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1- Introduzione
Figura Errore. Nel documento non esiste testo dello stile specificato.-1 Tipico schema a blocchi di
un impianto chimico
Osservando il precedente schema a blocchi (Fig. 1.1), si nota come il nocciolo del processo è il
reattore, dal quale ci si aspetta la piena realizzazione della trasformazione richiesta. Ovviamente
questo da solo non può raggiungere l’obiettivo prefissato, cioè quello di partire da materie prime
disponibili e raggiungere uno specifico prodotto, quindi, per ovviare a questo problema, si
aggiungono il blocco di Preparazione e quello di Separazione e Purificazione.
Il primo serve ad effettuare i pretrattamenti, come, ad esempio, l’eliminazione di eventuali sostanze
che potrebbero portare, anche in piccole quantità, all’avvelenamento dei catalizzatori effettuando,
Il secondo serve invece alla separazione dei prodotti dai reagenti non reagiti o dai
prodotti di scarto e coprodotti. I prodotti di scarto rimangono tali se non siamo in grado di dargli
alcun valore o se l’impianto non è equipaggiato in modo tale da trasformarli in altri prodotti utili o
con valore commerciale.
Nel caso in cui si abbia una reazione chimica elementare con conversione del 100%, si potrebbe
omettere il blocco di separazione, poiché, all’uscita del reattore non vi saranno reagenti nè tanto
meno prodotti di scarto.
La matrice di Kline (Fig 1.2) è utile dal punto di vista industriale perché classifica i prodotti in
quattro classi generiche. La matrice è costruita considerando il volume di produzione e il grado di
differenziazione dei prodotti.
Le quattro classi sono:
- Commodities, con da grandi volumi e basso grado di differenziazione. Vengono
caratterizzati in base alla loro purezza e sono spesso utilizzati come materie prime per altre
reazioni
- Fine chemicals, ad esempio i principi attivi farmaceutici. A causa dello scarso volume di
produzione, si utilizzano impianti batch di piccole dimensioni
- Pseudo-commodities, quali la benzina. Caratterizzati non dalla composizione chimica, ma
dalle loro prestazioni
- Specialties, come adesivi e lubrificanti. Anche questi caratterizzati dalle prestazioni, ma con
volumi di produzione più ridotti.
Il punto chiave è che, dopo aver investito il capitale in un impianto industriale, questo
deve dare un ritorno di investimento significativo. La percentuale di ritorno di
investimento annuale (ROI, return of investiment) può essere calcolata come:
Queste voci sono in realtà di difficile determinazione anno per anno: per esempio il prezzo del
prodotto è determinato dal mercato e naturalmente non esiste modo di prevederne l’andamento a
lungo termine, quindi vi è un certo margine di incertezza nella determinazione del ROI. Nella voce
costo è anche compreso il deprezzamento
investimento−scrap value
deprezzamento=
vita nominale dell ' impianto
una somma virtuale che distribuisce nel tempo l’investimento, in cui con vita nominale si intende il
tempo di vita ritenuto ragionevole per il recupero del capitale. Questo termine sparisce per tutti gli
anni successivi alla vita nominale, rendendo improvvisamente l’impianto molto più competitivo sul
mercato, persino se confrontato con impianti equipaggiati con tecnologie più recenti ed efficienti,
ma che ancora non hanno restituito. Questo si traduce nel fatto che tutte le scelte vanno operate
sempre dopo accurate considerazioni economiche: non sempre un impianto a massima efficienza è
la scelta più accettabile.
Nella progettazione di un impianto è necessario utilizzare parametri quantitativi per
definire la performance di ogni singola sezione, ovvero le cosiddette figure di merito, per dare
un’idea quantitativa dello sfruttamento delle risorse e quindi dell’investimento, in modo da poter
optare scelte oculate. Queste figure di merito vengono determinate nelle varie fasi della
sperimentazione del processo, dalla sperimentazione in laboratorio fino all’impianto vero e proprio,
e giocano un ruolo fondamentale nella minimizzazione del rischio, permettendo eventualmente di
interrompere l’investimento prima di procedere alla fase successiva.
Quando si parla di X, è importante specificare a quale reagente sia riferita, per esempio nella
parziale ossidazione di etilene a vinilacetato
1
C H 2=C H 2+C H 3 COOH + O 2=C H 2 COOH + H 2 O
2
si manda ossigeno in difetto mantenersi sotto il limite inferiore di esplodibilità. In queste condizioni
X O 80 % ; X C 30 % . Inoltre, diventa fondamentale un riciclo di etilene (reagente molto costoso)
2
che implica una scelta oculata dell’ossidante: infatti, se si usa aria si avrà un enorme quantità di
azoto in uscita dal reattore, tale da necessitare una portata di spurgo ricca in etilene (come si vede
dalla Fig 1.4), talmente tanto grande da rendere economicamente vantaggioso l’uso di ossigeno
puro.
F, xf Prodotti
R S
P, xp
Effettuando un bilancio di massa sul componente inerte si ottiene X f F =X p P , dove con F si intende
l’alimentazione e P lo spurgo, che implica che affinché lo spurgo sia vantaggioso è importante che
xF sia molto piccolo per mantenere basso P (xP è fissato
dall’efficienza delle apparecchiature), e quindi sarebbe conveniente solo per X 80 %
Figura 1.5 – Grafico Concentrazione/tempo di un reattore batch
Si immagini una reazione in un reattore batch, il cui andamento nel tempo della concentrazione del
reagente A è rappresentato nella figura 1.5. Dopo il tempo tf si può interrompere il processo, in
quanto la velocità della reazione, rappresentata dalla pendenza della curva, è diventata
eccessivamente bassa. La conversione si può esprimere quantitativamente, se consideriamo V del
reattore costante, come
Q C A −C A
X= R= 0 f
QF CA 0
CA ¿
k1
Nel caso di una reazione parallela, S= e quindi la selettività non dipenda dalla
k 1+ k 2
concentrazione di reagente ma dalla temperatura del sistema (che influenza le costanti di equilibrio).
Nelle figure di merito finora citate manca un importante parametro, il tempo. Per
ovviare a questo si considera la
Kg di prodotto
resa spaziotemporale =
L di catalizzatore∗ore
che serve per determinare quanto sia efficiente in termini volumetrici il catalizzatore
e quindi quanto può essere compatta la sezione di reazione dell’impianto. Nel caso di catalisi
eterogenea, ove il fattore determinante diventa la superficie del catalizzatore, la resa
spaziotemporale è calcolata rispetto alla superficie dello stesso.
Cinetica di reazione
Uno dei più importanti parametri da controllare in un processo è la velocità di reazione, che
solitamente è funzione piuttosto complessa della temperatura e della concentrazione dei reagenti.
Nel caso di reazioni elementari omogenee (ovvero anche per le eterogenee, con adeguati
aggiustamenti) si può semplificare questa dipendenza tramite una legge empirica in cui
1 dN
ra = =k C A =f ( T )∗f (c )
V dt
dove naturalmente C A, specialmente nel caso di reagenti gassosi, è funzione non solo del numero di
moli presenti, ma anche della P, mentre k è funzione della T.
Un modello empirico per l’andamento di k(T) è dato dalla legge sperimentale di Arrhenius
−Ea
k =K 0 exp( )RT
dove Ea è l’energia di attivazione, che si misura sperimentalmente in un reattore in cui la reazione
si lascia procedere per un t sufficientemente piccolo da poter approssimare cA≈cost, ripetendo
l’esperimento a diverse T e rappresentando ln k contro T −1, in cui la pendenza da proprio Ea (Fig.
−E a
2.1). Questo è un risultato derivante da un approccio statistico, in cui exp( )
RT
è la frazione di
particelle in un gas con E ≥ Ea (secondo la distribuzione di Maxwell-Boltzmann), ovvero le
particelle con energia sufficiente a compiere lo step reattivo.
Figura 2.1 – Grafico ln k vs. 1/T di reazioni a Ea diversa
Come si può vedere nella Fig. 2.1, se si lavora a T relativamente basse (a destra nel
grafico) le reazioni con Ea più bassa sono più veloci, ma muovendosi a sinistra (ovvero a T
maggiori) la k delle reazioni a Ea più alta cresce più rapidamente. Quindi,
maggiore è Ea, più la velocità della reazione sarà sensibile alla T (e dunque controllabile). Questo
aspetto è fondamentale qualora si abbia a che fare
con una reazione esotermica competitiva con Ea molto alta, dove la velocità di reazione dipende
fortemente dalla T e quindi diventa fondamentale la gestione del calore di reazione. Infatti, un
leggero aumento di T porterebbe ad accelerazione della reazione esotermica, che a sua volta
incrementerebbe la T del sistema e così via. Si rischia, pertanto, la perdita di controllo del reattore
che potrebbe portare, in tempi brevissimi, all’esplosione dello stesso
Dove si suppone che i reagenti diano luogo ad un intermedio, detto Complesso Attivato, con il
quale sono in equilibrio. La specie AB* è molto reattiva, al punto che risulta essere impossibile
poterne misurare la sua concentrazione, e, dunque, dimostrarne l’esistenza. Lo stadio cineticamente
determinante sarà proprio la formazione del prodotto C. La costante cinetica di tale stadio (valida in
k T
generale per qualsiasi complesso attivato) si esprime come k 3= b , con k b = costante di
h
Boltzmann e h = costante di Plank. Se il secondo stadio è quello cineticamente determinante, allora
il primo si troverà in condizioni di equilibrio dinamico e pertanto la velocità di formazione di A B¿ e
velocità della sua reazione inversa dovranno eguagliarsi. Quindi, indicando con k 1 la costante della
reazione diretta e con k 2 quella inversa, si avrà che
k 1 C A C B =k 2 C A B
¿
¿
E pertanto possiamo indicare con K eq la costante di equilibro per tale reazione, pari a
C k −∆ G¿
K ¿ eq= A B = 1 =exp ( )
¿
(1)
C A CB k 2 RT
Per lo stadio cineticamente determinante, avremo che
k bT
r A B =k 3 C A B =
¿ ¿ C A B (2)
¿
h
Infine, combinando (1) e (2) si ottiene
kb T −∆ G ¿
rAB =
¿
h (
C A C B exp
RT )
Ricordando che, dalla termodinamica, ΔG¿ =Δ H ¿−TΔ S¿ , otterremo dalla precedente:
k T ∆ S¿ −∆ H ¿
r A B = b exp
¿
h ( ) (
R
exp
RT )
C A CB
Confrontando questo risultato con l’espressione ottenuta dal modello di Arrhenius
−Ea
r =K 0 exp( ) RT
C
k bT ∆ S¿
Si ottiene che K =
¿
0
h
exp( )R
¿
e ∆ H =E a−nRT con n (molecolarità) ≤ 2, approssimabile a
∆ H ≅ Ea
CATALISI
La catalisi è un fenomeno attraverso il quale la velocità di una reazione chimica subisce delle
variazioni per
l'intervento di una sostanza (o una miscela di sostanze), detta catalizzatore, che non viene
consumata dal
procedere della reazione stessa, e non ne altera la termodinamica del processo globale. Ricordando
−Ea
l’espressione della velocitò secondo Arrhenius r =K 0 exp ( )
RT
C, il catalizzatore interviene
diminuendo l’ Ea , ma mantenendo costante il ∆H di reazione.
