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Francesco Bevivino Editore srl - Milano
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Il magazine elettronico dedicato al mondo del libro
Nessuna opera può sorgere senza l'interlocutore e senza l'Altro. Ringrazio mia
moglie Gabriela Landini, indispensabile copartecipe nella costruzione di
Dominio
Indice
INTRODUZIONE 6
PROLOGO IL MITICO E IL PARLANTE 14
POTERE RELIGIONE GUERRA 50
RELIGIONE POTERE GUERRA 102
GUERRA RELIGIONE POTERE 148
CONCLUSIONE 169
GLOSSARIO 170
BIBLIOGRAFIA 191
TEATRINO
La scoperta si deve a Bar Yosef, O. e Valla, F.R., a cura di, The Natufian
Culture in thè Levant, International Monographs..., Archaeological Series, 1,
Ann Arbor 1991.
Non vi fate sedurre: / non esiste ritorno. / Il giorno sta alle porte, / già è
vento di notte. / Altro mattino non verrà. /
Non vi lasciate illudere / che è poco, la vita. / Bevetela a gran sorsi, / non vi
sarà bastata / quando dovrete perderla.
/ Non vi date conforto: / vi resta poco tempo. / Chi è disfatto, marcisca. / La
vita è più grande: / nulla sarà più vostro. J Non vi fate sedurre / da
schiavitù e da piaghe: / che cosa vi può ancora spaventarci / Morite con
tutte le bestie e non ce niente, dopo.
Bertolt Brecht, Contro la seduzione, in Libro
di devozioni domestiche (1927).
Un principe era pieno d'irritazione per non essersi mai adoperato ' ad
altro che alla perfezione di generosità volgari. Prevedeva stupefacenti
rivoluzioni dell'amore e sospettava le sue donne di essere capaci di j meglio che
di quella compiacenza abbellita di cielo e di fasto. Egli voleva vedere la verità,
l'ora del desiderio e della soddisfazione essenziali. Fosse o no aberrazione di
pietà, egli volle. Possedeva almeno un potere assai vasto.
Tutte le donne che l'avevano conosciuto furono assassinate: che
saccheggio, nel giardino della Bellezza!
Rimbaud
Medard Boss).
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È indispensabile indicare, sia pure per approssimazione, il
significato di “darsi in olocausto” ovvero di “darsi come cibo”,
dell'incorporazione cruenta. Le “ragioni” (sacrificio come redenzione:
colui che si offre per salvare vite o anime altrui) vengono, ripetiamo,
dopo. Né basta l'osservazione che la civiltà, sostituendosi alla cultura,
ha permesso di partecipare della carica emozionale connessa
all’immagine del darsi in pasto, con maggiore pacatezza e distacco,
attraverso l’immedesimazione con vivande (pane, carne dell'agnello) e
bevande (vino o altri liquidi inebrianti); non è la stessa cosa: il barbaro,
si spiega, offre semplicemente in pasto quel poco che ha, quel possibile
cibo con cui già siamo immediatamente immedesimati, e cioè il proprio
corpo.
Non basta, per la semplice ragione che città e villaggi sono
costellati di monumenti ai caduti in guerra. Il cannibalismo è passato
in retaggio agli insaziabili poteri, e per essi alla Patria. Il potere si è
impossessato dell'immedesimazione-cibo. Non è dunque che presso i
“primitivi” le cose, non essendo filtrate da remore sociali, vadano più
per le spicce. Il potere esige da noi, all'occorrenza (del potere stesso),
la consumazione totale; il “primitivo” la esige da sé stesso. È avvenuto
uno spostamento di sede: dall'interiorità alla delega.
«Il sacerdote era coadiuvato, nel corso dei sacrifici umani, da
quattro vecchi chiamati Chac in onore del Dio della Pioggia (a
rievocazione del ruolo sacrificale della divinità [del periodo Classico]
della pioggia, Xib Chac) i quali immobilizzavano le braccia e le gambe
della vittima mentre il petto veniva aperto da un altro individuo che
portava il titolo di Nachom (quello stesso del capo in guerra)».
Michael E. Coe, The Maya, Londra, 1993 (trad. it., I Maya, Roma,
1998).
Che cosa significa dunque darsi come cibo? Che cosa significa
olocausto? E c'è un rapporto tra questo e l'amore? Ci si dà, insomma,
ai corpi amati?
