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Francesco Saba Sardi

Dominio
Potere
Religione
Guerra
Tutti i diritti riservati
ISBNH8-8H764-28-3
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Copyright 2004
Francesco Bevivino Editore srl - Milano
GOD - grandi opere e Dizionari
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Il magazine elettronico dedicato al mondo del libro

Nessuna opera può sorgere senza l'interlocutore e senza l'Altro. Ringrazio mia 
moglie Gabriela Landini, indispensabile copartecipe nella costruzione di 
Dominio 
Indice

INTRODUZIONE  6 

PROLOGO IL MITICO E IL PARLANTE  14 

POTERE RELIGIONE GUERRA  50 

RELIGIONE POTERE GUERRA  102 

GUERRA RELIGIONE POTERE  148 

CONCLUSIONE  169 

GLOSSARIO  170 

BIBLIOGRAFIA  191 
TEATRINO

All'alzarsi del sipario, si vedrà una collina sulla quale è intento


ad arare un grassone in abito da dirigente di varie epoche, e
dunque con giacca grigio scuro a doppio petto dalla quale spunta
l'orlo di un colorato peplo ricamato. In testa, una bombetta
ornata da una lunga piuma cangiante. Antico e moderno insieme,
calza agili scarpe da ginnastica. A seguirlo solco per solco, i suoi
caudatari, anch'essi pasciuti, vuoi coperti di corazza, vuoi in
giacca e cravatta. Ai piedi del colle, transita, solo e magro, un
itinerante con un perizoma di pelle. Impugna arco e frecce e si
guarda attorno come in cerca di animali da cacciare.

ARATORE (all'itinerante, gridando) Ódimi, straccione. Io qui sono il


signore supremo. Tutto il resto non è che un mio riflesso e un mio
strumento. Il tuo scopo è obbedirmi agendo secondo lucidità,
sempre e ovunque. Non ti è concessa l'ebbrezza né la con-
templazione di sogni segreti e indecifrabili, perché sarai cittadino
della città di cui traccio con l'aratro la pianta quadrata. Erigerò un
agglomerato di cause concomitanti, nelle quali sarai al sicuro come
in fondo a un labirinto. Il filo che unisce i moventi alle conseguenze
è inestricabile. Tu, uomo selvatico, rassegnati alla mia città. È una
calamità che passa di nazione in nazione. Crescerà su sé stessa,
nessuna forza, né tempesta né nemici potrà mai più cancellarla dalla
faccia della terra. Obbedirà alla legge dei numeri, avrà archi di
pietra candida e cieli azzurri, scalinate di marmo e finestre di
cristallo. Non vi si avrà mai né troppo caldo né troppo freddo. In
essa saranno abolite le stagioni. In essa tutto sarà artificiale. Sarà
macchina in perenne funzionamento.
CAUDATARI Avaro, arruffone, sfruttatore! Te beato! Fortissimo!
Bellissimo! Potentissimo! Carogna! Amato! (Si inchinano deferenti.
Chiedono) Andiamo a prenderlo per chiuderlo in un museo? In uno
zoo? (Impugnano, frugando nel mucchio ai limiti del campo, lance,
scudi, fucili, mitragliatori, pistole).
ARATORE Dico a te, straccione! Sto costruendo una macchina che,
copulando con sé stessa, si generi continuamente dalle proprie
macerie. Orsù, da bravo, vieni a rendermi omaggio.
ITINERANTE (in pronta fuga, blatera quelli che possono interpretarsi
soltanto quali insulti e cachinni).
ARATORE (ai caudatari) Se l'è voluta! Andate, sterminatelo! Trionfi la
civiltà e la stanzialità! Occorre sì un sacrificio umano, sia pure di un
inferiore, condannato dalla storia, per edificare la città!
CAUDATARI (scendono urlando dal colle, sparando, avventando lance
e giavellotti).
ITINERANTE (trafitto, esegue un poco decoroso decesso).
ARATORE Tornate pure, miei prodi. Guardate! (Traccia, con
straordinaria perizia, un elegante spigolo).
CAUDATARI Ma com’è bravo! Ma che bel rettangolo, quadrato, ret-
tilineo, angolo diedro! Da strangolarlo! Evviva, evviva il capo! In
attesa che uno lo sopprima, quel porco, e si impossessi dell'aratro!
Mai non sia! Tu, eterno capo! Sarai sempre nei nostri cuori,
maledetto, fetente, sublime!
INTRODUZIONE

La tripartizione qui proposta non vuole sottolineare una diversità.


Potere, religione e guerra sono infatti riconducibili a un nucleo unitario,
a una fase del divenire umano nella quale non erano ancora diversificati
né diversificabili agli occhi dei loro stessi inventori. Poiché di
invenzione si trattò, e fu un processo di lunga durata: parecchi millenni,
quanti ne occorsero perché si verificasse quello che a suo tempo
l'antropologo e preistoriologo Gordon Childe (1892-1957) ha voluto
denominare «rivoluzione neolitica». Un periodo nel corso del quale
entro il nucleo unitario di cui si è testè detto (ed evito di definirlo
originario per le ragioni che andrò esponendo più avanti) si delineò una
diramazione, una ancora imprecisa distinzione fra le tre componenti,
potere, religione e guerra, che andarono via via specializzandosi, a
volte convergendo, altre divergendo e anzi entrando in aperto conflitto
tra loro.
Contemporaneamente andava prendendo forma quella che oggi
usiamo chiamare società, nome collettivo con cui designiamo for-
mazioni di vario tipo e diverso genere, ma aventi tutte in comune la
struttura gerarchica, vale a dire la subordinazione dei più ad autorità
superiori e a ordinamenti piramidali. La proposta che qui espongo è di
distinguerle dai gruppi itineranti preneolitici (ne ignoriamo l'entità,
possiamo solo ipotizzarne la distribuzione, gli spostamenti, le fusioni e
le scissioni, e le zone in cui per lo più preferivano muoversi), privi
comunque di strutture gerarchiche, cioè di poteri nell'accezione attuale
del termine (più avanti distinguerò tra forme di repressione e
instrumenta regni). Ancora oggi gruppi del genere, seppure ridotti a
sparuti rappresentanti della tipologia, sono dediti alla caccia e alla
raccolta, in quanto esperti nella ricerca, scoperta e utilizzazione di ciò
che l'ambiente circostante offriva e offre spontaneamente. Le loro
tecniche si riducevano e si riducono all'organizzazione di cacce
collettive, alla preparazione dei relativi strumentari, comprese le armi
da caccia, alla fabbricazione di oggetti d'uso d'altro genere, in pietra, in
legno, in osso oppure derivanti da scheletri di pesci, e alla preparazione
del cibo.
Tutto lascia supporre che la specializzazione, differenziazione e
autonomizzazione dei tre rami del tronco iniziale, potere, religione e
guerra, abbia comportato una definizione di ambiti e funzioni sempre
più precisi e rigidi, corrispondenti al tracciamento, inizialmente
simbolico ma un po' alla volta tradotto in rappresentazione, nel “come
se”, cioè in concretezza gelosamente affermata, di limiti e confini. È da
supporre anche che gli agenti, a questo punto ormai societari, che
hanno costituito le categorie — caste, classi, affiliazioni — portatrici
del potere nell'accezione attuale siano stati, all'inizio, gli elementi più
validi, più robusti, più abili o più autorevoli (distingueremo più avanti
tra autorevolezza e autorità sia di uomini che di donne) e che siano stati
loro assegnati o si siano attribuiti compiti di difesa, di distribuzione più
o meno coattiva delle mansioni, determinazione e sistematizzazione
delle attività produttive, principalmente agricole, e di fabbricazione di
arnesi, strumenti, armi...
A un altro insieme di componenti di quella che a questo punto può
senz'altro definirsi società, è ipotizzabile sia stato assegnato o, ancora
una volta, sia stato auto attribuito, il compito di interpretare i segni del
cielo, della terra, delle acque, della vegetazione, della fauna.
A un altro insieme ancora sarebbe stato riservato il compito di
dilatare l'ambito dell'intorno, considerato proprietà esclusiva di quella
particolare versione di società, vale a dire l'attività bellica consistente
nella conquista di nuovi territori da sottoporre a sfruttamento e nella
sottomissione di altri esseri umani e animali già addomesticati, oppure
delle zone di pascolo o predazione di animali ancora selvatici.
Questa breve premessa ne comporta, e anzi ne presuppone,
un'altra: l'affermazione iniziale e coeva di stanziamento, agricoltura,
invenzione delle divinità, alle quali va senz'altro aggiunta brama di
potere e accettazione del potere stesso da parte dei sudditi.
Contemporaneamente all'affermazione del potere inteso come
struttura gerarchica di sopraffazione — a proposito della quale più
avanti sarà necessario soffermarsi sul significato di sadismo e maso-
chismo intesi in un'accezione sociologica, non già strettamente
sessuale - è andata affermandosi l'economia, cioè la produttività
agricola e tecnica che esigeva, come ancora oggi, divisione del lavoro,
assegnazione prescrittiva delle mansioni, distribuzione programmatica
di risorse e strumenti.
Allo stesso modo, i presunti rapporti con le divinità, una volta
affermata la loro “reale” presenza (non dunque una presenza soltanto
supposta, bensì proclamata, imposta, dogmaticamente prescrittiva), in
altri termini una volta operata la scissione tra aldiquà e aldilà, tra
mondo delle concretezze terrene e sfera metafisica trascendente, vale a
dire zona del sacrum, la scissione in questione non poteva non
trasformarsi in religione vera e propria, darsi insomma una struttura,
una gerarchia, obbligatorie credenze, un sacerdozio, regole cultuali da
seguire con rigida esattezza, un pantheon.
A conferma della contemporaneità dell'affermarsi di potere come
gerarchia, di religione come strutturazione del sacrum e di guerra, è
facile notare che quest'ultima non poteva venire in essere senza il
duplice strumentario del potere e della religione. Il primo, perché
assegnava ai guerrieri, che in tal modo diventavano soldati obbedienti
a comandanti, i mezzi e gli uomini (a volte anche le donne) con cui
trasformare la violenza, sempre esistita e ineliminabile in ogni
collettività umana, ma non ancora diventata strumento consapevole -
cioè grammatica e sintassi della violenza, in sistematica
organizzazione e finalizzazione della violenza stessa; la seconda, la
religione, era altrettanto indispensabile in quanto giustificava e
legittimava, come del resto accade ancora oggi, l'azione bellica.
D'altra parte, il potere non avrebbe avuto stabilità, durata e tra-
smissibilità senza l'opportunità e necessità della guerra e senza la
supposta approvazione e autorizzazione della divinità. In altre parole,
una volta diramatesi le tre componenti iniziali del dominio, potere,
religione e guerra, esse si sono condizionate, rafforzate, convalidate a
vicenda.
Questo libro non aspira alla sistematicità. Il lettore può anzi saltare
a piacimento da un paragrafo all'altro, l'autore confidando di aver
messo in opera, più che un testo, una sorta di montaggio (in senso
cinematografico) in cui tout se tieni. Rifuggo dai modi dell'accademia,
e ho cercato di evitare designazioni troppo rigorose, attenendomi, nei
limiti del possibile, al presupposto che tutto è simbolico ma, dal
momento che un saggio (per restare alla ben nota, tanto deplorevole
quanto difficilmente evitabile, classificazione degli scritti in generi)
pertiene alla logico-discorsività, mi è stato giocoforza servirmi di
rappresentazioni. Con il rischio del letteralismo ma con la cognizione
che la Parola, come il simbolismo, punta al silenzio, al linguaggio
nascosto nel linguaggio. La conseguenza è una frammentazione in
paragrafi di varia lunghezza, obbedienti a un ordine fluttuante.
Grosso modo, l'esposizione si articola in un Prologo e tre Capitoli,
quegli stessi del sottotitolo: potere, religione, guerra, con continui
rimandi, e sovrapposizioni, dall'uno all'altro. Vasta parte è riservata,
nella struttura generale, al passaggio dal Paleolitico al Neolitico inteso
quale universo della legge, della produttività, della tecnologia, della
storia: il mondo in cui è prevalso il Discorso con l'inerente tentativo di
relegare mito e tabù nel ctonico [quelle divinità generalmente
femminili legate ai culti di dei sotterranei e personificazione di forze
sismiche o vulcaniche]. Il trionfo celebrato di continuo dal Discorso —
senza che esso possa togliere di mezzo quello che chiamo residuo
indecomponibile, ed è l'ombra del mito — è consistito nello
stravolgimento della Parola, ciò che ha fatto dell'uomo d'oggi un
parlante che rilutta a essere mitico, e tutt'al più ammette che lo siano
gli aspiranti alla traduzione dal silenzio in parole. Chiamiamoli artisti
- per quanto io ignori che cosa si designi con il termine arte.
In questo libro si descrive dunque ciò contro cui il dominio —
potere, religione, guerra — si accanisce nel tentativo di nasconderlo,
esorcizzarlo, reprimerlo, sopprimerlo. Ma l'uomo non potrebbe vivere
neppure un giorno senza mito, senza follia, senza abbandono e senza
sogno. Un paragrafo conclusivo di questa breve, nient'affatto
sistematica esposizione, contrappone l'azione del dominio — cultura
della morte - all'altra dimensione che è la possibilità, solo accennata,
solo intravista della gioia (escludendo di poterla tradurre nei tetri ritmi
militareschi della marciante Gioia dell'inno conclusivo della Nona di
Beethoven).
Parola È senza origine, è originaria. E senza rimando a una realtà
extralinguistica. Non è inscrivibile nel sistema del significabile e nel
principio di padronanza.
Non c'è padronanza della parola esercitata attraverso il linguaggio.
Non valgono le categorie della logica classica (tempo, spazio,
luogo, non-contraddizione).
Discorso II Discorso è ciò che inscrive la parola all'interno di un
sistema che presume l'esistenza di una causa prima. Si ha così Discorso
archeologico, speleologico, sintattico-grammaticale, letterario,
editoriale, eccetera.
Il Discorso si fonda su alcuni cardini che riguardano il terzo
escluso, il principio di non-contraddizione.
Parola La Parola è mistero, sfugge alla presa, soprattutto a quella,
continuamente, testardamente tentata, della linguistica. Poiché non è
possibile una padronanza del linguaggio, non abbiamo facoltà,
capacità, competenza che ci faciliti il percorso, restiamo consegnati al
viaggio, impervio, di esistere in combutta con il mito. Che il Discorso
si sforza di mettere al bando. E anche per questo il Discorso è una
costrizione, una catena di cause ed effetti che pretende di imporre
l'adesione a una coerenza precostituita, riconducibile a un sapere dato
in partenza. Il Discorso presuppone un'origine al di fuori della Parola,
nutre la speranza di trovare in un'invariabilità pre-Babele la conferma
di una lingua adamitica, il germe iniziale e la scaturigine dell’origine
dell'universo dalla quale far dipendere la genealogia del bene e del
male, dell'aldiquà e dell'aldilà, del mondano e del divino. Il Discorso è
gnosi, episteme, funeraria riduzione all'uno.
Mi rendo tuttavia conto che è difficile intendere che è ciascun atto
di parola in quanto tale a essere originario e che il nostro esistere in
esso si situa.
Essendo impossibile dare in poche righe di aggiunta a un testo
(comunque inconcluso e inconcludente) una definizione esaustiva del
termine Discorso perché riguarda quanto è già stato elaborato in
filosofia e nella logica classica, mi limito a pochi accenni, alternando e
contrapponendo Parola e Discorso.
Parola II termine deriva dal greco parabàllo, io lancio; donde
parabola, discorso per similitudine: “lancio” parole usate come
discorso per avvicinarmi come un bersaglio alla Parola che mi fluisce
dentro.
Discorso II trasporto di un oggetto, la parola da un ambito lin-
guistico a un altro, da una cultura a un'altra, è possibile. Si chiama
traduzione. Permette di fornire oggetti, cioè testi, approvati
dall'editoria e dall'accademia. Il traduttore lavora per la traduzione, in
una di quelle attività senza le quali morirebbe di fame.
Parola Persino il bambino traduce. La traduzione è universale e
perenne. Il bambino balbetta, e l'informe balbettio dev'essere traslato
in termini indicali per rendere possibile la comunicazione in questo o
quell'ambito di parlanti. E come se tutti quanti fossimo sulle rive di un
fiume nel quale fluiscono le parole; immaginiamoci di essere pescatori
sulla sua riva, intenti a trarre le parole, che sono quelle non volute, non
programmate, le stesse Parole del sogno (il fiume è a livello inconscio,
per usare un termine della psicoanalisi), a ripulire le parole e a metterle
in circolazione. È questo il principio dello scambio anche economico.
Discorso Ma nel bambino c'è una lingua più profonda, un
linguaggio prenatale, tale che i dispersi sulla faccia della terra, costretti
dai diversi contesti in cui sono alle prese — baobab anziché querce,
tigri anziché elefanti, mari anziché fiumi — gli esseri umani si sono
dati designazioni diverse. Tuttavia, essi tendono a tornare all'origine,
cioè a ricuperare una lingua universale con cui comunicare a tutti i
livelli e ovunque.
Parola Questo significa l'uniformità, l'omologazione, l'identifi-
cazione. Un nome, un codice di riconoscimento per tutti, e depositi di
conoscenze accessibili a tutti.
Discorso Ma dicendo “io”, io sono in quanto io. A furia di
analizzare si scopriranno le strutture complesse, e in realtà
semplicissime, che stanno alla base del linguaggio naturale. Babele,
insomma, prima della discesa del dio geloso dell'umana unità, e che ha
distrutto uniformità e identità.
Il pensiero infatti ha un'esistenza reale anteriore o esteriore alle
parole.
Parola Non ci sono oggetti che non siano stati prima denominati,
inventati verbalmente o figurativamente o musicalmente perché
esistano. Noi-Parola muoviamo e trasformiamo il mondo- Parola dopo
averlo istituito. Parliamo perché non parliamo della Parola. La parola-
tempo per noi-Parola abitanti della parola-scrittà (essendo impossibile
separare la città dalla scrittura e la scrittura dalla città) si svolge
linearmente perché la scritta si svolge linearmente. Tempo sintattico,
in successione orizzontale o verticale, non paratattico come le figure
— in disordine, per noi — spesso sovrapposte l’una all'altra, delle
grotte e dei ripari sotto roccia, prima della parola-rivoluzione neolitica,
della parola- agricoltura, della parola - apotrópaion contro l'abisso, la
sylva, la selvaggeria ciclica o addirittura senza topoi, la parola-uomo
casualmente itinerante.
Discorso Anche i selvaggi usano i tempi verbali, danno ordine al
discorso, distinguono passato, presente e futuro.
Parola La memoria si plasma sull'esempio del passato del verbo-
parola. E il quando questo-questa ha creato il mondo. Non dal nulla,
che è parola, ma appunto dalla Parola che si staglia nel tutto-nulla.
Discorso Ma è la psicotecnica (psicoanalisi e psichiatria) che fa
risorgere il ricordo.
Parola La psicoanalisi classica (ormai superata) parte dal presup-
posto che il tempo sia una realtà concreta. Lo psicoanalista e più ancora
lo psichiatra “classico” è uno storico, cioè un traduttore (per lo più
pessimo, dal momento che pretende che il “matto” si esprima secondo
i suoi cliché psicotecnici) che aspira al letteralismo.
Discorso La storia serve a orizzontarci nel mondo, e lo storico
ricerca attendibili documenti, verbali o d'altro genere, e li presenta
parafrasandoli.
Parola La sua attività è quella stessa dell'interprete di sogni. Al
quale il sognatore riferisce ciò che ha udito, visto, toccato, gustato,
annusato, ma limitandosi — altro non può fare — ai fatti, alla cronaca.
Manca, in quel suo riferire, la forma, che è irriferibile.
Discorso La funzione del linguaggio fu e sarà sempre la stessa.
Parola Nessuna parola resta inalterata nei tempi da essa stessa
istituiti. Nessuna parola, nessuna lettura, nessuna traduzione potranno
prescindere da questi presupposti. I sinonimi, intesi come perfetti
equivalenti, non esistono.
Discorso L'uomo è continuamente alla ricerca del senso, ed è
questa la premessa e lo stimolo per una possibile salvezza.
Parola La salvezza, se mai esistesse, sarebbe una rappresentazione
della disperazione. È comprensibile l'esigenza intima di ritrovare il
nucleo del mondo, ma la condizione in cui viviamo ci rivela che la
questione del senso del mondo è negata persino a livello scientifico.
PROLOGO IL MITICO E IL PARLANTE

Noi siamo Parola. Siamo nella Parola. Parola sono i nostri


pensieri, che sono dialoghi con noi stessi; Parola i nostri gesti; Parola
tutte le nostre forme di comunicazione interiore (con le varie
“personalità” che ci compongono o scompongono) o esteriore; Parola
le figurazioni, i canti, le danze; Parola la scrittura: Parola verbale,
dipinta, recitata, eseguita, trasferita, cioè tradotta, dal dialogo interno
alla sua ripulitura, correzione, revisione, per essere messa in
commercio come rappresentazione figurata o gestuale oppure parola
verbale, insomma presentata in maniera accettabile agli altri, a loro
volta maschere dell'Alterità.
Scongiuro. A giudizio dei semantologi la parola è sempre usata.
L'antisemantologo si avvede di primo acchito (non per niente fabula,
scrive, danza, dipinge, compone musica, trova fruttuoso quel-
l'ininterrotto racconto che è il sogno) che è la parola a usare e che
sostenere il contrario attiene alla metafisica.
Con la metafisica ha attinenza l'invenzione della città che è, pro-
priamente e innanzitutto, apotrópaion, scongiuro contro i metafisici
terrori della sylva, il non edificato, il non programmato (e
programmabile solo in prospettiva), il selvatico, il disordine, il caotico.
Che è, dichiaratamente, luogo della sicurezza, ed è il luogo della
scrittura, il luogo del testo. Scrittura, cioè fester Schrift, testo ovvero
testimone saldo, incontrovertibile della verità, al quale non si sfugge,
diventato com'è pietra, fatto oggetto. Città, sede del letteralismo. Città
che subito si sdoppia: è una forma
simbolica ma anche un insieme di norme e regole, e si avvia subito a
diventare organismo, riferibile al biologico, e manufatto. E da questa
crisi originaria che deriva l'occultamento e l'eclisse della città come
reticolo di desideri mentre sul proscenio si fa, occupandolo in
apparenza senza residui, la città macchina; ma è solo un'illusione ottica.
La città non cessa mai di essere un non-io che parla e decreta la crescita,
che impone le vicende storiche e l'estinzione di questa e altre città.
Il potere ha un volto non poi tanto enigmatico. Ha tanti volti quanti
ne ha la città. Ma nella sua molteplicità, la città contiene in sé le ragioni
dell'oblio. Al pari della moneta, dello scambio con un mezzo
calcolabile che è posto in essere dalla città, in origine forma simbolica;
al pari dell'oro, metafora della regalità, diventato metro della ricchezza
che tutto acquista, tutto può far suo, tutto ridurre; al pari della parola
usata per comunicare, che si identifica allora col mezzo di scambio, e
poi col denaro, la città dimentica le proprie origini, che sono non solo
quelle di luogo di raduno e facilitazione degli scambi, ma anche e
soprattutto di fungere da esorcismo contro la colpa commessa, colpa
originaria e inevitabile, l'abbandono della Madre o Antenata (Ituri,
antenato/a, è detta dai pigmei la foresta): esorcismo contro la selva, il
luogo non soggiogabile, l'incalcolabile che sfugge alla previsione. Per
questo la città si dà mura, non solo contro i nemici, venuti da altre città,
abituati anch'essi al saccheggio del suolo — e perché non anche dei
centri abitati? — ma anzitutto per affermarsi quale luogo della salvezza
dai terrori del non cartografabile, mappa dei tentativi di non perdersi
nel mondo.
Ma ecco che ci si perde nella città. Vicoli, cunicoli, viali
sterminati, luoghi malfamati e pericolosi, sentine del vizio, spazi
deliranti, stratificazioni, crescita in senso verticale e dunque vertigine,
alloggi da capogiro e luoghi panoramici dai quali si tenta di ricostruire
la topografia urbana: la città è una moltiplicazione dei pericoli che
vorrebbe escludere. La città che si suppone esorcismo contro l'informe,
l'insensato, il proliferante che sgorga improvviso, che fruscia subdolo,
che non ha confini; la città chiusa da mura o descritta e iscritta in un
pian de ville che è un pian de vie-, la città che pretende di rifare il
cosmo all'interno di limiti scelti, che si propone quale riassunto del
cosmo, specchio rassicurante del cosmo, è in effetti uno specchio
frantumato: mille specchietti, mille cosmi rovesciati. Il labirinto con il
filo d'Arianna, tale vuole essere la città. Ma essa non sfugge alla
labirinticità; anzi, la moltiplica e la esaspera.
Da Leon Battista Alberti in poi, l'architetto è un programmato- re,
evoca a sé tutto lo spazio dell'immaginario, assurge a demiurgo della
propositività e positività, della preveggenza, veggenza e reggenza, è il
portatore dell'utopia e del riformismo, ignora ormai il pericolo insito
nella creazione parallela a quella originaria. L'architetto, una delle
ipostasi del codificatore, si immagina titanico, e titanica vuol essere
l'opera che edifica. L'architetto-codificatore continua l'orgoglio del
fondatore e del sovrano. La città, luogo della sicurezza, luogo della
scrittura, luogo del testo. Scritta, dunque. Nulla deve sfuggire alla
programmazione, e quanto non è programmabile viene relegato fuori
dalle mura. Il delirio della Sibilla non ha più posto nella città. La forma
urbana medievale è caratterizzata dalla cinta di mura: non solo e non
tanto per motivi di difesa, quanto per bandire da sé, metaforicamente,
l'informe.
Per inciso, agricoltura e industria (fatte nascere o sviluppate, e
comunque monopolizzate dal potere, impossibili senza il potere, senza
la divisione del lavoro) hanno per effetto di far crescere la
complicazione in basso, pianura nella quale si è alle prese con
innumerevoli problemi d'ordine pratico (aratri, fienagione, semine,
parassiti, canali di irrigazione; manutenzione, fresatura, guida, con-
trailo, bullonatura, conti da pagare...), rafforzando la stabilità delle
vette del potere (non di un potere: del potere); agricoltura e indù- stria
sono di per sé l'alienazione (tale non è la fatalità di nascere, vivere,
perire, avvertirsi sessuati con la “mancanza d'essere” che ne deriva e
l'aspirazione all'ermafroditismo come negazione dell'Altro — il
desiderio di avere una fica se si è maschi, un cazzo se si è femmine,
desiderio che nulla ha a che fare con l'«invidia» di cui fabula Freud):
intendiamo infatti riferirci all'alienazione indotta, intesa come
espropriazione. Ed è certo maggiore l'alienazione dell'industria rispetto
a quella dell'agricoltura: il potere ne è reso infatti ancora più saldo,
inamovibile, ineliminabile, dalla stessa complicazione dei processi
produttivi.
Il mito si dà così vesti “naturali”; si identifica con il sole, con la
luna, con il mare e le loro vicende, ma non è affatto il ricalco di questi
grandi fenomeni celesti o terreni. Il mito-tabù è il sorgere dentro di noi.
Cultura è sinonimo pertanto di mito-tabù. Ogni atto umano esprime il
sorgere - e ogni atto umano lo blocca e cancella, come ogni parola
blocca e cancella, cristallizza e uccide, il pensiero- parola preverbale.
Ma, come non si può non parlare, così non si può non dire mito e tabù
(o recitarli, o viverli). Il mito-tabù fissato, congelato, espresso, è il
germe del potere; la parola è la potenzialità del potere. Dove accada
che lo sciamano possa ridarle fluidità, ricondurre il senso al nonsenso,
la potenzialità non si realizza; ma per questo occorre un gruppo
“minimo”, in cui lo sciamano- memento, lo sciamano che vive il mito-
tabù per “incarico” della comunità, sia sempre visibile. Appena lo si
nasconde — appena la società supera una certa soglia quantitativa,
numerica, quella per cui lo sciamano si eclissa — il potere “esplode”.
Così accade che, in certe fasi protostoriche, si formino e si disfino
società gerarchiche, come ad esempio quelle mesoamericane almeno
fino a epoca tolte- ca e olmeca. L'aggregazione numerica è ancora
insufficiente a provocare l'“esplosione” del potere seguita da
un'inarrestabile espansione. (Si noti che questa ha la tendenza a
diffondersi, a “infettare” gli ambiti circostanti. Il potere è
diffusionistico, tale per imitazione o imposizione.)
È vano il tentativo di pensare a un al di là della Parola. Ci si
imbatte sempre e comunque nella Parola, nostra felicità, nostra libertà,
nostra schiavitù, nostro approdo. Il religioso monoteista che cerchi dio
si arenerà sulla parola-dio; il buddista che cerca di sondare il mistero
del samsara, la reincarnazione, la ruota degli esseri, e di superarla
attingendo al nirvana, si imbatterà nella parola “essere” con l'aggiunta
di sostantivizzazioni, come karma, Grandi Esseri, eccetera, e finirà per
trovarsi di fronte a nomi oltre ai quali potrà magari illudersi di andare,
ma solo servendosi di una successione di altre parole per giungere
all'apparente conclusione della serie - anche se in realtà le parole non
hanno numero — cioè alla parola “fine”; e il politeista non potrà andare
oltre la sfilata di dèi, semidei, Spiriti che compongono il suo pantheon
o il suo Olimpo e che sono nomina insuperabili.
Lo ripeto: e la Parola a istituire gli oggetti fisici (albero, pietra,
nuvola, strumento...), non gli oggetti fisici a replicarsi nella Parola
verbale, dipinta, danzata, cantata, mimata... È un concetto sul quale e
Opportuno insistere di continuo perché è centrale nello svolgimento
del mio discorso. Il capovolgimento della Parola significò che
l'oggetto fisico fu interpretato quale conferma della Parola-usata.
È però innegabile che ben pochi accettano l'inesorabile
impossibilità di scoprire quale sia la fonte di luce che, nella caverna
della favola platonica, proietta ombre sul fondo. Le religioni, al pari
della Scienza, vogliono infatti andare al di là; le religioni, descrivendo
divinità e spiriti e imponendone il culto; la scienza, in primo luogo U
cosmologia e la cosmografia, pretendono per via unicamente razionale
— e senza dunque poterne fornire una validazione — di pervenire al
punto zero, il momento del Big Bang che avrebbe dato origine
all'universo. Le religioni non meno della scienza (in fin dei conti loro
legittima rampolla) mirano a definire la creazione, cioè l'edificazione
dell'universo a partire dal nulla, per opera di un'entità estranea — un
dio o un gruppo di dèi — o implicita, nel senso che “la creazione è la
creazione”. Al pari della storia — che più avanti definiremo - la scienza
è genealogica.
«Io Credo in Dio padre onnipotente», recita il Credo cristiano.
Impossibile, per i post neolitici, concepire una divinità suprema che
non sia fallocrate.
La speranza che esista una certezza ultima, e che la traduzione sia
giustificata e valutata col metro di misura della favolistica invariabilità
pre- Babele, è solo paura del labirinto senza via d'uscita che è la Parola.
La morte non è che lo spegnersi della parola, e dunque della speranza
di accedere all'Alterità che è simboleggiata dall'altro, oggetto animato
o inanimato.
Al pari degli antichi stoici, l'odierno semantologo ritiene che tutto
l'accadere sia preordinato da una provvidenza o da un destino o da una
norma, comunque la si voglia definire, e quindi che le solite,
magnifiche sorti marcino progressivamente verso lo svelamento
definitivo. Il semantologo non si arrende a nessun racconto mitico, lo
considera un indovinello, tutt'al più uno strumento, non già una parola
che parla e non certo nella forma della logico-discorsività, id est della
enunciazione esplicativa; pensa che la Parola (parlata, cantata,
dipinta...), che è il mito, la si possa spiccare dal ramo, che essa sia ciò
che si pensa prima della parola stessa, e dunque che la si possa rigirare
tra le mani, farla a fettine, e le fettine metterle sotto la lente del
microscopio. Insomma, non sa distaccarsi dal metodo dell'Occidente,
della Scuola, del Sapere. E non si accorge che la parola discorsiva è la
salma, la spoglia, lo scheletro della Parola che scorre, irrefrenabile, in
tutti, in me e in te, la parola che te pensa, che me parla.
Anche Benedetto Croce ha anteposto pensiero a parola. Ma la
parola è increata. Non ha origine. È essa a creare. Non c'è un al di là
della parola: Tal di là avviene in quanto parola. Aggiungo che la Parola
nelle sue metamorfosi inventa le proprie trappole e scissioni. Veste i
panni della follia, si improvvisa perversione, si atteggia a filosofia, ben
sapendo — e lamentando la propria incapacità di uscirne — che sono
altrettanti frammenti di essa stessa, della Parola. Ciò che l'auspicata
completezza della parola — quella che è un frammento della parola, il
frammento etnografico che descrive e cataloga - chiama “parola
poetica delle origini”, non sfugge a codeste prevaricazioni operate su
sé stessa dalla Parola impaurita di fronte all'idea del suo stesso
spegnersi, cioè della morte, dell'incapacità di designarsi, di oggettuarsi.
Ed essa si è fatta agricoltura, industria, commercio, produzione: per
possedere designazioni, per ancorarsi a parole-oggetti. La Parola è
pertanto autoinganno, menzogna, sragione, illusione e delusione,
perenne fluidità e sfuggevolezza, continua metamorfosi, ed è per
questo che si traduce ben sapendo che nulla è traducibile, che si scrive
ben sapendo che nulla è scrivibile. È mito. Tutto però si traduce, cioè
si fa parola che trasferisce sé stessa, restando fluidità e sfumatezza,
oppure trasformandosi, mascherandosi da oggetto: per scoprire, subito
dopo o a distanza di anni, che la sfumatezza di allora non è abbastanza
duttile adesso o che quell'oggetto è ormai inservibile. E tutto, per
questo, è inesorabilmente racconto: avventura della Parola nel suo farsi
oggetto o rifiutarsi all'oggettificazione; e la Parola è dunque presenza
o assenza, auto accettazione o autorifiuto. È ciascun oggetto è racconto,
tracciato di un nostos, di una fuga della Parola dalla Sirte sciagurata,
da Scilla e Cariddi, da isole abitate da imprigionanti dee e ninfe, per
riapprodare alla sicurezza banale di Itaca, e poi riprendere al più presto
il mare onde non restare arenata, confitta nella reificazione. Perché c'è
un residuo indecomponibile, che nessun tentativo di cristallizzazione
potrà mai risolvere: nessuna legge, e dunque nessuna religione, potrà
mai cristianizzarlo o comunque convertirlo.
Nessuna legislazione riuscirà mai a chiudere in una definizione la
traduzione, che è perennemente all'opera: ininterrottamente
trasferiamo parole, gesti, forme, dal flusso che ci percorre senza soste
alla comunicabilità che comporta la riduzione del flusso a poche
istanze, ben inferiore al profluvio del dialogo con noi stessi. Va però
detto, a questo proposito, che l'Essere si rivela nascondendosi, e più
avanti dovremo tornare sul concetto.
La Parola, inevitabilmente sospesa nel vuoto in quanto fine a sé
stessa, in quanto nulla designante ma istitutrice di rappresentazioni, di
sé stessa prigioniera, ha partorito l'anti-Parola.

«Dìo disse: “Sia la luce!"» (Genesi, 1,3).

Incapaci di non attribuire un'origine alla Parola, le religioni (la


cristiana pars prò roto,) inventano comunque un'origine e la collocano
in una dimensione per principio incontestabile.
Bisogna anche supporre che la Parola si sia, in un certo senso,
impaurita di se stessa, che si sia sentita appunto sospesa nel vuoto, non
bastandole avere inventato i mammut dipinti sulla parete della grotta
di Rouffìgnac, gli orsi, i Tchurunga australiani, gli struzzi africani, i
“pitoti” della Valcamonica, gli stambecchi che il paleolitico itinerante,
dedito alla venagione, lasciava a memoria del suo passaggio o
temporanea dimora, essendo egli insieme homo faber, homo ludens,
homo mythologicus, costruttore di utensili, dedito alla pittura, alla
danza, all'affabulazione, inventore di mitemi e proiezioni della propria
presenza nel mondo.
È stato più volte ripetuto che le ideologie e le credenze non sono
suscettibili di fossilizzazione, e ne conseguirebbe l'impossibilità di
provarne l'esistenza presso i Paleantropi, gli “uomini antichi”, i nostri
progenitori preistorici. Parecchi studiosi preferiscono pertanto non
dire nulla sull'argomento, limitandosi a ricostruire la vita materiale
degli uomini del Paleolitico sulla scorta dei reperti. Ma è un
atteggiamento che rischia di incoraggiare l'opinione che all'epoca
l'attività spirituale si limitasse alla conservazione e alla trasmissione
della tecnologia. Non è comunque ammissibile che l'uomo di allora
fosse soltanto homo faber, cioè costruttore di oggetti: doveva, non
poteva non essere anche homo ludens, cioè dedito anche ad attività
non esclusivamente pratiche, al divertimento di vario genere e ad
attività “artistiche”, e non poteva non essere anche homo
mythologicus, cioè “creatore” — in quanto Parola — del mondo.
Stanno a dimostrarlo, se non altro, le figurazioni di vario genere che
ha lasciato sulle pareti delle grotte e dei ripari sotto roccia, oltre ai
prodotti dell'arte mobiliare. E ci inducono a pensarlo tale le analogie
con le culture dei residui popoli cacciatori, che in comune con i nostri
antenati hanno per lo meno la tendenza alla rappresentazione pittorica
rupestre, molte pratiche funerarie e il manifesto uso di strumenti non
dissimili da quelli usati migliaia di anni fa dai nostri progenitori.
Gli sparuti popoli cacciatori e raccoglitori odierni possono essere
definiti come popoli preistorici o preneolitici, sopravvissuti fino a oggi
senza agricoltura e senza animali domestici fuorché cani, anche se
esistono casi che sono quasi sempre eccezioni. Così per esempio gli
indiani Tiglit (costa nordoccidentale dell'America Settentrionale
coltivano o almeno coltivavano fino a tempi recenti il tabacco,
considerandolo però non già un alimento o un prodotto commerciale,
bensì una droga; e alcuni gruppi di Ainu (isola di Hokkaido
nell'arcipelago giapponese) da qualche decennio coltivano il miglio
che serve a preparare la birra, anch'essa come tutte le bevande
inebrianti da considerare più droga che alimento. Per lo meno questa
assenza di agricoltura accomuna i cacciatori odierni ai Paleantropi.
È dunque lecito, ripetiamo, proporre analogie, pur con il dubbio che
si possa riuscire a ricostruire oltre limiti ristretti il modo di vivere (?
dunque di pensare) dei nostri antenati.
La Parola paleolitica è stata stravolta, suppostamente spiccata dal
ramo, affermata ciò che si presunse esistere prima della Parola, e
pertanto oggetto da rigirare tra le mani, da fare a pezzi, da reificare; e
la Parola sarebbe così stata ridotta esclusivamente a verbo, non più
invenzione ma creazione in senso teologico — cioè supposta- mente
apparsa dal nulla per intervento esterno del Pormai concepita divinità -
Cosa con la quale si potesse descrivere e riprodurre resistente. La
Parola avrebbe così cessato di essere l'istituzione dell'albero, del fiume,
del giorno e della notte, per diventare supposto specchio, eco, ricalco
della realtà.
Perché gli uomini si sono stanziati? Sull'evento consistito nel-
l'assunzione da parte degli uomini del controllo dell'ambiente naturale,
atteggiamento che ha cambiato radicalmente la loro e la nostra
posizione nel mondo, sono state avanzate molte ipotesi. Si è trattato di
un processo recentissimo se commisurato sulla scala della presenza
antropica sulla terra: ha avuto luogo infatti non più di 15.000 anni fa,
nella cosiddetta Mezzaluna Fertile, la regione del Vicino Oriente che
comprende Egitto, Anatolia Meridionale, Palestina, Siria e una parte
della zona compresa fra il Tigri e l'Eufrate.
«Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la
sua offerta» (Genesi, 4,4-5).
Il dio, che è il potere neolitico, apprezzai il nomadismo e condanna
la stanzialità agricola: Caino ara, stupra la terra (che si vendica
dandogli scarsi, faticati frutti), ma non può non assolverlo perché è lui
stesso frutto della stanzialità che ha inventato la divinità («Il Signore
impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l'avesse
incontrato» Genesi, 4,15). E Caino di fatto prospera e diviene
costruttore di città (Genesi, 4,17).
Gli aspetti positivi della rivoluzione neolitica. Le risorse divennero
regolarmente prodotte anziché restare legate all'aleatorietà della loro
spontanea presenza nell'ambiente, e fu dunque possibile accumulare
scorte in vista di periodi di scarsa produttività vegetale e animale. Si
ebbe pertanto, rispetto al Paleolitico, una disponibilità di quantitativi
maggiori di prodotti alimentari.
L'allevamento sistematico degli animali, prescelti inizialmente
specie gregarie e itineranti, assicurò fin dagli esordi del Neolitico na
certa padronanza dello spazio, ripresa, sviluppata e moltiplica- dalia
pastorizia, sinonimo di nomadismo. Alla sylva, come fu poi
denominata dai romani la natura selvaggia, si sostituì la crescente
divorazione dei suoli. Ebbe inizio il processo di conquista e
colonizzazione degli spazi, dapprima i viciniori, successivamente
quelli più lontani e, in tempi a noi prossimi, persino oltre mari e oceani.
Il graduale passaggio dai piccoli villaggi del Neolitico iniziale ad
altri di ben maggiore estensione, alle città e alle conurbazioni, si
accompagnò alla sostituzione del mito-tabù con la metafisica (si veda
il Glossario). La metafisica consistette essenzialmente, lo ripetiamo,
nella convinzione che la Parola potesse diventare sempre usata, anziché
essere Parola-in-cui- siamo. La metafisica vuole per principio ignorare
che noi siamo mitici e solo secondariamente parlanti, come a dire che
il perenne scambio che abbiamo con noi stessi cioè con l'Alterità — e
che precede la comunicazione plurivocale - non è una scelta ma è parte
integrante e anzi condizione del nostro esser-ci inteso come parte,
frazione, ombra dell'Essere.
La metafisica comportò l'invenzione della scrittura. La Parola
usata venne intesa quale cosa, oggetto di scambio e anzi quale esordio
e modello iniziale dell'attività economica, dapprima nella forma di
scambio, di baratto via via accompagnato da lucro in sostituzione delle
non-regole precedenti, del periodo cioè in cui la comunicazione
materiale prendeva la forma di dono senza l'obbligo della reciprocità,
anche se questa era ovviamente bene accetta.
Tabù. Il noto antropologo francese Lévi-Strauss vorrebbe
ricondurre il tabù a un primum, e sarebbe la proibizione dell'incesto a
sua volta riconducibile alla necessità dello scambio delle donne. La
proibizione dell'incesto sarebbe «una regola di reciprocità», destinata a
escludere l'endogamia e a garantire l'esogamia. In ultima analisi, Lévi-
Strauss riduce il tabù al proposito di evitare che ci si unisca tra
congiunti. Il tabù viene dunque da lui riferito a una regola, che pertanto
preesisterebbe al divieto. Ma l'antropologo dimentica che i faraoni
egizi sposavano la sorella, o addirittura la madre o la figlia, che lo
stesso facevano i sovrani incaici, e che l'incesto è largamente praticato
in molte vallate alpine che, d'inverno, restano bloccate, isolate dalla
neve. Dimentica anche che le madri degli aborigeni centro australiani,
in particolare i Pitjentara, iniziavano i figli maschi alla sessualità,
ponendosi su di essi a cavalcioni nella posizione detta alknarintja, e
che tra i Kaingang dell'Altipiano brasiliano la prassi era, e forse è
ancora, missionari permettendo, altrettanto diffusa che tra gli sparuti
gruppi abitanti le zone interne della foresta amazzonica. Il tabù
dell'incesto “funziona” insomma per conto proprio: il tabù copre tutto
ciò che allude alla simbologia dell'origine.
Il tabù, al pari del mito, non presuppone affatto un'origine. Né
l'uno né l'altro fanno di un'assenza una presenza. Non pongono
domande, non forniscono risposte. Si rivelano, ecco tutto. Si pongono
quali riti di passaggio, insituabili cippi confinari attraverso i quali
tuttavia si transita per ritrovarsi nell'aldilà e rientrare nell'aldiqua.
Sono, appunto, Parola: Parola che ci ritroviamo in bocca, in mano, nei
piedi, nel pennello. Appena sbocciati, mito e tabù si affermano come
perenne ripetizione, onda che viene a frangersi sulla spiaggia, non
latrice di un senso definito e definitivo, ma sempre sfuggente e tuttavia
avvertito — come un sentimento, se si vuole — e allora il mito-tabù,
verso e recto della medaglia, ci appare come un as if, un “come se”,
non tangibile ma avvertito e ineludibile. Come nostra origine, non di
esso, il mito-tabù che origine non ha, che non è corso d'acqua da risalire
alla sorgente, ma è corso d'acqua che, appunto, scorre, quel fiume
sommerso di cui ho parlato sopra.
L'incesto è uno dei luoghi deputati del tabù. E tale diventa a
posteriori, quando non ci si accontenti di indicarne la presenza, ma li
voglia sottoporlo a biopsia. Molti sono i luoghi deputati in cui il tabù,
il senza tempo, il senza spazio, si manifesta, si evidenzia, multiforme
Proteo senza un'unica faccia. Sono, per esempio, la morte, l'agonia, lo
spargimento di sangue, la guerra, il sacrificio, l'erotismo perché in esso,
con esso, ci si “perde”, si smarrisce la propria presunta individualità, e
senza un nome ci si abbandona alla parola dei Corpi, non meno
molteplice di quella verbale, assai più eloquente di quella di scambio.
Tabù è dunque la violenza in ogni sua manifestazione, tabù il grembo
materno, visto come luogo del cruento e lacrimante prorompere, è la
breccia nel muro dentro la quale forse li celano le penne da restituire
alla Fenice: luogo del manifestarsi iniziale della Parola-esserci. E che,
in quanto tale, egregiamente simboleggia il nascere e il perire,
l'apparire e lo scomparire.