La velocità di disattivazione del catalizzatore deve essere compatibile con gli obbiettivi economici.
In particolare, la vita del catalizzatore dipende da condizioni che non possono essere controllate,
quali la reattività dei reagenti e il tempo impiegato durante la catalisi. Poiché quello che importa è la
resa del processo e non tanto la vita del catalizzatore, è necessario che il tipo di reattore sia
selezionato per ottimizzare la rigenerazione del catalizzatore.
Nel caso di cracking catalitico, la vita media del catalizzatore è minore di un secondo, pertanto si
utilizza un reattore a letto fluidizzato che permette una rigenerazione in continuo.
Figura 3.1 - Schema delle tipologie di catalisi.
Circa l’ 80-90% dei prodotti nell’ industria chimica viene sintetizzato tramite processi
catalitici; abbiamo due tipi di catalisi (Fig. 3.1):
- omogenea, quando il catalizzatore è nella stessa fase dei reagenti
- eterogenea, quando reagenti e catalizzatori sono in fasi diverse
Si consideri, ad esempio:
C H 3−CH =C H 2+ H 2+CO →C H 3 −C H 2−C H 2−CH =O
Che utilizza un catalizzatore del tipo MeXnLm a base di Rodio e metalli transizionali.
Questo è un esempio di catalisi omogenea: infatti, il catalizzatore solido si scioglie nella fase liquida
del reagente (tale perché lavoriamo a pressioni elevate).
In processi di questo tipo è, inoltre, molto importante anche la velocità per
unità di massa con cui i reagenti passano dalla fase gas alla fase liquida e pertanto è fondamentale
avere velocità di mescolamento opportune.
Nella catalisi omogena si riesce a sfruttare l’intero volume di catalizzatore, mentre quella
eterogenea è un fenomeno superficiale e quindi interviene solo la superficie esterna delle particelle
solide. Inoltre la catalisi omogenea è più selettiva perché nella catalisi eterogenea non tutti i siti
attivi si trovano sulla superficie.
D’altra parte, nella catalisi eterogenea, si può lavorare ad alte temperature ed è sicuramente
necessaria quando i reagenti sono una miscela multifasica, come nel caso delle reazioni di
raffineria. Dal punto di vista degli scambi di calore invece è meglio la catalisi omogenea perché le
reazioni esotermiche possono essere meglio controllate attraverso fenomeni come l’evaporazione,
che consentono il controllo della temperatura tramite il calore latente. Un pregio che invece ha la
catalisi eterogena è la semplicità con cui si possono separare reagenti e prodotti.
Un’altra considerazione è che, nel caso della catalisi eterogenea, ci sarà inevitabilmente un
problema di rifornimento di massa del reagente sul sito attivo.
Invece, nella catalisi omogenea, reagenti, prodotti e catalizzatore sono dispersi a
livello molecolare, e ciò implica un’assenza di gradiente e quindi assenza di controllo di massa. È
interessante, comunque, studiare il caso di catalisi omogena di reazioni che coinvolgono reagenti
gassosi disciolti in fasi liquide: consideriamo una reazione con catalisi omogena del tipo
AkB
→
Analizzando nello specifico l’interfaccia gas/liquido, avremo una bolla gassosa a contatto con una
fase liquida in cui è disperso il catalizzatore, il cui profilo di concentrazione (approssimando la
curvatura della bolla ad un’interfaccia piana) è quello riportato in Fig. 3.2.
sottilissimo strato adiacente all’interfaccia. Dunque, la maggior parte del catalizzatore, disciolto nel
rimanente volume di solvente, rimarrà inutilizzato in quanto non risulta possibile rifornirlo
adeguatamente delle molecole di reagente. Ovviamente, in un reattore di questo tipo basterebbe
progettare un film liquido-gas per ottimizzare l’utilizzo del catalizzatore.
Terza considerazione:
Un’ultima considerazione riguarda l’intervallo di temperatura operativa a cui possiamo lavorare. I
catalizzatori eterogenei sono molto più flessibili poiché non è necessaria la presenza di una fase
liquida per farli lavorare, anzi nella maggior parte delle applicazioni sono utilizzati per interfacce
gas-solido. Il range di temperatura arriva fino a 400/500°C con punte di 600°C in alcuni casi, anche
se ovviamente il raggiungimento di temperature troppo alte è inutile perché il processo diventerebbe
attivato termicamente, rendendo superfluo l’uso del catalizzatore. I catalizzatori omogenei, invece,
devono essere necessariamente utilizzati in fase liquida, perché si tratta sempre di composti dotati di
bassa volatilità. Ciò si traduce in temperature di utilizzo più basse per fare in modo di mantenere
condensata la fase liquida; è possibile, ovviamente, aumentare la pressione per ampliare l’intervallo
di temperature in cui la fase rimane condensata, ma, chiaramente, l’aumento di pressione comporta
dei costi sia energetici che per l’inspessimento delle pareti delle apparecchiature.
La formula generica per un catalizzatore omogeneo organometallico è MeXnLn dove, Me è un
metallo di transizione e Xn e Ln sono degli opportuni leganti. Modificando la natura di questi
componenti si possono ottenere catalizzatori con attività e selettività molto diversi fra loro che
cambia significativamente.
Non è possibile stabilire a priori se sia più conveniente la catalisi omogenea piuttosto che
l’eterogenea, ma bisogna analizzare caso per caso ogni singolo processo.
Catalisi eterogenea
Un caso modello, come già detto, può essere quello dell’idrogenazione del cicloesene. Sulla
superficie del catalizzatore dovranno essere adsorbiti sia il cicloesene che l’idrogeno, ma
quest’ultimo è in fase gas, oltre agli stadi precedenti, esso dovrà passare dalle bolle gassose alla fase
liquida, dove avrà una solubilità abbastanza bassa. Il profilo presente nella Fig. 3.3 a) fa capire
come, in un sistema trickle-bed, si abbia un problema di trasporto di massa sia all’interfaccia gas-
liquido sia all’interfaccia fase fluida-catalizzatore. Il problema del trasporto di massa tra fase
gassosa e liquida è indipendente dalla presenza di un catalizzatore omogeneo o eterogeneo.
Le due tipologie di trasporto di massa (interno ed esterno) della catalisi eterogenea differiscono
perché avvengono con meccanismi differenti; all’esterno si ha una convezione forzata, all’interno
ho pura diffusione molecolare per via del piccolo diametro dei pori.
Quest’ultima è complicata dal fatto che i liberi cammini medi di diffusione delle specie sono
paragonabili ai diametri dei pori, perciò alcune delle direzioni di moto sono impedite, con il
risultato finale che il processo di diffusione risulta essere più lento. Il coefficiente di diffusione
all’interno dei pori risulterà quindi essere da uno a due ordini di grandezza più piccolo rispetto al
coefficiente di diffusione del bulk.
Figura 3.4 – Tre differenti rappresentazioni dello strato limite di un fluido viscoso su una
superficie piana
Esaminiamo ora lo stadio di trasporto esterno.
In prima specie, si consideri un catalizzatore eterogeneo massiccio, cioè privo di pori e
concentriamo l’attenzione sul profilo di concentrazione del reagente A.
Sappiamo che quando un flusso inconfinato di un fluido viscoso impatta su una
parete di grandezza infinita (Fig. 3.4) vi sarà una zona di fluido a contatto diretto con la parete che
sarà rallentato; d’altra parte, data la viscosità del fluido, un gradiente di
quantità di moto si propagherà nella fase fluida e farà sì che, progressivamente
mentre mi muovo sulla lamina, avrò delle porzioni sempre più estese di filetti
caratterizzati da moto rallentato. Immaginando di scegliere come discriminante il luogo dei punti
nello spazio in cui la velocità approssima al 95% la velocità del fluido inconfinato, si ottiene così la
generazione di un film adiacente alla parete.
Il fatto che il moto avvenga con dei filetti che si mantengono paralleli, o che si
inneschino processi di rotazione che portano alla formazione di turbini, dipende
essenzialmente da due grandezze: viscosità del mezzo e velocità del fluido. Ci sarà,
quindi, una continua competizione tra le forze inerziali che spingono il moto e le forze di
smorzamento viscoso che tendono ad attenuare queste oscillazioni; il rapporto fra queste forze è
dato dal numero di Reynolds:
ρvD azione delle forze di inerzia
ℜ= =
μ smorzamenti viscosi
Se la velocità è molto elevata, fin quando il film è abbastanza sottile gli smorzamenti
viscosi riescono ad agire, si creerà un film in cui a moto turbolento (Re > 3000 per tubature).
La descrizione del film si può generalizzare e quindi estendere dal trasporto di
quantità di moto ai casi di trasporto di energia e materia.
La reazione considerata avviene sulla superficie e quindi servirà legare la concentrazione al bulk a
quella di reagente effettiva che arriva alla superficie del
catalizzatore, ovvero servirà un metodo per gestire il profilo di concentrazione.
Il trasporto di massa esterno avviene in convezione forzata, condizione ottimale poiché implica
un’elevata velocità di trasporto di massa. Se facessi una reazione con catalisi eterogenea senza
agitare il reattore, il trasporto avverrebbe con convezione naturale per via del gradiente di densità;
infatti, ammesso che si abbia un buon catalizzatore, questo consuma velocemente reagente e crea un
gradiente di densità, innescando così la convezione naturale.
Essere in convezione forzata significa essere in regime turbolento, il che implica la
non esistenza di soluzioni analitiche o numeriche delle equazioni di variazione.
Per ovviare a questo problema si usa un altro approccio: il profilo di concentrazione media tenderà,
a distanze sufficientemente grandi rispetto, al valore di bulk, perché lì l’entità dei vortici sarà tale da
azzerare istantaneamente il gradiente di
concentrazione e, pertanto, le resistenze al trasporto dovranno essere concentrate in un film
prossimo all’interfaccia. Non si è in grado di conoscerlo l’ampiezza del film reale, ma si può
costruire un profilo ideale (Fig. 3.5) in cui:
- Nel bulk della fase fluida si ha un profilo piatto (fase fluida perfettamente miscelata al
catalizzatore);
- Tutte le resistenze al trasporto di materia sono concentrate in un film con spessore δ;
- Dentro il film il trasporto avviene con meccanismo diffusivo, anziché per convezione
forzata.
