Sei sulla pagina 1di 68

Chimica Industriale

1- Introduzione

Solitamente il mercato richiede uno specifico prodotto e il compito di un ingegniere è quello di


rintracciare una via breve per la produzione di questo, partendo da materie prime per arrivare al
prodotto desiderato.
Questo processo deve soddisfare alcune richieste:
 Deve essere economicamente sostenibile;
 Deve essere coerente con i vincoli termodinamici;
 Deve considerare gli inconvenienti relativi alla cinetica;
 Deve rispettare l’ambiente (ecocompatibile).

Figura Errore. Nel documento non esiste testo dello stile specificato.-1 Tipico schema a blocchi di
un impianto chimico

Osservando il precedente schema a blocchi (Fig. 1.1), si nota come il nocciolo del processo è il
reattore, dal quale ci si aspetta la piena realizzazione della trasformazione richiesta. Ovviamente
questo da solo non può raggiungere l’obiettivo prefissato, cioè quello di partire da materie prime
disponibili e raggiungere uno specifico prodotto, quindi, per ovviare a questo problema, si
aggiungono il blocco di Preparazione e quello di Separazione e Purificazione.
Il primo serve ad effettuare i pretrattamenti, come, ad esempio, l’eliminazione di eventuali sostanze
che potrebbero portare, anche in piccole quantità, all’avvelenamento dei catalizzatori effettuando,
Il secondo serve invece alla separazione dei prodotti dai reagenti non reagiti o dai
prodotti di scarto e coprodotti. I prodotti di scarto rimangono tali se non siamo in grado di dargli
alcun valore o se l’impianto non è equipaggiato in modo tale da trasformarli in altri prodotti utili o
con valore commerciale.
Nel caso in cui si abbia una reazione chimica elementare con conversione del 100%, si potrebbe
omettere il blocco di separazione, poiché, all’uscita del reattore non vi saranno reagenti nè tanto
meno prodotti di scarto.

Ciascun blocco può essere analizzato singolarmente in modo da dimensionarlo correttamente e


coerentemente con le nostre necessità.
Tuttavia non è importante che ciascuno di essi operi nelle migliori condizioni
possibili, ma che l’intero impianto sia ottimizzato. Ciò significa, ad esempio, che il reattore talvolta
possa trovarsi nella situazione di dover lavorare in condizioni non ottimali.
Infatti, avere un reattore che lavori in condizioni ottimali, può implicare il dovere avere un blocco di
separazione molto più costoso di quello che non si avrebbe in
condizioni non ottimali.
Nello schema a blocchi si osserva anche la linea di riciclo, che va inserita se la conversione del
reattore è bassa, anche se il reagente utilizzato sia economico. Invece, se ho una conversione
accettabile/buona, non sarà conveniente aggiungere questa linea, poiché molto costosa. Infatti, si
dovrebbero affrontare costi per acquisto e montaggio di tubi, pompe e altre apparecchiature, oltre
che costi per l’alimentazione elettrica delle apparecchiature.
Il by-pass è una linea che si trova in alcuni schemi di processo, come ad esempio nel dryer; se
all’uscita si richiede una corrente non completamente essiccata, la migliore soluzione è dividere la
corrente in ingresso in due parti. Si raggiungerà l’umidità richiesta, dunque, miscelando la corrente
essiccata a quella umida di by-pass.

Durante la progettazione di un intero processo bisogna fare particolare


attenzione ai vincoli termodinamici. Quando si studia un processo dal punto di vista termodinamico
questo sarà un “black block”, poiché ciò che avviene a livello molecolare non è rilevante. L’utilità
pratica dell’analisi termodinamica del processo, dal punto di vista della chimica industriale, è capire
quale sia la massima efficienza (di conversione ed energetica) che posso ottenere dal sistema
analizzato.

Il problema tipico di un’analisi di processo è la comprensione se questo si trovi


sotto controllo termodinamico o cinetico.
Un processo è a controllo termodinamico se gli attriti sono talmente bassi che in un
piccolo lasso di tempo, comparato al tempo totale del processo, questo si trovi
sempre in condizioni di equilibrio; quindi la termodinamica sarà lo strumento corretto
per la descrizione di tale processo. Il rendimento e la conversione ottenuti
all’uscita dal reattore dovranno essere calcolati mediante equazioni termodinamiche.
Analogamente, se si vogliono aumentare le prestazioni del reattore si dovrà ragionare in termini
termodinamici.
Se il processo è a controllo cinetico, avrò la presenza di attriti e non si raggiungeranno mai le
condizioni di equilibrio, che saranno, dunque, il massimo che il sistema può ottenere. Per
rendimento e la conversione ottenuti all’uscita dal reattore si necessiterà del corretto modello
cinetico del sistema.
Figura 1.2 - Matrice di Kline

La matrice di Kline (Fig 1.2) è utile dal punto di vista industriale perché classifica i prodotti in
quattro classi generiche. La matrice è costruita considerando il volume di produzione e il grado di
differenziazione dei prodotti.
Le quattro classi sono:
- Commodities, con da grandi volumi e basso grado di differenziazione. Vengono
caratterizzati in base alla loro purezza e sono spesso utilizzati come materie prime per altre
reazioni
- Fine chemicals, ad esempio i principi attivi farmaceutici. A causa dello scarso volume di
produzione, si utilizzano impianti batch di piccole dimensioni
- Pseudo-commodities, quali la benzina. Caratterizzati non dalla composizione chimica, ma
dalle loro prestazioni
- Specialties, come adesivi e lubrificanti. Anche questi caratterizzati dalle prestazioni, ma con
volumi di produzione più ridotti.

Figura 1.3 – Struttura dell’Industria Chimica


L’ industria chimica è ben rappresentata dalla Figura 1.3; la base è costituita dalle materie prime
(raw materials) quali, ad esempio, petrolio, gas naturale, rocce minerali, biomasse ed aria. Esse
rappresentano il punto di partenza nella produzione dell’industria chimica con l’ausilio dei
combustibili, prodotti a partire da raw materials, che nel contesto attuale sono LPG, gasoline, diesel
e kerosene.
Quindi poche materie prime sono usate per sintetizzare prodotti
appartenenti alla categoria dei “base chemicals”, che a loro volta appartengono ai
“bulk chemicals”. Tra i base chemicals vi sono olefine (prodotte attraverso lo steam cracking),
aromatici, ammoniaca, cloro e un numero davvero limitato di
“commodities” caratterizzate da un’elevata reattività chimica, così che possano
essere facilmente combinati per poi ottenere i prodotti “intermediates” (molti spesso monomeri).
Infine, circa il 60% della produzione totale dell’industria chimica è indirizzata verso il mercato dei
polimeri, appartenenti alla categoria di “speciality chemicals”.
L’ industria chimica è così strutturata poiché questa è la struttura che garantisce il miglior
tornaconto economico, secondo sia logiche di produzione che di mercato.

Il punto chiave è che, dopo aver investito il capitale in un impianto industriale, questo
deve dare un ritorno di investimento significativo. La percentuale di ritorno di
investimento annuale (ROI, return of investiment) può essere calcolata come:

100∗profitto annuale 100∗vendite−costo di produzione


=
investimento iniziale investimento iniziale

Queste voci sono in realtà di difficile determinazione anno per anno: per esempio il prezzo del
prodotto è determinato dal mercato e naturalmente non esiste modo di prevederne l’andamento a
lungo termine, quindi vi è un certo margine di incertezza nella determinazione del ROI. Nella voce
costo è anche compreso il deprezzamento
investimento−scrap value
deprezzamento=
vita nominale dell ' impianto
una somma virtuale che distribuisce nel tempo l’investimento, in cui con vita nominale si intende il
tempo di vita ritenuto ragionevole per il recupero del capitale. Questo termine sparisce per tutti gli
anni successivi alla vita nominale, rendendo improvvisamente l’impianto molto più competitivo sul
mercato, persino se confrontato con impianti equipaggiati con tecnologie più recenti ed efficienti,
ma che ancora non hanno restituito. Questo si traduce nel fatto che tutte le scelte vanno operate
sempre dopo accurate considerazioni economiche: non sempre un impianto a massima efficienza è
la scelta più accettabile.
Nella progettazione di un impianto è necessario utilizzare parametri quantitativi per
definire la performance di ogni singola sezione, ovvero le cosiddette figure di merito, per dare
un’idea quantitativa dello sfruttamento delle risorse e quindi dell’investimento, in modo da poter
optare scelte oculate. Queste figure di merito vengono determinate nelle varie fasi della
sperimentazione del processo, dalla sperimentazione in laboratorio fino all’impianto vero e proprio,
e giocano un ruolo fondamentale nella minimizzazione del rischio, permettendo eventualmente di
interrompere l’investimento prima di procedere alla fase successiva.

La prima figura di merito che si considererà è la conversione


Q
X= R
QF
dove QF è il numero globale di moli di reagente alimentato, mentre QR è il numero globale di moli
di reagente consumato. Questa informazione non è sufficiente, non da nessuna informazione su
quali prodotti si siano ottenuti;
per ovviare si definisce la selettività
Q
S= P
QR
dove con QP si intende il numero di moli di prodotto. In questa definizione si nasconde un rischio,
però: ad esempio, se in un reattore si ha la seguente e
sola reazione
2 A → A2
ipotizzando di alimentare 1 mole e di avere conversione completa si avrà ½ mole di prodotto con
una selettività del 100%, mentre secondo questa formula sarebbe solo del 50%, quindi nel calcolo è
necessario tenere conto della stechiometria.
Ultimo importante parametro è la resa
Q
Y = P =X∗S
QF
linearmente dipendente dalle due precedenti.

Quando si parla di X, è importante specificare a quale reagente sia riferita, per esempio nella
parziale ossidazione di etilene a vinilacetato
1
C H 2=C H 2+C H 3 COOH + O 2=C H 2 COOH + H 2 O
2
si manda ossigeno in difetto mantenersi sotto il limite inferiore di esplodibilità. In queste condizioni
X O 80 % ; X C 30 % . Inoltre, diventa fondamentale un riciclo di etilene (reagente molto costoso)
2

che implica una scelta oculata dell’ossidante: infatti, se si usa aria si avrà un enorme quantità di
azoto in uscita dal reattore, tale da necessitare una portata di spurgo ricca in etilene (come si vede
dalla Fig 1.4), talmente tanto grande da rendere economicamente vantaggioso l’uso di ossigeno
puro.
F, xf Prodotti
R S

P, xp

Figura 1.4 – Schema di Impianto con spurgo

Effettuando un bilancio di massa sul componente inerte si ottiene X f F =X p P , dove con F si intende
l’alimentazione e P lo spurgo, che implica che affinché lo spurgo sia vantaggioso è importante che
xF sia molto piccolo per mantenere basso P (xP è fissato
dall’efficienza delle apparecchiature), e quindi sarebbe conveniente solo per X 80 %
Figura 1.5 – Grafico Concentrazione/tempo di un reattore batch

Si immagini una reazione in un reattore batch, il cui andamento nel tempo della concentrazione del
reagente A è rappresentato nella figura 1.5. Dopo il tempo tf si può interrompere il processo, in
quanto la velocità della reazione, rappresentata dalla pendenza della curva, è diventata
eccessivamente bassa. La conversione si può esprimere quantitativamente, se consideriamo V del
reattore costante, come
Q C A −C A
X= R= 0 f

QF CA 0

Se invece si parla di un reattore in continuo, si usa un’equazione analoga


C A −C A
X= ¿ out

CA ¿

dove C A e C A rappresentano, rispettivamente, le concertazioni in entrate ed uscita al reattore.


¿ out

Figura 1.6 – Schema di reazioni competitive in parallelo (a) e in serie (b).

I meccanismi di competizione tra reazioni all’interno di un reattore sono spesso molto


complessi, per semplicità, dal punto di vista della selettività, li si studia dividendoli in
combinazioni (anche complesse) di due modelli estremi (Fig. 1.6):
- la competizione in parallelo, ovvero due reazioni che consumano la stessa molecola
- la competizione in serie, dove il reagente forma un prodotto che è instabile nell’ambiente di
reazione e si trova convertito in un sottoprodotto.

k1
Nel caso di una reazione parallela, S= e quindi la selettività non dipenda dalla
k 1+ k 2
concentrazione di reagente ma dalla temperatura del sistema (che influenza le costanti di equilibrio).
Nelle figure di merito finora citate manca un importante parametro, il tempo. Per
ovviare a questo si considera la
Kg di prodotto
resa spaziotemporale =
L di catalizzatore∗ore
che serve per determinare quanto sia efficiente in termini volumetrici il catalizzatore
e quindi quanto può essere compatta la sezione di reazione dell’impianto. Nel caso di catalisi
eterogenea, ove il fattore determinante diventa la superficie del catalizzatore, la resa
spaziotemporale è calcolata rispetto alla superficie dello stesso.

Cinetica di reazione

Uno dei più importanti parametri da controllare in un processo è la velocità di reazione, che
solitamente è funzione piuttosto complessa della temperatura e della concentrazione dei reagenti.
Nel caso di reazioni elementari omogenee (ovvero anche per le eterogenee, con adeguati
aggiustamenti) si può semplificare questa dipendenza tramite una legge empirica in cui
1 dN
ra = =k C A =f ( T )∗f (c )
V dt
dove naturalmente C A, specialmente nel caso di reagenti gassosi, è funzione non solo del numero di
moli presenti, ma anche della P, mentre k è funzione della T.
Un modello empirico per l’andamento di k(T) è dato dalla legge sperimentale di Arrhenius
−Ea
k =K 0 exp( )RT
dove Ea è l’energia di attivazione, che si misura sperimentalmente in un reattore in cui la reazione
si lascia procedere per un t sufficientemente piccolo da poter approssimare cA≈cost, ripetendo
l’esperimento a diverse T e rappresentando ln k contro T −1, in cui la pendenza da proprio Ea (Fig.
−E a
2.1). Questo è un risultato derivante da un approccio statistico, in cui exp( )
RT
è la frazione di
particelle in un gas con E ≥ Ea (secondo la distribuzione di Maxwell-Boltzmann), ovvero le
particelle con energia sufficiente a compiere lo step reattivo.
Figura 2.1 – Grafico ln k vs. 1/T di reazioni a Ea diversa
Come si può vedere nella Fig. 2.1, se si lavora a T relativamente basse (a destra nel
grafico) le reazioni con Ea più bassa sono più veloci, ma muovendosi a sinistra (ovvero a T
maggiori) la k delle reazioni a Ea più alta cresce più rapidamente. Quindi,
maggiore è Ea, più la velocità della reazione sarà sensibile alla T (e dunque controllabile). Questo
aspetto è fondamentale qualora si abbia a che fare
con una reazione esotermica competitiva con Ea molto alta, dove la velocità di reazione dipende
fortemente dalla T e quindi diventa fondamentale la gestione del calore di reazione. Infatti, un
leggero aumento di T porterebbe ad accelerazione della reazione esotermica, che a sua volta
incrementerebbe la T del sistema e così via. Si rischia, pertanto, la perdita di controllo del reattore
che potrebbe portare, in tempi brevissimi, all’esplosione dello stesso

Per una reazione generica A+ B →C si è ipotizzato il seguente meccanismo di reazione


A+ B ↔ A B¿ → C

Dove si suppone che i reagenti diano luogo ad un intermedio, detto Complesso Attivato, con il
quale sono in equilibrio. La specie AB* è molto reattiva, al punto che risulta essere impossibile
poterne misurare la sua concentrazione, e, dunque, dimostrarne l’esistenza. Lo stadio cineticamente
determinante sarà proprio la formazione del prodotto C. La costante cinetica di tale stadio (valida in
k T
generale per qualsiasi complesso attivato) si esprime come k 3= b , con k b = costante di
h
Boltzmann e h = costante di Plank. Se il secondo stadio è quello cineticamente determinante, allora
il primo si troverà in condizioni di equilibrio dinamico e pertanto la velocità di formazione di A B¿ e
velocità della sua reazione inversa dovranno eguagliarsi. Quindi, indicando con k 1 la costante della
reazione diretta e con k 2 quella inversa, si avrà che
k 1 C A C B =k 2 C A B
¿
¿
E pertanto possiamo indicare con K eq la costante di equilibro per tale reazione, pari a
C k −∆ G¿
K ¿ eq= A B = 1 =exp ( )
¿

(1)
C A CB k 2 RT
Per lo stadio cineticamente determinante, avremo che
k bT
r A B =k 3 C A B =
¿ ¿ C A B (2)
¿

h
Infine, combinando (1) e (2) si ottiene
kb T −∆ G ¿
rAB =
¿
h (
C A C B exp
RT )
Ricordando che, dalla termodinamica, ΔG¿ =Δ H ¿−TΔ S¿ , otterremo dalla precedente:
k T ∆ S¿ −∆ H ¿
r A B = b exp
¿
h ( ) (
R
exp
RT )
C A CB
Confrontando questo risultato con l’espressione ottenuta dal modello di Arrhenius
−Ea
r =K 0 exp( ) RT
C
k bT ∆ S¿
Si ottiene che K =
¿
0
h
exp( )R
¿
e ∆ H =E a−nRT con n (molecolarità) ≤ 2, approssimabile a
∆ H ≅ Ea

CATALISI

La catalisi è un fenomeno attraverso il quale la velocità di una reazione chimica subisce delle
variazioni per
l'intervento di una sostanza (o una miscela di sostanze), detta catalizzatore, che non viene
consumata dal
procedere della reazione stessa, e non ne altera la termodinamica del processo globale. Ricordando
−Ea
l’espressione della velocitò secondo Arrhenius r =K 0 exp ( )
RT
C, il catalizzatore interviene
diminuendo l’ Ea , ma mantenendo costante il ∆H di reazione.
La velocità di disattivazione del catalizzatore deve essere compatibile con gli obbiettivi economici.
In particolare, la vita del catalizzatore dipende da condizioni che non possono essere controllate,
quali la reattività dei reagenti e il tempo impiegato durante la catalisi. Poiché quello che importa è la
resa del processo e non tanto la vita del catalizzatore, è necessario che il tipo di reattore sia
selezionato per ottimizzare la rigenerazione del catalizzatore.
Nel caso di cracking catalitico, la vita media del catalizzatore è minore di un secondo, pertanto si
utilizza un reattore a letto fluidizzato che permette una rigenerazione in continuo.
Figura 3.1 - Schema delle tipologie di catalisi.
Circa l’ 80-90% dei prodotti nell’ industria chimica viene sintetizzato tramite processi
catalitici; abbiamo due tipi di catalisi (Fig. 3.1):
- omogenea, quando il catalizzatore è nella stessa fase dei reagenti
- eterogenea, quando reagenti e catalizzatori sono in fasi diverse
Si consideri, ad esempio:
C H 3−CH =C H 2+ H 2+CO →C H 3 −C H 2−C H 2−CH =O
Che utilizza un catalizzatore del tipo MeXnLm a base di Rodio e metalli transizionali.
Questo è un esempio di catalisi omogenea: infatti, il catalizzatore solido si scioglie nella fase liquida
del reagente (tale perché lavoriamo a pressioni elevate).
In processi di questo tipo è, inoltre, molto importante anche la velocità per
unità di massa con cui i reagenti passano dalla fase gas alla fase liquida e pertanto è fondamentale
avere velocità di mescolamento opportune.
Nella catalisi omogena si riesce a sfruttare l’intero volume di catalizzatore, mentre quella
eterogenea è un fenomeno superficiale e quindi interviene solo la superficie esterna delle particelle
solide. Inoltre la catalisi omogenea è più selettiva perché nella catalisi eterogenea non tutti i siti
attivi si trovano sulla superficie.
D’altra parte, nella catalisi eterogenea, si può lavorare ad alte temperature ed è sicuramente
necessaria quando i reagenti sono una miscela multifasica, come nel caso delle reazioni di
raffineria. Dal punto di vista degli scambi di calore invece è meglio la catalisi omogenea perché le
reazioni esotermiche possono essere meglio controllate attraverso fenomeni come l’evaporazione,
che consentono il controllo della temperatura tramite il calore latente. Un pregio che invece ha la
catalisi eterogena è la semplicità con cui si possono separare reagenti e prodotti.