«Tabù. Un sistema di proibizioni religiose e socialile più famose e


fondamentali delle istituzioni sociali della Polinesia».
M. Leach, J. Fried et alii, a cura di, Standard Dictionary of Folklore,
NewYork, 1949.

Impossibile, per gli antropologi, non concepire il tabù come


divieto religioso e sociale. Se il sovrano arcaico, e come lui il
“selvaggio”, il “primitivo” — e anche il cosiddetto “pervertito” —
praticano e recitano l'incesto, è, nel caso del primo, perché è immune
dalle punizioni che il “sacro”, il sito dell'introvabile origine, comporta
per chi ne sfiora i confini, per chi lo aufhebt, per dirla con Hegel. Nel
secondo caso, perché comunque il tabù è per essere superato, sbarra di
confine che torna ad abbattersi appena si sia compiuto il rite depassage.
Il tabù, il sentimento del nascere-perire, cioè dell'indescrivibile
sgorgare e sprofondare della parola — quello che dai greci era
denominato il Phanes, l'Apparso — viene facilmente tramutato, da
assenza, in presenza, gli si fa assumere forma di legge, lo si esprime
come proibizione o divieto. Va detto ancora che il tabù ha ovunque un
interprete, ed è il mito, e sono la Sibilla e il suo portavoce.
Il mito è l'altra faccia di un'unica medaglia. Dal punto di vista
etimologico, il mito è, sì, racconto, mythos greco, ma il termine deriva,
a quanto pare, da una radice indoeuropea, mn, donde memoria,
mnemonico, mind inglese, e via dicendo. Il mito-racconto commenta
di continuo la continua aurora del tabù, ne decreta il tramonto e ne
preannuncia il risorgere. E descrive o rievoca di preferenza le
conseguenze dell'incesto, della guerra, la nascita (l'apparizione,
l'Epifania), le avventure del pene e della vulva, il viaggio, il
repentaglio. E per questo che tanto spesso assume la forma del mito
solare - ma perché tenta di dar voce all'inesprimibile, all'indecidibile, e
predilige pertanto quei simboli esteriori che più immediatamente
corrispondono alla ruota degli esseri-parole vorticante dentro di noi.
Al posto del mito-tabù con il Neolitico è intervenuta la prescrizione,
il divieto, in altre parole la legge. Ogni legge si scriveva e si scrive,
dapprima nella specie di semplici simboli, su lastre di pietra, su papiri,
su tavolette di legno, cera, argilla, in libri, su fogli e schermi, allo scopo
sempre di farne un oggetto fisico.
Lo stanziale del Neolitico si suppose parlante e relegò in una
duplice dimensione la Parola-parlato: un mondo estraneo, paradisiaco
o ctonico, di dèi e demoni dotati di volontà propria e identificabili
appunto con la Parola; e un mondo terreno ma non utilitaristico, quello
in cui in processo di tempo i post neolitici avrebbero confinato i
cosiddetti artisti.
Il processo di stanziamento comportò l'invenzione del villaggio
e della città, e soprattutto il passaggio dal modulo circolare (ciclicità
dei ritmi naturali, forma delle capanne, visione complessiva del mondo
e dei suoi fenomeni) al modulo, oggi onnidominante, della “quadratità”
che, va detto subito, non fu dettato da ragioni di praticità e comodità,
ma fu inevitabile frutto di una diversa visione del reale.
Gli svantaggi, a breve, a medio e a lungo termine, del passaggio
dal Paleolitico alla rivoluzione neolitica. In primo luogo, l'istituzione
della sfera della ratio, ritenuta lo strumento principe dell'affermazione
nel mondo, e della sfera ben delimitata — cittadella murata - del
rimosso, dell'inconscio, dell'Es o come si voglia chiamarlo.
Il mondo fu “civilizzato” e rimodellato dall'attività e dallo sfrut-
tamento umani, al punto che oggi nulla più somiglia a ciò che dovette
essere un tempo la natura extraumana. Cosa questa che comportò la
distruzione sempre più rapida delle foreste, delle savane, delle praterie,
persino dei deserti e dei mari, per permettere l’instaurazione di campi,
vie, fabbriche, centri abitati, apertura delle risorse idriche al sistematico
sfruttamento ittico, eccetera.
Stanziamento, agricoltura, allevamento, industria e produzione
sistematica, vale a dire frammentazione del reale in un'infinità di
Oggetti utilizzabili e contemporanea urbanizzazione, hanno promosso
la moltiplicazione degli esseri umani. Se alla fine del Paleolitico su
tutta la terra si contavano forse 200.000 esseri umani, Oggi sono più di
sei miliardi in rapido avvicinamento ai dieci e forse più, a quello che è
generalmente considerato l'estremo limite sopportabile dalle risorse
terrestri.
L'agricoltore e l'allevatore hanno dovuto conquistare il mondo
anziché accontentarsi di ciò che veniva loro dato, e praticarono non
Soltanto la domesticazione, e dunque sottomissione degli animali, ma
anche la schiavitù. Avevano e hanno necessariamente una visione
gerarchica non solo della società, ma anche degli dèi e degli spiriti.
Erano e sono dediti a sacrifici, sia cruenti, sia simbolici (messa della
religione cristiana), non di rado umani, anche se per lo più animali
(ancora oggi, nei templi della dea Kalì in India). Agricoltori e allevatori
devono infatti “pagare" il loro stesso esistere agli dèi ai quali si
considerano sottomessi, partendo dal presupposto che dall'aldilà
vengono vita e morte, buoni raccolti o carestie, pioggia abbondante o
siccità... Anzi, si presume che nell'aldilà si nasca, nel- l'aldiqua si viva
e nell'aldilà si muoia.
All'inizio, l'agricoltore ha concepito ancora il tempo come ciclico
(eterno ritorno delle stagioni: non aveva una precisa visione “storica”,
di destinazione e di causalità), organizzando comunque le sue attività
in base a un rigoroso calendario. La fertilità della terra gli appariva
simbolicamente solidale con quella della donna; la donna fu
considerata responsabile dell'abbondanza dei raccolti, poiché
“conosceva” il “mistero” della creazione in quanto capace di partorire,
e dunque di dare insieme vita e morte (il nuovo nato è destinato
comunque al decesso) e il nutrimento (latte, attività domestiche: la
donna prepara da mangiare, custodisce la dispensa). Se in un primo
momento si credette che la terra si ingravidasse da sola, per
partenogenesi, con l'invenzione dell'aratro il lavoro agricolo venne
assimilato all'atto sessuale, e dunque alla fecondazione della terra a
opera di agenti esterni.
Il mistero della terra partenogenetica è però restato a lungo, come
residuo, nelle società agricole: si conoscono, in tutte le religioni,
decine, centinaia di madri vergini che vengono ingravidate da spiriti,
angeli, dei, senza intervento umano (in Grecia, Era concepisce da sola
e dà alla luce Efesto e Ares). Suppostamente nato dalla terra, l'uomo
morendo tornava alla madre. Sul ritmo delle stagioni, si costruì poi il
ritmo dell'eterno ritorno, della continua rigenerazione del mondo dopo
una catastrofe (morte sotto forma di diluvio, di apocalisse eccetera); il
mondo rinascente era considerato
migliore del precedente, la cui rovina era stata generalmente causata
da errori o peccati, commessi dagli uomini o dalle loro proiezioni
celesti o sotterranee, dèi superni o inferi.
Nel Neolitico, trionfò il diritto del più forte. Cessò l'uguaglianza
delle società “selvagge”, in cui uomini e donne avevano e hanno uguali
diritti; la società divenne maschilista, fallocratica. Ancora, mentre tra i
cacciatori le ossa erano considerate il ricettacolo della vita, da quando,
nel Neolitico, per gli agricoltori la terra assunse importanza
fondamentale (da essa dipendeva la vita della società), furono le “ossa
della terra” a essere considerate l'elemento stabile, eterno,
indistruttibile. Le ossa della terra erano le rocce, i massi, e soprattutto
le loro repliche erette dall'uomo: i dolmen, i menhir, i betili, i cromlech
e, a mano a mano che l'organizzazione sociale i diveniva più complessa
e che le tecniche si perfezionavano, le cosiddette costruzioni
megalitiche.
È diffusa la convinzione che il passaggio dalla vita itinerante
(caccia e raccolta) allo stanziamento abbia comportato un progresso.
Rifugiati in vari angoli del globo, ancora oggi sussistono gruppi isolati
e minacciati che vivono secondo il ritmo delle stagioni, in I una
condizione atemporale rispetto alla cronologia misurata dagli Orologi.
Vivevano e vivono meglio o peggio degli stanziali? I cacciatori hanno
opposto ferma resistenza ai tentativi, ripetuti costantemente nei
millenni dagli agricoltori, di “civilizzarli” o di sopprimerli fisicamente
o almeno cancellare la loro cultura. Questi gruppi si rifiutavano e si
rifiutano di cambiare il proprio sistema di vita, e le ragioni ne sono
evidenti: l'attività venatoria e la raccolta assicuravamo tutto il cibo
(animali terrestri e marini, frutti e radici) di cui avevano bisogno,
consentendo loro di vivere in modo ideale in piedi gruppi uniti da
intimi rapporti. Il cacciatore era ed è libero dal [io della routine, e le
sue attività quotidiane sono eccitanti. Va a leda solo quando ha bisogno
di cibo: e perché sgobbare nei campi pei ricavarne messi, quando le
donne possono estrarre dal terreno ignami e altri rizomi?
L'agricoltura ha comportato nuovi rapporti umani che hanno
alterato f antichissimo equilibrio tra uomo e natura e tra i membri dei
gruppi. Non si può certo parlare di un'insufficienza di capacità
intellettuali che avrebbe impedito ai cacciatori di far proprio quello che
ben merita il nome di “nuovo mito”. Né si può proporre l'immagine del
buon selvaggio, puro e innocente. Anche tra i cacciatori avevano e
hanno corso la violenza e la crudeltà, anche la loro esistenza è lungi
dall'essere paradisiaca. D'altra parte, com’è comprovato dalle
testimonianze pittoriche e plastiche che hanno lasciato, i paleolitici,
itineranti, non-agricoltori, avevano e hanno capacità espressive e, più
genericamente intellettuali, non inferiori alle nostre. Conclusioni?
Difficile trarne. A mio giudizio, tuttavia, il Neolitico di cui siamo gli
eredi ha comportato un'enorme, irrimediabile perdita del bene più
prezioso per l'essere umano: la piena disponibilità delle proprie
capacità, insomma una cospicua diminuzione della libertà. L'umanità
post neolitica ha costruito opere immani, ma ha migliorato davvero la
propria condizione esistenziale? Ha acquisito dimensioni morali,
creative, espressive, che giustifichino la terribile dipendenza dalla
tecnologia che devasta il mondo e minaccia la sua stessa
sopravvivenza?
È inutile chiedersi se, dal punto di vista materiale, fosse meglio la
vita dei cacciatori paleolitici rispetto all'odierna esistenza urbanizzata.
Importa piuttosto dire che la mutazione verificatasi nel Neolitico non
riguardò soltanto la produzione di sussistenza e le conseguenti
trasformazioni e antropizzazioni dell'ambiente, ma coinvolse tutte le
manifestazioni della vita umana, dalle materiali alle simboliche.
E molto difficile stabilire in quale sequenza si siano verificate le
relative manifestazioni: difficoltà resa maggiore, e forse insuperabile,
dal fatto che la neolitizzazione delle varie regioni del mondo ha avuto
luogo in maniera assai complessa e discontinua. Se infatti si ebbero
dapprima cambiamenti decisivi localizzati in alcuni, limitati centri di
irradiazione, in seguito si verificarono acquisizioni simili in zone anche
molto lontane dai focolai promotori.
Il Neolitico fu, in sintesi, l'introduzione, in parte spontaneamente
accettata, in parte imposta, di una nuova dimensione mitica, e poi la
negazione-superamento di ogni visione mitica in nome della ratio e del
cogito. Tutti gli elementi e i principi provenienti da luoghi spesso
remoti, agricoltura, allevamento, nuovi procedimenti (levigazione
della pietra, ceramica, invenzione della possibilità di servirsi dei
metalli, organizzazione sistematica della produzione eccetera) sono
apparsi ovunque in rispondenza al trionfo di una nuova
Weltanschauung. E ovunque si verificò - si ripetè, modificandosi in
combinazioni con preesistenze culturali e locali e stilemi autonomi - la
rivoluzione simbolica, la transazione dalla Parola- mito alla Parola-
parlante.
Se è possibile seguire il decorso della neolitizzazione secondaria
(cioè dei meccanismi di diffusione delle idee del Neolitico iniziale)
almeno in Europa, non altrettanto si può dire dell'origine della ì
rivoluzione neolitica. Converrà dunque soffermarsi sulle ipotesi
avanzate in merito.
I Mentre il cacciatore si sente parte integrante dell’intorno, e non
Opera una netta distinzione tra sé e la natura, il postneolitico tende a
farsi rigidamente pratico, a rinunciare ai rituali con cui il cacciatore
chiede scusa all'ambiente di cui è parte integrante per averne Ucciso un
componente (così, per esempio, i pigmei depongono foglie e fronde
sugli animali uccisi): non si considera più partecipe del mondo, ma suo
legittimo proprietario e sfruttatore; ha imparato a misurare
meticolosamente il tempo, lo spazio e le cose, a costruire macchine e
ordigni di distruzione di massa; mira alla conquista degli astri e a
bruciare più ossigeno di quanto possa essere sostituito dalla vita
vegetale; e soprattutto, lavora, produce, accumula, prolifica,
desertifica, inquina.
Tra i modelli proposti per spiegare il sorgere del Neolitico, a pre-
dominare in larga misura è quello materialista, la cui forza è legata alla
possibilità che esso offre di formulare domande senza per lo più fornire
risposte. È un modello che può sintetizzarsi nella domanda: che cosa
ha spinto l'uomo a cessare di dipendere dalle alcatorietà della caccia e
della raccolta per affidarsi, ai fini della sopravvivenza, all'agricoltura,
all'allevamento, alla produzione tecnologica?
È implicita, nella domanda precedente, una concezione della
cultura come insieme di mezzi materiali usati per adattarsi all'ambiente.
In altre parole, le mutazioni culturali in generale, e più strettamente
sociali, sarebbero immediatamente connesse alle trasformazioni che
hanno luogo nella natura oltre che, beninteso, ai cambiamenti che si
verificano al livello della nostra biologia e dunque dei nostri bisogni
alimentari. Com'è ovvio, questa spiegazione sottovaluta l'apporto della
cultura umana non materiale (quella non pertinente agli oggetti d'uso,
secondo la definizione dell'antropologia) e in particolare la capacità
inventiva; e fa dell'essere umano e delle sue esplicazioni un mero
effetto di realtà che subisce, sia pure adattandovisi e in parte
plasmandole, attenuandole, deviandole. L'ipotesi può sembrare
giustificata dalla constatazione che circa 20.000 anni fa si verificò un
miglioramento delle condizioni climatiche in tutta l'Europa: a causa del
crescente riscaldamento generale, si verificarono migrazioni di varie
specie di animali verso zone più fredde, con conseguente spostamento
dei cacciatori che inseguivano gli armenti.
L'ipotesi però non risponde a due domande: perché la
trasformazione ebbe luogo solo in una zona limitatissima del nuovo
contesto climatico, precisamente la Mezzaluna Fertile già designata in
precedenza? E ancora: come si spiega che il passaggio da cereali
selvatici a cereali coltivati nella Mezzaluna Fertile, dal Mar Morto
all'Altipiano iranico, abbia avuto luogo successivamente agli
stanziamenti e persino alla fondazione di villaggi, come Gerico e altri?
Gli stanziamenti precedettero infatti le invenzioni delle fonti
alimentari, vegetali e animali, destinate ad assicurare la sopravvivenza.
Villaggi di cacciatori-raccoglitori sono comprovatamente sorti
nella valle del Giordano almeno 2000 anni prima di ogni forma di
agricoltura e di allevamento. Un villaggio di cacciatori-raccoglitori è
stato individuato nel 1955 a Mahalla appunto nella valle del Giordano;
i suoi abitanti non erano dediti all'agricoltura e non praticavano nessuna
forma di allevamento. D'altra parte, è assai probabile che gruppi di
itineranti si stanziassero, almeno provvisoriamente, all'imboccatura di
grotte e in ripari sotto-roccia, e sono stati infatti rinvenute tracce di
opere di sistemazione di questi ricoveri, come muretti di protezione
all'ingresso delle grotte oppure rozze forme di lastricatura o l'apertura
di sentieri che conducevano alle dimore provvisorie.

La scoperta si deve a Bar Yosef, O. e Valla, F.R., a cura di, The Natufian
Culture in thè Levant, International Monographs..., Archaeological Series, 1,
Ann Arbor 1991.

La conclusione inevitabile è che quella che è stata giustamente


definita rivoluzione dei simboli ha preceduto l'inizio dell'economia
agricola, e ancora che le trasformazioni culturali non rientrano nelle
cosiddette sovrastrutture derivanti dai mutamenti economici, come
vorrebbe invece la ben nota vulgata marxista. L'idea dello stanziamento
è insomma sorta e si è imposta prima che lo stanziamento si
accompagnasse alle altre manifestazioni dianzi indicate, le quali
pertanto non si inscriverebbero in un rapporto di causa-effetto. Se ne
deve in generale concludere che i raggruppamenti in questione non
furono conseguenza dell'economia di produzione, ma precedettero
considerazioni di ordine razionale. La produzione agricola e Tal-
levamento furono in altri termini l'esito di una rivoluzione dei simboli,
di un'invenzione delle nuove modalità di produzione e sopravvivenza.
La Parola dunque disse il mondo, gli uomini furono parlati, e solo una
volta compiuta la nuova scelta, ratificata la loro stessa invenzione,
cambiarono sé stessi, divennero cioè parlanti e iniziarono la
trasformazione del mondo in termini neolitizzanti.
Invenzione del quadrato. Una delle manifestazioni di maggiore
evidenza del Neolitico è l'imporsi di forme geometriche applicate
all'abitazione che non avevano precedenti, e quindi sono da ritenere
invenzioni vere e proprie. L'abitazione venne considerata imago
mundi: del neomondo, il mondo concepito dal Neolitico. Le forme
geometriche sono ordine, sono sintassi, sono grammatica, e rispondono
all'ordine cosmologico, quello attribuito ai fenomeni celesti e
atmosferici, ai quali con ogni probabilità i paleolitici dovevano essere
piuttosto indifferenti; le forme geometriche prevalsero nelle tecniche
dell'agricoltura come nelle disposizioni dei coltivi e nelle recinzioni
destinate a tenere gli animali domesticati nei pressi della dimora.
Quanto all'abitazione e alla sua moltiplicazione, villaggio e città, i
costruttori obbedirono, e tuttora obbediscono, a un preciso vocabolario
simbolico, quello della “quadratità”, cioè spigoli, strutture rettangolari,
forme che comunque si sottraggono al predominio della sfericità e del
cerchio, le forme che si impongono spontaneamente nella tana, nella
cavità naturale, grotta o capanna che sia. La “cerchialità” designa
infatti ciò che trascende l'uomo e resta al di là della sua portata (sole,
luna, totalità cosmica, divinità, sacrum). Nel Neolitico prevalse, come
si dirà più avanti, una sorta di rifiuto della sottomissione al destino, una
hybris che si tradusse in nuove concezioni cosmologiche e
nell'affermazione del dominio dell'uomo sul mondo. La curvilinearità
ha correlazione immediata con la proliferazione, con la maternità, con
la placenta, con le cavità del corpo della donna. La rettilinearità, ha
correlazione con la virilità, con il phallus.
Parlando specificamente di religioni, vedremo come la donna sia
stata correlata direttamente alla morte; se i paleolitici a volte davano
sepoltura ai cadaveri, non di rado accompagnandoli con conchiglie e
altri ornamenti e coprendoli a volte con cumuli di pietre, a
contrassegnare il sito dell'inumazione, ciò non significa però che
immaginassero una vita dell'aldilà, e ancora oggi non mancano
popolazioni “primitive”, come i nomadi Masai viventi tra Kenya e
Tanzania, che riservano la copertura di cumuli di pietra a salme di
uomini particolarmente degni di nota e dunque di essere designati con
memoriali, mentre gli altri defunti vengono gettati nella savana a
nutrire gli animali saprofaghi. I neolitici invece istituirono regolari culti
della morte; sono note così le tombe in foggia di vulve: serie di pietre
che convergono, in guisa di simboliche gambe, verso un'apertura,
scavata per esempio sul declivio di una collina e che ha palesemente la
forma di un'apertura vaginale. Un'altra invenzione neolitica è il
dolmen, sepolcreto consistente di cavità fatte di lastre di pietra verticali
sovrastate da una o più lastre orizzontali; sulla superficie delle pareti
interne compaiono assai spesso incisioni che sono simboli femminili
(seni, vulve schematiche, gli occhi della “dea degli occhi” di cui
parleremo a proposito di religione).
Tombe “a cortile” (Neolitico irlandese: Ballyglass, Contea di Mayo;
Creevykell, Sligo, tra V e VI millennio a.C.), “a corpo di madre” (Sardegna,
San Andrea Priu, Bonova, 4000 a.C.), “a lungo tumulo” (Lepenski Vir, nei
pressi di Belgrado, 6000 a. C. circa), eccetera.
Mentre le forme irregolari e quelle sferiche sono frequentissime in
natura, la pietra cubica o rettangolare è tale soltanto se la si lavora.
Quadrato, rettangolo, forme cuspidali, blocchi squadrati sono frutto di
imposizione della ragione umana alla natura informe. Il quadrato, il
rettangolo, lo spigolo designano pertanto il frutto del lavoro, la
realizzazione, Xopus. Come si è già detto, la curva è femminile, il
diritto e l'angoloso sono maschili, evidente riflesso della virilizzazione
del mondo. Ne consegue che la tana o la capanna consistente in uno
scavo nel terreno coperto da ramaglie o pelli, oppure semplicemente
frutto di un accumulo di vegetali, agli occhi dei neolitici dovevano
apparire atteggiamenti primitivi, espressione di un legame immediato,
ormai ritenuto sorpassato, con la natura.
La forma circolare cessò di rispondere alla funzione simbolica
dell'abitare ormai divenuta tutt'uno con il dominio del mondo. Al
bisogno basilare, quello di avere un riparo, quello che abbiamo definito
nuovo mito neolitico rispose imponendo una forma nuova, artificiale,
frutto di concettualizzazione. E se in un primo momento gli stanziali si
accontentarono di addossare una struttura di pietre o legno alle pareti
preesistenti del ricovero scavato nella terra, successivamente la
copertura venne estesa a rivestire e celare l'intera cavità.
Per la prima volta al mondo, l'architettura delle forme rettangolari
comparve nel periodo detto Mureybetiano del “nucleo levantino”, cioè
la zona dell'Eufrate, verso il 9000 a.C. L'uomo ormai sedentario aveva
abbandonato la cavità dei primordi e la rotondità materna dei suoi
antichi ricoveri, affermando al loro posto la coscienza della propria
capacità di dominio del mondo, in rispondenza a una simbologia
decisamente virilizzante.
Durante il Neolitico, a partire da circa 5000 anni fa per l'Europa e
in altre regioni del mondo tra loro coerenti e comunicanti, emersero
edifici di tipo megalitico (Spagna, Bretagna, Gran Bretagna, Irlanda,
Sardegna, Corsica, Portogallo, Italia peninsulare, Nordafrica, Caucaso,
India) quali i dolmen, i menhir, i cromlech, gli allineamenti (tipici
quelli di Carnac in Bretagna) e altre costruzioni litiche elementari che
non esauriscono, riducendolo alla sola dimensione architettonica o
plastica, il significato del fenomeno. E giocoforza porsi in una
prospettiva più radicale dell'analisi storico descrittiva, facendo ricorso
ai parametri essenziali ed esistenziali del pensiero arcaico. Termine che
va inteso nell'accezione di arché, forma primigenia, quello che
costituisce l'ambito neomitico, cioè neolitico, dell'eterno ritorno.
Per i gruppi di cacciatori, l'osso simboleggiava e tuttora
simboleggia l'essenza della vita e insieme il legame più evidente con
l'animalità, unico tangibile elemento, provvisoriamente stabile, che
riveli la Carne. L'animale è in un certo senso oggetto di invidia in
quanto è la “verità”, cioè non muore perché non ha coscienza della
morte e, in epoca postpaleolitica, nel Neolitico, è l'iniziale veicolo
verso la sacralità, intermediario con l'informe.
L'immediatezza del rapporto privilegiato che il cacciatore
istituisce con la bestia, si traduce, nelle società stanziali del Neolitico,
nell'immediatezza della pietra. La cratofania litica, la manifestazione
di forza del masso con la sua durezza, permanenza, scabrosità,
sostituisce la partecipazione all'essere tramite gli ossami. Non è che si
cessi di onorare lo scheletro (anzi, le pratiche funerarie diventano
sempre più numerose ed estensive), ma è con la terra, sorgente di vita
(agricoltura, pastorizia, cicli stagionali), che si istituisce il rapporto
privilegiato, tuttavia dominandola e pagandole il prezzo, per l'abuso
che se ne fa, con sacrifici di animali per lo più domesticati (già domati),
e non di rado di esseri umani.
La pietra si impone con la sua inerzia, le sue proporzioni, la sua
estraneità all'umano. Ma le si impone il dominio umano: la si svelle,
cioè la si toglie all'informe; la si drizza, cioè si partecipa dell'informe e
insieme lo si domina; la si contempla e adora, cioè si scopre la sua
qualità di appartenenza all'alterità; la si lavora, cioè se ne riconosce il
significato di simbolo del divenire terrestre e umano; la si integra in
complessi, cioè si scopre quel qualcos'altro che la pietra incorpora ed
esprime come elemento, come fonte della forma, come struttura
elementare, come luogo dell'architettura, esempio dell'edificio cosmico
a somiglianza del quale si membra il villaggio e cresce l'edificio
terreno. In questa prospettiva, la pietra appare organica non meno
dell'ossame; il villaggio si struttura come corpo, o meglio come
scheletro, e i suoi limiti e i suoi centri sono stabiliti da luoghi di pietra
(mura, nuraghe, poi fortezza, palazzo...), oggetti sacri che incorporano
e rivelano l'aldilà con la forma, con la forza, con l'imponenza, con la
duttilità e con la durezza: un aldilà dal quale si ottiene il “permesso” di
imporre alla pietra l'umana superiorità.
La pietra protegge contro il mondo esterno, predoni e animali, ma
soprattutto contro la morte, in pari tempo richiamando all'inevitabile
caduta nell'indifferenziato; simbolo di incorruttibilità, e dunque anche
scongiuro. Le pietre funerarie divengono case della morte, ospitano gli
spiriti degli antenati in esse “pietrificati”, tengono lontani gli spiriti
estranei, esercitano influssi benefici o malefici sui campi e i pascoli,
sulla fertilità animale e umana (pietre fertilizzanti dell'Armenia; cippi
di guardia ai campi: Giano era all'origine un cippo, un betilo, un
menhir, informe e insieme itifallico, espressione di dominio virile).
La pietra, la roccia, il dolmen, la stele-divinità e ogni altra
espressione litica si affermano dunque come ierofanie, rivelatrici di
un'empatia con l'irraggiungibile Essere. Si noti che la pietra è sempre
reimpiegata dal Neolitico, è realtà appartenente alla montagna e
pertanto sempre elemento della struttura del cosmo. Pietre sacre sono
per il Neolitico già quelle conformazioni naturali che rivelano assetti
spaziali di eccezione, in quanto trasfigurano, esprimono, significano
con straordinaria pregnanza. Rifare la dimensione tellurica è la norma
dei costruttori megalitici: i templi- montagna (Messico, Perù, Egitto,
eccetera), la fortezza-collina (la Saxahuamàn di Cuzco), la roccia intera
inserita, previo sbozzamento, nel colosso architettonico (tempio della
valle della piramide di Cheops in Egitto), le imponenti terrazze agricole
incaiche, insieme luogo di difesa e monumento.
Di grande momento è la differenza delle strutture artificiali
neolitiche con la non-architettura dei gruppi venatori, con le grotte del
Paleolitico e i loro spettacolosi affreschi. Mentre queste rispondono a
un principio paratattico, l’edificio neolitico, pur rispondendo tuttora
alla tendenza a cogliere la spontaneità e immediatezza del materiale
lapideo, tende però a inserirlo in una razionalità geometrica, quella
della vittoria sull'informe.
Per quanto la terra sia pur sempre equiparata a un ventre materno
da cui nascono gli uomini, il ricorso alla pietra contiene un elemento di
artificialità: la montagna è riprodotta, la grotta rifatta (dolmen, alice
couverte eccetera). La pietra è sempre lavorata, è sfidata, e in pari
tempo onorata e ornata, a sottolinearne, sì, la dignità e la forza, ma tanto
più la vittoria riportata dall'uomo sulla sua possanza. La pietra del
Neolitico è domata, è l'equivalente liteo dell'agricoltura e
dell'allevamento degli animali.
Un progresso. Vero o presunto? Il criterio determinante della
neolitizzazione sarebbe, secondo Gordon Childe, la produzione di
sussistenza che, continuando ad aumentare e a sostituirsi alla non-
produzione, avrebbe enormemente accresciuto la potenza dell'umanità,
culminante nei risultati della nostra modernità.
Si sarebbe cioè verificato un continuo progresso, dovuto essen-
zialmente alla convinzione che l'aumento della produttività fosse e sia
tuttora destinato a migliorare le condizioni di vita, aprendo la porta a
ulteriori avanzamenti. Si tratterebbe dunque di un processo
unidirezionale, una Freccia temporale rettilinea.
1 preistoriologi sono in larga misura portati a ricondurre le ragioni
del “progresso” (cioè, ripetiamo, la concezione della temporalità
rettilinea, preceduta dall'invenzione di tempo e spazio) a
interpretazioni biologistiche. Non potendo d'altra parte negare
l'incidenza di cambiamenti d'ordine simbolico, molti autori, soprattutto
di scuola inglese e americana, hanno tentato di attribuire lo
stanziamento a una tendenza insita nell'uomo, l'innato rifiuto del
“selvatico” e dell’imprevedibilità a favore appunto della domesticità:
il desiderio di intimità, di horne, di focolare domestico. 11 controllo
della flora e della fauna sarebbe da interpretare, in questa luce, come
un ampliamento della casa, una sua proiezione all'esterno.
Hodder, 1., 7he Domestication in Europe, Londra, 1990;
Watkins, T., The origins of House and Home, in World Archaeology, n. 21/3.

L'aspirazione all'intimità della home andrebbe vista quale un


movimento di ritiro, una reclusione dalla quale si uscirebbe soltanto
perché costretti da eventi esterni, catastrofi naturali, alterazioni
climatiche, epidemie, guerre, invasioni... Soprattutto queste due ultime
rispondono però a istanze espansionistiche, a manifestazioni di
estroversione, non certo di riduzione spazio-temporale.
Bisogna dunque supporre l'intervento di atteggiamenti nuovi e
diversi, gli unici capaci di spiegare la dilatazione, non di rado violenta,
degli stanziamenti locali e di loro aggregati. Non sono infatti rilevabili
tracce documentarie di aumenti delle tensioni sociali all'interno degli
stanziamenti iniziali, tali da avere indotto una parte delle società
(ripetiamo: non più gruppi) a cercare fortuna altrove. Né d'altra parte
nel Neolitico sembra si siano verificate penurie o carestie tali da
causare scissioni di vasto momento delle popolazioni locali.
Le riprove ne sono fornite dai cosiddetti kidkkenmdddigen,
termine di origine olandese con cui vengono designati gli accumuli, le
discariche soprattutto di avanzi alimentari, reperibili presso molti se
non tutti gli stanziamenti neolitici. La diffusione di piante alimentari
domesticate è continuata in misura via via crescente per migliaia d
anni; un po' alla volta le colture si sono estese e moltiplicate coprendo,
ben al di là delle zone di origine dell'agricoltura, cioè la Mezzaluna
Fertile, altre zone vicine e via via sempre più lontane, prima nel Vicino
Oriente, poi nel Sinai, nel Sahara settentrionale, in tutta la
Mesopotamia, quindi in zone dell'Europa a partire dal sud per risalire
fino agli estremi limiti del continente, e ancora in Asia e nelle
Americhe (trasmissione per “racconti”, per “sentito dire”, o
trasmigrazioni per lo Stretto di Bering, un tempo coperto da terre?).
La trasformazione avviata dal Neolitico fu di enorme entità. Non
si trattò solo di aggiungere nuovi elementi a quelli preesistenti:
l'invenzione dell'agricoltura si accompagnò, con ogni evidenza, non
solo alla costruzione di villaggi, ma anche e soprattutto
all'assegnazione di coltivi, all'introduzione di nuovi strumentari e
nuove tecnologie; vennero costituiti depositi e ricoveri — granai,
fienili, stalle — prima inesistenti.
Soprattutto si verificò, non già una mutazione religiosa, cosa che
presupporrebbe la preesistenza di manifestazioni di culto del sacrum
già in epoca paleolitica, bensì l'invenzione della divinità. L'ipotesi di
una presunta religiosità del Paleolitico appare assai poco convincente
— non sono immaginabili culti che non rispondano a ordini e a
strutture sintattiche, in pieno contrasto dunque con le figurazioni
parietali, che come si è detto sono sempre paratattiche. E tuttavia
possibile proporre, per esse, una visione ispiratrice mitica, di racconto
per episodi svolgendosi lungo tutta la grotta, suddivisi in zone come
altrettanti capitoli: vicende di “personaggi” che possono essere
mammut, uro, cacciatori, quelli che possono essere interpretati come
sciamani, cioè persone capaci di immedesimarsi con gli animali.
Il Neolitico fu un nuovo modo di concepire il rapporto dell'uomo
con il mondo, con la vita e con la morte. Se, come si è detto, nel
Paleolitico a volte particolari defunti erano considerati degni di essere
ricordati, è però impossibile parlare di culto dei morti, di obbedienza a
pratiche e costumanze rigorose e cogenti, queste sì legate a una visione
religiosa, all'invenzione di una sfera superiore, inattingibile all'uomo o
con cui si potessero stabilire contatti di tipo particolare, mediante
particolari culti, con preghiere e con l'istituzione di intere categorie di
persone incaricate di mettersi in contatto con divinità e spiriti.
La diffusione neolitica non fu l'improvvisa risposta a nuove
necessità, a stati di crisi, a contingenze favorevoli, ma fu un fenomeno
che si tradusse in un'inconciliabile contraddizione con i modi di vivere
del Paleolitico, anzi fatti oggetti di esclusione, persecuzione, aperta
condanna, in primo luogo quella dell'itineranza con tutto ciò che essa
comportava.
Neolitico: una dieta diversa. Mentre i paleolitici avevano a
disposizione enormi riserve di “carne itinerante” (le mandrie in
continuo spostamento), di esemplari della fauna ittica (pesci,
mammiferi acquatici, molluschi...), di alghe e di piante selvatiche
(frutti, ignami, rizomi d'ogni genere...) i neolitici passarono a
un'alimentazione in cui prevalevano i cereali e altre piante eduli,
mentre le riserve di carne e di prodotti ittici erano regolamentate dalle
norme di distribuzione e assegnazione locali. Sotto il profilo
quantitativo, l'alimentazione neolitica certamente non subì diminuzioni
rispetto alla paleolitica, ed è anzi probabile che la disponibilità di cibo
in generale sia aumentata, grazie anche e forse soprattutto
all'invenzione della ceramica, e quindi all'introduzione di recipienti per
la conservazione delle cibarie.
Si ebbe però un cospicuo cambiamento qualitativo, e lo
dimostrano i resti ossei degli agricoltori, allevatori, pastori, edificatori,
guerrieri neolitici. Da un'alimentazione nel Paleolitico basata in larga
misura su lonti di proteine animali e vegetali, queste ricavate da piante
e rizomi spontanei, si passò a un maggior consumo di vegetali coltivati,
certamente più ricchi di proteine di quelli selvatici ma usati in larga
misura anche, e soprattutto, a vicariare la minor disponibilità di
proteine animali.
La suddivisione dei territori in spazi di proprietà di singoli o di
comunità e la sempre più frequente permanenza in centri abitativi
impedivano od ostacolavano in larga misura l'accesso ad altre fonti, ed
è probabile che le percentuali di animali ancora oggetto di caccia
fossero controllate e sottoposte a regolamentazioni di accesso e
usufrutto. Lo stesso evidentemente valeva per fiumi, laghi, torrenti,
spiagge marine. La ricerca degli alimenti divenne pertanto un'industria
rispondente a precisi ordinamenti gerarchici. Basti pensare allo
sfruttamento degli animali domestici: la proprietà di greggi e armenti
anch'essi residenziali, cioè tenuti allo stato brado o in recinti, nei pressi
dei villaggi, limitava drasticamente il prelievo di capi e soprattutto
impediva che venissero uccisi come bestie oggetto di caccia.
Facile supporre che si siano imposti nuovi atteggiamenti nei
confronti di oggetti, animali, dimore, campi, boschi, acque, e in primo
luogo una possessività sempre più esasperata, simultaneamente alla
divisione via via più netta tra abbienti e non abbienti, tra ricchi
(possessori di mandrie, greggi, coltivi) e poveri: due categorie che è
impossibile reperire ancora oggi tra i residui gruppi “primitivi”. Non
esistono Pigmei ricchi e Pigmei poveri, dal momento che non ci sono
zone di foresta, corsi d'acqua, pascoli di animali selvatici, zone
prevalentemente battute da predatori che siano rivendicati da questo o
quel gruppo, del resto poco più che singole famiglie.
Le conseguenze a livello somatico furono notevoli. Come risulta
dalla documentazione ossea, per esempio dal confronto con i resti
paleolitici del sito di Logerie Basse in Dordogna, la struttura scheletrica
degli stanziali è più piccola, e sono frequenti le lesioni ossee frutto di
lavoro: l'agricoltore deve spesso mettersi in ginocchio e deve
frequentemente restare curvo per seminare o raccogliere, donde lesioni
articolari e deformazioni degli arti e della spina dorsale. Anche la
muscolatura evidentemente si ridusse, tant'è che le inserzioni dei
tendini alle ossa appaiono di dimensioni assai minori. Si ricordi che il
cacciatore era in continuo movimento, e ancora oggi è ben diversa la
forza e la robustezza di un pigmeo o di un inuit rispetto ai suoi
contemporanei stanziali, sebbene questi siano per lo più di statura
maggiore.
Va sfatata la leggenda che i cacciatori-raccoglitori vivessero e
vivano meno a lungo dei loro contemporanei stanziali: gli scheletri di
paleolitici rinvenuti qua e là appartenevano molto spesso ad adulti, non
di rado ultraottantenni, e con minore frequenza a bambini o
adolescenti.
Nel Neolitico si verificò una trasformazione a livello psichico,
anche se è pensabile che molte innovazioni del Neolitico siano state
frutto del caso anziché di volontaria programmazione. Per riprendere
quanto si è detto prima a proposito della Parola divenuta parlata, non è
da escludere che qualcuno ne abbia tentato un po' per gioco un
rovesciamento, quasi a scoprire cos'era che reggeva la Parola stessa, in
rispondenza a una visione neolitica generale consistente nel tentativo
di risalire alle origini. La Parola, che aveva inventato l'agricoltura, cioè
la sottrazione alla natura di una porzione del suolo, minima all'inizio
ma comunque inevitabilmente ordinata, strutturata, comportava una
frammentazione, il che equivale a dire: riduzione del pezzo di terra a
un insieme di oggetti.
Sovvertire la Parola può darsi che abbia significato, se si vuole
tentare una sorta di anamnesi della preistoria, la presunta rivelazione a
sé stessa quale insieme di oggetti, di singoli suoni, come alcunché di
composito, contenente un inizio, una parte mediana e una conclusione.
La Parola sarebbe stata dunque grammaticalizzata, e la fine che
conteneva in sé può darsi sia apparsa proveniente dall'esterno della
Parola stessa. (Ma è una pura ipotesi, e già formulandola mi rendo
conto della sua labilità.)
Sembrerebbe che la morte quale spegnersi della Parola nel
Neolitico sia stata comunque considerata di provenienza esterna,
esattamente come l'attacco di animali selvatici alla parcella di suolo
sottratta alla sylva, come l'invasione di cinghiali, di uccelli, di insetti.
E non può darsi che la trasformazione della Parola in parlata sia
consistita nella sua interpretazione come alcunché di composito? Non
più considerata intatta, unitaria, insondabile, semplicemente presente,
comparsa, Phanes, tale per cui il suo spegnersi era implicito, endogeno,
fu forse immaginata soggetta all'azione disgregatrice di forze esterne?
E se così si spiegasse per esempio la costruzione di mura di difesa
attorno a villaggi in zone in cui non esistevano altre società capaci di
muovere guerra, come nel caso della cultura di Kirokitia a Cipro?
Parola-villaggio minacciata da parole fantasmatiche?

Non vi fate sedurre: / non esiste ritorno. / Il giorno sta alle porte, / già è
vento di notte. / Altro mattino non verrà. /
Non vi lasciate illudere / che è poco, la vita. / Bevetela a gran sorsi, / non vi
sarà bastata / quando dovrete perderla.
/ Non vi date conforto: / vi resta poco tempo. / Chi è disfatto, marcisca. / La
vita è più grande: / nulla sarà più vostro. J Non vi fate sedurre / da
schiavitù e da piaghe: / che cosa vi può ancora spaventarci / Morite con
tutte le bestie e non ce niente, dopo.
Bertolt Brecht, Contro la seduzione, in Libro
di devozioni domestiche (1927).

L'isola di Cipro dista dalla costa meridionale della Turchia circa


cento chilometri. 10.000 o 12.000 anni fa un gruppo umano si insediò
in una terra in mezzo al mare che ospitava punti o pochi altri esseri
umani e in cui non si trovavano animali feroci. Pure, i fondatori del sito
di Kirokitia eressero capanne a pianta circolare, isolate dal mondo
esterno da un robusto muro di difesa rettilineo. Ma difesa da che cosa?
1 kirokitiani avevano portato con sé dalla terraferma asiatica di
provenienza alcuni animali già domesticati, ovini e bovini, oltre a cani
che, discendenti da lupi, avevano scelto di convivere già con cacciatori
paleolitici. Evidentemente i kirokitiani immaginavano pericoli di
carattere metafisico, provenienti da quella che per i latini sarebbe
divenuta, come si è già detto, la sylva, il mondo extraumano. L'abitato
murato, dunque, come apotrópa-ion, scongiuro contro l'ignoto. Un
atteggiamento mentale che in epoche successive, per esempio in
Grecia, produsse mostri marini (sirene, pistridi, orche), mostri volanti
(arpie), spiriti infernali. In altre parole, i kirokitiani avevano compiuto
quello che a mio parere è il fondamento stesso del Neolitico e di tutta
la società moderna: il tentativo, lo ripeto, di impossessarsi della Parola,
e l'angoscia derivante dall'impossibilità di compiere questo gesto, un
po' alla volta apparso blasfemo. La Parola dal Neolitico è stata
concepita come avente un'origine, e quest'origine era il mondo del
sacrum; e trafficare con la Parola non poteva che essere considerato un
atto di ribellione al divino.
Le religioni permettono, anzi sollecitano, gli stati di abbandono
mistico, di presunta uscita-da-sé (dell'anima). E l'abbandono nella
spe-eie di totale obbedienza (la Kadavergehorsamheit, l'ubbidienza del
cadavere, richiesta dalla tradizione militare prussiana) e una regola
fondamentale di ogni esercito.
In altri contesti, tuttavia, lo stato di ek-stasis, di abbandono, di
ebbrezza, può apparire riprovevole, e oggi viene infatti condannato
nella specie dell'uso di droghe, della follia, della “perversione”, di
tutte quelle “tecniche” che permettono il “contatto”, e le quali troppo
spesso sono scambiate per ciò che conta davvero: così, si discetta sul
suicidio (cause, statistiche, condizionamenti psicologici e ambientali,
eccetera), senza rendersi conto che l'atto violento è un pretesto, un
mezzo, una via la quale conduce al luogo senza rappresentazioni,
senza sensazioni, senza volontà.

«L'inconscio non conosce il tempo e non conosce la morte».


