come accesso ai beni. Tale principio richiede la
negazione dei privilegi ecclesiastici, feudali e nobiliari in modo da essere uguali di fronte alla legge
e che a nessuno sia impedito di raggiungere le posizioni migliori;
c. l’indipendenza: i cittadini che devono obbedire alle leggi hanno il diritto di esserne gli autori,
però, il potere legislativo e il diritto di voto è solo di coloro che, non solo vivono sotto la
giurisdizione di uno stato ma sono anche indipendenti nella vita economica, cioè che possiedono
un capitale (si escludono i lavoratori a giornata, il servo domestico e la donna). Questo perché,
secondo il filosofo, non sono pienamente cittadini coloro che, se dovessero esprimersi
politicamente, finirebbero per esprimere la volontà di coloro da cui dipendono; altro punto di
incontro con i liberali.
*Per quanto riguarda le forme di governo, Kant esegue una distinzione seguendo il come si debba
governare e non il “chi”. Si deve governare o secondo leggi (stato repubblicano) o secondo arbitrio
(come accade nel dispotismo). Perché un governo non sia dispotico è necessario che la funzione
legislativa sia distinta da quella giudiziaria: il primo deve emanare solo quelle leggi cui tutto il
popolo potrebbe dare il suo consenso, e i secondi devono obbedire alle leggi come se derivassero
dalla loro volontà riunita; alla legge alla quale il popolo potrebbe dare il suo consenso può essere
solo una legge universale, ispirata all’unico principio di garantire il rispetto della libertà di ciascuno.
Nel repubblicanesimo di Kantiano, la repubblica è un ordinamento politico basato sul diritto, sulla
ragione; uno stato di diritto è tale solo se gli individui coesistono pacificamente con gli altri in base
ad una legge universale e razionale, quindi un principio pubblico accettato e riconosciuto da tutti.
Kant riprende la tesi di Rousseau, in cui ognuno è legge di sé stesso, ma ciò comporta il rischio di
vivere in anarchia, tuttavia l’uomo con lo strumento dell’imperativo categorico si può auto-
domandare: stai trattando una persona come un mezzo o come un fine? Oppure, e se gli altri
facessero come sto facendo io?, con queste domande e le relative risposte capisco se il mio
comportamento è eticamente corretto. L’uomo è un soggetto autonomo sul piano morale, da solo è
in grado di sottomettersi a una legge universale; il test dell’imperativo categorico è oggettivo, tutti
possiamo usarlo, in quanto siamo tutti dotati di ragione. Nello stesso modo in uno stato di diritto
repubblicano, le leggi devono essere pensate in quest’ottica la legge positiva diventa un atto di
ragione. Kant infatti dice che il monarca (favorevole alla monarchia) deve essere illuminato (x es.
deve permettere le critiche). Uno stato dispotico non è illuminato; e quando le leggi sono razionali i
destinatari sono favorevoli a queste regole e non le vedono come un sopruso.
Kant durante la rivoluzione francese, e verso la fine della sua vita, dirà che è difficile che l’uomo
eliminerà definitivamente la guerra però si tratta di un’utopia ragionevole, in quanto man mano gli
Stati faranno proprio questi ideali (quindi finendo di essere dispotici e diventando Repubbliche)
prima o poi la guerra cesserà e darà origine a una Società cosmopolitica, ovvero un ordine
mondiale sulla base di principi in cui tutti si riconoscono.
V. Stato civile e Stato
1. Lo spartiacque della Rivoluzione
Con la Rivoluzione Francese il quadro cambia completamente. La questione decisiva diventa
quella di accogliere sì, con l’eguaglianza giuridica di tutti gli individui, anche il principio della
sovranità popolare, ma al tempo stesso di porre ad esso dei limiti ferrei.
Il liberalismo postrivoluzionario mantiene la connessione con l’89, ma al tempo stesso riflette sui
rischi e i pericoli della sovranità popolare. Il rischio è che:
- la sovranità si trasformi, come era accaduto nella fase giacobina della rivoluzione, nella dittatura
popolare, esercitata da coloro che pretendono di rappresentare il popolo;
- l’uguaglianza politica dei cittadini, che si è affermata come principio inderogabile attraverso il
contrattualismo e le rivoluzioni, voglia trovare la sua coerente prosecuzione nell’eguaglianza
sociale. Tale è una delle questioni più importanti sollevate dalla rivoluzione: cioè se l’eguaglianza
politica dà necessariamente luogo all’eguaglianza sociale. Esiti che per certi versi può apparire
fatale, perché se la maggioranza che vive in condizioni economiche misere ha accesso ai diritti
politici, è evidente che li utilizzerà per far leggi che portino alla redistribuzione della proprietà e alla
garanzia pubblica del diritto al lavoro.
Il pensiero liberale ricerca un equilibrio che consenta di mantenere il principio moderno e
rivoluzionario dell’eguaglianza politica (che solo i reazionari e i nostalgici si ostinano a negare), ma
al tempo stesso vuole confinarlo entro precisi limiti, di modo che non si trasformi in una rivoluzione
di tutta la società.
Se non si ponessero questi limiti alla sovranità popolare, il risultato sarebbe un potere dittatoriale
che rinnegherebbe i principi di libertà della rivoluzione. Il problema dell’epoca postrivoluzionaria è
quello di pensare se e come il principio moderno dell’uguaglianza possa conciliarsi con i diritti
dell’individuo delle sue libertà private e della libertà di comprare e vendere sul mercato le merci e
anche il lavoro. Il problema è capire come e se possano stare insieme la contrattualità centrale dei
cittadini, fondamento del potere politico e dello stato, e la contrattualità interindividuale degli uomini
che interagiscono nello spazio del mercato, in quello che soprattutto Hegel e Marx continueranno
come l’ambito della società civile, distinta dallo stato.

Benjamin Constant e la libertà dei moderni. (1767-1830)


Constant partecipò alla rivoluzione, schierandosi in difesa dei principi di libertà ed eguaglianza
della rivoluzione, ma non senza polemizzare: da un lato contro i giacobini che hanno stravolto i
principi della rivoluzione, instaurando una dittatura arbitraria e violenta; dall’altro contro i nostalgici
della monarchia, che proprio dagli eccessi del giacobinismo traggono argomenti per tornare al
vecchio ordine.
I Principi di politica del 1806 prendono le mosse proprio dall’analisi critica del pensiero di
Rousseau: egli, secondo Constant, ha perfettamente ragione quando individua, attraverso
l’insostenibile volonté générale, l’autorità politica legittima. Se si rifiuta il fondamento divino del
potere politico, dice Constant, non resta che fondare la sua legittimità sul consenso di coloro che a
esso devono sottoporsi. Una volta individuata la fonte delle autorità, bisogna stabilire i suoi compiti
e i limiti del suo esercizio. L’errore di Rousseau sta in questo punto: egli afferma che la
costituzione del corpo politico presuppone l’alienazione totale da parte degli individui, di tutti i loro
diritti, e dà luogo ad un potere che, anche se esercitato dalla collettività, risulta assoluto. Constant
finisce per attaccare il concetto di volontà generale, perché nel momento in cui Rousseau sostiene
che in realtà si tratta di un’alienazione in cui l’individuo non perde nulla e anzi lo guadagna
(unendosi con gli altri in un corpo comune acquisisce su tutti loro gli stessi diritti che cede agli altri
su di lui, con in più la forza comune per garantire questi diritti) ha torto. Il patto rousseauiano non
dà alcuna garanzia all’individuo: quando si passa all’organizzazione pratica dell’autorità sociale, il
sovrano è costretto a delegarla, e l’azione compiuta a nome di tutti è, di fatto, gestita da pochi, al
cui potere l’individuo si trova infine consegnato. Dunque, non è vero che cedendo i suoi diritti al
corpo comune in realtà li conserva, perché chi esercita di fatto l’autorità non è mai il corpo comune
nel suo insieme, ma una parte di esso, che può anche farne un uso arbitrario. Il potere
assoluto/illimitato è quindi sempre dispotico. Riguardo quale sia il potere da considerarsi legittimo,
Constant riflette sui limiti del potere seguendo due direzioni:
1. si può ragionare sulla limitazione del potere tramite divisione e articolazione, con il presupposto
che un potere non può essere limitato da un altro potere. È questa la via del costituzionalismo, che
tenta di elaborare un assetto dei poteri dove essi si controllino a vicenda. Però, secondo Constant,
ciò non basta a impedire il dispotismo, dato che la somma dei loro poteri è illimitata, e se queste
autorità si riunissero invaderebbero tutto, nessuno riuscirebbe ad impedirgli di coalizzaarsi per
opprimere a loro piacimento;
2. infatti è essenziale, per impedire il dispotismo, stabilire con chiarezza gli ambiti nei quali il potere
politico può esercitare la propria competenza, e quelli invece che ne esso deve lasciare fuori,
perché le libere scelte degli individui vi regnino incontrastate.
Il fine di tali limiti, sul piano interno, è la sicurezza dei cittadini e dei loro averi; sul piano esterno, è
l’organizzazione di una forza armata per garantire la sicurezza dello stato. Queste due funzioni
richiedono una certa tassazione sulle proprietà, senza la quale esse non potrebbero venir
finanziate. Ogni estensione dello stato oltre questi limiti è illegittima, quindi, dove l’autorità statale
finisce, comincia lo spazio dei diritti individuali che essa non può limitare, ma solo proteggere dalle
eventuali interferenze di altri.
I diritti individuali consistono nella libertà d’azione che non nuoce ad altri, libertà di fede/religione,
libertà di pensiero, libertà di non essere arrestati, detenuti o giudicati se non secondo le leggi.
Constant dedica interesse anche alla difesa dell’opinione pubblica e al suo principale strumento, la
libertà di stampa, perché essa ha la forza di denunciare pubblicamente quelle violazioni dei diritti
che, senza essa, potrebbero non essere notate dalla maggioranza, ad es. senza di essa i detentori
dell’autorità potrebbero fingere di ignorare le violazioni che i loro apparati commettono.
Tirando le somme, secondo Constant il potere dello stato deve essere strettamente funzionale a
garantire l’esistenza della società civile. Il fine è l’ordinato sviluppo di questa, nella quale l’individuo
esplica la sua libertà. Lo stato ne è soltanto il mezzo, e diviene illegittimo se vuole essere qualcosa
di più.
Ma quale ruolo rimane alla sovranità popolare? È chiaro che il potere legislativo detenuto dai
rappresentanti del popolo dovrà essere esercitato entro limiti ristretti, affinché non sconfini nella
sfera della vita individuale. Proprio per evitare questo, però, i diritti politici, innanzitutto il diritto di
votare e scegliere i propri rappresentanti, non potranno essere estesi a tutti i cittadini, ma solo
quelli aventi proprietà, «poiché solo essa li rende cittadini» (nel senso che posseggono tempo
libero per acculturarsi, diventano responsabili della coltura e amministrazione della proprietà). Ma,
precisa Constant, un proprietario non è semplicemente chi possiede qualcosa, ma chi detiene un
reddito fondiario sufficiente a mantenersi durante l’anno senza essere obbligato a lavorare per gli
altri; quindi, coloro che non sono obbligati a lavorare per vivere.
La proprietà di cui parla Constant non è, come quella lockiana, preesistente alla società, ma è una
convenzione sociale, dunque, non è sottratta alla giurisdizione della società; tuttavia, è ugualmente
«sacra» e «inviolabile». In quanto strettamente connessa alla libertà dell’individuo, la società gode
di una certa protezione e diritti che è, per Constant, la prova del progresso e benessere sociale; la
sua oppressione, invece, costringendo tutti a lavorare, distruggerebbe ogni possibilità di
avanzamento spirituale e intellettuale. La proprietà privata è dunque elemento essenziale di una
società civile libera e capace di migliorare se stessa. Anche per questo i diritti politici dei non
proprietari devono essere negati, altrimenti cercherebbero di ridistribuire le proprietà, imporre limiti
sociali e infine distruggerla.
Constant però non parla né di classi né di ordini sociali, come invece accade nell’ancien régime:
perché la proprietà privata è per sua natura mobile, può sia facilmente persa ma anche facilmente
acquisita da chi possiede le capacità: le leggi non devono far nulla per limitare questa salutare
circolazione. Quella di Constant viene chiamata corrente del liberalismo aperto.
Per quanto riguarda il più famoso scritto di Constant Discorso sulla libertà degli antichi paragonata
a quella dei moderni del 1809, la tesi consiste nel fatto che la libertà può intendersi in due sensi
fondamentalmente diversi:
- nel senso degli antichi: è la libertà così come viene praticata nella polis. Consiste nella
partecipazione diretta al potere politico, è la libertà come autogoverno. Essa è una libertà
collettiva, compatibile, osserva Constant, all’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità
dell’insieme (la cosiddetta volontà generale di cui parla Rousseau), nel quale si esercita la
privazioni di quei diritti che noi moderni definiamo fondamentali, come la libertà di credo (Socrate
condannato a morte per empietà). Il fine degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i
cittadini di una stessa patria, questo era ciò che chiamavano libertà. È ovvio che sa le minoranze si
devono uniformare al volere della maggioranza si rischia di sfociare nel dispotismo;
- nel senso dei moderni: è la libertà dell’individuo privato che deve rispondere solamente alle leggi,
di non essere arrestati né maltrattati, né condannati a morte a causa dell’arbitrio di uno o più
individui. Cioè la libertà si esplica nella dimensione privata non più in quella pubblica, come negli
antichi. In questo ambito rientrano i cosiddetti diritti fondamentali: parola, credo, libertà di stampa,
di critica, di proprietà, diritto di riunirsi per interessi comuni, per professare un culto, il diritto di non
esercitare direttamente il potere politico, ma di influire in vari modi, per esempio con l’elezione dei
rappresentanti o con la pressione dell’opinione pubblica. Che i moderni preferiscano questo tipo di
libertà deriva da diverse ragioni: negli stati di grandi dimensioni, l’influenza del singolo sulla
decisione politica è minima; la partecipazione diretta alla politica limiterebbe l’individuo a occuparsi
del commercio e degli affari, i quali gli procurano soddisfazioni e assorbono completamente, fra
l’altro dal commercio gli uomini apprendono l’amore per l’indipendenza individuale. Il fine dei
moderni è la sicurezza dei godimenti privati, ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle
istituzioni a questi godimenti. E quindi è vero che l’uomo è scisso fra individuo (particolare) e
cittadino (universale) ma non è una cosa negativa come credeva Rousseau ma è positivo perché
l’uomo moderno sta sperimentando l’importanza: dei consumi, della produzione, del libero
mercato, del commercio, i quali danno la possibilità di creare sé stessi e provare l’amore per
l’indipendenza. Pertanto, la vera libertà dei moderni è quella privata e si manifesta nella società
civile che è al di fuori della sfera pubblica e del potere dello Stato.
La libertà politica è anch’essa fondamentale ma principalmente in quanto strumento per garantire
la libertà individuale (in quanto se i cittadini non controllassero il potere politico, questo potrebbe
finire per privarli anche di quei godimenti provati a cui sono legati). Da ricordare che senza libertà
politica non c’è perfezionamento morale, in senza di essa saremmo di fronte a una sorta di
limitazione morale dalla quale l’esercizio politico ci libera.
Il problema che nasce porta Constant ad una visione aporetica, per la quale ci si chiede come si
possa mantener attiva la partecipazione politica se l’individuo moderno è prevalentemente
concentrato sulla dimensione privata. Partendo da questi temi, Constant esercita una riflessione di
natura costituzionale; infatti, egli affianca al potere esecutivo e a quello legislativo un terzo potere,
definito neutro o preservatore, che, eletto dal popolo e totalmente indipendente dagli altri due, si
ponga come arbitro. Ai tre poteri elencati, ne aggiunge due di carattere elettivo:
1. amministrativo locale;
2. potere dei giudici, che gode della massima indipendenza.