Figura 3.5 – Schema idealizzato della concentrazione media CA all’interfaccia solido-liquido
Lo spessore è considerato funzione del regime idrodinamico, così da ottenere un modello che fitti
bene gli andamenti di velocità che osservo nel mondo reale. Ad esempio, aumentando la velocità, δ
rimpicciolisce, così come ci si aspetta che succeda nel modello reale.
In caso di puro controllo cinetico di trasporto di massa esterno, la concentrazione C SA è pari a zero,
ovvero il catalizzatore ha un’attività tale da consumare istantaneamente il reagente inviato,
indipendentemente dalla velocità con cui raggiunge la superficie del catalizzatore.
Poiché la C SA in regime di stato stazionario risulta costante, ciò, fisicamente, significa che la velocità
di consumo di reagente (calcolabile come r =k s C SA) e il flusso di materia che arriva sulla superficie
esterna devono uguagliarsi.
Applicando la legge di Fick al profilo idealizzato si ottiene
C bulk S
−1 dN d CA A −C A
J= =− D =−D
S dt dx δ
Pertanto, a meno del segno, il cui significato è quello di indicare la direzione del trasporto di
materia, si avrà che:
D
k s C SA = (C bulk S
A −C A )
δ
D
dove il rapporto k m= è il coefficiente di trasporto di massa.
δ
Questo coefficiente è calcolabile mediante l’uso di correlazioni adimensionali, come il numero di
Sherwood
k m l velocità deltrasporto dimassa convettivo
Sh= =
D velocità del trasporto di massa diffusivo
che a sua volta è ricavabile da relazioni adimensionali quali
1
Flat Plate ( laminare ) : Sh=0.66 R e 0.5 S c 3
1
Flat Plate ( turbolento ) : Sh=0.036 R e 0.8 S c 3
ν
dove il numero di Schmidt è Sc= , con ν viscosità cinematica.
D
Dalla relazione k s C A =k m (C A −C SA ) è possibile determinare la concentrazione in superficie in
S bulk
Se ci si trova in una situazione in cui il catalizzatore è non molto attivo, quindi con
modesta costante cinetica superficiale k s, e il reattore è molto agitato, quindi con
ks
elevato coefficiente di trasporto di massa k m, allora il rapporto sarà un valore trascurabile
km
rispetto all’unità. Pertanto, il profilo di concentrazione sarà piatto fino alla superficie esterna del
catalizzatore C SA ≅ C bulk
A .
Se invece il catalizzatore ha una k s elevatissima, in questo caso il denominatore sarà molto
maggiore rispetto all’unità e quindi la concentrazione superficiale tende ad annullarsi (C SA →0). In
questo caso si avrà una condizione di controllo cinetico per puro trasporto di massa esterno, con un
profilo di concentrazione come quello mostrato in Fig. 3.6.
Figura 3.6 – Profilo di concentrazione di un sistema con controllo cinetico per puro trasporto di
masse esterno
In una situazione di questo tipo l’equazione della velocità della reazione vale
−1 dN
=k m C bulk
A
S dt
L’espressione è del tutto simile a quella che si ha nella reazione in catalisi omogenea.
Siccome siamo in un sistema che lavora in stato pseudo-stazionario (ovvero senza accumulo), vale
che la velocità di reazione è esattamente la velocità con cui si rifornisce il catalizzatore.
Se facessi un fitting di dati sperimentali potrebbe sembrare di avere a che fare con un
processo di catalisi omogenea, perché la velocità a temperatura fissata e regime
idrodinamico fissato è proporzionale alla concentrazione di bulk e segue quindi una
cinetica del primo ordine, che è esattamente il risultato che si ottiene se la reazione
avvenisse in fase gassosa e in modo omogeneo.
Tuttavia la costante di proporzionalità, in questo caso, non è una
costante cinetica, ma un coefficiente di trasporto di massa, e ciò comporta due particolari
differenze:
1. Il coefficiente di trasporto di massa varia al variare del regime idrodinamico, cosa che non
accadrebbe se fosse una vera costante cinetica
2. Il coefficiente di trasporto di massa ha una dipendenza più debole dalla temperatura rispetto ad
una costante cinetica.
Se mi trovo in una condizione di puro controllo cinetico di trasporto di massa esterno
per aumentare la velocità posso:
- Aumentare il regime idrodinamico;
- Aumentare la concentrazione di bulk.
La concentrazione di bulk posso aumentarla fino a dei valori limite che mi sono dati
dalla saturazione nel caso di liquidi e dalla pressione di esercizio del reattore nel caso
di fasi gas.
∫ ( k s 2 πr C A ) dx Ć A
η= 0 bulk
=
k s 2 πrL C A C bulk
A
→
( dx
¿ x+ ∆ x − ¿
dx x 2k s C A
=
)
lim ❑
d2C A k
= CA→
∆x r D x→ 0 d x2 D
→
→ C A = A exp ( √ kd L Lx )+ B exp(− √ dk L Lx )
k
dove il gruppo adimensionale
d √
L=mL è detto modulo di Thiele, un numero che comprende in sé
tutte le variabili fondamentali del problema.
Figura 3.9 - Distribuzione e concentrazione media del reagente in un poro del catalizzatore in
funzione del parametro mL
CA k x k x
CAbulk (√
= A ' exp
d L) (√
L +B ' exp − )
L , un’equazione adimensionale che dà l’andamento della
d L
concentrazione all’interno del poro (Fig. 3.9). Per piccoli valori del modulo di Thiele si hanno alte
efficienze, altrimenti si ha una più rapida diminuzione di concentrazione all’interno del poro e di
conseguenza di η. Ad esempio, per mL=10 si ha la scomparsa del reagente a circa metà del poro
stesso, infatti un modulo di Thiele così alto significa che la lunghezza del poro è grande rispetto al
k
fattore
√
interno.
d
e quindi è possibile trovarsi in una situazione di controllo per trasferimento di massa
In Fig. 3.9, rigorosamente, il modulo di Thiele è quello generalizzato, che, nel caso di reazioni del
primo ordine irreversibili, corrisponde a quello calcolato precedentemente.
Per ottimizzare il catalizzatore, e quindi avere un’alta η, è dunque opportuno avere un mL basso. Il
modo più semplice per controllarlo è riducendo la grana del catalizzatore (poiché D e k sono
variabili con T, ma intervenire su quest’ultima cambierebbe tutto il processo), ovviamente sempre
cercando un compromesso tra η e le perdite di carico.
Consideriamo la reazione A → k B . Nel caso in cui lo stadio cineticamente determinante sia la
reazione chimica di superficie, il profilo di concentrazione all’interno del reattore è approssimabile
come piatto e la velocità della reazione osservata è data da r obs =k C bulk
A .
Nel caso in cui il processo sia controllato dal trasporto di massa esterno, l’espressione cinetica è
data invece da r obs =k m C bulk
A , dove km è il coefficiente di trasporto di massa. Formalmente, dunque,
l’espressione cinetica non cambia ma cambia il suo significato fisico.
Nel caso in cui la reazione sia controllata dal trasporto di massa interno, otteniamo
1
1 1 D 1
obs
r =
mL
bulk
k CA =
√L k
bulk 2 bulk
k C A = ( kD ) C A
L
Infine, se la reazione avviene in assenza di catalizzatore, caso di reazione omogenea non catalizzata,
−Ea 1
ottengo una retta la cui pendenza è pari a nel grafico logaritmo velocità di reazione vs (Fig.
R T
3.10).
Figura 3.10 – Possibili regimi cinetici in una reazione in fase gassosa che avviene su un
catalizzatore solido poroso.
A basse temperature lo stadio lento è la reazione chimica di superficie e la pendenza della retta è
−Ehetero
pari a A
, dove Ehetero
A è l’energia di attivazione della reazione che avviene eterogeneamente.
R
Aumentando la temperatura, si attiva il catalizzatore fino a cambiare l’espressione cinetica, ovvero
ad essere sotto controllo del trasporto interno di massa.
1
obs 1 2 bulk
r = ( kD ) C A
L
−E hetero
0
k =k exp ( RT )
A
−E A
D=D 0 exp ( )RT
Sostituendo le espressioni di D e k nella velocità osservata e trascurando l’energia di attivazione di
1
diffusione rispetto a quella eterogenea, ne segue che, essendo il termine k elevato a ,
2
hetero hetero
obs EA −E A
log r ∝− . Pertanto, la pendenza della retta è pari proprio a .
2R 2R
Aumentando ancora la temperatura il catalizzatore è talmente attivo da riuscire a consumare
interamente il reagente sulla superficie esterna, ovvero si è sotto controllo cinetico per trasporto di
−Ediff
massa esterno. In questo caso, la pendenza sarà A
, ma Ediff
A di diffusione è piccola (varia tra 4 e
R
Kcal
12 ), in quanto, in questo caso, non si devono rompere legami chimici
mol
Aumentando ancora la temperatura attiviamo termicamente la reazione, ovvero non c’è più bisogno
−Ehom
A
di catalizzatore e la reazione procede omogeneamente, con pendenza pari a
R
ADSORBIMENTO.
È importante distinguere l’adsorbimento dall’absorbimento:
- l’adsorbimento è un processo di superficie, ovvero è l’interazione tra i componenti di una
fase fluida e una interfaccia solida o liquida. In questo caso, il trasferimento di massa tra le
due fasi è limitato all’interfaccia.
- L’absorbimento è un processo di volume, vi sempre una interfaccia di separazione tra le due
fasi ma il trasporto di massa interessa l’intero volume.
Nel caso di catalisi si parla di adsorbimento chimico perché servono forti interazioni per modificare
la distribuzione quanto-meccanica degli elettroni nei reagenti.
L’adsorbimento fisico è sempre esotermo perché è un processo sempre spontaneo.
∆ G=∆ H−T ∆ S <0
Siccome le molecole di reagenti passano da tre a due gradi di libertà una volta adsorbite (ovvero
aumenta il grado di ordine del sistema), quindi l’entropia decrescerà e allora l’entalpia associata
all’adsorbimento fisico deve essere negativa.
L’adsorbimento chimico generalmente è un processo esotermico, perchè le molecole di reagente,
una volta adsorbite, diminuiscono il loro grado di libertà. Tuttavia, siccome nel caso chimico vi è
anche un’alterazione della configurazione elettronica, è possibile che il processo risulti
complessivamente endotermico.
Figura 4.6 – Schema di una goccia di liquido su una superficie solida a contatto con una fase gas.
In Fig. 4.6 vediamo la situazione di una goccia di liquido su una superficie solida entrambe a
contatto con una fase gas.
Nella prima figura possiamo vedere la rappresentazione di tre tensioni: la tensione fra solido e
liquido, fra liquido e vapore e fra solido e gas, tutte dirette lungo la direzione che minimizza
l’energia superficiale. L’angolo formato fra slv e ssl rappresenta la cosiddetta “wettability” ovvero
la capacità del liquido di bagnare la superficie su cui è poggiato. Quando = 0, il iquido è
perfettamente in grado di ricoprire la superficie, quando = p, invece, il substrato solido è del tutto
idrofobico ed il contatto fra solido e liquido si riduce ad un unico punto.