Sigmund Freud IL POTERE E IL SUO DESTINO

Il potere cresce sulla radice della violenza esattamente come


l'albero della religione sul rizoma del mito.
Per capire come possa essersi imposto il potere (non è un gioco di
parole: sarebbe impossibile dirlo in altri termini) non resta che ricorrere
a ipotesi e probabilità. Se è vero che la sostanza di quello che vien detto
progresso è consistita nel rovesciamento e nella scomposizione della
Parola, resterebbe da stabilire perché il potere si sia manifestato in certe
forme anziché in altre. Parlando di invenzione, non si vuole escludere
la possibilità che gli inventori abbiano tratto spunti da osservazioni del
mondo circostante. Può darsi per esempio che la continua vicinanza e
familiarità con animali domesticati sia stata fonte di continue scoperte
e sorprese: i neolitici si sarebbero per esempio avveduti che tra molti
tipi di animali sussistevano precise strutture gerarchiche. Tra i volatili,
per esempio, non di rado vige il cosiddetto “ordine della beccata”, e
molti quadrupedi, oltre a formare comunità simili a organismi
compatti, solidali, seguono un capobranco, maschio o femmina che sia.
Com'è ovvio, affrontando queste problematiche, non solo è
necessario rifarsi a ipotesi spesso non documentabili, ma si deve tener
conto della necessità di servirsi di termini attinenti a realtà odierne,
senza poter attingere a un bagaglio linguistico ormai scomparso come
sono scomparsi i nostri progenitori neolitici, e tanto più i paleolitici,
spariti senza lasciare documenti, evidenze concrete al di là di immagini
che comunque in parte almeno ci permettono di risalire alla loro
“mentalità”.
A parte il fatto che il ricorso al paragone con i “primitivi'' per
esemplificare la vita del Paleolitico è sempre aleatorio, già rifarsi alle
lingue parlate dai “primitivi" odierni è fallace: quanto ne sappiamo,
ci deriva sempre e soltanto da registrazioni e interpretazioni di
studiosi, interpreti, esploratori occidentalizzanti, che le “leggono" nei
termini delle loro strutture sintattiche e grammaticali: traduzioni,
dunque, sempre incerte e contestabili.
Per l'uomo del Paleolitico, la natura era palesemente spettacolo, e
bisonti, stambecchi, orsi, leoni, mammut, lungi dall'essere
semplicemente prede, erano forme rilevabili, desumibili, distinguibili
dall'intorno, che il paleolitico riproduceva sulle pareti delle grotte e che
quindi gli “dicevano”, avevano cioè una signifìcanza non minore di
ogni altra esplicitazione della Parola: la parola, voglio dire, si
inscriveva immediatamente nel mito, concetto sul quale è necessario
soffermarsi ancora, dicendo subito che il linguaggio del potere è il
Discorso, presunto esautoratore del mito e negatore della dimensione
poietica, dell'invenzione fine a se stessa, sotto il profilo utilitaristico
inutile come sempre l'arte.
Nelle figurazioni paleolitiche, nelle grotte o nei ripari sottoroccia,
non c'è gerarchia. La cavalla gravida non è sottomessa allo stambecco
o all'orso speleo. Il Neolitico, invece, ha messo in scena fin dal VII
millennio a.C. il toro enorme dell'affresco di fiatai Hiiyiik in Turchia,
circondato da uomini oranti e danzanti, e a Kasar el Ahram, nel Sahara,
ha rappresentato un uomo in posizione di orante davanti a un poderoso
bovide divinizzato.
Il tabù si colloca alla presunta sorgente, tale perché invisibile,
insituabile, del fiume di parole che ci sembra, e che anzi sentiamo
scorrere dentro di noi. Il divieto, la legge, interviene successivamente.
Sostituisce il tabù. Tutte le parole-culture, dalle più antiche a noi note
alle odierne, hanno conosciuto l'orrore e il disgusto, e insieme la
meraviglia, per ciò che è o crediamo che sia (che parliamo sia) la morte.
L'inumazione, il bruciamento o l'esposizione o il divoramento dei
cadaveri umani testimoniano di un atteggiamento “sacrale” - uso
sempre questa parola per evitare gli equivoci insiti nel termine
“religioso” — rispetto ai resti inanimati dei propri simili.
La parola-esistenza oscilla così di continuo tra sacro e profano, fra
l'attrazione per l'immondo, il nauseante, il terribile, il tremen-dum, e il
mondo in cui si costruiscono-parlano oggetti che sono, in primo luogo,
scongiuri contro il soffio imprevedibile, ora gelido, ora infuocato, che
alita da mille spiracoli, da boschi, acque, pozzi, città, vicoli, angoli bui,
stanze, camini, finestre, fogne, lavandini, da noi stessi e dagli animali,
dalle macchine e dal cielo stellato, dai fiori e dalle tempeste, dalle rupi
e dalle acque.
È assurda la domanda che suona: che cos'è il tabù? Ed è mal posta
perché presuppone un oggetto della conoscenza, appunto il tabù, e un
soggetto, segnatamente quello dell'uomo moderno, che del tabù si
sarebbe sbarazzato o starebbe liberandosene o per lo meno potrebbe
contemplare il fenomeno dal di fuori, con scientifico distacco. Né
l'ostacolo viene superato con il tentativo, compiuto ad esempio dalla
psicoanalisi di rigida (e malintesa) osservanza freudiana, di «pensare il
soggetto della conoscenza».
Non va dimenticato che il soggetto è solo il termine
complementare dell'oggetto, ed è assolutamente inafferrabile, a meno
di non ridurlo al nome (che ci è imposto), al ruolo sociale (anch'esso
impostoci), laddove teorie come certe correnti psicoanalitiche
presuppongono la sostanzialità del soggetto, una sua “realtà” - che poi
si riduce, oggi, alla descrizione (oggettiva) di “strutture” psichiche,
termine che inevitabilmente rimanda a realtà fisiologiche e comunque
oggettive (cervello, sistema nervoso, oppure residui filogenetici di
situazioni protoumane, di tappe dell'ominazione).
La discesa dello Spirito Santo, la Pentecoste, di cui si narra negli
Atti degli Apostoli 2, 1-13, è una narrazione favolistica la quale in
realtà nasconde alcunché di assai meno banale. Favola, intendo, perché
trasforma in evento concreto, letteralistico, episodizzato, l'attesa
dell'ispirazione. Chi scrive o dipinge ha il preciso sentimento che
l'opera si faccia a sua insaputa, e costui esperisce l'essere parlato. Il
presunto fiume sommerso di parole che scorre in noi trabocca, e la
comunicazione, l'enunciazione esplicativa, si sospende, lo schema
concettuale ne risulta travalicato: sempre che, beninteso, l'autore o, se
si vuole, il parlante in lui sia intento davvero all'opera, ne sia posseduto
interamente, sia dedito, senza sottintesi di nego-tia, all'otium che è
fecondo, e non abbia di mira successo o denaro. Se si preferisce: che
ignori il senso e lo scopo di quell'arrogante definizione che è “autore”.
I discepoli sono riuniti e «venne all'improvviso un rombo, come
di vento che si abbatté gagliardo, e riempì tutta la casa dove si
trovavano. Apparvero loro lingue come dì fuoco che si dividevano e si
posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo
e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il
potere di esprimersi». La folla cosmopolita di Gerusalemme «si
radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la sua
propria lingua... Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l'un l'altro:
“Che significa questo?”. Altri invece li deridevano e dicevano: “Si
sono ubriacati di vin dolce”». Racconto travestito di religiosità, che è
l'opposto e la negazione di sacrum, della felicità di essere parlati. Ma
la Sibilla, è notorio, era ormai relegata fuori dalle mura, ormai si
cercavano spiegazioni della sua “ebbrezza”, si voleva dar ragione della
sua “follia”. Ecco, la fatica dello scrittore è in quest'attesa, come è dello
scultore nero africano o del boscimano del Kalahari.
Ci sono lingue in cui la differenza tra io (Ich) ed Es, è meno sentita
che in quelle occidentali: tanto per darne un esempio, quelle del gruppo
africano kwa della sottofamiglia detta sudanese occidentale della
famiglia linguistica nigero-congolese. Per gli Ewe, il soggetto, l'Ich che
va ad attingere l'acqua, non è immobile. Gli Ewe non sanno, ma sanno,
che il soggetto è una degradazione dell'oggetto.
La Parola, in Occidente “timorosa” di non avere radici nella
fattualità da essa stessa istituita più di quanto avvenga in altri ambiti e
continenti, ha fatto del soggetto un'entità immutabile. E il soggetto-
verbo-oggetto è la triade che domina la nostra concezione del mondo,
la trinità religiosa e sociale. Il soggetto è ciò che nell'India vedica
sarebbe stato il brahmano, il verbo la seconda casta, l'oggetto la casta
inferiore, il lavoratore, il sudra figlio dei piedi di Brahma, il fango
dell'inferiorità. Il soggetto muove e determina; è, nel gioco degli
scacchi, lo shah, il re. La parola ewe, meno presuntuosa, non gli
concede questo privilegio. Laddove da noi il re resta sempre re, tra gli
Ewe se accende il fuoco diventa accendi-fuoco-regale: lo iato tra
soggetto e oggetto è assai ridotto.
POTERE RELIGIONE GUERRA

Solo per comodità di esposizione, ho distinto i paragrafi dedicati


esplicitamente al potere da quelli riservati alla guerra e alla religione.
Ma potere, guerra e religione sono accidenti della sinonimia:
differenziazioni legalistiche, e infatti gli addetti all'una e all'altra
funzione rivendicano — e difendono con ogni mezzo — un proprio
monopolio.
È un'illusione che la cultura abbia un senso. La cultura-mito cresce
su sé stessa, coerente solo con se stessa, secondo la propria interna
necessità. Si riferisce unicamente a sé stessa, all'iniziale visione e
rappresentazione del mondo. Non c'è nessuna ragione perché l'albero
si chiami albero, ma i nomi istituiscono il mondo. L'illusione è di
credere che l'aldiqua abbia un senso, che i segni di cui è composto si
riferiscano ad alcunché di concreto — non il generico reale, bensì le
“cose”. Ciò che vale anche per l'aldilà, del pari supposto. La cultura-
mito si fonda sul nulla - o sul reale, che è effetto del linguaggio. E per
questo che la mathesis costituisce il culmine dell'interpretazione del
mondo fondata sul Sapere, cioè sull'attribuzione di un senso, cioè sulla
metafisica; ed è per questo che la cultura, coerente con sé stessa,
esclude e mette al bando tutto ciò che con essa non è coerente.
In una cultura in cui l'accento cada sull'onirico anziché sulla
lucidità della veglia, la minaccia è rappresentata da un eccesso di ratio,
laddove gli “spiriti” sono (anche) rassicuranti; nella cultura
postneolitica, che redime le tenebre, che s'aggrappa al giorno, la
sovranità spetta alla ratio. Ne consegue che il Testo può rivelare la
propria inconsistenza, dimostrarsi prolegómeno “a ogni futura
metafisica che vorrà porsi come scienza”, col ricondursi, svelandolo,
al nulla sotteso alla cultura-mito; ma il Testo di per sé è cieco e sordo.
È figlio della cultura che “rimanda a qualcosa”, che rinvia il Logos alla
Verità, è chiuso in questo cerchio che si salda su sé stesso, serpe che si
morde la coda. Deve cedere il passo alla follia e alla poesia per
infrangere la corazza che lo serra. Deve rassegnarsi ad assistere da
spettatore alla calata agli inferi: di per sé, ne è incapace.
Per i pigmei Bambuti del Congo la foresta non e luogo di terrori.
E l'antenato- antenata, Ituri, di cui sono parte integrante, non già
tenebrosa sylva da cui scindersi timorosi e angosciati.
E’ certo più rassicurante ritenere che il senso abbia
un'equivalenza. E, fedele a questo scongiuro, lo psichiatra e lo
psicoanalista rifiutano il nonsenso proposto loro dal matto e intravisto
dal nevrotico, che ne è affascinato ma ne rilutta.
Uno degli equivoci in cui più di frequente si incorre è di mettere
sempre la violenza sotto segno negativo. In effetti, la si condanna ma
assai spesso la si subisce senza riconoscerla. Questo avviene perché
l'Occidente soprattutto ma, anche se in misura minore, ogni società
gerarchica, opera una distinzione tra Bene e Male, tra Giorno e Notte,
Luce e Tenebre. La desacralizzazione del mondo comporta che, negato
il carattere di consumazione, di pericolosità, del sacro, si attribuisca in
esclusiva la violenza al potere e al destino, a salvaguardarsene
delegando la propria difesa a sovrani, sacerdoti, governanti, cioè al
potere stesso. Il suddito è così privato dell'accesso alla violenza; ma
alienazione significa appunto esclusione dall'universo che è indicato e
descritto dal mito ridotto a racconto, l'universo dell'aldilà, la sfera del
sacro, della violenza, dell'ebbrezza, del presunto uscire da sé. Tutto è
simbolico, ma quasi tutto può tradursi in rappresentazione, a volte
rassicurante, altre fantasmatica e orripilante.
La differenza tra quanto qui si dice e le concezioni psicoanalitiche
e, in generale, biologistiche (antropologiche), consiste in questo: di
fronte alle stesse evidenze, agli stessi “fatti”, io mi limito a registrarli,
a tentarne una descrizione diciamo fenomenologica, il più possibile
“neutrale”, mentre le scienze umane ne danno subito
un'interpretazione, li collocano immediatamente, col semplice
prenderli in considerazione e catalogarli, nel contesto di una visione
metafisica, li riconducono cioè a un primum, a un pregiudizio di fondo,
quello dell'uomo “naturale”. Deriva da questo la confusione, reperibile
forse anche in Freud, tra violenza e odio.
Riappropriarsi della violenza è un atto rivoluzionario — il pre-
supposto stesso della rivoluzione. La coscienza orripilata dimentica o
ignora che il potere è un “gioco” il cui rischio è obbligatoriamente
condiviso dai sudditi persuasi di fare, così, il proprio tornaconto e di
servire il Bene, ma in effetti sedotti dalla sovranità, ipotesi e adito della
sacralità, e dalla prospettiva della violenza resa lecita, giustificata dal
“sollevamento”, XAufhebung, del tabù — battaglia, massacro, atto di
coraggio, audacia, avventura, cameratismo, uscita dai limiti angusti del
quotidiano... -, che è il nucleo irradiante della mobilitazione.
Il potere sussiste a patto che si riconosca il principio della
separazione e la possibilità dell'immedesimazione. Al sacro si
applicano così le maschere degli dèi; è proibito farsi tomba vivente:
l'unico sepolcro ammesso è quello freddo e morto dell'inumazione alla
quale nulla è sottratto; è la terra a consumare ogni resto, muscoli, ossa,
cervello, cuore, fegato; oppure è la fiamma, purificatrice per
eccellenza. Chi si identifica con la morte viene dichiarato necro- mante
— e messo a morte. Eppure, è il potere la morte. Il potere non tollera
la chiaroveggenza estatica od orgiastica. Ma, per ciò stesso, spalanca
l'abisso dell'alienazione: ogni atto che si discosti dalla norma imposta
dal potere ne diviene la negazione, e dunque se ne porta dietro la scoria,
la lebbra; ogni atto di devianza è un atto non permesso, una rottura di
bando, e dunque limitato, specializzato, soffocato; alienato.
Dalla parte del potente. Messo di fronte all'impossibilità di
“impadronirmi” dell'altro per mezzo dell'amore, in altre parole di
assumere come mia la coscienza altrui una volta superata la soglia del
mio essere oggetto ai suoi occhi, sono prontamente indotto, incappando
in un interlocutore muto, al tentativo di trasformare questi in oggetto.
Presumo cioè di mantenere intatta la mia singolarità, opponendola alla
sua e schiacciandola. Affermo così la mia libertà a ogni costo. Non
tento di far miei gli occhi altrui, di far mia la libertà dell'altro; non
seguo la direzione indicatami dallo sguardo altrui, e dalla quale potrei
forse arguire come dovrei fare per impossessarmi a mia volta del mio
essere, manifestato all'altro ma celato a me; erigo anzi, per così dire,
un blocco stradale, il “di qui non si passa”. Mi chiudo in un guscio, mi
isolo, rifiuto l'altrui giudizio, non ammetto di adeguarmi a esso. Il mio
programma diviene insomma quello di possedere l'altro, di obbligarlo
a riconoscere la mia libertà. Posso impormi all'altro con l'autorità o la
forza: posso indurlo a scorgere in me la condizione della sua (parziale)
libertà. Egli non mi rivela la sua libertà più di quanto non faccia la
pianta, il sasso. È il simbolo, il prolungamento della mia libertà: ma il
suo essere — la sua libertà — mi sfuggono. Mi ritrovo solo, ma è un
prezzo da nulla rispetto alla moltiplicazione di me stesso che ricavo dal
rispecchiarmi in molti altri, quelli che mi conferiscono il mio esser-ci.
e nessun buffone, saltimbanco, menestrello, è in grado di farlo
ridere; a costoro, il sovrano fa tagliare la testa. Sono i suoi sudditi, i
suoi oggetti; egli esige da loro una certa libertà, sì, ma collaterale e
corollaria: siano liberi di scegliere il mezzo per farlo divertire, ma
obbligati a operare la scelta. Di fronte al sovrano, sta così il buffone,
tremante all'idea di non riuscire nel suo obbligatorio intento. È morta
la sua spontaneità, e il sovrano, semmai ride, lo fa per un caso strano e
imprevedibile, non perché divertito da una costrizione. Il sovrano,
infatti, esige l'amore dei suoi sudditi, segno della sua totale vittoria; ma,
si noti, i sudditi sono obbligati (persuasi, convinti, resi consenzienti,
impauriti, ricattati...) ad amarlo. In caso contrario, il sovrano insisterà
nel tentativo di affermare la propria condizione privilegiata, di trovare
la libertà altrui passando per la porta dell'oggetto in cui l'altro si è
trasformato. Vuole anche la leggenda che, se il sovrano incappasse nel
caso che lo fa divertire, nella persona che non ha paura di lui e agisce
in piena spontaneità, nella situazione non voluta, non programmata, in
qualcosa insomma che finalmente equivalga alla rivelazione della
libertà, il regno diverrebbe un paradiso sul cui trono siede l'amore.

Un principe era pieno d'irritazione per non essersi mai adoperato ' ad
altro che alla perfezione di generosità volgari. Prevedeva stupefacenti
rivoluzioni dell'amore e sospettava le sue donne di essere capaci di j meglio che
di quella compiacenza abbellita di cielo e di fasto. Egli voleva vedere la verità,
l'ora del desiderio e della soddisfazione essenziali. Fosse o no aberrazione di
pietà, egli volle. Possedeva almeno un potere assai vasto.
Tutte le donne che l'avevano conosciuto furono assassinate: che
saccheggio, nel giardino della Bellezza!
Rimbaud

Lungo la strada che porta alla condizione del sovrano (e alla


istituzione del rapporto padrone-servo), si danno stadi intermedi, in
primo luogo l'indifferenza alla presenza altrui. Io ignoro gli altri, non
li vedo neppure, mi tengo alla loro scorza, non li ascolto, li considero
mere funzioni: sono strumenti anche se non ancora miei oggetti. E
strumento il soldato che conquista per me quella posizione;
strumento il domestico. Nei loro riguardi, uso espressioni tali per cui
essi si vedono presi in considerazione dal di fuori, come collettivo:
“così si deve trattare col personale di servizio”, “con gli inferiori”,
“con i subalterni”. Tuttavia, dell'altro mi accorgo mio malgrado, sia
pure come attraverso una lastra di vetro semiopaco: sono
imbarazzato dalla sua presenza - a meno che non abbia fatto,
dell'indifferenza, la mia norma esclusiva, che non abbia escogitato
la tecnica dell'isolamento che mi permette di non avvertire la
presenza altrui: un sistema rigoroso di autocontrolli, punizioni,
barriere. Altrimenti, la presenza dell'altro mi rende edotto della mia
solitudine, del mio ineliminabile bisogno di comunicare, ma la
solitudine mi fornisce la chiave per altri piaceri; mi apre dinnanzi la
landa del silenzio. Intravedo, in fondo al deserto, una luce, una sorta
di luminosità uguale, senza traccia di colorazioni.
L'indifferenza è una condizione incerta e per lo più provvisoria:
corro continuamente il rischio di vedere l'altro divenire tale, il rischio
di vedere il mendico, che ho sfiorato appena con lo sguardo, scoprirsi
le piaghe, agitare il moncherino, mettermelo sott'occhio. Ammetto
questa possibilità — una sorta di sottofondo inquietante — e con ciò
riconosco la sostanziale libertà dell'altro, che mi guarda (e mi obbligo
a non reagire). Ma sono turbato: freddo e distante, misurato e
impenetrabile, e con questo atteggiamento voglio invitare
iconicamente l'altro a rinunciare al giudizio, allo sguardo. Il servitore
dovrebbe essere cieco; molto spesso era (ed è ancora) considerato
eunuco.
Va fatta una distinzione tra l'altro e l'Alterità. L'altro è il simbolo
dell'Alterità. La sua presenza significa che non sono solo, che ho la
possibilità di unirmi, di fondermi e con-fondermi. Vedo la mia
esistenza riflessa. Assieme all'altro, nell'amore, sfuggo alla distruttività
- la quale tuttavia è implicita nell'altro che mi svela anche la mia
finitezza in quanto riflette la mia esistenza. L'altro contiene l'immagine
della mia morte. L'altro è la mia (possibile) salvezza ma anche la mia
(ineluttabile) perdizione. Tuttavia, l'altro si colloca nel tempo e nello
spazio, è un esser-ci (l'esser qui e ora) dietro il quale si suppone che
baleni l'Essere. L'altro è l'accenno al trapasso del tempo
nell'Atemporale; per usare i termini del pensiero buddista:
dall'esistente nello spazio - tempo alla Buddità o Corpo di potenzialità
assoluta. Ai miei occhi, è come se questo Corpo di potenzialità assoluta
non sapesse ritrovare sé stesso se non attraverso il farsi diverso da sé,
diventando spazio-tempo per poi annullare tale dicotomia e risorgere
uno e intatto nella sua immobile, inalterata e inalterabile luminosità.
L'Alterità, cioè, deve farsi altro per riuscirmi percepibile. Sicché, nel
momento stesso in cui io mi riposo nell'altro, ho la sensazione di una
minaccia: la fusione è precaria, la fine dell'amore e la morte stanno
all'agguato. L'amore non mi assicura il paradiso, non mi garantisce
l'eternità. Il flusso indistinto si impossessa, prima o poi, della creatura,
anzi è dentro di essa; nascere è cominciare a perire. L'amore è
moltiplicazione; dall'amo- l re, nell'amore, si suppone che abbia origine
la proliferazione j umana. L'atto sessuale non è che la condizione fisica
- e spesso riprovata e rinnegata - della proliferazione. Si concepisce
“nell'amore”. Ma la gara con la morte è perduta in partenza.
Il cadavere è un veicolo, non è l'Alterità. Ad esempio, il Libro
tibetano dei morti prescrive che nello stato di bardo, cioè di “esistenza
intermedia”, il lama, con le parole sussurrate all'orecchio del
moribondo o del già morto, può evocare nel suo principio cosciente le
istruzioni e le esperienze avute in vita, da mettere a profitto in quel
momento di rischio enorme e decisivo. Il bardo, che secondo certe
dottrine dura poche ore, per altri tre giorni e mezzo o addirittura
quarantanove, è un temporaneo sopravvivere alla morte: una luce
abbagliante splende, per brevi istanti, dinanzi al principio cosciente, il
quale o la riconosce per quella che è, e il velo della maya, il mondo con
le sue varie apparenze, si dissipa di colpo, o non la riconosce, e allora
può soccorrere la recitazione del trattato, che aiuta la “trasferenza” del
principio cosciente, cioè il passaggio da un piano di esistenza a un altro
{bhavasankratì), e l'illusione dell'io si dissolve nella luce incolore,
impassibile, immobile, della coscienza essenziale; oppure, il
riconoscimento non avviene: la creatura appartiene agli “infimi”,
destinati al processo samsarico a meno che il divenire, grazie a una
ulteriore manifestazione della luce (che avviene quando il principio
cosciente, pur restando in una lucidità serena non turbata dai sensi in
quel momento inoperosi, esce dal corpo e lo guarda) non sia riassorbito
dall'essere.
In Tibet, il cadavere veniva bruciato o abbandonato agli uccelli da
preda. Il decesso era inteso come l'inizio di una nuova vita o come
definitiva scomparsa dell'effimera personalità. A trasmigrare dal corpo
non era e non è l'anima, che per i buddisti non esiste, ma la coscienza,
sintesi dell'essere psico-fisico, il centro morale della persona, che ha
come supporto il respiro: un'entità morale, una sostanza rarefatta,
capace di agire a distanza. Qualcosa di fisico, dunque, che può entrare,
come un fluido, nel corpo altrui, sostituendo una personalità con
un'altra. E nel cadavere, feretro di sé stesso, che si gioca la sorte finale:
nirvana o samsara. Ma anche nell'antico Egitto la carne era un veicolo:
essenziale al perdurare del soffio vitale, il ka, la forza generatrice e
conservatrice che, dopo il decesso, riassorbiva la vita in se stessa, ed
era dunque concepita come l'energia costitutiva (con l'andar dei secoli
sempre più individualizzata e spiritualizzata) di una numinosità
onnicomprensiva.
Il cadavere è sempre un luogo deputato, mai un ammasso informe.
Può essere la soglia per la sopravvivenza individuale, vale a dire della
medesima creatura che continua a esistere nell'aldilà con le stesse
parvenze e lo stesso nome. Era la concezione egizia, e ne conseguiva
la necessità di preservare il cadavere dalla corruzione: l'integrità del
corpo era necessaria alla continuazione della vita nell'oltretomba. Essa
implicava che l'accesso all'aldilà fosse una chiave in mano ai potenti;
il cadavere veniva imbalsamato ad libitum, e qualora i sacerdoti o la
corte rifiutassero l'autorizzazione, il defunto era condannato alla vera e
definitiva morte.
Anche i paleolitici seppellivano a volte i defunti. E il cannibale
che divora la salma ne riconosce, per ciò stesso, la diversità
dall'oggetto inanimato.
Nelle esperienze mistiche e vitali, come fa notare Volhard, «le
ragioni vengono sempre dopo»: prima parla quello che, con termine
ambiguo, si usa definire il subconscio. È necessario insistere sul
rapporto con la morte, perché altrimenti sfuggirebbe il rapporto tra
erotismo e violenza, che finora abbiamo solo sfiorato, e la cosiddetta
perversione apparirebbe in una prospettiva distorta, si dà dar ragione a
coloro che ne affermano l'esistenza autonoma, come di un'entità
maligna, e a coloro che vi scorgono uno stato di incapacità e
insufficienza (incapacità di amare secondo Ludwig Binswanger e

Medard Boss).
Volhard, Ewald, Kannibalismus, Stoccarda, 1936 (trad. it. Il cannibalismo,
Torino, 1949).
Binswanger, Ludwig, Grundformen und Erkenntnis menschlichen
Daseins, Zurigo, 1942.
Boss, Medard, Sinn und Gestalt der sexuellen Perversionen, Zurigo, 1951.
È indispensabile indicare, sia pure per approssimazione, il
significato di “darsi in olocausto” ovvero di “darsi come cibo”,
dell'incorporazione cruenta. Le “ragioni” (sacrificio come redenzione:
colui che si offre per salvare vite o anime altrui) vengono, ripetiamo,
dopo. Né basta l'osservazione che la civiltà, sostituendosi alla cultura,
ha permesso di partecipare della carica emozionale connessa
all’immagine del darsi in pasto, con maggiore pacatezza e distacco,
attraverso l’immedesimazione con vivande (pane, carne dell'agnello) e
bevande (vino o altri liquidi inebrianti); non è la stessa cosa: il barbaro,
si spiega, offre semplicemente in pasto quel poco che ha, quel possibile
cibo con cui già siamo immediatamente immedesimati, e cioè il proprio
corpo.
Non basta, per la semplice ragione che città e villaggi sono
costellati di monumenti ai caduti in guerra. Il cannibalismo è passato
in retaggio agli insaziabili poteri, e per essi alla Patria. Il potere si è
impossessato dell'immedesimazione-cibo. Non è dunque che presso i
“primitivi” le cose, non essendo filtrate da remore sociali, vadano più
per le spicce. Il potere esige da noi, all'occorrenza (del potere stesso),
la consumazione totale; il “primitivo” la esige da sé stesso. È avvenuto
uno spostamento di sede: dall'interiorità alla delega.
«Il sacerdote era coadiuvato, nel corso dei sacrifici umani, da
quattro vecchi chiamati Chac in onore del Dio della Pioggia (a
rievocazione del ruolo sacrificale della divinità [del periodo Classico]
della pioggia, Xib Chac) i quali immobilizzavano le braccia e le gambe
della vittima mentre il petto veniva aperto da un altro individuo che
portava il titolo di Nachom (quello stesso del capo in guerra)».
Michael E. Coe, The Maya, Londra, 1993 (trad. it., I Maya, Roma,
1998).
Che cosa significa dunque darsi come cibo? Che cosa significa
olocausto? E c'è un rapporto tra questo e l'amore? Ci si dà, insomma,
ai corpi amati?
La risposta al quesito è, ai fini dei nostri assunti, importantissima.
La cosiddetta perversione a nostro giudizio attiene alla sfera del
sacrificio, imposto o subito. Incomprensibile, pertanto, per la coscienza
accecata dai fantasmi egoici. Essere consumato significa precipitarsi
nell'oceano dell'esistere, nell'assoluto, per illusorio che sia, nel comune
denominatore della vita: la condizione dell'Alterità, l'immersione nella
voluttà dello “stato secondo”, nell'indifferenza al singolo, al concreto,
al divenire individuale; significa accedere all'estasi definitiva, alla
vertigine senza scampo, senza ritorni, cadere vittima del fascino senza
volto, dello sguardo vuoto di cui si trovano le immagini, ad esempio,
nelle grotticelle funebri artificiali sarde, le domus de janas (case delle
fate) risalenti alla prima età enea.

Sono consapevolezze che non sfuggono, anche se non le articola


esplicitamente, al mobilitatore, al produttore di soldati obbedienti.
«Ildovere di uccidere... risulta come importante elemento costitutivo delle
comunità virili cui spettava il diritto di partecipare al banchetto di vittoria e di
mangiare carne umana» [Gli eserciti sono appunto comunità virili che a volte
accettano “personale” femminile a patto, beninteso, che si comporti in maniera
“virilmente” accettabile]. Ewald Volhard, Il cannibalismo, Torino, 1949.
Essere divorati da un proprio simile, ed essere divoratori della
vittima, significa pertanto erompere, con un atto di violenza, dalla
corazza di angoscia che serra l'esistenza intellettiva del singolo,
dell'individuo limitato e finito. Significa affrontare l'illimitato.
Significa compiere, con un taglio netto del nodo gordiano, quell'atto -
il solo - che permette di varcare l'abisso che, nelle società gerarchiche,
sembra separare vittima da carnefice, cristallizzandone perennemente
i ruoli e facendoli apparire inconciliabili. Si tratta di optare per il rischio
estremo o per l'accettazione della sorte imposta; le società gerarchiche
sono quelle in cui il rischio è, in apparenza, cancellato: per poterne
raccogliere la sfida, in esse occorre il consenso dei poteri.
E i poteri proteggono i sudditi, così sostengono, dal rischio. I
compiti sono pertanto divisi: da un lato i poteri-carnefici in potenza,
dall'altro i sudditi-vittime in potenza. Per uscire dalla condizione di
vittima, non resta allora che correre incontro all'angoscia suprema, che
scegliere la furia, che rompere i lacci dell'incantesimo in cui il potere
tiene prigionieri i sudditi. Questi possono farlo a diversi livelli; con il
suicidio, con la cosiddetta follia, riducendosi al rango di “barboni” e
ratés, con il crimine, con il masochismo...
In quest'ultimo caso almeno, con quella che merita il nome di
“corsa in avanti”. Non è che il ribelle-masochista non tema la
sofferenza o ne ricavi piacere: ma essa diventa, paradossalmente, il
mezzo della sua vittoria. Tuttavia, richiamando su di sé l'ira dei
carnefici, il ribelle- masochista riconosce de-factu la separazione
gerarchica dei due ambiti: la sua è una provocazione, non un atto
egualitario; e del resto, nella società gerarchica parte non indifferente
della violenza è consumata nello sforzo di opposizione al potere; è
pertanto limitata (mentre è illimitata quella cui fa ricorso il potere) e
vuole giustificazioni: diventa gioco solo al di là dei pretesti che offre a
se stessa.
«Il momento è vicino in cui sarà fatta la luce, ed io potrò mostrarle
che io sono tra quei martiri che nelle grandi occasioni dei popoli sono
necessari». Tito Speri, uno dei martiri di Belfiore, in una lettera
all'amico Pilati, 1853.
Atto egualitario è quello per cui divoro il nemico o la vittima
consenziente, sapendo che a ogni istante posso divenire la vittima
consenziente, il nemico catturato e divorato. E un rapporto di
reciprocità che cessa nel momento in cui ammetto che qualcuno o
qualcosa mi rappresenti: nel momento in cui cesso dall'atteggiamento
mitico, cioè dal riconoscimento dell'Alterità, che è quanto dire la sfera
del sacro, e trasformo il numinoso in religioso: in cui antropomorfizzo
— credo insomma di poter cartografare e addirittura conquistare -
l'indicibile, e poi lo storicizzo.
Avviene nel momento in cui la vittima si riduce a una sola,
esemplare di tutte le altre, in cui il regime rappresentativo si incarna ad
esempio nel Cristo, e questi è immaginato come storico, come uomo-
evento che chiude definitivamente l'era dell'intercambiabilità di vittima
e carnefice, e in cui a sua volta il carnefice, lungi dall'essere anonimo
e collettivo (l'intera tribù), diviene un uomo- Giuda, un giudice, un
soldato — sul quale sono lecite indagini “storiche”. In quel momento
accetto definitivamente la gerarchia. O altri l'accettano per me, che io
lo voglia (e li deleghi) o meno, e mi obbligano a sottostare alla regola
della scissione dei due ambiti. Mi costringono alla sfida ai poteri,
qualora io non intenda rassegnarmi a questa limitazione. La cosiddetta
perversione sessuale è il rifiuto, alienato, del mondo della limitazione
alienante. Ma non può non essere alienato.
Conosciuti a Roma fin dal IX secolo, gli agnus Dei (medagliette ovali di
cera, recanti sulla faccia l'impronta dell'agnello, simbolo del Cristo, e sul
rovescio un'effigie di santo) ebbero origine dall'uso di rompere in pezzi, il
sabato santo, il cero pasquale dell'anno precedente e di distribuirli come
oggetto di devozione sacramentale ai fedeli. «Ecce agnus Dei, ecce qui tollit
peccatum mundi». (Vangelo di Giovanni 1,29).
Il potere come dolce carnefice. Nella sua doppia natura, il potere
legittima concede, tollera, proibisce, educa, nutre, legifera, decreta,
bandisce, accoglie, purifica, maledice, scomunica, santifica, accende
roghi, edifica carceri, inaugura campi di concentramento, grazia,
libera, assolve. Al suddito è prescritto senza che glielo si dica
esplicitamente — fa presto a rendersene conto — il masochismo,
d'altra parte deplorato dal potere che lo considera una perversione.
Come sono simili, nel mondo postneolitico, e soprattutto in Occidente,
l'amore e la guerra! Marte e Venere, e loro figlia è Armonia, il perno,
la sintesi della triade hegeliana e marxista.

«Un mondo razionale e pratico... in cui gli oggetti — materiali e umani


— che servono ai piaceri sono strumenti senza mistero».
Simo ne de Beauvoir, Faut-il bruler Sade, Parigi 1955.

«“Quel che Dio ha congiunto, l'uomo non separi”. Io sono il marito, e


tutta l'isola è mia legittima moglie; io sono la testa ed essa è il mio corpo»
(Giacomo I re d'Inghilterra [1566-1625]).

Il locus in cui l'indissolubilità di potere e religione si manifesta


con la massima evidenza è il sovrano - il capo in generale — come
immagine della divinità, suo rappresentante in terra. Principio basilare
della religione come del potere è l'accesso al palcoscenico della storia:
i loro rappresentanti si fanno sul proscenio. La rappresentanza politica
come la religiosa sono diramazioni del modello archetipo che sottende
entrambe, la sovranità divina. Il dominio, ogni dominio, è regale, e la
regalità è sempre per grazia della divinità o del suo equivalente nella
presunta laicizzazione del potere: la natura che apparentemente detta la
supremazia del “meritevole” o del più adatto secondo le varie vulgate
darwiniane e biologistiche. Il capo recita la parte del dio.
Non può esserci potere che non si incarni. Il corpo rappresentato
nel Neolitico è un corpo politico, risponde a un ordinamento, quello
che la psicoanalisi chiama “organizzazione genitale” o “geni- talità”:
ordinamento che si esplica nella concentrazione della sessualità in una
sola parte del corpo, gli organi genitali. E stato così anche nel
Paleolitico? Può darsi, ma è impossibile provarlo. Va comunque detto
che presso i cosiddetti primitivi si compiono rituali della separazione:
il nesso tra l'adolescente e la madre viene scisso, ed è scissione
dell'esserci dall'ambiente. (Forse è questa l'esca da cui è derivata la
concezione religiosa dell'esserci come anima divisa dal corpo.) È il
trauma della nascita ripetuta simbolicamente. L'iniziazione è rinascita
che annulla la nascita dalla madre “vera”.

«Il regno di Dio è uno stato civile, in cui Dio stesso è sovrano in virtù
prima dell'antico e poi del nuovo patto, e nel quale egli regna tramite il suo
vicario o luogotenente».
Thomas Hobbes, Il Leviatano, cap. XXXV.

Il capo-sovrano, sacerdote, presidente, tiranno, despota,


manager, comandante... - è eretto. Rex Erectus est. Il corpo politico,
che è sessuale, si drizza in una sua parte, che ciò avvenga
“spontaneamente” (scelta, elezione) o per via di “maneggi”
(eccitazione indotta, corpo voyeuristico che contempla sé stesso, con
se stesso copula). Il suddito voyeur ha piaceri orgasmici, pronto
tuttavia a decapitare — a castrare — il suo sovrano, obbedendo a
segni celesti indicatigli-impostigli dalla stessa sovranità.
Il re viene consacrato con l'unzione rituale che ha
probabilmente preceduto le sue funzioni pratiche nella vita profana.
Significa, in tutte le religioni, il passaggio del soggetto da una
condizione a un'altra. E gli dèi sono ovunque ghiotti di sostanze
grasse, liquide o semisolide. (A loro spettano le carni più grasse,
bruciate sugli altari sacrificali, il cui fumo j ascende alle loro nari).
Il cronista gallois Giraldus Cambrensis fornisce interessanti
indicazioni circa le modalità dell'elezione dei sovrani in ambito celtico:
«Tutta la popolazione essendosi radunata nello stesso luogo, si conduce
nel centro dell'assemblea una giumenta bianca. Ed ecco che colui [il
sovrano da eleggere], lungi dall'elevarsi alla dignità di principe, si
abbassa all'obbrobrio della bestia: non quale un re, bensì quale un
fuorilegge. Perché s'avanza al cospetto di tutti a guisa di bestia e, con
non minore sfacciataggine che ignoranza, si esibisce a guida di
animale in calore. [Dopo il congiungimento], la giumenta viene
subito uccisa e cotta a pezzi nell'acqua, e al sovrano si prepara in
quest'acqua un bagno. Egli vi si immerge, mangia i pezzi di carne
che gli vengono offerti, circondato dal suo popolo che con lui se ne
ciba. Del brodo in cui si lava, non già con un recipiente né con la
mano, ma direttamente con la bocca tutt'attorno a sé sorbe e
trangugia. Secondo tale rito, non però secondo dignità, eccone
consacrate regalità e autorità».

Giraldo il Gallese (Cambria era detto il Galles), teologo e cronista


(11471223), fu vescovo di Menevia.

È stata avanzata, da Raymond Christinger, l'ipotesi che questo


testo inequivocabile getti luce su un'incisione (circa cm 28 x 18) della
Valcamonica, precisamente di Coren del Valento, forse del terzo mil-
lennio a.C., che rappresenta l'unione di un uomo con una giumenta.
L'uomo avvicina il membro eretto al posteriore della bestia che tocca
con una mano, alzando l'altra al cielo con tre dita tese. Ora, l'unione del
re con una dea o con il rappresentante di un altro mondo - spesso,
appunto, una bestia —, lo ha per millenni collocato ipso facto in una
posizione chiave, intermedia tra il suo popolo e il mondo invisibile: il
congiungimento con un animale gli conferiva potenza, legittimità,
statuto di intermediario tra l'aldiqua e l'aldilà.
La piattaforma di sostegno del tempio di Matageshivara a
Khajuraho, nello stato indiano del Madhya Pradesh, è ornata da una
serie di raffigurazioni tra cui spicca l'immagine di un personaggio di
dimensioni maggiori degli altri, intento a congiungersi con un equide,
probabilmente una cavalla, anche in questo caso simbolo di regalità e
di dominio sulla natura. (Il complesso templare di Khajuraho, opera
della dinastia Chandella, fu costruito nell'XI secolo d. C.).
Mai si danno dominatori, sovrani, grandi capi, sommi sacerdoti
che rinuncino al serraglio in cui sono rinchiuse belve, come le zeribà
dei potentati orientali e africani, a sottolineare il loro dominio sulla
natura bruta; e siccome nel processo di virilizzazione del mondo (ne
parleremo più diffusamente nei paragrafi sulla religione) gli uomini
provvidero a domesticare, forse prima degli animali, le donne, era
coerente che i dominatori istituissero serragli anche per le concubine,
cioè le donne con cui dedicarsi a piacimento e a capriccio al concubito,
l'unione carnale.
Il potere è il sacrum. E il sacrum ha un duplice volto: terribilità e
dolcezza. Così il potere si propone come redentore, bonario padre,
tenera madre fallica. La rappresentazione che offre di sé è, non già
quella di una giustapposizione di cose separate, ma del due-in-uno, è
l'oggetto combinato, la sconfitta del terzo escluso — ma anche l'unico
caso in cui il terzo escluso è accettato nell'universo della discorsività,
per il quale è uno dei principi fondamentali (stando a esso, un giudizio
affermativo e uno negativo non possono essere contemporaneamente
veri). Il sacrum — e il potere — fanno infatti eccezione. Dal sacrum
provengono vita e morte, dall'albero dell'aldilà ruscella il miele ma
anche il ciclone e la pestilenza, e le religioni insegnano che la madre
partorisce il figlio a cavallo di una tomba.
11 dio supremo o unico, che è sempre fallocratico — menhir,
betilo, fallo di pietra, sintesi di ogni regalità — e che è rappresentato
da un Unga in India, dal palo custode dei campi a Roma, dal crocifisso
drizzato nel cristianesimo, è però anche una vagina. E il cerchio della
tana, la casa di Adamo in paradiso, è diventato il quadrato della domus
neolitica e della urbs che è sempre quadratità materializzata,
letteralizzata (fra gli etruschi, il mondo dei defunti, il cimitero, ideale
continuazione del luogo dei viventi, sta ai piedi del colle ed è circolare:
presunta sede della rinascita, luogo di supremo valore, ctonico residuo
della femminilità non soggiogata dal fallo). Duplicità che sfugge - deve
sfuggire - al suddito - credente. È il mistero, al quale gli è lecito
affacciarsi sbigottito: sfugge alla sua ragione, deve meravigliarlo e
sgomentarlo.
«Ixcbel, dea della luna nella mitologia maya, era temuta, insieme al
serpente del cielo, come responsabile di disastrose inondazioni e delle tempeste
tropicali. Pure, era considerata la protettrice delle donne durante il parto e
delle tessitrici. Era assai vicina a Ixtah, la dea del suicidio, che pendeva da un
albero in stato di parziale decomposizione. Il suicidio era considerato un modo
dignitoso di accedere al paradiso, e Ixtah accompagnava le anime di coloro che
morivano impiccati verso l'eterno riposo sotto l'albero del mondo Yaxche, dove
radunava anche le anime dei guerrieri caduti, delle vittime dei sacrifici, dei
sacerdoti e delle donne morte di parto».
Arthur Cotterell, The Illustrated Encyclopaedia of Myths and Legends,
Londra 1989.

Al suddito si chiede soprattutto di offrirsi all'obbedienza. Gli si


prescrive la passività o per lo meno il disinteresse a ciò che vien fatto,
spesso a sue spese, dai grandi; al mobilitato si prescrive in più
fattivismo. Il mobilitato, l'inquadrato, deve aver già accettato la
sudditanza. Questa permette pur sempre qualche evasione; il suddito
può illudersi di esser stato lui a scegliere la propria condizione, e
insieme consolarsi con lo spettacolo offertogli dai sovrani; nella libertà
del privilegio ad essi accordata, egli legge una concreta possibilità
umana di cui si sente partecipe per interposta persona, l'assoluta libertà,
e l'imprevedibilità del sacro; il membro della società primitiva si ritiene
anch'egli in grado di istituire, grazie a tali intermediari, il colloquio con
la divinità.
«Da tale isolamento derivano, tra i molti altri, tre principali van- taggi: il primo
è che, nell'isolarsi da molti amici e conoscenti, e così pure da molte non ben
ordinate incombenze, si acquista non poco merito agli occhi della divina
maestà... Quanto più la nostra anima si trova sola e isolata, tanto più essa è in
grado di accostarsi e arrivare al suo Creatore e Signore...».
Ignacio de Loyola, «Note...», in Esercizi spirituali, Mondadori, Milano, 1984.
Coloro che erano e sono designati a incarnare la divinità, si
prendevano e prendono cura dei sudditi, proteggendoli, assolvendoli,
consigliandoli e guidandoli: in quanto uomini avevano, e hanno tuttora,
funzione di padre, anche se, nel caso di etnie “primitive”, in quanto dèi
com'erano per l'altra loro metà, potevano mostrarsi spietati,
imprevedibili, intolleranti, sanguinari, implacabili, e sempre una volta
assolti gli obblighi cruenti connessi a questa loro negatività.