3. Alexis de Tocqueville e la democrazia in America


Alexis de Tocqueville proveniva da una famiglia aristocratica fedele alla dinastia borbonica;
quando il trono francese viene preso da Luigi Filippo d’Orleans, al quale il pensatore aveva giurato
fedeltà, l’anno successivo, 1831, egli ha l’occasione di compiere un viaggio in America. Tale
opportunità lo condusse a studiare da vicino la nuova democrazia americana. I suoi scritti più
influenti sono: la Democrazia Americana, pubblicato in due parti nel 1835 e poi nel 1840, e L’antico
Regime e la Rivoluzione del 1856.
Tocqueville è un discepolo di Constant, anche se finisce per rovesciarne gli esiti, recuperando il
valore di quella libertà politica che Constant aveva subordinato a quella privata.
La posizione di Tocqueville assume il presupposto che la democrazia è inarrestabile; è vano
opporsi, dunque, ed è solo possibile analizzarne gli effetti. Con Constant egli condivide
un’importante dato di fatto: con la democrazia il potere politico, più precisamente quello legislativo,
è consegnato ai poveri dei non proprietari. Tocqueville parla del «suffragio universale» causato
dalla maggioranza che consegna il governo alla società dei poveri. Un tema fondamentale sul
quale egli si sofferma è l’eguaglianza delle condizioni: tale principio è il cardine della società
democratica, che sopprime qualsiasi privilegio giuridico, di status e di ceto; indica il non
riconoscere alcune superiorità di rango o di altro genere, e il collocare tutti gli individui su un
medesimo terreno. Infatti il sociologo pensa che la democrazia non sia uno strumento attuativo del
liberalismo piuttosto ritiene che la democrazia si definisce per delle qualità che vanno al di là delle
categorie giuridico-politiche, come per esempio la mentalità e lo stile di vita. L’uguaglianza delle
condizioni è compatibile con le più grandi disuguaglianze economiche: la democrazia americana è
caratterizzata da un profondo divario fra ricchezza e povertà, senza che ciò implichi una divisione
antropologica, perché le proprietà e le ricchezze sono talmente mobili che, in breve tempo, la
posizione di un individuo può mutare.
Osservando le differenze tra la società europea, in particolare francese e quella americana, T. si
rende conto che in America democrazia e liberalismo sono due facce della stessa medaglia,
mentre in Europa sono 2 entità separate.
Il fatto che negli Usa democrazia e liberalismo sono 2 facce della stessa medaglia, lo possiamo
rintracciare nella genesi della società americana (diversa da quella Europea), in quanto tutte le
minoranze scappano dall’Europa e si rifugiano in America; fra l’altro osserva il sociologo che la
società americana democratica non è nata ha seguito di una rivoluzione, la Riv. Americana è stata
una guerra per l’indipendenza, quindi ha avuto un fine diverso da quella francese (la quale voleva
abbattere il ceto aristocratico). L’uomo in America ritrova la sua libertà; l’uomo è libero e uguale
perché non ha legami con le strutture sociali o le classi sociali che esistono in Europa, infatti non
esiste un principio gerarchico-aristocratico. L’individualismo e interesse privato sono positivi non
devono essere visti negativamente perché non sono contrapposti alla comunità.
Tuttavia da questa uguaglianza e da questa libertà emerge l’enorme problema che affligge la
società americana: se gli uomini vogliono essere sempre più uguali, si intende che nessuno vuole
essere diverso dall’altro, in particolare si abbatte la differenza ontologica dell’uomo, tutto ciò porta
a quello che Tocquiville chiama livellamento continuo verso il basso della società moderna. E a
questo punto, se tutti vogliono essere uguali agli altri si rischia di diventare succubi di un altro
potere, anche se l’uomo è libero, che chiama la “tirannide della maggioranza”*, ovvero l’opinione
pubblica esercita una pressione cognitiva sull’individuo (data la condizione di assoluta
uguaglianza): se l’individuo ha un’opinione diversa dal resto, questo, quasi sicuramente si
uniformerà, si tratta di un problema di egemonia culturale. In particolare il potere della
maggioranza si esprime negli spazi occupati dal potere legislativo, esercitato da deputati
fortemente condizionati dall’opinione popolare. Fra l’altro la maggioranza controlla anche tutti gli
altri poteri: esecutivo, giudiziario eletto dal popolo, fino al potere non istituzionalizzato della
stampa. Quindi l’individuo non dispone di vere garanzie qualora i suoi diritti vengano violati con il
benestare della maggioranza del popolo.
Nella seconda parte di “democrazia in America” T. propone una riflessione sui rischi della società
egualitaria e di massa. Con l’andare del tempo il potere incontrollato della massa democratica non
rischia di diventare un regimo dispotico come nel caso dei giacobini; bensì si tratta di un altro
potere pubblico onnipervasivo e anonimo, che corrisponde all’individuo privato che si spoliticizza, e
che si dedica al culto del denaro e alle sue soddisfazioni materiali. Parliamo di un altro tipo di
dispotismo, che il sociologo chiama “dispotismo mite”. Tocqueville parla di massa di eguali, che
mirano a procurarsi piacere e soddisfare desideri, al di sopra di essi vi è un potere che provvede
alla sicurezza, ai loro bisogni, tratta i loro principali affari, dirige le industrie, divide l’eredità.. è un
potere assoluto, che lavora che per il benessere degli individui ma pretende di essere l’unico
agente e regolatore. Questo potere comprime ogni vera libertà e indipendenza individuale ma
soddisfa al tempo stesso il bisogno degli individui di essere guidati ed esonerati dal rischio,
configura una specie di “servitù regolata e tranquilla”. È ovvio che alla luce di ciò T. è contrario al
socialismo, che lo considera uno degli aspetti peggiori delle tendenze dispotiche della società di
massa. Il socialismo, reclamando il diritto al lavoro, chiede che lo Stato si sostituisca alla
previdenza individuale, si intrometta nelle industrie con regolamenti e che si prenda carico del
benessere di tutti paternalisticamente.
Tuttavia l’autore propone anche dei fattori correttivi, che possono opporsi a questa involuzione
della democrazia in dispotismo mite:
 Struttura decentrata dello Stato, ad es. il modello federale degli Usa, in moda da evitare
che il potere diventi sempre più centralizzato,
 Il fattore religioso, in quanto è un elemento progressista della società. La religione aiuta
l’uomo a non contrarsi solo sulla dimensione materiale.
 L’indipendenza del potere giudiziario.
 Infine, come elemento più importante l’associazionismo. Quest’ultimo permette ai cittadini
di partecipare attivamente alla vita politica; poter gestire direttamente gli affari che li
riguardano suscita in loro una cura per il bene pubblico e rivitalizza quei legami sociali che
l’individualismo del benessere minaccia di annullare.
Uno degli aspetti della libertà è proprio l’associazionismo: l’essere liberi porta l’uomo a condividere
con gli altri, fra l’altro in questo modo il “singolo” può essere difeso dall’opinione pubblica*.
Per quanto riguarda la Francia. In Francia, la democrazia è nata dalla Rivoluzione, che mirava alla
rottura delle gerarchie aristocratiche, ne consegue che lo Stato diventa sempre più centralizzato
mentre la società civile diviene sempre più debole, perché non ci sono più i corpi intermedi (il clero
non ricopre più lo stesso ruolo, anzi tende a scomparire, il ceto aristocratico è stato cancellato).
Data questa debolezza la società civile si affida sempre di più allo Stato, creando quello che T.
chiama “dispotismo amministrativo”.