Nei pori ciò si traduce nel fatto che la superficie del liquido non è più piatta, ma diventa curva a
causa delle tensioni esistenti alle interfacce, che minimizzano l’energia del sistema. Nei casi più
frequenti, l’adsorbente ha una buona interazione con il catalizzatore e tende quindi ad avvicinarsi ad
esso, dando luogo ad una interfaccia concava (Fig. 4.7).
che lega il rapporto fra la tensione di vapore effettiva (P) e la tensione di vapore calcolata con
interfaccia piana (P°) al raggio di curvatura dell’interfaccia. Tanto più piccolo è il raggio di
curvatura, ovvero tanto più l’interfaccia è concava, tanto più la pressione di condensazione sarà
minore di quella calcolata con interfaccia piana. Questo spiega perché durante il desorbimento devo
applicare una pressione minore rispetto a quella applicata durante l’assorbimento: infatti il raggio di
curvatura che si ha durante la condensazione è diverso da quello esistente durante l’evaporazione a
causa della forma dei pori.
Equazione di Langmuir
Consideriamo che la reazione chimica che avviene durante l’assorbimento chimico sia
A+ S → A−S
dove A è un reagente gassoso ed S è il sito catalitico.
Assumendo i seguenti postulati
- è possibile realizzare un solo monostrato
- tra tutte le molecole che collidono sulla superfice del solido, solo quelle incidenti su aree
non occupate possono essere adsorbite
- la probabilità di desorbimento di una molecola da un sito superficiale è indipendente dalle
condizioni dei siti adiacenti, ovvero che siano occupati o vuoti
QuindiΘ dipende non solo dalla pressione applicata ma anche dalla costante di equilibrio
dell’assorbimento Keq. Maggiore è Keq, maggiore è il grado di ricoprimento del catalizzatore a parità
di pressione. L’espressione di Q è l’equazione di Langmuir, da cui deriva la curva.
Per valori di pressione tendenti a zero si può trascurare il termine PKeq al denominatore e si ottiene
Θ=K eq P , ovvero la tangente all’origine delle curve di Langmuir rappresenta la
proprio la costante Keq (Fig. 4.9).
Se si osservano le due curve di Langmuir in Fig. 4.10, si nota che l’isoterma arancione ha una
tangente all’origine con un valore più basso di quella della curva blu, il che si traduce in una Keq
più bassa. Dunque, fissata una P*, i gradi di ricoprimento per le due curve sono diversi e quindi sarà
differente la quantità di molecole adsorbite sulla superficie; in particolare nel caso della curva
arancione posso vedere che θ* è minore. Quindi, il valore della costante di adsorbimento all’
equilibrio è una misura dell’attività della superficie solida.
Si analizzi la reazione A+ B → k C . Lo stadio chiave del processo è la reazione tra i due reagenti
adsorbiti che danno luogo, con un processo irreversibile, alla formazione di un prodotto anch’esso
adsorbito. Per descrivere chiaramente il processo bisogna scrivere anche gli equilibri di
adsorbimento
A+ S k⃗1 , ḱ 2 A−S
↔
B+S ⃗k 3 , ḱ 4 B−S
↔
C+ S ⃗k 5 , ḱ 6 C−S
↔
Avendo assunto come r.d.s la reazione chimica, tutti queste reazioni di adsorbimento sono all’
equilibrio e per descrivere il sistema possiamo utilizzare le ipotesi del modello di Langmuir. Si
ipotizzi, infine, che la velocita di reazione chimia possa essere scritta come r =k θ A θb , ovvero che le
interazioni A-A e B-B, una volta adsorbite, siano trascurabili o repulsive.
Infatti, si è visto sperimentalmente che quest’espressione non vale se le interazioni, per esempio tra
le particelle della specie A, sono attrattive. Per comprenderne il motivo, consideriamo una porzione
della superficie catalitica e schematizziamo i siti (Fig. 4.11).
{ K B P B ( 1−∑ θ ) =θ B (2)
K C PC ( 1−∑ θ ) =θC (3)
La velocità di reazione chimica, allora, sarà
2
r =k θ A θb =k K A K B P A P B ( 1−∑ θ ) ( 4)
Sommando membro a membro le equazioni (1), (2) e (3) si arriva a
θ A + θB +θ C =∑ θ= ∑ K i Pi ( 1−∑ θ )
( i= A , B , C )
Cambiando di segno e sommando 1 ad entrambi i membri, si ottiene
1−∑ θ=1− ∑ K i Pi ( 1−∑ θ )
( i= A , B ,C )
( 1−∑ θ ) (1+ ∑ K i P i =1
)
i= A ,B ,C
1
( 1−∑ θ ) =
( 1+ ∑
i= A , B , C
K i Pi ) (5)
Figura 4.12 – Andamento della velocità di una reazione A + B = C al variare della pressione
parziale del reagente A
Nei catalizzatori eterogenei, dove i siti attivi si trovano in corrispondenza dei difetti
reticolari, le interazioni tra adsorbato e sito attivo possono variare notevolmente.
Tuttavia è necessario considerare che:
- I siti con energia di interazione molto elevata non partecipano alla reazione poiché formano
legami troppo forti con l’ adsorbato;
- I siti con bassa energia di interazione non sono sufficientemente attivi da modificare la
struttura dell’ adsorbato.
In pratica, gli unici siti attivi che partecipano alla catalisi sono quelli con attività
intermedia.
Nel caso in cui il catalizzatore sia molto attivo, il coefficiente di diffusione molecolare è modesto e
il poro è molto lungo, allora all'interno dei pori nascerà un gradiente di concentrazione. Anche
curando l'idrodinamica esterna, in modo da mantenere piatto il profilo di concentrazione all'esterno,
la dimensione caratteristica del poro è così piccola da non sentire l'effetto della turbolenza. Le varie
sezioni di canale lavoreranno, quindi, ad una concentrazione di specie adsorbite che si vanno
riducendo lungo la direzione assiale. Non tutti i siti vedono la stessa quantità reagenti. Nel caso di
catalizzatori particolarmente molto attivi, con diametri della particella molto grandi, il profilo viene
addirittura costruito sotto l’ipotesi che al fondo del poro
non vi sia reazione chimica, ovvero che la quantità di molecole che vengono consumate sul fondo è
trascurabile rispetto alla quantità globale che scompare nelle pareti. In tal caso, oltre una certa
sezione il catalizzatore non lavora più, ovvero vi è uno spreco di materiale.
Per ovviare a questo problema si possono pensare diverse soluzioni:
- Abbassare la k di reazione, che non risulta conveniente perché rallentiamo globalmente la
produzione di prodotto, che è l’obbiettivo finale del reattore
- Alzare il coefficiente di diffusione nei pori, pensando di alzare la T. Però, al tempo stesso,
aumenterei la k di reazione, quindi il modulo di Thiele risulterebbe pressochè costante
- Diminuire la lunghezza dei pori, facilmente ottenibile macinando il catalizzatore e processo
che non altera la turn-over frequency dello stesso.
Diminuire la dimensione del catalizzatore è la scelta ottimale in questo caso, ma anche questa non è
a costo zero, infatti incide molto nei costi di pompaggio: alterando la dimensione media del letto
fisso di un reattore (riducendo il grado di vuoto del letto), aumentano notevolmente le perdite di
cariche e si deve incrementare la pressione per garantire la velocità lineare nominale all’interno del
letto catalitico. Quindi bisognerà trovare il diametro minimo idoneo per garantire il migliore
rifornimento dei siti attivi e non aumentare eccessivamente i costi.
È possibile distinguere sotto quale controllo ci si trovi senza modificare il regime idrodinamico,
semplicemente variando la T del sistema. Se la Ea varia poco con la T, allora ci troviamo sotto
controllo per trasporto di massa esterno, se varia molto con la T potrebbe essere per la reazione
chimica superficiale o il trasporto di massa interno
Equazione BET
Come abbiamo visto l’espressione della Langmuir vale solo nel caso di adsorbimento monostrato.
Infatti le ipotesi di Langmuir sono:
a) È possibile realizzare soltanto un monostrato
b) Il calore di adsorbimento è indipendente dal grado di ricoprimento del solido
Queste ipotesi funzionano molto bene, perché quando le interazioni sono molto forti si ha la catalisi,
mentre quando sono molto deboli no, in quanto non si distorce abbastanza la struttura elettronica da
poter abbassare l’energia di attivazione. Quindi, assumere che i siti abbiano un’interazione con la
molecola adsorbita abbastanza uniforme è una condizione necessaria per fare la catalisi.
L’equazione BET tiene conto del fatto che si possano formare anche più di uno strato e permette di
stimare l’area specifica del catalizzatore.
L’equazione di BET è
P ρ−1 P 1
= +
[ V ( P 0−P ) ] V m c P0 V m c
Dove
- P è la pressione effettiva
- P0 è la pressione di saturazione del gas ad una determinata T
- c è un parametro caratteristico che dipende dalla coppia adsorbato/adsorbito e dalla T
- Vm è il volume di gas adsorbito per formare un monostrato
- V è il volume di gas totale adsorbito
Sottoponendo il catalizzatore ad un processo di adsorbimento fisico in condizioni normali con una
molecola ben precisa (spesso azoto, gas incondensabile alla temperatura dell’esperimento), ricavo i
parametri sperimentali P0, V e P.
Reattori chimici
Il reattore deve essere selezionato in modo tale da minimizzare i tempi di disattivamento del
catalizzatore. Nel caso di steam reforming, si opera in eccesso di vapore e i tempi di disattivamento
possono raggiungere i due anni. Nel reforming catalico, per ostacolare la formazione di coke, devo
intervenire sul rapporto H2/carica idrocarburica. Aumentare il rapporto significa aumentare il tempo
di vita: da un anno per alti rapporti, a giorni o settimane per bassi rapporti. Nel FCC (Fluid Catalytic
Cracking) l’unica possibilità è quella di rigenerare il catalizzatore, che si avvelena nel giro di pochi
secondi.