«Lo scrittore Cipani... lo trovò insieme a due moretti che aveva portato
con sé in Italia e ci riferisce questa scena commovente.
— Vedete là — disse Monsignor Comboni additando i due moretti —
allorché li ho raccolti, sapete, erano selvaggi».
Bice Foresi, Missionari in Africa, La Scuola, Brescia, s.d.

Con l'osservanza delle norme (lavoro e obbedienza), il suddito


oppone una barriera al sacro, alla rovina. Questa gli piomba addosso
ogni qualvolta egli si ribelli alla regola; la sua porzione di diritti è
proporzionale alla sua libertà, cioè alla capacità - acquisita a priori,
conferita o conquistata per mezzo di particolari imprese, che sono di
per sé altrettanti riti d'iniziazione — di trattare col sacro. Il mondo è
insomma immaginato come un edificio costruito obbedendo a precise
regole d'ordine razionale, in cui esista però — come si favoleggia in
tutto il mondo - un locale segreto, nel quale sia contenuto
l’innominabile. Chi sa come ci si deve comportare col divino, saprà
usare coi dovuti criteri la chiave che dà accesso alla stanza; chi ignori
quest'arte, può provocare con la sua curiosità la fuoriuscita
dell'innominabile, ciò che può significare la distruzione sua e di molti
altri.
Lo schiavo, fatto prigioniero in guerra, ha dimostrato di non saper
maneggiare la violenza: gli dèi non sono dalla sua, ed egli può essere
quindi privato dei diritti; accanto alla sua utilità, ciò spiega perché lo
schiavo, dono degli dèi, possa essere trattato come un oggetto: l'uomo
vale in quanto abbia la capacità di imporsi al sacro, di dettar regole al
sacro; è vero, lo schiavo lavora: ma egli non crea, cioè non si impone
al sacro, non si sostituisce alla Creazione; lo schiavo esegue, non
comanda, non organizza, non programma il lavoro. Il suo valore è
quindi puramente fisico, egli vale né più né meno del manzo, del
bufalo, dell'asino. La donna, che assicura la sopravvivenza della tribù;
che partorendo crea; che getta, con il prorompere del figlio dal suo
utero, il ponte tra il non essere e l'essere, vale sempre più dello schiavo,
e anche nelle società in cui la supremazia maschile è più accentuata,
gode pur sempre di un certo rispetto e di determinati privilegi; schiava
o libera, nel momento delle doglie è tabù.

«La nostra condanna non sembra severa. Al condannato viene scritta la


norma che ha infranto, mediante l’erpice. A questo condannato, per esempio»
- £ 'ufficiale indicò l'uomo — «sarà scritto sul corpo: Onora i tuoi superiori!».
Franz Kafka, Nella colonia penale (1915).

Quanto al guerriero, è chiaro che il suo valore non lo si giudica


solo sulla scorta dei benefìci apportati alla tribù dal suo braccio e dalla
sua lancia, ma anche in rapporto alla sua audacia, alla sua forza, al
numero di teste di nemici uccisi che ne decorano la capanna, cioè in
base agli in-sé che lo caratterizzano, per le qualifiche del suo essere
guerriero al di fuori e al di sopra del risultato degli atti impliciti in tale
condizione. A patto di assolvere ai doveri nei confronti del mondo
profano (utilitaristico) e di quello sacro, il suddito era così
relativamente al sicuro. Al di là della zona dei suoi doveri, egli poteva
dedicarsi ai suoi piaceri, riposi e fantasticherie.
La condizione del mobilitato, dell'inquadrato, è invece
sostanzialmente diversa.
In primo luogo, al mobilitato si nega quasi completamente una
zona personale, di rifugio. Trasponiamo quanto si è detto a proposito
del suddito in termini moderni: la classe dominante nelle antiche
società era immediatamente il sacro; non lo è più ai giorni nostri, ha
cessato definitivamente dall'esserlo con il 1789. Essa tuttavia per
sostenersi deve ammantarsi di sacralità o per lo meno degli attributi
della sacralità, soprattutto l’intoccabilità. Il principio autoritario si
fonda su questo: per il suddito, in un certo senso è lo stesso se la
punizione per chi osi levar la mano contro i grandi piomba dal cielo o
viene inflitta dal braccio secolare senza accompagnamento di
scomuniche o esorcismi. Il risultato finale è identico: l'audace è
distrutto o incarcerato o messo al bando. La differenza consiste semmai
in ciò, che nel primo caso il suddito aveva a che fare con un assoluto,
che nulla lo giustificava nella sua ribellione; e, se questa riusciva ad
abbattere il tiranno, il rivoltoso doveva affrettarsi a cercare i crismi del
sacerdozio che lo santificassero, cioè lo ponessero, a posteriori, sullo
stesso piano del sovrano abbattuto.
Il rivoluzionario d'oggi ha coscienza della relatività delle
posizioni: la giustificazione del suo operato verrà dalla riuscita della
sua impresa. La progressiva profanizzazione della società rende così
sempre più difficile il compito delle classi dominanti: esse devono
provare la propria utilità, più non basta che dichiarino la propria
volontà sovrana; anzi, lo spettacolo dei grandi, lungi dal soddisfare le
folle, non fa che amplificarne i ruggiti di collera. Quanto più ampia
quindi la porzione di privilegio, quanto maggiore la percentuale di beni
che la classe dirigente pretende di riserbare a se stessa senza dover
provare il proprio diritto al beneficio, senza cioè accettare di vederselo
messo in discussione, tanto maggiore sarà il suo ricorso alle istanze
dell'irrazionale.

«Vi fu. uno dei precipitati [dalle finestre del castello] che... si aggrappò
a un ramo e non voleva più abbandonarlo, il che vedendo gli furono tirati
infiniti colpi di archibugio e di pietre sulla testa senza che si riuscisse a colpirlo.
Del che il Barone si meravigliò e gli salvò la vita, e ne uscì come per
miracolo...».
Richard Verstegan, Théatre des cruautés des hérétiques de nostre temps,
Anversa, 1588.
Lo sperimentiamo ogni giorno: quanto più la classe dirigente è
casta dominante, quanto più predatrice essa è, tanto più ricercherà
benedizioni, assoluzioni, conforti e giustificazioni per bocca del clero
locale. Ma essa, così facendo, continua a proporsi ai sudditi; questi
sono chiamati a fare una scelta, si fa leva sulla loro impreparazione o
disorganizzazione, per esercitare a loro spese un inganno. Tra la casta
e i sudditi si interpone un sottile velario di pregiudizi, antiche paure,
ancestrali terrori. Altrimenti, la casta si fa classe ragionante: al posto
del balenio degli stendardi processionali, della solen- ruta dei cantici,
accetterà come propria corazza la convinzione; il suo scudo non sarà
più la croce, bensì la stampa e gli altri media.
Ma la discussione implica l'ammissione della fondamentale
uguaglianza dell'interlocutore: ed ecco il suddito farsi sindacalista,
progettare la rivoluzione, minare l'autorità della classe al potere.
Questa, è vero, può ricorrere alla repressione, la quale però è un rischio:
i fatti - e le barricate - lo provano. Oppure può ricorrere alla
mobilitazione, all'inquadramento, e cioè rivolgere l'energia che
minacciava di rivolgersi contro da un momento all'altro, di scatenarsi e
travolgerla, in un'altra direzione, contro un nemico interno o esterno;
la classe dominante esegue uno scarto di fianco, e il suddito-toro vede
apparire un nuovo obiettivo, che gli si configura quale di maggior
momento del primo.
«E chi mai ti credi di essere tu, merda che non saresti neppure
capace di schiacciare, sedendotici sopra, un riccio?». I cosacchi
zaparozhi al sultano che pretendeva la loro sudditanza. Il mobilitato,
l'inquadrato, si lascia così togliere di mano le sue prerogative di
suddito, in vista della lotta contro questo nemico: alla discussione
sostituisce l'obbedienza, all'autonomia la dipendenza, alla protesta lo
schiamazzo delle folle deliranti, allo scetticismo l'entusiasmo,
all'opinione personale la fede, alla convinzione il fanatismo, al dubbio
l'incrollabile certezza, al rispetto per l'autorità la conversione; egli
indossa un'uniforme, e non accade più che sia troppo stretto lo stivale
rifilatogli dal furiere: è il suo piede che è diventato troppo grande;
l'appello alla ragione, fulcro della pedagogia liberal-democratica, cede
il posto a istanze assai più primitive e immediate: è il cuore, che conta;
è la fede, ad avere il sopravvento.
Il mobilitato è l'uomo pronto a gettarsi nel fuoco per il suo capo.
Laddove il suddito si riserbava un'ultima istanza, all'inqua- drato
ripugna la semplice idea di fare di testa sua; per il suddito è l'opinione
pubblica: in essa il suddito è immerso; l'opinione pubblica è un mare le
cui ondate si scontrano tuonando, e sono gli appelli delle diverse
ideologie. Per l'inquadrato, la problematica ha infinitamente meno
valore della marcia forzata, dell'adunata, degli squilli di tromba e del
rullare dei tamburi: l'istanza d'ordine spirituale ai suoi occhi diviene un
terreno viscido, un trabocchetto che porta direttamente nelle regioni
della infamia sociale e politica.
Ciò che vale per il soldato, vale, in termini assai meno espliciti (e
anzi ammantati di "diritti umani", ma sostanzialmente non diversi), per
il miles della produzione industriale, operaio, impiegato, quadro,
inserito nelle file dell'azienda. Anche questa commina infamia sociale
sotto forma di espulsione dal mondo del lavoro e di disoccupazione.
Al suddito è democraticamente lecito conservare per sé stesso una
frazione più o meno cospicua del proprio essere. Nel corso di un lungo
processo storico, il suddito è stato in grado di porre precisi limiti
all'entità della punizione: almeno dopo la caduta dei regimi
assolutistici, la sua eventuale rivolta all'ordine costituito, per quanto
considerata illegittima, non comporta però misure punitive tali da
togliergli una volta per tutte la voglia di riprovarcisi. Il suddito
“umanizza” — o ci si prova — la pena, vuole renderla ragionevole,
aspira a una proporzione tra atto criminale e punizione.
L'antico sovrano non glielo avrebbe permesso, tutto teso com'era
— una sua fondamentale prerogativa - a esercitare la giustizia come
arbitrio, senza proporzione tra delitto e pena, unica intervenendo, a
mitigarla, la clemenza dettata da simpatia, capriccio, ragioni di stato,
estranee alla validità universale della legge. Il mobilitato militare,
anche nelle odierne società, torna ad accettare questa condizione, alla
quale il suddito moderno ormai si rassegna solo in casi eccezionali,
indottovi soprattutto da istanze populistiche. Il soldato non oppone
invece resistenza; se lo fa, è un “lavativo” o, peggio, un disertore, un
traditore. Non discute la punizione: il tribunale militare non fa processi,
ma prende decisioni. Non ha più nulla di suo: le idee, i pochi effetti
personali, i panni che ha indosso, gli sono conferiti dall'altoparlante e
dalla fureria. L'inquadrato militare non discute: la discussione viola il
regolamento; non ha iniziative: ne andrebbe della disciplina.
L'inquadrato non conserva più, per sé, alcuna frazione del suo essere:
o meglio, fa di tutto per sbarazzarsene, si obbliga a mettere il bavaglio
al proprio io. Il suo è, nel senso di Heidegger (pure da questi rifiutato),
«essere-per-la-morte» {Sein zum Todé).
BUCHKNWALD, UN MODELLO
Vi era un'incredibile, illogica, assurda civetteria della sofferenza.
I segni d'ignominia erano trasformati in una sorta di lurido trionfo. Era
con orgoglio che colui il quale aveva subito la punizione ti mostrava
sui glutei le orme azzurrastre del nerbo di bue, non diversamente dal
mendico mutilato che ti agita sott'occhio il suo moncherino: era la
rappresentazione della propria miseria, la lode e la proclamazione della
propria sofferenza. Era un dire ai carnefici: “ecco, vedete come mi
avete ridotto!”. Il rischio cui era sottoposto chi si desse a questa
pantomima, conferiva d'altra parte alla sofferenza colore di
volontarietà: il tormento veniva aumentato, portato perfino oltre i limiti
previsti dai regolamenti; e il guardiano non riusciva a impedire questo
spostamento in una zona per così dire negativa rispetto all'equilibrio
ideale, all'assoluta obbedienza delle disposizioni disciplinari.
Non penso che i “carnefici” fossero agenti di un metafisico
“Male”. Erano dei mobilitati, militari ai quali era ovviamente fatto
obbligo della ferocia e dell'implacabilità. E il mobilitato potrebbe
sottrarvisi?
Non è che il detenuto di Buchenwald - continuiamo con l'esempio
— non tema la punizione; non è che ricavi piacere dalla sofferenza: è
che questa è divenuta, paradossalmente, il mezzo della sua vittoria. Lo
spettatore, presente o lontano, reale o fantasticato, di questo mondo o
dell'altro, è invitato a toccare con mano il fallimento, la miseria, la
debolezza, l’inferiorità della vittima. Questa è un tremulo essere che a
stento si regge in piedi, è priva di coraggio, esangue, inetta al lavoro,
stupefatta, preda al panico: è un nulla. Il suo atteggiamento è
paradossale: se evitasse di aggrapparsi piangendo ai piedi dell'SS, non
appena questi le si avvicina, l'SS forse non si accanirebbe su di essa, ci
sarebbe una probabilità di cavarsela; ma si direbbe che proprio a questo
la vittima intenda rinunciare, che il suo intento sia di bruciarsi i ponti
alle spalle, di penetrare definitivamente nel regno dell'assoluta
sofferenza. Egli è una sorta di Tersite che, anziché col lazzo e la
derisione, provoca l'ira degli eroi in divisa nera col masochistico
sfoggio della sua negatività.
Quando l'SS penetrava in un ghetto o metteva piede nella baracca
di un campo di concentramento, sapeva che poteva essere accolto al
suo solo apparire da lugubri grida, da un coro di ululati, da bocche
belanti e occhi sbarrati in un terrore che in parte era così evidentemente
recitato, da costituire una provocazione. Accadeva allora che fosse l'SS
a sentirsi insultato e mortificato, e che egli si affannasse a picchiare le
sue vittime, strillando, quasi singhiozzando: «Per causa vostra, ebrei
maledetti e impestati, per causa vostra ho perduto tre anni della mia
vita, già da tre anni noi soffriamo qui, cani che non siete altro!» (Diario
di Abramo Lewìn, compilato a Varsavia, 1943).
Il meccanismo del sadismo che era stato messo in moto era — ed
è tuttora — tale, per cui le vittime forzano i carnefici a tormentarle. Da
un lato sta l'impossibilità, per la vittima, di comportarsi altrimenti;
dall'altro, l'impossibilità del carnefice di resistere alla provocazione.
Chiamiamo questo rapporto col suo nome: è il rapporto tra sadismo e
masochismo nelle loro forme sociali, l'uno indispensabile alla
manifestazione dell'altro. Il masochismo non può rinunciare alla
platealità: ha bisogno, per attuarsi, della presenza altrui, che può essere
il suo vicino, il foro interiore, Dio. Come il masochista sessuale espone
il proprio deretano alla agognata punizione inflittagli da una prostituta,
cosi il masochista sociale sfoggia la propria nudità psichica.
Ancora Buchenwald (ma vale per ogni campo di concentramento,
per ogni gulag, per ogni Guantànamo).
Anziché lasciare la scelta al carnefice, la vittima gli si offre; ciò
che essa teme è provocato intenzionalmente; più che l'atto di violenza,
è l'ansia e l'attesa che lo precede ad essere oggetto di paura. In tal modo,
la passività viene trasformata in una paradossale attività, la minaccia
futura diviene alcunché di presente; così l'atto è fatto mio, sono io a
comandare i gesti del carnefice, io sono la sua mano, io i suoi occhi, io
i suoi muscoli. Così facendo, ancora, io domino l'ignoto, cesso di essere
alla mercé di avvenimenti, di forze più possenti di me. Sono io a
stabilire il ritmo con cui gli avvenimenti si susseguiranno, anziché
essere abbandonato a un ritmo estraneo e sconosciuto. E così che io
trionfo: non cerco, io ebreo, io prigioniero, io sospetto talebano, la
sofferenza — tento anzi di diminuire la sofferenza, di dominarla e
imbrigliarla facendola scoccare al mio comando. Allo stesso modo, il
masochista sessuale si libera dalle inibizioni, dal senso di colpa che gli
viene dalla trasgressione che è ogni atto sessuale in quanto tentativo di
uscire dai limiti individuali, di confondersi e degradarsi — o sublimarsi
— facendosi infliggere in partenza la punizione, l'umiliazione: la
prostituta lo colpirà sulle natiche ed egli pertanto avrà, simbolicamente
e concretamente, la punizione “alle spalle”, e si vedrà spalancato
davanti, di diritto e di fatto, il mondo del godimento.
Il movimento del potere è sempre lo stesso: un contesto che
comporta casi limite, come questi or ora citati, ma la cui struttura di
fondo resta pur sempre la stessa. Con la massima facilità — e lo si è
detto più volte — il timido impiegato si trasforma in obbediente
carnefice.
Nel Neolitico, inteso come visione unitaria (invenzione dello
stanziamento, dell'agricoltura, del potere, della religione) al di là delle
variazioni temporali e spaziali sul tema, le singole manifestazioni
rispondono sempre a un comune denominatore. Al tempo concepito
come rettilineo, quale successione di momenti verso una finalità
inizialmente non espressa, corrisponde quella che in un altro paragrafo
ho chiamato “quadratità”, cioè una spazialità definita da pareti
uniformi, in fuga dalla circolarità e dalla paratassi. L'itinerante non
aveva bisogno di specifiche designazioni orientative, non doveva
definire specificamente luoghi e momenti (Stonehenge e i cerchi di
pietre fitte di Carnac compaiono migliaia di anni dopo l'esordio del
Neolitico), indispensabili invece allo stanziale per il quale numero e
geometria sono i presupposti per la comprensione del reale e
l'orientamento nel mondo.
La nuova mentalità del Neolitico comporta, tra l'altro, un atteg-
giamento inedito verso l'uccisione degli animali. Nasce la caccia come
esercizio fine a se stesso, atteggiamento che ha tuttora corso (caccia
alla volpe, istituzione di riserve come proprietà ed esclusione, cattura
di animali usati come ornamento e conferma del potere).

E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza,


e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, su tutte le bestie selvatiche
e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Genesi, 1,26).
Il suddito è cieco. Si può negare fa-logicità della parola; si può
affermare che il mito è l'espressione (ingenua) di concretezze. In tal
modo, si fa nascere la parola dal bisogno, mentre è il bisogno che nasce
dalla parola: è impossibile individuare nell'uomo istinti, cioè modalità
di soddisfazione di bisogni, che non siano rivestiti, replicati,
interpretati, dalla cultura. La parola dice i nostri bisogni, e solo allora
li fa esistere. Ma si può tentare il rovesciamento. Proclamare, ad
esempio, che è il re o il sacerdote a fare sbocciare le parole, a istituire
il mondo. In tal modo, si privano i sudditi della loro sapienza: questa
diviene retaggio esclusivo della classe egemone. I sudditi sono indotti
a dimenticare ciò che in loro “appare”: divengono ciechi, insensibili ai
sogni, sordi e muti. Soltanto il re o il sacerdote hanno diritto di sognare:
soltanto il loro sogno rivela e significa. Soltanto essi hanno un'anima;
soltanto chi sta dalla loro parte ne acquista una; soltanto i loro fedeli
possono aspirare alla salvezza eterna. Agli altri toccherà in sorte un
mondo incolore, senza immagini, senza visioni beatificanti: il nero, il
buio, lo Sheol.
A tale scopo, bisogna che i mille miti, i mille sogni di ognuno,
siano convogliati in un mito solo, e che questo sia accuratamente
codificato. Indagare sulla “struttura” dei miti è altrettanto vano che
indagare sulle strutture profonde della lingua: si può però individuarne
grammatica e sintassi, le quali non sono la fonte della lingua. Al pari
della cultura tutta quanta, sono l'incanalamento della lingua, la
traduzione degli “eterni” del sogno, un'interpretazione alla quale tende
a sottrarsi il nonsenso. Il potere si impone a livello sintattico-
grammaticale: re e sacerdoti proclamano di possedere le “chiavi”.
Devono, ovviamente, comprovarlo (ma già quest'affermazione,
apodittica, è sconvolgente, stupefacente: basterebbe di per sé, almeno
in un primo momento, a raccogliere attorno a loro le “turbe”). Diverse
sono le modalità, dagli atti magici alla forza. Una prima persuasione si
trasforma così in esercito. Chi possiede le “chiavi”, possiede il mondo:
lo dice a suo piacimento, è il signore della parola, l'incarnazione del
verbo. Possesso, tuttavia, insicuro: di continuo bisogna riproclamarlo,
riaffermarlo. La conquista non si ferma mai: la sottomissione
costituisce la riprova che il mondo è quale è stato detto dal sovrano. E
per questo che regni e imperi sono obbligati ad aggredire e assoggettare
territori altrui, per comprovare che il mondo è davvero quale essi
dicono.
Il mito organizzato, la sintassi e la grammatica del mito, ha nome
religione, che è sinonimo di potere. Nella fase dell'organizzazione del
mito, se ne staccano sottoprodotti, leggende, saghe, fiabe, che
conservano la tendenza all'infinita proliferazione degli “eterni” del
sogno: la loro raccolta e sistematizzazione, la civilizzazione di queste
espressioni, di queste sacche “dialettali”, è un lungo, faticoso processo.
Occorre che favole e saghe divengano vere, cioè che trovino
l'equivalente nei gesta regum. Occorre che gli eterni del sogno
divengano personaggi in carne e ossa, dèi esattamente connotati e
connotabili, e anzi che, come il complesso delle “invenzioni
fantastiche” si inserisce nel solco dell'unico mito, cosi gli dèi si
sottomettano a una gerarchia: un dio supremo, spesso unico, comanda
i suoi dèi-sudditi. Sovente l'unico dio è trans-divino: il Fato dei Greci,
per esempio.
Chiamo questo processo millenarizzazione: gli eterni del sogno si
calano nel millennio, nel secolo. Inaugurano (i sovrani inaugurano),
sortendo dalle regioni in cui «vagavano» — e cioè fondando la città,
un nuovo eone, aprono l'epoca, istituiscono il tempo misurato,
cronologico, la cui esattezza è comprovata mediante gli eventi naturali.
Gli dèi rivendicano il trono. Il dio della tradizione cristiana nasce
in una grotta o mangiatoia o stalla, secondo le versioni: particolare che
di per sé ne rivela il carattere di eroe mitico, di “apparso”. La grotta è
uno dei luoghi deputati delle fanie, di quegli eventi, cioè, che ripetono
il presunto processo cosmogonico. Né diverso è il caso della
mangiatoia o della stalla, luoghi “alimentari”, grembi nutrizi. Nato
nella mangiatoia, tra il fieno, il Phanes-Cristo è terrae filius, e in
Romania ancora oggi il bastardo - il “figlio di nessuno”, e dunque di
una “madre immediata” (quella che vede vicino a sé) ma anche di un
“ignoto”, di un lontano — è detto “figlio di fiori”.
Il potere sazia le turbe. Non appena l'“esplosione” avvenga, il
processo di cristallizzazione del mito-tabù subisce una rapidissima
accelerazione. Il mito-tabù si “incarna” nella società. Il mito-tabù è del
resto sempre carne, ultima istanza alla quale possiamo ridurci, ultimo
veicolo, estrema soglia. La carne è l'equivalente della parola; la carne
“incarna” (non è un gioco di parole) il mito-tabù. L'animale, fonte
alimentare del cacciatore, è appunto carne; ne consegue che i mitemi
preistorici si articolano attorno al perno costituito dall'animale, porta
ospitata in immagine dentro quella porta, quell'accesso, che è la grotta.
La contemplazione dell'animale è contemplazione del possibile;
uccidere l'animale significa chiudere l'accesso, sbarrare la porta. Per
riaprirla, occorre ottenere il “perdono”, non già dell'animale, ma della
carne; occorre pagare un “tributo” all'Alterità, imporsi una perdita,
gettare al di là (sprecare) qualcosa di utile, negarne il carattere appunto
utilitaristico. Bisogna, come i Sioux, andare a caccia muniti di statuine
o altre immagini che venivano deposte sul corpo dell'animale ucciso,
che in tal modo diventava “altare”; un po' di “erba buona” (tabacco, un
vegetale allucinogeno) era sparsa al vento o bruciata. L'anima”
dell'animale, cioè la carne, veniva così placata, l'accesso, il poros,
tornava pervio.
Il potere moderno si fonda sull'affermata negazione del mito-
tabù, sulla sua sostituzione - che si fa credere totale e definitiva - con
la norma- proibizione. Per i regimi moderni è indispensabile che il mito
non esista. Al suo posto, trionfano la Scienza, il Sapere - gli strumenti
di dominio dello spirito occidentale.
Il modo di essere meccanico è il più imbecille e crudele finora
proposto ai (e accettato dai) sudditi: e per modo d'essere meccanico
intendo non solo il produrre tecnologico, ma anche il guardare
(televisione), il percepire il mondo tramite intermediari (Baedeker,
atlanti, scritture...), il congiungersi carnalmente (in nome della
produttività ancora in un passato recentissimo, e oggi della riduzione
dell'erotismo a “funzione ”), il delegare ogni nostra scelta a specialisti,
a “meccanici” (medici, psichiatri, professionisti dell'angoscia, ecc). Gli
schiavi del mondo meccanico (quasi tutti, eccezion fatta forse per i
potenti e, in misura più o meno velleitaria e anch'essa alienata, per
emarginati, ribelli, freaks, folli, artisti, drogati, ratés e simile “genia”),
tali sono non perché calpestati dal capitalismo o dallo
pseudosocialismo o da residui feudali, ma perché vivono, lavorano, si
divertono, producono, mangiano, defecano, guerreggiano, ammazzano
e si ammazzano, copulano, in maniera meccanica.
L'estrema astuzia del potere consiste nell'introiettarsi: e gli schiavi
meccanici si suppongono liberi, difesi, sicuri, indipendenti -
sindacalizzati, in grado di decidere del proprio destino, cioè di
aumentare e organizzare meglio la produttività. E, quanto più ci si
invischia nelle reti del potere, quanto più cioè ci si “libera” (dalla fatica,
con l'idiota moltiplicazione delle macchine idiote), e meno liberi si è.
Più si ha, meno si è: nozione, come è facile constatare, nota al mistico
medievale (a un Maestro Eckhart), assai più confusamente allo
psicoanalista in semi-rottura di bando (Fromm) ma, prima ancora, ai
filosofi antichi che voltavano le spalle alla filosofia come gnoseologia
(gli Stoici); probabilmente, nota dacché esiste il potere. Riteniamo,
d'altronde, che tutti lo “sappiano”. Ma ammetterlo, in primo luogo con
se stessi, significherebbe mollare la zattera del potere. E chi sa più
nuotare? Chi è disposto a riconoscere che qualsiasi “selvaggio” è
infinitamente più libero di ciascuno di noi? Chi è disposto ad
abbandonare il “mondo”, a rinunciare alla Meccanica, a tornare alla
caverna? Al deserto? Alla steppa? Alla canoa? Alla caccia al bisonte?
Erich Fromm, Il mondo di Sigmund Freud, Milano, 1962.
La conquista non si limita allo spazio, ma investe anche il tempo.
In un primo momento, nell'ambito della città stessa resta traccia di
questa “storia”. Così a Uargla, in Mesopotamia, i quartieri
corrispondono ai diversi, successivi sviluppi della cosmogonia,
dall'Idea alla Creazione, dallo Scambio al Verbo. Le mura chiudono la
città-rappresentazione del (nuovo) mondo in un cerchio di sacrifici e
riti, tracciati sul suolo come un'invocazione ai celesti. Le porte,
spalancate sull'ignoto esterno, hanno nomi simbolici protettori; gli
uomini che Le custodiscono sanno che la loro vigilanza sarebbe vana,
non fosse per la presenza di portinai invisibili, coloro i cui giovani corpi
sacrificati sono stati mischiati con l'argilla fresca dei mattoni, sepolti
sotto le pietre di fondazione. Tutte le città sono state costruite, a partire
almeno dal terzo millennio a.C., con l'intento esplicito, dichiarato nelle
iscrizioni, di fissare il tempo nello spazio, strutturando le mura e
persino la pianta degli edifici in modo da radicarli nell'eternità.
Oggetto della conquista allora non è più il mondo barbarico, ormai
domato, ma lo sono quasi esclusivamente le altre città, gli altri imperi.
Il tempo non è più uno stagno immobile; i sovrani non ripetono più,
tradotti nei riti urbani, gli arcani dei cicli eterni, fatali. La città non è
più soltanto l'espressione topografica della cosmogonia, ma risponde a
una rigida gerarchia: ogni città ha ora un ruolo preciso nella
cosmogonia, non ne è più il riflesso passivo, ma un membro attivo,
partecipe: la cosmogonia si realizza attraverso la città, gli dèi hanno
bisogno degli uomini. Il tempo si snoda, si scioglie dai lacci del
labirinto che lo costringono a girare su sé stesso: si proietta in avanti,
verso un fine di cui la città è il veicolo. La religione cittadina cessa di
essere la replica di quella agricola arcaica o, più in là, della preistorica
(neolitica). Gli dèi si urbanizzano; i Grandi Ritorni, se avvengono,
hanno come perno le Gerusalemme terrene; i profeti, trombe
annunciatrici della Rinascita, si trasferiscono in città e si scagliano
contro Ninive e Babilonia. Il sovrano non è più signore unico: ha
attorno a sé, non solo una corte, una costellazione, ma classi capaci di
contestarlo, sulle quali non esercita più un potere dispotico, ma che lo
condizionano. Il potere cresce su se stesso e si diffonde come i cerchi
nell'acqua di uno stagno, sempre più remoti dal centro.
Il potere (e il sacro) vanno in città. A partire dal 2500 a.C. circa,
quando ormai, almeno in ambito mediterraneo, esiste un diffuso tessuto
urbano (non più assediato dai “selvaggi”, minacciato dai nomadi, ma
che anzi li assedia, li richiama con i traffici, li stanzia a viva forza),
compaiono città di tipo nuovo. Il loro esordio corrisponde a una riforma
del pantheon primitivo. Così Marduk, protettore di Babilonia, la nuova
capitale, diviene signore degli dèi e demiurgo, successore dei re mitici,
erede dei cicli passati; Marduk impone il proprio nome, cancellando il
loro, ai protettori invisibili delle città sottomesse. I molti dèi tendono a
confederarsi, a eleggere un signore degli dèi, e poi a confluire in un dio
unico, più “razionale” e compatibile, in quanto astratto, con la
meditazione filosofica.
La prima città mesopotamica, nel disegno della cosmogonia - un
disegno che adesso è teleologico, che obbedisce a un'inarrestabile
progressio ad — era stata Eridu, residenza del dio-pesce Ea, il maestro
delle scienze e delle tecniche di lavorazione dei materiali, da lui
rivelate all'uomo. Era un'epoca in cui la regalità “passava” ancora,
fatalmente, da una città all'altra, le dinastie si riconoscevano
provvisorie, le capitali si sostituivano l'una all'altra, secondo il decreto
imperscrutabile dei cicli cosmici, dei Grandi Anni, intervallati da
catastrofi come il Diluvio; e ogni volta la regalità ridiscendeva dal
cielo, si posava in un nuovo luogo eletto: Kish, Erech, Nippur, Ur.
La durata del regno dei sovrani è divenuta via via minore: se
Ubardudu re di Shuruppak aveva regnato ottomilaseicento anni,
Mesannepada re di Ur occupa il trono solo per ottant'anni, ed è seguito
da quattro sovrani che in totale regnano per soli centosettantasette anni:
il racconto mitologico, come si vede, cede via via il passo alla storia,
la durata delle dominazioni confluisce con la durata “reale”. Da Ur la
sovranità passa ad Awan, poi è la volta di Erech con il regno di
Gilgamesh nella cui saga mito e storia si confondono ormai
indissolubilmente. Il periodo “arcaico”, protostorico, è inteso, dai
cronisti coevi, dagli autori di “storie” regali o sacre, come un grande e
definitivo rito di passaggio, una porta varcata per sempre: al di Là si
può ancora tomare, certo, ma il richiamo di Itaca è ormai imperioso. Il
concetto di “patria” si è capovolto: se quella vera era collocata, prima,
nel Grande Tempo, fuori dello spazio, ora si colloca nel tempo e nello
spazio, e sempre più a fatica i sacerdoti richiamano l'attenzione sulla
patria celeste.
Ormai è pronto lo scenario per la nuova rivelazione, quella del dio
unico e astratto, il dio-concetto (del Bene). È significativo che l'idea
dell'Eterno, il dio di Abramo al quale si inchinerà Hiram, re di Tiro, il
Dio Unico con cui l'uomo quasi da pari a pari pattuisce l'Alleanza, sia
stata diffusa, in ambito occidentale (e non solo occidentale)
principalmente dai mercanti. Da Ezion a Mileto, da Clazomene a Efeso,
da Cartagine alla penisola arabica, all'Africa (Etiopia), è venuta
lentamente prendendo forma una nuova concezione, “moderna”, del
divino, e insieme una nuova visione del posto dell'uomo nel mondo e
del lavoro produttivo nella sorte umana.
Sono occorsi ovviamente secoli perché questa concezione nuova
si sostituisse ai Baal, agli dèi-bestie di Ninive, al pantheon dei faraoni,
ai trentamila dèi del Basso Impero, ma oggi abbiamo sott'occhio gli
effetti della “vittoria” del Dio Unico e del suo retaggio, il Sapere
occidentale.
Il Dio Unico cancella definitivamente il passato, né viene in terra
per essere a sua volta sostituito da altre divinità. La sua Rivelazione è
definitiva. Egli cancella la divinazione: i magi gli si inchinano, lo
adorano, lo riconoscono, tramite i doni — le offerte —, re, dio,
immortale, insostituibile. La divinazione nella fase proto-storica ha una
funzione di primissimo piano. Il tempo mitico è stato dunque una
prefigurazione del tempo degli uomini; e questi adesso procedono
verso un loro destino, l'attuazione del quale esige la razionalizzazione
del mondo. Si inaugura così l'età della ragione, dei matematici, degli
astronomi, dapprima intenti a calcolare il ritorno dei Grandi Cicli,
nell'epoca in cui il sovrano è ancora rassegnato, in cui sa che il suo
regno sarà travolto da un nuovo Ritorno.
Poi, però, la sua angoscia personale acquista il sopravvento:
perché mai devono, egli o i suoi successori, cedere il trono? No: la
razionalizzazione del tempo, preparata dalla quantificazione, dalla
volontà di misurare e pesare il cosmo, di valutare l'infinito con la scala
dei sensi umani e la loro durata, sembra promettere la possibilità di
influire sui cicli, di regolamentarne il ritorno. Non si sfugge forse, con
la previdenza, alle carestie? La programmazione (canali, granai,
allevamento del bestiame, sfruttamento delle miniere) esclude in parte
almeno l'aspetto distruttivo implicito nel ciclo, lo esorcizza. Misurare
il cosmo significa prevedere inondazioni o siccità, tant'è che lo si
misura con i metri utilizzati per depositi e granai. La base della
numerazione va senza dubbio ricercata nel mito più che nell'ambito di
ipotetiche concretezze, ma ben presto si verifica la rottura con il mito:
l'apparato matematico diviene strumento, e come tale via via
perfezionato. L'astronomia cessa di essere la conferma della fatalità:
diviene previsione positiva; si possono “salvare” i regni, la terra tutta.
La matematica non è più immagine del cosmo: serve alla conquista e
definizione del cosmo.
Il mondo urbano non è più una “caduta”; certo, l'Età dell'oro, il
paradiso da cui l'uomo è stato cacciato era perfetto, vi regnavano la
pace e l’immortalità. Ancora nel Genesi (4,16-18) è Caino, cioè il
“cattivo”, a fondare una città, Enoc; se la divinità “vera” ha dunque
ancora sede nei boschi, nei mari, tra i monti, in fondo ai deserti, ben
presto sarà la città a rivendicare la sacralità, anzi la santità. La città sarà
il luogo dove si giocano le sorti del Bene e del Male: basta, perché
trionfi il primo, che il dio celeste scacci dal trono il dio abusivo, il
sovrano servo di Satana. Le dinastie non intendono più scomparire,
travolte dall'ineluttabilità dei cicli. Anzi, si nega o relega nei santuari
la ciclicità. Il potere abolisce la fatalità: promette, persino, la vittoria
sulla morte.
Più di ogni altra religione antico-classica il cristianesimo è stato,
fin dalle origini, una religione urbana solo secondariamente, e
successivamente, diffusasi-impostasi nelle campagne.
Il cittadino è ormai animato dalla certezza che il meglio “ha da
venire”; il futuro ha preso il posto del passato. Si tratta, ecco tutto, di
prevedere esattamente, e pertanto di dirigere e condizionare il futuro:
prevedere ciò che la fatalità avrebbe in serbo; dirigere e condizionare
il destino per gabbarlo. La sorte dell'uomo è nelle mani dell'uomo o per
lo meno dei suoi rappresentanti, di “coloro che sanno”: ancora
sacerdoti e sovrani, ma ben presto soprattutto astro- logi, astronomi,
agronomi, architetti, scienziati, medici, filosofi, e poi anonime
biblioteche, impersonali depositi di conoscenze. Se la divinità vuole
sopravvivere, dovrà adeguarsi a questa visione profana, semplificarsi,
unificarsi, astrattizzarsi, rendersi remota, concedere il libero arbitrio
all'uomo, starsene alla larga dal mondo, accontentarsi di averlo creato.
L'esclusione del diverso. Il potere non sfugge, come nulla di ciò
che è umano, alla contaminazione del mitico. Recita la sua favola, che
esteriormente consiste nel rivendicare la propria legittimità: ogni
potere che voglia sostituirsi a un altro, ne contesta la legittimità. Ma
che cosa significa legittimità? Significa che il potere contestato ha
perduto la capacità di migliorare le sorti umane, che è lo scopo che
esso, dichiaratamente, sempre si prefigge; che, in altre parole, quel
potere non ha più dalla sua il futuro. Ma questo vuol dire che esso non
possiede più le chiavi dell'inesistente (il futuro non c'è ancora, si crea
a ogni istante); e, come si è visto, nell'ottica del potere il futuro ha preso
il posto dell'Età dell'oro. Insomma, il potere non ha più dalla sua le
valenze mitiche che continuano a essere fondative, ancorché stravolte
e negate. Il nuovo potere è la Promessa, il Grande Ritorno (agli Ideali).
Chiunque intenda sostituire un potere con uri altro potere, contesta la
legittimità del primo, ma la contestazione della legittimità in quanto
tale, come concetto, esclude il rifiuto del potere. Perché questo sia
possibile (perché, voglio dire, in noi sorga e metta radici la negazione
del potere), è necessario seguire una sorta di via iniziatica: procedere,
razionalmente, al controllo delle carte del potere, leggerle criticamente.
L'ideologia è costruita a tavolino: è una fredda razionalizzazione, un
abile artificio. E la ragione, l'intelligenza, hanno il compito di smontare
tale castello di carte. La critica — la «teoria critica» — può servire
esclusivamente a questo; e può servire, a patto di farsi ancella
dell'aldilà cui pretende invece di sovrapporsi e imporsi. Nella lotta
contro il potere non soccorre l'ebbrezza né la follia; non è la festa, la
nemica del potere. Bisogna sapere che cos'è il potere. Il potere è un
gioco, ma per smascherare il baro occorre un altro gioco condotto con
non minore perfidia e con lo stesso autocontrollo. L'antipotere deve
essere altrettanto spietato e lucido del potere. Ma non deve
semplicemente contestarne la legittimità. Deve dichiarare inaccettabile
il potere.
Bisogna, a tale scopo, operare con maniacale minuzia da
topografi; trasformarsi in esploratori che raccolgono indizi con
chiarezza e ordine; togliere, con indefessa pazienza, le bende che
coprono e mascherano la veneranda mummia; soffiar via la polvere, la
cipria onde si è imbellettata per nascondere la propria sostanza mitica.
Ché negare il potere significa riaffermare il mito, o meglio la sua
assenza. Significa richiamarsi a quell'Altrove la cui impossibilità è, a
parole oltre che con l'accumulo di oggetti e la nuda forza, negata dal
potere. Il quale afferma invece di averlo attuato, qui, ora. La
macchinazione contro il potere richiede la sua approfondita
conoscenza. Il potere è una fabbrica da smontare, un complesso sipario
al di là del quale sta un fantasma. Pazienza da meccanici, dunque, che
bisogna imparare, infliggersi, senza mai perdere di vista che si tratta
solo di un espediente, poiché la verità (intesa come opposto della
realtà) sta, appunto, altrove - cioè in nessun luogo.
Dagli anni Sessanta del secolo scorso, si è sentito più volte
ripetere che la follia sarebbe, di per sé, l'avversaria del potere.
Purtroppo, non è così. La follia appartiene a quegli ambiti di diversità
che il potere stesso ha istituito, e in cui ha confinato, oltre alla follia, la
prostituzione e l'osceno, la perversione e le esperienze “marginali”
(droga, delirio, rifiuto puro e semplice del mondo consociato), e quanti
semplicemente riluttano all'integrazione.
Lo stesso accade con la follia, aspirazione all'estasi bloccata,
indirizzata, alienata dalla società mediante i suoi istituti; manicomi,
intesi come “asili” singoli o estesi a interi territori oggi, ieri — in epoca
preilluministica - chiese, frati, repressori di vario genere, esorcismi. 11
folle che, al pari dell'ebbro, vuole recuperare il presente, uscire dal
tempo, da Kronos che si precipita davanti a sé stesso, è così inserito in
canali prescrittivi: la follia, o è “malattia”, e come tale viene “curata”,
o è un'“inferiorità” frutto di scarso interesse per la razionalità oppure
di incapacità ad accedervi.
I mezzi per accedere all'immaginario hanno subito la stessa sorte.
La festa è divenuta monopolio del potere, che ne ha escluso i sudditi,
ammettendoli a suo beneplacito, di tanto in tanto, alla festa organizzata
e controllata, celebrazione, sempre, del potere (festa del sole,
genetliaco di Sua Maestà, carnevale seguito da quaresima-
memento...). Ma, in tal modo, ha chiuso anche sé stesso alla
partecipazione, alla con-fusione. Festa alienata per tutti, insomma. Così
come alienato è, in partenza, il mezzo per procurarsi l'ebbrezza: la
droga, l'alcol, si comprano, hanno un prezzo, sono controllati da
organizzazioni economiche, condizionati dal potere e dalla sua alleata,
la pubblica opinione (ammessi ma deprecati, proibiti ma concessi,
tollerati ma oggetto di indignazione, pubblicizzati ma indicati come
fonte di guai — riducono, per lo meno, l'uomo “in cenere”); le
sensazioni che procurano sono prescritte dalla letteratura scientifica e
d'intrattenimento, e insieme ostacolate, limitate, incanalate negli ambiti
ristretti, circondati dall'occhiuta vigilanza
fatta di riprovazione e punizione, in cui possono aver luogo.
L'ebbrezza è così condannata al sospetto, alla solitudine; ha carattere
catacombale, mutilo, negativo.
Il potere ha istituito il porneion, l'ambito della prostituta/o e della
loro letteratura, della loro subcultura oscena. L'erotismo è rivelazione;
e il potere non poteva non soffocarla. A tale scopo, ha specializzato
l'ambito, istituendo dapprima la prostituzione sacra (sacerdotesse di
Ishtar, eccetera), poi desacralizzando il ghetto così posto in essere. Se
la prostituta sacra vendeva non se stessa, ma la sacralità che
impersonava (già tuttavia divenuta anch'essa un bene, una merce), la
prostituta profana vende se stessa come mera funzione erotica. Si
inserisce nella sfera della mercificazione - ma può farlo perché la sfera
esiste, ed esiste dacché ha luogo il commercio (non il baratto), c La
società borghese moderna non ha fatto che realizzare un'antica
aspirazione della borghesia, comunque la “classe media” di ogni tempo
e luogo: fare di tutto il mondo un unico mercato.
\
I poteri sciamanici sono latenti in tutti: vengono a galla nei
momenti di crisi o tensione (così ad esempio, il cacciatore tunguro che
entra nell'areale della tigre siberiana le “parla”, le espone le sue
pacifiche intenzioni, e la tigre “capisce”: il linguaggio degli anima- , li,
accessibile allo sciamano, lo diviene anche, nel momento del pericolo,
al partecipe della cultura sciamanica); ma il potere fa : oggetto di
disprezzo gli “estatici”, nei confronti dei quali pure, per [ secoli, ha
continuato a provare timore reverenziale - finché, con il suo trionfo
all'epoca dell'illuminismo, si è sentito in grado di non j prenderli più
sul serio, di decretarli malati da isolare. Lo stesso è j accaduto con
l'ambito delle perversioni. Il quale è stato prima istituito, e poi
deprecato. Il “pervertito” è costretto alla sua perversione, come il matto
alla sua follia.
I neoagricoltori, gli stanziali del Neolitico, tracciarono
concretezze, solchi, confini, limiti dei campi; eressero dimore stabili;
imposero alla terra di fornire cibo e metalli. È ben nota la favola
raccontata nel Genesi, primo e fondativo libro della Bibbia, della faida
fra Caino, agricoltore e dunque stanziale, e Abele, pastore e quindi
nomade. Caino, racconta la Bibbia, uccise il fratello Abele. Il
leggendario riflette la lotta, che ancora oggi perdura, tra stanzialità,
trionfatrice ma in qualche modo considerata pur sempre peccaminosa
- l'aratro squarcia il ventre della Madre - e itineranza o nomadismo. È
una lotta che continua tutt'oggi: la società organizzata non ammette che
i Pigmei vivano tranquillamente nella foresta del Flturi, che i Koisan
(boscimani) continuino a cacciare nel deserto del Kalahari e si
abbeverino ai punti d'acqua: la stanzialità non tollera l'idea stessa
dell'itineranza e mal sopporta il nomadismo. Nelle nostre città, assai
difficilmente sono tollerati gli zingari che possono essere considerati
in un certo senso itineranti.
L'oralità cedette il posto alla scrittura. La legge, che si sostituì al
mito- tabù, doveva avere la stessa concretezza dei solchi in cui si
gettava il seme. La legge fu scritta, divennefester Schrift, con l'andar
del tempo si tradusse nei codici di Hamurabi, nelle sequenze di
geroglifici tracciati ovunque in Egitto, soprattutto nelle tombe in modo
da collegare immediatamente sopravvivenza dell'anima e legalità;
divenne, col tempo, le leggi iscritte dall'imperatore indiano Ashoka -
vissuto nel I secolo a.C. - sulle colonne drizzate in tutto l'impero.
La scrittura è tutt'uno con il potere. Ma il potere stesso non sfugge
all'impalpabilità della Parola, al suo non avere un'origine
acchiappabile, imprigionabile. Il potere oscilla esso stesso nel vuoto. E
il potere, che è di natura mitologica, si regge sull'escamotage, sul
tentativo di nascondere il fatto di contenere un nucleo di residuo
indecomponibile, non sintattizzabile, non giustificabile, non
razionalizzabile; il potere vuole negare di essere monopolizzazione del
mito-tabù, due facce di una stessa medaglia; e per rendere invisibile
questo nucleo, inventa gli strumenti della convinzione e del castigo per
i curiosi che vogliono cacciare il naso nel suo segreto.
La scrittura in altre parole è indispensabile al potere. Parlo anzi
di Scrittà, di città e scrittura come un tutt'uno, rispettivamente sede ed
espressione del potere. La città non potrebbe esistere senza la scrittura;
né la scrittura potrebbe aver luogo se non dove sussista la stanzialità,
dove sussista l'ordinamento dello spazio e del tempo, dove anzi spazio
e tempo siano stati inventati. Basta, per convincersene, un'occhiata alle
figurazioni paleolitiche e un confronto con le figurazioni neolitiche.
La scrittura avvolge ormai il mondo. La scrittura è una sequenza
ordinata, sistematica di segni. Ma segni sono anche i meridiani e i i
paralleli che percorrono i globi terracquei e li chiudono in una rete. La
scrittura è codici, strutture scolastiche, istituzioni scientifiche, chiese,
libri sacri, condanne e redenzioni; ma nessuna delle mille e mille
scritture esistenti riesce a chiudere il mondo in una definizione. La
scrittura si rivela così una delle tante versioni della Parola, e di questa
segue la sorte, quella di non potersi riflettere in se stessa, di non potere
essere Parola che si impossessa della Parola: l'incapacità di essere
definitiva, di rivelarsi estrema, insuperabile limite, confine, verità
incontrovertibile. La stessa matematica, che è fatta di segni, muove da
principi indiscutibili solo perché indiscussi. 11 numero, àrithmos in
greco, non corrisponde a concretezze, non è designazione, ma è la
determinazione delle concretezze assiomatiche. Il numero corrisponde
alle sequenze temporali e spaziali, segna, determina e istituisce. È
tempo e spazio, ma non è né può essere un'entità preesistente a tempo
e spazio. Il tentativo compiuto dai pensatori tardoclassici come Plotino,
di far derivare tutto dall' Jno, corrisponde esattamente al progetto di
pervenire a un ori- tine fissa, incontrovertibile, all'assoluto.
Giorno per giorno l'uomo, abbandonato al caso e al rischio, pre-
cariamente vivo in quanto s'afferma di continuo di contro al mondo del
non-essere, alla natura, alla morte, è ossessionato da un'originaria
continuità (presunta, sì, presunta), da un'identità col tutto o per lo meno
con un ermafroditismo che valga ad ancorarlo al mondo dell'essere, cui
l'uomo spera di addivenire definitivamente o per brevi istanti di
ebbrezza, assoluta indifferenza, assenza di desideri e di respiro, estasi,
abbandono alle maree. In quest'aspirazione risiede il segreto
dell'erotismo, immenso regno da sempre avvolto nell'oscurità e per
questo vigilato da occhiuti divieti. Ma nemmeno allora sfuggiamo alla
Parola. Il vuoto mentale? La cessazione del pensiero? Ma sotto l'albero
pipai anche il Buddha dorme e sogna, e il suo sogno è popolato di
parole-dette, di parole-colori, di parole-suoni, di parole-odori. Il
suicida? Fino all'ultimo parla con la corda che lo strangolerà, col veleno
che lo fulminerà, con la pallottola che lo spegnerà. Parla con la Carne
che è racchiusa nella sua carne, inattingibile, e come il samurai che
compie il seppuku aspira per un istante a vederla, a toccarla tramite
spada affilata, finalmente, definitivamente trascendendosi,
proiettandosi al di là della Parola: né mai ci riuscirà. Sottrarsi al tempo:
“sottrarsi”, “al”, “tempo”, sono parole.
RELIGIONE POTERE GUERRA