4. Il liberalismo radicale di John Stuart Mill (1806-1873). Inglese, anche il padre era un filosofo.
La lettura di Democrazia in America di Tocqueville esercitò una notevole influenza sul pensiero di
Mill, portandolo all’elaborazione di un originale liberalismo radicale, caratterizzato, per un verso,
dall’apertura nei confronti del socialismo; per l’altro, da una difesa della libertà e
dell’anticonformismo individuale.
L’utilitarismo di Jeremy Bentham pone come fine della morale e della legislazione la realizzazione
della massima felicità per il maggior numero di persone, ovvero sostiene che la giustizia è una
questione di utilità (la legge è utile nei confronti della collettività?) e Mill, riflettendo su tale principio,
si rende conto che la felicità non può essere intensa solo come la ricerca del benessere individuale
sul piano utilitaristico, perché bisogna considerare anche la crescita personale e delle capacità
umane.
La sua visione progressiva e umanistica, lo porta a guardare con molta simpatia al movimento
socialista, e ad esprimere le sue teorie nei Principi di economia politica del 1848. Una delle tesi più
caratteristiche del Mill economista è: mentre le leggi che governano la produzione della ricchezza
sono del tutto indipendenti dalla volontà umana, la distribuzione della ricchezza dipende dalle leggi
e dalle consuetudini della società, ed è quindi modificabile attraverso l’intervento cosciente degli
uomini. Quello che Mill critica è il modo in cui la ricchezza viene distribuita nella società del suo
tempo, infatti “chi lavora di più ha meno compenso”. È questa proporzione erroneamente inversa
che deve essere modificata, magari tramite un sistema comunistico. Tuttavia Mill ritiene che
questo sistema produce dei rischi per quanto riguarda lo sviluppo libero della personalità umana,
che rimane il fine fondamentale per l’autore. Quindi sarebbe preferibile combinare l’istituto della
proprietà privata con delle politiche di riforma sociale, partendo dall’istruzione e dalla limitazione
della crescita della popolazione: misure che reputa efficaci per abbattere la povertà, aggiungendo
ad es. lo sviluppo della produzione cooperativa tra lavoratori oppure tra lavoratori e datori di lavoro.
Nei “Principi”, Mill critica del capitalismo il fatto che esso si basi su una distribuzione ineguale delle
proprietà, mentre difende il principio della libera concorrenza, con la sola eccezione della
concorrenza fra i lavoratori. Egli non crede che l’accumulazione illimitata e che la lotta alla
concorrenza possa durare all’infinito, prima o poi l’umanità lascerà alle spalle la continua corsa
verso la crescita dei guadagni.
Per quanto riguarda il contributo di Mill alla filosofia politica, lo troviamo soprattutto nella sua opera
più letta, On liberty, del 1859. Mill, come Tocqueville, è preoccupato che l’invadenza dello stato e
la tirannia della maggioranza possano soffocare la libertà individuale delle persone. Quindi Mill si
interroga sull’esercizio della libertà individuale e di come poter risolvere il problema in cui
l’individualità venga annullata dalla cosiddetta “volontà generale” tipica della società di massa.
Il testo si propone di determinare i limiti che il potere pubblico e la legislazione non possono
varcare, ovvero quelle sfere di libera azione individuale nelle quali non deve incidere. Il principio di
questa limitazione è che lo stato non può vietare alcuna azione dell’individuo che non rechi danno
ad altri. Grande importanza è affidata alla libertà di opinione; il potere politico che pretende di
vietare la pubblica espressione di opinioni che l’autorità o la maggioranza ritengono deleterie o
sbagliate, commette un duplice torto sia nei confronti dei sostenitori di queste opinioni (che
verrebbero limitati nella loro libertà) sia contro l’umanità in generale e ancor di più per quelli che
verranno: in quanto se l’opinione ritenute sbagliata fosse in realtà giusta, la proibizione sarebbe un
ostacolo nei confronti dell’umanità che ricerca il vero; ma qualora fosse proibita anche una
opinione sbagliata, il proibirla renderebbe impossibile all’opinione vera di motivare sé stessa nel
confronto con la sua negazione. Quindi proibire la libertà di opinione e di discussione non
permetterebbe all’umanità di migliorarsi.
Questo ragionamento sulle opinioni si applica anche agli stili di vita e ai comportamenti: il libero
sviluppo dell’individualità permette all’uomo di seguire gli impulsi più spontanei e personali,
sottraendosi alla tirannia conformistica della maggioranza (concetto già espresso in Tocqueville).
Da ciò deriva la critica al paternalismo, che ha la pretesa di proibire agli individui comportamenti
(come il bere e l’assunzione di sostanza nocive) che, senza recar danno ad altri, sembrano però
contrari al loro stesso bene. Lo stato (paternalistico) non può dire al singolo cosa deve fare per
raggiungere la sua felicità, dato che il miglior giudice della propria felicità, della propria
autorealizzazione è il soggetto stesso.
Qui arriviamo alla punta più radicale e controversa del liberalismo milliano, perché, in primo luogo,
è difficile distinguere un comportamento che reca danni ad altri e uno che non lo fa, e ciò dipende
anche dai criteri di liceità della società cui ci si riferisce, criteri che cambiano da stato a stato, ma
anche nel tempo. In secondo luogo, se ammettiamo che sia lecito impedire a qualcuno di
suicidarsi, anche con la forza, allora dobbiamo anche ammettere che sia lecito proibire l’uso di
sostanze nocive per l’individuo al suddetto soggetto? Si pensi alla droga, ma anche al vizio del
fumo, l’alcool, il mangiare in modo malsano, ecc. Mill esprime la sua opinione attraverso una serie
di argomenti:
1. il singolo è la persona più interessata al proprio benessere, più di quanto lo sia la società;
2. attraverso l’educazione la società ha avuto modo di prevenire nel singolo comportamenti
sgraditi;
3. se non si ponessero limiti all’ingerenza del pubblico sui comportamenti privati, questo finirebbe
per punire, come è già accaduto nella storia, non ciò che risulta dannoso per i singoli stessi, ma
tutto ciò che va contro le sue preferenze (come le persecuzioni religiose). Vi sono però delle
eccezioni:
- è lecito proibire agli individui di vendersi come schiavi, a causa del principio di libertà (la facoltà di
alienare la propria libertà non è libertà);
- l’istruzione non è violazione della libertà;
- il principio della libertà individuale non ha niente a che fare con la dottrina del libero scambio. Il
commercio non è un’attività privata ma sociale, soggetta alle leggi che la società prescrive (es:
limitare la concorrenza è quasi sempre sbagliato, ma non è un attentato alla libertà).
La sua visione dell’uomo come essere autonomo e originale ha influenzato anche la visione della
democrazia. Nel saggio Sul governo rappresentativo (1861), Mill sostiene che il suffragio
universale applicato secondo la regola un uomo/un voto porrebbe il potere legislativo nella mani
della maggioranza più povera e meno colta, comportando il rischio di una legislazione classista, e
ingiusta poiché interessata solo agli interessi immediati della maggioranza.
A questi inconvenienti, Mill pensò che si potesse porre rimedio senza eliminare il suffragio
universale, ma introducendo il voto plurimo, in modo tale che tutti avessero a disposizione un voto
(escludendo gli analfabeti e coloro che non pagavano le tasse), ma che le persone più istruite,
esperte e qualificate ne avessero più di uno. In questo modo si sarebbe potuta ottenere una
legislazione non classista e sensibile agli interessi generali. Inoltre, nella prospettiva di una
democrazia dell’intelligenza (antilivellatrice), Mill riteneva che le leggi non dovevano essere
elaborate dal Parlamento, ma da una cerchia ristretta e qualificata mentre quest’ultimo
semplicemente le doveva approvare o respingere.
Proprio perché il suo pensiero costituisce il tentativo di tener insieme molte e diverse esigenze
intellettuali, Mill è all’origine non solo del liberalismo radicale, ma anche del liberalsocialismo e di
un modello di democrazia centrato sullo sviluppo culturale degli individui, che è stato
opportunamente definito, da Macpherson, democrazia dello sviluppo.

Pensiero politico-filosofico moderno:


-Hobbes: assolutismo; -Rousseau e Spinoza: democrazia; -Locke, Kant e Constant: liberalismo;
-Hegel, Marx: socialismo. -Mill: fra liberalismo radicale/liberalsocialismo; -Tocqueville: rischi della
democrazia.
Il superamento hegeliano del liberalismo (1770-1831)
Le teorie filosofiche di Hegel sono strettamente connesse con le sue teorie filosofiche-politiche.
Il filosofo contesta la separazione fra il mondo inteso come naturale e come storia dell’uomo, il
quale è finito, e l’infinito, ovvero Dio, che H. chiama “spirito”. Ritiene che il mondo non è separato
dallo spirito, bensì è un momento interno dell’infinito, di conseguenza se il mondo fosse finito allora
anche lo spirito sarebbe statico. La nostra esperienza è un continuo divenire (concetto del panta
rei), tutto è un continuo mutamento e movimento, ed è questa l’unica realtà. Per spiegare come
funzione questo mutamento/movimento introduce il concetto di movimento triatico o dialettico,
esso corrisponde alla legge dello sviluppo che meta la realtà. Questo movimento si articola in tre
fasi: 1) tesi: è il primo momento di sviluppo del pensiero e della realtà; questa prima forma
necessita del confronto con la contraddizione o con negazione di sé stessa, perché ancora non è
pienamente sviluppato, compiuto. Il confronto con la negazione porta inevitabilmente alla crescita
della soggettività umana, in quanto ad es. io posso correggere il mio pensiero iniziale tramite il
confronto e la contraddizione. Difatti per H. la storia va avanti grazie al negativo, l’evoluzione è
data dal conflitto. (di conseguenza il negativo è un valore positivo).
2) la seconda fase è l’antitesi, ovvero si riafferma ciò che è stato appreso con il negativo con
consapevolezza.
3) la sintesi: compimento del pensiero.
Concetto di movimento triatico viene applicato da H. sull’idea di spirito e mondo. Lo spirito o
l’infinito è dinamico perché la storia umana è un momento del divenire dello spirito. Nella fase della
tesi il mondo si confronta con la realtà e con la contraddizione; poi subentra la consapevolezza con
la fase dell’antitesi; e infine entra in gioco quello che H. chiama “sapere filosofico”, che indica
quella fase in cui prendiamo consapevolezza del carattere dialettico della realtà di cui facciamo
parte, capiamo che dobbiamo cogliere l’insieme del mutamento e che la verità è l’intero, ovvero
non esiste una verità superiore. La filosofia indica la conoscenza di questa realtà dialettica, il
filosofo è colui che riesce a comprendere razionalmente ciò che è accaduto nella storia. Tutto ciò
che accade deve essere compreso in quanto è un momento interno sempre in movimento del
pensiero e della realtà. Ne consegue che non esiste più distinzione fra filosofia e storia della
filosofia. Infine della filosofia della storia è quello di cogliere il filo conduttore che si nasconde dietro
questo apparente caos. E per Hegel questo filo conduttore è la libertà, infatti la storia dell’uomo
che muta indica che quest’ultimo prende consapevolezza della sua libertà. Di conseguenza il
senso ultimo dell’uomo è realizzare la sua libertà: percorso progressivo. Il cristianesimo con il
concetto di trinità ha anticipato il movimento dialettico (grande interpretazione filosofica del
cristianesimo).
Quindi per H. la libertà è un tema centrale, caratterizzata dalla libera volontà universale, che è
fondamento dello stato.
La filosofia del diritto hegeliana, alla luce di questo concetto di storia della filosofia per H. non si
idealizzare uno stato futuro e perfetto, perché la filosofia può apprendere solo ciò che è accaduto.
(quindi la sua teoria non è una teoria normativa). Lo stato moderno è nato per consentire
l’esercizio della libertà concentra del cittadino che si realizza dentro lo stato (non al di fuori:
superamento del liberalismo hegeliano). La filosofia del diritto articola in tre parti:
- diritto astratto e moralità: l’oggetto di entrambe queste parti è quello di mostrare come tanto la
dimensione della libertà giuridica, quanto quella della libertà morale (delineata secondo il modello
kantiano) non siano sufficienti a pensare il concetto hegeliano di libertà. Essa non è solamente la
facoltà di operare in quanto persona giuridica, e non è nemmeno la possibilità di disporre di sé e
delle sue proprietà, e neppure la capacità di autodeterminarsi come persona morale capace di
scegliere in base alla ragione. Secondo Hegel la libertà deve essere compresa come il fruire di
quelle condizioni e di quei rapporti oggettivi che consentano all’individuo la sua autorealizzazione,
che gli assicurino le condizioni per esplicare la sua libera personalità. La libertà del diritto astratto è
insufficiente perché conferisce all’individuo soltanto delle facoltà, mentre l’insufficienza della libertà
morale deriva dal fatto che prescrive di agire, proprio in quanto segue la morale kantiana, secondo
massime universalizzabili.
- eticità: è la libertà concreta, vera, attuata in concrete istituzioni, che a sua volta si articola nelle tre
dimensioni della famiglia, della società civile e dello stato logica dialettica.
Contro il contrattualismo, Hegel mostra che non si può pensare lo stato come il risultato di un patto
fra individui, ciò significherebbe dare prima i soggetti di contratto nell’ambito della società civile e
poi l’organismo politico che li stabilizza e li garantisce. Per Hegel invece, come per Aristotele,
l’organismo politico, cioè lo stato, è il momento che precede gli altri: non ci sono individui capaci di
autodeterminarsi liberamente senza l’unità politica che ne è la condizione.
Lo stato precede tutti i momenti ma è anche scopo finale, perché il fine è la sua completa
realizzazione.
Infatti per Hegel non ha senso affermare che l’unità politica sia semplicemente un mezzo per
garantire quello che i liberali, come Costant ponevano come fine, ovvero il godimento delle libertà
private da parte del membro della società civile. Possiamo dire che lo stato ha fine in se stesso,
mentre il supremo dovere dei singoli è quello di essere componenti dello stato. L’individuo,
peraltro, che prosegue il proprio interesse egoistico instaurando rapporti di scambi con altri
individui egoisti, e che costituisce il soggetto operante della società civile, ovvero del mercato e
dell’economia, non può determinare la figura unica o dominante della soggettività, come
sostengono i liberali, perché ne è semplicemente un aspetto parziale.
Alla luce di ciò subentra ciò Hegel chiama “la dialettica dell’eticità”:
1. La FAMIGLIA: è il primo istituto all’interno del quale gli individui trovano le condizioni della loro
Autorealizzazione. La famiglia ha la sua autodeterminazione nell’amore, nell’unità tra i componenti
e nella spontanea dedizione con il bene comune. Qui ci troviamo nella fase della tesi
2 la SOCIETÀ CIVILE: in questa dimensione si afferma la separazione degli individui, come
persone private che si dedicano al soddisfacimento dei loro interessi egoistici e bisogni, qui l’uomo
conosce il confronto, il confronto e rompe il rapporto simbiotico con la famiglia: fase dell’antitesi.
Hegel sostiene, che lo sviluppo dell’individuo presuppone la sua separazione dall’unità immediata
e la conquista dell’autonomia (l’errore sta nel considerare questa solo sfera fondamentale per la
vita del singolo). Sulla società civile so generano il progresso e la civiltà tramite la divisione sempre
più articolata del lavoro, lo sviluppo della tecnologia, la moltiplicazione dei bisogni e dei consumi.
Tuttavia questo progresso porta nella società civile a generare da un lato una straordinaria
accumulazione di ricchezza, dall’altro lato la concentrazione della povertà della “plebe”; per poter
risolvere questa tendenza spontanea che si viene a creare sono necessarie istituzioni non di
mercato, che abbiano lo scopo di perseguire il bene comune e la solidarietà. Si tratta degli istituti
chiamati dal filosofo “polizia” e “corporazione”; la prima ha la funzione di regolare i diversi aspetti
della vita sociale ed economica: armonizzare gli interessi tra produttori e consumatori, svolgere per
i poveri quelle funzioni che la famiglia non può adempiere, ec…; la seconda, invece, riunisce gli
appartenenti a un determinato ceto o professione.
3 Lo stato. Quindi nella società civile si pongono quelle radici etiche che poi si estendono
compiutamente nello stato, ovvero il regno della libertà sostanziale, ovvero il momento in cui
l’interesse universale si attua consapevolmente non sopprimendo gli interessi particolari, piuttosto
li accoglie in sé e funge da mediatore fra essi.  fase della sintesi. L’etica per H. indica il
superamento della distinzione fra universale e particolare.
Tale mediazione avviene perché già nella società civile, pur essendoci l’estrema ricchezza in
contrapposizione con l’estrema povertà, esiste anche la possibilità di superare le lacerazioni,
attraverso gli istituti di polizia e della corporazione, ma anche perché la società civile è
organicamente strutturata dalle tre classi o ceti (Stende) che la compongono: -ceto sostanziale,
formato dai proprietari terrieri, -il ceto industriale, che comprende le varie articolazioni, quali,
artigianale, manifatturiera, commerciale, e la sua organizzazione in corporazioni, e -il ceto
generale, cioè quello dei funzionari dello stato, che ha come compito la cura degli interessi
generali.
Da sottolineare che la rappresentanza per ceti costituisce l’elemento che media tra popolo e
governo, e la concreta possibilità di saldatura tra gli interessi, organicamente articolati in cerchie.
Inoltre, per Hegel, la separazione fra società civile e stato politico si concilia nell’elevarsi della
società civile a società politica attraverso la rappresentanza per ceti.
Per quanto riguarda la divisione dei poteri e quindi la struttura costituzionale dello stato, Hegel la
immagina nel seguente modo:
- Potere sovrano: costituisce il culmine e il principio della totalità, detiene la decisione ultima,
compete al monarca costituzionale;
- Potere governativo: deve eseguire e applicare le decisioni;
- Potere legislativo (concorrono il potere sovrano+governativo+ceti): è strutturato attraverso la
rappresentanza dei ceti e delle corporazioni. Questo è un passaggio fondamentale in Hegel, tanto
che vi si incentrerà anche la critica di Marx. Infatti, nell’elemento dei ceti, le differenze della società
civile, organicamente strutturate, giungono ad avere significato in quanto attività politica.