Risulta fondamentale il confronto critico tra le peculiarità di un catalizzatore


omogeneo e un eterogeneo; è in larga parte un confronto che può essere dedotto dalle
condizioni al contorno che permettono di differenziare un catalizzatore omogeneo da
un eterogeneo.
La prima considerazione è sul livello di utilizzazione del sito attivo. In un catalizzatore omogeneo
(come i complessi metallorganici e i catalizzatori acidi-base) è possibile intervenire a livello
molecolare per regolare finemente l’attività e la selettività, al contrario di quanto non si possa fare
con un catalizzatore eterogeneo. Nel caso di catalizzatore omogeneo abbiamo un reattore in cui in
una fase liquida è disciolto a livello molecolare il complesso di coordinazione, mentre nel caso
eterogeneo ho un reattore in cui viene disperso sotto forma di particelle il catalizzatore supportato.
Il catalizzatore supportato si realizza immergendo un supporto in una soluzione contenente un sale
del metallo da depositare. Si lascia all’interno di questa soluzione per un certo tempo per poi
estrarlo e far evaporare il solvente; in questo modo si ottengono una dispersione di “isole” di atomi
all’interno dei pori.
Quindi confrontando dal punto di vista dello sfruttamento del metallo attivo un
catalizzatore eterogeneo con un omogeneo, è facile comprendere come a parità di quantità di
metallo attivo, nello scenario di catalisi omogenea, tutta la superficie lavori, mentre in quello di
catalisi eterogenea soltanto la superficie esposta.

Un’altra considerazione è che, nel caso della catalisi eterogenea, ci sarà inevitabilmente un
problema di rifornimento di massa del reagente sul sito attivo.
Invece, nella catalisi omogenea, reagenti, prodotti e catalizzatore sono dispersi a
livello molecolare, e ciò implica un’assenza di gradiente e quindi assenza di controllo di massa. È
interessante, comunque, studiare il caso di catalisi omogena di reazioni che coinvolgono reagenti
gassosi disciolti in fasi liquide: consideriamo una reazione con catalisi omogena del tipo
AkB

Analizzando nello specifico l’interfaccia gas/liquido, avremo una bolla gassosa a contatto con una
fase liquida in cui è disperso il catalizzatore, il cui profilo di concentrazione (approssimando la
curvatura della bolla ad un’interfaccia piana) è quello riportato in Fig. 3.2.

Figura 3.2 – Profilo di concentrazione in un’interfaccia solido-liquido


La bolla gassosa spesso è perfettamente miscelata, pertanto posso considerare un profilo di
concentrazione piatto fino all’interfaccia. Conoscendo la P e T del reattore posso conoscere la
concentrazione molare del reagente in fase gassosa attraverso la legge dei gas ideali PV =nRT .
Trattando concentrazioni molari, ovviamente vi sarà una discontinuità in corrispondenza della
interfaccia, causata dalla solubilità del gas nel liquido. Se, come in questo caso, il gas risulta essere
poco solubile e il catalizzatore molto attivo, allora vi sarà una scarsa forza spingente alla diffusione
in fase liquida (proporzionale a C A ,liq −O) e tutto il reagente disciolto verrà consumato in un
¿

sottilissimo strato adiacente all’interfaccia. Dunque, la maggior parte del catalizzatore, disciolto nel
rimanente volume di solvente, rimarrà inutilizzato in quanto non risulta possibile rifornirlo
adeguatamente delle molecole di reagente. Ovviamente, in un reattore di questo tipo basterebbe
progettare un film liquido-gas per ottimizzare l’utilizzo del catalizzatore.
Terza considerazione:
Un’ultima considerazione riguarda l’intervallo di temperatura operativa a cui possiamo lavorare. I
catalizzatori eterogenei sono molto più flessibili poiché non è necessaria la presenza di una fase
liquida per farli lavorare, anzi nella maggior parte delle applicazioni sono utilizzati per interfacce
gas-solido. Il range di temperatura arriva fino a 400/500°C con punte di 600°C in alcuni casi, anche
se ovviamente il raggiungimento di temperature troppo alte è inutile perché il processo diventerebbe
attivato termicamente, rendendo superfluo l’uso del catalizzatore. I catalizzatori omogenei, invece,
devono essere necessariamente utilizzati in fase liquida, perché si tratta sempre di composti dotati di
bassa volatilità. Ciò si traduce in temperature di utilizzo più basse per fare in modo di mantenere
condensata la fase liquida; è possibile, ovviamente, aumentare la pressione per ampliare l’intervallo
di temperature in cui la fase rimane condensata, ma, chiaramente, l’aumento di pressione comporta
dei costi sia energetici che per l’inspessimento delle pareti delle apparecchiature.
La formula generica per un catalizzatore omogeneo organometallico è MeXnLn dove, Me è un
metallo di transizione e Xn e Ln sono degli opportuni leganti. Modificando la natura di questi
componenti si possono ottenere catalizzatori con attività e selettività molto diversi fra loro che
cambia significativamente.
Non è possibile stabilire a priori se sia più conveniente la catalisi omogenea piuttosto che
l’eterogenea, ma bisogna analizzare caso per caso ogni singolo processo.

Catalisi eterogenea

Figura 3.3 – Schema del trasporto di massa in un reattore trickle-bed


La Fig. 3.3 è la descrizione schematica del trasferimento di massa nella situazione più complessa
che si può realizzare utilizzando un catalizzatore eterogeneo; corrisponde ai reattori industriali
trickle-bed, cioè un reattore a letto fisso in cui il catalizzatore costituisce la fase solida e i reagenti
sono presenti sia in fase liquida che gassosa.
Un esempio può essere quello dell’idrogenazione catalitica del cicloesene, fatta mediante
catalizzatori eterogenei supportati

In questo caso si avranno cicloesene liquido, idrogeno gassoso e catalizzatore


eterogeneo supportato solido.
Pensiamo, in generale, ad una reazione elementare che avvenga mediante l’uso di un catalizzatore
eterogeneo.
AkB

Stiamo facendo riferimento a un catalizzatore eterogeneo poroso così da massimizzare la superficie
di interfaccia per unità di massa del catalizzatore e aumentare la resa spaziotemporale del processo.
Anche nel caso di una reazione così semplice, bisogna ricordare che la reazione
avverrà come la somma dei seguenti stadi:
1. Trasporto di massa esterno, ovvero diffusione dei reagenti dal bulk della fase fluida alla
superficie esterna del catalizzatore;
2. Trasporto di massa interno, ovvero diffusione molecolare dei reagenti all’interno della
struttura porosa del catalizzatore, cioè il trasporto del reagente dall’ingresso al poro fino al
sito catalitico interno;
3. Adsorbimento dei reagenti sulla superficie del catalizzatore, che serve per modificare il
cammino di reazione. Da Abulk si passerà ad Aads , che ha una struttura elettronica
completamente diversa rispetto al precendente;
4. Reazione chimica superficiale, in cui Aads si trasforma in Bads;
5. Desorbimento dei prodotti dalla superficie del catalizzatore;
6. Trasporto di massa interno II, ovvero la diffusione molecolare dei prodotti dall’interno della
struttura porosa del catalizzatore alla superficie esterna;
7. Trasporto di massa esterno II, ovvero la diffusione dei prodotti dalla superficie esterna del
catalizzatore al bulk della fase fluida.

Un caso modello, come già detto, può essere quello dell’idrogenazione del cicloesene. Sulla
superficie del catalizzatore dovranno essere adsorbiti sia il cicloesene che l’idrogeno, ma
quest’ultimo è in fase gas, oltre agli stadi precedenti, esso dovrà passare dalle bolle gassose alla fase
liquida, dove avrà una solubilità abbastanza bassa. Il profilo presente nella Fig. 3.3 a) fa capire
come, in un sistema trickle-bed, si abbia un problema di trasporto di massa sia all’interfaccia gas-
liquido sia all’interfaccia fase fluida-catalizzatore. Il problema del trasporto di massa tra fase
gassosa e liquida è indipendente dalla presenza di un catalizzatore omogeneo o eterogeneo.
Le due tipologie di trasporto di massa (interno ed esterno) della catalisi eterogenea differiscono
perché avvengono con meccanismi differenti; all’esterno si ha una convezione forzata, all’interno
ho pura diffusione molecolare per via del piccolo diametro dei pori.
Quest’ultima è complicata dal fatto che i liberi cammini medi di diffusione delle specie sono
paragonabili ai diametri dei pori, perciò alcune delle direzioni di moto sono impedite, con il
risultato finale che il processo di diffusione risulta essere più lento. Il coefficiente di diffusione
all’interno dei pori risulterà quindi essere da uno a due ordini di grandezza più piccolo rispetto al
coefficiente di diffusione del bulk.

Figura 3.4 – Tre differenti rappresentazioni dello strato limite di un fluido viscoso su una
superficie piana
Esaminiamo ora lo stadio di trasporto esterno.
In prima specie, si consideri un catalizzatore eterogeneo massiccio, cioè privo di pori e
concentriamo l’attenzione sul profilo di concentrazione del reagente A.
Sappiamo che quando un flusso inconfinato di un fluido viscoso impatta su una
parete di grandezza infinita (Fig. 3.4) vi sarà una zona di fluido a contatto diretto con la parete che
sarà rallentato; d’altra parte, data la viscosità del fluido, un gradiente di
quantità di moto si propagherà nella fase fluida e farà sì che, progressivamente
mentre mi muovo sulla lamina, avrò delle porzioni sempre più estese di filetti
caratterizzati da moto rallentato. Immaginando di scegliere come discriminante il luogo dei punti
nello spazio in cui la velocità approssima al 95% la velocità del fluido inconfinato, si ottiene così la
generazione di un film adiacente alla parete.
Il fatto che il moto avvenga con dei filetti che si mantengono paralleli, o che si
inneschino processi di rotazione che portano alla formazione di turbini, dipende
essenzialmente da due grandezze: viscosità del mezzo e velocità del fluido. Ci sarà,
quindi, una continua competizione tra le forze inerziali che spingono il moto e le forze di
smorzamento viscoso che tendono ad attenuare queste oscillazioni; il rapporto fra queste forze è
dato dal numero di Reynolds:
ρvD azione delle forze di inerzia
ℜ= =
μ smorzamenti viscosi
Se la velocità è molto elevata, fin quando il film è abbastanza sottile gli smorzamenti
viscosi riescono ad agire, si creerà un film in cui a moto turbolento (Re > 3000 per tubature).
La descrizione del film si può generalizzare e quindi estendere dal trasporto di
quantità di moto ai casi di trasporto di energia e materia.
La reazione considerata avviene sulla superficie e quindi servirà legare la concentrazione al bulk a
quella di reagente effettiva che arriva alla superficie del
catalizzatore, ovvero servirà un metodo per gestire il profilo di concentrazione.
Il trasporto di massa esterno avviene in convezione forzata, condizione ottimale poiché implica
un’elevata velocità di trasporto di massa. Se facessi una reazione con catalisi eterogenea senza
agitare il reattore, il trasporto avverrebbe con convezione naturale per via del gradiente di densità;
infatti, ammesso che si abbia un buon catalizzatore, questo consuma velocemente reagente e crea un
gradiente di densità, innescando così la convezione naturale.
Essere in convezione forzata significa essere in regime turbolento, il che implica la
non esistenza di soluzioni analitiche o numeriche delle equazioni di variazione.
Per ovviare a questo problema si usa un altro approccio: il profilo di concentrazione media tenderà,
a distanze sufficientemente grandi rispetto, al valore di bulk, perché lì l’entità dei vortici sarà tale da
azzerare istantaneamente il gradiente di
concentrazione e, pertanto, le resistenze al trasporto dovranno essere concentrate in un film
prossimo all’interfaccia. Non si è in grado di conoscerlo l’ampiezza del film reale, ma si può
costruire un profilo ideale (Fig. 3.5) in cui:
- Nel bulk della fase fluida si ha un profilo piatto (fase fluida perfettamente miscelata al
catalizzatore);
- Tutte le resistenze al trasporto di materia sono concentrate in un film con spessore δ;
- Dentro il film il trasporto avviene con meccanismo diffusivo, anziché per convezione
forzata.
Figura 3.5 – Schema idealizzato della concentrazione media CA all’interfaccia solido-liquido
Lo spessore è considerato funzione del regime idrodinamico, così da ottenere un modello che fitti
bene gli andamenti di velocità che osservo nel mondo reale. Ad esempio, aumentando la velocità, δ
rimpicciolisce, così come ci si aspetta che succeda nel modello reale.
In caso di puro controllo cinetico di trasporto di massa esterno, la concentrazione C SA è pari a zero,
ovvero il catalizzatore ha un’attività tale da consumare istantaneamente il reagente inviato,
indipendentemente dalla velocità con cui raggiunge la superficie del catalizzatore.
Poiché la C SA in regime di stato stazionario risulta costante, ciò, fisicamente, significa che la velocità
di consumo di reagente (calcolabile come r =k s C SA) e il flusso di materia che arriva sulla superficie
esterna devono uguagliarsi.
Applicando la legge di Fick al profilo idealizzato si ottiene
C bulk S
−1 dN d CA A −C A
J= =− D =−D
S dt dx δ
Pertanto, a meno del segno, il cui significato è quello di indicare la direzione del trasporto di
materia, si avrà che:
D
k s C SA = (C bulk S
A −C A )
δ
D
dove il rapporto k m= è il coefficiente di trasporto di massa.
δ
Questo coefficiente è calcolabile mediante l’uso di correlazioni adimensionali, come il numero di
Sherwood
k m l velocità deltrasporto dimassa convettivo
Sh= =
D velocità del trasporto di massa diffusivo
che a sua volta è ricavabile da relazioni adimensionali quali
1
Flat Plate ( laminare ) : Sh=0.66 R e 0.5 S c 3
1
Flat Plate ( turbolento ) : Sh=0.036 R e 0.8 S c 3
ν
dove il numero di Schmidt è Sc= , con ν viscosità cinematica.
D
Dalla relazione k s C A =k m (C A −C SA ) è possibile determinare la concentrazione in superficie in
S bulk

funzione di quella di bulk


S S bulk S km bulk S 1 bulk
k s C A + k m C A =k m C A →C A= C → CA= C
k m+ k s A ks A
1+
km

Se ci si trova in una situazione in cui il catalizzatore è non molto attivo, quindi con
modesta costante cinetica superficiale k s, e il reattore è molto agitato, quindi con
ks
elevato coefficiente di trasporto di massa k m, allora il rapporto sarà un valore trascurabile
km
rispetto all’unità. Pertanto, il profilo di concentrazione sarà piatto fino alla superficie esterna del
catalizzatore C SA ≅ C bulk
A .
Se invece il catalizzatore ha una k s elevatissima, in questo caso il denominatore sarà molto
maggiore rispetto all’unità e quindi la concentrazione superficiale tende ad annullarsi (C SA →0). In
questo caso si avrà una condizione di controllo cinetico per puro trasporto di massa esterno, con un
profilo di concentrazione come quello mostrato in Fig. 3.6.

Figura 3.6 – Profilo di concentrazione di un sistema con controllo cinetico per puro trasporto di
masse esterno
In una situazione di questo tipo l’equazione della velocità della reazione vale
−1 dN
=k m C bulk
A
S dt
L’espressione è del tutto simile a quella che si ha nella reazione in catalisi omogenea.
Siccome siamo in un sistema che lavora in stato pseudo-stazionario (ovvero senza accumulo), vale
che la velocità di reazione è esattamente la velocità con cui si rifornisce il catalizzatore.
Se facessi un fitting di dati sperimentali potrebbe sembrare di avere a che fare con un
processo di catalisi omogenea, perché la velocità a temperatura fissata e regime
idrodinamico fissato è proporzionale alla concentrazione di bulk e segue quindi una
cinetica del primo ordine, che è esattamente il risultato che si ottiene se la reazione
avvenisse in fase gassosa e in modo omogeneo.
Tuttavia la costante di proporzionalità, in questo caso, non è una
costante cinetica, ma un coefficiente di trasporto di massa, e ciò comporta due particolari
differenze:
1. Il coefficiente di trasporto di massa varia al variare del regime idrodinamico, cosa che non
accadrebbe se fosse una vera costante cinetica
2. Il coefficiente di trasporto di massa ha una dipendenza più debole dalla temperatura rispetto ad
una costante cinetica.
Se mi trovo in una condizione di puro controllo cinetico di trasporto di massa esterno
per aumentare la velocità posso:
- Aumentare il regime idrodinamico;
- Aumentare la concentrazione di bulk.
La concentrazione di bulk posso aumentarla fino a dei valori limite che mi sono dati
dalla saturazione nel caso di liquidi e dalla pressione di esercizio del reattore nel caso
di fasi gas.

Figura 3.7 – Profili di concentrazione in un catalizzatore poroso


Per la catalisi eterogenea generalmente si fa riferimento al modello del poro cilindrico, anche se
chiaramente i canali non sono cilindrici. La situazione all’esterno del poro non varia:
- se si è in controllo cinetico per trasporto di massa puro, la concentrazione del reagente si
annulla sulla superficie del catalizzatore, senza penetrare nel poro.
- se il trasporto esterno è molto efficiente, il profilo di concentrazione all’esterno del
catalizzatore è piatto.
Nel secondo caso, all’interno del poro avvengono due fenomeni: il consumo del reagente e il
trasporto di massa tramite meccanismo diffusivo, quindi vi sarà un profilo non piatto di C A
all’interno del poro. Nell’analisi matematica si considera il
fondo del poro senza siti attivi (o comunque con concentrazione di siti trascurabile
rispetto alle pareti) e questo significa che la tangente del profilo di C A alla fine del poro è
dCA
orizzontale, ovvero ¿ =0 (Fig. 3.7).
dx x= L
La velocità della reazione è proporzionale alla concentrazione sui siti attivi, quindi il profilo di
velocità sarà analogo a quello di C A. In particolare, se la velocità di consumo del reagente è
superiore a quella di diffusione, se ne avrà la scomparsa ben
prima di raggiungere la fine del poro, quindi non si utilizzerà la maggior parte del catalizzatore
presente nel reattore. Qualitativamente, ciò avviene se k è alta, D è bassa e L è maggiore della
lunghezza di diffusione del reagente. Questi parametri si combinano nell’efficienza del
catalizzatore, calcolata come
r osservato
η= massimo
r resistenza altrasporto=0
dove con r si intende la velocità di reazione. Nella migliore delle ipotesi, se non si ha resistenza al
trasporto e il gradiente è nullo, η=1.
Nel calcolo dell’efficienze, si può usare la definizione superficiale di velocità di reazione (
−1 dN −1 dN
=k s C A) o quella volumetrica ( =k C A), ricordando che la
S dt V dt
dN
velocità di reazione non dipende dalla definizione
dt
−dN k
=¿ Sk s C A =Vk C A → 2 πrL k s C A=π r 2 Lk C A →k =2 s
dt r
Se si suddivide il poro in sufficientemente piccole porzioni da poter essere considerate idealmente
infinitesimi di lunghezza dx, si può calcolare l’efficienza come il rapporto tra l’integrale esteso a L
dN
delle =−Sk s C A ai diversi dx (ovvero, la velocità totale di consumo) e la velocità a
dt
C A=cost=C bulk
A (ovvero la concentrazione nominale all’interno del reattore)
L

∫ ( k s 2 πr C A ) dx Ć A
η= 0 bulk
=
k s 2 πrL C A C bulk
A

dove con Ć A si intende la concentrazione media all’interno del poro (


∫ C A dx ).
0
Ć A=
L
Quindi η è funzione del profilo di concentrazione all’interno del poro. Se η è eccessivamente
piccolo, la produttività è molto inferiore a quella teorica, e per risolvere il problema basta macinare
il catalizzatore (riducendo il diametro dei pellet e quindi la lunghezza media dei pori al loro
interno). Ovviamente, vi è un limite a quanto è possibile ridurre in dimensioni il catalizzatore, in
quanto le perdite di carico incrementano riducendo il diametro e, inoltre, nel caso di reattori
a letto fluidizzato si incrementerebbe notevolmente la quantità di catalizzatore trascinato e perduto.