Nei processi che vedono un tempo di disattivazione più lento, si avranno dei reattori tubolari a
letto fisso (più semplici ed economici, anche potenzialmente potrebbero dare problemi di trasporto
di calore). Quando i tempi di disattivazione aumentano, si utilizzerà lo swing reactor, ovvero tre
reattori in parallelo (spesso se ne usano quattro, affinchè, a rotazione, uno sia sempre in
rigenerazione). Si può pensare anche ad un reattore a letto mobile (moving bed reactor), in cui vi il
catalizzatore si muove ciclicamente tra uno stadio di reazione e uno di rigenerazione. Questa
circolazione tra i due stadi, dettata dalla velocità delle particelle, è lenta, perché l’avvelenamento è
lento. Se risulta necessario avere un’alta velocità delle particelle, il reattore ottimale è quello a letto
trascinato (entrained – flow reactor), e non fluidizzato. Il reattore trascinato e quello fluidizzato
sono simili: utilizzano entrambi un riser reactor, in cui la reazione avviene in un tubo lungo una
decina di metri e alla fine vi è un tamburo che, nel caso di letto trascinato, separa la componente
gassosa dal catalizzatore che deve essere rimandato al rigeneratore, mentre, nel caso del letto
fluidizzato, è il luogo in cui avviene per la maggior parte la reazione chimica.
In generale, un letto mobile costa di più rispetto a quello a letto fisso, però si lavora a pressione
atmosferica, quindi si risparmia sui costi di pompaggio e si ottiene un maggior rendimento
termodinamico.
Molte delle reazioni industriali sono fortemente o moderatamente esotermiche. Usando il bilancio
di calore come discriminante, esistono due tipologie di reattori:
- Reattore isotermico, in cui la temperatura rimane costante e, pertanto, la velocità di trasporto
di calore è elevata
- Reattore adiabatico, che non riesce a scambiare calore con l’ambiente, generando così un
accumulo al suo interno
Nel caso di una reazione esotermica, diventa fondamentale un efficiente scambio di calore con
l’esterno. Si consideri un reattore a letto fisso su cui avviene una reazione esotermica.
La Tw =100°C (mantenuta costante grazie ad un refrigerante) ed i reagenti entrano ad una T in = Tw .
Sia, infine, Il diametro del reattore uguale a 2 m.
4
Mentre quella del fascio risulta
nπdL nπdL 4
a bundle
s = = =
V nπ d L d
2
Servono, in questo caso, quindi 2000 m3 di letto catalitico. Questi possono essere in un unico tubo o
in n tubi aventi lo stesso volume complessivo. Nell’ultimo caso, è necessario gestire adeguatamente
la sezione trasversale, che deve garantire gli stessi tempi di permanenza che nel caso di unica
L
tubatura. Infatti, t= , dove L (lunghezza del tubo) è fissata, perciò t è inversamente proporzionale
v
V
alla velocità di scorrimento, che a sua volta è v= , quindi a parità di volume bisogna mantenere
S
l’area della sezione trasversale costante.
Si analizzi più nel dettaglio un reattore a letto fisso: in questa tipologia, il catalizzatore è fisso
all’interno del reattore e la fase fluida reagente viene inserita all’interno del reattore dall’alto per
contribuire alla stabilità meccanica ed evitare un possibile parziale trascinamento del catalizzatore.
Il caso più semplice da schematizzare è quello di un reattore a letto fisso adiabatico (Fig. 5.2)
Figura 5.4 – Schema e diagramma Conversione vs. Temperatura di un reattore a più letti
adiabatici
Il flusso in ingresso nel reattore può essere assiale o radiale, in genere il flusso
radiale si usa per ridurre le perdite di carico e accorciare il percorso del fluido all’interno del
reattore.
Reattori monoliti.
Sono canali o supporti di vario tipo ricoperti da materiale catalitico. Il diagramma perdite di carico-
superficie specifica riferito ai catalizzatori monoliti è usato per trovare il giusto compromesso tra
dimensioni di catalizzatore e perdite di carico. Aumentando l’aria specifica diminuisce la
dimensione delle particelle catalitiche e il loro spessore, ma aumentano le perdite di carico. I
reattori monoliti sono una perfetta soluzione per sistemi trifase (catalizzatore solido, reagente
liquido, reagente gassoso): infatti, nel caso dei stirred reactor vi sono significative difficoltà legate
alle perdite di carico e al grado di miscelamento, mentre con i catalizzatori monoliti questi problemi
si riducono, in quanto il liquido passa attraverso i canali, il gas negli spazi liberi e aumenta
notevolmente la velocità di reazione a parità volume di reazione.
Figura 5.6 – Grafico selettività vs. conversione per reattori CSTR e PFR
È evidente che se K2<<K1, la selettività potrebbe non essere un problema, mentre se K 2>K1, si anno
sicuramente problemi di selettività.
Inoltre, le curve per il flusso a pistone sono sempre più alte rispetto alle curve per il flusso continuo.
Questo poichè la formazione di S dipende dalla concentrazione di R formato, che nel CSTR è a pari
a quella finale e quindi più elevata rispetto al PFR, che alla concentrazione finale di R arriva
gradualmente e quindi genera mediamente meno S, con conseguente migliore selettività.
Steam Cracking
L’industria chimica, è sostanzialmente basata sulla valorizzazione di commodity altamente reattive,
ovvero le cosiddette olefine leggere (etilene, propilene e olefine C4), da cui sono prodotti la
maggior parte dei polimeri attualmente commercializzati.
Più del 50% dell’etilene prodotto è utilizzato per sintetizzare polietilene (LDPE o HDPE, a seconda
della sua densità). Un discorso analogo vale per il propilene, la cui fetta maggiore è destinata alla
produzione di polipropilene.
Dall’etilene si ottengono anche, ad esempio, il vinilcloruro (grazie all’impiego di HCl proveniente
dagli impianti cloro-soda), da cui derivano il polivinilcloruro e l’ossido di etilene (che rappresenta il
building block per la produzione di polieteri).
Dal propilene oltre il polipropilene isotattico si ottengono l’acrilonitrile e l’ossido di propilene, tra
le altre cose.
In sintesi, il più importante punto d’ingresso alla chimica dei polimeri (più del 50% dei volumi
totali dell’industria chimica) è dato dalle olefine leggere.
Lo Steam Cracking (conosciuto anche col nome di “Pirolisi”) è un processo il cui
obiettivo è partire da idrocarburi saturi e sintetizzare olefine (in particolare etilene).
Gli idrocarburi di partenza spaziano dall’etano agli idrocarburi C15/C16, quest’ultimi presenti nel
taglio Virgin Nafta proveniente dalla parte superiore della colonna di topping. Infatti, questo taglio
può essere destinato alla produzione di benzina dopo upgrading per migliorare il numero di ottano
(tramite catalytic reforming) o destinato a diventare olefine leggere col processo di steam cracking.
L’etano può essere ottenuto dal gas naturale (Fig 6.1) il cui principale componente è il metano, ma
in cui vi sono anche buone quantità di etano e C3 e C4, che vengono separati dal metano e
alimentati al processo.
Figura 6.2 – Composizione in diverse parti del mondo del feedstock per il processo di Steam
Cracking
In conclusione, possono essere utilizzati idrocarburi leggeri (etano, LPG), idrocarburi più pesanti
(C5 – C11, da Virgin Naphta), ma anche Gas Oil, e la scelta, come in tutti casi, si basa su
considerazioni economiche.
Nella Virgin Naphtha, oltre a catene lineari di idrocarburi, possono essere presenti, in modesta
concentrazione, catene ramificate, isoparaffine, composti alifatici ciclici, nafteni e aromatici. Si
tratta, quindi, di una miscela complessa che, all’interno del reattore, dà luogo a un gran numero di
reazioni, dividibili in 2 classi principali: reazioni primarie (quelle obbiettivo) e reazioni secondarie.
Le reazioni primarie son del tipo
C n+m H 2 (n+ m)+2 →C n H 2n +2+ Cm H 2 m+2
In cui avviene la rottura del legame C-C, e
C n H 2 n+ 2 →C n H 2 n+ H 2
In cui a rompersi è il legame C-H.
Il risultato finale di queste reazioni è di creare un composto non-saturo con più basso peso
molecolare, ovvero l’obbiettivo del processo.
Se si fosse partiti da etano, la reazione risulta più semplice
C H 3−C H 3 → C H 2=C H 2 + H 2
Più leggera è la carica che si alimenta al reattore maggiore sarà la resa in etilene (con etano si arriva
al 75% di resa, mentre con Virgin Naphtha si ottiene, al massimo, un
30%).
In ogni caso, vi saranno anche, inevitabilmente, delle reazioni secondari competitive legate al
meccanismo radicalico con cui avvengono le primarie che avvengono con meccanismo radicalico.
Tra queste vi è:
¿
- la polimerizzazione delle olefine (n C H 2=C H 2+ R → R−(C H 2 −C H 2 ¿ n), che generano
prodotti con catene 12+ C, che a T e P ambiente sono, ovviamente liquidi. Questi sono la
benzina di pirolisi (22% di resa, sottoprodotto del processo, i quanto ricca di aromatici) e
l’olio combustibile (prodotto di scarto, con il 4% di resa).
- La formazione di coke e idrogeno, che sono i prodotti termodinamicamente stabili del
processo. Il coke (Fig. 6.3) deriva dalla policondensazione di idrocarburi aromatici,
liberando idrogeno.
- L’ isomerizzazione (o ciclizzazione) delle olefine, che genera composti aromatici, come il
benzene
Le reazioni secondarie l’efficacia del processo, ma, al tempo stesso producono benzina di pirolisi,
che può essere inviata ai processi di alchilazione (dopo aver separato gli aromatici) o utilizzata per
produrre benzine ad alto numero di ottani (dopo aver separato il benzene, composto cancerogeno).
Figura 6.4 – Indice di qualità del Virgin Naphta.
Come mostrato in Fig. 6.4, è possibile stimare la qualità della Virgin Naphtha in alimentazione,
attraverso l’indice empirico I.Q.
Per ottimizzare il controllo dei parametri cinetici del processo è fondamentale prendere in
considerazione i meccanismi di reazione, in particolare delle reazioni primarie, che riducono il peso
molecolare della carica e generano olefine. Nel caso della Virgin Naphta si può prendere in esame,
come molecola rappresentativa, quella di normal-ottano: quando la temperatura è sufficientemente
alta (si tratta di un processo attivato termicamente, senza catalisi), si può avere la rottura omolitica
del legame C-C con la conseguente formazione di due radicali
C H 3−¿
Il radicale così ottenuto non è stabile e subisce una β-scissione, ovvero la rottura del legame C-C
nella posizione β, che in questo caso risulta essere omolitica e quindi ottiene un radicale.
C H 3 C H 2 C H 2 C H 2β C H α2 ∙ →C H 3 C H 2 C H 2 ∙+∙ C H 2 C H 2 ∙
Naturalmente, la molecola biradicalica non è stabile ed evolve rapidamente in una molecola di
etilene allocando i due elettroni spaiati in un orbitale π.