Marx
Con il pensiero moderno e gli ideali della Rivoluzione Francese, si riflette sull’idea che
l’uguaglianza politica debba riflettersi nell’eguaglianza o giustizia sociale, un’uguaglianza
sostanziale, materiale sul piano della ricchezza e dell’opportunità. Sempre in questo periodo in
Inghilterra essendo una nazione più industrializzata, nasce la classe proletaria e il movimento
socialista. Da un lato Marx critica i liberali perché i diritti politici (partecipazione alla vita politica e la
libertà politica) costituiscono una garanzia dei diritti dell’uomo, ma per Marx ciò significa che
l’eguaglianza politica è solo un’illusione. Infatti in essa i proprietari dei mezzi di produzione, dei
capitali e della terra, esercitano un vero e proprio dominio su coloro che, essendone privi, si
trovano nell’impossibilità di riprodurre la propria vita e quindi sono costretti a vendere la loro forza-
lavoro come merce. E dunque i liberali accettano e riconoscono la società ineguale. Dall’altro lato
Marx critica anche il socialismo che lui definisce utopistico, perché il limite dei socialisti è quello di
aver sottovalutato il ruolo rivoluzione del proletariato. Tanto più che Marx si definisce un socialista
scientifico perché per poter organizzare una critica al capitalismo bisogna utilizzare un metodo
scientifico.
Marx dà merito a Hegel di essere riuscito a cogliere la moderna separazione fra società civile,
intesa come il terreno sul quale agiscono gli individui con i loro interessi particolari, e lo stato, cioè
il luogo dell’interesse universale, e di aver dato vita al concetto di dialettica. Infatti il filosofo applica
il concetto dialettico al funzionamento del sistema capitalistico, perché la società funziona tramite
una logica dialettica tuttavia si discosta da Hegel perché il momento più importante non è la
sintesi, che coincide con lo Stato ma l’antitesi, in quanto è la consapevolezza sulla contraddizione
a muovere la storia. Critica Hegel di essere un pensatore idealista, perché non parte tutto dal
pensiero, dalle idee; al contrario lui si definisce un pensatore materialista perché tutto parte dalla
realtà materiale, dato che l’uomo produce il suo sistema di idee a partire dal lavoro. L’unica chiave
di lettura per comprendere il mondo e la storia è il conflitto di classe: se dobbiamo studiare un
periodo storico dobbiamo capire il sistema economico di quella società e il conflitto di classe che
da esso deriva. Nella sua opera “il capitale” Marx spiega che per studiare il capitalismo bisogna
capire le contraddizioni che caratterizzano questo sistema. Per fare ciò opera una distinzione fra la
struttura, che paragona alle fondamenta di un palazzo, e che coincide con l’economia di quella
società dalla sovrastruttura che si organizza tramite il sistema economico e che rappresenta la
cultura, l’arte, la religione, la politica, la filosofia, il diritto, l’istruzione, ecc..
alla luce di ciò Marx critica Hegel, in quanto quest’ultimo pensa che lo stato è quel momento ultimo
Alla luce di ciò Marx critica Hegel, il quale pensava che lo stato è il momento ultimo nel quale si
annulla la distinzione fra il dover essere e l’essere, nel quale tutti si riconoscono, e nel quale
l’uomo gode della libertà sostanziale, ovvero si riesce a conciliare la libertà individuale con le
libertà collettive. Per Marx, invece lo Stato è l’elemento che appartiene alla sovrastruttura che
permette al proletariato di rimanere subordinato al borghese. Quindi la possibile riconciliazione fra
particolare e universale non può avvenire al livello del pensiero, ma solo a livello materiale, e non
si può passare dallo Stato borghese per raggiungere l’uguaglianza sostanziale lo stato è al
servizio della società borghese. Per poterla raggiungere bisogna cambiare, creare un nuovo
mondo, quindi la filosofia del passato non funzione perché essa ha semplicemente interpretato la
società moderna: la filosofia deve diventare prassi politica, un’azione di cambiamento; il pensiero
per poter essere critico non può essere scisso dall’azione.
Marx comunque attribuisce dei meriti al capitalismo perché è riuscito a creare il mercato globale e
proprio da ciò deriva la funzione universale del proletariato. A questo punto Marx introduce la
definizione di plus-valore: la quantità di lavoro dell’operaio non coincide con il prezzo di vendita
della merce, questo da origine al plus-valore, che permette al borghese di arricchirsi con lo
sfruttamento della classe proletaria (che si accontenta di prendere una paga minima per poter
sopravvivere). Nel momento in cui il proletariato prende coscienza del suo sfruttamento avverrà la
rivoluzione, la quale riguarderà la struttura della società e più in generale tutto il mondo, proprio da
qui emerge la funzione universale. Per poter superare il modello capitalista bisogna abbattere la
distinzione fra i proprietari dei mezzi di produzione e nullatenenti, creando un’unica classe, in
questo contesto lo stato smetterà di esistere perché si creerà una democrazia che parte dal basso,
e si annullerà la scissione fra particolare e universale, perché la riconciliazione può avvenire solo
in una società comunista. Infatti, La rivoluzione, come la pensa Marx nel Manifesto del partito
comunista (1848), sopprime l’antitesi fra società civile e stato politico, per rifondare la comunità
umana a partire dalla libera associazione dei produttori. Attraverso la conquista della democrazia,
il proletariato si impadronisce del potere politico e lo usa come leva per sopprimere la proprietà
capitalistica dei mezzi di produzione e quindi le differenze di classe. Una volta che queste, dopo
una fase di conflitti, saranno superate la produzione sarà tornata nelle mani degli individui associati
e il potere pubblico perderà il suo carattere politico. Infatti, riprendendo le sue stesse parole il
“potere politico” indica il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un'altra; superata la
contrapposizione fra le classi, di un potere politico separato dalla società non ci sarà più bisogno.
Sicuramente un evento che permette a Marx di riflettere sulla questione dello stato politico è stata
l’insurrezione della “comune di Parigi” (1871): in essa egli vede il modello abbozzato di una
organizzazione politica di tipo nuovo, che si distingue dalla democrazia rappresentativa borghese
perché in essa il potere viene esercitato o direttamente dal popolo oppure attraverso delegati, che
percependo salari da operai, possono in qualsiasi momento essere revocati dagli elettori. Dunque,
la Comune è fondamentale perché dà corpo all’idea marxiana di uno stato che deve essere
strettamente subordinato alla società, che deve organizzarsi quanto più possibile nella forma
dell’autogoverno. Qualche anno dopo Marx chiarisce ulteriori aspetti della trasformazione
rivoluzionaria della società, basata sul principio distributivo: nella prima fase della società
collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, la distribuzione dei beni
avverrà secondo il principio “a ciascuno secondo il suo lavoro”; nella fase più matura della società
comunista, invece, dopo che le forze produttive e la ricchezza si saranno sviluppate oltre ogni
possibilità, la società potrà finalmente lasciar spazio a un principio più libero e più elevato: tutti gli
uomini riceveranno in base ai loro bisogni, e daranno in base alle loro capacità. Questo sistema
non costituirà un problema perché i principi borghesi vengono superati: perché si tratta di una
comunità unica che lavora e si autoalimenta.
(Differenze socialismo/ comunismo ruota intorno al concetto di rivoluzione; mentre i socialisti
hanno il fine di cambiare il mondo con delle riforme muovendosi sempre nell’ambito liberal-
democratico; i comunisti pretendono di creare un nuovo mondo.)
Marx crede che il presupposto per una società marxista è l’ateismo, “la religione è l’oppio dei
popoli”, in quanto condiziona l’uomo a sopportare e a obbedire in vista di una vita nell’aldilà. Marx
non sa quanto potrà avvenire questa rivoluzione, ma comunque presenta sempre una visione della
storia lineare e progressista, e dato che di tratta di una teoria della filosofia della storia Carl Popper
dirà che può essere soggetta alla critica e che si tratta solo di un’ideologia... per la teoria
comunista presenta delle contraddizioni in quanto in Russia, così come in Cina, ancora non vi era
un sistema capitalistico ma un sistema feudale, secondo Popper Marx anticipa il totalitarismo.
Critica su Marx riguardo l’analisi economica e del plus-valore, in quanto il prezzo di una merce non
dipende dalla quantità di lavoro ma dal rapporto domanda/offerta.
-il comunismo va contro la psicoanalisi di Freud, perché per Freud l’alienazione dell’individuo
proviene dalla società, in quanto essa reprime le pulsioni interne del singolo e quindi nessuno può
essere totalmente conciliato con la società… al contrario Marx ritiene che una società comunista
l’individuo non si vivrà più un’esistenza alienata.
Fra l’altro nel 900 si nota come la classe operai piuttosto che provocare la rivoluzione auspicata da
Marx, tende a diventare borghese con la crescita economica.

