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PREFAZIONE

L’antologia presentata dalla classe V A è il risultato di un lavoro svolto nell’ultimo


trimestre dell’anno scolastico e progettato nel corso del secondo trimestre, nell’ambito
dell’area di progetto discussa e approvata dal consiglio di classe.
Dopo aver scelto come argomento da trattare la prima guerra mondiale e il
contemporaneo svilupparsi di un dibattito sulla crisi della civiltà europea, sono stati
forniti alla classe circa trenta brani, rappresentativi delle più significative posizioni che,
nel periodo tra le due guerre, vennero ad affermarsi negli ambienti intellettuali europei;
tra questi testi gli alunni hanno operato una selezione individuandone un numero più
ristretto da sottoporre ad analisi.
L’esame dei brani così selezionati ha condotto ad individuare quattro principali aree
tematiche secondo cui era possibile articolare il dibattito sulla crisi: la ribellione delle
masse; i problemi sollevati in sede teorica dal sempre più importante ruolo svolto da
scienza e tecnica nelle società europee tra fine XIX e prima parte del XX secolo; la crisi
dei valori e il tramonto dell’occidente.
L’antologia è stata quindi suddivisa in quattro parti, ciascuna dedicata all’esame di
uno dei problemi sopra riportati.
Gli studenti hanno quindi approntato una serie di strumenti critici atti a inquadrare
storicamente e culturalmente le aree tematiche individuate e a fornire un’adeguata
comprensione dei brani prescelti.
Ognuna delle quattro sezioni in cui è stata suddivisa l’antologia è preceduta da una
premessa di carattere teorico e storico, tendente a inquadrare filosoficamente e
storicamente l’area tematica e a individuare le principali problematiche e le più
significative posizioni in essa rinvenibili intorno ai problemi assunti quale oggetto
d’analisi.
Gli studenti hanno quindi creato una serie di strumenti critici, atti alla comprensione dei
singoli brani, predisponendo una scheda sulla biografia e il pensiero degli autori dei brani
antologici. Per ciascun brano è stata poi predisposta una scheda di commento, al fine di
chiarire la posizione sostenuta dall’autore sulla crisi della civiltà europea.
La fase di realizzazione pratica del progetto ha presentato difficoltà poiché gli studenti
non avevano dimestichezza con gli strumenti informatici di videoscrittura. Hanno quindi
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dovuto acquisire le competenze essenziali per l’utilizzo del computer. La digitazione, la


stampa, la correzione delle bozze, la definitiva impaginazione e redazione dell’antologia,
sono state condotte dalla classe nell’ultimo periodo dell’anno scolastico.
Il mio contributo è stato sostanziale nella fase di progettazione iniziale del lavoro, nelle
successive operazioni sopra descritte mi sono limitato a svolgere una funzione di
coordinazione e guida.
Ritengo che il lavoro svolto dalla classe vada giudicato non solo per il suo valore storico
e filosofico intrinseco, che va commisurato al livello di preparazione e maturità conseguito
dalla classe, ma ancor più come esperienza in cui si sono confrontati con tutti i problemi
connessi allo svolgimento di una ricerca - pur limitata nei suoi obiettivi - come il
reperimento e vaglio delle fonti, la schedatura e organizzazione del materiale, la
progettazione complessiva dell’opera, la stesura del testo, la realizzazione materiale
dell’antologia.

L’Insegnante
Prima Parte: la rivolta delle masse 3

Prima parte

La rivolta delle masse

1. PREMESSA

In questa premessa abbiamo cercato di delineare brevemente l’ambiente storico entro il


quale il fenomeno della “ribellione delle masse” si attua. Per poter valutare appieno il
rilievo storico di questo, che fu vissuto come un “evento epocale” nella coscienza dei
protagonisti di quell’epoca, abbiamo cercato di definire le principali linee attraverso cui la
“massificazione” si sviluppa e diffonde in modo pervasivo nella società. Abbiamo
sinteticamente illustrato i limiti che caratterizzavano la struttura istituzionale dello stato
liberale, il quale appariva inadeguato ad affrontare con successo il problema
dell’integrazione delle masse nello stato. Ci siamo anche brevemente soffermati ad
illustrare il carattere di “irrazionalità” con cui l’agire delle masse appariva all’élite politica
e culturale del tempo, se contrapposto agli ideali liberali, positivistici e razionali, che
avevano costituito il paradigma dominante in ambito intellettuale e sociale nel corso
dell’ottocento.
In conclusione, partendo dai problemi che la tematica presa in esame coinvolge, abbiamo
cercato di stilare un certo numero di domande fondamentali, da utilizzare come termini di
riferimento per la lettura e analisi dei testi riportati in questa parte dell’antologia.