Impossibile distinguere il momento religioso da quello del potere,


ed entrambi dalla sessualità (ma, come si dice altrove, lo stesso accade
con la guerra). Ogni Nuovo Dio, ogni Natale, dovrà dunque apparire in
carne e ossa: sarà il Phanes, F Apparso. E il potere si affermerà, sul
proscenio della storia - inaugurata dal potere stesso, a sua volta ipostasi
del Neolitico — quale concentrazione della politica-sessualità in una
parte sola del corpo: il capo, che nel simbolo semplificato (menhir,
betilo) è il pene, sta a rappresentare il tutto. Le apocalissi svelano il
potere del dio e del sovrano: li mostrano nudi, liberi dai veli che li
celano abitualmente (le cose sacre vanno ammantate, e la copertura è
ciò che di esse — che sono il Nulla — ' appare al fedele-suddito). Ma
lo svelamento rivela la terribilità del re immagine del dio (o del dio
immagine del re), e comporta dunque distruzione e morte. Il Cristo
muore sulla croce (svela cioè la propria carnalità) e il velo del tempio
si squarcia: «il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle
tre del pomerìggio» (Vangelo di Luca 23,44).
D'altronde, il bambino viene sempre da luoghi sconosciuti,
caverne, zone sotterranee, sorgenti, foreste... La madre si limita a
riceverlo e portarlo, ma il figlio reca in sé il segreto cosmo-biologi- co
inattingibile alla conoscenza: è “carne” ed è “cordone” (e quello
ombelicale ha dunque enorme importanza nelle produzioni
simboliche). Il grembo materno è porta, transito; la nascita è intesa
come rito di passaggio non meno liminare della morte. La madre —
l'utero — quindi non fa che completare o reiterare l'opera della Madre
Terra, Utero e Tomba (alla quale la tomba sta come l'altro all’Alterità).
La greppia è, per così dire, la terra appena sollevata dal suolo: ne
contiene l'immediato prodotto, il figlio (paglia, fieno, erba), e nascere
dalla mangiatoia equivale al parto per terra (humi posino), rituale
reperibile in vastissimi ambiti d'ogni continente.
L'epifania ha luogo soltanto se si accetta di porsi di fronte al
mondo in modo dolce e violento, se si accetta di poter cessare,
immergendosi in una parte del mondo, e attraverso di essa - il fratello
che mi divora - nell'anima di tutto il mondo: il risveglio del Buddha, lo
sguardo che si spinge al di là del velo illusorio e angoscioso
dell'esistenza apparente, è possibile a patto che si cessi dalla posizione
“dirimpetto”, per trapassare alla posizione “interiore” (non alla
conoscenza o all'approfondimento — puramente conoscitivo — del
soggetto, inteso in senso moderno come sostanza o anche soltanto
quale specchio). L'immersione di cui parlo (e mi servo di mere
indicazioni, di semplici accenni, mancando di un linguaggio che non
sia, esso stesso, il frutto dell'arbitraria scissione di res extensa e res
cogitans), equivale a quella tentata dal mistico e attuata da parte del
poeta che abbia raggiunto “1'abbandono” e cali fino alle soglie:
consiste nel farsi l'interno dell'oggetto contemplato.
«E vano lo sforzo di appropriarsi dell'abbandono [Gelassenheit],
dal momento che non e in nostro potere risvegliare in noi stessi
l'abbandono. Non lo si produce: lo si lascia essere».
Martin Heidegger, Gelassenheit, Monaco, 1937.
Il carattere di luogo di transito dell'utero è rivelato dalla nascita
verginale. La divinità ha deposto il proprio seme in una matrice; e,
poiché la terra è assimilata alla madre, ecco che la matrice è
inesauribile, e dunque sempre vergine, incorruttibile, eterna. Si
potrebbe continuare nell'elenco dei caratteri mitici dell'Apparso-Cristo.
Notare, ad esempio, che la sua “sorte” puntualmente ricalca quella di
innumerevoli rampolli di dèi (di innumerevoli uomini nati, vissuti e
morti: i rampolli degli dèi ne sono la sintesi e la proiezione).
Il Phanes-Cristo rivela la morfologia dell'elezione: illuminazione
e visione interiore, mutamento dello stato sensoriale, poteri
extramentali, capacità di estasi, potenza miracolosa, e soprattutto il
carattere di termine: gli dèi del Grande Tempo, dell'Età antecedente la
morte (antecedente la coscienza della morte: il tempo dell'estasi
perenne, paradiso passato o a venire), hanno abbandonato la terra. Essi,
che in ilio tempore vivevano assieme agli uomini, quando sogno e
veglia, vita e morte non si distinguevano, sono ormai saliti in alto (o
discesi in basso): ormai gli dèi sono gli dèi, l'uomo è l'uomo, come
dicono i Fant dell'Africa equatoriale: il tempo cronologico, in cui la
festa è solo un'immagine dell'eterno e il lavoro scandisce la sofferenza,
l'allontana e ne è un'immagine — il tempo che è la coscienza della
nascita e della morte, ha avuto il sopravvento.
Nulla può salvarcene: solo, di tanto in tanto, la catastrofe ce ne
redime (ci ricorda l'Altro Tempo, illud tempus, ci distoglie dalle
concretezze, dall'immediato). Le due forme trascendentali di Kant,
spazio e tempo, non sono universali, bensì storiche, culturali. Kant ha
già commesso l'errore di Freud: ha dilatato al mondo intero la storia
dell'Occidente, dimenticando l'antistoria che anche nell'Occidente è
nascosta nelle viscere della terra, che emerge nella cosiddetta follia,
nell'inaccettabile abnorme. Tentare di capire ■ (descrivere, controllare)
nascita e morte, vuol dire inventare passato, presente, futuro: sforzarsi
di comprenderle per Einsicht, per improvvisa rivelazione, significa
abbandonarsi al perenne presente. Non si può non tentare anche di
capirle; non si può non tentare di spiegarsi il mondo. Ne consegue la
necessità perenne di ripetere — rivivere — la cosmogonia: di rinascere.
Il potente, monarca, presidente o sommo sacerdote che sia,
impersona l'eccesso, lo spreco e il godimento della comunità. Ma in
potenza è il capro espiatorio, redentore di tutti i mali ma colpevole di
tutte le calamità. Sarà dunque esaltato sul patibolo.
Il dio sintesi e proiezione, a intervalli (corrispondenti alle grandi
catastrofi, alle grandi perdite di senso, ai grandi tramonti dei valori, ai
crolli dei regni, alle trasformazioni sociali...) appare, muore, rinasce. A
perseguitarlo e ucciderlo sono le “forze del male”, quelle cioè che, nei
periodi di oblio, si impossessano del cielo, della terra e del sottosuolo.
Potenze o dèi “inferiori”, che gli uomini frequentano quando solo la
routine, il rituale, ricorda loro il sacro, ma nulla di specifico accade,
nessun prodigio li richiama alla profondità. Sono periodi di stasi: gli
stati sono immobili, i sovrani quotidianamente benevoli o crudeli, la
caccia abbondante o scarsa, la terra ferace o povera, ma tutto “dura”;
le “forze del male” sono quelle dell’abitudine.
L'antichità aveva fatto di Priapo un dio. Il Medioevo, non potendo
ancora cancellarlo relegandolo nel mondo ctonico, cominciò a farne
un santo che, in Provenza, si adorava sotto il nome di Saint-Foutin. A
Varailles, le immagini di cera degli organi dei due sessi, dedicate al
santo, erano appese al soffitto della cappella e si muovevano
scontrandosi a ogni alito di vento.
Richiamare a un senso diverso, alla “vera” Alterità, è - nelle
società, le comunità gerarchizzate - il compito dei profeti. Le potenze
che davvero la costituiscono, e che è come se avessero delegato il
dominio a rappresentanti, a governatori i quali se ne sono approfittati,
d'un tratto lo reclamano. D'un tratto si verifica un'Epifania. Ritorna,
dove si sia formata una “religione”, l'Essere Supremo, il Padre
Universale, lo Dzingbe degli Ewe, il Ndyambi
degli Erero, lo Jahvè degli Ebrei. La siccità, la pestilenza, la
carestia, le situazioni limite, insomma, inducono a invocarlo. Ci si
ricorda di lui. E può darsi che l'Essere Supremo realizzi il prodigio, che
si incarni e ristabilisca il proprio dominio. (Nelle società non
completamente gerarchizzate, è lo sciamano che, nei momenti di crisi,
interpreta i bisogni collettivi e cade in estasi, ha una visione clamorosa,
particolarmente rivelatrice.)
Alla base del rapporto tra il cristiano e il Cristo sta la Comunione
dell'ultima Cena: nei Vangeli, il Cristo pronuncia frasi inequivocabili:
«Avendo preso del pane, rese grazie e lo ruppe e lo diede loro dicendo:
“Questo è il mio corpo, il quale è dato per voi...”» (Luca 22,19);
«Prendete, mangiate, questo è il mio corpo... Bevetene tutti, perché
questo è il mio sangue...» (Matteo 26,26- 28). L'invito rivela una
volontà di olocausto che trova precisi paralleli nello stato di estasi,
immerse nel quale le vittime di molti riti cannibalici andavano incontro
alla morte. Il cannibalismo ha avuto, e in certe circostanze (ad esempio,
come segno di estremo odio o amore) ha tuttora diffusione
praticamente universale. Del pari universali erano altre pratiche che
alla nostra coscienza odierna possono apparire orripilanti: il sacrificio
umano, la tortura dei prigionieri, la caccia alle teste, la guerra praticata
come “gioco” oppure al solo scopo di procurarsi uomini, donne o
bambini da sacrificare, come erano soliti fare i Maya del “periodo
classico”. La coscienza orripilata dimentica tuttavia che l'orrore, nella
nostra cultura, è monopolio del potere, il quale ne preserva i sudditi in
pari tempo tuttavia privandoli delle sue delizie, alienandoli alla
violenza. Il potere si è appropriato della violenza, che scatena a suo
piacimento e godimento.
L'ensarcosi, l'avvento del Cristo in carne umana, non poteva non
venire accolta alla lettera dai pittori del Rinascimento, periodo di
riaffermazione della carnalità dopo la lunga parentesi medievale.
Il Cristo venne rappresentato come dotato di attributi virili, per esempio
in croce ma in stato di erezione (simbolo di rinascita) anche se a volte
celata da un panneggio sventolante; o, ancora infante, “stuzzicato” da
Maria, Giuseppe e una o più sante, appunto allo scopo di provocare
l'erezione, evento notoriamente presente nei bambini, e constatare così
la totale umanazione.
«Nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce di nuovo»
[Giovanni 2,3-4 e 3,3).
E siccome dio è il sovrano, e il sovrano è dio, deve rinascere da se
stesso, figlio di madre che è figlia di lui stesso che è Dio («Vergine
Madre, figlia di tuo figlio», Paradiso, XXXIII, 1), e l'erede al trono
sarà legittimo figlio del sovrano, non di rado (Egitto faraonico e
moltissime società tribali) frutto del suo congiungimento con la propria
madre o sorella, il sovrano essendo “immune” dal tabù.
Se il dio-potere è carne, il sanctum sanctorum in cui si compie il
connubio tra il sovrano terreno e il sovrano celeste non può che essere
una camera nuziale. Il faraone Amenofis IV, marito di Nefertiti, il
quale assunse il nome di Ekhnaton e tentò di introdurre in Egitto il culto
di un unico dio, Aton, il Sole occidentale (Amon, padre degli uomini,
era il Sole orientale), venne raffigurato gravido, quale maschio
femminilizzato la cui luce era “per tutte le etnie”: gravidanza frutto del
suo congiungimento con il dio monocrate nella cella sacramentale e
segretissima (che nulla contiene di concreto: l'unione col dio è mistica,
simbolica).
L'esperienza cannibalica ha un valore immedesimante: attraverso
l'olocausto della mia vita alla vita altrui, nella consapevolezza che la
vita altrui può esser data in olocausto alla mia, mi con-fondo con la vita
totale che tutti fa essere. Di più: ascendo o discendo al di là della vita,
mi tuffo nell'oceano della proliferazione incontrollata, da cui gli artifici
della coscienza illusoriamente e provvisoriamente mi isolano.
È per questo che il cannibalismo è ammesso, dalla coscienza
antropologica, solo nelle società “primitive” e che uno dei primi decreti
dei poteri costituiti nell'ambito delle società gerarchiche consiste
nell'abolizione del cannibalismo: cessa così la reciprocità assoluta,
totale, incondizionata, ha fine la vicendevole disponibilità del proprio
corpo, del proprio essere-cibo, e interviene la dicotomia del divoratore
che non è divorato e del divorato che non è autorizzato a farsi
divoratore. Aggiungiamo un'altra considerazione: coerente con quella
tra reciprocità e gerarchia, è la differenza tra guerriero e soldato. Il
soldato è un “autorizzato”. La chiave di volta della mobilitazione
militare è il gioco, tessuto per millenni da regolamenti militari, del
rapporto tra masochista e sadico. La Patria, cioè i tanti Io che la
compongono o si illudono di comporla, è minacciata. Sono stato
aggredito: posso farmi aggressore; sono stato vittima: posso iscrivermi
(marginalmente, nei confronti del nemico esterno, e a patto di
dimenticare che il nemico più implacabile è quello interno, il potere
che mi sovrasta) al rango dei carnefici.
«I Lacandon (Lacandones e Chol Cholos), da che gli Spagnoli
hanno impedito loro di divorare uomini, mangiano grandi scimmie cui
hanno dato il nome di “piccoli uomini del bosco”».
Richard Andrée, Die Anthropophagie, Lipsia, 1887.
Compiere l'atto del cannibale e del guerriero significa dunque
abolire lo spazio che separa me, divorato, ucciso, dall'altro vivente, il
divoratore, l'uccisore, che mi sta davanti come negazione del mio io,
rifiuto dei miei limiti, e quindi accettare di farmi quell'altro essere e
tutti gli esseri, non più immagine esteriore e corpo delimitato, muscoli,
ossa, nervi, sangue, quale io lo vedo con i sensi individuali destinati a
spegnersi e sparire, ma nell'intimo della sua stessa tensione vitale, del
brulichio che lo possiede, dell'esuberanza che ne trascende la persona,
vale a dire come “anima”. È per questo che, io guerriero, non odio né
amo il mio avversario: il duello, lo scontro dei guerrieri, è una danza
seria, cupa, controllata e frenetica, e chi affonda l'arma nella carne
altrui, con l'arma entra in lui, si trasforma in lui, e ha pertanto diritto
alle sue spoglie, è legittimato a divorarne i resti: non come atto d'odio
ma di impossessamento. L'odio è semmai a monte dello scontro fisico,
nel corso del quale l'altro, individuo, si annulla, e anch'io, individuo,
mi annullo. Lo scontro è la dedizione alla violenza.
«I principi mongoli avevano chiesto che il nominato Fuchu Li,
colpevole di assassinio nella persona del principe Ashan Wan, fosse
bruciato vivo, ma l'imperatore trovò questo supplizio troppo crudele e
condannò Fuchu Li alla morte lenta mediante il lengché, cioè il taglio
in cento pezzi, in segno di rispetto». Dal giornale Cheng-Pao, 25 marzo
1905. Il condannato aveva ricevuto un'abbondante dose d'oppio che lo
rendeva estatico e largamente insensibile.
Il cannibalismo si configura — al pari del duello o del lutto, della
caccia o del sacrificio — quale sacra rappresentazione: il sacrificante
vive il dramma della vittima nel momento in cui le toglie l'alterità e la
consegna all'Alterità. Cade così l'illusione del singolo di essere soltanto
quel corpo isolato, escluso dall'incommensurabilità, dal «questo è
quello-questo è nient'altro che quello» (Brhad-Aranyaka Upanishad).
Il sacrificato si fa schiavo, cosa in balia della sterminata vita del
mondo. La Voluttà va cercata in questa possibilità: e la voluttà erotica
ne è solo una rappresentazione. L'umiliazione dell'essere, straziato in
cibo, lo universalizza. La negazione violenta, attraverso la morte, del
singolo come il mortale e il finito delle apparenze fenomeniche e
frammentarie, è la comunione. L'atto cannibalico è dunque efferato.
Visto dal di fuori, offende: giustifica l'intervento di repressori, sovrani,
funzionari coloniali, preti, conquistadores, legiferatoti. I quali sono
costretti anche a reprimere l'altro aspetto sempre concomitante il rito
cannibalico: l'orgia erotica.
Sotto il nome di “divino”, di “sacro” (in chiave postneolitica),
l'uomo intravede una sorta di animazione interna e segreta, un
brulichio, una frenesia, negatrici del mondo costituito da oggetti ben
delimitati. Quel che gli appare è alcunché di contagioso, capace di
trasmettersi come un miasma letale; attingere a questa zona è
pericolosissimo: ciò che fermenta nell'aldilà assume l'aspetto del
favoloso drago pronto a trascinare l'imprudente, per sbranarvelo, nella
sua caverna. La religione si sforza di glorificare l'oggetto sacro, di fare
del principio della rovina l'essenza del potere, la base di tutti i valori,
ma il risultato che cosi si ottiene è principalmente quello di ridurre il
sacro e i suoi effetti a una zona ben definita - quella fausta — e di
instaurare un limite invalicabile tra il sacro e il mondo organizzato dal
lavoro, il mondo profano. L'aspetto violento e deleterio del divino è
manifestato dal rito del sacrificio, che spesso è crudelissimo, appunto
per marcare con totale evidenza il senso della cerimonia, la rivelazione
dell'aldilà.

«Quando il calore ebbe largamente Bruciato e arrostito un lato


Interpellando un giudice dal patibolo Il martire disse con voce tranquilla
e concisa: Volta adesso il mio corpo sull'altro lato; Questo è già
abbastanza bruciato E dev'essere risparmiato».
Clemente Aurelio Prudenzio, Cathemerinon,
«Inno in onore di San Lorenzo», 1400 circa.

Il divino è tutelare solo una volta soddisfatta la sua fame di con-


sunzione e rovina; il sacro ha una duplice polarità, di cui tuttavia quella
negativa rappresenta il principio primo. Il sacro è il mondo della morte,
del disordine; ad esso ci si accosta nell'orgia, nella pletora sessuale che
è fusione con l'altro-da-sé, momentanea rinuncia all'individualità; ad
esso si attinge nell'ebbrezza e nell'estasi, ad esso ci si consegna nel
corso del combattimento, che svela nell'aldiqua la violazione
costitutiva dell'aldilà.
Al suddito, però, l'azione della polarità negativa, infausta, del sacro
veniva, e viene tuttora, in gran parte risparmiata: ad assorbirla, erano e
sono sovrani e sacerdoti, rispettivamente lo spettacolo, la neghittosità,
la possibilità di astrarsi dalla fatica, l'estraniazione al mondo del lavoro;
e il compito di assumersi il carico, e le conseguenze nei riguardi degli
altri raggruppamenti umani, di istituire il colloquio con gli dèi, di
riservarsi la visione dei terrificanti misteri dell'aldilà. Di questi al
suddito-fedele si annuncia la presenza invitandolo a “star contento al
quia”, e a farlo erano i sacerdoti, i sovrani, i guerrieri della tribù, e
tuttora sono grandi personaggi, illustri prelati, filosofi accreditati.
Attraverso la sua obbedienza a sovrani e sacerdoti, mediante la
partecipazione a scorrerie, massacri e simili rituali cruenti (caccia alle
teste, atti di cannibalismo, ecc), placando gli dèi col sacrificio, il
suddito pagava, e metaforicamente ancora paga, il suo scotto alla
divinità. Per tutto il resto, questa — egli sperava e spera - l'avrebbe
risparmiato, non avrebbe avanzato altre pretese nei suoi confronti.
«In verità, ce un regno nel quale non esiste né solido né fluido, né
calore né moto, né questo né alcun altro mondo, né sole né luna... Se
non ci fosse questo Non-nato, Nonoriginato, Noncreato, Nonformato,
sarebbe impossibile evadere dal mondo del nato, dell'originato, del
creato, del formato». Detto attribuito al Buddha, secondo il
Divyadavana tibetano.
Il cadavere è il simbolo della morte, dalla quale siamo costretti a
trovare scampo: almeno il nostro corpo, indefinibile ma presente e
greve, vuole a ogni costo vivere. La morte è spesso intesa come un
contagio che parta dal cadavere in decomposizione; o, per lo meno, la
decomposizione sembra racchiudere il segreto della morte, i suoi
liquami paiono promettere che forse, ad affrontare in qualche modo il
disgusto, qualcosa possa rivelarsi. È probabile che a questa prospettiva
o speranza vada ricollegato, più che a ogni altra ipotesi, una delle
ragioni del cannibalismo (endocannibalismo, cioè divoramento del
proprio defunto, ed esocannibalismo, divoramento del nemico) e di
pratiche come quella dei Waramunga, consistente nel precipitarsi sul
morente e mutilarlo in maniera atroce: le pompe della morte, secondo
il celebre aforisma di Francis Bacon, travalicano il fenomeno della
morte; in effetti, si tratta di una “recita” o impersonazione delle
emozioni scatenate dalla morte, e insieme di un atto di ripudio della
stessa, di uno “sfregio” alla morte, di una sorta di vendetta e
rappresaglia per il processo di distruzione della vita, che si è
impadronito del morente invadendolo e diventando tutf uno con lui. La
morte è insomma concepita come un principio attivo, una sorta di entità
feroce, implacabile, all'agguato nel vivo o fuori di lui.
Ciò spiega sia idee come quelle del vampirismo (il morto-morte
che si nutre del vivo), sia la figurazione della morte reperibile in molte
culture (in Occidente di solito, da qualche secolo in qua, con attributi
come la falce).
Oltre che “aggredire” il disgusto, cioè l'alone, l'atmosfera, lo stato
d'animo che nel cadavere sottolinea la morte, si può costringersi ad
affrontarlo impavidamente, con pratiche volte a familiarizzarsi con
esso e quindi, si suppone, con la morte, con l'“anch'io mi ridurrò
dunque così”. I Kwakiutl dell'America nordoccidentale usavano
deporre le salme su una piattaforma elevata e si esponevano al colare
dei liquami. Ma gli atteggiamenti verso la morte, pur rispondendo a un
comune denominatore, sono variabilissimi.
L'associazione degli Hamatsa, diffusa un tempo nelle stesse
regioni americane nordoccidentali, imponeva al novizio di mangiare
carne umana; dopo essere stato afferrato e trascinato dallo spirito di
Alla-Kotla in aria o sottoterra, il novizio si sentiva ordinare da lui di
mordere i presenti nella casa delle danze, pena altrimenti di essere
divorato egli stesso. Sempre presso i Kwakiutl, lo hamatsa veniva
rapito dallo spirito e restava per tre o quattro mesi nei boschi. Al suo
ritorno nel villaggio, assaliva quanti incontrava, strappando loro a
morsi brani di carne dalle braccia e dal petto; a volte portava con sé
dalla foresta la salma di un parente defunto, che proclamava essere «il
cibo ricevuto da Baxbakulana Xiwae», modeLlo e paradigma del
cannibale. Un tempo gli si sacrificavano schiavi, che il posseduto
divorava; sulla roccia, nel luogo dove questo avveniva, si scolpiva il
volto di Baxbakulana. Il posseduto era «reduce dal regno dei morti»,
tant'è che si eccitava e cadeva in estasi sentendo nominare o vedendo
cose inerenti alla morte. Per provocare lo stato di possessione, bastava
spesso che lo hamatsa pensasse concetti come “spirito”, “salma”,
“cranio”, “testa tagliata”, “verme”, “porta aperta” e simili.
«// cannibalismo non è stato monopolio della preistoria: ha
continuato — e continua — a essere praticato da popolazioni stanziali,
almeno di grossi villaggi. Sull'isola di Fiji, in Melanesia, racconta il
navigatore William Mariner (1805-1870), si mangiavano i nemici
vinti, lasciando in vita quelli che si fossero comportati da vigliacchi,
in segno di disprezzo». Ewald Volhard, Il cannibalismo, Torino, 1949.
È diversa la considerazione di cui sono fatti oggetto la parola-
salma e le parole-cose inanimate: ciò che noi chiamiamo “morte” è la
consapevolezza che ne abbiamo, la cessazione, nel defunto, della
parola- fiume e della parola-comunicazione: il prorompere, dentro di
noi, attorno a noi, d'una violenza destinata ad annichilirle. Assistiamo
angosciati, affascinati, a un proliferare insensato e a un insensato perire
di parole- forme vitali, a una successione illimitata di procreazioni
singole, inutilmente spente da una degradazione uniforme, una
dissipazione dalla quale si generano nuove forme in un pullulare
incontenibile, sontuoso e spaventoso. Ci separiamo da quest'eccesso di
violenza, da quest'Alterità rispetto alla quale la violenza umana è una
metafora, sofferenza imposta alla carne, senza che coinvolga la Carne:
ci iscriviamo al mondo profano in antitesi
al mondo sacro, ma pretendiamo, speriamo, ci illudiamo che un
barlume della violenza, del sacro, ci segua a mo' di bagaglio; irresi-
stibilmente attratti dalla sua fosforescenza maligna, ci buttiamo
ciecamente nel gorgo della violenza o elaboriamo vie sistematiche,
rotte in apparenza sicure.
La nostra esistenza oscilla così di continuo tra sacro e profano, fra
l'attrazione per l'immondo, l'indicibile, il nauseante, il terribile, il
tremendum, e il mondo in cui si costruiscono oggetti che sono, in primo
luogo, scongiuri contro il soffio imprevedibile, ora gelido ora
infuocato, che alita da mille spiracoli, da boschi, acque, pozzi, città,
vicoli, angoli bui, stanze, camini, finestre, fogne, lavandini, da noi
stessi e dagli animali, dalle macchine e dal cielo stellato, dai fiori e
dalle tempeste, dalle rupi e dalle acque.
È impossibile, lo si è detto e ripetuto, scindere religione da potere
(oltre che, beninteso, da guerra). Il che significa che è impossibile
astrarre la religione dal discorso, che nel caso specifico si articola in
racconto, cioè cronaca e storia della nascita delle religioni (leggenda
del Buddha come iniziatore del buddismo, di Maometto come artefice
dell'islam, del Cristo incarnato come capostipite della chiesa) e delle
loro successive affermazioni.
Storia, dunque, e quindi letteralismo che nell'accezione religiosa
si configura quale complesso di dogmi.
Storia. Nei testi, viene per lo più concepita come concreta
successione temporale e irreversibile. All'invenzione di questo
concetto hanno largamente contribuito i profeti biblici, secondo i quali
l'irreversione era fermo principio dal momento che il dio unico e
onnipotente aveva messo in moto una volta per tutte la grande
macchina dell'universo-orologio (o clessidra), obbligato a procedere
fino al giorno supremo in cui il Signore fundit secul in favilla, e chi s'è
visto s'è visto, e pagamento col contante dell'anima salvata o dannata.
Anche il passato, non solo il futuro, da allora ci è proposto come
prospettico: macchine via via più piccole e inefficienti a mano a mano
che ci si riaccosta, a ritroso, al punto che, contraddicendo la geometria
euclidea, “c'è stato”, ha avuto una “dimensione”, una concreta
consistenza in quanto si è trattato di un momento preciso,
inconfondibile, dell'evoluzione (un salto giù dall'albero del frugivoro,
la crescita dei canini del carnivoro bipede), e dunque è concretamente
spaziotemporale, ancorché non ancora individuato (storicizzato): un
punto fermo, non relativizzabile né relativizzato, pena la perdita
dell'essenziale promessa. E macchine fin quasi a ridursi a non-
macchine, germi e parvenze di macchine, ma pur sempre macchine.
Macchina persino il propulsore, persino l'amigdala; e macchine per
trasportare i menhir di Carnac e i massi della Sacsahuamàn, gli
obelischi di Luxor e le statue dell'isola di Pasqua. Macchine mobili e
macchine statiche: carri, dunque, e montagne minuziosamente
intagliate per coltivarvi uno scarso mais, uno stento miglio, un riso
precariamente irrigato. Macchine magiche e macchine templi, sontuose
e avare, a vapore e a combustione interna, volanti, mandrini e presse,
computers, secondo una visione in questo caso antientropica, di
eccezione (grazie all'organo macchina che ci siede nel cranio e che ci
porterà al linguaggio universale) rispetto all'entropia. Una visione
rinascimentale, pertanto, tale per cui più la macchina è vicina, nei primi
piani, e più grande dev'essere; più è coeva, e più utile risulta. E una
visione sorretta dallo scherno per le imprecisioni degli arretrati, dei
ritardatari, dei selvaggi, per le assurdità degli antichi aggeggiatoti
ancora all'oscuro del calcolo differenziale e della teoria dei sistemi. La
macchina dunque sarebbe sempre esistita, se non altro come sogno,
aspirazione, tesoro da conquistare, Graal al quale attingere.
La comparsa del figlio del Cielo equivale alla restaurazione di un
dominio. Questo, lo ripetiamo, dove si abbia una religione rivelata,
cioè con divinità “spiegate”, definite, razionalizzate, dotate di
specifiche qualità: “ritratti” del sacro, insomma. E dove, soprattutto,
sia avvenuta o sia in atto la divisione tra Bene e Male, la costituzione
di due schieramenti della sacralità, avversari tra loro. Di norma, gli dèi
“inferiori”, gli usurpatori, appartengono alla schiera del Male, ma il
sovrano-sacerdote, finché è saldo in sella, li proclama il Bene. (È per
questo che i profeti a volte denunciano il potere come diabolico, e
sovente i mistici il mondo — cioè il quaggiù, contrapposto al lassù —
come opera diabolica che l'Avvento distruggerà.)
Nelle fasi intermedie tra i Grandi Eventi, tra i ritorni del Grande
Tempo, il mito-tabù tende a cristallizzarsi, a diventare ripetitivo. È in
questi periodi che il potere ha modo di instaurarsi e rafforzarsi, a patto,
beninteso, che il gruppo sia abbastanza vasto da giustificare ed esigere
la specializzazione produttiva, cioè la direzione e programmazione del
lavoro. Ma appunto per questo è condizione del potere che il gruppo si
dilati o che occupi altri spazi ancora, a giustificazione della sua
esistenza, donde alcuni imperativi come la conquista - la sottomissione
dei “barbari”- l'impulso dato allo sviluppo demografico e la
conseguente persecuzione delle pratiche omoerotiche, come nel caso
degli Incas, e sempre l'obbligo della stanzialità; ne conseguono quindi
l'introduzione del computo o del censimento per assicurarsi che il
numero dei sudditi sia costante e anzi cresca, l'istituzione di caste,
categorie, classi dai confini invalicabili (caste indiane o stratificazioni
occidentali per censo), compartimenti stagni in ognuno dei quali deve
verificarsi la moltiplicazione.
Invincibilità dell'apparso. Accade così che il Grande Evento, ogni
qualvolta si verifica, metta in forse il potere costituito, ne riveli il
carattere di alleato delle “forze del Male”, ragion per cui il potere
costituito, per esempio Erode o la casta sacerdotale, potrà accusare
l'Apparso di volergli togliere il trono, di volersi fare “re dei giudei”. Ne
consegue dunque, per il potere costituito, la necessità di soffocare il
Grande Evento, perseguitando l'Apparso. La vicenda, la fabula che il
potere incarna, esige perentoriamente la persecuzione, equivalente
gerarchico delle difficoltà e necessità del gruppo fattosi società di
tornare alle fonti, di “risorgere”, espressa nei riti di passaggio e nelle
prove dell'iniziazione.
La favola (non il mito!) è dunque prescrittiva al riguardo: il figlio
del Cielo subirà persecuzioni, sarà ricercato dai carnefici o dalle
guardie, verrà tradito, catturato, messo a morte, ma risorgerà. Ora, la
“risurrezione” è già implicita nel suo essere perseguitato e messo a
morte: il fatto stesso che il potere costituito lo teme, ne rivela e
comprova, al di là di ogni dubbio, il carattere epifanico. La favola
ricalca puntualmente il mito, con una differenza sostanziale: il mito è
sempre astante, sempre possibile, il mito si svolge in un assoluto
presente, un Grande Tempo che ha molta maggiore importanza del
tempo cronologico, minore. Nelle società arcaiche, la festa e
l'iniziazione sono i culmini della vita consociata.
La religione è una pianta sorta dalla radice del mito, però
superandolo e negandolo, spesso condannandolo a ridursi a una
dimensione ctonica, esecranda.
E per lo meno assai difficile stabilire un'attendibile correlazione
tra l'immaginata presenza di spiriti e divinità e le complessità di
famiglie, genealogie, attribuzione di funzioni a divinità via via
antropomorffzzate, raggruppate in siti specifici (olimpi, strutture
templari), fatte oggetto di rituali e, soprattutto, di sacrifici. Va
comunque dato atto ai teologi che sono dotati di notevole fantasia
fiabesca.
Nelle società, che sono gerarchiche, a contare è il tempo
cronologico; il Grande Tempo si verifica, sì, ma malgrado il potere
costituito che lo tiene prigioniero nei templi (i sancta sanctorum sono
i luoghi - la stanza segreta di Barbablù — da cui può erompere o
infettare o glorificare chi vi mette piede. E chi lo fa, dev'essere ucciso;
è un pericolo per il potere: ha “visto”, ha “toccato con mano” la
violenza — i cadaveri delle altre mogli di Barbablù). Il Grande Tempo
è sperato, minacciato, agognato, rimpianto dai sudditi, e il potere
costituito fa di tutto per impedirne l'esplosivo avvento. Cerca, in primo
luogo, di avere dalla sua i profeti (la Chiesa ha fatto di tutto, durante il
Medioevo, per inserire e chiudere i mistici profetizzanti, i proclamatori
dell’umiltà, gli annunciatori di nuove Parusìe, i fustigatori delle
“pompe del mondo”, cioè del potere, dentro i confini degli “ordini”,
istituzionalizzandoli e ammutolendoli).
Così si spiega, a mio giudizio, la forza prorompente che ha avuto,
e ha tuttora in varie forme, l'idea-speranza rivoluzionaria moderna. Qui
non ci interessano né la validità scientifica del marxismo né il suo
divenire storico; considero la prima affatto secondaria, e il tentativo di
fondarla una razionalizzazione inevitabile: il marxismo, grazie a essa,
è reso plausibile in un universo in cui appaiono accettabili, in seguito
ai secolari sforzi del potere costituito, soltanto spiegazioni fondate sul
trinomio formulazione dell'ipotesi- convalida-applicazione. Che nel
caso del marxismo il risvolto scientifico sia secondario, e anzi
inaccettabile, è comprovato dal fatto che l'idea-speranza marxista non
è certo scalzata dai fallimenti pratici cui va inevitabilmente incontro a
livello di applicazione.
Quanto fin qui detto, è per far toccare con mano:
a) che non c'è idea “razionale” la quale non sorga da una matrice
“oscura”, e cioè mitica (o, se si preferisce, il mondo non può essere
percepito che sotto specie simbolica e transeunte, dunque angosciosa e
trionfale insieme).
b) che il mito-tabù non può essere in nessun caso tolto di mezzo.
Esso è la condizione stessa del nostro esser-ci.
c) che le sue versioni variano con il variare degli ambiti culturali,
ma sono essenzialmente due: il mito-tabù dell'accettazione e il mito-
tabù del progresso. Questo secondo descrive (e coincide con) le società
gerarchiche, e si presenta nella veste di favola, leggenda e
razionalizzazione-spiegazione.
Torno ora al figlio del Cielo, per far notare come in tutte le
religioni rivelate del mondo si assista alla nascita (rinascita) di dèi o
rampolli di dèi, alla loro persecuzione seguita sovente da morte e
smembramento (Osiride, Dioniso Zagreo), e al trionfo e alla
resurrezione (ma, come abbiamo visto, la sua epifania contiene l'uno e
l'altra: essa è infatti la Rivoluzione che tutto trasforma). Lo schema
nascita-peripezia-trionfo-sparizione (morte, assunzione ad altro stato)
ha carattere ciclico (il Grande Tempo “tornerà”, basta attenderlo,
saperne cogliere i segni), centinaia sono i Saosyant profetizzati dal
mazdeismo. Né potrebbe essere altrimenti, l'evento non verificandosi
nel tempo seriale, numerato e lineare, il tempo della successione
storica, bensì in un Altro Tempo, concepito secondo un affatto diversa
interpretazione della temporalità.
Le vicende degli dèi si collocano, anziché nel «concetto volgare
del tempo» (Heidegger), nella nozione sacrale del tempo, di cui resta
traccia nei calendari, cioè nell'«idea di un tempo, non puramente
quantitativo, bensì qualitativo, composto di parti discontinue,
eterogenee, incessantemente volgentesi su sé stesso». La ciclicità, del
resto, si impone a ogni nostra attuale concezione del mondo; sembra
confermata dagli eventi naturali (che ovviamente non esisterebbero
senza la nostra constatazione e descrizione): ritorno delle stagioni,
volvere delle stelle, costanza delle correnti, delle migrazioni animali,
eccetera.
Marcel Mauss, Alcune forme primitive di classificazione, 1903.
Si impone così l'idea del ciclo cosmico, che si presta a varie
elaborazioni. Per esempio, nell'India postvedica vennero formulate
due dottrine, quella dei cicli (yuga) e quella della trasmigrazione delle
anime (samsara).
Il tempo mitico è l’intelligenza della transitorietà, del “passare”, il
mito è la metaforica aspirazione alla continuità che si “riconosce”
impossibile, ma si “comprende” possibile. A questa “fuggitivi-tà” del
Grande Tempo, le religioni rivelate, e soprattutto il loro culmine e
riassunto mediterraneo, il cristianesimo, contrappongono l'evento
storico della nascita dei redentori: il punto fermo, la certezza, la
concretezza istituzionale. Tutto si può mettere in discussione
dell'edificio cristiano, ogni elemento, ogni rito, ogni dogma: non però
questo fondamento, toccando il quale si minaccia l'intera struttura onto-
teo-logica. (Allo stesso modo, a lungo è stato fatto obbligo di
proclamare il carattere scientifico del marxismo: per chi era armato di
questo strumento, il futuro si spalancava prevedibile.) Il Cristo è
“storico”: le incongruenze dei Vangeli vanno attribuite a imprecisione
storiografica (assenza o scarsità di documenti, incapacità dei cronisti);
il Cristo ha una sua carta d'identità: nato il giorno tale dell'anno tra
l’altro, da genitori con nome, cognome e pedigree, in un luogo ben
definito.
Non si creda però che sia un'eccezione. Qualsiasi società gerar-
chica “storicizza” l'Evento par excellence, quello che l'ha “fondata”.
Così, gli Incas spacciavano la favola che il loro padre, il Sole, un bel
giorno aveva posto in terra due suoi figli, fratello e sorella — marito e
moglie — perché redimessero il mondo dalla barbarie fondando un
regno. Mancando di un computo esatto degli anni, gli Incas erano meno
precisi dei giudeo-cristiani circa la data, ma la sequenza dei loro re, a
cominciare dal primo, il Figlio del Sole Manco Capac, era inderogabile,
rigida, indiscutibile; e per definizione, ogni Inca aveva regnato “fino a
tarda età” per circa trenta-quarant'anni.
Il Cristo topico e i suoi rappresentanti fanno giustizia delle favole
e dei miti (“O tu che ammutolisci i poeti dei miti”, si canta nel bizantino
Inno acàtisto alla Deìpara di Romano il Melode, 525 d.C.). La
religione diviene storica, quindi non c'è più bisogno di
“superstizioni”: tali vengono dichiarate tutte le manifestazioni della
“paganità” primitiva, a cominciare dalle “religioni preistoriche”:
“presenze”, idoli, sacrifìci, atti cannibalici, poroi. La si sostituisce,
nella fase intermedia (protostorica-megalitica), con la divinazione, cioè
con l'organizzazione, l'istituzionalizzazione dello sciamanismo (e la
sua scomparsa). Ma la “superstizione” (l'avvertita presenza del sacro
— ancorché deformata e alienata) è insopprimibile, ed essa viene
assunta in proprio dal potere, accogliendo nel culto (essoterico ed
esoterico) quegli elementi che non sono contraddittori con la teologia
ufficiale, e mettendo decisamente al bando gli altri. Cosi, la Chiesa ha
accolto nel proprio Olimpo santi che erano divinità pagane, ha
assimilato culti pagani, ma ha decisamente respinto, non appena ne ha
avuto la forza, i culti sabbatici, cioè la “superstizione” dei culti della
fecondità (del fallo e della vulva, residuo pagano, cioè delpagus, del
mondo agricolo arcaico).
Di che cosa è portatore il dio ipostatizzatosi una tantum (esclusa
ormai la ciclicità, e dunque la ripetitività, dei Grandi Ritorni) nel figlio
del falegname e della Vergine, il rampollo del cielo? Egli è il veicolo
del Verbo, imposizione di un ordine razionale (Salvezza) al caos (male,
peccato: paganesimo); e insieme, è ambasciatore di violenza (definitiva
condanna del reprobo, cioè del miscredente, del criminale nemico dello
stato — del potere — ovvero della comunità identificatasi con lo stato
terreno o con la sua immagine, lo stato celeste). È un persecutore.
Abitato dalla divinità, sacrifica sé stesso, o meglio il corpo umano,
presunto suddito dell'anima; del resto, è antica norma (gerarchica) che
il padre possa sacrificare il figlio (Abramo e Isacco), il superiore
l'inferiore, il re mandare a morte i sudditi. Il potere è monopolio della
violenza; il potere è armato; il potere ha ai suoi ordini carnefici ed
eserciti. Ora, carnefice, carni- fex, è colui che “fa carne”, che riduce a
cibo per il potere (cannibale in esclusiva) la vittima, e tutti i sudditi
sono vittime più o meno amanti del carnefice in potenza.
Il Cristo moltiplica i pani e i pesci, ed è un'altra caratteristica del
potere: l'agricoltura e l'industria sono fatti della stessa sostanza,
entrambe fondate sulla produzione (piante o macchinari), sulla
previsione (depositi, granai, scorte), sulla programmazione, sulla
moltiplicazione (alimenti, beni; pani e forni da pane, pesci e
peschiere...). Il potere sazia i sudditi; il sovrano-dio o il dio-sovrano
(tornato a reclamare il dominio) è la chiave della fertilità. Egli è il
Creatore, il dio «dai mille testicoli», il «signore dei campi», il «toro
della terra». Ha cento, mille concubine (sovrano) o spose celesti o
«vergini prescelte» a lui riservate. E il «fecondatore»; il sovrano ha
schiere di figli (bastardi, quindi disuguali), è il Padre di tutti (quindi
uguali fatta salva la “schiatta celeste”, angeli, santi, eccetera).
Il Cristo-potere non regna subito: inizialmente “complotta” al
rovesciamento del potere-Male costituito. E ancora disarmato, ma i
suoi fedeli saranno armati e convertiranno con la forza, realizzando la
missione delegata loro dal Cristo. Del resto, il potere-sacralità è sempre
guerriero. Solo se è forte è credibile (nei momenti di crisi, come in
quest'inizio del XXI secolo, si sentono di continuo levarsi voci che
proclamano la necessità che si “governi davvero”; il paese, si lamenta,
è “ingovernabile” o “ingovernato”). Il gioco della guerra è stato
monopolizzato; il mito-tabù sostituito con la norma-proibizione. Il
sovrano, e il potere in generale, essenzialmente vieta, è il proibitore per
antonomasia. Proibisce ciò che gli serve a dimostrare la sua forza,
previa negoziazione con i sudditi per ottenerne il consenso, sempre
strappato dal potere (non da un potere). Conditio sine qua non per la
sussistenza del potere, è che esso perseguiti, metta al bando, escluda. Il
potere propone i possibili ambiti da proibire — bisogna assolutamente
che ce ne siano — e sono quelli coperti da tabù “spontanei” o
“dichiarati” (imposti) su imitazione dei primi (il tabù- dialetto diviene
proibizione-lingua); il gioco esige che i sudditi mugugnino e
protestino, che persino si ribellino, che magari abbattano quel potere
per sostituirlo subito con un altro. Il potere è un idolo. Il sovrano-dio è
un idolo. L'idolatria è un'invenzione del potere, anche se questo
l'attribuisce, come “stupida”, ai “selvaggi”. Si deve adorare qualcosa
di concreto, qualcosa che il sovranodio estrae dall'aldilà e traspone
nell'aldiqua, sia pure null'altro che sé stesso, idolo vivente. Se l'asceta
erede dello sciamano continua a sapere che la persona non ha una realtà
oggettiva, che essa e il mondo sono soltanto immagini, costruzioni
soggettive di un falso immaginare che si ordina, si complica, si svolge
come la trama del karma, e avvolge e trascina l'uomo al punto che
questi continua a credere nella sua esistenza individua mentre è già
ombra; se l'asceta sa che tutto è sogno ed errore, dalle cose che si
vedono a quelle che si immaginano, dalla varietà screziata della natura
alla visione angelicante dei paradisi o alle torture dell'inferno; se non
ignora che gli “dèi”, le “potenze”, le “presenze”, sono soltanto
promemoria, appunti, punti di riferimento nel “viaggio dell'anima” (e
per esempio nel già citato Libro dei morti tibetano lo si dice a chiare
lettere), il potere pretende invece che si tratti di concretezze.
Gli idoli devono quindi essere realtà: non simboli come la caduca
carne, come gli ossami, ma una capitale che sia l'asse dell'universo,
idolo per eccellenza, riassunto di tutti i santuari; una corte, magnifica,
sontuosa, splendida come il cielo, il cui modello sia l'universo intero
con la sua bellezza e grandiosità; e la corte sarà in effetti l'impero tutto
quanto, perché nell'impero essa si diramerà con strade a raggiera, case
reali, ville di delizia, castelli, fortezze. Il sovrano-dio è una
concretezza: lo si adora.
Ma è concreto anche il dio-sovrano, con una fisionomia sulla
quale si accaniranno gli esegeti e gli illustratori (la Sacra Sindone).
Anche il dio- sovrano conquista e perseguita. Nel caso del Cristo, il suo
nemico è Satana, con la corte dei governatori, sacerdoti, finti interpreti
della divinità; gli usurpatori, il dio falso, il Male. Il Cristo inaugura il
nuovo regno della discriminazione, della lotta per il potere. Ma Satana
è il residuo implacabile, irriducibile; e in fin dei conti, il sacrificio
supremo e conclusivo è un'eco di altri tempi, anzi del Tempo, l'ombra
degli dèi ctonii eredi della scissione operatasi nella figura del dio del
giudaismo, che comandava ai figli di Noè di «mettere timore sacro e
spavento... su tutto quel che si muove e vive», che puniva Saul perché
non tutto era stato distrutto nella terra degli Amalechiti: che più tardi
(post-esilio) aveva tenuto pacati conversari con Satana e se ne era
lasciato persuadere a tentare (atto diabolico!) lui stesso Giobbe. Il dio
del Genesi è ancora un impasto di bene e male, un ermafrodito capace
di ogni nefandezza e di ogni atto di pace. Ma è un dio scissiparo: ed
eccone la metà lucente comparire, l'anno 27 del regno di Augusto, sul
suolo di Galilea, e poco tempo dopo affermare che la fede nel Padre è
il Grande Tempo. II mito è stato cosi negato e stravolto: il potere, il
desacralizzatore, si afferma investito di sacralità. Il potere si afferma
figlio del Cielo; il potere si identifica con il Bene e dichiara guerra al
Male, al Residuo.
Il Cristo è il sigillo religioso che convalida l'ordine ormai istituito
nel mondo anticoclassico, è la garanzia dell'ordine cosmico di cui
quello terreno non è più, ma ridiventerà, il riflesso. La Città di Dio è la
meta: identificazione dell'ordine gerarchico cesareo e dell'ordine
celeste.
Del resto, da qualche millennio la città, l'urbe, si proclama fatta a
immagine e somiglianza dell'ordine “razionale” di tutto l'universo: è il
centro motore della conquista, sia quella estensiva (l'espansione
territoriale), sia l'intensiva (il “progresso”, lo sfruttamento sempre più
sistematico dell'ambiente). La città ha sempre e ovunque la stessa
struttura: un mondo dei vivi e del potere, la città quadrata, e un mondo
dei morti, la necropoli, attorno o accanto alla prima, inizialmente di
solito circolare, residuo dell'abitato arcaico, in cui la distinzione tra
vivente e defunto non esisteva o non era così rigida. Ma la struttura
reticolare, quadrangolare, si impone un po' alla volta all'intera
conurbazione: la città-lingua impone bisogni che l'abitato-dialetto
ignorava, li dice e li istituisce. La città quadrata ospita per lo più i
templi degli dèi ufficiali, gli dèi “maggiori” creati dal potere; i santuari
delle divinità minori possono essere sparsi per la città, e tra essi quelli
di dèi “maligni” (Kalì si drizza, nera e con la collana di teschi, in mille
vicoli indiani), ma si tratta pur sempre di “dèi”, quindi di potenze ormai
esorcizzate, istituzionalizzate. La sacralità, ridotta a negatività, resta
confinata nella zona dei morti; si rifugia sottoterra, diviene
esclusivamente ctonica. In un secondo tempo, anche su questa sfera si
avventa l'urbanità: la zona circolare, la necropoli, viene ridotta a
cimitero, dal quale tuttavia è impossibile eliminare completamente un
estremo residuo. Il cadavere continua a essere tabù. Dal cimitero emana
pur sempre un metafisico lezzo.
Ma perché, dunque, non appena sacerdoti, profeti, sovrani,
giudici, guardiani, si distraggono, i sudditi si sbandano, si danno al-
1'“abominazione”, all'ebbrezza, all'orgia? Perché infrangono la santità
della Famiglia, della Legge, della Chiesa? Perché tornano selvaggi?
Si deve supporre che l'”abominazione” attragga. Solo feroci per-
secuzioni e minacce valgono a distogliercene. Il potere, mito incarnato
che rinnega le proprie origini, suppone di poter governare senza il mito.
La sua vicenda è sempre uguale: così facendo, per il fatto stesso di
esistere, il potere inaugura la propria crisi, è sempre sospeso sull'orlo
dell'incredibilità. E se il re non fosse dio o unto dal Signore? Se la
nuova divinità, la divinità definitiva, la razionalità scientifica, non
fosse il toccasana? Se una sempre più alta razionalità non ci avvicinasse
(o riavvicinasse) affatto al “regno dell'uomo”? Se l'unica libertà
consistesse nel conservare, cercando di allargarle, proprio le zone
oscure, il Residuo negato, disprezzato, perseguitato, ghettizzato? Nella
ripugnanza per il “mondo e le sue pompe”?
Definisco millenarismo il processo, fin qui esposto, che ha desa-
cralizzato il mondo occidentale e, come programma, il mondo intero;
e che ha aggiunto, all'angoscia in apparenza costitutiva dell'uomo, una
sovra- angoscia, un'incertezza che nessuna “razionalizzazione”,
nessuna aggiunta di poteri al potere, nessuna conquista, nessun
accumulo di beni, basta a togliere di mezzo. L'uomo sprofondato nel
millennio se la porta sulla spalla, come Odino il suo corvo. E la sua
scimmia e la sua “scimmia”.
Ho cercato, nei testi precedenti, di sottolineare l'impossibilità di
scindere la religione dal potere; qui mi proverò a indicare
l'impossibilità di separarla dalla guerra.
Tre momenti; L'invenzione della stregoneria. Ogni guerra è di
religione. Religioni: uguali e diverse.
L'invenzione della stregoneria. Il termine stregoneria designa
possesso di poteri soprannaturali nell'ambito naturale ai fini di
esercitare il male e di solito in associazione con spiriti maligni o con il
diavolo in persona o per lo meno un demone. La credenza in portatori
di poteri straordinari, per la quale magia e stregoneria sono spesso
confuse, esiste tuttora in moltissimi ambiti. E tuttora è oggetto di
condanna soprattutto da parte delle religioni monoteistiche.
La donna sapiente, esperta di erbe e pozioni, l'uomo di medicina
delle cosiddette società primitive, il dotto sacerdote pagano, sono così
divenuti i perfidi, maledetti stregoni e streghe che il Medioevo europeo
riteneva fossero legione, e di cui si ritrovano gli eredi quali personaggi
di fiabe e leggende.
Dal canto loro, le divinità delle religioni non monoteistiche sono
state degradate a demoni condannati agli inframondi, veri e propri
inferni organizzati e strutturati come luoghi di pena, oppure a spiriti
maligni pronti a pervertire gli esseri umani.
I poteri dei portatori di stregoneria sarebbero: divinazione,
invulnerabilità, forza straordinaria e spesso irresistibile, capacità di
trasformare se stessi e altri (nel leggendario, i personaggi di Circe,
quelli che compaiono nella favola della Bella e della Bestia, i Sei Cigni
di Grimm, eccetera), capacità di volare, di rendersi invisibili a volontà,
di impartire animazione a oggetti inanimati, di conferire potenzialità e
poteri ai loro seguaci, e ancora conoscenza di droghe atte a generare
amore e fertilità e a causare morte.
Già nel libro dell'Esodo 22,17 della Bibbia si trova una esplicita
prescrizione: “Non lascerai vivere colei che pratica la magia”. Si noti
il colei. Per chiarire la centralità della strega nella concezione
occidentale della stregoneria, va tenuto presente che alla donna si sono
attribuite ampie valenze simboliche da epoche assai precedenti alla
visione ebraica della divinità, lo Jahvè che vietava la magia e
condannava senz'altro a morte la strega. Bisogna risalire al Neolitico,
ad almeno 12.000 anni fa, per individuare il punto di svolta della
traduzione delle valenze simboliche attribuite alla donna in cose.
Al Paleolitico risalgono raffigurazioni femminili nelle quali seni,
natiche e grembo hanno una presenza predominante a scapito degli arti
e della testa, ridotti a semplici abbozzi. Sono le celebri veneri
steatopigiche reperite in molti siti paleolitici europei, asiatici e africani,
e che nel XIX e XX secolo sono state erroneamente interpretate come
promotrici della fertilità. Ma i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico
ignoravano l'agricoltura, e quindi non avevano bisogno di favorire
simbolicamente la fertilità campestre, e le mandrie selvatiche dalle
quali ricavavano la carne che, insieme ai pesci, costituivano la fonte
principale della loro alimentazione, erano di tale entità da non
richiedere, ancora una volta, particolari accorgimenti di carattere
“magico”.
«Le figurine femminili del Paleolitico e del Neolitico iniziale possono forse
considerarsi una prova a favore del presunto matriarcato delle comunità non
ancora storiche, più di quanto lo siano le statue di Venere e della Vergine Maria
in culture innegabilmente patriarcali?»
Gordon Childe, Social Evolution.
Persino tra gli odierni «selvaggi», non si ha traccia di matriarcati,
anche se sussistono ben noti casi di matrilinearità. Nel Paleolitico
manca un'associazione, ed è l'associazione donna-morte, che invece è
frequentissima nel Neolitico. Se ne hanno esempi già nel VII millennio
a.C. in Turchia a fiatai Hiiyiik, sito dove sono sorti alcuni tra i
primissimi santuari. In certuni compare la figura della Dea Madre o
Signora Bianca o Signora degli Animali in duplice forma, quella di
avvoltoio (noto simbolo di morte nelle credenze popolari insieme con
la civetta, il cuculo, la colomba, il cinghiale e l'osso secco) e quella di
simbolo della rigenerazione. In uno stesso santuario di Gatal Hiiyiik,
mentre su una parete appaiono vari avvoltoi, cioè Dee Madri, intenti a
cibarsi di cadaveri umani decapitati, su un'altra parete è presente, a
rilievo, una grande testa di toro che sovrasta un teschio. E nelle
raffigurazioni neolitiche il toro è un esplicito simbolo di rinascita e
rigenerazione. L'associazione donna-morte comporta infatti sempre
l'altra faccia della medaglia, e cioè l'associazione donna- generazione.
Il duplice simbolo è facilmente reperibile in molti ambiti
extraoccidentali, ed è facilmente riconoscibile nelle concezioni
dell'intero ambito indoeuropeo.
Nell'India invasa dagli Ari verso il 2000 a.C., si diffuse
l'immagine simbolo della dea Kalì. È raffigurata con una collana di
teschi, munita di zanne, ed è venerata come datrice di morte ma anche
di vita. In Occidente, dalla dea-avvoltoio raffigurata più volte in
Anatolia e nel Levante, sono derivate altre concezioni di donna- uccello
rapace, come le Sirene e le Arpie dell'antica Grecia dette anche Keres
(Parche) della Morte. Del Neolitico noi siamo gli eredi.
L'invenzione dell'agricoltura oggi si continua nell'industria. Ma il
Neolitico ha inventato oltretutto la divinità, il potere come
organizzazione gerarchica e la guerra come razionalizzazione
organizzativa della violenza. Le prime raffigurazioni divine furono
animali di enormi proporzioni, per lo più tori, presenti già nel IX
millennio a.C. Ma assai spesso i tori sono accompagnati da figure di
Dee Madri, molto spesso intente a partorire i tori stessi. Nel corso dei
secoli, la figura femminile, Dea Madre, Signora Bianca o Signora degli
Animali, secondo le varie denominazioni che sono state attribuite alle
sue rappresentazioni, cedette il posto alla figura maschile.
Il processo di fallocratizzazione è reso evidente, a partire almeno
dal 5000 a.C., dalla comparsa di simboli chiaramente fallici, come i
menhir, accompagnati però da altre strutture litee, come i dolmen, che
avevano funzioni sepolcrali e sulle pareti interne dei quali quasi sempre
compaiono simboli femminili come occhi — residuo della dea-
avvoltoio o dea-civetta — spirali, vulve schematiche, seni, eccetera. In
questa fase del divenire umano si ha perciò l'affermato predominio del
maschio portatore di fertilità, con la femmina già tendenzialmente
relegata alla funzione di custode e vestale dell'ambito della morte.
Il potere che, come si è detto più volte, è invenzione neolitica,
promosse o impose un processo di detronizzazione delle antiche dee
europee, le cui tradizioni rimasero tuttavia largamente conservate nelle
isole egee, a Creta, nelle regioni del Mediterraneo centrale e
occidentale. Una delle figure femminili che ebbe parte importantissima
nello sviluppo della religiosità di queste zone, fu la dea egizia Iside, da
cui i cristiani hanno dedotto, con pochissimi cambiamenti, la figura
della Madonna.
Al di fuori degli ambiti in questione, l'immagine religiosa
femminile si eclissò in ampia misura per lasciare il posto all'immagine
maschile, inizialmente in figura di un dio antropomorfo in piedi su un
toro che evidentemente dominava e soggiogava. Ripeto: il toro era in
origine collegato direttamente alla Dea Madre, non di rado raffigurata
intenta a partorirlo. Il processo di fallocratizzazione o virilizzazione
che ebbe luogo durante il Neolitico, comportò la scomparsa delle dee
partenogenetiche fin dalla prima fase del Neolitico, la relegazione,
nella nebulosità di ricordi ancestrali, di figure che si autogeneravano
senza ricorso all'inseminazione maschile, simboleggiate elettivamente
dalla Madre Terra, cioè dalla terra che risorge continuamente da se
stessa, in primavera, dopo ogni aratura e taglio delle messi, eccetera.
Attorno al 1100 a.C. il culto di Zeus a Olimpia sostituì quello
della dea della fertilità Demetra Chamine. Iprimi Giochi si tennero a
Olimpia nel 776, anno al quale i greci facevano risalire l'inizio della
storia.
Le dee partenogenetiche si trasformarono gradualmente in spose
e figlie; e il potere generativo fu attribuito al maschio, al punto che più
tardi in Grecia Atena fu fatta nascere dal cervello di Zeus. E in ogni
regione d'Europa, e in larga parte dell'Asia, la Madre Terra perdette la
capacità di generare la vita delle piante senza rapporto sessuale con il
Dio del Tuono o il Dio del Cielo. Le dee tuttavia continuarono a
contare, a un livello sotterraneo, ma pur sempre abbastanza esplicito,
almeno quanto gli dèi fino ai primi secoli della nostra era.
A partire almeno dal IV secolo d.C. la Chiesa, struttura portante i
del cristianesimo, si rese però conto di essere minoranza: il
cristianesimo è stato fin dall'origine una religione cittadina e
rigidamente fallocratica, che restava in larga misura estranea alle
campagne. Persino nei centri medievali di dominio dell'economia
agricola, castelli, conventi e latifondi, e più in generale nelle campagne,
a predominare era tuttora il paganesimo, soprattutto nella forma di culti
della fertilità maschili e femminili, con frequentissimi luoghi di culto
— spesso semplici boschetti o radure - nei molti pagus, i villaggi
altomedievali.
Tale situazione indusse la Chiesa a iniziare, con l'ausilio dei poteri
laici, la definitiva conquista delle campagne mediante proselitismo e
costrizione. Al centro dei culti della fertilità erano molto spesso donne,
lontane eredi delle sacerdotesse di Iside, di Cerere, di Atena e della dea
Bubastis, la dea- gatta dei culti egizi. Per procedere alla conquista delle
campagne (si noti che per esempio la Prussia Orientale fu cristianizzata
soltanto nel X secolo d.C., e che ancora più tardi nelle valli prealpine
continuarono a sussistere concezioni pagane — e il loro più feroce
persecutore fu san Carlo Borromeo), la Chiesa si alleò, nell'VIII secolo,
con la monarchia carolingia che aveva assunto una posizione di
predominio nel contesto dei potentati europei. Carlomagno fu
incoronato imperatore a Roma dal papa nel Natale del 799, e restituì il
favore facendo annegare, nelle onde battesimali di un torrente nei
pressi di Attigny, sede delle assemblee generali Merovingie, Witkingo,
Albione e i loro Sassoni rimasti testardamente pagani.
La guerra della Chiesa contro gli ebrei: sempre colpevoli, deicidi,
perfidi, bevitori del sangue di bimbi cristiani.