Eventi storici importanti del 900: rivoluzione russa, 1° e 2° G. mondiale, l’esperienza del
totalitarismo.
Negli anni 20 e 30 si assiste a un cambiamento paradigmatico sul linguaggio. Il linguaggio non è
uno strumento neutrale ma preforma il nostro pensiero e la nostra esperienza, ovvero tutto viene
mediato linguisticamente e quindi culturalmente. L’uomo è un animale linguistico e il linguaggio
crea la nostra esperienza. Prima si ci interrogava su Dio, sulla natura dell’uomo, sul mondo adesso
si ci interroga del come parliamo di questi “oggetti”. Partendo da questo presupposto si creano due
filoni di pensiero principali: la filosofia analita opposta alla filosofia continentale.
Non si può più praticare la filosofia in modo metafisico/ontologico, ovvero non si può più rispondere
alla domanda platonica sulla costruzione della ottima Repubblica e non ci si può più domandare
chi e cosa sia l’uomo, qual è la sua essenza/natura, perché il filosofo è per sempre un uomo quindi
non possiede una verità assoluta e oggettiva. La filosofia politica diventa un’indagine sul come
parliamo di etica, politica e giustizia.
Nel mondo anglosassone si sviluppa la filosofia politica, con la teoria dell’utilitarismo di J. Betham,
ovvero ciò che è giusto è ciò che è utile per la maggioranza. Le leggi possono essere considerate
corrette quando hanno una funzione utile.
Al contrario il filone continentale fa propria l’ideologia marxista, la quale riduce tutto all’economia e
al conflitto di classe che ne deriva.
La filosofia analitica si trasforma in scienza politica, ovvero un sapere empirico che opera con la
metodologia della scienza sociale. Il filosofo opera tramite categorie linguistiche non ha un punto di
vista universale, non possiede un sapere superiore, facendo crollare così il paradigma normativo.
Ad es. per il filosofo Heidegger possiamo parlare di essere solo con la poesia, per Nistchez solo
con l’arte.
Nel secondo dopoguerra, alla luce di ciò si accende il dibattito e la domanda se è tutto relativo o se
esistono dei valori universali. Possiamo dire che da un lato abbiamo quei filosofi che tentano di
ritrovare de principi universali: Rawls, Habermans. Dall’altro lato il filone “Nicchiano”, che sostiene
che qualunque discorso universalistico è una lotta di potere, un dibattito ideologico.
Il pensiero dell’uomo è già situato culturalmente (si ci avvicina a Hegel, che considera l’uomo
immerso nella società ma viene spezzata anche l’idea dell’universale, che per H. si realizzava
nello stato). Approccio del nichilismo: incapacità di attingere all’universale, si parla di politeismo dei
valori richiama a Nitschez; dall’alto il richiamo all’universalismo Kantiano con Ralws e
Habermans.

John Rawls
Rawls nel 1971 pubblica la sua opera più importante “A theory of Justice”, che diviene un modello
centrale per tutte le teorie filosofiche del fine 900, intanto come punto di partenza per costruire
delle teorie filosofiche alternative e critiche, dall’altro lato per una ragione puramente di dominio
culturale. Rawls era un filosofo americano liberale che insegnò all’università di Harward.
Con la sua opera “una teoria della giustizia” riapre il modello normativo. Egli distingue le questioni
sulla verità e le questioni relative alla convivenza organizzata, di cui se ne deve occupare la
giustizia (mentre la verità è il campo della scienza).
Il problema che vuole risolvere è quello della giustizia sociale (distribuzione delle risorse). R. ritiene
che l’approccio utilitaristico sia sbagliato, cioè scegliere i criteri distributivi delle risorse per
massimizzare l’utilità della maggioranza è un approccio aggregativo/ macro che riguarda
l’efficienza sociale; E Questi criteri non garantiscono la giustizia sociale, perché non si può ridurre
tutto all’efficienza in quanto le minoranze vanno a discapito della maggioranza, quindi si tratta di un
problema morale di equità/giustizia.
Rawls è anche contrario al secondo approccio (esistente nel mondo anglosassone) del Intuitismo
morale, il quale sostiene che tutti riconosciamo in modo intuitivo bene e male, in quanto con
questa teoria non ci sarebbe più il pluralismo. Una concezione universale del bene non esiste, tutti
abbiamo punti di vista diversi e “una propria concezione del bene” chiamata da R. dottrina
comprensiva.
Dato che esiste il “fatto” del pluralismo Ralws si chiede se si può trovare un consenso universale
dei principi di giustizia e in quale campo dell’esperienza umana possono essere applicati. R. ritiene
che i criteri di giustizia debbano riguardare la struttura di base della società, cioè devono agire solo
a livello costituzionale e quindi il modo di distribuire diritti e doveri fra i cittadini, (e non in tutta
l’esistenza individuale e associata in quanto liberale).
Rawls definisce la società: è un’associazione di persone che nelle loro relazioni reciproche
riconoscono certe norme di comportamento, con cui sono favorevoli e che si basa su una certa
ripartizione degli oneri e dei benefici della cooperazione sociale tra i partecipanti. La società si
pone su un piano collettivo che è differente dalla dimensione privata/individuale. Proprio per
questo viene etichettato un liberale di sinistra (liberal), perché riconosce la distinzione fra sfera
pubblica e privata ma è un liberalismo che si pone il problema della collettività e dell’equità sociale.
L’oggetto della “teoria della giustizia” è la distribuzione equa dei beni primari necessari
all’esistenza umana: libertà, diritti, reddito, opportunità. Tra i beni primari uno dei più importanti è il
rispetto per sé stessi, senza questo bene l’individuo proverebbe vergogna (sensibilità nei confronti
degli ultimi). L’individuo deve riuscire a formulare un piano vita razionale, ovvero deve prefissarsi il
raggiungimento di obiettivi economici e sociali; per fare ciò deve avere la possibilità di migliorare la
sua posizione iniziale di esistenza. E quindi tutti devono essere messi nelle condizioni di
competere per migliorare la propria esistenza. Per ottenere una distribuzione equa dei beni primari
e ritrovare quei principi di giustizia che devono essere validi per la società Rawls richiama il
contratto sociale, chiamato neo-contrattualismo del 900, e quindi di dar origine a un modello
normativo o idealizzato. Immagini gli uomini nel momento in cui stanno facendo nascere la società,
quindi vi saranno le parti in posizione di partenza che devono creare la struttura di base della
società. Non chiama questo stato pre-politico stato di natura ma parla di posizione di partenza o
posizioni originarie. Per Rawls dei principi giusti non possono esistere in un ipotetico stato di
natura, in quanti gli individui sono portatori di differenze (fisiche, mentali, abilità, ecc…) e quindi le
parti che sottoscriverebbero il patto risentirebbero di queste ineguaglianze e quindi on potrebbe
mai essere considerato giusto; inoltre ognuno ha una propria concezione personale di bene e
giusto. Proprio per questo R. specifica le condizioni le situazioni nelle quali i contraenti si devono
trovare per dar luogo a un giusto contratto. Partendo dalla considerazioni che le parti tendono a
promuovere il proprio bene e che non sono né altruiste né invidiose, il vincolo fondamentale che
deve essere imposto alle parti è il velo dell’ignoranza, che non gli permette di conoscere a priori i
cosiddetti “esiti della lotteria sociale”, ovvero non sapranno se nasceranno in contesti o in una
situazioni svantaggiata o favorevole, e gli “esiti della lotteria naturale”, ovvero quale sarà la loro
dotazione originaria psico-fisico (maschio o femmina, intelligente o no, forte o no, ecc…).
questa condizione permette di scegliere quei criteri di giustizia che non saranno orientati a priori
dalla nostra personale visione. Questo consentirebbe all’uomo di acquisire l’autonomia morale,
ricollegandosi a Kant, il quale riteneva che facendo l’imperativo categorico noi ci saremmo
sottomessi a una legislazione universale, basata sul consenso razionale che le conferiamo… R.
sostiene che per attuare correttamente l’imperativo categorico dobbiamo abolire ciò che ci riguarda
personalmente, un contratto giusto è quello sottoscritto da parti imparziali e daranno il loro
consenso solo nel caso in cui l’accordo tutala in pari misura gli interessi di ciascuno. E Quindi solo
con questo velo dell’ignoranza possiamo ragionare sul tema della giustizia.
Allora, le parti in posizione originaria oltre a non essere altruiste sono libere e uguali e sono dotati
di due poteri morali: 1) il senso di giustizia, ovvero esiste una fiducia reciproca che assicura che
tutti seguiranno questi criteri o principi di giustizia; 2) la concezione parziale del bene, ovvero le
parti danno che devono scegliere quei principi di giustizia che gli consentono di possedere il più
alto il numero più alto di beni primari di cui potranno usufruire nella società che sta per nascere.
Seguendo la teoria del comportamento razionale gli individui cercheranno di massimizzare il più
possibile il profitto, intenso in senso ampio del termine (es. beni civili, spirituali, ecc..).
i principi di giustizia per R. sono 2:
1) Il più importante: La libertà, cioè eguali libertà fondamentali per tutti, da cui derivano uguali
diritti. E verrà scelto per via del principio del maximin, secondo il quale, ammettendo che le
part siano ignoranti ma comunque razionali, gli uomini sceglieranno le stesse libertà in
quanto si tutelano qualora nascano in un contesto sfavorevole, in riferimento agli esiti della
lotteria sociale e naturale. Cioè l’individuo si tutela nel caso peggiore (teoria del
comportamento razionale).
2) Principio di differenza, (economiche, sociali, psico-fisiche), esse vanno giustificare se –
vanno a favore di quelle parti meno avvantaggiate nel lungo andare, e che - le varie cariche
siano aperte a tutti in un regime di equa-concorrenza.
Le diseguaglianze sono legittimate perché altrimenti limiterebbe la possibilità di migliorare la
posizione di partenza, facendo emerge il merito e il talento, usufruendo così di esiti migliori della
lotteria sociale e economica.
Il velo dell’ignoranza rende gli individui noumenici, ovvero guidati dalla ragione e rendono le parti
autonome. Per Rawls la posizione originaria è una visione procedurale dell’imperativo categorico e
i principi di giustizia sono gli statuti di quest’ultimo.
Quindi tra i principi distributivi vi è quello meritocratico e dall’altro lato un principio utilitarista, che
afferma che si deve massimizzare l’utilità media prevista, preferendo così una situazione dove
mediamente tutti hanno di più, infatti per R. anche chi avrà di meno avrà comunque di più di quello
che gli sarebbe toccato in una situazione di eguaglianza e anche i più dotati accetteranno il
principio di differenza: in quanto devono in ogni caso cooperare nella società con i meno dotati, e
hanno quindi bisogno che questi ultimi accettino una distribuzione sociale ineguale; tuttavia
quest’ultimi non la accetteranno se dal contributo dei più dotati non verrà anche un miglioramento
per la loro posizione. Quindi il principio di differenza è la condizione per una cooperazione sociale
che non è solo giusta, ma anche stabile e accattabile da tutti, evitando la creazione di una
polarizzazione nella distribuzione dei beni primari.

Dopo l’uscita dell’opera di R. è soggetta a critiche.


Un primo filone di critiche viene mosso dai comunitaristi, quest’ultimi criticano l’individualismo
radicale di R. e più in generale del liberalismo. Uno di questi autori è Michael Sandel, il quale
intanto critica la posizione originaria, noumenica dato che questa costruzione ideale non ha alcuna
attinenza con la realtà materiale. La seconda critica riguarda la distinzione che R. attribuisce al
giusto e al bene; il giusto sono le questioni che riguardano la politica e la sfera pubblica, il bene
sono questioni di tipo individuale; tuttavia Sandel fa notare che ciò che riguarda la sfera pubblica, e
quindi ciò che riteniamo giusto in politica è necessariamente influenzato da ciò che consideriamo
bene, quindi si tratta di una distinzione troppo artificiosa. Inoltre nella prospettiva di Sandel gli
individui non sono neppure in condizione di scegliere autonomamente, in quanto la nostra
personale concezione di ciò che è bene è totalmente influenzata dal contesto e dalla società di
appartenenza dell’individuo, e quindi la collettività e lo stato vengono prima dell’individuo*. La
nostra identità si forma a partire dalla società, quindi l’autore e più in generale i comunitaristi si
fanno portatori di un’istanza contestualistica e di una visione del bene situata: essa si radica
nell’imprescindibile legame di comunità sociale grazie al quale esistiamo come soggetti;
all’individualismo liberale, giudicato astratto, si contrappone, con riferimenti ad Hegel*, il nesso
sociale, e il tessuto normativo che lo rende possibile. Fra l’altro per questi autori, dato che i singoli
individui possono non essere in grado di giudicare in modo razionale quale sia il loro bene, non vi
è nulla di male se la società e la politica fungono una funzione paternalistica.
Tuttavia vi sono dei limiti di fondo, in quanto non fanno conto con il pluralismo culturale che
caratterizza ormai le società occidentali moderne inoltre se prima viene la società i valori, i diritti
individuali e le minoranze possono essere messi da parte, abbattendo la dimensione universale
che attribuisce a tutti eguali diritti.