Figura 3.8 – Bilancio di materia in un poro a geometria cilindrica


Per calcolare il profilo di concentrazioni è necessario effettuare un bilancio di massa tra x e x+Δx
(Fig. 3.8)
2 dCA 2 d CA
I =U +G →−π r D ¿x =−π r D ¿ + k C 2 πr ∆ x →
dx dx x+∆ x s A
dCA d CA


( dx
¿ x+ ∆ x − ¿
dx x 2k s C A
=
)
lim ❑
d2C A k
= CA→
∆x r D x→ 0 d x2 D

→ C A = A exp ( √ kd L Lx )+ B exp(− √ dk L Lx )
k
dove il gruppo adimensionale
d √
L=mL è detto modulo di Thiele, un numero che comprende in sé
tutte le variabili fondamentali del problema.
Figura 3.9 - Distribuzione e concentrazione media del reagente in un poro del catalizzatore in
funzione del parametro mL

Dividendo la soluzione per la costante C bulkA si ottiene:

CA k x k x
CAbulk (√
= A ' exp
d L) (√
L +B ' exp − )
L , un’equazione adimensionale che dà l’andamento della
d L
concentrazione all’interno del poro (Fig. 3.9). Per piccoli valori del modulo di Thiele si hanno alte
efficienze, altrimenti si ha una più rapida diminuzione di concentrazione all’interno del poro e di
conseguenza di η. Ad esempio, per mL=10 si ha la scomparsa del reagente a circa metà del poro
stesso, infatti un modulo di Thiele così alto significa che la lunghezza del poro è grande rispetto al
k
fattore

interno.
d
e quindi è possibile trovarsi in una situazione di controllo per trasferimento di massa

In Fig. 3.9, rigorosamente, il modulo di Thiele è quello generalizzato, che, nel caso di reazioni del
primo ordine irreversibili, corrisponde a quello calcolato precedentemente.
Per ottimizzare il catalizzatore, e quindi avere un’alta η, è dunque opportuno avere un mL basso. Il
modo più semplice per controllarlo è riducendo la grana del catalizzatore (poiché D e k sono
variabili con T, ma intervenire su quest’ultima cambierebbe tutto il processo), ovviamente sempre
cercando un compromesso tra η e le perdite di carico.
Consideriamo la reazione A → k B . Nel caso in cui lo stadio cineticamente determinante sia la
reazione chimica di superficie, il profilo di concentrazione all’interno del reattore è approssimabile
come piatto e la velocità della reazione osservata è data da r obs =k C bulk
A .
Nel caso in cui il processo sia controllato dal trasporto di massa esterno, l’espressione cinetica è
data invece da r obs =k m C bulk
A , dove km è il coefficiente di trasporto di massa. Formalmente, dunque,
l’espressione cinetica non cambia ma cambia il suo significato fisico.
Nel caso in cui la reazione sia controllata dal trasporto di massa interno, otteniamo
1
1 1 D 1
obs
r =
mL
bulk
k CA =
√L k
bulk 2 bulk
k C A = ( kD ) C A
L
Infine, se la reazione avviene in assenza di catalizzatore, caso di reazione omogenea non catalizzata,
−Ea 1
ottengo una retta la cui pendenza è pari a nel grafico logaritmo velocità di reazione vs (Fig.
R T
3.10).
Figura 3.10 – Possibili regimi cinetici in una reazione in fase gassosa che avviene su un
catalizzatore solido poroso.
A basse temperature lo stadio lento è la reazione chimica di superficie e la pendenza della retta è
−Ehetero
pari a A
, dove Ehetero
A è l’energia di attivazione della reazione che avviene eterogeneamente.
R
Aumentando la temperatura, si attiva il catalizzatore fino a cambiare l’espressione cinetica, ovvero
ad essere sotto controllo del trasporto interno di massa.
1
obs 1 2 bulk
r = ( kD ) C A
L
−E hetero
0
k =k exp ( RT )
A

−E A
D=D 0 exp ( )RT
Sostituendo le espressioni di D e k nella velocità osservata e trascurando l’energia di attivazione di
1
diffusione rispetto a quella eterogenea, ne segue che, essendo il termine k elevato a ,
2
hetero hetero
obs EA −E A
log r ∝− . Pertanto, la pendenza della retta è pari proprio a .
2R 2R
Aumentando ancora la temperatura il catalizzatore è talmente attivo da riuscire a consumare
interamente il reagente sulla superficie esterna, ovvero si è sotto controllo cinetico per trasporto di
−Ediff
massa esterno. In questo caso, la pendenza sarà A
, ma Ediff
A di diffusione è piccola (varia tra 4 e
R
Kcal
12 ), in quanto, in questo caso, non si devono rompere legami chimici
mol
Aumentando ancora la temperatura attiviamo termicamente la reazione, ovvero non c’è più bisogno
−Ehom
A
di catalizzatore e la reazione procede omogeneamente, con pendenza pari a
R

ADSORBIMENTO.
È importante distinguere l’adsorbimento dall’absorbimento:
- l’adsorbimento è un processo di superficie, ovvero è l’interazione tra i componenti di una
fase fluida e una interfaccia solida o liquida. In questo caso, il trasferimento di massa tra le
due fasi è limitato all’interfaccia.
- L’absorbimento è un processo di volume, vi sempre una interfaccia di separazione tra le due
fasi ma il trasporto di massa interessa l’intero volume.

In particolare, l’adsorbimento può essere diviso in due classi:


- adsorbimento fisico, simile al processo di condensazione e caratterizzato da legami deboli
(Van Der Waals).
- adsorbimento chimico, simile a una reazione chimica e caratterizzato da una forte energia di
legame, in quanto si creano dei legami chimici tra il substrato e le molecole adsorbite.

Nel caso di catalisi si parla di adsorbimento chimico perché servono forti interazioni per modificare
la distribuzione quanto-meccanica degli elettroni nei reagenti.
L’adsorbimento fisico è sempre esotermo perché è un processo sempre spontaneo.
∆ G=∆ H−T ∆ S <0
Siccome le molecole di reagenti passano da tre a due gradi di libertà una volta adsorbite (ovvero
aumenta il grado di ordine del sistema), quindi l’entropia decrescerà e allora l’entalpia associata
all’adsorbimento fisico deve essere negativa.
L’adsorbimento chimico generalmente è un processo esotermico, perchè le molecole di reagente,
una volta adsorbite, diminuiscono il loro grado di libertà. Tuttavia, siccome nel caso chimico vi è
anche un’alterazione della configurazione elettronica, è possibile che il processo risulti
complessivamente endotermico.

Figura 4.1 – Tabella riassuntiva delle caratteristiche dell’Adsorbimento chimico e fisico


L’adsorbimento è generalmente un processo reversibile, ovvero è possibile rigenerare i
catalizzatori. La reversibilità è facile nel caso dell’adsorbimento fisico, mentre nel caso
dell’adsorbimento chimico è specifica ed avviene solo attraverso una reazione chimica. Nel caso di
adsorbimento fisico il numero di molecole adsorbite diminuisce all’aumentare della temperatura e al
di sopra della temperatura critica (temperatura oltre la quale non posso avere condensazione per
variazione di pressione) non è più possibile.
L’adsorbimento chimico, invece, in quanto processo attivato, è favorito cineticamente ad alte
temperature.
Una tabella riassuntiva delle caratteristiche dei due tipi di adsorbimento è presente in Fig. 4.1.
Figura 4.2 – Grafico variazione di Entalpia adsorbita vs. Temperatura nel caso di adsorbimento di
H2 su Fe a P = 1 atm
Nel caso di adsorbimento di H2 su ferro a P=1atm (Fig. 4.2), si noti come, all’aumentare della
temperatura, diminuisca l’adsorbimento fisico ed entri in gioco un adsorbimento chimico
esotermico.
L’approccio classico per studiare i processi di adsorbimento è quello di ricavare sperimentalmente
le isoterme di assorbimento. Esse sono curve di equilibrio che vengono tracciate misurando il valore
dei reagenti assorbiti al variare della pressione di lavoro a temperatura costante. Sono stati fatti
molti studi sui fenomeni di assorbimento e principalmente ci si è concentrati sull’assorbimento
fisico, che fu il primo ad essere compreso, infatti spesso ci si riferisce ad esse come “isoterme
dell’assorbimento fisico”.
Invece di rappresentare l’andamento della quantità di reagente assorbito al variare della pressione di
lavoro, si sostituisce a Mads un parametro adimensionale chiamato grado di ricoprimento
V reale
Θ=
V ms
doveV reale è il volume effettivo del componente assorbito e V ms è il volume necessario per generare
uno strato di assorbimento, entrambi in condizioni standard. Ricordando che il volume molare
misurato in condizioni standard è uguale a 22,14 litri, scrivere il volume in condizioni standard
equivale a scrivere una massa molare. Q è uguale, quindi, al rapporto fra le moli assorbite sul
catalizzatore e le moli necessarie a formare uno strato.

Figura 4.3 – Curve di Langmuir


Tutti i fenomeni di assorbimento sono descritti da cinque tipi di curve (Fig. 4.3), chiamate curve di
Langmuir, trovate originariamente investigando sul fenomeno dell’adsorbimento fisico. Si trovò che
qualunque fosse il fenomeno di assorbimento che si stava studiando, poteva essere descritto da una
di queste curve.
P
I diagrammi presentati mostrano l’andamento di Q in funzione del rapporto , dove P è la
P0
pressione di lavoro e P0 è la pressione di saturazione, ovvero la tensione di vapore del componente
alla temperatura investigata. Ovviamente, furono costruiti applicando una temperatura sempre
inferiore a quella critica, oltre la quale ricordiamo non può avvenire la condensazione del reagente e
non può esistere l’assorbimento fisico.
La prima di queste curve deriva da una legge matematica che rispetta i seguenti vincoli fisici
- si può formare solo un singolo monostrato di molecole adsorbite sul catalizzatore
- il calore generato dall’assorbimento della molecola sul catalizzatore è indipendente dal
grado di ricoprimento dello stesso. In pratica, quando una molecola viene assorbita sul
catalizzatore, la quantità di calore generata è la stessa qualunque sia il numero di molecole
già assorbite sul catalizzatore.
Successivamente si capì che la forma di questa curva, nonostante sia stata trovata facendo studi
sull’assorbimento fisico, poteva essere associata ad un assorbimento chimico. Infatti,
nell’assorbimento chimico al massimo può essere formato un monostrato, poichè le molecole degli
strati successivi non possono avere forti interazioni quantomeccaniche con il catalizzatore a causa
della loro distanza.
Per quanto riguarda la seconda condizione, abbastanza forte, si associa all’adsorbimento chimico se
si pensa che i siti attivi del catalizzatore già occupati dalle molecole, a causa della forte interazione
di legame tipica di questo adsorbimento, sono praticamente “avvelenati” dal reagente, e quindi non
hanno più alcuna influenza una volta che sono stati occupati. Si può quindi accettare l’ipotesi di
Langmuir secondo cui tutti i siti si equivalgono dal punto di vista energetico, ovvero che abbiano
tutti la stessa entalpia di assorbimento.
Le altre quattro isoterme sono relative all’assorbimento fisico. In particolare la seconda e la terza si
riferiscono entrambe a catalizzatori senza pori e terminano entrambe con una divergenza del
parametro Q, poiché il reagente gassoso a contatto con il catalizzatore condensa massivamente.
Pertanto, il parametro Q scelto è più adatto alla descrizione dell’assorbimento chimico piuttosto che
di quello fisico, poiché nell’assorbimento chimico esso varia da 0 ad 1, mentre in quello fisico
ovviamente può raggiungere valori enormi (se si tratta di un adsorbimento multistrato).
Nella seconda curva si nota che a pressioni abbastanza basse, la probabilità che le
molecole occupino i siti attivi liberi è maggiore della probabilità che si dispongano in siti attivi già
occupati, e le molecole tendono quindi a formare un monostrato. Superato un certo valore critico
parte, invece, l’assorbimento multistrato.
La terza invece descrive la situazione in cui c’è la stessa probabilità che le molecole si dispongano
sui siti liberi o occupati, non c’è quindi la formazione di alcun monostrato neanche a bassa
pressione. La differenza fra la curva due e la curva tre dipende soltanto dalla natura delle molecole e
dei siti attivi coinvolti.
La curva 4 e 5 sono curve tipiche per l’assorbimento che avviene in catalizzatori porosi. Si nota che
raggiunto il valore della pressione di saturazione, Q non tende ad infinito come nelle curve 2 e 3,
ma tende ad un valore costante. Il fenomeno che avviene è chiamato “condensazione capillare”, in
quanto il valore che si legge a condensazione avvenuta, con buona approssimazione, è uguale al
volume di reagente che liquefà nei pori o negli interstizi del catalizzatore.
FENOMENO D’ISTERESI

Figura 4.4 – Fenomeno di isteresi su curve di Langmuir di Butano a 0 C e Azoto a – 195 C


Nel caso di catalizzatori porosi è importante il fenomeno dell’isteresi, ovvero la differenza esistente
fra la curva di assorbimento, che viene tracciata studiando l’andamento di Q all’aumentare della
pressione, e la curva di desorbimento, che segue il cammino opposto,
ovvero l’andamento di Q al diminuire della pressione.
Si può notare una importante differenza fra le due, ovvero che, durante il desorbimento, devo
applicare una pressione di esercizio più bassa rispetto a quella applicata durante l’assorbimento per
ottenere la stessa quantità di reagente assorbito. Questo è legato alla tensione superficiale del
liquido all’interno del poro.

Figura 4.5 – Schema di un sistema film liquido-aria


Supponiamo di avere un sistema liquido-aria, in cui un film di liquido è in contatto con aria
circostante. La tensione superficiale corrisponde ad un’energia contenuta nell’interfaccia, causata
dalle interazioni fra il liquido e l’aria che lo circonda. Il sistema tenderà a minimizzare tale energia
e quindi a ridurre il più possibile l’interfaccia. Per questo, se voglio spostare il fluido, ampliando
quindi l’interfaccia liquido-gas, devo applicare un lavoro
L=Fdx=2 γldx
dove g è la forza per unità di lunghezza applicata all’interfaccia e il fattore 2 compare poichè il
fluido è a contatto con l’aria da entrambi i lati.
La tensione superficiale che ho applicato per fare tale lavoro è calcolabile come
L
σ= =γ
2ldx
Per generare un’interfaccia devo quindi applicare un lavoro legato all’energia contenuta
nell’interfaccia: ne posso dedurre che la forza applicata è diretta nella direzione in cui l’area
superficiale è minimizzata.

Figura 4.6 – Schema di una goccia di liquido su una superficie solida a contatto con una fase gas.
In Fig. 4.6 vediamo la situazione di una goccia di liquido su una superficie solida entrambe a
contatto con una fase gas.
Nella prima figura possiamo vedere la rappresentazione di tre tensioni: la tensione fra solido e
liquido, fra liquido e vapore e fra solido e gas, tutte dirette lungo la direzione che minimizza
l’energia superficiale. L’angolo  formato fra slv e ssl rappresenta la cosiddetta “wettability” ovvero
la capacità del liquido di bagnare la superficie su cui è poggiato. Quando  = 0, il iquido è
perfettamente in grado di ricoprire la superficie, quando  = p, invece, il substrato solido è del tutto
idrofobico ed il contatto fra solido e liquido si riduce ad un unico punto.
Nei pori ciò si traduce nel fatto che la superficie del liquido non è più piatta, ma diventa curva a
causa delle tensioni esistenti alle interfacce, che minimizzano l’energia del sistema. Nei casi più
frequenti, l’adsorbente ha una buona interazione con il catalizzatore e tende quindi ad avvicinarsi ad
esso, dando luogo ad una interfaccia concava (Fig. 4.7).

Figura 4.7 - Interfaccia liquido-vapore all’interno di poro di un catalizzatore


A causa di queste tensioni la pressione di saturazione diminuisce rispetto al caso di interfaccia
piatta.
Possiamo scrivere quindi l’equazione
P −V m σ lv cos θ
P 0
=exp (RT r ) ( )
=exp
−k
r

che lega il rapporto fra la tensione di vapore effettiva (P) e la tensione di vapore calcolata con
interfaccia piana (P°) al raggio di curvatura dell’interfaccia. Tanto più piccolo è il raggio di
curvatura, ovvero tanto più l’interfaccia è concava, tanto più la pressione di condensazione sarà
minore di quella calcolata con interfaccia piana. Questo spiega perché durante il desorbimento devo
applicare una pressione minore rispetto a quella applicata durante l’assorbimento: infatti il raggio di
curvatura che si ha durante la condensazione è diverso da quello esistente durante l’evaporazione a
causa della forma dei pori.

Figura 4.8 – Poro a forma di bottiglia di inchiostro


Se si ha un poro a forma di bottiglia ad inchiostro (Fig. 4.9), infatti, la condensazione comincia al
fondo del poro, laddove l’area è più grande e le tensioni fra liquido e superficie sono trascurabili,
quindi l’interfaccia è quasi piana e la pressione di saturazione non differisce molto da quella per
superficie piatta. Invece l’evaporazione inizia quando il poro è già riempito e quindi laddove l’area
è più piccola e le tensioni fra liquido e solido sono maggiori, perciò la tensione di vapore del liquido
sarà minore e devo quindi applicare una pressione minore per ottenere il desorbimento della stessa
quantità di reagente.

Equazione di Langmuir
Consideriamo che la reazione chimica che avviene durante l’assorbimento chimico sia
A+ S → A−S
dove A è un reagente gassoso ed S è il sito catalitico.
Assumendo i seguenti postulati
- è possibile realizzare un solo monostrato
- tra tutte le molecole che collidono sulla superfice del solido, solo quelle incidenti su aree
non occupate possono essere adsorbite
- la probabilità di desorbimento di una molecola da un sito superficiale è indipendente dalle
condizioni dei siti adiacenti, ovvero che siano occupati o vuoti

si può esprimere la velocità di assorbimento mediante la seguente equazione


r ads =α ( 1−Θ ) μ
Dove α è la frazione di molecole incidenti assorbite, (1-Q) sono i siti liberi presenti sul catalizzatore
e μ è il numero di molecole incidenti sull’unità di superficie nell’unità di tempo.
Sulla base della teoria cinetica dei gas, ovvero assumendo che la fase gassosa sia ideale, possiamo
definire μ come
P
μ= 1
( 2 π k b mT ) 2
Dove m è la massa della molecola. Quindi la velocità di adsorbimento può essere scritta come

r ads =k ' ( 1−Θ ) P


Allo stesso modo possiamo scrivere la velocità di desorbimento come
r des =ν Θ
Dove ν è la velocità di desorbimento da una superfice totalmente ricoperta, che sulla base della
−q
teoria cinetica, può essere scritta come ν=Z exp ( )
k bT
con q calore liberato dall’adsorbimento di una molecola. Pertanto la velocitò di desorbimento
diventa
r des =k ' ' Θ
All’equilibrio, poichè la reazione ipotizzata è elementare, possiamo eguagliare le due espressioni
delle velocità e, dividendo per k’’, otteniamo
α
μ
K eq P ν
K eq ( 1−Θ ) P=Θ → Θ= →Θ=
1+ K eq P α
1+
ν

QuindiΘ dipende non solo dalla pressione applicata ma anche dalla costante di equilibrio
dell’assorbimento Keq. Maggiore è Keq, maggiore è il grado di ricoprimento del catalizzatore a parità
di pressione. L’espressione di Q è l’equazione di Langmuir, da cui deriva la curva.
Per valori di pressione tendenti a zero si può trascurare il termine PKeq al denominatore e si ottiene
Θ=K eq P , ovvero la tangente all’origine delle curve di Langmuir rappresenta la
proprio la costante Keq (Fig. 4.9).

Figura 4.10 – Grafico di equazioni di Langmuir a K eq diverse

Se si osservano le due curve di Langmuir in Fig. 4.10, si nota che l’isoterma arancione ha una
tangente all’origine con un valore più basso di quella della curva blu, il che si traduce in una Keq
più bassa. Dunque, fissata una P*, i gradi di ricoprimento per le due curve sono diversi e quindi sarà
differente la quantità di molecole adsorbite sulla superficie; in particolare nel caso della curva
arancione posso vedere che θ* è minore. Quindi, il valore della costante di adsorbimento all’
equilibrio è una misura dell’attività della superficie solida.
Si analizzi la reazione A+ B → k C . Lo stadio chiave del processo è la reazione tra i due reagenti
adsorbiti che danno luogo, con un processo irreversibile, alla formazione di un prodotto anch’esso
adsorbito. Per descrivere chiaramente il processo bisogna scrivere anche gli equilibri di
adsorbimento
A+ S k⃗1 , ḱ 2 A−S

B+S ⃗k 3 , ḱ 4 B−S

C+ S ⃗k 5 , ḱ 6 C−S

Avendo assunto come r.d.s la reazione chimica, tutti queste reazioni di adsorbimento sono all’
equilibrio e per descrivere il sistema possiamo utilizzare le ipotesi del modello di Langmuir. Si
ipotizzi, infine, che la velocita di reazione chimia possa essere scritta come r =k θ A θb , ovvero che le
interazioni A-A e B-B, una volta adsorbite, siano trascurabili o repulsive.
Infatti, si è visto sperimentalmente che quest’espressione non vale se le interazioni, per esempio tra
le particelle della specie A, sono attrattive. Per comprenderne il motivo, consideriamo una porzione
della superficie catalitica e schematizziamo i siti (Fig. 4.11).