Dovè Ugo, dovè il mio Ughetto, / Con cui giocavo a rimpiattino? / La nera
ebrea, la figlia del ghetto, / L'ha attratto oltre il muro del suo giardino. // Con
una nenia lo ha addormentato, / Sul capo d'oro lo ha poi colpito, / La gola e il
collo gli ha tutto squarciato, IE ha riso quando lo ha visto stecchito! Il Lui non
ha fatto né gesto né motto, / Non lo si è udito neppur rantolare: / Solo il rumor
di qualcosa di rotto, / L'arma che insiste sull'osso a grattare. Il L'ebrea il rosso
sangue di Ugo ha colato, / E l'unica lacrima, in coppa d'argento. / Suo padre
ha detto: “Io son fortunato, /perché ho una figlia che è proprio un portento”. Il
Il corpo di Ugo nel pozzo han buttato, / Con pietre e sassi poi l'hanno impedito.
/ Verde ora cresce il muschio bagnato / Sopra le ossa di Ugo sparito. Il E
quando torna il bel tempo d'estate, / La nera figlia del perfido ebreo / Sul muro
sta a pettinarsi, guardate, / Per allettare un altro babbeo
Leslie Fiedler, «La danza di Rabbi Hershl dalla mano secca», uno dei
racconti de La macchia, Rizzoli, Milano, 1972 (mia traduzione).

La Chiesa doveva imporre nelle campagne la religione del dio


fallocrate, e la Dea Madre, la Dea Bianca o Madre dei Morti, per-
sonificazione dell'inverno e della rinascita, venne trasformata in
malefica strega della notte e della magia.
In altre parole: la Chiesa si impadronì dei terrificanti poteri
simbolici della dea della vita e della morte e li trasformò in realtà
concreta. Fu fedele, in questo, alla sua tendenza a trasformare tutti i
propri simboli in tangibili verità e concretezze. Il cristianesimo ha
infatti a fondamento l'idea dell'effettiva, tangibile, comprovata (dal
dogma e dal potere dell'Impero Romano con il quale si alleò fin
dall'inizio e che ne garantì il trionfo) incarnazione del Figlio del Cielo,
Gesù Cristo. L'antichità conosceva una sterminata serie di figli del
cielo, molto spesso risorti da morte, come l'egizio Osiride, e partoriti
per lo più da madri vergini, cioè dalla Madre Terra. Ma soltanto i
fondatori del cristianesimo ebbero la grande trovata consistente nel
dichiarare realtà palpabile, indiscutibile, l'incarnazione, verificatasi in
un preciso tempo e luogo, del Figlio del Cielo nato da madre vergine,
Maria, ucciso sulla croce e risorto dai morti. E chi si fosse opposto a
tale credenza doveva venire persuaso o costretto ad accettarla. Il dio
fallocrate doveva a ogni costo imporre il proprio dominio, e chi lo
contestasse sarebbe stato dichiarato adoratore di divinità trasformate,
per decreto, per dogma, per bolla papale, in demoni e “servi di Satana”.
L'idea della stregoneria qual è concepita dal cristianesimo, non
risale dunque al Medioevo, ma il Medioevo fu un momento
particolarmente favorevole, anzi elettivo, al suo dispiegarsi. La
distruzione dei templi e simboli pagani era cominciata in maniera
sistematica già nel IV secolo, non appena il cristianesimo era divenuto
religione ufficiale dell'Impero sotto Teodosio il Grande: opera resa pre
scrittiva dalle autorità civili e compiuta molto spesso dai sempre più
numerosi monaci, vere truppe d'assalto della nuova religione.
L'opera di evangelizzazione dell'intera Europa ebbe un primo
colpo d'arresto nel VII secolo in seguito alle invasioni islamiche in
Spagna e alle incursioni in Gallia, senza contare quelle, numerosissime,
lungo le coste mediterranee. L'avanzata islamica fu notoriamente
bloccata dalla monarchia carolingia e dai suoi eredi, e con la protezione
del ricostituito Impero, la Chiesa intraprese la conversione forzosa dei
popoli dell'Europa settentrionale e della penisola balcanica,
combattendo insieme i residui culti pagani e le eresie che via via
risorgevano o si manifestavano ex novo. In questo processo, a venire
presi elettivamente di mira furono come si è detto i culti della fertilità,
cioè quelli della Dea Terra partenogenetica e delle altre figure sacre
della maternità e della resurrezione.
Le dee collegate alla religione isiaca e le equivalenti greco-
romane, come Cerere, Diana e Artemide, nutrici di tutte le creature,
erano assai vicine, se non tutt'uno, con la dea-gatta egizia Bubastis, e
in Egitto il gatto era notoriamente coperto di sacralità, tant'è che da
morto veniva imbalsamato. Le immagini di queste divinità appaiono
infatti molto spesso accompagnate da gatti. Inutile dire che i cristiani
lanciati alla conquista delle campagne per “salvarle” dalla maledizione
del paganesimo coinvolsero, nella demonizzazione delle dee, anche i
loro felini, e soprattutto le gatte nere, particolarmente abili come
cacciatrici di topi e ratti, che vennero molto spesso bruciate insieme
con le streghe.
Il Martello delle streghe è uno dei tanti testi di condanna e
metodologia persecutoria delle streghe prodotti dalla cultura
dell'Inquisizione. Ripercorriamo brevemente le fasi della sistematica
repressione e distruzione dei suoi avversari organizzata dalla Chiesa.
Toccò per primi agli ebrei, definiti deicidi, poi fu la volta degli eretici,
vale a dire i cristiani che non fossero cattolici ortodossi, e infine, e più
largamente, dei residui pagani. Le sacerdotesse dei culti della fertilità,
essendo per definizione pagane e, in quanto eredi dei culti delle divinità
della morte e della rinascita, oggetto di timore reverenziale e
santimonioso orrore, e oltretutto dispensatrici di rimedi in margine alla
medicina ufficiale il cui patrono era il Cristo medico, furono le donne
alle quali toccò il peso maggiore delle persecuzioni organizzate
dall'Inquisizione. Ne furono travolte levatrici, profetesse e guaritrici,
cosa che comportò disgregazione e crisi di molte comunità agricole.
Dal XIII al XVII secolo, le donne mandate a morte con l'accusa di
stregoneria furono circa otto milioni. Inutile dire che l'Inquisizione
imperversò anche in tutte le regioni del mondo che vennero a mano a
mano conquistate e colonizzate dagli europei.
In Africa, in Asia, in America, come in Italia, in Francia, in
Germania, in Polonia, in Russia, due furono i simboli contro i quali si
appuntò la persecuzione cristiana: il demonio e il corpo della donna.
La fisionomia del primo fu definita già nel 1233 da papa Gregorio IX
con la bolla Vox in Rama, titolo desunto da Matteo, 2,18. Nella bolla si
legge: “Un grido è stato udito in Rama... Rachele, che è la Santa Madre
Chiesa, la Sposa del Cristo, piange i suoi figli che il diavolo colpisce e
distrugge”. Il diavolo nella bolla di Gregorio IX compare ai suoi adepti
in figura di grosso gatto nero, hispidus, ovvero coperto di pelo. Nella
bolla il pontefice esortava i vescovi a tentativi di proselitismo come
premessa alla conversione forzosa. Dalla Vox in Rama risulta evidente
il nesso istituito dalla Chiesa tra i gatti e la stregoneria. Sono concezioni
che hanno tuttora larga parte in molte tradizioni popolari. Il gatto nero
che attraversa la strada porta sfortuna. Il culto di Bubastis, la dea-gatta
egizia, è sopravvissuto a Yeper, l'attuale Ypres, in Belgio, fino al 1000
d.C., e fino a tempi recentissimi, e forse ancora oggi, vi si celebrava
una “festa dei gatti” che venivano gettati dall'alto di campanili dai
buoni cristiani (l'usanza aveva festoso corso in pieno XX secolo).
Nel XV secolo, quando fu dato alle stampe II martello delle
streghe, la situazione in tutta Europa era ancora una volta mutata a
sfavore della Chiesa. I tentativi di conversione delle campagne si erano
infatti scontrati con le sempre più numerose rivolte contadine, collegate
in varia misura ai tentativi compiuti dalle grandi proprietà agricole di
imporre una maggiore redditività delle campagne. In Germania in
particolare stavano prendendo forma i movimenti di rifiuto delle
concezioni genericamente “gotiche “, estremamente rigide, e nel paese,
che si apriva in ritardo all'Umanesimo, si delineavano quei movimenti
che nel 1517 avrebbero avuto l'avallo delle 95 Tesi affisse da Martin
Lutero alla porta della chiesa di Wittenberg. Fu in tale contesto che la
Chiesa romana autorizzò l'Inquisizione a diventare operante nei
territori tedeschi, dove in precedenza non era stata tollerata perché i
principi ecclesiastici locali ne avevano già una propria; e se in un primo
tempo essi non cedettero alle istanze di Roma, nel 1484 Innocenzo Vili
con bolla papale provvide convincentemente a denunciare la
stregoneria come congiura organizzata dall'esercito del diavolo contro
il Sacro Romano Impero. La pubblicazione del Malleus Maleficarum,
la cui prima edizione è del I486, rientra nel quadro di una problematica,
appunto quella della stregoneria, che aveva dato vita a una scienza che
teneva occupate schiere di eruditi, spesso il fior fiore dell'intellighenzia
di allora.
Gli orrori della caccia alle streghe si spiegano anche con la
creazione di una vera e propria industria del massacro, fiorita sul tronco
delle ideologie ufficiali. Vi erano giudici, esorcisti, boia, fabbricanti di
pire e forche, fornitori di legnami, scrivani ed esperti che campavano
sulla pelle dei sabbatici. Tuttavia, già all'inizio del XVII secolo, va
detto, non mancò chi contestò queste barbariche prassi, come il gesuita
Friedrich von Spee, il quale scrisse: «Mi è accaduto sovente di pensare
che l'unica ragione per la quale noi tutti non siamo stregoni è che non
siamo stati sottoposti a tortura».
Come si è notato, l'altro simbolo-bersaglio della persecuzione
della stregoneria fu il corpo della donna. Bisognava sottomettere la sua
implicita, aprioristica incontrollabilità (corpo che non risponde ai ritmi
della temporalità razionale, il tempo degli orologi, dei ritmi maschili
produttivi), la sua malvagia impudicizia, la sua perniciosa procacità, il
suo erotismo presuntamente incontenibile. Il corpo della donna, come
s'è detto, fin dal Neolitico era oggetto di timore reverenziale come
simbolo della morte, ed è probabile che già al Neolitico risalgano i
pregiudizi sulla donna mestruata (ancora oggi non deve fare la
maionese: la farebbe “impazzire”) e il suo frequente isolamento
(ancora oggi, tra gli agricoltori Dogon del Mali, le mestruanti sono
relegate in apposite capanne ai margini del villaggio). Del resto, il
corpo della donna è tuttora ritenuto peccaminoso per definizione, e
infatti è l'oggetto elettivo della pornografia. Si pensi poi allo sprezzante
e umiliante trattamento troppo spesso riservato dalla medicina ufficiale
alle donne nella fase terapeutica e soprattutto in quella diagnostica.
È evidente che l'inquisitore era semplicemente inserito in un
contesto che ha tuttora largo corso. Il corpo della donna contiene
“cavità” che in epoca medievale sono state identificate, in ambito
germanico, con Hohle, grotta, termine assai vicino a Holle, inferno,
equivalente dell'inglese bell, ancora inferno. Quanto alla domanda
avanzata da Freud sul perché dello sperma freddo del diavolo che
compare nei Sabba, Freud non seppe dare una spiegazione, che però mi
sembra a portata di mano se si considera che il diavolo è per definizione
il contrario, il rovesciamento di Dio, la faccia del Male nella medaglia
la cui altra faccia è il Bene. Le streghe, le donne che lo seguivano ma
che — secondo gli inquisitori — dovevano per forza di cose sentirsi
peccatrici, non potevano non considerare il diavolo nemico in quanto
divinità del Male, ritenuta l'altra faccia del monodìo, cioè del Bene.
Pertanto, il diavolo, che con le streghe si congiunge nel corso del
Sabba, non dà loro il calore dello sperma normale, ma il ripugnante
gelo dello sperma diabolico. Lo affermano, tra gli altri, gli autori del
Martello delle streghe e lo afferma il curioso inquisitore Pierre de
Lancre, autore de L'inconstance des mauvais anges et démons.
Impossibile, insomma, che le streghe al Sabba se la spassino. Potevano
forse affermarlo, le povere donne sottoposte a orribili, sconcissimi
tormenti?
Pierre de Lancre, dotto abate consigliere del re di Francia, morì
nel 1630. Nel 1603 al parlamento di Bordeaux fu presentata denuncia
contro «l'inquietante aumento del numero di streghe e stregoni» nella
regione di Bayonne, il Labourd, e il consigliere, incaricato
dell'inchiesta, svolse il suo compito con zelo esemplare: tra il 1609 e il
1610 le carceri rigurgitarono di donne e fanciulle arrestate su suo
ordine. Pierre de Lancre compilò in merito un rapporto in un francese
di straordinaria eleganza, e Jean d'Espagnet, suo amico e
collaboratore, compose un poemetto in latino a mo' di introduzione.
Ogni guerra è di religione. Rifacendomi al discorso di Clausewitz
(ne parleremo nel capitolo dedicato espressamente alla guerra) sui
limiti inevitabili della guerra, nel senso che quella “assoluta”
significherebbe, oggi, la distruzione del mondo, va però rilevato che
l'idea di guerra in teoria senza limiti, quale aspirazione non realizzata -
e, ripeto, oggi irrealizzabile - sussiste, e come! La sfera dell'economia
- della concorrenza globale - tenderebbe a non ammettere limiti: ricorre
a mezzi in apparenza “pacifici”, al sotterfugio, alla “scalata” delle
posizioni avversarie, e se rifugge dall'aperta violenza (ma non sempre:
le guerre di mafia insegnano; e il neocolonialismo comporta più morti
— per sfruttamento, fame, sterminio o espulsione delle masse o loro
esclusione dai mercati — di molte guerre combattute), lo fa per il
timore di andare incontro a perdite eccessive e di attirarsi la collera del
proprio o di altri popoli.
Sono le stesse remore alle quali hanno dovuto e devono sottostare
oggi le religioni, a esclusione dei momenti in cui hanno potuto e
possono agire senza maschere. Il cristianesimo lo ha fatto nel corso
della guerra senza limiti che ha condotto apertamente contro i
paganesimi, in maniera meno esplicita (una guerriglia secolare) contro
i giudei e, con la massima durezza e senza scrupoli di sorta, contro le
stregonerie, come si dice in altri paragrafi. E lo ha fatto soprattutto
rendendo possibili, e anzi benedicendole, quelle che chiamo
neoconquiste.
In quello che è oggi il Terzo Mondo gli europei tutti quanti, per
primi gli spagnoli - seguiti o concomitati da inglesi, francesi, olandesi,
eccetera - furono portatori di una cultura inesorabilmente nemica,
contrapposta, inconciliabile, rispetto alle culture locali. L'esempio più
eloquente ne è fornito dal Sudamerica. Ma ovunque, nell'America
Settentrionale, Centrale e Meridionale, la sorte degli indiani fu la
stessa. In pochi anni, nel Nuovo Mondo ebbe luogo una rivoluzione
paragonabile, per entità, a quella neolitica, ed essa costò la vita, nel giro
di meno di due secoli, a oltre cento milioni di indigeni, pari ad almeno
il 25% dell'intera popolazione mondiale all'epoca.
I conquistadores erano transfughi che trovarono una terra di
comodo esilio a spese di quanti già vi abitavano. Ebbe così inizio il
grande esodo dall'Europa, destinato a continuare per quattro secoli.
Europei emigrarono alla volta delle Americhe, dell'Africa, poi dei Mari
del Sud, e ancora dell'Australia e di ogni isola scoperta e annessa a
questo o quel regno.
Questa fuga dal vecchio mondo, se mutò la faccia di interi
continenti, diede a milioni di bianchi la speranza o l'illusione di una
vita nuova, diversa, più libera e più comoda, senza guerre — o, al più,
massacri di deboli selvaggi, e dunque il gusto di menar le mani Senza
troppi rischi. Nei mondi nuovi, non ci sarebbero state persecuzioni, gli
stati sarebbero rimasti lontani, le fatiche non più disumane (e in ogni
caso delegate agli indigeni). E sotto i nostri occhi l'evidenza: il “sogno
dell'uomo bianco” non si è realizzato affatto: nei luoghi “liberi” è
subentrato lo stato, si sono perpetuati guerre, massacri, intolleranze; e
l'uomo bianco si è attirato l'odio delle popolazione locali che ha
obbligato con la forza alla “civiltà”.
Vero è che anche le società antiche avevano praticato l'invasione
di territori alieni, obbedendo a moventi di vario genere: affermazione
e glorificazione del potere dei gruppi sociali dominanti, desiderio di
impossessarsi di ricchezze e fonti di materie prime, in particolare quella
rappresentata dalla principale forza lavoro dell'epoca, gli schiavi. Ma
appare subito evidente una differenza essenziale tra la conquista antica
e quella post-medievale, segnatamente rinascimentale, che vorrei
appunto indicare come neoconquista: intesa, questa, alla sottomissione
del mondo intero e all'imposizione della propria cultura
(Weltanschauung, concezione religiosa, costumanze, ecc.) a gruppi,
tribù, nazioni, regni...
La neoconquista fu infatti caratterizzata da totalitarietà ed
esclusività, in pieno contrasto con la tolleranza, sia pure parziale, della
paleoconquista. La neoconquista è stata il germe del colonialismo
moderno e ha avuto come legittimazione, come ideologia portante,
l'affermazione della superiorità razziale, culturale, morale, religiosa,
cioè la rinuncia all'universalismo che caratterizzava la paleoconquista.
Roma non aveva calpestato l'Egitto tanto da ridurlo in polvere, pur
facendone una provincia dell'impero; non ne aveva sterminato gli
abitanti; ne aveva accolto gli dei, scoprendo l'affinità, se non l'identità,
tra le divinità capitoline e quelle dell'altra sponda del Mediterraneo, e
lo stesso aveva fatto in precedenza con le divinità celtiche prontamente
identificate con le latine. Roma aveva riconosciuto l'alta valenza della
cultura egizia, dotata di un'originalità indiscutibile e fascinosa. E
Roma, ferus victor, si era lasciata sedurre e “captare” dalla cultura
greca.
Perché questa enorme trasformazione avesse luogo, perché la
nuova visione del mondo trionfasse, perché la sottomissione di interi
continenti fosse possibile, bisognava conoscerne le terre, gli abitanti, il
clima, la flora, la fauna, la geografia, le risorse, le potenzialità, le
debolezze e le forze. E lo strumento di conoscenza che rese più rapido,
e forse anzi rese possibile e autorizzò il diluvio destinato a distruggere
i mondi antichi e la loro varietà, fu la cronaca.
La cronaca medievale e post-medievale era pur sempre una espo-
sizione di paradigmi, di nobili archetipi, la messa in scena di “uomini
illustri”. Ed erano questi, nella visione degli autori, a generare gli
eventi, avvalendosi di altri uomini concepiti quali meri strumenti
variamente e agevolmente “spendibili”.
La cronaca, in altre parole, considerava e, dove sussista, considera
secondario il fatto storico (con la premessa che il “fatto” esiste | solo in
quanto sia detto, narrato, cantato, come ben sa qualunque | giornalista
moderno). Un esempio possono fornirlo i due libri veterotestamentari
1 Maccabei e 2 Maccabei che illustrano la lotta dell'ortodossia
ebraica contro l'ellenismo ormai imperante. In effetti, i loro autori
intendevano raccontare una storia religiosa, ricalcando
antiche cronache di Israele.
I barbari che premevano ai confini di un impero, quello romano,
niente affatto unitario, niente affatto monolitico sotto il profilo
linguistico (il latino si era, è vero, universalizzato, ma aveva
principalmente la funzione di lingua franca e a conferirgli valenze
cogenti, quelle dell'indispensabilità e obbligatorietà ufficiosa oltre che
ufficiale, fu l'alleanza della burocrazia dell'impero in decadenza con la
Chiesa), figurativo, legislativo, religioso, culturale, genericamente
culturale: quei “barbari” erano integrabili nel suo contesto con relativa
facilità.
Dai paleoconquistatori, le culture locali non venivano cancella-
te, bensì modificate, riadattate, integrate. E del resto la loro
cancellazione, che avrebbe richiesto lo sterminio sistematico o la
riduzione in schiavitù di tutti gli indigeni, sarebbe stata impossibile con
i mezzi dell'epoca. Roma deportava schiavi, ma schiavistici erano
anche i regni e gli aggregati tribali, le nazioni alle quali imponeva la
propria supremazia. Il mondo restava nuclearmente immutato:
cambiavano soltanto i suoi connotati superficiali.
Situazione che mutò radicalmente e improvvisamente quando
sulla scena mondiale comparvero nuovi strumenti di sottomissione e
dominio: inedite strutture sociali, imprecedute concezioni del potere e
dei rapporti tra i singoli, eserciti creati ex novo, armi inventate proprio
ai fini di ben diverse conquiste. Componenti che tuttavia non sarebbero
bastate, da sole, a conferire carattere totalitario alle neoconquiste. Così
per esempio i nomadi cavalcatori asiatici poterono, certo, invadere
Russia, Cina, parte dell'Europa occidentale, ma la loro spinta fu di
breve durata: i capi mongoli divennero sovrani cinesi, la Russia risorse.
Ma appunto le invasioni mongole costituiscono, in un certo senso,
l'anello di congiunzione tra paleo e neoconquiste. I mongoli si urtarono
contro una visione del mondo per loro di difficile accesso, incentrata
sulla fede in un unico dio, che d'altra parte corrispondeva
all'impreceduta solidità di mura erette a difesa di strutture urbane
inedite, le “città da guerra”; si trovarono di fronte a una visione
stanziale e produttiva che si era definitivamente imposta sulle
campagne, sul feudalesimo, sull'economia rurale. I mongoli si
trovarono, in altre parole, alla sopraffacente presa con regioni
ampiamente urbanizzate e pertanto in larga misura non assudditabili, e
nelle quali vigeva, sia pure non ancora esplicitamente formulato, il
principio del cuius regio, eius religio.
Il punto di svolta definitivo, la componente decisiva, la premessa
sine qua non delle neoconquiste fu l'affermazione dei monoteismi nel
mondo tardoantico e medievale. Alle spalle delle invasioni e
colonizzazioni medievali e ancora più post-medievali furono, accanto
a mezzi più efficaci, inedite spinte ideologiche, cioè appunto i
monoteismi cristiano e islamico con i corollari che ne derivarono. Vero
è che l'affermazione definitiva del monoteismo fu preceduta, in ordine
di tempo, dalla scissione della sacralità in Bene e Male, cosa che
avvenne per esempio nel mondo iranico, nella cui E mitologia
zoroastriana perenne era la lotta tra Angra Mainyu j (Ahriman), lo
spirito maligno e distruttore, e Mazda (più tardi Ahura Mazdah,
Ormazd), la divinità suprema, onniveggente e creatrice. È assai
probabile che anche altrove siano stati compiuti tentativi di concentrare
le forze metafisiche in un “divino”, in un unicum, e del resto era
inevitabile che sovrani miranti a un dominio assoluto cercassero di
imporre un loro monoteismo. Lo fece, a quanto sembrerebbe accertato,
in Egitto Amenofi IV (1372-1354 a.C.) che assunse il nome di
Ekhnaton e tentò di fare prevalere, sulle molte divinità del clero, dei
nomoi, delle città e dei villaggi, Aton equivalente, sulla riva occidentale
del Nilo, di Amon-Ra, tradizionale signore degli dei, padre della
dinastia; il programma fu però respinto e invalidato dal potentissimo
clero. Lo stesso tentativo di erigere un dio locale a dio unico fu
compiuto, stando almeno alle varie redazioni bibliche, dal Libro di [..]
alle versioni neotestamentarie, in ambito inizialmente egizio, da Mosè
forse rifacendosi a una divinità adorata dai nomadi ebrei, cioè Geova,
prima del loro insediamento nella terra dei faraoni. Lo stesso tentativo
fu ripetuto, con assai maggior successo, dagli arabi che avevano
accolto la predicazione di Maometto.
Il monoteismo, cioè l'attribuzione di tutti i poteri a un dio che era
un'invenzione sostanzialmente letteraria, orale o scritta che fosse, con
la sottomissione e la messa al bando di altre figure metafisiche, se fallì
in Egitto, in Palestina restò confinato a un esiguo gruppo nel cuore di
un mondo già largamente ellenizzato; e se la divinità originariamente
geovita riuscì, nella sua versione neotestamentaria, a imporsi nel
mondo antico-classico mediante un'opera di indefesso apostolato, fu,
ripeto, grazie all'alleanza tra impero e cristianesimo. Ma il monoteismo
dovette lottare a lungo per imporsi definitivamente sia nel mondo
romano che in quello musulmano. E riuscì a spuntarla solo a patto di
assumere i panni del cesaropapismo o di trasformarsi in legislazione e
costumanze coraniche, in altre parole a patto di assurgere, in ambedue
i casi, a centro dottrinario, cultuale, legale, culturale, tale
esplicitamente imposto e propagandato con mezzi quasi sempre
violenti. E fin dall'inizio, nella sua fase di concorrenza con altre fedi, il
monoteismo, romano o musulmano che fosse, si rivelò intollerante e
spietato.
Se insisto su questo concetto, è perché solo così si spiega, a mio
parere, l'affermazione delle neoconquiste. Le quali, a differenza delle
paleoconquiste che si svolgevano in lunghi archi di tempo, ebbero
sempre carattere di subitaneità e distruttività. Inutile soggiungere che
anche il confronto tra monoteismi è stato sempre particolarmente
cruento, fanaticamente accanito (cristianesimo e islamismo). La
scissione tra Bene e Male, raffermato trionfo del Bene, il relegamento
del Male in una dimensione di inferiorità ctonica (nonostante
sopravvivesse come Satana o Shaitan) in attesa della sua conclusiva
cancellazione dall'universo (Giudizio finale), ha comportato
l'instaurazione di uno stato di guerra perenne, in tutti
1 territori che ne sono stati toccati: tale per cui i momenti di pace sono
diventati brevi interludi, mere eccezioni. Per restare all'ambito
cristiano, è evidente essere fondatissima l'affermazione di Benedetto
Croce che “non possiamo non dirci cristiani”. Noi oggi, e prima di noi
i conquistadores, abbiamo una visione omologatrice, unidimensionale,
inquadratrice, in cui continuo e interminabile è lo scontro tra il
Superiore e l'Inferiore, dove il secondo cerca con ogni mezzo di
sostituirsi al primo. Superfluo anche sottolineare che si tratta
dell'esasperazione di una concezione rigidamente gerarchica del
mondo, che ha trovato la sua giustificazione, la sua ideologia portante,
appunto nella lotta tra il Superiore, inteso come buono per definizione,
e l'Inferiore, per definizione concepito come cattivo.
Per l'universo cristiano, imbevuto di una fede monoteistica trion-
fante, prescrittivamente integralista, intollerante, dedita all'apostolato
più o meno forzoso, corrispondente a una Weltanschauung basata
sull'affermazione dell'Uno, dell'universale ritenuto senz'altro equiva-
lente al Bene, era indispensabile abbattere con la forza e con la per-
suasione il paganesimo, l'idolatria e i suoi simboli (templi, culti,
superstizioni sostituite da altre, più efficaci, come il culto dei santi), e
imporre un innovativo racconto che aveva radici nel mito ma in pari
tempo ne era la negazione e la riduzione a favola.
Ma si trattava anche, in statu nascenti, di una demitizzazione del
mondo, della sua desacralizzazione: gli dei vennero assorbiti nella
figura dell'unico dio, cosa che comportò l'esordio di una ancora
inesplicita, ma non per questo meno concreta, laicizzazione. Da parte
musulmana, lo sforzo fu del pari volto alla riduzione del molteplice
all'Uno, alla creazione di un dominio universale, alla soppressione
dell'altro ipostatizzata dall'infedele; il corollario fu il predominio di
quello che era ed è tuttora il più efficace dei cinque pilastri dell'Islam,
quello che maggiormente incide nei rapporti di esso con il mondo
esterno: la jihad, che è, sì, alla lettera, sforzo di affermazione della fede,
ma può trasformarsi in guerra aperta, e giustificatamente senza
limitazione di mezzi, se a proclamarla è un'autorità religiosa-politica.
In entrambi i casi, venne in essere un accorpamento della sacralità
diffusa, di numi, dei, spiriti, geni, credenze locali, in un'unica santità
con la quale coincideva senza residui la struttura sociale. Fu “sacrale”
l'invasione cristiana della Palestina, la riconquista dei
Luoghi Santi. E “sacrale” fu la furia con cui l'Islam si avventò sui paesi
vicini prima e sull'Europa e sull'Asia poi. Le guerre di conquista
divennero guerre di religione, e religiose erano, e restarono, le
ideologie. Le teologie sono infatti le madri delle moderne logie, tali
una volta decapitato l'ormai ingombrante théos.
Per questo la penetrazione degli europei nel mondo degli Aztechi,
degli Incas, dei pellerossa delle Grandi Pianure, e ancora degli africani,
degli australiani, degli eschimesi, dei fueghini, degli araucani, dei
siberiani a opera dei russi, assunse fin dall'esordio proporzioni
apocalittiche, sempre e comunque integralistiche, totalitarie, cruente e
intolleranti. Né diversamente si comportarono gli islamici che, messo
piede in Africa, diedero avvio a forme di riduzione in schiavitù senza
precedenti, in pari tempo obbligando alla conversione e all'obbedienza
al loro unico dio non concomitato, in teoria almeno, da co-divinità. Gli
islamici imposero sempre modelli sociali ignoti alle popolazioni
vittime, come l'inferiorità costuma- ria e legale della donna. Per le
popolazioni assoggettate, che a compiere l'opera di conquista fossero
europei o arabi, fu comunque l'inizio di quella tragica avventura che
segnò irreversibilmente uriepoca destinata a mutare faccia al mondo
intero: e con conseguenze catastrofiche, oggi sotto gli occhi di tutti.
«La Chiesa ha predicato amore e seminato l'odio più mortifero, ha
annunciato la vita e diffuso la morte più sanguinosa».
Hans Kùng, teologo cattolico, Riformare la Chiesa oggi, 1990.
Parlo, ripeto, dell'epoca coloniale e post-coloniale, degli impe-
rialismi moderni, pre-condizione della rivoluzione industriale e,
ancora, del sempre più rapido declino e scomparsa dei “primitivi”, dei
“selvaggi”: di quello insomma che è il definitivo trionfo della “civiltà”,
della storia, del “progresso”.
Le religioni mirano a sopprimere il mito, a sostituirlo con forme
discorsive, teologiche. Il tramonto del mito non si verifica mai. Ha
luogo semplicemente l'esorcismo del mitico. Avviene, in altre parole,
che il mito venga requisito, monopolizzato, relegato. Avviene che il
mitico sia vissuto, come momento ludico, dal potere; che sia
presuntamente vissuto come distruzione, viaggio nell’oltretomba,
dissoluzione, dalla follia e dalla perversione, entrambe decretate realtà;
che sia invece contemplato come speranza, nostalgia, possibile
redenzione, negazione, fuga, dalla dimensione della póiesis. E avviene
che, accanto e attorno a questi nuclei ormai “specialistici”, ciascuno a
suo modo diverso, ciascuno per motivi differenti scisso dal resto del
corpo sociale, ci sia - e si dilati senza posa - l'universo delle
interpretazioni, vale a dire l'impositiva, rassicurante Cultura che
sostiene la prevalenza della ratio, del furor logicus, su tutte le altre
esplicazioni dell'uomo, la Cultura che scaccia notte e tenebre per far
trionfare il giorno e la lucidità; la Cultura che tutto spiega, tutto riduce
a oggetto, a caterva di oggetti ugualmente fruibili (consumabili), nella
speranza, continuamente vanificata, di drizzare un muro definitivo, di
sigillare per sempre l'abisso, di conquistare l'oscurità, l'abnorme,
l'impenetrabile, in una parola di colonizzare il Residuo.