La risposta al quesito è, ai fini dei nostri assunti, importantissima.
La cosiddetta perversione a nostro giudizio attiene alla sfera del
sacrificio, imposto o subito. Incomprensibile, pertanto, per la coscienza
accecata dai fantasmi egoici. Essere consumato significa precipitarsi
nell'oceano dell'esistere, nell'assoluto, per illusorio che sia, nel comune
denominatore della vita: la condizione dell'Alterità, l'immersione nella
voluttà dello “stato secondo”, nell'indifferenza al singolo, al concreto,
al divenire individuale; significa accedere all'estasi definitiva, alla
vertigine senza scampo, senza ritorni, cadere vittima del fascino senza
volto, dello sguardo vuoto di cui si trovano le immagini, ad esempio,
nelle grotticelle funebri artificiali sarde, le domus de janas (case delle
fate) risalenti alla prima età enea.
«Il regno di Dio è uno stato civile, in cui Dio stesso è sovrano in virtù
prima dell'antico e poi del nuovo patto, e nel quale egli regna tramite il suo
vicario o luogotenente».
Thomas Hobbes, Il Leviatano, cap. XXXV.
«Lo scrittore Cipani... lo trovò insieme a due moretti che aveva portato
con sé in Italia e ci riferisce questa scena commovente.
— Vedete là — disse Monsignor Comboni additando i due moretti —
allorché li ho raccolti, sapete, erano selvaggi».
Bice Foresi, Missionari in Africa, La Scuola, Brescia, s.d.
«Vi fu. uno dei precipitati [dalle finestre del castello] che... si aggrappò
a un ramo e non voleva più abbandonarlo, il che vedendo gli furono tirati
infiniti colpi di archibugio e di pietre sulla testa senza che si riuscisse a colpirlo.
Del che il Barone si meravigliò e gli salvò la vita, e ne uscì come per
miracolo...».
Richard Verstegan, Théatre des cruautés des hérétiques de nostre temps,
Anversa, 1588.
Lo sperimentiamo ogni giorno: quanto più la classe dirigente è
casta dominante, quanto più predatrice essa è, tanto più ricercherà
benedizioni, assoluzioni, conforti e giustificazioni per bocca del clero
locale. Ma essa, così facendo, continua a proporsi ai sudditi; questi
sono chiamati a fare una scelta, si fa leva sulla loro impreparazione o
disorganizzazione, per esercitare a loro spese un inganno. Tra la casta
e i sudditi si interpone un sottile velario di pregiudizi, antiche paure,
ancestrali terrori. Altrimenti, la casta si fa classe ragionante: al posto
del balenio degli stendardi processionali, della solen- ruta dei cantici,
accetterà come propria corazza la convinzione; il suo scudo non sarà
più la croce, bensì la stampa e gli altri media.
Ma la discussione implica l'ammissione della fondamentale
uguaglianza dell'interlocutore: ed ecco il suddito farsi sindacalista,
progettare la rivoluzione, minare l'autorità della classe al potere.
Questa, è vero, può ricorrere alla repressione, la quale però è un rischio:
i fatti - e le barricate - lo provano. Oppure può ricorrere alla
mobilitazione, all'inquadramento, e cioè rivolgere l'energia che
minacciava di rivolgersi contro da un momento all'altro, di scatenarsi e
travolgerla, in un'altra direzione, contro un nemico interno o esterno;
la classe dominante esegue uno scarto di fianco, e il suddito-toro vede
apparire un nuovo obiettivo, che gli si configura quale di maggior
momento del primo.
«E chi mai ti credi di essere tu, merda che non saresti neppure
capace di schiacciare, sedendotici sopra, un riccio?». I cosacchi
zaparozhi al sultano che pretendeva la loro sudditanza. Il mobilitato,
l'inquadrato, si lascia così togliere di mano le sue prerogative di
suddito, in vista della lotta contro questo nemico: alla discussione
sostituisce l'obbedienza, all'autonomia la dipendenza, alla protesta lo
schiamazzo delle folle deliranti, allo scetticismo l'entusiasmo,
all'opinione personale la fede, alla convinzione il fanatismo, al dubbio
l'incrollabile certezza, al rispetto per l'autorità la conversione; egli
indossa un'uniforme, e non accade più che sia troppo stretto lo stivale
rifilatogli dal furiere: è il suo piede che è diventato troppo grande;
l'appello alla ragione, fulcro della pedagogia liberal-democratica, cede
il posto a istanze assai più primitive e immediate: è il cuore, che conta;
è la fede, ad avere il sopravvento.