Figura 4.11 – Rappresentazione schematica dell’adsorbimento su una superficie catalitica di


reagenti A e B
Nel caso in cui le interazioni sono trascurabili o repulsive, le specie A e B si disporranno in maniera
random. Invece, nel caso di interazioni A-A attrattive, le molecole di A non si disporranno
casualmente sulla superficie, ma tenderanno a raggrupparsi tra di loro, formando delle “isole”.
Quindi, A si adsorbirà preferenzialmente in un sito adiacente ad un sito occupato da A. La
formazione delle isole non è un fenomeno positivo, perché le uniche molecole della specie A che
possono reagire con quelle della specie B sono quelle lungo i confini.
Si osserva, di fatto, che, nel primo caso, la velocità è descrivibile come una costante cinetica per θA
e θB; nel secondo caso, invece, la velocità è minore, proprio
per la presenza delle “isole”, le cui molecole all’interno non possono reagire con le molecole della
specie B. Per descrivere la velocità in questo caso è necessario fare delle simulazioni di tipo
Montecarlo. È possibile osservare la velocità sperimentalmente ed inserire un coefficiente correttivo
empirico r =αk θ A θ B,
ma questo coefficiente a è funzione sia dei gradi di ricoprimento, sia della temperatura, quindi si
può utilizzare solamente se le condizioni non cambiano molto, altrimenti si avrebbe bisogno di un
algoritmo.
In ogni caso, si assumerà sempre di avere sempre una distribuzione casuale, cioè di avere sempre
delle interazioni trascurabili o repulsive.
A questo punto, per poter procedere, bisogna calcolare θ A e θB. Le tre reazioni di adsorbimento
sono all’ equilibrio e quindi la velocità del processo diretto deve essere pari alla velocità del
processo inverso
k 1 P A ( 1−θ A−θ B −θC )=k 2 θ A
k 1 PB ( 1−θ A −θB −θC )=k 2 θ B
k 1 PC ( 1−θ A −θ B−θC ) =k 2 θC
Dove P A , PB , PC sono le pressioni parziali all’interfaccia, corrispondenti alle pressioni al bulk,
poiché abbiamo assunto piatto il profilo di concentrazione.
Considerando che
θ A + θb +θC =∑ θ
k1 k k
=K A , 3 =K B , 5 =K C
k2 k4 k6
allora il set di equazione può essere scritto come
K A P A ( 1−∑ θ )=θ A (1)

{ K B P B ( 1−∑ θ ) =θ B (2)
K C PC ( 1−∑ θ ) =θC (3)
La velocità di reazione chimica, allora, sarà
2
r =k θ A θb =k K A K B P A P B ( 1−∑ θ ) ( 4)
Sommando membro a membro le equazioni (1), (2) e (3) si arriva a
θ A + θB +θ C =∑ θ= ∑ K i Pi ( 1−∑ θ )
( i= A , B , C )
Cambiando di segno e sommando 1 ad entrambi i membri, si ottiene
1−∑ θ=1− ∑ K i Pi ( 1−∑ θ )
( i= A , B ,C )
( 1−∑ θ ) (1+ ∑ K i P i =1
)
i= A ,B ,C

1
( 1−∑ θ ) =
( 1+ ∑
i= A , B , C
K i Pi ) (5)

Infine, sostituendo (5) in (4), si arriva a


1
r =k K A K B P A PB 2
1+ ∑ K i Pi
( i= A , B , C )
Dall’ espressione finale ottenuta della velocità di reazione risulta evidente che,
poiché i due reagenti sono competitivi nell’ occupazione dei siti attivi, non si può
eccedere con la concentrazione di uno dei due reagenti: infatti se cresce troppo PA
cresce la concentrazione superficiale di A a spese di quella di B.
In questi casi, aumentando la concentrazione di uno dei due reagenti, la cinetica
cresce sempre più lentamente finché può accadere che cominci a diminuire (Fig. 4.12).

Figura 4.12 – Andamento della velocità di una reazione A + B = C al variare della pressione
parziale del reagente A
Nei catalizzatori eterogenei, dove i siti attivi si trovano in corrispondenza dei difetti
reticolari, le interazioni tra adsorbato e sito attivo possono variare notevolmente.
Tuttavia è necessario considerare che:
- I siti con energia di interazione molto elevata non partecipano alla reazione poiché formano
legami troppo forti con l’ adsorbato;
- I siti con bassa energia di interazione non sono sufficientemente attivi da modificare la
struttura dell’ adsorbato.
In pratica, gli unici siti attivi che partecipano alla catalisi sono quelli con attività
intermedia.

Nel caso in cui il catalizzatore sia molto attivo, il coefficiente di diffusione molecolare è modesto e
il poro è molto lungo, allora all'interno dei pori nascerà un gradiente di concentrazione. Anche
curando l'idrodinamica esterna, in modo da mantenere piatto il profilo di concentrazione all'esterno,
la dimensione caratteristica del poro è così piccola da non sentire l'effetto della turbolenza. Le varie
sezioni di canale lavoreranno, quindi, ad una concentrazione di specie adsorbite che si vanno
riducendo lungo la direzione assiale. Non tutti i siti vedono la stessa quantità reagenti. Nel caso di
catalizzatori particolarmente molto attivi, con diametri della particella molto grandi, il profilo viene
addirittura costruito sotto l’ipotesi che al fondo del poro
non vi sia reazione chimica, ovvero che la quantità di molecole che vengono consumate sul fondo è
trascurabile rispetto alla quantità globale che scompare nelle pareti. In tal caso, oltre una certa
sezione il catalizzatore non lavora più, ovvero vi è uno spreco di materiale.
Per ovviare a questo problema si possono pensare diverse soluzioni:
- Abbassare la k di reazione, che non risulta conveniente perché rallentiamo globalmente la
produzione di prodotto, che è l’obbiettivo finale del reattore
- Alzare il coefficiente di diffusione nei pori, pensando di alzare la T. Però, al tempo stesso,
aumenterei la k di reazione, quindi il modulo di Thiele risulterebbe pressochè costante
- Diminuire la lunghezza dei pori, facilmente ottenibile macinando il catalizzatore e processo
che non altera la turn-over frequency dello stesso.

Diminuire la dimensione del catalizzatore è la scelta ottimale in questo caso, ma anche questa non è
a costo zero, infatti incide molto nei costi di pompaggio: alterando la dimensione media del letto
fisso di un reattore (riducendo il grado di vuoto del letto), aumentano notevolmente le perdite di
cariche e si deve incrementare la pressione per garantire la velocità lineare nominale all’interno del
letto catalitico. Quindi bisognerà trovare il diametro minimo idoneo per garantire il migliore
rifornimento dei siti attivi e non aumentare eccessivamente i costi.

È possibile distinguere sotto quale controllo ci si trovi senza modificare il regime idrodinamico,
semplicemente variando la T del sistema. Se la Ea varia poco con la T, allora ci troviamo sotto
controllo per trasporto di massa esterno, se varia molto con la T potrebbe essere per la reazione
chimica superficiale o il trasporto di massa interno

Equazione BET
Come abbiamo visto l’espressione della Langmuir vale solo nel caso di adsorbimento monostrato.
Infatti le ipotesi di Langmuir sono:
a) È possibile realizzare soltanto un monostrato
b) Il calore di adsorbimento è indipendente dal grado di ricoprimento del solido
Queste ipotesi funzionano molto bene, perché quando le interazioni sono molto forti si ha la catalisi,
mentre quando sono molto deboli no, in quanto non si distorce abbastanza la struttura elettronica da
poter abbassare l’energia di attivazione. Quindi, assumere che i siti abbiano un’interazione con la
molecola adsorbita abbastanza uniforme è una condizione necessaria per fare la catalisi.
L’equazione BET tiene conto del fatto che si possano formare anche più di uno strato e permette di
stimare l’area specifica del catalizzatore.
L’equazione di BET è
P ρ−1 P 1
= +
[ V ( P 0−P ) ] V m c P0 V m c
Dove
- P è la pressione effettiva
- P0 è la pressione di saturazione del gas ad una determinata T
- c è un parametro caratteristico che dipende dalla coppia adsorbato/adsorbito e dalla T
- Vm è il volume di gas adsorbito per formare un monostrato
- V è il volume di gas totale adsorbito
Sottoponendo il catalizzatore ad un processo di adsorbimento fisico in condizioni normali con una
molecola ben precisa (spesso azoto, gas incondensabile alla temperatura dell’esperimento), ricavo i
parametri sperimentali P0, V e P.

Figura 4.13 – Diagramma di una tipica curva BET


Diagrammando la funzione si possono ricavare Vm e c dall’intercetta e dallo slope della retta.
Infine, noto Vm e conoscendo l’area σm occupata da una singola molecola, è possibile stimare l’area
superficiale dell’adsorbente.
M Nw2

Nel caso dell’azoto mσ =


( )
Na ρN 2

Reattori chimici
Il reattore deve essere selezionato in modo tale da minimizzare i tempi di disattivamento del
catalizzatore. Nel caso di steam reforming, si opera in eccesso di vapore e i tempi di disattivamento
possono raggiungere i due anni. Nel reforming catalico, per ostacolare la formazione di coke, devo
intervenire sul rapporto H2/carica idrocarburica. Aumentare il rapporto significa aumentare il tempo
di vita: da un anno per alti rapporti, a giorni o settimane per bassi rapporti. Nel FCC (Fluid Catalytic
Cracking) l’unica possibilità è quella di rigenerare il catalizzatore, che si avvelena nel giro di pochi
secondi.
Nei processi che vedono un tempo di disattivazione più lento, si avranno dei reattori tubolari a
letto fisso (più semplici ed economici, anche potenzialmente potrebbero dare problemi di trasporto
di calore). Quando i tempi di disattivazione aumentano, si utilizzerà lo swing reactor, ovvero tre
reattori in parallelo (spesso se ne usano quattro, affinchè, a rotazione, uno sia sempre in
rigenerazione). Si può pensare anche ad un reattore a letto mobile (moving bed reactor), in cui vi il
catalizzatore si muove ciclicamente tra uno stadio di reazione e uno di rigenerazione. Questa
circolazione tra i due stadi, dettata dalla velocità delle particelle, è lenta, perché l’avvelenamento è
lento. Se risulta necessario avere un’alta velocità delle particelle, il reattore ottimale è quello a letto
trascinato (entrained – flow reactor), e non fluidizzato. Il reattore trascinato e quello fluidizzato
sono simili: utilizzano entrambi un riser reactor, in cui la reazione avviene in un tubo lungo una
decina di metri e alla fine vi è un tamburo che, nel caso di letto trascinato, separa la componente
gassosa dal catalizzatore che deve essere rimandato al rigeneratore, mentre, nel caso del letto
fluidizzato, è il luogo in cui avviene per la maggior parte la reazione chimica.
In generale, un letto mobile costa di più rispetto a quello a letto fisso, però si lavora a pressione
atmosferica, quindi si risparmia sui costi di pompaggio e si ottiene un maggior rendimento
termodinamico.
Molte delle reazioni industriali sono fortemente o moderatamente esotermiche. Usando il bilancio
di calore come discriminante, esistono due tipologie di reattori:
- Reattore isotermico, in cui la temperatura rimane costante e, pertanto, la velocità di trasporto
di calore è elevata
- Reattore adiabatico, che non riesce a scambiare calore con l’ambiente, generando così un
accumulo al suo interno
Nel caso di una reazione esotermica, diventa fondamentale un efficiente scambio di calore con
l’esterno. Si consideri un reattore a letto fisso su cui avviene una reazione esotermica.
La Tw =100°C (mantenuta costante grazie ad un refrigerante) ed i reagenti entrano ad una T in = Tw .
Sia, infine, Il diametro del reattore uguale a 2 m.

Figura 5.1 – Profilo di temperatura in un reattore a letto fisso


In Fig. 5.1 è riportata la distribuzione di temperatura, mediante curve di livello, all’interno del
reattore. La generazione di calore è data da Q g=r ∆ H=k (T ) f ( C ) ∆ H e, come si può notare, vi è un
significativo gradiente di temperatura nella sezione trasversale. Infatti, la temperatura massima del
reattore, Tmax, si trova proprio nel cuore del reattore e diminuisce radialmente fino a raggiungere la
Tw. Se non vi sarà un adeguato scambio di calore attraverso la parete, la temperatura globale del
reattore aumenterà, con una progressiva diminuzione della conversione del reagente (poiché trattasi
di reazione esotermica).
Per ottimizzare questo scambio è possibile intervenire sull’area di scambio stesso. La condizione
migliore è quella di un fascio tubiero, dove la velocità del flusso gassoso resta costante ed ogni
singolo tubo si comporta da reattore.
area totale
L’area specifica (ovvero ) di un singolo tubo è
volume direattore
πDL πDL 4
a is= = =
V πD L D
2

4
Mentre quella del fascio risulta
nπdL nπdL 4
a bundle
s = = =
V nπ d L d
2

Dal rapporto delle aree specifiche si ottiene


abundle
s D
i
=
as d

Servono, in questo caso, quindi 2000 m3 di letto catalitico. Questi possono essere in un unico tubo o
in n tubi aventi lo stesso volume complessivo. Nell’ultimo caso, è necessario gestire adeguatamente
la sezione trasversale, che deve garantire gli stessi tempi di permanenza che nel caso di unica
L
tubatura. Infatti, t= , dove L (lunghezza del tubo) è fissata, perciò t è inversamente proporzionale
v
V
alla velocità di scorrimento, che a sua volta è v= , quindi a parità di volume bisogna mantenere
S
l’area della sezione trasversale costante.
Si analizzi più nel dettaglio un reattore a letto fisso: in questa tipologia, il catalizzatore è fisso
all’interno del reattore e la fase fluida reagente viene inserita all’interno del reattore dall’alto per
contribuire alla stabilità meccanica ed evitare un possibile parziale trascinamento del catalizzatore.
Il caso più semplice da schematizzare è quello di un reattore a letto fisso adiabatico (Fig. 5.2)

Figura 5.2 - Illustrazione schematica di un reattore adiabatico a letto fisso


Si consideri il caso in cui, in questo reattore, avvenga una reazione esotermica
A ↔ B.
Guardando il diagramma conversione su temperatura del reattore (Fig. 5.3), notiamo che la
maggiore conversione ottenibile, ovvero quella di equilibrio, diminuisce all’aumentare della
temperatura. Questo perchè la reazione considerata è esotermica (ΔH<0), e quindi, per il principio
di Le Châtelier-Braun, si riduce la Keq per variazione positive della temperatura.

Figura 5.3 – Diagramma Conversione-Temperatura per una reazione chimica esotermica


La Tin è la temperatura di ingresso della fase fluida reagente, che è dettata dalla temperatura di
attivazione del reattore.
Effettuando un bilancio energetico sul reattore, poiché adiabatico, si ottiene
∆ H∗x=c p ∆ T
Poiché il calore generato dalla reazione chimica è immagazzinato all’interno del reattore ed è
indipendente dalla temperatura, ne consegue che x varia linearmente al variare della temperatura.
Ne consegue che:
- non si possono raggiungere alto valori di conversione di equilibrio
- la forza spingente alla conversione diminuisce notevolmente all’avvicinarsi alle condizioni
di equilibrio, ovvero nell’ultima sezione di reattore non vi una forza spingente efficace e, in
pratica, la conversione ottenuta è ancora minore rispetto a quella di equilibrio.
Per ovviare al problema, è possibile dividere i letti catalitici e operare con degli scambi di calore
intermedi per approssimare il profilo termico ottimale (Fig. 5.4).

Figura 5.4 – Schema e diagramma Conversione vs. Temperatura di un reattore a più letti
adiabatici
Il flusso in ingresso nel reattore può essere assiale o radiale, in genere il flusso
radiale si usa per ridurre le perdite di carico e accorciare il percorso del fluido all’interno del
reattore.
Reattori monoliti.
Sono canali o supporti di vario tipo ricoperti da materiale catalitico. Il diagramma perdite di carico-
superficie specifica riferito ai catalizzatori monoliti è usato per trovare il giusto compromesso tra
dimensioni di catalizzatore e perdite di carico. Aumentando l’aria specifica diminuisce la
dimensione delle particelle catalitiche e il loro spessore, ma aumentano le perdite di carico. I
reattori monoliti sono una perfetta soluzione per sistemi trifase (catalizzatore solido, reagente
liquido, reagente gassoso): infatti, nel caso dei stirred reactor vi sono significative difficoltà legate
alle perdite di carico e al grado di miscelamento, mentre con i catalizzatori monoliti questi problemi
si riducono, in quanto il liquido passa attraverso i canali, il gas negli spazi liberi e aumenta
notevolmente la velocità di reazione a parità volume di reazione.

FLUSSO CONTINUO E FLUSSO A PISTONE


Nel caso di reattori CSTR è possibile ipotizzare una perfetta miscelazione, ovvero, che il C i=Ciout,
come se l’intero volume fosse congelato al volume della concentrazione finale (Fig 5.5).

Figura 5.5 – Schema di un reattore CSTR


In un reattore PFR, invece, la situazione è opposta, il profilo di velocità è piatto e non è possibile un
perfetto miscelamento, pertanto si ha una graduale diminuzione della concentrazione del reagente.
In termini di velocità di reazione, il PFR è migliore rispetto al CSTR, perché quest’ultimo lavora a
concentrazione finale, ovvero la più bassa.
Si consideri la reazione in serie A k 1 R k 2 S , in cui il prodotto obbiettivo è R.
→ →
nR
Ricordando la definizione della selettività θ= , si può costruire un grafico selettività vs.
n R + nS
conversione (Fig. 5.6)

Figura 5.6 – Grafico selettività vs. conversione per reattori CSTR e PFR
È evidente che se K2<<K1, la selettività potrebbe non essere un problema, mentre se K 2>K1, si anno
sicuramente problemi di selettività.
Inoltre, le curve per il flusso a pistone sono sempre più alte rispetto alle curve per il flusso continuo.
Questo poichè la formazione di S dipende dalla concentrazione di R formato, che nel CSTR è a pari
a quella finale e quindi più elevata rispetto al PFR, che alla concentrazione finale di R arriva
gradualmente e quindi genera mediamente meno S, con conseguente migliore selettività.

Steam Cracking
L’industria chimica, è sostanzialmente basata sulla valorizzazione di commodity altamente reattive,
ovvero le cosiddette olefine leggere (etilene, propilene e olefine C4), da cui sono prodotti la
maggior parte dei polimeri attualmente commercializzati.
Più del 50% dell’etilene prodotto è utilizzato per sintetizzare polietilene (LDPE o HDPE, a seconda
della sua densità). Un discorso analogo vale per il propilene, la cui fetta maggiore è destinata alla
produzione di polipropilene.
Dall’etilene si ottengono anche, ad esempio, il vinilcloruro (grazie all’impiego di HCl proveniente
dagli impianti cloro-soda), da cui derivano il polivinilcloruro e l’ossido di etilene (che rappresenta il
building block per la produzione di polieteri).
Dal propilene oltre il polipropilene isotattico si ottengono l’acrilonitrile e l’ossido di propilene, tra
le altre cose.
In sintesi, il più importante punto d’ingresso alla chimica dei polimeri (più del 50% dei volumi
totali dell’industria chimica) è dato dalle olefine leggere.
Lo Steam Cracking (conosciuto anche col nome di “Pirolisi”) è un processo il cui
obiettivo è partire da idrocarburi saturi e sintetizzare olefine (in particolare etilene).
Gli idrocarburi di partenza spaziano dall’etano agli idrocarburi C15/C16, quest’ultimi presenti nel
taglio Virgin Nafta proveniente dalla parte superiore della colonna di topping. Infatti, questo taglio
può essere destinato alla produzione di benzina dopo upgrading per migliorare il numero di ottano
(tramite catalytic reforming) o destinato a diventare olefine leggere col processo di steam cracking.
L’etano può essere ottenuto dal gas naturale (Fig 6.1) il cui principale componente è il metano, ma
in cui vi sono anche buone quantità di etano e C3 e C4, che vengono separati dal metano e
alimentati al processo.