«Il dittatore che vuole essere incoronato non si presenta più al popolo con
al fianco un vescovo: preferisce un premio Nobel. Il grande ricco che ha
bisogno di farsi perdonare i suoi peccati non fonda più una abbazia, ma un
museo... Oggi e la cultura che ha assunto il ruolo di “oppio dei popoli”».
Jean Dubuffet, Asfissiante cultura, Parigi, 1968.

Religioni: uguali e diverse. Norma di ogni religione è il


proselitismo.
Il giudaismo è l'unica religione monoteista che almeno oggi (ma
non sempre è stato così) non si dedichi programmaticamente al
proselitismo, la tendenza cioè alla diffusione reclutando sempre nuovi
adepti con la persuasione, la concessione di vantaggi o prerogative, o
con la forza. In generale, le religioni tribali e nazionali mostrano punte
o poche tendenze a estendersi al di là della comunità sociale che le
pratica, mentre invece ogni religione sovranazionale esercita il
proselitismo, muovendo dalla convinzione di essere l'unica vera
religione, valida per ogni essere umano, e di norma si dedica al
proselitismo in forma organizzata (missionarismo), addirittura (gesuiti)
ricalcando quella degli eserciti. Le religioni pagane esercitavano forme
di propaganda, senza però pretendere di essere l'unica via alla salvezza,
al contrario delle religioni sovranazionali che, una volta adottate dallo
stato, si dedicano spesso alle conversioni obbligatorie (cristianesimo e
islam) in regioni sottomesse o colonizzate.
Il giudaismo, al pari dei politeismi, si è sempre limitato a proporre
la conversione, e a chi accettava l'offerta, diventando gèr (proselito), si
richiedeva la circoncisione, un bagno rituale e un’offerta al tempio.
Jahvè, forma iniziale della divinità ebraica, non imponeva conversioni:
dio tribale, guerriero, comandava la messa a morte dei nemici di Israele
in quanto nazione, restando indifferente alle loro pratiche cultuali. I
giudei hanno quasi sempre accettato e raramente imposto conversioni.
Principio che può sembrare smentito dalla conversione al Giudaismo
del regno dei Khazary (Cazari) popolazione che nel VI secolo d.C.
fondò un grande stato nelle steppe dell'odierna Russia tra il Volga e il
Dniepr. Inizialmente pagani, i Cazari, sottoposti alle minacce dei
Peceneghi e dei Russi, assimilarono elementi di cultura giudaica,
bizantina e musulmana. La leggenda vuole che il loro khagan (sovrano)
abbia optato a favore del Giudaismo, quale religione “prediletta”, in
seguito a un confronto, da lui organizzato, tra sapienti ebrei, sacerdoti
cristiani e mullah islamici. I primi si dichiararono contrari al
proselitismo, cristiani e musulmani volevano invece la conversione
forzosa del regno. Il khagan decise che il culto migliore era il giudaico.
All'atto dell'iniziazione, al gèr viene ricordato che gli israeliti sono un
popolo perseguitato; il sottinteso è che non gli è lecito perseguitare altri
gruppi, ma solo difendersi da aggressioni.
È opportuno precisare che il termine proselitismo ha precise
connotazioni militanti: dal greco proselytos, nuovo venuto, straniero
stanziatosi a viva forza su un territorio alieno.
Ogni religione sostiene che il suo insegnamento è per figure e
giunge anzi a respingere, fingendo addirittura orrore, l'interpretazione
letterale. Il dio è sempre nascosto sotto il suo contrario (come l'Essere
sotto l'esser-ci di Heidegger): deus absconditus sub contrario. E il dio
c'è: “realtà” che trascende ogni negazione, beffa, rifiuto. Realtà che
impone la credenza che si sottrae a ogni razionalizzazione.
Prima facie, ogni religione va oltre il principio di realtà, fino alla
“verità assurda”. Propone cioè una reductio adabsurdum. E uno dei
pilastri della fede, almeno cristiana, è il credo quia absurdum: il
paradosso, dunque. In effetti, avviene esattamente il contrario. La
religione — nessuna esclusa — non esce dalla logico-discorsività,
attinge tutt'al più al surrealismo senza sapere né potere addivenire alla
dimensione poetica, all'uscita dal Discorso. Nella sua reductio ad
absurdum c'è, sì, reductio, ma ad unicum, la dimensione del «credo»:
della metafisica.
In molti ambiti linguistici non esiste l'idea della credenza che per-
tiene al discorso occidentale. Per esempio, tra i già citati parlanti ewe
dell'Africa occidentale. E sono patetici gli sforzi dei missionari cristiani
impegnati nel tentativo di insegnare il “credo” ai soliti, poveri negretti.
Il credo, dimenticano i buoni padri, non può essere scisso dall' io («io
credo...»). Ma per gli ewefoni, Xio non è immutabile, non è il motore
immobile di una trinità, soggetto, verbo, oggetto. L'equivalente ewe
dell'io che va ad attingere l'acqua al pozzo, non è un «io vado a...», ma
una delle persone (o maschere) che partecipano dell' azione e di chi la
compie. L'io ewe è variabile — come è, in effetti, ovunque e per tutti.
Ma l'Occidente si fonda sull'identità, cioè sul Discorso, sulla sintassi,
sulla logica del terzo escluso.
Gli Ewe del cosiddetto Eweland dell'Africa occidentale tra la foce
del fiume Volta e quella del Mono (zona oggi divisa tra il Togo e il
Dahomey) parlano una lingua appartenente alla famiglia Kwa delle
lingue sudanesi.
Inutile dire che la loro ricca cultura (ceramica, metallurgia,
oreficeria, e soprattutto una complessa letteratura orale) è stata in
larga misura travolta dalla colonizzazione e dalla neocolonizzazione.
Notizie in parte ricavate dal Dizionario Enciclopedico Italiano,
Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1970.
Credere 1.
Il mito non è credibile, per la semplice ragione che si presenta, è
phanes, rivelazione immediata che si traduce, è vero, in mythos, in
racconto (mitico). Ma neppure questo può essere considerato “verità”
intesa secondo l'antichissima ma sempre impositiva adaequatio
intellectus et rei, la puntuale corrispondenza cioè della mappa al
territorio. Il credere, l'accettazione dell'equivalenza, sussiste a patto
che la parola sia presuntamente sempre detta, sempre parlata, anziché
essere parlante. A patto, dunque, che si supponga la parola derivata
dagli oggetti, e non già quale denominatrice e istitutrice degli oggetti.
La parola non delucida sé stessa: la parola è. Ma nessuna parola resta
istituita nei tempi da essa stessa istituiti. Nessuna parola, nessuna
traduzione può prescindere da tali presupposti.
«Verità: divinità allegorica, figliuola di Saturno, o del Tempo, o di
Giove, e Madre della Virtù. Secondo Filostrato, rappresentavasi
sotto la figura di una donna dall'aria maestosa ma nuda perché
imponevasi senza necessità di addobbi».
A.L. Millin, Dizionario delle favole, tradotto in italiano da Celestino
Massucco, Piacenza 1807.

Credere 2.
Vuol dire far credito, prestar fede, affidarsi alla norma, al decalogo.
Non “crede” chi si rifiuti di essere suddito.

Tutto e realmente possibile quaggiù, dove gli antichi iddìi dei pastori, il
caprone e l'agnello rituale, ripercorrono ogni giorno le note strade, e non vi è
alcun limite sicuro a quello che è umano verso il mondo misterioso degli dei e
dei mostri.
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945

La chiesa perdona Galilei. Galileo ha dovuto subire varie riabi-


litazioni. Monsignor Bernard Jacqueline ci dice che «la memoria di
Galileo fu riabilitata nel 1734». Le opere che patrocinavano la teoria
copernicana, come il Dialogo, dovettero però aspettare un altro poco,
fino al 1757, e l'autorizzazione ad accettare tale teoria fino al 1822. Per
limitarci solo al secolo XX, già durante il Concilio Vaticano I si levò
qualche voce che proponeva un «omaggio ripara- torio alla memoria di
Galileo». Nel 1968, il cardinale Kònig parlava esplicitamente di una
riabilitazione di Galileo, ma l'atto di «riabilitazione di Galileo», che in
questi ultimi anni ha fatto periodicamente la propria comparsa sui
mezzi di comunicazione, si deve soltanto a Giovanni Paolo IL Nel
1979, all'Accademia Pontificia delle Scienze, Giovanni Paolo II diede
inizio a una cinica manovra con la quale invitava teologi, scienziati e
storiografi a studiare a fondo il caso Galileo. «E in un riconoscimento
leale degli errori, da qualsiasi parte vengano, facciano scomparire le
differenze derivanti da questo caso che ostacola ancora, in molti spiriti,
una concordia fruttifera tra scienza e fede». Si trattava, per Woityla, di
giungere a una «soluzione onorevole, uno stato d'animo propizio alla
soluzione onesta e leale di vecchie contrapposizioni». Un punto di
partenza dal quale risultava con chiarezza che non si trattava
semplicemente di giudicare e valutare i propri «errori». Dopo aver
accennato all'iniziale amicizia di Galileo con i gesuiti, verso i quali
sarebbe stato tanto in debito, per esempio padre Wallace conclude:
«Anche qui, come avrebbe messo in rilievo padre Grassi, inquisitore,
dopo il processo, la personalità di Galileo, per tacere del suo orgoglio
e della sua arroganza, contribuì alla sua perdita».
(William A. Wallace, teologo americano, professore emerito di
Filosofia e Storia della scienza, Catholic University of America,
Washington D.C.).
GUERRA RELIGIONE POTERE

Neolitico: invenzione della genesi. L'aratore stupra la madre, la


terra. Il suo è sempre incesto. Ed è conoscenza. La conoscenza è una
conoscenza carnale, copula di soggetto e oggetto, che simbolica- mente
fa dei due una cosa sola. Cognitio nihil aliud est quam coitio quaedam
curri suo cognobili.
«Sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima
che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito
Santo» (Matteo 1,18).
«Ed essendo la favorita a tavola con Sua Maestà, essa parlò e
disse a Sua Maestà: “Giurami per il nome del dio che farai ciò che io
ti dirò. [Il Faraone assentì e la favorita gli disse:] “Fa' abbattere i due
cedri e se ne fabbrichino dei bei cofani”. E qualche giorno dopo, il
Faraone inviò abili legnaioli ad abbattere i cedri. Ed era presente a
vederlo fare la sposa reale, la favorita. Una scheggia ne volò, penetrò
nella bocca della favorita, la quale subito si accorse di essere rimasta
incinta... Ed essa partorì un bambino di sesso maschile, e andarono da
Sua Maestà a dirgli: “Ti è nato un maschio!”».
Favola dei due fratelli, racconto egizio della XIX Dinastia, 1300
a.C. circa.
«Mentre un aratore solcava la terra nei pressi della città di Tarquinia, da
sotto il vomere sorse un bambino con i capelli grigi del saggio e fu ricevuto dai
dodici re della Decapoli etrusca, ai quali insegnò l'arte di indovinare».
A.L. Millin, Dizionario delle favole, trad. di Celestino Massucco,
Piacenza 1807.
«Ma se Cristo non e risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è
vana anche la nostra fede» (Giovanni, Prima Lettera ai Corinzi 13,12).

La guerra non è spiegabile con il ricorso a presunti istinti bellicosi:


è un'attività troppo complessa, multiforme, negatrice della coerenza
interna dell'istinto. La guerra non è riducibile alla violenza: è la
conclusione di un movimento che, a partire dal Neolitico, attraversa,
condiziona, in larga misura definisce, la “civiltà del discorso”. La
civiltà industriale del carbone e dell'acciaio si è alimentata con la
produzione di cannoni, carri armati, incrociatori, velivoli. Per
fabbricarli, occorrevano gli eserciti dei lavoratori, e oggi occorrono i
loro equivalenti, gli automi.
Per avere gli uni e gli altri, i presupposti erano: l'accettazione —
l'introiezione — del principio della produttività, cioè la finalizzazione
totale dei mezzi delle società precedenti. La strumentazione tecnica è
andata prendendo il posto di altri scenari, in parte ancora simbolici
(anche se assediati dal pensiero discorsivo, dalla ratio ormai
intronizzata). Ha prevalso il pensiero unico i cui criteri di valutazione
sono produttività, efficienza, rispetto della gerarchia. Le religioni
tendono via via a ridursi a\Y unicum, il potere al dio unico del potere
stesso: una costellazione di monopoli, province al cui centro si è
imposto il mercato con i suoi automatismi. Non accettarne le regole
significa relegarsi nella marginalità. E alle regole è sottesa la
prescrizione dell'esecuzione, l'obbedienza ai manuali, leggi, istruzioni
per l'uso, sistemi didattici, medicalizzazione: imposizioni dettate dalle
mille istanze di distribuzione della normalina, le istanze
dell'inquadramento e della mobilitazione perenne, stabilimento,
azienda, scuola, caserma, struttura sanitaria,
struttura carceraria, manicomio, ricovero...
Il buon cittadino obbedisce a un fitto tessuto di imposizioni e
insinuazioni: è il consumatore-mobilitando, il compratore-soldato, che
accetta, per condizionamento ormai plurisecolare (ma sempre più
intenso con l'avanzare della “modernità”) le prassi giustificatone intese
a sbarazzarlo dai sensi di colpa (assoluzione per acquisti voluttuari
come pure per l'uccisione del nemico a comando).
La guerra non consiste soltanto di battaglie, secondo l'interpre-
tazione che molto spesso ne danno gli storici che non possono, con-
dizionati come sono dal loro ruolo, quello della fattualità, non
focalizzarsi sull'evento suppostamente culminare. Non sanno cioè
uscire dal letteralismo. Ma il letteralismo è la negazione di quello che
vien detto inconscio e dunque dell'asse sul quale si incentra la vicenda
umana: il simbolismo. La storiografia ha elevato a proprio modello la
scienza esatta, la mathesis. Va alla ricerca della Verità - il fatto senza
sfumature. Laddove il simbolico oscilla tra vedere e non vedere, la
scienza esatta, e la storia con essa, prende la rappresentazione per
realtà, vuole dare concretezza ai sogni, descrive un mondo di
materialismo astratto.

«L'inconscio è la vera realtà psichica».


Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni.

La guerra non è mai in effetti alcunché di assoluto: la sconfitta


non è mai totale (implicherebbe, in tal caso, la sparizione fisica del
nemico, distrutto fin l'ultimo uomo, fin l'ultimo oggetto). Ne consegue
che «le probabilità della vita reale prendono il posto dell'estremo e
dell'assoluto del concetto». Si afferma qui l'obiettivo politico della
guerra: «se lo scopo dell'atto di guerra è un equivalente dell'obiettivo
politico, quest'atto si farà meno imponente col diminuire dell'obiettivo
politico. Questo spiega perché, senza che vi sia contraddizione, si
possono dare guerre di tutti i gradi e di tutte le estensioni, dalla guerra
di sterminio alla semplice ricognizione armata».
Karl von Clausewitz (1780-1831), Deila guerra, Libro I, 1832
(postumo).

«Alla domanda: bisogna dire arte o scienza militare? Clausewitz risponde


che la guerra somiglia assai da vicino al commercio».
Friedrich Engels, Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und der
Staates (1884).

Ogni “arte della guerra” propone una ricetta unica e indiscutibile:


una eziologia, una diagnosi e una terapia, ciecamente fedele alla
componente immaginifica, da magicien con tanto di cilindro e coniglio,
dell'interpretazione storica. Ma inevitabilmente, nella cronaca
presuntamente imparziale, oggettiva, si inserisce l'invenzione. E la
scienza moderna, letteralistica — prende per “reali” le cosmogonie
confezionate dagli astrofisici - discende direttamente dal letteralismo
della Riforma e della Controriforma, entrambe estreme decapitatrici
del simbolico, già del resto ucciso dal cristianesimo senza aggettivi: è
la ricerca del Gesù storico, al quale è attribuito un luogo, un mese, un
giorno, un'ora della nascita.
La differenza tra il guerriero tribale e il militare va ricercata nel
fatto che, ferocissimo, il primo non si cura sostanzialmente di
sterminare senza residui i nemici; anzi, che questi in parte o compieta-
mente sopravvivano è la condizione della sua ferocia. È noto che, tra i
cheyenne, non contava tanto l'uccisione del nemico, quanto il “segnare
punti”, cioè penetrare tra gli avversari e toccarli con un bastone.
Crudelissimo, il vendicatore non eliminerà l'intero clan avversario, ma
eserciterà la vendetta su questa o quella generazione, su questo o quel
rampollo, secondo un complicato cerimoniale di regole varianti da
ambito ad ambito. Valorosissimo, il cavaliere rischiava la vita per un
nonnulla: abbatteva l'avversario, ma non di rado lo risparmiava.
Nel frammento di poema epico in Old Englisb noto col titolo di
La battaglia di Maldon si narra come, nel 991, regnante Aethelred II,
a Malden, nell'Essex, si combattè una battaglia tra i difensori dell'Essex
e un esercito vichingo. Alla testa degli inglesi era Beorhtnoth figlio di
Beorhthelm, duca di Essex. I normanni erano sbarcati all'estuario della
Pan te (l'attuale Blackwater), accampandosi sull'isola di Northey, per
cui erano separati dagli avversari da un braccio del fiume. Esisteva un
unico guado, e i vichinghi chiesero che fosse loro concesso di superarlo
perché si potesse combattere alla pari. Beorhtnoth accettò la sfida con
un gesto di cavalleria del tutto coerente con l'epoca e dunque con il
significato della guerra intesa ancora come ludus, nella quale il
carattere ritualistico aveva, se non la prevalenza, per lo meno
l'equivalenza con l'aspetto utilitaristico. La conseguenza fu la sconfitta
e il massacro degli inglesi; e ne La battaglia di Maldon, infatti, l'autore
esprime caute critiche all'operato del comandante inglese, che definisce
lofgeornost, “desiderosissimo (o troppo desideroso) di gloria”: caute,
perché egli stesso condivide in sostanza l'atteggiamento del duca
sconfitto.
Finché si continui a considerare dall’esterno il processo sia di
incorporazione del proprio simile a opera del cannibale, sia l'atteg-
giamento del guerriero e i molti altri comportamenti che hanno il
proprio movente nella rivelazione, non se ne viene a capo: esso appare,
secondo la classica separazione di soggetto e oggetto, qualcuna mera
trasformazione della materia d'un corpo in un altro: di polvere in
polvere. Nulla, secondo questo approccio, “appare"; nulla si rivela. È
necessario, per esso, il ricorso alle spiegazioni antropologiche; e a chi
vi si adegua, sfugge che il “senso” del cannibalismo, della violenza in
generale, della «contemplazione della morte», è un atto di
rievocazione, di ri-scoperta di quel qualcosa che sta nascosto nel
profondo: il Phanes arcaico, l'epifania. Ma è anche la sua (inutile)
negazione, il suo (presunto) superamento.
Ancora all'epoca sua Clausewitz, teorico della guerra moderna,
per così dire razionale, doveva polemizzare con i militari di tradizione
cavalleresca, ponendo l'accento sulla necessità di travolgere senza pietà
le forze dell'avversario. Nel 1914, e fino ad almeno il 1916, gli eserciti
contrapposti sui fronti della Prima guerra mondiale esitavano a tirare,
con le artiglierie, sui rispettivi Stati Maggiori. D'altra parte, il
militarismo, cioè l'uso a fini politici delle tendenze ritualistiche o, se si
vuole, del fascino esercitato dall'aldilà sull'individuo, presuppone il
persistere di atteggiamenti del genere: il militarismo è l'azione militare
propria di un'epoca storica in cui il fine della guerra già trascende le
manifestazioni della guerra, in cui il combattente esiste ancora, in cui
è tuttora necessaria la mobilitazione degli individui, che è quanto dire
la messa in opera di complessi meccanismi intesi a persuaderli della
necessità del sacrificio, cioè della rinuncia al “sé” in nome di ideali
superiori che equivalgono a sospensioni del tabù che copre la violenza.
La competitività economica, intesa come “duello”, favorisce
indubbiamente il processo perché fornisce un accenno di “ebbrezza”,
il senso del gioco e del rischio.
«La guerra è un atto di violenza, e non si danno limiti alla
manifestazione di tale violenza». Karl von Clausewitz.
Clausewitz si abbeverò a Kant e a Fichte, ma influenza decisiva
sul suo pensiero esercitò, oltre a Montesquieu, Niccolò Machiavelli.
Anzi, si può dire che Clausewitz abbia ripreso l'opera del fiorentino,
proseguendola in un campo inusitato e più che altro, fino a lui,
sottinteso. Se, prima, di guerra si parlava era infatti per accettarla come
la successione dei giorni e delle notti; si tentava, al più, una
meteorologia, una climatologia della guerra, ignorando però la fisica,
la costituzione reale di nubi e acque. L'esposizione della teoria di
Clausewitz non è quindi l'enunciazione di un metodo o di un insieme
di ricette per condurre guerre di tipo diverso, o per agire nelle differenti
situazioni del conflitto e forme del combattimento; Clausewitz pone
l'accento sulla diversità che corre tra essenza e teoria della guerra vera
e propria.
L'essenza ci rimanda alla guerra assoluta o all'assoluto della guerra
(che non va confusa con l'odierna guerra totale). In altre parole, allo
“sviluppo all'estremo” di tutte le potenzialità della guerra; alla violenza
pura. Sviluppata, la violenza porta all'annientamento dell'oggetto preso
di mira (l'avversario); ma ovviamente ciò non può non generare una
reazione: il movimento è bipolare, non meramente negato rio; e ne
deriva il conflitto.
La storia della guerra non può essere disgiunta da quella degli
avvenimenti politici, ma soprattutto non può essere compresa se non
nel contesto della cultura tutta quanta. Se, «quanto agli obiettivi
politici» della guerra, «il governo è il solo a decidere... le passioni
chiamate a infiammarsi nella guerra devono preesistere nel popolo
impegnato; l'estensione che il gioco del coraggio e del talento assumerà
nel dominio del caso e delle sue vicissitudini, dipenderà dal carattere
del comandante e dell'esercito». E quindi inevitabile il militarismo, la
preparazione delle «principali potenze morali» fin dal tempo di pace.
Anzi, per la definizione stessa di guerra, non esiste per il militare «la
pace»; esiste solo la nonguerra, la tregua armata.
Ancora Clausewitz, Della guerra.
«Noi diciamo», suona la definizione di Clausewitz che aveva
entusiasmato Engels, «che la guerra non appartiene al dominio delle
arti e delle scienze, bensì a quello dell'esistenza sociale. Essa è uno
scontro di grandi interessi, regolato mediante il sangue, ed è per questo
solo che si differenzia dagli altri conflitti. Meglio sarebbe paragonarlo,
anziché a un'arte..., al commercio... ed essa ancor di più somiglia alla
politica, che a sua volta può essere considerata, in parte almeno, una
sorta di commercio su larga scala. Di più, la politica è la matrice dalla
quale si origina la guerra». Momento decisivo della totalità dei conflitti
umani, questa ha un contenuto “commerciale” e “interessato” (oggi
diremmo economico e sociale), che dà il senso alla vita e alla morte
della società e della sua coscienza politica; ma essa non è affatto un
primum, un a priori, bensì un “accanto”, un mezzo tra altri mezzi,
distinto da essi solo in quanto culminante, mortifero, distruttivo. In
questo suo essere mortifero, il suo fascino: ma anche la sua possibile
condanna.
Il concetto di guerra pura, assoluta - la distruzione illimitata -, si
degrada così nella guerra reale, in una problematica umana, e chi vince
è colui che ha messo in campo più volontà, più forze, più chances.
Se tra essenza e teoria (tra guerra assoluta e guerra reale) vi è
dunque una distinzione, ne deriva che anche il rapporto tra politica e
guerra può essere considerato alla stregua di un rapporto tra concetti e
tra manifestazioni reali. «La guerra reale non è uno sforzo del tutto
conseguente, tendente ai suoi estremi, come dovrebbe essere secondo
il proprio concetto, ma alcunché di mitigato, una contraddizione in sé».
In altre parole: non esiste guerra senza regole. Come tale, la guerra
dev'essere considerata parte di un tutto, che è, non solo la politica, ma
l'intera struttura culturale; e della politica, e di questa o quella
particolare cultura, la guerra avrà il carattere; se la politica è politica di
un grande stato, grande potrà essere la guerra, «prossima ad assumere
la propria forma assoluta». Anche la politica, «il cui concetto supremo
domina quello di guerra», ha una sua ratio interna, la ratio dei conflitti
nei rapporti umani; e anche la politica ha una forma assoluta e una
«tendenza agli estremi»: per cui Napoleone poteva dire che le destivi,
c'est la politique.
Perché la guerra ci sia, occorre dunque che esista la fonte delle
regole, cioè la legge. Non si dà guerra senza legge, senza ordinamenti
militari, senza divisione del territorio in distretti, senza designazioni di
gradi, funzioni, scopi...
La violenza assoluta è un ideale inattingibile; è il mondo del sacio.
Così, la politica assoluta è il mondo delle decisioni non impastoiate da
nulla di concreto, non limitate né condizionate. La guerra assoluta e la
politica assoluta appartengono agli dèi; velleitariamente, ai sovrani. La
guerra reale e la politica reale sono due relativi.
Se, per appropriarsi dei beni o della posizione dell'avversario, è
d'uopo batterlo, volgerlo in fuga, è ovvio che prima debba essere stata
posta la nozione di proprietà, e questa non può che essere frutto di un
processo economico e sociale, certo intessuto di spinte e resistenze, di
pressioni e reazioni, ma non esclusivamente ed essenzialmente di
scontri sanguinosi; l'apocalittica concezione di un'umanità
originariamente in guerra, di una società biologicamente spinta al
funebre rito del massacro e che miracolosamente trova di tanto in tanto
la via di parziali, fortunosi, precari accordi: di un'umanità in cui tutto
derivi — cultura, civiltà, progresso, struttura sociale e politica —, tutto
dallo spargimento di sangue, sangue come suolo e come concime,
come matrice e come fecondante, è sostanzialmente errata e fonte di
gravissime conseguenze. È stata la concezione del nazionalsocialismo
hitleriano, e può riproporsi in qualsiasi momento (a patto, beninteso,
che la mobilitazione sia totale, da parte dei mobilitatori come dei
mobilitati, metodi dei primi, accettazione entusiastica dei secondi).
La teoria della guerra deve pertanto culminare in una teoria, non
solo della politica e dell'economia, ma - lo ripeto - del divenire della
cultura. La guerra reale si fonda necessariamente sulla vita sociale
reale. Tattica e strategia hanno regole che dipendono dalla struttura
della società, dalle sue risorse, dalla sua capacità di produzione, dal suo
livello tecnico. Una guerra che non tenga conto di questi fattori, è
evidentemente scatenata dall'incoscienza. (Lo è stata quella voluta dal
fascismo negli anni Quaranta del XX secolo.).
Ciò spiega il carattere della guerra di oggi, la sua lenta e meticolosa
preparazione, logistica e di materiali, il suo procedere a scatti rapidi e
deleteri, la tensione permanente — legata alla lunghezza del processo
produttivo — che essa origina.
Ciò che Clausewitz affermava, era che necessariamente la guerra
è strumento della politica; che il signore della guerra, se conquista il
potere, lo fa appunto per assudditare la guerra a una politica di cu si
crede capace. La guerra che non sia strumento, è concepibile?
Ma l'assioma “occorre l'esercito della propria politica” comporta
un potenziale errore, che consiste nel ritenere che l'esercito sia un'entità
a sé stante; che senza un potente esercito, lo stato debba limitarsi a una
politica modesta; e che solo con gli arsenali pieni e gli «otto milioni di
baionette» di mussoliniana memoria, o con gli enormi investimenti
statunitensi in strumenti della «guerra chirurgica» all'inizio del XXI
secolo, ci si possa permettere una politica di vasti orizzonti.
Inutile dire che è proprio quanto Clausewitz negava, ma l'impe-
rialismo, quello del passato e quello attuale, sostiene esattamente il
contrario e fa sua espressamente la politica della minaccia, quella che
il defunto Dulles definiva la politica della brinkmanship, sospesa cioè
sull'orlo della guerra: la quale ha fatto perdere di vista agli Stati Uniti,
nel secondo dopoguerra, altre fondamentali realtà, squisitamente
politiche, come è avvenuto negli USA sotto la presidenza di George W.
Bush coadiuvato dai suoi consiglieri neoconservatori.
L'esercito — la preparazione alla guerra: il militarismo — non
possono esaurire la sfera dell'azione politica. Hitler nel 1939 aveva
l'esercito della sua politica: ha portato alla rovina quello e questa. La
rivoluzione sovietica del 1917 non aveva certo un esercito da opporre
a quello zarista né, più tardi, a quelli degli interventisti; e nel 1947 non
l'aveva certo Mao Zedong, eppure ha saputo condurre ugualmente una
guerra che ha visto il trionfo della sua concezione politica. Un esercito
poderoso, la Grande Armata napoleonica, non ha avuto ragione della
rivolta spagnola. L'errore sta nel concepire un parallelismo tra guerra e
politica, laddove Clausewitz proponeva un'integrazione, una mobile
compenetrazione. A sua volta tuttavia operando un riduzionismo, un
assudditamento della guerra alla politica; dimenticando, dunque, che la
politica è una faccia della cultura.
La guerra, in realtà, non è propriamente subordinata alla politica;
ne è, al più (e non sempre), la forma suprema, il culmine della politica,
ne è parte integrante, ne è la sempre possibile metamorfosi, la sua
forma allotropica; ma non è detto che il ricorso alla guerra sia
assolutamente indispensabile e inevitabile, così come l'insurrezione
armata è il momento decisivo della rivoluzione senza esaurire la
rivoluzione, senza essere tutta la rivoluzione.
E, dichiarando superata la guerra per la coscienza attuale, non si
vuol certo dire che quest'opinione, anche se dovesse divenire generale,
può bastare a farla decadere; il processo al quale mi riferisco è quello
della possibile sostituzione della guerra nell'armamentario politico: la
proposta di ricercare un'altra forma allotropica della politica, un'altra
metamorfosi. Ciò che esigerebbe una metamorfosi culturale di
vastissimo respiro.
Soltanto una politica stupida — anzi una non-politica, la sua
negazione — come è stata quella degli USA nei confronti dell'Iraq e
dell'Afghanistan in questo secolo si trasmuta senz'altro in guerra, al di
là di ogni considerazione di carattere razionale e utilitaristico.
Il militarismo è l'impresa della morte individuale. Una guerra
completamente meccanizzata, una push-bottom war, toglierebbe di
mezzo il militarismo? Certo, nei limiti in cui si eliminerebbero gli
eserciti, per sostituirli con le macchine. La guerra diverrebbe, allora,
mera politica, e il monopolio della violenza sarebbe più che mai
assicurato ai poteri, che potrebbero privarne in ancor maggiore misura
i sudditi, perché non avrebbero bisogno di soldati. (Riteniamo che sia
questa la ragione
principale per cui gli stati, USA in testa, dedicano tanti sforzi alla
creazione di armamenti sofisticatissimi, completamente
automatizzati.) D'altro canto, è facile constatare come ciò
implicherebbe un aumento di tal fatta delle componenti in apparenza
razionali alle quali dovrebbero sottomettersi, nei rapporti con altri stati
con poteri equivalenti, da rendere assai improbabile lo scoppio di un
conflitto, com'è (in parte) comprovato dall’“equilibrio del terrore”
atomico, che infatti è sembrato e tuttora sembra rendere impossibile lo
scontro diretto tra superpotenze nucleari.
«[Gli uomini d'arme, cioè i nobili cavalieri] che erano finiti a
terra [venivano storditi a colpi di mazza dagli arcieri usciti dallo
schieramento inglese]... L'uomo d'arme era impotente: un colpo al
viso, se portava un bacinetto, o ancora attraverso il giaco di maglia
all'ascella o all'inguine, era sufficiente per spacciarlo o per lasciarlo
morire dissanguato».
John Keegan, «Azincourt», 25 ottobre 1415, in // volto della
battaglia, Milano, 2001.
Poiché lo Storico è sempre, e comunque, un religioso. Pratica,
infatti, una scienza.
Beato lo Storico che sa quello che fa. Che sa quello che dice.
Beato lo Storico al quale sono stati svelati gli arcani; che anzi li
ha agguantati, sbattuti a terra, infranti e calpestati, ridotti in polvere.
Che tutto ha problematizzato.
Beato lo Storico perché non solo conosce il passato, ma il futuro
gli si apre intatto davanti. Egli sa che passato e futuro esistono, e infatti
li definisce, sia pure servendosi di una definizione che presuppone se
stessa: dice che il passato è un non-più, il futuro un non-ancora, il
presente è l'adesso, tre momenti che contengono una negatività, il
passato perché non è più, il futuro perché non è ancora, il presente
perché, nell'istante in cui lo si coglie, è già trapassato nel non-più.
Sicché, i momenti del tempo appaiono come non esistenze, e tuttavia
il tempo per lo storico è innegabile realtà.
E la celebre aporia descritta dallo Storico Sesto Empirico, al quale
replica, mettendo una volta per tutte le cose a posto, lo Storico
sant'Agostino, secondo cui il passato è una traccia, affectio-animi, è,
per l'animo, un «essere interessato» da un «essere passato», mentre il
futuro è un segno di ciò che attendiamo; ragion per cui, ci sono tre
tempi: il presente delle cose passate, il presente delle presenti, il
presente delle future. «Tre presenze che si notano solo, distinguibili,
nell'animo, e altrove non le vedo» (Confessioni, XI, 20).
Beato dunque lo Storico teologizzante il quale sa che il tempo sta
nel nostro animo, al di fuori del quale si stende l'infinita presenza del
divino, di cui l'animo fa e non fa parte; e, se distinguiamo ciò che
ancora non è o non è più, è perché tendiamo a qualcosa, alcunché ci
sospinge, ci mette in tensione («il presente è un'attenzione per tramite
ciò che era futuro viene trasposto in modo da essere passato»). Il
motore della tensione è l'aspirazione al divino.
Ciò che sta fuori dal tempo, i greci lo chiamavano a-dion: non
un'entità, una realtà astratta, scissa da noi, bensì quella forza di tensione
che fa sorgere la realtà. Insomma, era il tempo mitico. Per lo Storico,
invece, tutto questo diviene realtà: realtà dell'anima che tende al suo
(reale) Fattore, lui sì padrone del sacro, ma depurato, sacro senza gli
aspetti orribili e impuri. Un Dio buono, insomma, nel quale ci si
riposerà in un eterno (e reale) presente, che è però un dovere:
contemplazione, è vero, ma a lode e gloria del Fattore. Nulla è senza
scopo, tutto tende a un fine, sostiene il teologo.
Beato lo Storico, perché ignora che la confusione di sacro impuro
e di profano, imposta dal cristianesimo, è sembrata per secoli contraria
al sentimento, alle memorie, alla natura stessa dell'uomo; per il
cristianesimo, la profanazione finiva per identificarsi con la
trasgressione la quale, anziché essere accolta ed esaltata in quanto
accesso alla sacralità, era respinta e denunciata come appartenente al
mondo diabolico e profano, antisacro. Beato lo Storico, perché non ha
avuto modo di accorgersi che, così facendo, il cristianesimo si
condannava - al pari di ogni religione rivelata - al vuoto formalismo; la
sacralità essendo ridotta alla parte in luce, dio, mentre ne era esclusa
quella in ombra, Satana, esso doveva di necessità ricorrere a un enorme
apparato logico per sostenere la credenza in questa mutilata sacralità;
e, dove finiva l'apparato logico, finiva anche il cristianesimo.
Beato lo Storico, il quale non ha occhi per vedere che proprio
l'ambito cristiano costituiva la culla ideale della scienza moderna,
poiché la chiesa aveva già provveduto a togliere di mezzo la
contemplazione del sacro. Perseguendo i culti satanici, la chiesa non ha
fatto che eliminare l'aura di intoccabilità che gravava sulle cose sacre,
ha permesso l'indagine spassionata e senza pregiudiziali su un mondo
altrimenti ritenuto inavvicinabile. E beato lo Storico il quale non si
avvede che non già il logos si è spinto, conquistador, nell'aldilà, ma
che il logos, girando su se stesso, ha riempito, ragno indefesso, di una
tela sempre più fitta l'ambito dell'aldiqua. I confini, sono sempre quelli:
nelle fauci spalancate del cadavere, il logos rilutta a precipitarsi.
Beato lo Storico che, non contento di elaborare una cosmogonia
non più mitica ma razionale, ha elaborato addirittura una logo-gonia;
che ha dilatato il modello logico all'universo intero; che l'ha dichiarato
figlio dell'universo (Figlio del Padre); che, umiliandolo (tra gli
«abominevoli odori» dei «composti organici delle purine e delle
pirimidine che si agganciano in lunghe sequenze per formare geni e
cromosomi»), l'ha elevato in realtà alla gloria degli altari. Che ha
rinnovato l'antropocentrismo dopo aver denunciato e rovesciato F
Antropocentrismo, e che ne comprova la fondatezza, tant'è che, in
candido camice da biologo, lo Storico si dedica a giochi di prestigio
con le catene di geni e, in tuta spaziale, calca le polveri della Luna.
Beato lo Storico che deve rifarsi di continuo alle presunte origini,
al Residuo indecomponibile, ma non lo sa, lo nega, e non soltanto
sostiene che non gli sembra affatto, ma che anzi senz'altro non è così,
che sono tutte calunnie, e ride dell'inconsistenza di quest'insinuazione.
No, no, la Scienza non è il mito, che diavolo! La Storia non ha nulla a
che fare con il mito. Semmai, che ci si debba rifare alle origini, egli
proclama, è norma iscritta nel nostro codice genetico, nella nostra
logica che è poi la Logica: ulteriore riprova dell'unitarietà e uniformità
del mondo, supposta con atto un tantino metafisico, ma senza il quale
nessun discorso sarebbe possibile, e lo Storico perderebbe la sua
funzione di labbro loquace del potere. Anche lo Storico tiene famiglia,
anche lo Storico deve campare, no?
La storiografia pretende all'univocità, all'indiscutibilità del
documento.
Il Neolitico ha introdotto armi specializzate per l'omicidio.
Derivazione da strumenti per la caccia, o non piuttosto una concezione
affatto nuova? Una mentalità senza precedenti? Starebbe a provarlo
l'esistenza, fin dal X millennio a.C., convalidata dai reperti, di
armamenti evidentemente da parata, di pietra o di osso, troppo
voluminosi e pesanti per rispondere a fini meramente pratici. Armi,
cioè, da esibizione, da parata, non tanto utilitaristici, quanto rispondenti
a un'ideologia, se per questa si intende l'interpretazione della realtà
proposta-imposta dal potere.
Ideologica in questo senso è la favola, riduzione e utilizzazione
del racconto mìtico, rispetto al quale vengono introdotti interpreti —
animali antropomorfici —, liberatori e scioglitori di enigmi, sovrani
ed esseri ultraterreni in funzione di giudici e psicopompi.
EMILIO MOBILITATO
Ecco di fronte a noi il moderno pronipote di quell'Emilio cui
Rousseau non raccomandava mai abbastanza di abbeverarsi alle poppe
generose di madre Natura.
Dobbiamo, al nostro tenero pupillo, impedire di farsi venire troppi
grilli per il capo, indurlo al rispetto dei poteri costituiti, cavarne un
soldatino sempre pronto a marciare qualora noi, la Patria, lo si chiami:
dobbiamo infondergli odio per i nemici e amore per i nostri padri che,
ineffabilmente incapaci di errare, sono la fonte della nostra autorità.
Dobbiamo produrre un suddito fedele, non un rivoltoso né un
rivoluzionario: un inquadrato, non uno che pensi con la propria testa;
ma dobbiamo convincerlo che, appunto facendo come vogliamo noi,
egli pensa con la sua testa. E quando daremo mano a questa opera?
Qual è la stagione a essa più favorevole? Attenderemo che Emilio sia
grandicello o imprenderemo a plasmarlo appena uscito dall'alveo
materno?
No: cominceremo — è assai più conveniente — dall'alveo che lo
genera. E il mezzo per farlo, eccolo: ecco il sicuro strumento che,
dando a coloro cui sia applicato, ai sudditi, la certezza di partecipare
della bontà, bellezza, pulizia, candore immacolato degli strati più alti
della società, li renderà paghi di questa coscienza, e null'altro essi più
domanderanno; agiremo infrenandoli, reprimendone gli impulsi,
castigandone le voglie. Possiamo, a questo metodo, dare il nome di
censura? Essa, è ovvio, sarà la custode della famiglia, della domestica
fedeltà, della castità cioè e della modestia. Opponendo alle espansioni
erotiche il volto severo e impietrito della riprovazione, la fronte
aggrottata del disdegno, imprimerà a tali pratiche quel
marchio di colpevolezza, lavato solo dalla loro utilità ai fini della
conservazione del nome, delle memorie familiari, di quel dolce calore
da nido in cui apriamo gli occhi al mondo e in cui viviamo e
tranquillamente ci spegniamo, dopo avere, a nostra volta, generato;
quell'onta, si riverserà e spanderà su ogni nostro atto, desiderio,
aspirazione: se colpevole è quella molla fondamentale per cui abbiamo
vita, che cosa non sarà colpevole? Colpevole il nostro nascere; che
altro? Chi ci salva? Ma ecco venirci in aiuto l'autorità, eccola dettarci i
limiti del nostro fare, pronta a sollevare il dito in gesto di rimprovero
ad ogni nostro tentativo di superare, sia pure di un'unghia, i limiti del
convenevole. O non sono questi un tantino arbitrari? Errare è umano,
ed è sempre meglio abbondare in precauzioni che mancare. E poi,
l'abbondanza di sanzioni, primo, fornisce un falso scopo, e obbliga la
critica e l'opposizione ad accanirvisi contro; secondo, confonde i limiti
delle varie proibizioni, li mescola e sfuma e nullifica: e chi distinguerà
più i fulmini scagliati contro l'impavidità morale, le manifestazioni del
pensiero, gli scritti, le opere, i quadri, le pellicole non ufficiali? I limiti
della decenza - seno e non pelo, coscia con calza e non natiche —
servono ad abituare al limite tout court, sono una prima disciplina. E
alla portatrice dell'alveo da cui dovrà sbocciare il nostro Emilio,
imporremo così limiti nuovi e più severi, oltre a quelli affidati in
retaggio, dalla tradizione, a lei cui classicamente compete di far da
freno, di imporre redini sorridenti e teneri divieti, di ostacolare le nostre
defecazioni e i nostri eccessi digestivi, di far di noi dei disciplinandi.
Già usciamo, dal suo caldo abbraccio, stanchi, spossati; già i tentativi
di evasione hanno esaurito gran parte delle nostre energie, si son
tradotti in lacrime e sofferenze, in capelli precocemente incanutiti e in
mani tremule. Ora, vorrà Emilio far soffrire la Patria, questa madre di
tutti noi, come ha fatto, ahimè necessariamente, soffrire la mamma?
Emilio sorge dal grembo piumoso della famiglia con poche pretese, e
con la persuasione che nell'accettare la disciplina, e nell'imporsene di
ulteriori, spesso gratuite, egli riveli la sua libertà. Emilio si fustigherà,
ma non tanto da dimenticare — preso dal problema della sua inimicizia
con se stesso, attratto e affascinato dalla guerra che muove alle proprie
voglie — i suoi doveri: che sono, è la norma ideale, di diventar parco
e laborioso e obbediente al giro delle stagioni, a tutto ciò che gli
spacceremo per “natura”, come un contadino, epperò con l'abilità
tecnica del manager e quella manuale di un operaio. Dell'uno avrà la
ristrettezza di orizzonti — il podere familiare —, dell'altro i limiti
rigorosi dell'azienda, la solidarietà, svuotata però di senso, limitata e
degradata nel codice della camerateria: colleghi e non amici,
acquartierati assieme ma senza particolari e vicendevoli simpatie; il
modello di Emilio sarà, non ancora l'ufficiale, ma già il distaccato e
impenetrabile capitano d'industria che non guarda mai in faccia
nessuno; e chi aspira a divenire almeno sergente, non deve dare troppa
confidenza.
Sul modello delle sofferenze di Emilio, del suo volontario e
virtuoso castrarsi — o sconciarsi, o sanarsi — di questa segreta ma
ormai radicata aspirazione a farsi Flagellatore, Scopatore, Passionista,
costruiremo adesso il modello del Tutto di cui egli è parte. Gli
proporremo l'immagine del Dio sofferente, e sofferente sarà anche
l'entità che, partecipando del carattere sacro e intangibile della divinità,
può a questa sostituirsi efficacemente, in quanto più concreta e quasi
visibile: la Patria. La Patria che mostreremo a Emilio è piagata, è
offesa, ha un altare, su cui si celebra un perenne sacrificio; la Patria è
circondata, come la cattedrale medioevale da storpi, lebbrosi e
mendichi, da una folla di festosi monchi, di orgogliosi mutilati, di
tuonanti ciechi, di storpi agitati come bandiere; la Patria cannibale ne
ha divorato le mani, i piedi, gli occhi; la Patria pietosa ha offerto, in
sostituzione di questi organi, altrettante protesi.
Non dimentichiamo infatti che il nostro Emilio ha una doppia
dimensione: v'è l'Emilio incapace di ribellioni, f Emilio pieno di
scrupoli, l'Emilio ridondante di divieti, l'Emilio limitato e inibito,
l'Emilio conformista, l'Emilio obbediente, confezionato su misura,
l'Emilio persuaso di avere operato, in tutta libertà, una scelta; sì, gli si
sono proposti dei modelli, ma egli poteva anche non accettarli, non farli
suoi. E c'è f Emilio esorbitante e assoluto; già nel non ribelle,
nell'untuosa vittima, si nasconde l'assassino: Emilio il conformista è un
possibile carnefice.
Se ora volessimo sviluppare appieno le potenzialità di Emilio, se
ci occorresse non solo adeguarlo e condizionarlo, tenerlo pronto alla
chiamata, ossequiente all'autorità, in modo da averlo sempre
sottomano, ma addirittura spedirlo al fronte, cangiarlo in carne da
cannone, come faremo? Ecco: insisteremo sul concetto che la guerra è
sublime, che essa costituisce la sommità dei servigi resi alla Patria,
dell'esser solidali con la comunità nazionale. Emilio è abituato a
sentirselo dire; e noi sappiamo, col Capitano statunitense John H.
Burns, teorico della «bella guerra», che uomini cresciuti dall'infanzia
con la convinzione che la guerra non possa mai giustificarsi, «non
costituiranno mai un esercito»; e perciò abbiamo provveduto a
convincere Emilio che la sua ultima istanza è la Natura; ora, è evidente,
e lo dicono perfino le favole dell'infanzia, che il leone mangia la
pecora, il gatto il sorcio, e i cani si mordono a vicenda, e gli “uomini
di natura”, roteando gli occhi e le mazze, agitando scompostamente le
lance, si scagliano sulle carovane dei pionieri del West, bramosi di
scalpi, animati dal desiderio di riempir di frecce il giovane, tenero
corpo della bionda e casta Jane O'Hara, innocente vittima della
barbarie. La guerra, dunque, è la «suprema, estrema fase
dell'evoluzione dell'umanità», come insegna la tedesca
Militàrwissenschajtliche Revue del marzo del 1936. E Mussolini
incalza: «Noi suoniamo la lira su tutte le corde, da quella dell'arte a
quella della politica. Siamo politici e siamo guerrieri». Alle proprie
spalle, Emilio sentirà fermentare la Nazione, avvertirà la spinta
irresistibile della solidarietà nazionale: e gli diremo degli orrori che lo
attendono qualora fosse sconfitto, delle madri uccise coi teneri figli al
seno, degli ospedali devastati, delle città in fiamme, e della soldataglia
nemica che, assaliti i conventi, stupra le monache, assetata di sangue e
di alcol, né manca di abbeverare i suoi cavalli nelle nostre marmoree,
perfette fontane. Non più querele, dunque, non più discussioni e
scioperi e proteste: uniti, si stia, e si proceda diritti alla meta. E, per i
generali della Reichswehr matrice, entre-deux-guerres, della
Wehrmacht nazista, «scuola ed esercito sono interrelati, e la gioia
dell'obbedienza può essere imposta ex cathedra». E la stessa
convinzione dei neoconservatori degli Stati Uniti del XXI secolo.
Potremo, all'occasione, ridurre le ore di studio di Emilio (e infatti le
scuole USA — le pubbliche, ovviamente — sono espressamente tenute
in stato di degradazione), e sostituirle con qualche proficua ora di
esercizi militari, e magari di esercitazioni a fuoco; oh, l'odio che Emilio
ha raggomitolato in sé contro i possibili nemici! Ha seguito, lungo le
pagine dei libri della sua infanzia, le peste di se stesso, cacciatore di
indiani, uccisore di bisonti che costituivano la principale fonte
alimentare di quelli delle Grandi Pianure; ed è stato dietro una finestra
della fattoria, nel cuore buio e umido dell'Africa, e con calma puntava
il fucile, e dalla boscaglia saliva il confuso urlio della banda nera e
selvaggia, che tra poco si sarebbe manifestata con una pioggia di
zagaglie, subito persa nel fumo e nel fragore degli spari. Pronto,
Emilio? «Non praevalehunt» (Mussolini, Messaggio per l'anno IX). La
scuola gli ha formato il carattere: «ancora e sempre, lo spirito è la leva
delle grandi cose», e «un popolo non può diventare grande e potente...
se non si accosta alla religione e non la considera come un elemento
essenziale della sua vita privata e pubblica».
In vista dei suoi compiti futuri, è però necessario che Emilio,
ancorché zotico, non sia digiuno di certe conoscenze tecniche; e, se
vogliamo farne un ufficiale, che abbia un'istruzione ispirata alla
classicità, quella assicurata, negli USA, dai buoni colleges, dalle
università di élite. Abbeverato alle ricche fonti dell'antichità, sia pure
ridotta in ben digeribili pillole, saprà cose che gli studenti delle scuole
di rango inferiore ignorano; grazie a una cultura, data a lui o propostagli
come modello, e riservata ai futuri dirigenti, si sarà convinto che la
verità va cercata alle proprie spalle, lontano, nelle ombre del passato
da cui si levano, illuminati dai raggi di un sole intramontabile, i
frontoni dei templi greci, e le belle divinità impavide, i giovinetti eroi.
La storia, eventualmente, sarà accomodata, ritoccata e insaporita; non
ci ha forse detto il conte Keyserling, nel primo dopoguerra (1919), che
«l'idealizzazione della guerra... non è un segno di decadenza morale,
ma al contrario il segno di un nuovo culto dell'eroe e di un nuovo spirito
di sacrificio»? E non è un'opinione saldamente radicata negli USA del
XXI secolo, dove in mano ai privati sono almeno duecento milioni di
armi?
Ma Emilio potrebbe opporsi alla sorte che gli abbiamo riserbato,
può chiederci: «E la morte? lo parto soldato, combatto, e sta bene. Ma
se muoio?». Ecco, questa è una seria difficoltà; possiamo però
superarla. Possiamo, anziché tacere sulla morte, farne una compagna
d'ogni giorno, un sontuoso e indispensabile ornamento, un vistoso
orpello, un manto prezioso. Le città in cui Emilio si muove, sono
costellate di templi-ossari, l'orizzonte è occupato da cimiteri, cippi e
croci non si può dire che manchino. Si può morire: si deve morire; ma
chi muore giustificato, non muore, sopravvive anzi a se stesso, al sacco
di ossa, alla fragile carcassa che ne imprigiona il soffio vitale. Emilio
ha certo visto chiese le cui mura interne sono pareti d'ossa impilate, di
tibie ammucchiate come consunte tessere di un vecchio mosaico ormai
roso e grigiastro, di teschi sovrapposti a formare enormi parati, vegliati
alla base dal tremolio delle candele, e che verso il soffitto svaniscono,
assieme all'incenso e alle preghiere, in un'ombra tenue, un'ascesa
placata. La morte, per Emilio, è gialla e nera, color dei marmi barocchi
che, al di qua delle reticelle distese a trattenere quegli ingranaggi di
scheletro, quei cumuli di rottami ossei, quelle frazioni del passato,
quelle memorie e ammonizioni, si stendono in balaustre, balzano in
riccioli, si prolungano entro grotte fatate sviluppantisi dietro gli altari,
tra un piovere di ceree stalagmiti; è una morte che Emilio teme e
desidera insieme. Si è soli, dopo la morte? No, i poveri defunti sono
vegliati, han fiori, lampade votive, vedove e orfane chiuse nei loro veli
come in un bozzolo di rimpianti. E coloro che sono morti bene, da bravi
soldati, nella cassa che ne ha raccolti i pietosi resti sobbalzano al tuono
delle salve che salutano l'ascesa al cielo degli eroi; si offre un cibo di
corone, a questi insaziabili morti ben nutriti di aulenti coccole deposte
sulle lunghe gradinate che portano ai fortilizi in cui dormono, sotto il
bel cielo di un deserto, o sulla cima d'un colle, nei luoghi in cui è rifulso
il loro valore. E poi, chi teme la morte è un vigliacco. Viva la muerte,
scrive il legionario franchista sui muri del villaggio d'Andalusia testé
occupato; e la bandera va all'assalto lanciando il grido: «Viva la
muerteh. Morte tua, Emilio, nomo de la muerte: e morte da te inferta al
nemico; sul tuo berretto da SS, Emilio, un teschio con tue tibie
incrocicchiate ripete il simbolo barocco della morte subita, e quello
tecnico della cabina ad alta tensione che tu sei diventato per chi osi
levare la mano su di te.
Emilio è entrato nell'oppiaceo regno del nichilismo attivistico, la
sua ambrosia ha nome successo, vittoria. In verde età, Emilio è già un
vecchio combattente, egli combatte per combattere, pronto a un addio
pacato e fermo alle donne, agli affetti, all'amore, per ritrovarsi, con un
senso di sollievo, nell'unico ambito in cui si senta veramente a suo agio,
tra camerati, anziani dalla barba bianca che han tirato fuori dai
cassettoni la vecchia uniforme, nipoti imberbi che, fanciulli ancora,
burlandosi della loro stessa fanciullezza, si uniscono ai padri e ai nonni
nel coro delle vecchie canzoni, intonando le quali si marcia senza
avvertire la stanchezza, come su un nastro mobile, fluente, eterno. Se
Emilio tornerà a casa, sarà per rimpiangere quei momenti sereni,
quell'incredibile felicità tra il fumo e lo schianto delle esplosioni: era
un uomo, Emilio, allora.
Assicureremo a Emilio la salute fisica: esci all'aria libera, Emilio;
pratica gli sport, Emilio, va' al poligono di tiro; dedicati ai giochi di
ruolo; ti divertano le violenze buffonesche, ma istruttive, dei
videogiochi; non consumarti sui libri, la vita è una battaglia; devi esser
pronto e scattante allorché corri a vendere la tua merce o, in ufficio, per
rispondere all'appello del superiore. Sentirai magari dire che ai ragazzi
non si devono lasciare armi, che non dovrebbero giocare con pistole e
schioppetti di latta: ma nessuno ti parlerà di pace; la vita è un continuo
duello, t'hanno detto, e tu ti sei agguerrito, il tuo ideale è l'uomo col
pelo sullo stomaco; non si vuole la guerra - non ora, per lo meno —,
ma la battaglia sì: questa è continua. Emilio è salvo solo se “arriva”, se
conquista per lo meno i galloni di sergente. E soldato nella vita civile:
una vita militante, all'insegna del lupo; soldato quanto avrà la cartolina
precetto. Emilio è persuaso che la concorrenza vitale scatenata, la lotta
per l'esistenza, sia l'unica regola delle società. La guerra, se scoppia, è
il proseguimento di un ordine originario, eterno. E sempre andata così,
e sempre andrà così, sostiene ormai Emilio: è tutta una “naja”, conclude
rassegnato e orgoglioso, con l'orgoglio del naufrago che tocca terra e
ogni fine del mese.
Se Emilio dunque si trasformerà in guardiano di Buchenwald,
forse che noi ce ne meraviglieremo? Diremo che ha tralignato? Che è
andato al di là del segno? In tutto quel che gli siamo andati insegnando,
è insita questa sua possibilità; Emilio carnefice, non è un mostro: è il
frutto dell'opera cui l'abbiamo sottoposto.
CONCLUSIONE