Il mobilitato è l'uomo pronto a gettarsi nel fuoco per il suo capo.
Laddove il suddito si riserbava un'ultima istanza, all'inqua- drato
ripugna la semplice idea di fare di testa sua; per il suddito è l'opinione
pubblica: in essa il suddito è immerso; l'opinione pubblica è un mare le
cui ondate si scontrano tuonando, e sono gli appelli delle diverse
ideologie. Per l'inquadrato, la problematica ha infinitamente meno
valore della marcia forzata, dell'adunata, degli squilli di tromba e del
rullare dei tamburi: l'istanza d'ordine spirituale ai suoi occhi diviene un
terreno viscido, un trabocchetto che porta direttamente nelle regioni
della infamia sociale e politica.
Ciò che vale per il soldato, vale, in termini assai meno espliciti (e
anzi ammantati di "diritti umani", ma sostanzialmente non diversi), per
il miles della produzione industriale, operaio, impiegato, quadro,
inserito nelle file dell'azienda. Anche questa commina infamia sociale
sotto forma di espulsione dal mondo del lavoro e di disoccupazione.
Al suddito è democraticamente lecito conservare per sé stesso una
frazione più o meno cospicua del proprio essere. Nel corso di un lungo
processo storico, il suddito è stato in grado di porre precisi limiti
all'entità della punizione: almeno dopo la caduta dei regimi
assolutistici, la sua eventuale rivolta all'ordine costituito, per quanto
considerata illegittima, non comporta però misure punitive tali da
togliergli una volta per tutte la voglia di riprovarcisi. Il suddito
“umanizza” — o ci si prova — la pena, vuole renderla ragionevole,
aspira a una proporzione tra atto criminale e punizione.
L'antico sovrano non glielo avrebbe permesso, tutto teso com'era
— una sua fondamentale prerogativa - a esercitare la giustizia come
arbitrio, senza proporzione tra delitto e pena, unica intervenendo, a
mitigarla, la clemenza dettata da simpatia, capriccio, ragioni di stato,
estranee alla validità universale della legge. Il mobilitato militare,
anche nelle odierne società, torna ad accettare questa condizione, alla
quale il suddito moderno ormai si rassegna solo in casi eccezionali,
indottovi soprattutto da istanze populistiche. Il soldato non oppone
invece resistenza; se lo fa, è un “lavativo” o, peggio, un disertore, un
traditore. Non discute la punizione: il tribunale militare non fa processi,
ma prende decisioni. Non ha più nulla di suo: le idee, i pochi effetti
personali, i panni che ha indosso, gli sono conferiti dall'altoparlante e
dalla fureria. L'inquadrato militare non discute: la discussione viola il
regolamento; non ha iniziative: ne andrebbe della disciplina.
L'inquadrato non conserva più, per sé, alcuna frazione del suo essere:
o meglio, fa di tutto per sbarazzarsene, si obbliga a mettere il bavaglio
al proprio io. Il suo è, nel senso di Heidegger (pure da questi rifiutato),
«essere-per-la-morte» {Sein zum Todé).
BUCHKNWALD, UN MODELLO
Vi era un'incredibile, illogica, assurda civetteria della sofferenza.
I segni d'ignominia erano trasformati in una sorta di lurido trionfo. Era
con orgoglio che colui il quale aveva subito la punizione ti mostrava
sui glutei le orme azzurrastre del nerbo di bue, non diversamente dal
mendico mutilato che ti agita sott'occhio il suo moncherino: era la
rappresentazione della propria miseria, la lode e la proclamazione della
propria sofferenza. Era un dire ai carnefici: “ecco, vedete come mi
avete ridotto!”. Il rischio cui era sottoposto chi si desse a questa
pantomima, conferiva d'altra parte alla sofferenza colore di
volontarietà: il tormento veniva aumentato, portato perfino oltre i limiti
previsti dai regolamenti; e il guardiano non riusciva a impedire questo
spostamento in una zona per così dire negativa rispetto all'equilibrio
ideale, all'assoluta obbedienza delle disposizioni disciplinari.