Figura 6.1 – Composizione tipica di gas naturali di varia provenienza


Il motivo per cui gli Stati Uniti e il Canada impiegano come alimentazione la frazione C 2+ ottenuta
dal gas naturale, mentre l’Europa e il Giappone preferiscono la Virgin Nafta (Fig. 6.2) è di natura
economica, ovvero legato alla disponibilità della materia prima (nell’USA vi sono enormi
giacimenti di gas naturale)

Figura 6.2 – Composizione in diverse parti del mondo del feedstock per il processo di Steam
Cracking
In conclusione, possono essere utilizzati idrocarburi leggeri (etano, LPG), idrocarburi più pesanti
(C5 – C11, da Virgin Naphta), ma anche Gas Oil, e la scelta, come in tutti casi, si basa su
considerazioni economiche.
Nella Virgin Naphtha, oltre a catene lineari di idrocarburi, possono essere presenti, in modesta
concentrazione, catene ramificate, isoparaffine, composti alifatici ciclici, nafteni e aromatici. Si
tratta, quindi, di una miscela complessa che, all’interno del reattore, dà luogo a un gran numero di
reazioni, dividibili in 2 classi principali: reazioni primarie (quelle obbiettivo) e reazioni secondarie.
Le reazioni primarie son del tipo
C n+m H 2 (n+ m)+2 →C n H 2n +2+ Cm H 2 m+2
In cui avviene la rottura del legame C-C, e
C n H 2 n+ 2 →C n H 2 n+ H 2
In cui a rompersi è il legame C-H.
Il risultato finale di queste reazioni è di creare un composto non-saturo con più basso peso
molecolare, ovvero l’obbiettivo del processo.
Se si fosse partiti da etano, la reazione risulta più semplice
C H 3−C H 3 → C H 2=C H 2 + H 2
Più leggera è la carica che si alimenta al reattore maggiore sarà la resa in etilene (con etano si arriva
al 75% di resa, mentre con Virgin Naphtha si ottiene, al massimo, un
30%).
In ogni caso, vi saranno anche, inevitabilmente, delle reazioni secondari competitive legate al
meccanismo radicalico con cui avvengono le primarie che avvengono con meccanismo radicalico.
Tra queste vi è:
¿
- la polimerizzazione delle olefine (n C H 2=C H 2+ R → R−(C H 2 −C H 2 ¿ n), che generano
prodotti con catene 12+ C, che a T e P ambiente sono, ovviamente liquidi. Questi sono la
benzina di pirolisi (22% di resa, sottoprodotto del processo, i quanto ricca di aromatici) e
l’olio combustibile (prodotto di scarto, con il 4% di resa).
- La formazione di coke e idrogeno, che sono i prodotti termodinamicamente stabili del
processo. Il coke (Fig. 6.3) deriva dalla policondensazione di idrocarburi aromatici,
liberando idrogeno.
- L’ isomerizzazione (o ciclizzazione) delle olefine, che genera composti aromatici, come il
benzene

Figura 6.3 – Tipica struttura del Coke.

Le reazioni secondarie l’efficacia del processo, ma, al tempo stesso producono benzina di pirolisi,
che può essere inviata ai processi di alchilazione (dopo aver separato gli aromatici) o utilizzata per
produrre benzine ad alto numero di ottani (dopo aver separato il benzene, composto cancerogeno).
Figura 6.4 – Indice di qualità del Virgin Naphta.
Come mostrato in Fig. 6.4, è possibile stimare la qualità della Virgin Naphtha in alimentazione,
attraverso l’indice empirico I.Q.

Termodinamica del Processo

Figura 6.5 – Diagramma conversione in alchene vs. Temperatura di diversi alcani


Il diagramma in Fig. 6.5 mostra l’equilibrio termodinamico delle reazioni di produzione delle
olefine a partire dall’alcano corrispondente. Guardando il diagramma, mantenendo fissa la T, si nota
che, maggiore è la dimensione della catena, maggiore sarà la resa nel corrispondente alchene.
Concentrandosi sulla curva dell’etano deduciamo che, se si vogliono alte rese di etilene, bisogna
lavorare a T elevate (e basse P perché la reazione avviene con incremento del numero di moli).
Figura 6.4 - Diagramma di Francis
Il diagramma mostra l’andamento dell’energia libera standard di formazione degli
Idrocarburi, normalizzata rispetto al numero di atomi di carbonio nella catena, in funzione della
temperatura.
La normalizzazione viene effettuate perché è possibile pensare all’energia libera
come al contributo energetico dato da ogni gruppo metile che formano la catena
carboniosa. Ovvero, la differenza di energia libera di formazione del propano rispetto a quella del
normal-butano, ad esempio, è data dal contributo di un singolo gruppo metile, e così via,
muovendoci verso alcani a numero di C maggiore, la differenza in ∆G 0 sarà fissa. Pertanto, se si
normalizza l’energia libera di formazione, si otterrà una serie che converge a una curva, la quale
descriverà il comportamento degli idrocarburi da C10 in poi.
Osservando la curva del metano
C+ 2 H 2 →C H 4
Si nota che lo zero corrisponde all’energia di formazione dei reagenti C e H 2 e che, per T minori di
820 K, il metano è stabile (ovvero, non si decompone) rispetto ai reagenti di formazione, mentre, a
T maggiori, diventa instabile (si decompone in coke e idrogeno). Questo si spiega in modo rigoroso
con la costante di equilibrio
PC H −∆ G0
K p=
PH2
4
=exp ( RT )
0
Infatti, ∆G < 0 implica che Kp>>1, e quindi alte pressioni parziali di CH4 rispetto a quelle di H2.
Dal grafico, inoltre, si nota che più lunga è la catena, minore è la T di cross, ovvero si abbassa la
stabilità del composto. Quindi è più bassa è la T da raggiungere per rendere possibile la rottura dei
legami C-C e C-H.
Per quanto riguarda la curva dell’etilene, il ∆G 0 è sempre maggiore di zero, ovvero è instabile e
all’equilibrio si avrà sempre la formazione di coke e idrogeno, pertanto lo steam cracking è un
processo sotto controllo cinetico.
Condizione necessaria ma non sufficiente per avere formazione di etilene da un determinato alchene
è di essere a T maggiori dell’intersezione delle due curve nel grafico di Francis. Più piccolo è
l’idrocarburo (la curva del Virgin Naphta è approssimabile a quella del C 10), maggiore sarà la T di
soglia da raggiungere per avere buone rese, quindi la reattività della carica aumenta, all’aumentare
delle sue dimensioni molecolari.
Per quanto riguarda l’acetilene, esiste una T di intersezione (circa 1000 °C) oltre la quale è possibile
ottenere acetilene da idrocarburi saturi. Poiché le T a cui si lavora sono inferiori a questa T di cross,
le rese in acetilene sono modestissime (100-300 ppm). Vi è da considerare che la formazione di
acetilene rappresenta un problema per quel che riguarda la purezza dell’etilene. Infatti, una delle
quote maggiori dell’etilene prodotto viene utilizzato per polimerizzazione radicalica in un mezzo
supercritico (3000 bar e 250 °C in reattore, in autoclave con pareti di spessore di mezzo metro in
acciaio speciale, pessimo conduttore di calore ed elettricità per rendere il reattore adiabatico). La
polimerizzazione dell’etilene è fortemente esotermica, e, se si perde il controllo termico, l’etilene si
può decomporre in maniera esplosiva in metano, coke ed idrogeno. Piccole quantità di acetilene
(oltre la massima quota permessa di 5ppm) sono in grado, nella zona di reattore dove le conversioni
iniziano a diventare elevate (circa 20 %) far oltrepassare il limite di instabilità termica, causando
l’esplosione.

Per ottimizzare il controllo dei parametri cinetici del processo è fondamentale prendere in
considerazione i meccanismi di reazione, in particolare delle reazioni primarie, che riducono il peso
molecolare della carica e generano olefine. Nel caso della Virgin Naphta si può prendere in esame,
come molecola rappresentativa, quella di normal-ottano: quando la temperatura è sufficientemente
alta (si tratta di un processo attivato termicamente, senza catalisi), si può avere la rottura omolitica
del legame C-C con la conseguente formazione di due radicali
C H 3−¿
Il radicale così ottenuto non è stabile e subisce una β-scissione, ovvero la rottura del legame C-C
nella posizione β, che in questo caso risulta essere omolitica e quindi ottiene un radicale.
C H 3 C H 2 C H 2 C H 2β C H α2 ∙ →C H 3 C H 2 C H 2 ∙+∙ C H 2 C H 2 ∙
Naturalmente, la molecola biradicalica non è stabile ed evolve rapidamente in una molecola di
etilene allocando i due elettroni spaiati in un orbitale π.
Durante questa reazione si formano relativamente grandi quantità di metano e altri alcani, che
costituiscono un problema per la separazione dei prodotti: i prodotti di reazione sono infatti gas a T
ambiente, mentre la maggior parte dei sottoprodotti, come la benzina di pirolisi, sono liquidi, ma il
metano è un gas e quindi, va ad intaccare la purezza del prodotto. Il metano si forma per due motivi:
innanzitutto è termodinamicamente l’idrocarburo più stabile (come si vede dal Diagramma di
Francis) e perché è un possibile prodotto finale della β-scissione
C H 3 C H 2 C H 2 ∙ →C H 3 ∙+C H 2=C H 2
il radicale metile è uno tra i più reattivi in assoluto e, quindi, facilmente riesce ad attaccare un'altra
catena alifatica, strappando un H· e ottenendo metano e un altro radicale pronto ad evolversi tramite
β-scissione. Questo è un modello di reazione estremamente semplificato che comunque dà una
spiegazione della diminuzione del peso molecolare dell’alimentazione e della formazione dei
prodotti/sottoprodotti.
Per controllare la selettività di questa reazione bisogna gestire i parametri cinetici,
che in generale sono tre: la T media di reazione (costante, poiché il reattore è idealmente isotermo),
il tempo di residenza τ nel reattore e la P parziale di idrocarburo alimentato. I parametri T e τ sono
correlati: T più alta significa reazioni
più veloci, quindi evoluzione più veloce del sistema non solo verso la produzione di olefine, ma
anche verso la formazione di aromatici, quindi coke e idrogeno; questo significa che per avere alte
rese bisogna ridurre il t di permanenza. La reazione è chiamata steam craking, perché viene inserito
del vapore acqueo, che dal punto di vista chimico qui è un inerte, ma che è fondamentale per
controllare la pressione parziale dell’idrocarburo, che in questa reazione è un parametro sia
termodinamico che cinetico. Infatti, se si considera l’equilibrio
C H 3−C H 3 ↔ C H 2=C H 2 + H 2
¿
(per semplicità esprimibile anche come C 2 → C2 + H 2), e il fatto che ci troviamo in un sistema
supercritico e diluito (e quindi in condizioni di idealità), si può esprimere la costante di equilibrio
come
PC P H y C y H
¿ ¿

K eq =K P= Ptot
2 2 2 2
=
PC yC
2 2

nC ¿

In questa equazione, l’inerte è nascosto nella definizione della frazione molare, infatti y C ¿
2
,e
2
∑ ni
moltiplicando la Keq per la concentrazione molare del sistema ctot si ha
y C y H c 2tot
¿ c C c H P tot
¿

K eq = 2 2

2
P = 2 2

y C c tot tot
2
cC c tot 2

In questo modo si può osservare meglio l’equazione di stato: la Ptot è la P di esercizio del reattore
ed è fissata, quello che si può cambiare è il rapporto tra l’acqua e l’etilene mandati al reattore (e
dunque le concentrazioni). Infatti, introducendo un inerte nel reattore, si riduce la P
dell’idrocarburo, ottenendo un vantaggio termodinamico e quindi rese potenzialmente più alte in
etilene. Bisogna anche considerare che la P parziale dell’idrocarburo è anche un importante fattore
cinetico: infatti, considerando la semplice reazione competitiva R ∙+C H 2=C H 2 ↔ R−C H 2−C H 2 ∙
, reazione di oligomerizzazione, poiché il sistema lavora a T maggiori della T roof, oltre la quale la
velocità di depolimerizzazione è paragonabile o superiore a quella di polimerizzazione e quindi si
ottengono solo catene relativamente corte (quindi frazioni liquide). La velocità di questa reazione di
¿
oligomerizzazione può essere espressa come r =k [ R ∙ ] [ C2 ] , dove la concentrazione dei radicali
liberi, ovviamente, non è controllabile, mentre la concentrazione di etilene è l’unico parametro su
cui è possibile intervenire, e si può ridurre solo abbassando la P parziale dell’idrocarburo e, quindi,
riducendo l’alimentazione di idrocarburo e aumentando opportunamente la portata di acqua (per
mantenere la P di esercizio costante).
Come si è già detto, i parametri T e τ sono correlati, poiché la T controlla la velocità di generazione
dei radicali liberi all’interno del reattore, e quindi la concentrazione degli stessi, che tenderanno ad
evolvere fino al raggiungimento di coke e idrogeno attraverso un percorso relativamente lungo, che
regolando la τ può essere fermato al punto interesse del processo, massimizzando la resa in olefine.
Con un’alimentazione così varia, però, è difficile trovare un modo per correlarli, poichè si ha
un’enormità di reagenti, ognuno dei quali va incontro a diverse reazioni (sia primarie che
secondarie), rendendo il problema è troppo complesso. L’approccio usato, allora, è di tipo empirico:
si ha un reattore nominalmente isotermo con flusso a pistone (PFR), cioè con profilo di velocità
piatto lungo tutta la sezione, che può essere lungo fino a ½ km, nel quale scorre una fase fluida, in
kg
cui il flusso alimentato G [ ¿ ] , ovvero la portata massica normalizzata per la sezione del reattore,
s m2
si può, considerando trascurabile l’effetto delle reazioni chimiche e quindi una densità media
costante, correlare alla velocità lineare come G= ρmedia v e il tempo di residenza può essere definito
L
come τ = , dove con L si intende la lunghezza del reattore. Questa, chiaramente. è solo una stima
v
che semplifica molto sia il regime fluidodinamico che gli effetti di espansione/contrazione del

fluido dovuti alle reazioni chimiche, permettendo infine di correlare τ e G con τ = media ,
G
equazione che permette di stimare il tempo di residenza come in funzione di parametri controllabili
dell’impianto.
Come tutti i tagli del petrolio, la Virgin Naphta è caratterizzata da un intervallo di ebollizione ben
definito, ma la sua composizione può variare molto a seconda
del petrolio di provenienza. In ogni caso, studiando un componente chiave sempre presente in
qualunque stock, ovvero il normal-pentano (n-C5), si è scoperto che questo reagente è
esclusivamente consumato senza alcuna fonte di generazione. Tramite misure gascromatografiche,
si può facilmente valutare la concentrazione di n-C5 e come questa si evolve variando il sistema: ad
esempio, allungando il reattore (a parità di flusso) e ottenendo, di fatto, l’andamento all’interno del
reattore, si possono fittare i dati così ottenuti tramite un’equazione cinetica del primo ordine
−dc
=k osservato c . Questa equazione non è la modellizzazione di un’unica reazione, bensì una
dt
descrizione macroscopica dell’evoluzione del componente, che è consumato da diverse reazioni
sconosciute e che vengono raggruppate in un’unica equazione cinetica del primo ordine, risultato
delle misurazioni sperimentali. Si definisce empiricamente un fattore di severità cinetica (KSF)
c¿
come KSF =ln , dove con c si intende la concentrazione di n-C5 nella fase fluida rispettivamente
c out
alle sezioni di ingresso e di uscita. Separando le variabili ed integrando l’equazione cinetica, si
ottiene
out τ

∫ c =k oss ∫ dt → KSF=k oss τ=k 0 exp RTa Lρ


−E
¿
−dc
0
( ) G
Quindi KSF = f(T, τ) = f(T, G).

Figura 6.5 – Resa di diversi prodotti in funzione di KSF


Questo parametro incorpora gli effetti di temperatura e tempo di permanenza, e si può verificare
sperimentalmente che la conversione della carica idrocarburica è funzione del KSF. In particolare,
come il nome lascia intendere, più è alto questo numero, più sono drastiche le condizioni operative
e quindi più alte conversioni in etilene si ottengono, ma anche maggiore formazione di
sottoprodotti, come il benzene (precursore del coke), a scapito della resa in propilene (che ha un
massimo relativo) [Fig. 4.6].
È importante puntualizzare è che per tutte le coppie di di T e τ che danno lo stesso valore di KSF, si
hanno le stesse rese in etilene quindi fissata la portata di alimentazione e il KSF, è fissata anche la
composizione di uscita dal reattore.
Altro parametro cinetico è la P parziale e, come si può osservare in Fig. 6.6, si hanno rese migliori a
basse pressioni, cioè con minori concentrazioni locali di reagente.

Figura 6.6 – Resa di etilene vs. pressione parziale di idrocarburo in feed, a KSF costante
La P parziale è ridotta introducendo un inerte, il vapore, da cui prende proprio il nome di questo
mH O
processo. L’andamento della P totale contro la P parziale di idrocarburo (a rapporto ponderale 2

midc
costante) è lineare (Fig 6.7), poiché
Pidc= y idc Ptot
nidc 1 1
y idc= = =
n idc+ n H O nH O mH O
2
1+
2 2

Dove nidc PM H O
1+ 2

m idc
PM idc
Quindi mantenendo la pressione di esercizio costante, si diminuisce la concentrazione idrocarburica
mH O
per diminuire le reazioni secondarie, modificando il rapporto 2
.
midr
Si potrebbe pensare di utilizzare come inerte gassoso l’azoto, che da grossi vantaggi economici,
soprattutto dal punto di vista energetico, poiché riscaldare l’azoto sarebbe meno dispendioso
rispetto al vapore. Tutta via, poiché i prodotti finali dello steam cracking sono gas, le uniche
tecnologie per separarli dall’azoto sono a base di membrane selettive, e quindi non utilizzabili su
scala industriale. Dunque si preferisce l’uso del vapore, che è facilmente separabile attraverso un
processo di distillazione

La produzione costante, e inevitabile di coke, si deposita sulle pareti, aumentando gli spessori e
diminuendo la velocità di trasmissione del calore. Per quanto si possa compensare con l’aumento di
portata di combustibile ai bruciatori, aumentando la T dall’esterno, vi è un limite meccanico a le T
che le tubazioni possono sostenere. Inoltre, il deposito di coke aumenta la pressione all’interno del
serpentino, riducendo la sezione di passaggio, e a parità di portata aumenta la velocità lineare,
ovvero aumentano le perdite di carico e riducendo la resa. Per tenere sotto controllo questo
inconveniente, i forni vanno periodicamente fermati, bruciando così il coke depositato, previa
bonifica di azoto per eliminare gli idrocarburi residui, potenziali esplosivi.
I prodotti dello steam cracking sono tagli C2 (etilene ed etano) e C3 (propilene e propano), quindi
l'etano e il propano possono essere rinviati a dei forni di cracking dedicati come riciclo, perché
carica potenziale per ottenere olefine.

Operando a T elevate la rottura avviene nella parte terminale della catena invece che a metà, e
questo aiuta ad aumentare la resa in etilene, perché si ottiene un radicale che si spacca per beta
scissione successiva e si trasforma proprio in etilene. La temperatura interviene, dunque, a
determinare la velocità di generazione dei radicali liberi. Le quantità di radicali liberi che si
formano influenzano la resa in etilene: maggiore è la popolazione dei radicali liberi, maggiore è la
velocità di reazione Tuttavia, i radicali che si formano possono anche reagire per astrazione di H 2,
strappando H. da una molecola satura e formando una catena satura e un nuovo radicale, che può
essere non terminale. Quindi la T regola la velocità di generazione dei radicali liberi, la cui
concentrazione determina la velocità con cui avvengono le reazioni primarie e secondarie.

Altro parametro fondamentale è la P parziale degli idrocarburi, in quanto le reazioni successive


hanno bisogno di concentrazioni sufficientemente elevate di prodotti primari di cracking. Dunque,
se si limita la pressione parziale degli idrocarburi, si limita la concentrazione locale dei prodotti che
si vanno accumulando, inibendo così le reazioni secondarie.

L'impianto di Steam Cracking è costituito da un reattore tubolare in acciaio speciale inserito


all'interno di un forno, poichè le reazioni avvengono a 800 gradi. Inoltre, le portate alimentate sono
enormi, sia per l'enorme quantità di prodotti da generare, sia per i ridottissimi tempi di permanenza
dentro il forno, generando velocità di circa 300-350 m/s. Si devono trasferire, dunque, enormi
quantità di calore in tempi contenuti, e, pertanto, l’unico meccanismo idoneo è l’irraggiamento, da
cui l’utilizzo del forno. Il forno utilizzato è un forno a cattedrale.