Homo affectus, homo patiens: dovrebbe essere la nostra


condizione. Ci è prescritta. E ignoriamo la sintassi della gioia. Ci è
imposta la valle di lacrime, la colpa, il pentimento, il perdono, e la gioia
è riservata a questo o quello dei tanti nirvana o paradisi.
La porta della gioia può socchiudersi già quando ci si rifiuti di
prestar fede all'ineluttabilità del binomio Potere-tristezza. E quella che
ci appare allora può essere la strada dell'erranza, che non è
necessariamente l'inseguimento dell'uro o dell'orso speleo, ma il
richiamo al mitico che è in ciascuno di noi.
Questo libro non è, non ha voluto essere, un manuale di idee per
l'azione. L'esperienza insegna che le formule, le ricette facilmente o
arduamente applicabili attorno alle modalità di opposizione o
contestazione o negazione del Dominio nella sua tripartizione, potere,
religione, guerra, per secoli e secoli si sono rivelate incapaci di minare
effettivamente, concretamente, la fortezza del Potere. Sono stati e sono
atteggiamenti che sono valsi a rovesciare singoli poteri, senza portare
al permanente superamento del Dominio. Anzi, di solito sono stati e
sono tuttora i distruttori di quel potere, di quel Dominio, che si sono
affrettati a intronizzarne uno nuovo, e poco importa, a una visione
vastamente panoramica, globalizzata, se migliore o peggiore del
precedente.
Mi è dunque parso di maggior momento tentare di mostrare la
fallacia di facili illusioni demolitrici e ricostruttive, e di richiamare, me
stesso e quanti mi leggeranno, a quel residuo indecomponibile che me
parla, che te parla, che noi parla; e se fosse possibile (ma non è) abolirlo
non ci resterebbe appunto che la tetraggine, con la verbalizzazione del
parlante convinto di essersi lasciato alle spalle l'ombra, che pure non
cessa mai di inseguirlo, del mitico.
GLOSSARIO

Qui di seguito sono riportati alcuni termini ricorrenti nel testo e


che forse richiedono qualche spiegazione aggiuntiva, accanto ad altri
termini che, non sempre presenti nel testo, hanno però diretta attinenza
con le idee in esso esposte.
Androginia Dal greco anér andrós, “uomo”, e gyné, “donna”. Il
principio primo, l'aldilà dal quale si proviene, è generalmente
concepito quale un tutto unico, indifferenziato (informe, caos, nulla),
da cui si distaccano, individualizzandosi, le specie e i singoli di sesso
diverso. A mano a mano che dalle concezioni mitiche si passa alle
religioni rivelate, l'aldilà assume caratteristiche “umane”, si crea un
pantheon {vedi), le potenze, gli antenati, gli spiriti animali dei primordi
cedono il posto a divinità maschili e femminili. Nelle religioni
monoteistiche, fortemente maschiliste, la divinità suprema è quasi
sempre un “padre”; ma è tipico di molte sette eretiche il ritorno alla
concezione antica dell'androginia (per certe sette gnostiche, il Cristo
era androgino, maschio e femmina assieme). (Vedi Ermafroditismo).
Anima Nell'accezione comune odierna, è il principio vitale del-
l'uomo, localizzata nel corpo di cui costituisce la parte immateriale; ne
originano pensieri, sentimenti, coscienza morale, volontà. Se il
concetto ha assunto connotazioni spiccatamente religiose, non fu cosi
all'inizio, quando venne intesa quale elemento animatore, e dunque
“vita”. I termini con cui l'anima è designata appaiono pertanto connessi
con l'idea della respirazione (greco psyché, latino animus ricollegabile
al greco dnemos, “vento”). L'anima così concepita non appare staccata
dal corpo, ed è localizzata in ogni sua parte o funzione; è insomma
parte essenziale del vivente, e in molte culture è tutt'uno con il riflesso
in uno specchio d'acqua o l'immagine che appare nella pupilla. (Molti
“primitivi” non vogliono essere fotografati perché l'obiettivo, in cui
sono riflessi, può rubare loro l'anima così intesa). Agli esordi della
concezione religiosa dell'anima, questa è molteplice (Cina, Egitto):
anima vitale, anima razionale, eccetera. In una fase più avanzata, si ha
l'anima “esterna”, immersa nel vivente da poteri superni; si può così
avere l'anima- sogno, indipendente dal corpo e capace di distaccarsene.
Le anime dei morti sono da allontanare con riti apotropaici, dotate
come sono di poteri che possono essere anche malefici. Altre volte ne
hanno di benefici, come i Mani e i Lari a Roma, o come gli “antenati”
oggetti di culto in molte culture. Per le chiese cristiane, fin dall'inizio
l'anima ha avuto natura spirituale, immortale e individuale; l'anima
verrebbe creata insieme al feto, e la Chiesa romana ha condannato fin
dal 1679 l'idea che il feto nel grembo non sia dotato di anima razionale,
donde il divieto canonico dell'aborto.
Autorevolezza Non è l'autorità (vedi), non è un diritto ratificato,
legittimato, ma semplicemente stima, fiducia acquisita da persone e
attribuita loro per consenso diffuso, sia pure solo nell'ambito di un
gruppo o tribù.
Autorità Va distinta dall'autorevolezza in quanto espressione di
una volontà esercitata da un individuo per sua imposizione o per
elezione più o meno condizionata dall'individuo e dai suoi accoliti.
In latino, auctoritas equivale a “legittimità”, e il termine indica
comunque la condizione di chi è investito di poteri e funzioni di
comando, e la cui forza si basa sulla sintesi del volere con la legge e
sul riconoscimento ufficiale della forza stessa. Se l'autorevolezza è
spontaneità, l'autorità è costrizione e prevaricazione.
Coincidentia oppositorum E un concetto diffuso in ogni cultura;
significa, in latino, “coincidenza degli opposti” e allude all'equilibrio
fondamentale in cui i contrasti convivono. È l'idea che sta alla base del
concetto cinese di yin e yang.
Ctonio Dal greco khtónios, “sotterraneo”. L'aggettivo si applica
alle divinità in qualche modo collegate con l'oltretomba. Divinità
ctonia per eccellenza era Ade per i greci, equivalente al latino Dite.
Demiurgo Dal greco demiurgos, “artefice, ordinatore”. Termine
che designava l'artefice dell'universo o il suo reggitore. In questo
secondo significato fu usato dagli gnostici, nel senso di divinità
intermedia, ordinatrice di una realtà già creata dalla divinità suprema,
la quale non aveva dato leggi precise al mondo, ciò che spiegava la
presenza in esso del male.
Eone Dal latino aeon, “periodo”, ma a volte anche eternità, età
assoluta in cui cessa il tempo. In questo senso è usato dal mitraismo
(l'Eone universale è la divinità), mentre nel Nuovo Testamento (lettere
di San Paolo) ha significato spaziale, di “mondo” o “parte del mondo”
(in quanto il mondo è “nel secolo”, nel tempo).
Ermafroditismo Fin dalla sua comparsa, il potere si è posto e
imposto come reductio ad unum, non diversamente dalla religione nelle
sue mille ipostasi. Ne è derivata la visione del reale come
moltiplicazione dell'uno, e di una “vera” sessualità, la maschile, di cui
la femminile sarebbe derivazione. E infatti Eva, nel Genesi, è ricavata
da una costola di Adamo. Presunta originarietà, dunque, del monosesso
scissiparo: in Platone, Simposio, Zeus taglia la sogliola originaria,
facendone maschio e femmina che, mossi da nostalgia iperu-ranica,
aspirano a ricostituire l'ermafrodito. Nella sua impresa di virilizzazione
del mondo, il Neolitico ha drizzato ovunque menhir falliformi, avendo
cura di piantarne la base, ove possibile, in terreni umidi (falde
acquifere, zone acquitrinose e simili), onde riaffermare sia il
predominio del fallo sull'acqua, simbolo femminile, sia la
letteralizzazione dell'ermafroditismo.
Escatologia Dal greco éskhatos, “ultimo”, indica la dottrina degli
ultimi fini, cioè quella parte delle concezioni religiose che riguarda i
destini ultimi dell'umanità.
Eucarestia Dal latino e dal greco, “riconoscenza, rendimento di
grazie”. Sacramento centrale del cristianesimo, definito da Leone XIII
prolungamento dell'incarnazione del Verbo, in quanto rinnova il
sacrificio di Cristo e attua la comunione dei fedeli con il Redentore che
viene “incorporato” (mangiato: è evidente il residuo del concetto, sia
pure simbolico, di cannibalismo).
Gnosi Dal greco gnosia, conoscenza. Usato, di solito, per indicare
la speciale “conoscenza” religiosa da cui fanno dipendere la salvezza i
diversi sistemi gnostici (complesso di dottrine e movimenti spirituali
sviluppatosi in età ellenistico-romana e fiorito accanto al cristianesimo
antico). Suo concetto fondamentale, è la conoscenza immediata, al di
là della razionalità, certificata dall'immediatezza intuitiva e dalla virtù
dell'iniziazione. Potrebbe sembrare simile allo zen {vedi), ma se ne
differenzia nel senso che la gnosi conduce alla conoscenza del divino
come sostanza. Scorge, nel tessuto dell'universo, una lacerazione
attraverso la quale vede risplendere la scintilla dell'ipervita, del
sovraterreno, della metafisica. Chi vi attinge, si libera dal peccato e dal
male. Ogni tentativo di andare al di là della Parola, di individuarne la
sorgente, può ben essere definito gnostico.
La gnosi è il Discorso o viceversa: il Discorso è gnostico, il
Discorso SA.
La gnosi è l'episteme, cioè conoscenza scientifica,
incontrovertibile. Ancora una volta il Discorso. Anche l'episteme SA.
La gnosi potrebbe piuttosto essere accostata al concetto di fede del
buddismo (vedi), quale è esemplificato dall'Arahat, cioè persona che
ha raggiunto la fase della piena “guarigione spirituale” e ignora che
cosa voglia dire “io sono” ma non è a tal punto illuminata da
raggiungere la piena buddità.
Innominabile Ciò che il potere nasconde ma che per ciò stesso
pretende di possedere, conoscere (in esclusiva) e opportunamente
utilizzare. E il nome del nome, l'affermata capacità di attribuire un
nome alla Parola. Il nome però è arbitrario: impadroneggiabile in
quanto si sottrae al parlante. Non si può dare nomi alle cose, se non
inserendoli — vanamente — nell'atto di parola. Resta che il potere
chiude questo suo sospetto — lo spaccia per certezza — in un
ripostiglio, lo stanzino proibito che, dilatato, si fa sala del trono,
consiglio segreto.
Letteratura II cogito occidentale, che è l'ipostasi del Discorso, fa
suo il principio del terzo escluso, della non contraddizione. In pari
tempo, predica, propone — ne assicura la concreta astanza — una sin-
tesi tra le polarità. La quale è per lo meno indecidibile, né può esservi
pace tra Discorso e póiesis. Codesta presunta sintesi, nella versione più
recente di matrice hegeliana, ha tra gli altri nomi quello, promettente,
conciliante, di letteratura. Sintesi: dogma imposto dalla dittatura del
pensiero occidentale. Che la letteratura volentieri subisce, e comunque
le è imposta - onde evitare che si faccia venire grilli per la testa — da
quegli sgherri del potere che sono accademie, editoria, prescrittiva
“democrazia” dei testi che devono essere “accessibili a tutti”.
La letteratura non è però la scrittura. O, per meglio dire, la
letteratura non ingabbia totalmente la scrittura: la letteratura è
un'invenzione del potere che si esplica nel “così si dice”, “così si parla”
- e ovviamente “così si pensa”, cioè si parla interiormente, nel segreto
della propria intimità, da cento custodi perquisita e intimidita. Norma,
grammatica, sintassi: la letteratura ha in sé il germe della censura.
Non va tuttavia dimenticato che, se la scrittura si agita inquieta,
evasa in potenza, dentro la gabbia materialmente composta da righe,
pagine, testi tipograficamente ordinati, è in grado di sottrarsi
infinitamente a imperativi a lei estranei, ai tentativi di mummificarla
per ridurla a equivalenza di manuali, prospetti, codici, cifrari, gazzette
ufficiali, autentiche, interpretazioni, vidimazioni, surrogazioni: insiemi
di segni in cui ci si orizzonti di primo acchito, e non più, non dunque
labirinti del malinteso.
Manicheismo Monoteismo imperniato, al pari del cristianesimo e
di altri monoteismi, sulla lotta tra Bene e Male; fu fondato in Persia da
Mani (III secolo d.C.) che diffuse la sua religione in India, in Egitto e
in Cina, dove si colorò di buddismo e durò fin oltre il XII secolo,
lasciandovi cospicue tracce letterarie e artistiche.
Materia È la materializzazione della Parola. Dimensione
impossibile della nominazione (denominazione del nome, vedi
Innominabile). Parola resa gestibile, oggettualizzata. Mille dibattiti sul
carattere ultimo della realtà materiale, specializzazioni della fisica
relativistica e quantistica: in ultima analisi, forzatamente limitate ai
termini del linguaggio comune, ma con il soccorso delle religioni (dei
creatori, letteralizzatori del Verbo). Secondo il buddismo, vacuità. In
un testo buddista, il Sutra del Cuore, si dice infatti che ciò che è forma
materiale è vuoto, ciò che è vuoto è forma materiale. In altre parole,
non c'è sostanza esistente in sé e tutto l'universo è un tessuto di
fenomeni fluttuanti e interdipendenti. Comunque, secondo la fisica
quantistica, tuttavia più prossima al buddismo di quanto essa stessa
supponga — e pertanto meno ingenua della fisica newtoniana o
galileiana — la natura (e quella cosiddetta umana in primo luogo) è e
insieme non è: né oggi né mai potremo concepire la “realtà” (che del
resto è sempre e comunque “virtuale”); né il determinismo né
l'oggettivismo o il buon senso ci servono a intendere i fenomeni
dell'universo e della sua provincia umana. Il “non dato da conoscere”
lo traduciamo, fedeli al principium reificationis, in rappresentazioni. Di
cui questo libro si discetta.
Matrilineari Si definiscono così le società in cui la discendenza
viene computata in linea materna.
Mazdeismo Religione dell'antica Persia, nota anche come
Zoroastrismo; è un monoteismo basato sulla lotta tra Bene e Male,
fondato da Zarathustra (Zoroastro) poco dopo il 1000 a.C., e pro-
pagatosi nell'Asia centrale, giungendo fino alla Cina.
Medicina Accanita ricerca delle cause. Causa di vita, causa di
morte.
La medicina è il letteralismo applicato al corpo. E neppure: quattro
secoli fa, infatti, la scienza medica ha ridotto il corpo a una sommatoria
di organi, imponendo la mera funzionalità come modalità del
comprendere e intervenire. Ha tentato di definire il corpo riducendolo
a organismo separato da un'anima alla quale andava affibbiando tutti i
significati simbolici della carne: anima- vampiro che si è alimentata e
si alimenta dell'impoverimento della Carne con la C maiuscola.
Perché la medicina partecipa attivamente, in veste di officiante e
testimone, dello sposalizio fra scienza e teologia.
E un'ennesima manifestazione dello smembramento sistematico
del tutto-simbolo: i resti della demolizione sono i cosiddetti sintomi. A
ciascuno dei quali è imposto di esprimersi in un suo dialetto esclusivo,
traduzione della corrispettiva, particolaristica struttura fìsio-anatomica.
Non formano coro, i sintomi, non sono autorizzati a raccontare
l’integralità del nostro esserci: hanno funzioni deprecatorie, di profezie
sempre potenzialmente mortali. Impellenze grammaticali, insomma.
La medicina mira a strutturare la società, e non può che farlo
secondo modalità gerarchiche, la norma cioè dell'integrità fisica,
condizione della produttività, e dunque la norma della medicaliz-
zazione anche di quella che definisce, arbitrariamente, malattia
mentale.
La malattia diviene così un'entità indipendente, e il paziente
l'oggetto sempre più reificato della contesa tra sanitario e patia. Ne
consegue che la malattia assurge a obbligo sociale. Donde l'imporsi di
due istituzioni: l'istituzione terapeutica e l'istituzione morbilità. La
prima è governata in larghissima parte dall'industria farmaceutica, cioè
dal vasto campo che va dai medicinali e strumenti diagnostici e
terapeutici alla pubblicità medica e al pronto soccorso. La seconda,
l'istituzione della morbilità, è costituita dal sempre maggior numero di
pazienti effettivi o immaginari. Salus, terapia, ricovero, riduzione della
cura alla sola medicina, inseriti pertanto nel grande contesto
consumistico, obbligatoriamente tale.
Del resto, il principio della medicalizzazione universale è il
gemello omozigotico del presunto carattere salvifico della tecnica,
chiamata a redimere il mondo da essa stessa aggredito e devastato.
Tutto il mondo è stato colonizzato da soldati, prospettori, tecnici
minerari, caritatevoli volontari, medici, paramedici... E missionari.
Ora, accade che questi ultimi siano dediti al proselitismo, e lo praticano
elettivamente istituendo ambulatori, distribuendo saggi consigli e
medicinali (per lo più scaduti). E che il loro “primario” ideale sia il
Cristo Medico.
Figura che in altri tempi aveva valenze simboliche: risanare le
anime infettate dal morbo diabolico; poi, però, questo Cristo ha
indossato il camice e i missionari, suoi interpreti ed esecutori,
impongono la medicina che conoscono, deprecano le cure autoctone, li
orripilano le pratiche degli aborigeni, vietano rimedi non approvati
dall'industria farmaceutica, partecipano insomma attivamente allo
sterminio delle culture locali.
Nirvana (in sanscrito; pali, Nibbana) Vuol dire “estinzione del
dolore”, ed è un'esperienza trascendente, senza tempo, definita il
“Senza Morte” e “incondizionata”. Comporta la cessazione di tutti i
fenomeni che producono Dukkha, cioè sofferenza e insoddisfazione. Il
Nirvana è anche il “vuoto”, la profonda conoscenza intuitiva dei
fenomeni, tale da riconoscerli privi di individualità sostanziale.
Ontologia II termine, introdotto nel XVII secolo, designa la
“scienza dell’essere”. La domanda che essa si pone suona: che cos'è
l'essere? Che significato ha l'esistenza? La risposta delle religioni
rivelate al quesito è, di norma, che il segreto dell'esistenza, il perché
della presenza umana sulla terra, appartiene esclusivamente a dio.
Ortodossia Dal greco orthodoxia: retta credenza, purezza di fede,
conformità ai principi di una determinata religione, di cui si accetta la
dottrina. E dunque l'opposto di eterodossia.
Panteismo Dal greco pàn, “tutto”, e theós, “dio”, è la dottrina,
presente in molti ambiti culturali, che identifica in vario modo dio e il
mondo. Ci sono panteismi che considerano il mondo una mera
manifestazione di dio (religione vedica dell'India, neoplatonismo), e
altri che vedono nel divino un'energia che anima il mondo dall'interno.
Quest'ultima interpretazione è detta panteismo ateistico perché
perviene a conclusioni naturalistiche o materialistiche; è stata
rappresentata, in epoca antico-classica, soprattutto dalla scuola stoica;
in tempi più vicini, da Giordano Bruno che anzi e soprattutto per questo
finì sul rogo.
Pantheon o panteon Dal greco pàntheon (che significa “tempio di
tutti gli dèi”), passato al latino. Si usa il termine per indicare la totalità
degli esseri divini; il pantheon di una religione è cioè il complesso di
tutte le figure divine di un sistema politeistico (per esempio, Zeus è la
divinità sovrana del pantheon greco).
Rinascite II ciclo delle rinascite (samsara) era già implicito nella
filosofìa indiana Shamkhya, dalla quale però era considerato
comunque ineluttabile. La grande innovazione del Buddha è consistita
nel proporne il superamento.
Sacer, sacrum, sacro In latino, tacer (da etimo che indica
separazione, scissione, isolamento) significa “consacrato a un dio”, ma
anche “maledetto, esecrabile, detestabile”. La prima accezione ha
carattere religioso; la seconda ha attinenza con la concezione mitica di
un aldilà inteso come “sentimento” o “intuizione”, ma pur sempre
Parola oltre la quale ci è impossibile andare, e dunque quale limite. Il
tentativo di superare il limite, oltre a essere vano, significa supporre
che la Parola possa venire usata, e l'uomo essere parlante anziché
parlato: per la visione mitica, è uno sforzo risibile e deprecabile in
quanto negatore della più elementare evidenza che l'uomo è Parola. Per
la concezione protoreligiosa e religiosa, affermare che l'uomo è Parola
appare quale un atto di hybris che si scontra con il principio per cui dio
è il depositario del Verbo, colui che concede agli uomini la parola.
Ritenere che l'uomo sia Parola è considerato dunque un atto di orgoglio
punibile come il tentativo dei costruttori della Torre di Babele di
“raggiungere il cielo” e diventare sicut dii, invadendo la sfera del sacro.
In latino, infine, il sacrum designa sia la reliquia sia la vittima da
sacrificare.
Teismo Oggi si intende, con questo termine, l'idea di un dio
personale, creatore e provvidente, e in tal senso lo si distingue da
deismo, concezione che contrappone religione “naturale” (dio è
conoscibile con la semplice ragione) e religioni “positive” o “storiche”
le quali presuppongono un'autorità che fissi ciò che si deve credere. Il
rappresentante più noto di questa posizione è stato il filosofo Blaise
Pascal, vissuto nel XVII secolo, sospettato di eresia da certi
rappresentanti del cattolicesimo.
Teogonia Termine che designa il processo di formazione del
mondo divino. Nelle religioni politeistiche si ha molto spesso una fase
originaria in cui un essere supremo crea il mondo, la vita e gli uomini,
per poi ritirarsi, scomparire o essere ucciso da altre divinità che ne
prendono il posto, e che a loro volta saranno sostituite da altre.
Storicamente, il passaggio dalla primitiva idea del dio o “antenato”
celeste, il deus otiosus di certe concezioni tardoneolitiche, alle nuove
divinità dotate di forza e potenza corrisponde a una fase post-neolitica
in cui è dato assistere al sorgere di società gerarchiche di crescente
complessità.
Teologia In origine, la conoscenza relativa agli dèi (il termine
esiste per esempio in Aristotele); successivamente, in ambito cristiano,
scienza di Dio e delle cose divine. Questa “scienza delle verità rivelate”
si è trasmessa dal cristianesimo e dal giudaismo all'islam.
Totem II termine deriva dalla lingua ojibwa degli indiani dei
Grandi Laghi, in cui il vocabolo ototeman significa “egli è del mio
clan” (della mia parentela). Non in tutte le culture esiste il concetto di
un animale (più di rado, pianta, pietra o altro) come rappresentante o
antenato del gruppo, contrariamente a quanto l'antropologia ha a lungo
sostenuto. Ma in tutte le culture il rapporto tra uomo e animale continua
a presentare aspetti misteriosi, e l'animale è in qualche modo
considerato un simbolo dell'aldilà, dell'indifferenziato “che non sa di
morire”: il mondo “prima della coscienza”, senza gli interrogativi
angosciosi che l'uomo cogitante si pone.
Weltan schauung Da Welt, mondo, e Anschauung, visione: modo
di concepire il mondo e la vita proprio di un individuo o di un gruppo.
Yang Secondo la concezione taoista cinese, accolta in parte dal
buddismo del Celeste Impero, è uno degli elementi (l'altro è lo yin,
vedi) del ciclo dei principi antagonistici ma complementari. Tutto ciò
che è yang ha natura maschile, suggerisce radiosità solare, calore,
esteriorità ed estroversione.
Yin L'altro elemento della polarizzazione e convergenza dei due
elementi antitetici della concezione dell'universo secondo il taoismo;
indica tutto ciò che ha natura femminile. Lo Yin evoca l'idea di corpi
freddi e coperti, e si applica a ciò che è interno. La concezione si basa,
in sostanza, sulla fondamentale dualità universale, elemento maschile
ed elemento femminile, che compongono la “totalità di ordine ciclico”.
Zen E, a rigor di termini, l'equivalente, anzi all'origine la
pedissequa imitazione giapponese, del Ch'en cinese. Questo è stato
soprattutto una versione del buddismo che attribuiva importanza
preminente alla comprensione intuitiva e riteneva sostanzialmente
inutili i lunghi, prolissi insegnamenti dei maestri.
L'arte zen, l'aspetto più noto in Occidente del movimento zen, si
attiene al principio di poteri non razionali, suscettibili di produrre nel
percettore un senso di identificazione totale con il supporto e con lo
strumento, la carta su cui il maestro di calligrafia “proietta” il pennello
nel momento in cui sente di aver raggiunto il distacco dalla
quotidianità. Non diverse sono l'intuizione con cui il ceramista crea il
vaso o la semplicità con cui viene concepito il “giardino di pietra”, una
breve distesa di ghiaia su cui si levano pochi “scogli” a raffigurare
l'universo nell'elementarità del non esistente. E l'arciere scoccherà la
freccia nel momento in cui “sentirà” di essere divenuto tutt'uno con il
bersaglio. Un'arte che allo zen si ispiri, poesia, pittura o altro che sia, a
ben vedere non può dirsi diversa da quell'attività universalmente
umana che ha luogo ovunque e che siamo soliti definire “arte”. Ciascun
creatore, che la sua si chiami ispirazione o intuizione dell'istante, deve
“caricarsi”, cioè isolarsi dalle tentazioni del discorso, per cedere alle
esigenze paraoniriche, ludiche, dell'accostamento al “grado zero” del
riconoscimento-invenzione dell'Alterità; e, come il maestro zen,
l'artista occidentale non potrà che abbandonarsi all'immediatezza del
ritmo. Lo zen, per concludere, è una metafora dell'universalità della
Parola creatrice.
Una perfetta esemplificazione dello zen è costituita dagli haìku,
sintetiche versificazioni di incredibile semplicità e potenza espressiva,
fatte di pure “cose”, e che spalancano, per via intuitiva, un mondo di
sensazioni. Qui ci limitiamo a darne un esempio, alcuni versi del poeta
Basho (1644-1694): “Antico stagno/rana vi salta/tonfo d'acqua”.
In Giappone, almeno fino a tempi recentissimi, la conoscenza
intuitiva, e le scelte che ne derivano, ha avuto largo corso anche in
campo economico. Il manager veniva accostato ai guerrieri della
tradizione, i samurai, e al loro modo di concepire lo scontro armato
come atto appunto di “intuizione del momento”, quello in cui il colpo
di spada viene sferrato quando il guerriero si fa tutt'uno con la lama che
impugna.
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