2° tipo di critica viene mossa dai liberali di destra, etichettati “libertali”. In particolare nel 1974
Robert Nozick in “anarchia, stato, utopia”, propone una visione della giustizia radicalmente
alternativa a quella di Ralws, descrivendolo come un “liberale travestito da socialista”, in quanto R.
vuole affrontare il tema della giustizia sociale e secondo i liberali di destra vengono violati in tal
modo i diritti individuali. Allora Nozick, ispirandosi a Locke, ritiene che i diritti che appartengono agli
individui prima e a prescindere dall’istituzione dello stato. Immaginandosi una situazione pre-
statale, Nozick avanza un’altra teoria per uscire dallo stato di natura rispetto alla teoria del
contratto; infatti per N. la nascita di uno stato legittimo si può spiegare non secondo una logica di
contratto ma di mercato: per garantirsi la sicurezza, gli individui inizieranno a costruire
associazione di protezione, e poi, con la divisione del lavoro, ad acquistare protenzione da altre
compagnie che vendono tale servizio. Prima o poi tra le diverse compagnie ne resterà una sola,
ovvero la compagnia di protezione dominante. E poiché l’adesione alla compagnia di protezione è
volontaria, alcuni potranno scegliere di continuare a farsi giustizia da soli. Tuttavia ciò può far
nascere conflitti fra coloro che aderiscono e gli indipendenti quindi la compagnia di protezione
dominante, per garantire ai suoi clienti sicurezza e la risoluzione delle controversie, dovranno
proibire agli indipendenti di farsi giustizia da soli. Ma questo meccanismo governato da una “mano
invisibile” non viola i diritti di nessuno, perché coloro a cui è stato impedito di farsi giustizia da soli,
per la sicurezza di tutti, verranno risarciti gratuitamente dei servizi di protezione e non avranno,
quindi, subito alcun torto. (diciamo che questo passaggio è controverso perché anche se vengono
risarciti, l’inclusione forzosa degli indipendenti dello stato sembra in contrasto con la visione
libertaria). Quindi Nozick nega la base contrattualistica della teoria di Ralws perché dimostra la
costituzione di uno stato minimo ma legittimo senza passare dal contratto ma contesta anche i
criteri distributivi. Rifacendosi a Locke: se io sono libero e quindi padrone di me stesso, sono
anche padrone dei miei talenti e delle mie capacità, e di ciò che produco e guadagno; di
conseguenza se lo stato mi impone di pagare tasse per finanziare servizi educativi o sanitari, o
sussidi per disoccupati, esso dà luogo a una violazione dei miei diritti di autoappartenenza. Uno
stato più che minimo è legittimo solo quando garantisce la sicurezza e l’amministrazione della
giustizia, fissando una tassazione per finanziare tali servizi. Infatti l’unica teoria della giustizia
accettabile per Nozick è “la teoria del titolo valido”: ognuno possiede legittimamente ciò che ha
acquisito o attraverso una giusta acquisizione iniziale, o attraverso un libero trasferimento del bene
da qualcuno e qualcun altro.
Ovviamente i liberali di destra sono fortemente contrari all’ideologia comunista, seconda la quale il
mercato deve essere regolato e gestito solo dallo stato, in quanto lo stato deve essere arbitro e
non un attore. Senza il libero mercato verrebbe meno il merito e la competizione sarebbe guidata
dall’alto, quindi si costituirebbe uno stato ingombrante e troppo assistenzialista che finirebbe per
comprimere i diritti individuali.

3° tipo di critica nei confronti di Ralws è stata avanzata da Amartya Sen. Per Sen, Ralws ignora le
reali condizioni degli individui, perché i beni primari considerati da quest’ultimo sono troppo
minimali per discutere il problema della giustizia sociale. Perché per Sen la giustizia sociale indica
il raggiungimento della libertà sostanziale. Alla luce di ciò introduce 2 concetti: 1) funzionamento,
che riguarda ciò che una persona desidera fare o essere. Quindi funzionamenti a cui viene
conferito un valore vanno dai più elementari, come l’essere nutrito, ad attività o condizione
personali molto complesse, come l’essere in grado di partecipare alla vita della comunità e l’avere
rispetto di sé. 2) la capacitazione di una persona che è l’insieme delle combinazioni alternative di
funzionamenti che quest’ultima è in grado di realizzare. Quindi per Sen la società desiderabile non
è quella che massimizza la dotazione primaria dei beni primari per gli individui, ma quella che
massimizza la loro libertà sostanziale, intensa come possibilità di scelta tra diversi insieme di
funzionamenti o possiamo anche dire di mettere in atto più stili di vita alternativi. Non tutti i
funzionamenti hanno medesima importanza, infatti per S. l’etica e la teoria politica devono
occuparsi anche della questione di quali siano i funzionamenti da includere nell’elenco delle cose
importanti da realizzare. Il problema che si deve porre alla discussione pubblica e alla teoria
politica è la qualità di vita e in questo senso il discorso di Rawls si base troppo sul reddito e sulla
ricchezza materiale. Di conseguenza il problema del bene rientra decisamente nella riflessione
politica. Per es. secondo la pensatrice Martha Nussbaum, sostiene che bene e giusto possono
accompagnarsi in modo reciproco, perché una teoria della giustizia stabilisce come e perché tutti
devono avere accesso ai beni fondamentali, mentre una teoria dei beni si occupa della natura di
quest’ultimi.

Dopo di che Ralws (forse a seguito delle critiche e dei vari dibattiti che si sviluppano negli 70/80)
nel 1993 pubblica l’opera intitolata “liberalismo politico”. Sottolinea che è un’opera di filosofia
politica, infatti i principi di giustizia* che devono essere per tutti vincolanti non possono essere più
ispirati solo ad una moralità di stampo liberale/Kantiano ma devono essere accettati anche dai
sostenitori di visioni diverse, quindi bisogna dargli* una giustificazione puramente politica, in modo
da essere accettati da ogni persona ragionevole, quali che siano i suoi orientamenti ideali e morali.
Cioè il tema che vuole affrontare Ralws è il problema della stabilità sociale e come si possono
risolvere o evitare i conflitti, dato il pluralismo delle società moderne. Quindi per realizzare una
società equa e assicurare l’adesione di tutti ai principi di giustizia (oltre ovviamente alla posizione
originaria e il velo di ignoranza) introduce il concetto di “consenso per intersezione”, che garantisce
l’adesione non solo da parte di coloro che hanno una visione liberale della vita e della politica, ma
anche di coloro che sono portatori di dottrine diverse (es. socialisti). Quindi sarà possibile trovare
un compromesso sulla visione del bene trovando dei principi politici e quindi costituzionali comuni.
Sempre collegato a quest’ultimo concetto ne introduce un altro, ovvero quella ragione pubblica, e
quindi la ragione dei cittadini che opera nella sfera pubblica. Per R. bisogna sforzarsi di porsi dal
punto di vista dei cittadini e ciò non riguarda solo i politici ma anche gli elettori, cioè l’autore
inizialmente sosteneva che anche il voto dovesse essere questione pubblica e non privata, ma
successivamente ritratta questo punto togliendo il cittadino.
Anche per questa opera la critica principale sollevata è che i concetti sono troppo idealizzati, in
quanto la visione personale interviene sempre (es. nell’interpretazioni delle leggi).
Infine, R. riflette nel suo testo “il diritto dei popoli” (1999) sui principi che dovrebbero regolare la
convivenza tra popoli, e in particolari tra i popoli liberali e quelli che non lo sono e che hanno idee
di giustizia differenti e che chiama “popoli gerarchici decenti” (fa l’esempio del Kazanistan, un
paese islamico teocratico, che però rispetta i diritti umani fondamentali, e anche se non
democratico, prevede istituzioni di consultazione dei vari gruppi che lo compongono). Tra i principi
che verrebbero scelti, in una posizione originaria, dai rappresentati dei popoli per regolare la loro
convivenza, oltre il rispetto dell’indipendenza, della sovranità e dei trattati, il principio di onorare i
diritti umani e un secondo principio, secondo il quale: i popoli hanno il dovere di assistere altri
popoli che versano in condizioni sfavorevoli tali da impedire loro di avere un regime sociale e
politico giusto o decente.
Habermans (1929), fu allievo di Adorno, appartenente alla Scuola di Francoforte ed è un sociologo
e filosofo, si definisce un repubblicano neo-Kantiano. Habermans accetta fino in fondo la svolta
linguistica e rifiuta l’idea di un sapere metafisico, e quindi di un sapere filosofico assoluto.
H. si discosta da Adorno e dalla sua idea pessimistica, infatti per A. con il linguaggio l’uomo
domina sulla natura, arrivando ad affermare il proprio dominio sugli altri uomini, tanto più che
l’olocausto è il momento finale, nel quale gli uomini affermano il proprio domini sugli altri. Per H.
Adorno non ha fatto propria la svolta linguistica e il suo intento è quello di ricercare la superiorità
morale dell’ordinamento democratico rispetto ad altri ordinamenti politici, come ad es. la dittatura e
totalitarismi perché altrimenti si cade nel nichilismo. Infatti l’autore accetta pienamente lo Stato di
diritto (repubblicano) e la sua funzione emancipativa. Per es. per Adorno anche i paesi liberali-
democratici non riescono a cogliere fino in fondo le categorie emancipative.
Attraverso la svolta linguistica-comunicativa avanza un progetto di teoria critica, ovvero per
muovere una critica alla società bisogna rintracciare le contraddizioni che la caratterizzano,
riallacciandosi alla teoria marxista. Per H. bisogna osservare gli aspetti paradigmatici del
linguaggio (e non solo gli aspetti sematici),e la svolta linguistica ci permette di capire che esistono
2 ragioni: la razionalità strategica-strumentale, nel quale il mezzo diventa uno strumento per
dominare; la razionalità comunicativa, attraverso la quale gli uomini parlano, si confrontano. È qui
che avanza una critica radicale nei confronti di Adorno perché quest’ultimo possiede una visione
così pessimistica da non aver colto la potenzialità emancipativa della razionalità comunicativa.
Infatti H. ricollega la razionalità comunicativa al concetto di zoon politicon formulato da Hannah
Arenth, ovvero gli uomini si confrontano su un piano paritario e di eguale libertà, nel quale
dovrebbe prevalere il discorso più ragionevole, e quindi migliore.
Da due tipi di razionalità discendono l’agire strategico-strumentale, che caratterizza scienziati e
imprenditori, di fatto quest’ultimi studiano la realtà per controllarla; e l’agire comunicativo che
interessa il dibattito pubblico.
A partire da tali premesse nel 1981 pubblica l’opera la “teoria dell’agire comunicativo”, chiamata
anche etica del discorso. Con questa opera H. si inserisce all’interno del paradigma normativo,
infatti si immagina come debba essere “una situazione linguistica ideale”, ovvero un ideale di
comunicazione trasparente, dove individui si riuniscono per discutere su delle norme. Con questa
opera vuole tentare di salvare l’universalismo, ormai entrato in crisi con il pluralismo che
caratterizza la società moderna. Infatti si chiede quali siano le condizioni universali e necessarie
per una situazione linguistica ideale: egli rintraccia 4 caratteristiche essenziali che chiama pretese
di universalità: - giustezza: correttezza nei confronti delle norme della situazione argomentativa, e
abbandonare il proprio p. di vista se si dimostra più debole rispetto a quello degli altri; -vericidità:
sincerità; -verità e -comprensibilità.
In questo momento ideale quando tutte le pretese saranno rispettate, si raggiungerà un consenso
unanime e l’opinione pubblica si potrà formare correttamente perché se la comunicazione viene
manipolata o distorta scaturiscono le patologie sociali, cioè un’alienazione totale dell’individuo (e
quindi non è basata esclusivamente dal piano economico, come credono i marxisti). La
comunicazione in questa modalità acquisisce un valore cognitivo, perché con il dialogo arricchisco
la mia conoscenza, maturo e progredisco come persona morale.
Per H. dobbiamo immaginarci la società nel suo processo di secolarizzazione, le società
democratiche con il loro processo di emancipazione coincidono con la modernità stessa.. quindi si
può dire che in età moderna con la secolarizzazione il valore svolto dal sacro, dalla religione viene
svolto dal progetto e delle procedure democratiche, che indicano un certo stile vita, una prassi
partecipativa, dove nascono delle istanze emancipative che diventano istanze normative. L’autore
sottolinea che Al fine di mantenere viva la sostanza comunicativa della democrazia, è importante
che il parlamento, e quindi il discorso istituzionalizzato, sia sempre stimolato e controllato dal
discorso libero e informale dell’opinione pubblica, attraverso la stampa, i movimenti e le iniziative
dei cittadini. Inoltre deve essere arginata l’invadenza di quei poteri che colonizzano in vario modo,
per es. con il possesso delle risorse o dei mezzi di comunicazione, e che costituiscono una
minaccia per l’autentica sostanza comunicativa della democrazia.
Alla luce di ciò H. ritiene che solo con un modello normativo, idealizzato possiamo avanzare delle
critiche tuttavia la sua teoria in parte è già in atto tramite le procedure democratiche, quindi egli
propone un modello neo-normativo.
Nello stato di diritto e nella società democratica esistono 2 istanze contrapposte: -istanza della
razionalità comunicativa, che coincide con il dibattito pubblico e include il diritto, la politica e la
morale; e -istanza strategica-strumentale, che include l’economia e la burocrazia.
Il problema per H. sta nel fatto che l’istanza strategico strumentale prevale, e quindi vi è il primato
economico sul dibattito pubblico/politico.
Nei primi anni 90 pubblica “fatti e norme”, e si fa portavoce della democrazia deliberativa, ovvero
l’essere cittadini ci riguarda sempre, l’essere liberi nella sfera pubblica e intendere la democrazia
come forma di vita. Nell’opera H. distingue fattualità e normatività: la dimensione fattuale è
caratterizzata dalle patologie sociali (discriminazione, disuguaglianze) dove però possiamo
riscontrare la dimensione normativa che permettere di muovere critiche. Quindi fra fattualità e
normatività vi è una continua tensione.
Per H. il momento democratico e il momento liberale sono due facce della stessa medaglia, in
quanto i diritti esistono perché partecipiamo alla prassi discorsiva, quindi parliamo di un momento
democratico, nel quale i diritti possono essere modificati ed estesi, infatti è il popolo che stabilisce i
vari diritti. Ed è qui che interviene l’istanza universale determinata dal fatto noi cittadini siamo
chiamati ad argomentare le nostre opinioni in quando viviamo in un mondo secolarizzato e
pluralistico, che chiama principio del discorso. E Da qui si ricollega all’elemento razionale kantiano:
una norma, giuridica o morale, è valida quando dopo un dibattito i destinatari di tale norma le
conferiscono il loro consenso quindi il principio di maggioranza è strettamente connesso all’ideale
di situazione comunicativa, che dà origine alla vera democrazia. (unanime/ e senza distorsione
comunicative non si generano le patologie sociali).
Quindi la modernità è un grande progetto di emancipazione, di fatto è un processo ancora
incompiuto ma bisogna comunque difendere la democrazia.
H. delinea quelle categorie di diritti fondamentali che devono presenti in uno stato democratico
legittimo: - diritti che tutelano le pari libertà individuali; - i diritti che definiscono lo status di
individuo; - diritti ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti; - diritti a partecipare ai processi
discorsivi di creazione del diritto, e quindi esercitare i propri diritti politici e democratici; - diritti di
ripartizione sociale, cioè diritti a godere di condizioni di vita che consentano di utilizzare con pari
opportunità le varie categorie dei diritti.
(H. critica i neo-liberali, in quanto non può essere ridotto tutto a merce, non vi deve essere il
primato dell’economia sul pubblico.)
Il limite della teoria di H. sta nel raggiungere idealmente l’unanimità che porta inevitabilmente alla
negazione del pluralismo, negli anni 80 l’autore pensava che solo sul piano normativo-teorico ciò
può avvenire, ma successivamente pensa che non si possa negare il pluralismo neanche
idealmente.
Una ulteriore riflessione è quella seconda la quale H. ritiene che per sfuggire agli aspetti di
mercificazione della vita, e abbattere il primato dell’economico bisognerebbe far dialogare la
società laica con le religioni, perché esse richiamano delle dimensioni normative che possono
essere utilizzate nel dibattito pubblico questo aspetto suscitò numerose critiche, dato
l’importanza che egli stesso attribuiva al processo di secolarizzazione. Viene anche criticato dai
marxisti e dalla sinistra, in quanto accetta lo stato di diritto.