Durante questa reazione si formano relativamente grandi quantità di metano e altri alcani, che
costituiscono un problema per la separazione dei prodotti: i prodotti di reazione sono infatti gas a T
ambiente, mentre la maggior parte dei sottoprodotti, come la benzina di pirolisi, sono liquidi, ma il
metano è un gas e quindi, va ad intaccare la purezza del prodotto. Il metano si forma per due motivi:
innanzitutto è termodinamicamente l’idrocarburo più stabile (come si vede dal Diagramma di
Francis) e perché è un possibile prodotto finale della β-scissione
C H 3 C H 2 C H 2 ∙ →C H 3 ∙+C H 2=C H 2
il radicale metile è uno tra i più reattivi in assoluto e, quindi, facilmente riesce ad attaccare un'altra
catena alifatica, strappando un H· e ottenendo metano e un altro radicale pronto ad evolversi tramite
β-scissione. Questo è un modello di reazione estremamente semplificato che comunque dà una
spiegazione della diminuzione del peso molecolare dell’alimentazione e della formazione dei
prodotti/sottoprodotti.
Per controllare la selettività di questa reazione bisogna gestire i parametri cinetici,
che in generale sono tre: la T media di reazione (costante, poiché il reattore è idealmente isotermo),
il tempo di residenza τ nel reattore e la P parziale di idrocarburo alimentato. I parametri T e τ sono
correlati: T più alta significa reazioni
più veloci, quindi evoluzione più veloce del sistema non solo verso la produzione di olefine, ma
anche verso la formazione di aromatici, quindi coke e idrogeno; questo significa che per avere alte
rese bisogna ridurre il t di permanenza. La reazione è chiamata steam craking, perché viene inserito
del vapore acqueo, che dal punto di vista chimico qui è un inerte, ma che è fondamentale per
controllare la pressione parziale dell’idrocarburo, che in questa reazione è un parametro sia
termodinamico che cinetico. Infatti, se si considera l’equilibrio
C H 3−C H 3 ↔ C H 2=C H 2 + H 2
¿
(per semplicità esprimibile anche come C 2 → C2 + H 2), e il fatto che ci troviamo in un sistema
supercritico e diluito (e quindi in condizioni di idealità), si può esprimere la costante di equilibrio
come
PC P H y C y H
¿ ¿
K eq =K P= Ptot
2 2 2 2
=
PC yC
2 2
nC ¿
In questa equazione, l’inerte è nascosto nella definizione della frazione molare, infatti y C ¿
2
,e
2
∑ ni
moltiplicando la Keq per la concentrazione molare del sistema ctot si ha
y C y H c 2tot
¿ c C c H P tot
¿
K eq = 2 2
2
P = 2 2
y C c tot tot
2
cC c tot 2
In questo modo si può osservare meglio l’equazione di stato: la Ptot è la P di esercizio del reattore
ed è fissata, quello che si può cambiare è il rapporto tra l’acqua e l’etilene mandati al reattore (e
dunque le concentrazioni). Infatti, introducendo un inerte nel reattore, si riduce la P
dell’idrocarburo, ottenendo un vantaggio termodinamico e quindi rese potenzialmente più alte in
etilene. Bisogna anche considerare che la P parziale dell’idrocarburo è anche un importante fattore
cinetico: infatti, considerando la semplice reazione competitiva R ∙+C H 2=C H 2 ↔ R−C H 2−C H 2 ∙
, reazione di oligomerizzazione, poiché il sistema lavora a T maggiori della T roof, oltre la quale la
velocità di depolimerizzazione è paragonabile o superiore a quella di polimerizzazione e quindi si
ottengono solo catene relativamente corte (quindi frazioni liquide). La velocità di questa reazione di
¿
oligomerizzazione può essere espressa come r =k [ R ∙ ] [ C2 ] , dove la concentrazione dei radicali
liberi, ovviamente, non è controllabile, mentre la concentrazione di etilene è l’unico parametro su
cui è possibile intervenire, e si può ridurre solo abbassando la P parziale dell’idrocarburo e, quindi,
riducendo l’alimentazione di idrocarburo e aumentando opportunamente la portata di acqua (per
mantenere la P di esercizio costante).
Come si è già detto, i parametri T e τ sono correlati, poiché la T controlla la velocità di generazione
dei radicali liberi all’interno del reattore, e quindi la concentrazione degli stessi, che tenderanno ad
evolvere fino al raggiungimento di coke e idrogeno attraverso un percorso relativamente lungo, che
regolando la τ può essere fermato al punto interesse del processo, massimizzando la resa in olefine.
Con un’alimentazione così varia, però, è difficile trovare un modo per correlarli, poichè si ha
un’enormità di reagenti, ognuno dei quali va incontro a diverse reazioni (sia primarie che
secondarie), rendendo il problema è troppo complesso. L’approccio usato, allora, è di tipo empirico:
si ha un reattore nominalmente isotermo con flusso a pistone (PFR), cioè con profilo di velocità
piatto lungo tutta la sezione, che può essere lungo fino a ½ km, nel quale scorre una fase fluida, in
kg
cui il flusso alimentato G [ ¿ ] , ovvero la portata massica normalizzata per la sezione del reattore,
s m2
si può, considerando trascurabile l’effetto delle reazioni chimiche e quindi una densità media
costante, correlare alla velocità lineare come G= ρmedia v e il tempo di residenza può essere definito
L
come τ = , dove con L si intende la lunghezza del reattore. Questa, chiaramente. è solo una stima
v
che semplifica molto sia il regime fluidodinamico che gli effetti di espansione/contrazione del
Lρ
fluido dovuti alle reazioni chimiche, permettendo infine di correlare τ e G con τ = media ,
G
equazione che permette di stimare il tempo di residenza come in funzione di parametri controllabili
dell’impianto.
Come tutti i tagli del petrolio, la Virgin Naphta è caratterizzata da un intervallo di ebollizione ben
definito, ma la sua composizione può variare molto a seconda
del petrolio di provenienza. In ogni caso, studiando un componente chiave sempre presente in
qualunque stock, ovvero il normal-pentano (n-C5), si è scoperto che questo reagente è
esclusivamente consumato senza alcuna fonte di generazione. Tramite misure gascromatografiche,
si può facilmente valutare la concentrazione di n-C5 e come questa si evolve variando il sistema: ad
esempio, allungando il reattore (a parità di flusso) e ottenendo, di fatto, l’andamento all’interno del
reattore, si possono fittare i dati così ottenuti tramite un’equazione cinetica del primo ordine
−dc
=k osservato c . Questa equazione non è la modellizzazione di un’unica reazione, bensì una
dt
descrizione macroscopica dell’evoluzione del componente, che è consumato da diverse reazioni
sconosciute e che vengono raggruppate in un’unica equazione cinetica del primo ordine, risultato
delle misurazioni sperimentali. Si definisce empiricamente un fattore di severità cinetica (KSF)
c¿
come KSF =ln , dove con c si intende la concentrazione di n-C5 nella fase fluida rispettivamente
c out
alle sezioni di ingresso e di uscita. Separando le variabili ed integrando l’equazione cinetica, si
ottiene
out τ
Figura 6.6 – Resa di etilene vs. pressione parziale di idrocarburo in feed, a KSF costante
La P parziale è ridotta introducendo un inerte, il vapore, da cui prende proprio il nome di questo
mH O
processo. L’andamento della P totale contro la P parziale di idrocarburo (a rapporto ponderale 2
midc
costante) è lineare (Fig 6.7), poiché
Pidc= y idc Ptot
nidc 1 1
y idc= = =
n idc+ n H O nH O mH O
2
1+
2 2
Dove nidc PM H O
1+ 2
m idc
PM idc
Quindi mantenendo la pressione di esercizio costante, si diminuisce la concentrazione idrocarburica
mH O
per diminuire le reazioni secondarie, modificando il rapporto 2
.
midr
Si potrebbe pensare di utilizzare come inerte gassoso l’azoto, che da grossi vantaggi economici,
soprattutto dal punto di vista energetico, poiché riscaldare l’azoto sarebbe meno dispendioso
rispetto al vapore. Tutta via, poiché i prodotti finali dello steam cracking sono gas, le uniche
tecnologie per separarli dall’azoto sono a base di membrane selettive, e quindi non utilizzabili su
scala industriale. Dunque si preferisce l’uso del vapore, che è facilmente separabile attraverso un
processo di distillazione
La produzione costante, e inevitabile di coke, si deposita sulle pareti, aumentando gli spessori e
diminuendo la velocità di trasmissione del calore. Per quanto si possa compensare con l’aumento di
portata di combustibile ai bruciatori, aumentando la T dall’esterno, vi è un limite meccanico a le T
che le tubazioni possono sostenere. Inoltre, il deposito di coke aumenta la pressione all’interno del
serpentino, riducendo la sezione di passaggio, e a parità di portata aumenta la velocità lineare,
ovvero aumentano le perdite di carico e riducendo la resa. Per tenere sotto controllo questo
inconveniente, i forni vanno periodicamente fermati, bruciando così il coke depositato, previa
bonifica di azoto per eliminare gli idrocarburi residui, potenziali esplosivi.
I prodotti dello steam cracking sono tagli C2 (etilene ed etano) e C3 (propilene e propano), quindi
l'etano e il propano possono essere rinviati a dei forni di cracking dedicati come riciclo, perché
carica potenziale per ottenere olefine.
Operando a T elevate la rottura avviene nella parte terminale della catena invece che a metà, e
questo aiuta ad aumentare la resa in etilene, perché si ottiene un radicale che si spacca per beta
scissione successiva e si trasforma proprio in etilene. La temperatura interviene, dunque, a
determinare la velocità di generazione dei radicali liberi. Le quantità di radicali liberi che si
formano influenzano la resa in etilene: maggiore è la popolazione dei radicali liberi, maggiore è la
velocità di reazione Tuttavia, i radicali che si formano possono anche reagire per astrazione di H 2,
strappando H. da una molecola satura e formando una catena satura e un nuovo radicale, che può
essere non terminale. Quindi la T regola la velocità di generazione dei radicali liberi, la cui
concentrazione determina la velocità con cui avvengono le reazioni primarie e secondarie.
Per quanto riguarda la sezione fredda, essa riguarda la separazione finale dei prodotti gassosi,
cercando di ottenere correnti molto pure di etilene, propilene e taglio C4.
L’unico metodo disponibile su queste scale per effettuare una separazione è distillazione. Tuttavia,
poiché i componenti si trovano, all’uscita della sezione calda, a temperature maggiore di quelle
critiche, per frazionare i gas di cracking serve:
- raffreddare, per scendere sotto le temperature critiche
- comprimere, per limitare quanto più possibile i cicli frigoriferi per alimentare il riflusso di
testa
Infatti, facendo riferimento alla curva della tensione di vapore di un componente puro (anche se in
realtà si tratta di una miscela multicomponent), aumentando la pressione (ovvero condensando),
aumenta la temperatura di condensazione e, quindi, si riesce a condensare utilizzando fluidi più
caldi (come l’acqua), evitando in questo modo i costosi cicli frigoriferi.