In generale, l’impianto di cracking può essere suddiviso in due zone:


- sezione calda, in cui avviene la reazione e il frazionamento primario dei prodotti di cracking.
- sezione fredda, ovvero la sezione di separazione.
Figura 6.7 – Tipico forno a cattedrale di un impianto di Steam Cracking
L’elemento principale della sezione calda è il forno di cracking (Fig 6.7), si tratta di un forno a
pianta rettangolare (circa 10m x 5m), con altezza di circa 13 metri. È costituito da una zona
inferiore con pareti rivestite in materiale refrattario, in cui sono presenti i bruciatori e in cui il
trasporto di calore è radiante, e da una zona superiore, caratterizzata da un trasporto di calore di tipo
convettivo.
Nella zona inferiore, che è la zona in cui avvengono le reazioni di cracking, il flusso radiale arriva
nei serpentini assemiati nelle camere (assemiati, ovvero che sono presenti da due a otto tubi
alloggiati in modo tale da sopportare le dilatazioni termiche assai elevate, a causa delle elevatissime
temperature). In questa zona è presente un muro centrale, che arriva fino alla sommità del forno, e
due mura trasversali leggermente più basse, tale da suddividere il forno in sei camere.
Lo scopo di tale suddivisione è quello di rendere il forno più flessibile e controllare meglio il profilo
di temperatura all’interno del tubo, in quanto le mura riescono a neutralizzare la radiazione
elettromagnetica e, quindi, a localizzare il flusso termico radiante. Infatti, anche se viene aumentato
la portata di combustibile ad un bruciatore, gli altri settori non avvertiranno questa variazione.
La parte alta del forno, invece, è la zona convettiva, in cui non arriva il flusso radiante, ma sono
comunque presenti fumi di combustione che consentono di preriscaldare l’alimentazione e il
vapore.
PROFILO DI TEMPERATURA ALL’INTERNO DEL REATTORE

Figura 6.8 – Grafico Temperatura vs. Lunghezza del reattore


Sebbene il reattore di steam cracking approssimi apprezzabilmente un reattore tubolare isotermo
con flusso a pistone, in realtà il profilo di temperatura all’interno non è isotermo.
Se si osserva il grafico in Fig 6.8, si nota che la temperatura esterna dei tubi (1000 °C) è più alta di
quella del fluido (750 °C), a causa dell’irraggiamento, a causa dello spessore del tubo.
Inoltre esistono due profili per la temperatura di pelle: uno ricavato nelle condizioni in cui il tubo è
sporco a causa dei depositi di coke, ed uno, invece, ricavato nelle condizioni in cui il tubo è
completamente pulito. Risulta che la temperatura di pelle è maggiore nel caso in cui i tubi sono
sporchi, poiché lo strato depositato costituisce una resistenza a trasporto di calore e, quindi, per
trasportare la stessa quantità di calore la temperatura di pelle deve aumentare. Questo viene fatto
tramite un sistema di controllo che aumenta la portata di combustibile ai bruciatori quando la
temperatura all’interno del forno.
È da sottolineare il fatto che i tubi iniziano a ricoprirsi di uno strato di coke fin dai primi giorni di
esercizio, quindi la portata di combustibile alimentata ai bruciatori aumenta progressivamente,
parallelamente alla temperatura di pelle, fino a quando non si si effettua il decoking. Il profilo di
temperatura corrispondente al flusso termico si abbassa nella parte finale del reattore, mentre la
temperatura della corrente fluida continua a crescere, poiché le reazioni competitive (che
avvengono principalmente nell’ultima parte del reattore) sono esotermiche, al contrario di quelle
della formazione di olefine.
Per limitare questo innalzamento di temperatura è possibile limitare la concentrazione (ovvero la
pressione parziale) delle olefine all’uscita, limitando la concentrazione degli idrocarburi in entrata.
Il monitoraggio della temperatura in uscita dal reattore permette di avere un’idea dei prodotti
presenti all’uscita dal reattore e, quindi, degli eventuali problemi che si potrebbero avere nei
processi a valle. Infatti, si pone un limite al valore del ∆t tra ingresso e uscita dal reattore e se il ∆t
misurato si scosta troppo dal valore imposto, allora si devono prendere dei provvedimenti, ad
esempio controllare se la portata d’acqua è adeguata.
Nella Fig. 6.7 si può osservare un transfer-line exchanger, che è uno scambiatore immediatamente a
contatto con il forno. Questo lavora in condizioni particolarmente esasperate: infatti, l’elevato salto
termico (da 800 a 400 °C) richiede particolari resistenze dei materiali e ciò giustifica l’alto costo di
questo scambiatore. Inoltre, da tale raffreddamento, viene prodotto vapore ad alta pressione che
viene espanso in turbina producendo energia elettrica, impiegata per muovere i compressori.
Il raffreddamento si effettua perché, visto che si tratta di una reazione non catalizzata, le reazioni
competitive andrebbero avanti anche fuori dal reattore. Tuttavia, quando la carica iniziale è virgin
naphta, all’uscita dal forno si hanno tagli pesanti tra cui olio combustibile, la cui temperatura di
ebollizione è intorno a 300 °C. Pertanto, se si scende sotto questa temperatura si otterrebbe una
miscela bifasica, con tutti i problemi che essa comporta.
Il fatto di dover raffreddare senza liquefare si traduce nel dover agire sulla lunghezza dello
scambiatore con il quale si effettua il quenching. Inoltre, sebbene il modo più efficace per effettuare
il quenching sia la miscelazione diretta tra due correnti a temperatura diversa, questa metodologia è
irreversibile, quindi si effettua un raffreddamento in controcorrente, in uno scambiatore attaccato
all’uscita del reattore. La vicinanza al forno serve ad evitare spazi morti, che potrebbero essere sede
di reazione chimica secondaria.

Figura 6.9 – Tipica schema di impianto di Steam Cracking


L’ultima apparecchiatura appartenente alla sezione calda è la colonna di frazionamento primario
(rettangolo rosso in Fig. 6.9).
La corrente in entrata a questa colonna è fatta da acqua, idrogeno, metano, tagli C2(etilene e etano),
C3(propilene e propano), C4(butano, isobutano,isobutene, butadiene, etc.), C5+ (la benzina di
pirolisi e olio combustibile), il tutto presente in una singola fase gassosa. Tale corrente viene
miscelata per quenching con una corrente di olio combustibile a 200 °C (derivante dal fondo della
colonna), raffreddando ulteriormente il sistema ed ottenendo una miscela bifasica.
La colonna di primo frazionamento, poi, è una colonna di distillazione pensata per separare la
frazione incondensabile (i gas di cracking) da quella condensabile (benzina di pirolisi e olio
combustibile). Dalla testa escono i gas di cracking più l’acqua, sotto forma di vapore alla
temperatura di 120 °C. La corrente gassosa si manda, infine, ad un serbatoio trifasico (rettangolo
blu in Fig. 6.9), in cui dall’alto uscirà la frazione di idrocarburi leggere, mentre dal basso, in
correnti separate, l’acqua e la frazione di benzina di pirolisi trascinata dalla corrente dei gas in testa
e che viene adesso rimandata in colonna. Questa separazione avviene, tipicamente, attraverso
l’utilizzo di uno stramazzo che mi permette di separare le fasi.

Per quanto riguarda la sezione fredda, essa riguarda la separazione finale dei prodotti gassosi,
cercando di ottenere correnti molto pure di etilene, propilene e taglio C4.
L’unico metodo disponibile su queste scale per effettuare una separazione è distillazione. Tuttavia,
poiché i componenti si trovano, all’uscita della sezione calda, a temperature maggiore di quelle
critiche, per frazionare i gas di cracking serve:
- raffreddare, per scendere sotto le temperature critiche
- comprimere, per limitare quanto più possibile i cicli frigoriferi per alimentare il riflusso di
testa
Infatti, facendo riferimento alla curva della tensione di vapore di un componente puro (anche se in
realtà si tratta di una miscela multicomponent), aumentando la pressione (ovvero condensando),
aumenta la temperatura di condensazione e, quindi, si riesce a condensare utilizzando fluidi più
caldi (come l’acqua), evitando in questo modo i costosi cicli frigoriferi.

Dunque, i componenti gassosi(idrogeno, metano, tagli C2, tagli C3 e C4) in uscita dalla colonna di
frazionamento primario vengono inviati a una serie di quattro successivi stadi di compressione
(rettangolo giallo in Fig 6.9), ove, alla fine, raggiungono una pressione di 40 bar. Ovviamente,
poiché rimarrà sempre una frazione non separata in colonna di benzina e acqua, dopo ogni
compressione, la parte condensata viene inviata nuovamente nel serbatoio di stoccaggio.
Prima dell’ultimo stadio di compressione si effettua un assorbimento chimico (lavaggio caustico)
per eliminare composti solforati, CO2 e mercaptani, per una questione di protezione ambientale e
per problemi di interferenza dei processi di polimerizzazione a valle. Infatti, I composti solforati
sono inibitori di polimerizzazione, poichè questi possono intrappolare i radicali liberi e, pertanto, la
loro presenza diminuisce il valore del prodotto finale. In particolare, CO 2 e H2O sono molto
pericolosi per la colonna di demetanizzazione (rettangolo verde in Fig. 6.9), poiché questa lavora a
basse temperature (prossime a -120°C) e alte pressioni (circa 35 bar), quindi CO 2 e H2O potrebbero
ghiacciare, creando depositi solidi, ed intasare i piatti della colonna. Pertanto, dopo i compressori,
esiste uno stadio finale, performato a livello molecolare (con setacci molecolari, ad esempio), dove
ci sono sistemi di stoccaggio molto efficienti per l’acqua intrappolata nella fase gas, che permette di
raggiungere un residuo d’acqua minore di 1ppm.
Alla prima colonna di demetanizzazione entra una corrente contenente
H2

{
C1 ( C H 4 )
C 2 ( C ¿2+ C2 )
C3 ( C ¿3+ C3 )
C4
C5 (residuo )
E dalla testa di questa escono idrogeno e metano, mentre dal fondo i tagli più pesanti (C2 etc.);
questa colonna utilizza un riflusso di metano ed è l’unica in cui vi è un sistema di raffreddamento.
La corrente in uscita viene inviata ad un serbatoio di stoccaggio bifasico (rettangolo arancione in
Fig. 6.9), da cui esce la corrente di metano liquido di ricircolo della colonna. Tale metano liquido è
generato nello scambiatore di calore (rettangolo bordò in Fig 6.9): infatti, la corrente gassosa
compressa viene prelevata dal serbatoio e inviata allo scambiatore, dove viene raffreddata, e quindi
liquefatta, da un fluido estremamente freddo. La corrente gassosa fredda in uscita dallo scambiatore,
invece, subisce un processo di espansione in turbina, approssimata ad una espansione isoentropica
(adiabatica), in modo da generare il fluido refrigerante per lo scambiatore. In ogni caso, si
condenserà esclusivamente la porzione strettamente necessaria per il riciclo in colonna, poiché,
frequentemente, la miscela idrogeno-metano è utilizzata per alimentare i bruciatori del forno.
Come già detto, per effettuare il frazionamento è necessario lavorare sotto pressione, che comporta
alcuni svantaggi economici:
- Il costo dell’energia necessaria alla compressione;
- Necessità di inspessimento delle pareti delle apparecchiature;
- L’aumento del numero dei piatti necessari nella colonna, poiché le rette di lavoro saranno
più vicine alla curva di equilibrio
Tutte le penalizzazioni economiche, comunque, saranno ampiamente ricompensate dalla vendita
dell’etilene.
Si analizzi adesso la corrente C2+. Questa sarà convogliata ad un’altra colonna di distillazione (de-
etanizzatore) che lavora a 26 bar, quindi con un frazionamento meno spinto rispetto alla colonna di
demetanizzazione. Infatti, a tale pressione di lavoro, si avrà una temperatura di -17°C. Tale
temperatura non da rischi di ottenere etilene liquido, in quanto la sua temperatura di ebollizione è di
- 100°C, quindi non necessiterò di alcun sistema di refrigerazione specifico per tale colonna. Dal
de-etanizzatore uscirà C2 dalla testa, mentre tutta la restante parte uscirà dal fondo. La corrente di
C2 viene riscaldata tramite la corrente uscente dal reattore di idrogenazione dell’acetilene, quindi
ciò implica che all’interno di tale frazione ci sarà una piccola quantità di acetilene (sotto i 10ppm).
Essendo l’obiettivo dell’impianto quello di produrre etilene per polimerizzazione radicalica, la
frazione C2 deve essere esente da tracce di acetilene e quindi l’eliminazione dell’acetilene
(convertito in etilene) viene effettuata mediante idrogenazione catalitica su catalizzatori al nichel o
palladio a temperature piuttosto basse (40-80°C), aggiungendo idrogeno alla corrente (visto che
l’idrogeno è stato eliminato nella colonna di demetanizzazione, e la quantità residua è troppo bassa
per guidare il processo di idrogenazione catalitica).
Dopo il reattore per l’idrogenazione, si hanno due colonne (rettangolo nero in Fig. 6.9); dalla testa
della prima esce una corrente (contente il metano e l’idrogeno residui) che rientra nella linea
immediatamente prima l’ultimo stadio di compressione (perché questi reattori lavorano a 26 bar e
per tornare indietro nel processo sarà, dunque, necessaria una compressione a 45 bar) e dal fondo
una frazione (completamente de-metanizzata) che viene inviata ad una colonna di distillazione
binaria (ovvero la seconda colonna). Dalla seconda colonna si ottengono etilene dalla testa (più
leggero) ed etano dal fondo, puri al 99%.
Infine invio ad una colonna (depropanizzatore) la corrente uscente dal fondo della colonna di de-
etanizzatore, dalla quale usciranno dalla testa C3 e dal fondo il resto. Il C3 verrà frazionato in
propilene e propene mediante una distillazione, in una colonna separata. Il fondo invece, viene
inviato all’ultima colonna di frazionamento (debutanizzatore) nella quale ottengo dalla testa il taglio
C4 e dal fondo la benzina di pirolisi residua, trascinata durante il processo.
Si concentri l’attenzione adesso sul taglio C4, che è una miscela molto complessa. Esistono due
diversi processi dai quali è possibile ottenere il taglio C4: lo steam cracking e il fluid catalytic
cracking. Entrambi sono molto preziosi, perché sono una sorgente per la produzione di isobutene,
un importantissimo “building-block” per l’industria chimica, perché coinvolto, ad esempio, nella
sintesi di numerosi polimeri.
Osservando le correnti provenienti dallo steam cracking, abbiamo un’elevata quantità di 1,3-
butadiene: maggiore è la severità del cracking maggiore sarà la quantità ottenuta. Abbiamo, inoltre,
un’elevata quantità di olefine (isobutene, 1-butene, 2-butene cis e trans) e di componenti saturi
come il normal-butano.
Effettuare un frazionamento tramite distillazione di questi componenti è impossibile, soprattutto per
via del loro comportamento non ideale che porta alla formazione di miscele azeotropiche. La
soluzione migliore è quella di attenersi a ciò che il mercato richiede, perché è inutile effettuare un
frazionamento completo di tutti i componenti del taglio. Ciò che è necessario ottenere sono
butadiene e isobutene puri, tutto il resto può essere raccolto assieme.
L’operazione più frequente è quella di recuperare il butadiene mediante un’estrazione liquido-
liquido utilizzando un solvente specifico (dimetilformammide) che ha un’elevata solubilità per il
butadiene e una bassa solubilità per gli altri componenti, ottenendo così un taglio molto ricco di
butadiene; il successivo recupero di butadiene è semplice perché ha una volatilità più alta.
Tutto il resto del taglio non si può separare facilmente perché i componenti hanno proprietà
chimico-fisiche piuttosto simili, e per ovviare a ciò si effettua una separazione reattiva. Si invia
tutto il taglio C4 ad un reattore a letto fisso in cui il catalizzatore è una resina solida solfonata,
ovvero dei pellet polimerici costituiti da stirene e etilbenzene solfonati. Si genera un anello
benzenico a cui è legato un gruppo solfonato (Fig. 6.10), che è un gruppo molto acido, capace di
lavorare a basse temperature (attivo a 60-70°C).
Figura 6.11 – Catalizzatore per reazione di formazione del MTBE
Invio l’intera corrente a questo catalizzatore in presenza di metanolo. Si attiva una reazione
esotermica, per via della rottura del doppio legame e quindi condotta a basse temperature,
reversibile che porta alla produzione di MTBE.
Reagirà soltanto l’isobutene con il metanolo, dando vita all’MTBE (Fig. 6.11) che ha proprietà
fisiche completamente diverse e che quindi può essere separato, rimanendo così il “raffinato C4”,
cioè il taglio C4 privo di butadiene e isobutene. Tale raffinato può essere lavorato, ad esempio, per
la produzione di alcoli, dove gli alcani saranno inerti e solo le olefine verranno trasformate in alcoli.

Figura 6.11 – Reazione di formazione del MTBE


A questo punto posso ottenere isobutene, in quanto facendo avvenire la reazione inversa ad alte
temperature ottengo la decomposizione quasi totale di MTBE in isobutene e metanolo che a
temperatura ambiente e pressione atmosferica sono separabili, in quanto il metanolo è un liquido e
l’isobutene un gas.
La sicurezza che reagisca solo l’isobutene si ha perché il catalizzatore è un acido di Bronsted,
dunque l’H+ attacca il doppio legame e si forma un carbocatione terziario. Tutte le altre olefine
porteranno alla formazione di carbocationi secondari, meno stabili e quindi termodinamicamente
sfavorite.
La produzione di MTBE può essere sia un processo di raffineria (per aumentare il numero di ottani)
che di petrolchimica (per ottenere isobutene).

Ossido di Etilene
L’ ossido di etilene è il più importante prodotto di ossidazione parziale ottenuto dall’etilene, per
sintetizzarlo si usa il 15% circa di etilene prodotto. La seguente tabella mostra alcuni dati
riguardanti l’ossido di etilene:
Principali utilizzi Il 99% di ossido di etilene prodotto è utilizzato
per produrre: glicole etilenico, etanolammine,
tensioattivi.
Teb 11 °C  è un gas
Limiti di esplosività 2,6 – 100% in volume
in aria

Esistono due possibili processi per produrre l’ossido di etilene:


- L’ossidazione indiretta via cloroidrina etilenica
- L’ossidazione diretta

1. Ossidazione indiretta via cloroidrina etilenica:


C H 2=C H 2+C l 2+ H 2 O→ HO C H 2 C H 2 Cl + HCl
Come si può dedurre dalla formula chimica, si tratta di una sostituzione elettrofila promossa
dall’acqua. Il reattore utilizzato è la colonna a bolle, in cui vengono alimentati cloro ed etilene, e
dove l’acqua è il solvente.
Successivamente si utilizza Ca(OH)2 per ottenere ossido di etilene

Questo processo era l’unico disponibile fino al 1950 ed era associato alla cloro-soda.
La selettività del processo è dell’80% circa., mentre il restante 20% di reagente reagito forma Cl-
CH2-CH2-Cl, che è molto tossico e difficile da smaltire.
I punti deboli di questo processo sono:
- Elevato consumo di cloro. Infatti, dalla stechiometria della reazione si osserva che serve
tantissimo cloro per ottenere CaCl2, che risulta contaminato dal DCE e quindi non vendibile;
- Elevati costi di smaltimento rifiuti. Ottenendo quantitativi enormi di CaCl 2 (inquinate dal
DCE), si deve trovare il modo di smaltirlo.
Quindi, questo processo non viene più impiegato per gli elevati costi e per i problemi
di smaltimento rifiuti.
2. Ossidazione diretta dell’ etilene:
Quello che si fa oggi è utilizzare un catalizzatore a base di Ag per fare avvenire

Un’ importantissima caratteristica degli impianti che mettono a punto questo


processo è che se mando un’altra olefina, diversa dall’ etilene, si ottiene H2O e CO2. Quindi questo
tipo di catalizzatore è impiegato esclusivamente per trattare etilene.

Figura 7.1 – Limiti di infiammabilità di alcuni gas e vapori


Quando mescolo fuel e un ossidante vi è sempre il rischio di incendi o esplosioni, bisogna
mantenersi al di fuori dell’intervallo compreso tra L i ed Ls. Per alcuni combustili (Fig. 7-1),
possiamo vedere che tale intervallo è ristretto e quindi non è un problema mantenersi in condizioni
di sicurezza, mentre per altri è talmente esteso da rendere problematica la gestione del processo. Per
l’etilene, l’intervallo che può essere tranquillamente gestito, ma il problema risulta essere l’ossido
di etilene (3,6% - 100%). Dunque, quando etilene ed aria sono in contatto, il sistema si trova nelle
condizioni di esplosività.

Figura 7.2 – Proprietà fisiche dell’ossido di etilene


Dalla Fig. 7.2, si osserva che, in condizioni standard, l’ossido di etilene è un gas ed ha alta solubilità
in acqua. Si sfrutta questa proprietà per produrre glicole etilenico, ed infatti il 60% di ossido di
etilene viene utilizzato per produrre glicole (il restante 40% è impiegato principalmente al mercato
dei detergenti o per produrre tanolammine), grazie ad una reazione con acqua. Poiché l’acqua è sia
il solvente migliore per l’ossido di etilene, ma anche un reagente per produrre glicole etilenico,
potrebbe sorgere il dubbio che si possa formare glicole durante il processo di formazione
dell’ossido stesso, in quanto questo viene separato, a fine processo, tramite una torre di
assorbimento che utilizza acqua come solvente. Tuttavia, la reazione di formazione di glicole non
avviene perché questa deve essere catalizzata da acidi o da basi, oppure attivata termicamente a T 0
molto elevate (ed in questo caso si dovrebbe lavorare sotto pressioni alte per mantenere l’acqua in
fase liquida).
Si esaminino adesso le reazioni competitive che avvengono nel reattore per la produzione di ossido
di etilene

Confrontando i ΔH delle reazioni competitive con quello della reazione principale, si nota che la
differenza è di un ordine di grandezza. Pertanto le reazioni competitive sono molto più esotermiche,
quindi hanno un’energia di attivazione maggiore e di conseguenza, basta un piccolo aumento di T
perché la cinetica di reazione acceleri rapidamente. Dalla selettività del mio catalizzatore si sa che
l’80% di etilene viene convertito in ossido e il restante 20% viene combusto; quindi il ΔHreale della
reazione è maggiore (in valore assoluto) di -25 Kcal/mol e quindi è più esotermica.
Quello che è possibile dedurre da queste informazioni è che se si perde il controllo della T,
diminuisce la selettività del catalizzatore, si accelerano le reazioni competitive, quindi aumenterà il
ΔHreale e si rischia di far esplodere il reattore. Quindi il controllo della selettività è di vitale
importanza per evitare che la cinetica delle reazioni competitive aumenti.
In reattori di questo tipo esiste un sistema di controllo della T che ci consente di evitare il rischio di
deriva termica.