Altri modelli di democrazia rispetto a quello di H.


Modello di democrazia come metodo.
Noberto Bobbio delinea le caratteristiche affinché una società possa essere definita democratica:
-le decisioni collettive devono essere accattate dalla maggior parte del popolo; - il principio della
maggioranza; - vi deve essere un certo livello di pari libertà per partecipare al dibattito pubblico.
Kelsen giurista e filosofo (morto nel 1973), intanto è portatore di una istanza relativista e pluralista,
e rifiuta l’idea di un sapere metafisico. Partendo dall’idea di democrazia come autogoverno
(Rousseau), che la definisce come “un metodo di creazione dell’ordine sociale*”, K. Sottolinea che
la democrazia negli stati moderni costituisca una realizzazione molto limitata dell’ideale
dell’autogoverno; tuttavia riconosce che le decisioni politiche debbano essere in qualche modo
riconducibili alla volontà dei cittadini. A tal fine identifica delle caratteristiche specifiche della
democrazia: primato del parlamento rispetto all’esecutivo; un sistema proporzionale e quindi più
rappresentativo rispetto a quello maggioritario; le decisioni prese dalla maggioranza devono
essere intese come un compromesso e non come il dominio della maggioranza sulle minoranze, in
quando devono essere considerate come frutto della volontà dei cittadini e di loro interessi,
attraverso, ovviamente, la mediazione della aggregazioni in partiti. Infatti per Kelsen la democrazia
può esistere soltanto se gli individui si raggruppano secondo le loro affinità politiche, infatti l’ostilità
nei confronti dei partiti indica l’ostilità nei confronti della democrazia stessa. In un mondo
pluralistico la democrazia è l’unico metodo per gestire i conflitti pacificamente, impedendo così lo
scoppio di una possibile guerra civile.
Come si può notare, entrambi gli autori utilizzano principi quantitativi per spiegare la democrazia.
la critica di H. e di altri autori appartenenti al filone della democrazia deliberativa è che questi
principi sono solo dei tasselli che non definiscono del tutto la democrazia, perché si deve intendere
come uno stile di vita al di là di tali procedure, inoltre deve essere caratterizzata dalla libertà di
informazione, perché le distorsioni discorsive mirano alla sopravvivenza della democrazia stessa.

 2° modello: La democrazia realista


Schumpeter, critica la sovranità popolare e la volontà generale di Rousseau: infatti per S. non
esiste un bene comune al quale le diverse volontà individuali possano orientarsi per dar luogo a
una volontà generale; e non è il popolo ad autogovernarsi bensì sono le élites politiche: infatti le
scelte politiche sono sempre nelle mani di piccoli gruppi che hanno il potere di prendere decisioni
ma a differenza di un potere autocratico, la democrazia si caratterizza per il fatto che fra queste
élites si istaura una competizione simile alla lotta concorrenziale degli imprenditori per conquistare
i consumatori, ma in questo caso la competizione ha per oggetto il voto dei cittadini. Finché vi è un
minimo di concorrenza e finché gli elettori hanno la possibilità di non votare per un governo che
abbia tradito le loro aspettative, determinano la caduta, vi è democrazia.
La funzione del cittadino democratico si risolve nella scelta di chi deve scegliere e quindi solo
quando si va a votare. Di conseguenza, possiamo dire, che si tratta di una gestione dall’alto, dove i
partiti politici hanno lo scopo di conquistare il consenso dell’elettore, ad es. S. ritiene che tale
visione sia l’unica che possa spiegare che partiti diversi o addirittura opposti adottino programmi
molto simili.
Un’altra prospettiva è quella di Anthony Dawn, che coglie un’analogia fra democrazia e mercato: le
élites esattamente come gli imprenditori, cercano il consenso degli elettori, esattamente come gli
imprenditori che vogliono conquistare fette di mercato e quindi consumatori entrando in
competizione fra loro. Fra l’altro ritiene che le preferenze degli elettori e quelle dei rappresentanti
sono completamente distinte: gli elettori sono interessati ai programmi politici e alla loro attuazione;
mentre ai rappresentanti, i programmi non interessano in quanto tali, perché sono visti come un
prodotto preconfezionato che ha come funzione, quella di raccogliere consenso.
Robert Dahl, sottolinea l’aspetto pluralistico della democrazia introducendo il termine della
poliarchia, ovvero vi sono diversi poteri che corrispondo a diversi interessi, nella quale si deve
trovare una sintesi fra quest’ultimi.. si chiede l’autore se la poliarchia sia abbastanza democratica e
di come si possa costruire una democrazia più soddisfacente.
La critica dal punto di vista della teoria di Habermas è che esiste una differenza fra il consumatore
e il cittadino/elettore. Mentre le scelte di un consumatore è privata ed insindacabile, cioè nessuno
può chiedere di argomentare la sua scelta, gli elettori sono tenuti ad argomentare nel dibattito
pubblico, in quanto le scelte personali pesano sugli altri individui. Infatti per i consumatori e gli
imprenditori, il fine è massimizzare il profitto e quindi subentra l’agire strategico-strumentale;
mentre nei cittadini deve prevale l’agire comunicativa.
È ovvio che questa visione si ricollega al rapporto fra fatti e norme: perché nella realtà il cittadino
va a votare il partito che secondo lui lo rappresenta di più; mentre sul piano normativo, nella
prospettiva di H. la cittadinanza non può essere ricondotta solo al voto, perché esso non è una
scelta privata, si è sempre cittadini, bisogna essere pronti ad argomentare e cambiare il proprio un
p. di vista, al fine di uno sviluppo cognitivo.

 3 modello: La democrazia dello sviluppo


Come modello si avvicina alla teoria di H.
Per Macpherson la visione della democrazia descritta attraverso la logica di mercato, non descrive
la democrazia bensì il suo carattere patologico. Per gli autori aderenti a questo modello, la
democrazia deve essere vista come un processo dinamico, un progetto in divenire, infatti bisogna
affiancare le istituzioni democratiche con processi di democratizzazione della vita associata:
famiglia, istruzione, l’industria, ecc… allargando sempre di più la sfera dei diritti.
un altro autore è Dewey che basa la propria riflessione sull’importanza del dibattito pubblico. Infatti
egli ritiene che uno dei più gravi problemi che minacciano la democrazia è la fine del pubblico,
ovvero il fatto che i cittadini si riducano a dei consumatori passivi di offerte politiche. Bisogna
trovare dei modi per poter mantenere attiva la sfera pubblica, in questo modo da craere
un’opinione pubblica attiva, informata e influente. Ad es. il principio di maggioranza sarebbe
insensato se non ci si soffermasse anche sul modo in cui le maggioranze si devono formare:
ovvero attraverso il dibattito pubblico e il confronto degli argomenti.

La Biopolitica.
Biopolitica: il potere si può esercitare sulla vita delle persone. Ormai la scienza, la genetica e la
biotecnologia hanno fatto dei passi in avanti senza precedenti tali da riuscire ad intervenire sul
vivente e a manipolarlo: parliamo ad es. della riproduzione di embrioni per scopri terapeutici o di
ricerca, aumentare le prospettive di vita e di salute tramite la mappatura dei geni. Habermas negli
anni 2000 si pone il problema della genetica liberale nella sua opera “rischi di una eugenetica
liberale”, e quindi tenta di capire sul piano etico quando si può o non si può intervenire, in
particolare interrogandosi sulla manipolazione degli embrioni umani. A tal fine compie una
distinzione fra gli strumenti genetici funzionali a diagnosticare patologie e a migliorare la vita
dell’individuo una volta nato e la manipolazione sugli embrioni per particolari qualità (ad es.
l’intelligenza, la forza fisica, qualità fisiche, ecc..) attuate per il volere dei genitori. Per dare risposta
a questo quesito ritorna all’etica/principio del discorso, e quindi con il problema del consenso e
della asimmetria che si viene a creare nei rapporti fra genitori o tutori e figli. Perché per H. nel
futuro il bambino, una volta diventato un soggetto maturo potrà essere grato e quindi dare il suo
consenso nel caso in cui la manipolazione ha avuto uno scopo migliorativo per la sua esistenza; al
contrario variare i geni e quindi modificare l’embrione può mettere in crisi l’identità del futuro
individuo, perché potrebbe iniziare a percepirsi come uno strumento programmato.
Quando parliamo di clonazione riproduttiva,( sia in senso migliorativo sia in senso di determinare a
priori il patrimonio genetico dell’embrione), vi è sempre il problema del mancato rispetto simmetrico
e reciproco tra gli individui: perché qualcuno impone ad un altro la proprie scelte, senza
quest’ultimo abbia una capacità di controllo su stesso e su colui che ha scelto. È ragionevole
pensare che interventi terapeutici troveranno il consenso del futuro individuo ma ciò pone il quesito
di quei interventi genetici volti al miglioramento per es. accrescere l’intelligenza; è possibile
pensare che anche interventi di questo tipo potrebbero trovare consenso. Tuttavia H. ritiene che i
piccoli difetti fisici possono, delle volte, possono rivelarsi dei vantaggi.. quindi chi pretende di avere
il diritto di eliminarli modificherebbe la biografia di qualcun altro in modo irreversibile, creando
nuovamente una situazione di asimmetria dei vari rapporti fra individui.