Non penso che i “carnefici” fossero agenti di un metafisico
“Male”. Erano dei mobilitati, militari ai quali era ovviamente fatto
obbligo della ferocia e dell'implacabilità. E il mobilitato potrebbe
sottrarvisi?
Non è che il detenuto di Buchenwald - continuiamo con l'esempio
— non tema la punizione; non è che ricavi piacere dalla sofferenza: è
che questa è divenuta, paradossalmente, il mezzo della sua vittoria. Lo
spettatore, presente o lontano, reale o fantasticato, di questo mondo o
dell'altro, è invitato a toccare con mano il fallimento, la miseria, la
debolezza, l’inferiorità della vittima. Questa è un tremulo essere che a
stento si regge in piedi, è priva di coraggio, esangue, inetta al lavoro,
stupefatta, preda al panico: è un nulla. Il suo atteggiamento è
paradossale: se evitasse di aggrapparsi piangendo ai piedi dell'SS, non
appena questi le si avvicina, l'SS forse non si accanirebbe su di essa, ci
sarebbe una probabilità di cavarsela; ma si direbbe che proprio a questo
la vittima intenda rinunciare, che il suo intento sia di bruciarsi i ponti
alle spalle, di penetrare definitivamente nel regno dell'assoluta
sofferenza. Egli è una sorta di Tersite che, anziché col lazzo e la
derisione, provoca l'ira degli eroi in divisa nera col masochistico
sfoggio della sua negatività.
Quando l'SS penetrava in un ghetto o metteva piede nella baracca
di un campo di concentramento, sapeva che poteva essere accolto al
suo solo apparire da lugubri grida, da un coro di ululati, da bocche
belanti e occhi sbarrati in un terrore che in parte era così evidentemente
recitato, da costituire una provocazione. Accadeva allora che fosse l'SS
a sentirsi insultato e mortificato, e che egli si affannasse a picchiare le
sue vittime, strillando, quasi singhiozzando: «Per causa vostra, ebrei
maledetti e impestati, per causa vostra ho perduto tre anni della mia
vita, già da tre anni noi soffriamo qui, cani che non siete altro!» (Diario
di Abramo Lewìn, compilato a Varsavia, 1943).
Il meccanismo del sadismo che era stato messo in moto era — ed
è tuttora — tale, per cui le vittime forzano i carnefici a tormentarle. Da
un lato sta l'impossibilità, per la vittima, di comportarsi altrimenti;
dall'altro, l'impossibilità del carnefice di resistere alla provocazione.
Chiamiamo questo rapporto col suo nome: è il rapporto tra sadismo e
masochismo nelle loro forme sociali, l'uno indispensabile alla
manifestazione dell'altro. Il masochismo non può rinunciare alla
platealità: ha bisogno, per attuarsi, della presenza altrui, che può essere
il suo vicino, il foro interiore, Dio. Come il masochista sessuale espone
il proprio deretano alla agognata punizione inflittagli da una prostituta,
cosi il masochista sociale sfoggia la propria nudità psichica.
Ancora Buchenwald (ma vale per ogni campo di concentramento,
per ogni gulag, per ogni Guantànamo).
Anziché lasciare la scelta al carnefice, la vittima gli si offre; ciò
che essa teme è provocato intenzionalmente; più che l'atto di violenza,
è l'ansia e l'attesa che lo precede ad essere oggetto di paura. In tal modo,
la passività viene trasformata in una paradossale attività, la minaccia
futura diviene alcunché di presente; così l'atto è fatto mio, sono io a
comandare i gesti del carnefice, io sono la sua mano, io i suoi occhi, io
i suoi muscoli. Così facendo, ancora, io domino l'ignoto, cesso di essere
alla mercé di avvenimenti, di forze più possenti di me. Sono io a
stabilire il ritmo con cui gli avvenimenti si susseguiranno, anziché
essere abbandonato a un ritmo estraneo e sconosciuto. E così che io
trionfo: non cerco, io ebreo, io prigioniero, io sospetto talebano, la
sofferenza — tento anzi di diminuire la sofferenza, di dominarla e
imbrigliarla facendola scoccare al mio comando. Allo stesso modo, il
masochista sessuale si libera dalle inibizioni, dal senso di colpa che gli
viene dalla trasgressione che è ogni atto sessuale in quanto tentativo di
uscire dai limiti individuali, di confondersi e degradarsi — o sublimarsi
— facendosi infliggere in partenza la punizione, l'umiliazione: la
prostituta lo colpirà sulle natiche ed egli pertanto avrà, simbolicamente
e concretamente, la punizione “alle spalle”, e si vedrà spalancato
davanti, di diritto e di fatto, il mondo del godimento.