Figura 7.3 – Influenza di diluenti sull’infiammabilità del propano


Il grafico in Fig. 7.3 è per la miscela propano – aria ma dà, in generale, un’indicazione sull’
influenza che hanno gli inerti sull’ esplosività. Infatti, se si aggiunge alla miscela un inerte, si
abbassano i limiti di infiammabilità. Ad esempio, aggiungendo 30% in volume di N2, si ottengono i
nuovi limiti segnati in blu nel grafico.
Sempre dal grafico si osserva che la situazione migliore è quella con il 40% in volume di N 2, mentre
per la CO2 è quella in cui si ha circa il 25% in volume.
È interessante notare che nel processo di produzione di ossido di etilene si forma CO2 (dalla
reazione di combustione), ma non in quantità sufficienti da lavorare come Radical Scavenger
(trappola per radicali liberi).
In conclusione, per compensare alle problematiche dovute alla selettività e allo smaltimento di
calore (e quindi alla possibile esplosività del sistema), bisogna fare scelte opportune sul
catalizzatore, sul tipo di reattore e sulla composizione della miscela in ingresso.
CATALIZZATORE
Come già detto, il catalizzatore utilizzato è a base di Ag (nei moderni sistemi catalitici presente fino
al 20% w/w) disperso in nano-sfere, supportato da α – Al2O3. In realtà, a questo sistema catalitico è
aggiunto un certo “ingrediente segreto” in modestissime quantità (circa 500 mg/Kg) caratteristico
del processo che, per ovvi motivi commerciali, non viene rivelato. La di funzionalità di questo
“ingrediente” è, chiaramente, quella di migliorare le performance del sistema catalitico.
Il più grande problema per questo tipo di catalizzatore è la sinterizzazione, ovvero l’agglomerazione
di più particelle di catalizzatore, che comporta una diminuzione irreversibile della superficie
disponibile allo scambio di materia. Questo fenomeno viene accentuato all'aumentare della
temperatura. Se a T ambiente, l’Ag presenta un’enorme area interfacciale, aumentando la T
cominciano dei moti diffusivi nel solido. lenti ma non trascurabili per la vita media del catalizzatore
(3-5 anni).
Infatti quello che accade è che si crea coalescenza tra le sferette di Ag che formeranno così
agglomerati più grandi, riducendo automaticamente i siti attivi esposti, disattivando, quindi, il
catalizzatore e non permettendone più la rigenerazione (l’unica possibilità sarebbe quello di estrarre
l’Ag e riutilizzarlo).
Per quanto riguarda il supporto, questo può essere realizzare o ad alta o a bassa area specifica.
Avere alta area specifica vuol dire avere pori lunghi, che comporta una cinetica del trasporto di
massa lenta per l’ossido di etilene dentro il poro e, quindi, una maggiore probabilità di conversione
in CO2 e H2O.
Inoltre, si è scoperto che questa combustione totale è preceduta da un’isomerizzazione di ossido di
etilene in acetaldeide (CH3CHO), catalizzata da siti acidi. Con queste osservazioni, si è capito che il
supporto giusto deve avere bassissime concentrazioni di ossidrili (siti acidi) sulla superficie e deve
avere pori corti, per diminuire la possibilità che l’ossido di etilene incontri gli ossidrili. Il supporto
sarà così a bassa area specifica (circa 2 m 2/g), mentre le sferette di Ag sono ad alta area
interfacciale.

Figura 7.4 – Modalità di adsorbimento dell’ossigeno sui siti catalitici dell’argento


Il primo catalizzatore realizzato dava una selettività massima del processo dell’80% (utilizzando O2
come ossidante) e per spiegare tale limite si deve considerare come agisce il catalizzatore nel
processo. Si ha l’adsorbimento dell’ossigeno sui siti catalitici, con due diverse possibili modalità
(Fig. 7.4).
Mediante studi si è visto che la prima struttura è quella che favorisce l’ossidazione
Parziale, mentre la seconda catalizza la combustione

Delle osservazioni sulle reazioni:


1. A reagire è l’ ossido di etilene adsorbito;
2. Per ogni molecola di ossido di etilene si forma una molecola di [Ag]O;
3. Nella reazione di combustione sono coinvolte 4 molecole di [Ag]O.

Dal meccanismo di reazione si è visto che la massima selettività ottenibile è dell’ 80%. Nei moderni
impianti si riesce ad ottenere una selettività maggiore (fino al 90%) grazie al 1,2- DCE. Infatti, nell’
impianto si inviano basse quantità di dicloroetano (100 ppm circa), che agirà da inibitore
dell’ossidazione totale; la sua azione è quella di formare Cl 2 che si adsorbirà sui siti catalitici ([Ag]-
Cl), realizzando così un avvelenamento selettivo della superficie catalitica. Di fatto aumenta la
formazione di [Ag]-O2 a spese di [Ag]-O.
La cinetica del processo è del tipo Langmuir-Hinshelwood
K K E K O PE P O
r= 2
( 1+ K E PE + K O P O )
dove:
- K è la costante cinetica per la reazione di formazione dell’ ossido di etilene;
- KE e KO sono, rispettivamente, le costanti di adsorbimento dell’etilene e dell’ossigeno (K E
=10* KO);
- PE e PO sono, rispettivamente, le pressioni parziali di ossido di etilene e ossigeno.
Come già detto KE =10* KO, che implica che, a parità di pressione parziale, il
catalizzatore è più ricoperto superficialmente di etilene piuttosto che di ossigeno.
Inoltre, al reattore conviene mandare etilene in eccesso rispetto all’ossigeno per uscire dai limiti di
esplosività, perdendo però in conversione per passaggio di etilene (7-15% in impianti ad ossigeno),
perché l’etilene è in forte eccesso (si deve pensare, dunque, ad un riciclo).
Se uso aria come reagente, poiché l’azoto ha un rapporto 4:1 con l’ossigeno, si ha un problema di
accumulo di inerte, pertanto si deve modificare la logica dell’impianto. In questo caso, infatti, la
conversione dell’etilene deve essere più alta (circa il 70%), perché è necessario fare uno spurgo.
Le due tipologie d’ impianto (ad ossigeno e ad aria) hanno alcuni punti in comune:
- La scelta del catalizzatore (metallo catalitico e supporto),
- la scelta della composizione alimentata al reattore (eccesso di idrogeno rispetto all’
ossigeno e aggiunta del promotore come l’ 1,2 DCE)
- adsorbimento facilitato dell’etilene rispetto all’ossigeno.
La tipologia di reattore scelto è un reattore a fascio tubiero, che da un’elevata superficie di scambio
per unità di volume di materiale catalitico. La lunghezza del reattore oscilla tra i 6 e i 12 m, i tubi
all’ interno hanno diametro tra 2 e 5 cm e ci possono essere fino a 12000 tubi allocati. In un
impianto moderno ci sono 3 reattori in parallelo per arrivare a produrre 150-200 mila tonnellate di
ossido di etilene annue.
Come inerte si utilizza metano, che è indicativo del fatto che in un impianto di questo tipo non c’è
rischio di combustione omogenea. Infatti, il metano, dal punto di vista della sicurezza, non è una
scelta ottimale, in quanto aumenta il rischio di esplosioni. Nonostante questi rischi, però, il metano
è usato perchè riesce a smaltire efficientemente il calore nonostante sia un gas, data la sua elevata
conducibilità termica, aumenta il coefficiente di trasporto all’interno del sistema.
In pratica, a parità di Q nell’equazione Q=UA ∆T , il metano aumenta il valore di U, diminuendo
quindi il ∆T.
In maniera similiare, l’1,2 DCE, promotore perché aumenta la selettività del processo, limita la
quantità di calore generato per passaggio e quindi alleggerisce la sezione di scambio del reattore.
Figura 7.5 - Tipico schema di un impianto di produzione di ossido etilenico con ossigeno

La Fig. 7.5 mostra lo schema di impianto di produzione di ossido etilenico con ossigeno.
Il cuore dell’impianto è il reattore che lavora alla T=500 K e alla pressione di P=20 bar. Dal punto
di vista sia cinetico che termodinamico, la pressione non influenza le performance reattore e la
velocità di produzione dell’OE rimarrà sempre la stessa, a flusso costante. La scelta dei 20 bar
(sebbene aumenti i costi dell’impianto), si basa sulla presenza a valle di assorbimento, che come
sono favorite dalle alte pressioni. In particolar modo, vi è un assorbitore di OE, ovvero una torre
di assorbimento gas-liquido alimentata in fondo dalla corrente in uscita dal reattore e dall’alto da un
make-up d’acqua fresca di alimentazione in contro-corrente.
All’ingresso del reattore si ha l’etilene, l’ossigeno, il dicloroetano (promotore), e il metano che
permette di mantenere costante la T costante nel reattore. Il promotore viene additivato all’etilene in
quantità modeste utilizzando un by-pass. Poiché la produzione di OE è molto grande e l’etilene
viene inserito nel reattore in forte eccesso, vi saranno centinaia di migliaia di tonnellate di etilene
alimentate (per anno), e quindi, dosare in maniera precisa decine di ppm di dicloetano risulta
praticamente impossibile. La strategia migliore è risultata quella di far gorgogliare una percentuale
opportunamente bassa di etilene in una colonna a bolle dove è presente dicloretano liquido. Quindi,
la corrente si satura di DCE e rimescolando con la corrente in entrata al reattore, si riescono ad
ottenere dosaggi molto precisi.
Il miscelamento statico dell’etilene con ossigeno e metano risulta essere un punto critico
dell’impianto, in quanto se non avviene abbastanza rapidamente, localmente si può raggiungere
l’intervallo di esplosività. Per questo motivo il miscelatore viene progettato per far sì che il sistema
raggiunga immediatamente il valore di concentrazione nominale.
La composizione tipica dell’impianto ad ossigeno è (percentuali in volume):
- 15-40% di C2H2
- 5-9% di O2
- 5-15% di CO2 (prodotto all’interno del processo stesso)
- La rimanente parte è composta da inerti (come CH4 e Argon, che entra con l’aria)
La massima conversione di etilene è del 7-15% e la selettività è del 75-80%. Dalla conversione, si
evince che la in uscita dell’OE sarà bassa, ovvero tra l’1-3% in volume.
Ritornando allo schema di impianto, le correnti di ingresso vengono preriscaldate da
uno scambiatore a fascio tubiero e mandate in un reattore molto grande. L’altezza del reattore si
aggira intorno ai 15 m e al suo interno possiamo trovare 12.000 tubi. I tubi devono essere quanto
più sottili possibili (20-40 mm), per ridurre al massimo il gradiente di temperatura in direzione
radiale. Una parte della corrente, per limitare le tensioni meccaniche nei tubi, viene prelevata dal
reattore e viene mandata in uno scambiatore di calore, dove cederà calore ad un idrocarburo
altobollente. Sfrutteremo l’entalpia immagazzinata da questi per produrre vapore, che in seguito
verrà mandato in una turbina per produrre energia elettrica.
L’uscita del reattore verrà inviato in una torre di assorbimento con acqua, in cui la maggior parte
dell’OE potrebbe reagire per dare luogo al glicole.

Figura 7.6 – Semivita dell’ossido di etilene in acqua vs. pH


In figura 7.6 è mostrato un grafico che riporta il periodo di semi-vita dell’OE in H20 in funzione
del pH. Da questo, si nota che per minimizzare la produzione di glicole (ovvero massimizzare la
semivita dell’OE) bisogna operare in condizioni di pH medio e temperature non molto alte.
Ovviamente, poiché la semi-vita è calcolata nell’ordine dei giorni, ma i tempi di permanenza medi
in colonna sono di una decina di minuti, quindi la quantità di glicole che si forma è minima rispetto
alla quantità di OE che viene alimentata. Per questo motivo è possibile effettuare un assorbimento
in acqua. L’acqua, sia di make – up che di riciclo (poiché preventivamente), viene inviata in contro-
corrente. Dall’alto della torre escono gli off-gas, ovvero gas di spurgo, necessari per la presenza
degli inerti presenti insieme all’ossigeno (ad esempio Ar). Per minimizzare la portata di questi
spurghi, l’ossigeno deve essere molto puro (circa 99,5 - 99,6% in volume, ottenibile grazie al
frazionamento dell’aria), così come l’etilene (che può presentare tracce di etano). In ogni caso,
sebbene vi sia pochissima concentrazione di Argon nella corrente di alimentazione, questo sì
accumulerà nella torre, dove risulta essere 30-40 volte più concentrato.
Un eventuale spurgo di metano (altro inerte) risulterebbe inutile, in quanto è possibile regolarlo
all’alimentazione. Un ulteriore inerte è rappresentato dalla CO2, che è generato dalle reazioni di
combustione totale e che tende ad accumularsi. Per rimuovere la CO 2 si può procedere con un
assorbimento chimico, ad esempio in K2CO3, sebbene è utile non eliminare completamente la
presenza di anidride carbonica, poiché può servire ad abbassare il limite di infiammabilità. Quindi
al corrente in testa all’assorbitore di EO non spurgata viene compressa e divisa in due correnti. La
prima torna direttamente al reattore, il resto viene inviato ad un assorbitore chimico, che lavora ad
alte P e basse T, in controcorrente ad una soluzione acquosa di carbonato di potassio, dando luogo a
K 2 C O3+ C O2+ H 2 O ↔2 KHC O3
Infine, la soluzione satura di bicarbonato di potassio, viene mandata in una colonna di stripping,
dove avviene il desorbimento e si libera la CO2. Il carbonato di potassio qui ottenuto verrà, invece,
reimmesso nella colonna di assorbimento chimico.
Ritornando alla torre di assorbimento EO, dal fondo della colonna uscirà una corrente liquida con
una soluzione acquosa di OE, che verrà mandata in un’unità di desorbimento, dopo essere
preriscaldata. Dal fondo di questa colonna di desorbimento uscirà inevitabilmente una soluzione
liquida costituita da acqua e glicole, che verrà impiegata in parte per il make-up dell’acqua. Dalla
testa della colonna uscirà invece una corrente gassosa, contenente ancora gas leggeri e che quindi
verrà inviata una colonna di distillazione che lavora sotto pressione. Da questa, in testa usciranno i
gas (acetaldeide, CO2 trascinato in acqua, etano), mentre dal fondo della colonna di distillazione
esce una corrente liquida, che verrà mandata in una colonna di purificazione. Dalla colonna di
purificazione, dalla testa uscirà il prodotto desiderato (OE) e dal fondo una blanda soluzione
acquosa di H2O. Questa soluzione verrà inviata come make-up dell’acqua nella prima torre di
desorbimento.

Frazionamento dell’aria
Il frazionamento dell’aria è un processo che, in campo industriale, ha come obbiettivo
la produzione di ossigeno puro per l’alimentazione di impianti in cui non si può, o non conviene
economicamente, inviare aria.
L’aria, a P e T ambiente, si presenta come una miscela di gas composta da azoto,
ossigeno, argon (e piccole percentuali di altri gas) e infine umidità, definita come il
rapporto percentuale tra la quantità di vapore presente in una massa di aria e la
quantità massima che può essere contenuta nelle stesse condizioni di temperatura e
pressione.
Il frazionamento prevede due parti di impianto: la liquefazione dell’aria e la
distillazione, che si fa attraverso una colonna di distillazione, in cui ogni piatto si assimila ad uno
stadio di equilibrio in cui avviene uno scambio di materia tra il liquido che viene dall’alto e il
vapore proveniente dal basso. Lo scambio di materia avviene grazie alla diversa volatilità che
liquido e vapore hanno in ogni stadio, nonostante abbiano uguale temperatura.
Infatti, sebbene azoto e ossigeno abbiano diversa densità, questo non basta a separarli.

Figura 8.1 – Caratteristiche chimico-fisiche e composizione dell’aria


Come si vede dalla tabella in Fig. 8.1, L’aria è una miscela di gas lontani dalle condizioni
supercritiche e può essere, quindi, considerata come un unico gas ideale.
Effetto Joule-Thomson
L’effetto Joule-Thomson è un effetto di riscaldamento o raffreddamento in seguito ad
una trasformazione eseguita in condizioni adiabatiche (ovvero isoentalpiche).
Se consideriamo la trasformazione adiabatica di un gas ideale possiamo scrivere il
lavoro infinitesimo come:
dW =PdV + d W Ω +d W u
dove:
- dW non è un differenziale esatto, perché dipende dal cammino di trasformazione.
- PdV è il lavoro per variazione di volume
- dWΩ è il lavoro legato all’energia elettrica o magnetica (che in questo caso sarà zero)
- dWu è lavoro utile, solitamente fatto da un impeller per la miscelazione (anche questo posto
uguale a zero).
Dal primo principio della termodinamica ∆ H =Q−W , ovvero la variazione di entalpia è uguale alla
differenza fra calore scambiato e lavoro isocoro, cioè a volume costante. Quindi, volendo trovare la
differenza di entalpia della trasformazione isoentalpica, poiché il termine PdV dell’equazione
precedente è uguale a 0, tutto il lavoro compiuto sarà uguale a 0. Inoltre, se si opera in condizioni
adiabatiche, anche il calore scambiato sarà uguale a 0 e, pertanto ∆H = 0.
In condizioni adiabatiche e a volume costante, l’entalpia dell’espansione di un gas si
mantiene costante. Se il gas è ideale, poiché l’entalpia è solo funzione della temperatura, anche la
temperatura sarà costante durante la trasformazione.
Per un gas non ideale, la cui l’entalpia è funzione anche della pressione, invece, a seguito di una
compressione o di un’espansione, la temperatura varierà.
Sarà quindi utile definire il coefficiente di Joule-Thompson, che lega la variazione di temperatura
dovuta alla compressione del gas.
Si sviluppi il differenziale dell’entalpia, funzione di temperatura e pressione.
H=f (T , P)
δH δH
dH = ¿ P dT + ¿ dP
δT δP T
δH
Poiché dH = 0 e ¿ =c , allora
δT P P
δT −1 δH
¿H= ¿ =α
δP c P δP T
Dove α = f(T,P) è definito coefficiente di Joule-Thompson e per un gas ideale risulta α =0.

Figura 8.2 – Grafico Temperatura-Pressione di un gas


Osservando il grafico in Fig. 8.2, si nota che, spostandosi verso l’alto le curve isoentalpiche sono a
entalpia sempre più bassa.
Per studiare il segno di α, si considerino due pressioni differenti, P 2 > P1. Poiché viene eseguita
un’espansione, nel grafico ci si muoverò da destra verso sinistra.
Se ci si trova a sinistra del massimo, ovvero dove la curva è crescente, ∆P < 0 e ∆H > 0, quindi a è
maggiore di 0. Pertanto, se si opera a pressioni inferiori rispetto a quella corrispondente al massimo,
espandendo il gas, la temperatura diminuisce.
Viceversa, rifacendo lo stesso ragionamento a destra del grafico, dove le curve sono decrescenti, si
trova che α < 0, ovvero effettuando un’espansione il gas si riscalda.
Unendo tutti i massimi delle isoentalpiche si ottiene la cosiddetta curva d’inversione, perché
raccorda tutti i punti in cui il gas inverte il suo comportamento. Poiché per in questa curva a =0,
essa descrive il comportamento dei gas perfetti.
La curva più scura in basso a sinistra rappresenta la curva di equilibrio del gas,
ribaltata per adattarla al grafico, sotto la quale vi sarà la zona in cui il gas diventa liquido, mentre
sopra risulta incomprimibile.
Quindi, facendo una trasformazione isoentalpica, se si lavora in una curva a T
abbastanza basse, si può trasformare un gas supercritico in un liquido, anche nel caso dell’aria.
Il punto A, ovvero il massimo della curva di inversione, rappresenta la pressione massima entro la
quale si può ottenere un raffreddamento da un’espansione. Se andiamo a P > Pmax, ho infatti α < 0.
Alcuni gas, come l’elio, l’idrogeno e l’argon, hanno Pmax molto basse, quindi a seguito di
un’espansione quasi sicuramente si riscaldano, cioè non posso essere liquefatti in questo modo.