Realismo politico del 900


Con il realismo politico si tende a superare la modernità, contrapponendosi al paradigma
normativo, i quale pone una descrizione o un modello idealizzato della modernità. Autori come
Rawls e Habermas tentano di salvare la razionalità umana occidentale e l’universalità dei diritti
umani.
Fra gli autori esponenti del realismo politico: Smitth; Benjamin e Foucault. Il realismo politico si
interroga sulla dimensione fattuale della politica, e uno degli aspetti più importanti colti è la
dimensione del polemos, ovvero il conflitto che deriva dalla lotta per il potere.
Carl Smith fu un giurista tedesco, e nel 1927 pubblica il saggio “il concetto di politico”, ovvero per
Smith ciò che caratterizza sul piano puramente descrittivo il politico è il conflitto amico/nemico e
definisce la politica come una relazione fra stati, i quali incarnano la sovranità, intesa quindi come
politica estera. Vi è la possibilità che fra gli Stati possa scoppiare il conflitto, la guerra, per varie
ragioni: economiche, religiose, ideologiche. E per Smith questa possibile relazione conflittuale fra
Stati non dovrebbe istaurarsi all’interno dello stesso Stato, ed è proprio per questa ragione che
introduce il criterio amico/nemico, in quanto “l’amico” indica la comunità di cui noi stessi ne
facciamo parte e nella quella dovremmo riconoscerci nella piattaforma dei valori, in quanto il
mancato riconoscimento di tali valori porterebbe allo scoppio della guerra civile. E ritiene che il
pluralismo non necessariamente porta al conflitto all’interno dello stesso stato.
Smith influenza molto il pensiero di Walter Benjamin, e con il suo scritto “critica della violenza” si
interroga sul rapporto fra storia, violenza e diritto. Per l’autore il diritto è creatore di quella violenza
che porta alla costruzione dell’ordine pubblico e la storia, non è altro, che il susseguirsi di forme
mitiche del diritto. B. nella sua analisi nota come quasi tutti gli stati siano nati a seguito della
violenza, intense come guerre civili, guerre d’indipendenza, di conquista. Tanto più che l’idea di
vedere la storia come un percorso lineare e progressivo/positivo è solo un’ideologia, un mito,
perché la società con il progresso non fa altro che lasciare indietro e dimenticare gli ultimi. La
salvezza nella storia può avvenire solo in modo messianico (anche se ateo), ovvero nell’attesa di
un Messia, intenso come forza esterna che riesca a salvare la storia dal conflitto.

Michelle Foucault (morto nel 1984) è uno dei padri del paradigma del post-moderno, che inizia a
partire dalla rivoluzione del 1968. F. venne molto influenzato dal Nicche.
Nitche pone una critica radicale alla filosofia occidentale, improntata dalla visione Platonica/
cristiana che definisce nichilista, in quanto hanno portato ad uno sdoppiamento del mondo,
ponendo una distinzione: nel caso di Platone l’iperuranio e il mondo, nel caso cristiano il paradiso
e il mondo. infatti per Nicce bisogna abbandonare l’idea della perfezione e di un ordine prestabilito
a cui dobbiamo uniformarci, e sottolinea come il pensiero greco sia stato deformato, in quanto in
Grecia vi era la tenzione fra ordine = apollinico e disordine = dionisiaco. Per Nicche dobbiamo
ritornare alla vita, perché questo tipo di visioni sono nichilistiche passive, cioè portano alla perdita
della vita stessa e sostituirle con un nichilismo attivo, ovvero l’oltre-uomo deve essere colui che
pone i propri valori, e l’ordine. Un ulteriore elemento importante nel pensiero di Nicche è la teoria
dell’eterno ritorno dell’uguale: cioè vi è una concezione lineare del tempo nell’orizzonte cristiano
per cui la storia è vista come un percorso che deve condurre alla salvezza, che potrà compiersi
solo con il ritorno del Messia; con l’illuminismo invece questo percorso va verso il compimento,
verso la perfezione che realizza l’uomo da solo con la sua ragione… potremmo dire che è
avvenuto una secolarizzazione del messaggio di salvezza cristiano. Per Nicchè bisogna ritornare a
una visione ciclica della storia tipica dell’era classica, dove è l’oltre-uomo che sceglie come vivere.
Michelle Foucault è caratterizzato da un primo periodo, nel quale aderisce alla corrente culturale
dello strutturalismo, il quale predicava la morte dell’uomo, intenso in senso metafisico, in quanto
quest’ultimo è il prodotto delle strutture culturali, linguistiche, religiose, ecc… alle quali appartiene.
Dopo di che negli anni 70 decide di abbandonare il partito comunista francese e inizia lo studio
sulla microfisica del potere elaborando la tesi della “teoria del potere”. F. nella sua analisi si rende
conto che il potere viene definito in termini casualistici, ovvero la concezione prevalente di potere è
intesa come il poter influire sul pensiero e sul comportamento di una persona o di un gruppo, al di
là delle diverse forme dell’ordine politico… infatti secondo la concezione liberale, e soprattutto i
liberali di destra ritengono che più vi sono leggi, più diminuisce la libertà; o la concezione marxista,
nel quale il potere e dominio vengono eserciti dalla classe borghese; Torcquiville l’opinione
pubblica. E F. non condivide questa idea repressiva del potere; ritiene che il potere è un potere
produttivo e si identifica come l’altra faccia del sapere. Noi abbiamo a che fare con una forma di
potere che produce forme sociali (impronta strutturalista). E mentre prima tutto era pensato in
termini teleologici, nella modernità tutto è incentrato nel sapere scientifico-tecnologico, oggi si parla
del controllo dei mezzi di comunicazione, di biopolitica, del potere della medicina; è il sapere che
produce le forme sociali.. ad es. se si viene arrestati o internati in un ospedale psichiatrico è
perché l’individuo non rispetta i valori che la società predilige, ed esercita un potere coercitivo
sull’individuo. E quindi per il filosofo non si può configurare nessun elemento di potere, se
quest’ultimo non è conforme a un insieme di regole, che derivano da un certo tipo di discorso
scientifico, che varia in base all’epoca storica. Infatti ogni società, dato il binomio potere/sapere, ha
un proprio episteme dominante, ovvero quel sapere che struttura le diverse epoche storiche. Ed è
il potere a strutturare la soggettività e i comportamenti, quindi esso è onnipervasivo… da qui la
visione micro del potere.
Tuttavia il potere è produttivo e si modella in relazioni di forza, che generano a loro volta il contro-
potere, ovvero le varie forme di resistenza, in quanto ogni azione comporta una reazione; cioè F.
identifica la resistenza come un atteggiamento morale e politico, che si potrebbe definire come la
decisione di non essere governati.
Dopo di che riprendendo il metodo genealogico, che rilegge la storia tramite le discontinuità, e
quindi quei valori che si sono imposti a discapito di altri (filone nicchiano), ritiene che la modernità
non è un grande progetto di emancipazione, in quanto l’uomo non esiste.

La politica della democrazia e le sfide del mondo globalizzato


Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, (negli anni 90) inizia il processo di
globalizzazione (chiamata in Francia mondializzazione), i suoi aspetti fondamentali sono:
 Sul piano economico: dove assistiamo allo sviluppo del mercato globale che copre tutto il
pianeta, e porta parallelamente a una crescita della interdipendenza tra paesi e a una più
aspra competizione.
Ciò indica il superamento del modello fordista sostituita dalla fornitura di servizi, per es. tutte le
piattaforme e-commerce. Oggi si parla dell’economica della conoscenza, cioè una parte
fondamentale dell’economia è la conoscenza e la sua condivisione (es. condivisione di ricerche
scientifiche).
 Sul piano antropologico-sociale: oggi le società occidentali vivono un pluralismo esteso,
dato dai numerosi flussi migratori e di conseguenza anche di numerosi scambi culturali, vi è
infatti la perdita dei legami sociali, dovuto al fatto che l’uomo è un soggetto senza radici.
Parliamo di società liquida.
 Sul piano tecnologico: gli avanzamenti della tecnologia hanno maggiormente interconnesso
tutto il mondo; grazie a internet siamo a conoscenza di tutto ciò che accade nel resto del
mondo, tanto più che si parla di società dell’informazione.
 Sul piano politico, assistiamo al superamento della statualità, cioè l’attore decisivo non è
più lo stato sovrano bensì tutte le organizzazioni sovranazionali: Unione Europea, ONU,
che creano una governance multilivello.
La pressione della competizione globale e lo sviluppo di forme produttive sempre più differenziate
e articolate, rispetto all’epoca fordista, destrutturano quello che era stato uno dei fattori
fondamentali che hanno permesso lo sviluppo della democrazia e delle politiche sociali del
dopoguerra: il movimento operaio organizzato. Cioè oggi vi è una crisi di rappresentanza delle
classi lavoratrici… in particolare la crisi dei partiti di sinistra e dei vari sindacati (in Italia a partire
dalla fine della prima repubblica/Tangentopoli… in cui vi è la fine dei grandi partiti: comunista,
socialista – e sembrano prevalere oggi i partiti populisti). La “fine della società del lavoro”, i
mutamenti delle forme produttive e una più marcata individualizzazione degli stili di vita sembrano
minacciare le base stesse della politica democratica e partecipativa.
Ad es. I media e internet hanno un effetto negativo sulla democrazia. prima di internet i partiti di
massa avevano delle sedi radicate sul territorio, garantendo così un certo livello di attivismo
politico e partecipazione; oggi, invece, la comunicazione politica si sposta soprattutto su internet:
ovvero i leader sostituiscono il dibattito pubblico, pubblicando messaggi, post, twitter in base agli
interessi e al pensiero degli utenti/e potenziali elettori.
Internet porta a una radicalizzazione del pensiero, perché noi crediamo e abbiamo la percezione
che le nostre ricerche siano totalmente libere, ma in realtà digitando le parole chiave di ciò che
vogliamo cercare, come risultati nei motori di ricerca troveremo siti e pagine che confermano la
nostra intuizione personale iniziale; da ciò deriva la radicalizzazione dei punti di vista, in quanto si
tende a rimanere in contatto con coloro che condividono il tuo stesso punto di vista, cioè vi è un
problema di riconoscimento dell’illegittimità dell’altro.. ovvero l’altro sicuramente sta sbagliando,
facendo perdere l’essenza della democrazia, che è il dialogo. Questo tipo di riflessione ci porta a
Tocqueville e a uno dei rischi che potrebbe portare la democrazia degenerando in dispotismo mite,
ovvero una massa che viene eterodiretta da un potere esterno, come potrebbe essere internet
oppure le società di rating che hanno la capacità di far crollare i governi basandosi sulla stabilità
economica di uno stato. Infatti le società democratiche stanno vivendo un periodo di
verticalizzazione, e risultano lente a rispondere alle esigenze che aumentano e si sviluppano
velocemente… per es. assistiamo al rafforzamento del potere esecutivo rispetto al parlamento.
Tutti questi cambiamenti fanno entrare in crisi una serie di concetti: -il concetto di popolo…cioè il
popolo da chi è realmente costituito?
-il tema della giustizia sociale, che si intreccia con i problemi di una giustizia globale, si può
pensare ad es. agli accordi sovranazionali sull’ambiente.
-universalità dei diritti dell’uomo... quest’ultimi sono davvero universali o sono una costruzione
culturale dell’occidente… si pensi a cosiddetti “valori asiatici”, che si contrappongono a quelli
occidentali in quanto, facendosi soprattutto al confucianesimo, vi è il primato degli interessi della
collettività e dello stato rispetto a quelli dei singoli individui.
Si può dire che per un verso l’Occidente pretende di presentarsi come il difensore dei valori
universali di libertà, diritti e democrazia; ma l’occidente e soprattutto l’Europa non è più il baricentro
del mondo. ad esempio si tendeva a far coincidere il concetto di modernizzazione e il processo di
secolarizzazione (a partire da Hegel), ovvero di far fuori i costumi, i vecchi miti e le tradizioni
religiose, ritenendo che questo fosse l’unico percorso evolutivo che tutte le nazioni avrebbero
dovuto compiere, mentre in realtà è un percorso emancipazionale puramente europeo.

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