Il movimento del potere è sempre lo stesso: un contesto che
comporta casi limite, come questi or ora citati, ma la cui struttura di
fondo resta pur sempre la stessa. Con la massima facilità — e lo si è
detto più volte — il timido impiegato si trasforma in obbediente
carnefice.
Nel Neolitico, inteso come visione unitaria (invenzione dello
stanziamento, dell'agricoltura, del potere, della religione) al di là delle
variazioni temporali e spaziali sul tema, le singole manifestazioni
rispondono sempre a un comune denominatore. Al tempo concepito
come rettilineo, quale successione di momenti verso una finalità
inizialmente non espressa, corrisponde quella che in un altro paragrafo
ho chiamato “quadratità”, cioè una spazialità definita da pareti
uniformi, in fuga dalla circolarità e dalla paratassi. L'itinerante non
aveva bisogno di specifiche designazioni orientative, non doveva
definire specificamente luoghi e momenti (Stonehenge e i cerchi di
pietre fitte di Carnac compaiono migliaia di anni dopo l'esordio del
Neolitico), indispensabili invece allo stanziale per il quale numero e
geometria sono i presupposti per la comprensione del reale e
l'orientamento nel mondo.
La nuova mentalità del Neolitico comporta, tra l'altro, un atteg-
giamento inedito verso l'uccisione degli animali. Nasce la caccia come
esercizio fine a se stesso, atteggiamento che ha tuttora corso (caccia
alla volpe, istituzione di riserve come proprietà ed esclusione, cattura
di animali usati come ornamento e conferma del potere).
Dovè Ugo, dovè il mio Ughetto, / Con cui giocavo a rimpiattino? / La nera
ebrea, la figlia del ghetto, / L'ha attratto oltre il muro del suo giardino. // Con
una nenia lo ha addormentato, / Sul capo d'oro lo ha poi colpito, / La gola e il
collo gli ha tutto squarciato, IE ha riso quando lo ha visto stecchito! Il Lui non
ha fatto né gesto né motto, / Non lo si è udito neppur rantolare: / Solo il rumor
di qualcosa di rotto, / L'arma che insiste sull'osso a grattare. Il L'ebrea il rosso
sangue di Ugo ha colato, / E l'unica lacrima, in coppa d'argento. / Suo padre
ha detto: “Io son fortunato, /perché ho una figlia che è proprio un portento”. Il
Il corpo di Ugo nel pozzo han buttato, / Con pietre e sassi poi l'hanno impedito.
/ Verde ora cresce il muschio bagnato / Sopra le ossa di Ugo sparito. Il E
quando torna il bel tempo d'estate, / La nera figlia del perfido ebreo / Sul muro
sta a pettinarsi, guardate, / Per allettare un altro babbeo
Leslie Fiedler, «La danza di Rabbi Hershl dalla mano secca», uno dei
racconti de La macchia, Rizzoli, Milano, 1972 (mia traduzione).
«Il dittatore che vuole essere incoronato non si presenta più al popolo con
al fianco un vescovo: preferisce un premio Nobel. Il grande ricco che ha
bisogno di farsi perdonare i suoi peccati non fonda più una abbazia, ma un
museo... Oggi e la cultura che ha assunto il ruolo di “oppio dei popoli”».
Jean Dubuffet, Asfissiante cultura, Parigi, 1968.
Credere 2.
Vuol dire far credito, prestar fede, affidarsi alla norma, al decalogo.
Non “crede” chi si rifiuti di essere suddito.
Tutto e realmente possibile quaggiù, dove gli antichi iddìi dei pastori, il
caprone e l'agnello rituale, ripercorrono ogni giorno le note strade, e non vi è
alcun limite sicuro a quello che è umano verso il mondo misterioso degli dei e
dei mostri.
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945
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