Figura 8.3 – Tipico schema di un ciclo Linde

Ciclo Linde
I cicli sono una sequenza di operazioni che permettono di liquefare l’aria (Fig. 8.3).
Si partirà da aria in condizioni ambiente, quindi da una pressione P1 pari alla
pressione atmosferica e una temperatura T1 pari alla temperatura ambiente.
L’entalpia H11 è univocamente determinata, vista la conoscenza della temperatura e
della pressione in condizioni ambiente.
Entrerà una certa quantità d’aria, valutabile con una quota “x”.
Tale quantità arriva ad un compressore, che la porterà ad una pressione P2 e una
temperatura T1*, maggiore di quella di partenza, poiché la Tmax dell’aria è di 500 bar,
quindi una compressione a partire da 1 atm porta sicuramente ad un riscaldamento.
In tale zona il gas avrà un’entalpia pari a H11*.
A questo punto, il gas viene raffreddato, ritornando così alla temperatura T1. Il gas,
dunque, alla fine di questa doppia operazione (tratto rosso in Fig. 8.3) si troverà ad
avere una pressione P2 maggiore dell’iniziale, una stessa temperatura T1 ed
un’entalpia pari ad H21, diversa da quella iniziale poiché è variata la pressione.
L’insieme di queste due operazioni è quindi una compressione isoterma.
In seguito, il gas attraversa lo scambiatore, dove si raffredda. Uscirà sempre alla
stessa pressione, poiché trascuriamo le perdite di carico, ma a temperatura T2 più
bassa. Si avrà un’entalpia, dunque, H22 diversa rispetto alla precedente, essendo
cambiata la temperatura.
L’aria sarà poi convogliata ad una valvola di laminazione, dove subirà
un’espansione isoentalpica. Se l’espansione ci porta ad un raffreddamento
tale da portarci ad una parziale liquefazione, allora l’impianto sarà un separatore gas-
liquido, con le due fasi in equilibrio liquido-vapore.
Il sistema alla fine avrà quindi una pressione P1 (atmosferica) ed una certa
temperatura T3 derivante dall’espansione isoentalpica. La fase liquida avrà
un’entalpia H13L e la fase vapore avrà un’entalpia H13V, che differiscono fra loro del
calore latente di evaporazione, trascurando le masse poiché grandezze specifiche:
H V13=H 13
L
+ λev ¿T 3

Il raffreddamento all’interno dello scambiatore avviene in controcorrente, facendo


incrociare all’aria da raffreddare vapore freddo (alla temperatura T3), proveniente
dall’equilibrio liquido-vapore. Il vapore dell’equilibrio riciclato è solo una quota “(1-
x)”, ovvero la parte liquida estratta sarà proprio x.
La quota (1-x) mandata allo scambiatore, viene in seguito nuovamente riciclata, ed
inviata all’ingresso del ciclo.
Riciclare, piuttosto che prelevare aria dall’esterno, ha il grosso vantaggio di utilizzare
una corrente già trattata, quindi privata di ogni traccia d’acqua che porterebbe a
formazione di solidi (date le basse temperature del processo).
In definitiva si avrà x in ingresso e x in uscita, però sotto condizioni diverse.
Si vuole ora conoscere quale sarà la quantità di aria liquefatta scambiando con il
sistema il calore Q e il lavoro W. È necessario, dunque, effettuare dei bilanci
entalpici:
1. Bilancio entalpico allo scambiatore, dove, non essendoci generazione, può
essere scritto come
( 1 ) H 21+ ( 1−x ) H V13=( 1 ) H 22 +(1−x) H 11
Dove ( 1 )=x +( 1−x), ovvero la quota in ingresso più il riciclo. Poiché x e H 22
sono entrambe incognite del sistema, serve una seconda equazione per
risolverlo.
2. Bilancio entalpico alla valvola di laminazione
L
H 22=x H 13 + ( 1−x ) H V13

Mettendo a sistema le due equazioni e sviluppando il sistema si ottiene:


H 21−H 11
( 1 ) H 21+ ( 1−x ) H V13=x H 13
L V
+ ( 1−x ) H 13 + ( 1−x ) H 11 → x=
H L13−H 11

È possibile ricavare la frazione x effettuando un bilancio entalpico dall’ingresso allo


scambiatore fino alla fine del ciclo (tratto blu in Fig. 8.3).
L H 21−H 11
H 21=( 1−x ) H 11 + x H 13 → x=
H L13−H 11

Figura 8.4 – Ciclo Linde su un diagramma temperatura vs. entropia

Si analizzi ora il ciclo di Linde sul grafico in Fig. 8.4


Parto da H11 (P1=1atm, e T1) ed effettuo una compressione isoterma. Salgo
di pressione ma la temperatura rimane la stessa, arrivando a H21; in realtà
non dovrei avere una linea continua ma una serie di picchi perché avrei una
serie di compressioni e raffreddamenti, ma essendo l’entalpia una funzione
di stato possiamo permetterci di fare questa semplificazione.
2. Si effettua un raffreddamento isobaro (nello scambiatore) arrivando ad H22.
3. Si fa un’espansione isoentalpica (valvola di laminazione) arrivando ad H13 (a
pressione atmosferica). H13 è l’entalpia globale del sistema, e cade
all’interno della campana di equilibrio liquido-vapore. Per visualizzare le
entalpie del liquido e del vapore tracciamo l’orizzontale e le ricaviamo; per
la regola della leva ho più vapore che liquido essendo il tratto del vapore più
breve rispetto a quello del liquido.
4. Si ha un riscaldamento isobaro (nello scambiatore) fino ad arrivare ad H11.
Si partirà col riscaldare la quota “1-x” e si arriva che si sta riscaldando la
quota “1”.
Ciclo Linde modificato
I sistemi sono stati sviluppati ed evoluti per ottimizzare gli scambi di lavoro e
calore dall’esterno per liquefare l’aria.
osservando lo schema avremo all’ingresso la solita quota “x” di aria che viene
convogliata ad un doppio stadio di compressione isoterma. Prima dell’accesso a
tale doppio stadio, alla quota “x” si va ad aggiungere la quota “1-x” riciclata dallo
scambiatore. La quota 1 subirà il primo stadio di compressione isoterma, per essere
poi additivata di una certa quota “y” prima dell’ingresso al secondo stadio di
compressione; al secondo stadio di compressione isoterma verrà quindi
convogliata una quota “1+y”.
Dopo tale doppio stadio di compressione isoterma, il sistema si troverà alla
temperatura T1 di partenza, ad una pressione P2 e con un’entalpia pari a H21.
L’aria attraverserà il doppio-scambiatore, dal quale escono le quote “y” e “1-x”. La
quota 1+y uscirà dallo scambiatore e verrà convogliata ad una valvola di
laminazione, nella quale si avrà un’espansione fino a fare liquefare parzialmente
l’aria; dal primo separatore gas-liquido (che è a pressione P1 che non è la pressione
iniziale), estraiamo la fase vapore che è la quota “y” che va ad essere riciclata,
venendo convogliata allo scambiatore dove subisce un riscaldamento.
La rimanente quota 1 attraversa un’altra valvola di laminazione ed arriva ad un
secondo separatore gas-liquido (gestito alla pressione atmosferica), dal quale
escono una fase liquida di quantità “x” e una fase vapore di quantità “1-x” che va
ad essere riciclata.
Effettuiamo un bilancio entalpico al sistema tratteggiato, cioè il sistema
scambiatore-diffusore (diffusore sono le due valvole e i due serbatoi):
()
()
(
)()
Il risultato di questo bilancio ci da la quota x di aria che vogliamo liquefare:
Le uniche incognite del bilancio sono x e y (cioè le variabili riquadrate). L’entalpia
H21 è un’incognita soltanto se considerata come grandezza estensiva, ma siccome il
nostro bilancio è fatto con grandezze intensive, bisognerà considerarla come dato
noto.
Per chiudere questo bilancio, sarà quindi necessaria una seconda equazione;
possiamo pensare ad y come parametro di x, cioè far rientrare la y nel bilancio
interno al sistema, quindi al variare del parametro y che viene riciclato nel sistema,
otterremo diversi valori di x.
La conoscenza di y è fondamentale per il dimensionamento delle apparecchiature
da utilizzare. Per il dimensionamento delle apparecchiature interessate dalla quota
y, bisognerà effettuare dei bilanci sulle apparecchiature, note temperatura e
pressione.
Bisogna ricavare anche l’incognita H22 che è un’incognita di tutto l’impianto ed è
necessario conoscerla per la realizzazione di questo; per ricavarla bisognerà
effettuare un bilancio sull’unità singola, ad esempio sullo scambiatore.
Il punto cardine di questo processo è l’utilizzo di questi stadi intermedi per
l’ottimizzazione della quota x di aria che posso liquefare.
Analizziamo adesso il ciclo di Linde modificato in un diagramma temperatura vs
entropia:
1. Si parte dalla condizione H01 e si arriva ad H11 con una compressione
isoterma, dove comprimo la quota “1”. Da H11 effettuo una secondo
compressione isoterma in cui viene compressa la quota “1+y” fino ad
arrivare ad H21.
2. Si effettua un raffreddamento isobaro (nello scambiatore) arrivando fino ad
H22.
3. Espansione isoentalpica fino ad esempio 30atm, poiché non posso arrivare
fino alla atmosferica visto che ho il riciclo da effettuare. Si arriva ad H13 che
è l’entalpia globale del sistema all’equilibrio liquido vapore.
4. All’interno del separatore gas-liquido avverrà la separazione di una quota
“y” di vapore con entalpia H13
V e una quota 1 di liquido con entalpia H13
L.
5. La quota “y” (H13
V) subirà un riscaldamento isobaro (trascuro perdite di
carico) all’interno dello scambiatore fino ad H11 (riciclo all’ingresso del
secondo stadio di compressione).
6. La quota 1 (H13
L) subisce un’espansione isoentalpica fino alla pressione
atmosferica arrivando ad H04.
7. All’interno del secondo separatore gas-liquido avverrà la separazione di una
quota “1-x” di vapore con entalpia H04
V e di una quota “x” di liquido
(prodotto del processo) con entalpia H04
L.
8. La quota (1-x) subirà un riscaldamento isobaro fino ad H01 (riciclo
all’ingresso).
N.B.: tutti questi processi gli scambiatori sono considerati ideali. Uno scambiatore
è ideale quando presenta condizioni di equilibrio tra la temperatura di ingresso del
fluido caldo e del fluido freddo, cioè che le temperature di ingresso e uscita si
equivalgano in un lato dello scambiatore piuttosto che nell’altro, a seconda che la
capacità termica del fluido caldo sia maggiore di quello freddo e viceversa.
Ciclo Claude
È l’ultimo esempio di ciclo trattato; esso va verso altri miglioramenti rispetto ai
due analizzati in precedenza.
Ciò che si nota rispetto ai cicli precedenti è che la quota “y” non viene più
utilizzata in un’espansione isoentalpica per poi essere separata in un serbatoio
gasliquido
per essere poi riciclata. Si avrà un solo stadio di compressione isoterma al
contrario dei due che si hanno nel ciclo Linde modificato. Un’altra cosa che
cambia è l’avvenimento di una trasformazione particolare:
Questa è una trasformazione in cui avviene uno scambio di
lavoro attraverso una macchina, sfruttante proprio la quota y del
gas. Questa compie lavoro verso l’esterno con una
trasformazione di tipo isoentropico.
Analogamente ai casi precedenti possiamo considerare un’equazione di bilancio su
una porzione abbastanza estesa del sistema; consideriamo la porzione di sistema
che va dal primo scambiatore fino alla fine. L’equazione di bilancio sarà:
()
Le due incognite come nel caso precedente, sono x e y. Il lavoro lo conosciamo
perché è quello che compie la macchina:
Dove H16 è l’entalpia all’uscita dalla macchina.
W
Dall’equazione di bilancio si ottiene:
Analizziamo adesso il ciclo di Claude in un diagramma temperatura vs entropia:
1. Partiamo da H11 e facciamo una compressione isoterma fino a H21.
2. Si effettua un raffreddamento isobaro (nello scambiatore) fino ad H22.
3. Una quota y subisce una trasformazione quasi isoentropica fino ad H16.
4. La quota “1-y” parte da H22 e subisce un primo raffreddamento isobaro fino
a H23 (secondo scambiatore), ed un secondo raffreddamento isobaro (terzo
scambiatore) fino ad H24.
5. Si ha a questo punto un’espansione isoentalpica fino alla pressione
atmosferica, raggiungendo H15, che è l’entalpia globale del sistema
all’equilibrio liquido-vapore (quota “1-y”).
6. Si ha la separazione nel separatore: una quota “x” liquida con entalpia H15
Le
una quota “1-x-y” vapore con entalpia H15
V.
7. Si effettua un riscaldamento isobaro della quota “1-x-y” partendo da H15
Ve
arrivando ad H16. Da H16 si effettua un secondo riscaldamento isobaro della
sola quota “1-x”, che sarà quella riciclata all’ingresso, fino ad un’entalpia
pari a H11.
N.B.: qualsiasi sia il ciclo noi ci riporteremo sempre a pressione atmosferica alla
fine di questo. Non facciamo altro che sfruttare il salto entalpico negativo ottenuto
all’inizio del ciclo con la compressione, utilizzandolo nel senso del raffreddamento
e quindi alla liquefazione (attraverso le valvole di laminazione isoentalpiche).
Schematizzazioni degli impianti
Nel ciclo Linde alimentiamo dell’aria, la facciamo passare da dei compressori e la
convogliamo ad un raffreddamento effettuato in degli after-cooler. Questi due
passaggi non fanno altro che schematizzare lo stadio di compressione isoterma.
L’aria viene poi convogliata ad uno scambiatore per passare poi attraverso una
valvola di laminazione, che tramite l'effetto Joule-Thomson crea raffreddamento e
liquefazione dell’aria.
Una volta che abbiamo l’aria liquida a disposizione (quota x liquefatta), la
convogliamo alla colonna di distillazione.
Per questi processi vengono utilizzati una tipologia particolare di scambiatori,
degli scambiatori-rigeneratori Fraenkl-
Linde.
L’aria che dovrà poi attraversare la
valvola di laminazione, scambia non
con dell’altra aria (come visto negli
schemi studiati in precedenza) ma
scambia con delle correnti fredde
provenienti dallo stadio di separazione
della colonna di distillazione, che
possono essere delle correnti di azoto o
ossigeno. È molto più frequente che la
corrente utilizzata per lo scambio sia
una corrente d’azoto.
Osserviamo adesso come sono fatti questi scambiatori.
Sono degli scambiatori-rigeneratori, come già detto, che lavorano in maniera
alternativa, cioè uno prima viene attraversato dall’aria e l’altro viene attraversato
dall’altra corrente che sottrae calore ed alternativamente si scambiano i compiti,
cioè vi sarà un operazione di switch che permetterà all’uno di passare ai compiti
dell’altro e viceversa, facendo così uno scambio di calore in maniera indiretta.
L’operazione di alternarsi porta così ad avere un lato sempre più freddo rispetto
all’altro, nel quale verrà fatta passare l’aria da raffreddare.
Il tramite per questo tipo di scambio di calore è costituito dai riempimenti di questi
scambiatori, che sono di fatto dei pacchi di lamelle (metalliche). L’immagine sopra
ci fa vedere due diverse sezioni di questi scambiatori facendoci osservare come le
dimensioni dei pacchi di lamelle siano differenti. Questi pacchi di lamelle
costituiscono dei corpi che sono in grado di trattenere il calore e di cederlo poi alla
corrente successiva di aria che li attraversa.
Come già detto, è molto più frequente che la corrente utilizzata per lo scambio sia
una corrente d’azoto piuttosto che una di ossigeno. Ciò viene fatto perché quello
che vogliamo ottenere è ossigeno pure e facendolo passare per fare il fluido
refrigerante, potrebbe trattenere delle impurità come l’acqua. L’acqua
eventualmente trattenuta dalla corrente di azoto viene poi eliminata; si preferisce
farlo con azoto perché l’ossigeno è il prodotto più pregiato tra i due.
Colonne di distillazione dell’aria
Torniamo a parlare della distillazione che viene effettuata per il frazionamento
dell’aria. Per effettuare tale operazione unitaria, bisogna considerare l’equilibrio
liquido-vapore tra l’azoto e l’ossigeno.
Osserviamo i seguenti grafici.
Il grafico b), ci fa vedere l’equilibrio liquido-vapore fra azoto e ossigeno; nel
grafico sono riportate le “lenti” di un equilibrio bifasico di miscelazione di due
sostanze, ottenute a diverse pressioni. Osserviamo in particolare gli equilibri
relativi alle pressioni di 1atm e 5atm. Le lenti ci forniscono le temperature di
ebollizione dei componenti puri, alle estremità.
L’azoto a pressione atmosferica ha temperatura di ebollizione pari a 77K, che è
quindi la temperatura dell’azoto liquido a pressione atmosferica. Questa è una
temperatura di riferimento per qualsiasi attività di criogenia che si svolga.
L’ossigeno nelle stesse condizioni avrà una temperatura di ebollizione pari a 90K.
A 5atm avremo invece l’azoto con temperatura di ebollizione pari a 94K e
l’ossigeno pari a 109K.
Il grafico a) invece non fa vedere altro che la distribuzione dell’azoto nel vapore e
nel liquido, in un equilibrio liquido-vapore a diversa composizione a pressione
atmosferica. Si nota come nella fase vapore l’azoto, essendo al di sopra della
diagonale, sarà maggiormente presente rispetto all’ossigeno; questo lo si può
capire anche dal fatto che il componente più volatile tra i due è sicuramente l’azoto
(avendo temperature di ebollizione inferiori).
Analizziamo adesso il funzionamento delle colonne.
Queste colonne sono una tipologia piuttosto particolare perché sono costituite da
due colonne a piatti sovrapposte in cui, il ribollitore della colonna di sopra coincide
con il condensatore della colonna di sotto. Queste due colonne sovrapposte
sostanzialmente non costituiscono altro che il ciclo di Claude.
La colonna di sotto è gestita ad una pressione di 5atm, quella di sopra ad 1atm.
La colonna di sotto prende il nome di “colonna di arricchimento”, quella di sopra
di “colonna di rettifica”.
L’alimentazione entra dal basso (rettangolo rosso) ed è costituita da ciò che entra al
ribollitore della colonna di arricchimento come fluido riscaldante; non è altro che
l’aria che è stata precedentemente compressa e raffreddata. L’aria entra raffreddata
ma solo in parte, non abbastanza, infatti siamo soltanto all’inizio del processo;
questa andrà a scambiare calore con il fluido freddo all’interno della colonna ed
agirà quindi da fluido riscaldante.
Uscita dal ribollitore attraversa la valvola di laminazione ed entra alla colonna di
arricchimento come alimentazione di questa. Dal fondo della colonna di
arricchimento si ottiene un liquido ricco di ossigeno (rispetto all’aria) nella
percentuale 40% ossigeno e 60% azoto (consideriamo le percentuali in massa).
Tale liquido avrà ovviamente una pressione di 5atm. In testa alla colonna si otterrà
azoto quasi puro (98%).
Il liquido ricco in ossigeno, subirà una seconda espansione isoentalpica fino ad
1atm, lo si raffredda rendendolo liquido e lo convogliamo alla colonna di rettifica
che è gestita ad 1atm.
L’azoto che costituisce il prodotto di testa della colonna di arricchimento, si fa
espandere da 5atm a pressione atmosferica inviandolo così in testa alla colonna di
rettifica.
Dalla testa della colonna di rettifica otterremo azoto puro, con purezza superiore al
98% ottenuto prima; dal fondo di tale colonna otteniamo l’ossigeno puro al 95%.
Ciò che ci permette di passare da una colonna il cui prodotto di testa è di 94K ad
una in cui il prodotto di fondo è di 90K sarà il raffreddamento ottenuto in seguito
all’espansione isoentalpica.
Un’ultima informazione a livello meramente visivo viene data attraverso la
visualizzazione del seguente schema di processo. Questo è un tipico impianto per
la distillazione dell’aria tramite il ciclo Linde-Fraenkl modificato.
Si ha lo stadio di compressione isoterma, seguito dai vari scambiatori (visti durante
l’analisi dei cicli) ed infine la colonna di distillazione.
Si può provare a tracciare con 3 diversi colori i percorsi dei tre fluidi attraversanti
quest’impianto (aria, ossigeno e azoto) osservando così quali siano quelli più
utilizzati durante il processo

Potrebbero piacerti anche