Dunque, i componenti gassosi(idrogeno, metano, tagli C2, tagli C3 e C4) in uscita dalla colonna di
frazionamento primario vengono inviati a una serie di quattro successivi stadi di compressione
(rettangolo giallo in Fig 6.9), ove, alla fine, raggiungono una pressione di 40 bar. Ovviamente,
poiché rimarrà sempre una frazione non separata in colonna di benzina e acqua, dopo ogni
compressione, la parte condensata viene inviata nuovamente nel serbatoio di stoccaggio.
Prima dell’ultimo stadio di compressione si effettua un assorbimento chimico (lavaggio caustico)
per eliminare composti solforati, CO2 e mercaptani, per una questione di protezione ambientale e
per problemi di interferenza dei processi di polimerizzazione a valle. Infatti, I composti solforati
sono inibitori di polimerizzazione, poichè questi possono intrappolare i radicali liberi e, pertanto, la
loro presenza diminuisce il valore del prodotto finale. In particolare, CO 2 e H2O sono molto
pericolosi per la colonna di demetanizzazione (rettangolo verde in Fig. 6.9), poiché questa lavora a
basse temperature (prossime a -120°C) e alte pressioni (circa 35 bar), quindi CO 2 e H2O potrebbero
ghiacciare, creando depositi solidi, ed intasare i piatti della colonna. Pertanto, dopo i compressori,
esiste uno stadio finale, performato a livello molecolare (con setacci molecolari, ad esempio), dove
ci sono sistemi di stoccaggio molto efficienti per l’acqua intrappolata nella fase gas, che permette di
raggiungere un residuo d’acqua minore di 1ppm.
Alla prima colonna di demetanizzazione entra una corrente contenente
H2
{
C1 ( C H 4 )
C 2 ( C ¿2+ C2 )
C3 ( C ¿3+ C3 )
C4
C5 (residuo )
E dalla testa di questa escono idrogeno e metano, mentre dal fondo i tagli più pesanti (C2 etc.);
questa colonna utilizza un riflusso di metano ed è l’unica in cui vi è un sistema di raffreddamento.
La corrente in uscita viene inviata ad un serbatoio di stoccaggio bifasico (rettangolo arancione in
Fig. 6.9), da cui esce la corrente di metano liquido di ricircolo della colonna. Tale metano liquido è
generato nello scambiatore di calore (rettangolo bordò in Fig 6.9): infatti, la corrente gassosa
compressa viene prelevata dal serbatoio e inviata allo scambiatore, dove viene raffreddata, e quindi
liquefatta, da un fluido estremamente freddo. La corrente gassosa fredda in uscita dallo scambiatore,
invece, subisce un processo di espansione in turbina, approssimata ad una espansione isoentropica
(adiabatica), in modo da generare il fluido refrigerante per lo scambiatore. In ogni caso, si
condenserà esclusivamente la porzione strettamente necessaria per il riciclo in colonna, poiché,
frequentemente, la miscela idrogeno-metano è utilizzata per alimentare i bruciatori del forno.
Come già detto, per effettuare il frazionamento è necessario lavorare sotto pressione, che comporta
alcuni svantaggi economici:
- Il costo dell’energia necessaria alla compressione;
- Necessità di inspessimento delle pareti delle apparecchiature;
- L’aumento del numero dei piatti necessari nella colonna, poiché le rette di lavoro saranno
più vicine alla curva di equilibrio
Tutte le penalizzazioni economiche, comunque, saranno ampiamente ricompensate dalla vendita
dell’etilene.
Si analizzi adesso la corrente C2+. Questa sarà convogliata ad un’altra colonna di distillazione (de-
etanizzatore) che lavora a 26 bar, quindi con un frazionamento meno spinto rispetto alla colonna di
demetanizzazione. Infatti, a tale pressione di lavoro, si avrà una temperatura di -17°C. Tale
temperatura non da rischi di ottenere etilene liquido, in quanto la sua temperatura di ebollizione è di
- 100°C, quindi non necessiterò di alcun sistema di refrigerazione specifico per tale colonna. Dal
de-etanizzatore uscirà C2 dalla testa, mentre tutta la restante parte uscirà dal fondo. La corrente di
C2 viene riscaldata tramite la corrente uscente dal reattore di idrogenazione dell’acetilene, quindi
ciò implica che all’interno di tale frazione ci sarà una piccola quantità di acetilene (sotto i 10ppm).
Essendo l’obiettivo dell’impianto quello di produrre etilene per polimerizzazione radicalica, la
frazione C2 deve essere esente da tracce di acetilene e quindi l’eliminazione dell’acetilene
(convertito in etilene) viene effettuata mediante idrogenazione catalitica su catalizzatori al nichel o
palladio a temperature piuttosto basse (40-80°C), aggiungendo idrogeno alla corrente (visto che
l’idrogeno è stato eliminato nella colonna di demetanizzazione, e la quantità residua è troppo bassa
per guidare il processo di idrogenazione catalitica).
Dopo il reattore per l’idrogenazione, si hanno due colonne (rettangolo nero in Fig. 6.9); dalla testa
della prima esce una corrente (contente il metano e l’idrogeno residui) che rientra nella linea
immediatamente prima l’ultimo stadio di compressione (perché questi reattori lavorano a 26 bar e
per tornare indietro nel processo sarà, dunque, necessaria una compressione a 45 bar) e dal fondo
una frazione (completamente de-metanizzata) che viene inviata ad una colonna di distillazione
binaria (ovvero la seconda colonna). Dalla seconda colonna si ottengono etilene dalla testa (più
leggero) ed etano dal fondo, puri al 99%.
Infine invio ad una colonna (depropanizzatore) la corrente uscente dal fondo della colonna di de-
etanizzatore, dalla quale usciranno dalla testa C3 e dal fondo il resto. Il C3 verrà frazionato in
propilene e propene mediante una distillazione, in una colonna separata. Il fondo invece, viene
inviato all’ultima colonna di frazionamento (debutanizzatore) nella quale ottengo dalla testa il taglio
C4 e dal fondo la benzina di pirolisi residua, trascinata durante il processo.
Si concentri l’attenzione adesso sul taglio C4, che è una miscela molto complessa. Esistono due
diversi processi dai quali è possibile ottenere il taglio C4: lo steam cracking e il fluid catalytic
cracking. Entrambi sono molto preziosi, perché sono una sorgente per la produzione di isobutene,
un importantissimo “building-block” per l’industria chimica, perché coinvolto, ad esempio, nella
sintesi di numerosi polimeri.
Osservando le correnti provenienti dallo steam cracking, abbiamo un’elevata quantità di 1,3-
butadiene: maggiore è la severità del cracking maggiore sarà la quantità ottenuta. Abbiamo, inoltre,
un’elevata quantità di olefine (isobutene, 1-butene, 2-butene cis e trans) e di componenti saturi
come il normal-butano.
Effettuare un frazionamento tramite distillazione di questi componenti è impossibile, soprattutto per
via del loro comportamento non ideale che porta alla formazione di miscele azeotropiche. La
soluzione migliore è quella di attenersi a ciò che il mercato richiede, perché è inutile effettuare un
frazionamento completo di tutti i componenti del taglio. Ciò che è necessario ottenere sono
butadiene e isobutene puri, tutto il resto può essere raccolto assieme.
L’operazione più frequente è quella di recuperare il butadiene mediante un’estrazione liquido-
liquido utilizzando un solvente specifico (dimetilformammide) che ha un’elevata solubilità per il
butadiene e una bassa solubilità per gli altri componenti, ottenendo così un taglio molto ricco di
butadiene; il successivo recupero di butadiene è semplice perché ha una volatilità più alta.
Tutto il resto del taglio non si può separare facilmente perché i componenti hanno proprietà
chimico-fisiche piuttosto simili, e per ovviare a ciò si effettua una separazione reattiva. Si invia
tutto il taglio C4 ad un reattore a letto fisso in cui il catalizzatore è una resina solida solfonata,
ovvero dei pellet polimerici costituiti da stirene e etilbenzene solfonati. Si genera un anello
benzenico a cui è legato un gruppo solfonato (Fig. 6.10), che è un gruppo molto acido, capace di
lavorare a basse temperature (attivo a 60-70°C).
Figura 6.11 – Catalizzatore per reazione di formazione del MTBE
Invio l’intera corrente a questo catalizzatore in presenza di metanolo. Si attiva una reazione
esotermica, per via della rottura del doppio legame e quindi condotta a basse temperature,
reversibile che porta alla produzione di MTBE.
Reagirà soltanto l’isobutene con il metanolo, dando vita all’MTBE (Fig. 6.11) che ha proprietà
fisiche completamente diverse e che quindi può essere separato, rimanendo così il “raffinato C4”,
cioè il taglio C4 privo di butadiene e isobutene. Tale raffinato può essere lavorato, ad esempio, per
la produzione di alcoli, dove gli alcani saranno inerti e solo le olefine verranno trasformate in alcoli.
Ossido di Etilene
L’ ossido di etilene è il più importante prodotto di ossidazione parziale ottenuto dall’etilene, per
sintetizzarlo si usa il 15% circa di etilene prodotto. La seguente tabella mostra alcuni dati
riguardanti l’ossido di etilene:
Principali utilizzi Il 99% di ossido di etilene prodotto è utilizzato
per produrre: glicole etilenico, etanolammine,
tensioattivi.
Teb 11 °C è un gas
Limiti di esplosività 2,6 – 100% in volume
in aria
Questo processo era l’unico disponibile fino al 1950 ed era associato alla cloro-soda.
La selettività del processo è dell’80% circa., mentre il restante 20% di reagente reagito forma Cl-
CH2-CH2-Cl, che è molto tossico e difficile da smaltire.
I punti deboli di questo processo sono:
- Elevato consumo di cloro. Infatti, dalla stechiometria della reazione si osserva che serve
tantissimo cloro per ottenere CaCl2, che risulta contaminato dal DCE e quindi non vendibile;
- Elevati costi di smaltimento rifiuti. Ottenendo quantitativi enormi di CaCl 2 (inquinate dal
DCE), si deve trovare il modo di smaltirlo.
Quindi, questo processo non viene più impiegato per gli elevati costi e per i problemi
di smaltimento rifiuti.
2. Ossidazione diretta dell’ etilene:
Quello che si fa oggi è utilizzare un catalizzatore a base di Ag per fare avvenire
Confrontando i ΔH delle reazioni competitive con quello della reazione principale, si nota che la
differenza è di un ordine di grandezza. Pertanto le reazioni competitive sono molto più esotermiche,
quindi hanno un’energia di attivazione maggiore e di conseguenza, basta un piccolo aumento di T
perché la cinetica di reazione acceleri rapidamente. Dalla selettività del mio catalizzatore si sa che
l’80% di etilene viene convertito in ossido e il restante 20% viene combusto; quindi il ΔHreale della
reazione è maggiore (in valore assoluto) di -25 Kcal/mol e quindi è più esotermica.
Quello che è possibile dedurre da queste informazioni è che se si perde il controllo della T,
diminuisce la selettività del catalizzatore, si accelerano le reazioni competitive, quindi aumenterà il
ΔHreale e si rischia di far esplodere il reattore. Quindi il controllo della selettività è di vitale
importanza per evitare che la cinetica delle reazioni competitive aumenti.
In reattori di questo tipo esiste un sistema di controllo della T che ci consente di evitare il rischio di
deriva termica.
Dal meccanismo di reazione si è visto che la massima selettività ottenibile è dell’ 80%. Nei moderni
impianti si riesce ad ottenere una selettività maggiore (fino al 90%) grazie al 1,2- DCE. Infatti, nell’
impianto si inviano basse quantità di dicloroetano (100 ppm circa), che agirà da inibitore
dell’ossidazione totale; la sua azione è quella di formare Cl 2 che si adsorbirà sui siti catalitici ([Ag]-
Cl), realizzando così un avvelenamento selettivo della superficie catalitica. Di fatto aumenta la
formazione di [Ag]-O2 a spese di [Ag]-O.
La cinetica del processo è del tipo Langmuir-Hinshelwood
K K E K O PE P O
r= 2
( 1+ K E PE + K O P O )
dove:
- K è la costante cinetica per la reazione di formazione dell’ ossido di etilene;
- KE e KO sono, rispettivamente, le costanti di adsorbimento dell’etilene e dell’ossigeno (K E
=10* KO);
- PE e PO sono, rispettivamente, le pressioni parziali di ossido di etilene e ossigeno.
Come già detto KE =10* KO, che implica che, a parità di pressione parziale, il
catalizzatore è più ricoperto superficialmente di etilene piuttosto che di ossigeno.
Inoltre, al reattore conviene mandare etilene in eccesso rispetto all’ossigeno per uscire dai limiti di
esplosività, perdendo però in conversione per passaggio di etilene (7-15% in impianti ad ossigeno),
perché l’etilene è in forte eccesso (si deve pensare, dunque, ad un riciclo).
Se uso aria come reagente, poiché l’azoto ha un rapporto 4:1 con l’ossigeno, si ha un problema di
accumulo di inerte, pertanto si deve modificare la logica dell’impianto. In questo caso, infatti, la
conversione dell’etilene deve essere più alta (circa il 70%), perché è necessario fare uno spurgo.
Le due tipologie d’ impianto (ad ossigeno e ad aria) hanno alcuni punti in comune:
- La scelta del catalizzatore (metallo catalitico e supporto),
- la scelta della composizione alimentata al reattore (eccesso di idrogeno rispetto all’
ossigeno e aggiunta del promotore come l’ 1,2 DCE)
- adsorbimento facilitato dell’etilene rispetto all’ossigeno.
La tipologia di reattore scelto è un reattore a fascio tubiero, che da un’elevata superficie di scambio
per unità di volume di materiale catalitico. La lunghezza del reattore oscilla tra i 6 e i 12 m, i tubi
all’ interno hanno diametro tra 2 e 5 cm e ci possono essere fino a 12000 tubi allocati. In un
impianto moderno ci sono 3 reattori in parallelo per arrivare a produrre 150-200 mila tonnellate di
ossido di etilene annue.
Come inerte si utilizza metano, che è indicativo del fatto che in un impianto di questo tipo non c’è
rischio di combustione omogenea. Infatti, il metano, dal punto di vista della sicurezza, non è una
scelta ottimale, in quanto aumenta il rischio di esplosioni. Nonostante questi rischi, però, il metano
è usato perchè riesce a smaltire efficientemente il calore nonostante sia un gas, data la sua elevata
conducibilità termica, aumenta il coefficiente di trasporto all’interno del sistema.
In pratica, a parità di Q nell’equazione Q=UA ∆T , il metano aumenta il valore di U, diminuendo
quindi il ∆T.
In maniera similiare, l’1,2 DCE, promotore perché aumenta la selettività del processo, limita la
quantità di calore generato per passaggio e quindi alleggerisce la sezione di scambio del reattore.
Figura 7.5 - Tipico schema di un impianto di produzione di ossido etilenico con ossigeno
La Fig. 7.5 mostra lo schema di impianto di produzione di ossido etilenico con ossigeno.
Il cuore dell’impianto è il reattore che lavora alla T=500 K e alla pressione di P=20 bar. Dal punto
di vista sia cinetico che termodinamico, la pressione non influenza le performance reattore e la
velocità di produzione dell’OE rimarrà sempre la stessa, a flusso costante. La scelta dei 20 bar
(sebbene aumenti i costi dell’impianto), si basa sulla presenza a valle di assorbimento, che come
sono favorite dalle alte pressioni. In particolar modo, vi è un assorbitore di OE, ovvero una torre
di assorbimento gas-liquido alimentata in fondo dalla corrente in uscita dal reattore e dall’alto da un
make-up d’acqua fresca di alimentazione in contro-corrente.
All’ingresso del reattore si ha l’etilene, l’ossigeno, il dicloroetano (promotore), e il metano che
permette di mantenere costante la T costante nel reattore. Il promotore viene additivato all’etilene in
quantità modeste utilizzando un by-pass. Poiché la produzione di OE è molto grande e l’etilene
viene inserito nel reattore in forte eccesso, vi saranno centinaia di migliaia di tonnellate di etilene
alimentate (per anno), e quindi, dosare in maniera precisa decine di ppm di dicloetano risulta
praticamente impossibile. La strategia migliore è risultata quella di far gorgogliare una percentuale
opportunamente bassa di etilene in una colonna a bolle dove è presente dicloretano liquido. Quindi,
la corrente si satura di DCE e rimescolando con la corrente in entrata al reattore, si riescono ad
ottenere dosaggi molto precisi.
Il miscelamento statico dell’etilene con ossigeno e metano risulta essere un punto critico
dell’impianto, in quanto se non avviene abbastanza rapidamente, localmente si può raggiungere
l’intervallo di esplosività. Per questo motivo il miscelatore viene progettato per far sì che il sistema
raggiunga immediatamente il valore di concentrazione nominale.
La composizione tipica dell’impianto ad ossigeno è (percentuali in volume):
- 15-40% di C2H2
- 5-9% di O2
- 5-15% di CO2 (prodotto all’interno del processo stesso)
- La rimanente parte è composta da inerti (come CH4 e Argon, che entra con l’aria)
La massima conversione di etilene è del 7-15% e la selettività è del 75-80%. Dalla conversione, si
evince che la in uscita dell’OE sarà bassa, ovvero tra l’1-3% in volume.
Ritornando allo schema di impianto, le correnti di ingresso vengono preriscaldate da
uno scambiatore a fascio tubiero e mandate in un reattore molto grande. L’altezza del reattore si
aggira intorno ai 15 m e al suo interno possiamo trovare 12.000 tubi. I tubi devono essere quanto
più sottili possibili (20-40 mm), per ridurre al massimo il gradiente di temperatura in direzione
radiale. Una parte della corrente, per limitare le tensioni meccaniche nei tubi, viene prelevata dal
reattore e viene mandata in uno scambiatore di calore, dove cederà calore ad un idrocarburo
altobollente. Sfrutteremo l’entalpia immagazzinata da questi per produrre vapore, che in seguito
verrà mandato in una turbina per produrre energia elettrica.
L’uscita del reattore verrà inviato in una torre di assorbimento con acqua, in cui la maggior parte
dell’OE potrebbe reagire per dare luogo al glicole.
Frazionamento dell’aria
Il frazionamento dell’aria è un processo che, in campo industriale, ha come obbiettivo
la produzione di ossigeno puro per l’alimentazione di impianti in cui non si può, o non conviene
economicamente, inviare aria.
L’aria, a P e T ambiente, si presenta come una miscela di gas composta da azoto,
ossigeno, argon (e piccole percentuali di altri gas) e infine umidità, definita come il
rapporto percentuale tra la quantità di vapore presente in una massa di aria e la
quantità massima che può essere contenuta nelle stesse condizioni di temperatura e
pressione.
Il frazionamento prevede due parti di impianto: la liquefazione dell’aria e la
distillazione, che si fa attraverso una colonna di distillazione, in cui ogni piatto si assimila ad uno
stadio di equilibrio in cui avviene uno scambio di materia tra il liquido che viene dall’alto e il
vapore proveniente dal basso. Lo scambio di materia avviene grazie alla diversa volatilità che
liquido e vapore hanno in ogni stadio, nonostante abbiano uguale temperatura.
Infatti, sebbene azoto e ossigeno abbiano diversa densità, questo non basta a separarli.
Ciclo Linde
I cicli sono una sequenza di operazioni che permettono di liquefare l’aria (Fig. 8.3).
Si partirà da aria in condizioni ambiente, quindi da una pressione P1 pari alla
pressione atmosferica e una temperatura T1 pari alla temperatura ambiente.
L’entalpia H11 è univocamente determinata, vista la conoscenza della temperatura e
della pressione in condizioni ambiente.
Entrerà una certa quantità d’aria, valutabile con una quota “x”.
Tale quantità arriva ad un compressore, che la porterà ad una pressione P2 e una
temperatura T1*, maggiore di quella di partenza, poiché la Tmax dell’aria è di 500 bar,
quindi una compressione a partire da 1 atm porta sicuramente ad un riscaldamento.
In tale zona il gas avrà un’entalpia pari a H11*.
A questo punto, il gas viene raffreddato, ritornando così alla temperatura T1. Il gas,
dunque, alla fine di questa doppia operazione (tratto rosso in Fig. 8.3) si troverà ad
avere una pressione P2 maggiore dell’iniziale, una stessa temperatura T1 ed
un’entalpia pari ad H21, diversa da quella iniziale poiché è variata la pressione.
L’insieme di queste due operazioni è quindi una compressione isoterma.
In seguito, il gas attraversa lo scambiatore, dove si raffredda. Uscirà sempre alla
stessa pressione, poiché trascuriamo le perdite di carico, ma a temperatura T2 più
bassa. Si avrà un’entalpia, dunque, H22 diversa rispetto alla precedente, essendo
cambiata la temperatura.
L’aria sarà poi convogliata ad una valvola di laminazione, dove subirà
un’espansione isoentalpica. Se l’espansione ci porta ad un raffreddamento
tale da portarci ad una parziale liquefazione, allora l’impianto sarà un separatore gas-
liquido, con le due fasi in equilibrio liquido-vapore.
Il sistema alla fine avrà quindi una pressione P1 (atmosferica) ed una certa
temperatura T3 derivante dall’espansione isoentalpica. La fase liquida avrà
un’entalpia H13L e la fase vapore avrà un’entalpia H13V, che differiscono fra loro del
calore latente di evaporazione, trascurando le masse poiché grandezze specifiche:
H V13=H 13
L
+ λev ¿T 3