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Prima Parte: la rivolta delle masse 4

1. La massificazione della società

A partire dalla seconda metà del XIX secolo la dinamica storico sociale è caratterizzata,
secondo l’unanime giudizio della storiografia sul periodo, da un fenomeno rilevante e che
costituisce una delle principali sorgenti della civiltà occidentale del XX secolo: la
massificazione della società a tutti i suoi livelli.
1.1. la massificazione in ambito economico
Durante la “fin de siècle”, era giunta a compimento una profonda trasformazione che
aveva condotto economia e società, dalla fase del liberismo a quella del capitalismo
organizzato, in conseguenza della Grande Depressione (1873 – 1895) e della cosiddetta
Seconda Rivoluzione Industriale. Un dato generale, tra quelli che hanno maggiore rilievo, è
dato dalla massificazione sistematica della società e non solo a livello economico, ma
anche politico e ideologico.
Mentre la società della prima metà dell’ottocento appariva incentrata sull’individuo, sulla
rivendicazione dei suoi diritti e delle sue libertà, tra la fine del XIX e l’inizio del XX
secolo, “le masse” si affermano con un nuovo ruolo in ogni ambito sociale.
In economia tanto il sistema della produzione dei beni, quanto quello della distribuzione,
si massificano. Nasce la produzione di massa che raggiunge il suo culmine con il fordismo
e con il taylorismo. Gli sviluppi della scienza e della tecnologia vengono sistematicamente
applicati non solo alla produzione, ma anche all’organizzazione del lavoro secondo i
principi dello scientific management e danno vita al modello produttivo della catena di
montaggio, di cui si fa promotore per primo Henry Ford. Anche sul piano della
distribuzione dei beni si assiste alla nascita, dapprima negli Usa e in seguito in Europa, del
consumo di massa quale necessario sbocco delle maggiori capacità di produzione.
Questo fenomeno non ebbe solo implicazioni di tipo economico, ma anche di carattere
sociale, ideologico e culturale: nasceva un “nuovo tipo d’umanità”: l’uomo-massa.
Sembrava, inoltre, avverarsi l’ideale positivistico di progresso: grazie alla scienza si
sarebbe potuta produrre una quantità di ricchezza sufficiente per tutti, ripartendola secondo
criteri oggettivi e in funzione del contributo da ciascuno offerto. Il sogno di “abbondanza
materiale” forniva la base su cui fondare “le luminose e progressive sorti” dell’umanità
anche in campo spirituale.

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1.2. La massificazione in campo sociale e ideologico

Nuove ideologie, come il comunismo o il nazionalismo a sfondo bellicista e imperialista;


o antiche ideologie, come il cristianesimo, prendono gradualmente il sopravvento sul
liberalismo e il positivismo, la cui influenza rimane confinata alle élite politiche e culturali
e non riesce ad allargarsi ai ceti popolari, se non in misura marginale. Comunismo,
nazionalismo, cristianesimo si presentano invece come ideologie di massa, capaci di
diffondersi in modo capillare tra tutti gli strati sociali – contadini, proletariato operaio,
piccola e media borghesia – e capaci, soprattutto, di esercitare un potere di “mobilitazione”
enorme. I governi europei non potranno ignorare, nelle loro decisioni, il decisivo peso che
tali ideologie assunsero e, anche se tentarono di esercitare su esse un’azione di controllo,
non riusciranno ad assimilare entro le istituzioni politiche ed il sistema di valori liberale,
tutte le spinte e sollecitazioni provenienti da questi movimenti. Infatti, al fenomeno delle
ideologie di massa, si accompagnò quello della crescita e diffusione delle organizzazioni
di massa, cooperative, sindacati, partiti, che davano un inquadramento non solo ideologico
e rivendicativo alle “masse”, ma anche una strategia politica e sociale con precisi obiettivi
e nuovi strumenti di lotta quali lo sciopero generale e, in alcuni casi, la lotta violenta e la
rivoluzione.

1.3. la società di massa e la crisi della politica

Con il graduale affermarsi del suffragio universale maschile; dei partiti di massa di
ispirazione cristiana o socialista; oltre ai fenomeni di massificazione in ambito economico
e ideologico appena sopra ricordati, si attua anche una massificazione generalizzata di tutta
la società che conduce lo stato liberale ad affrontare un’importante sfida, quella della
democrazia: da un lato, la popolazione tende ad organizzarsi autonomamente sottraendosi
al potere dello stato; dall’altro, lo stato, tende a controllare la società civile, integrare la
popolazione entro le proprie strutture giuridico-istituzionali, esercitare il proprio controllo
sulle masse, secondo quel progetto che è stato definito dagli storici nazionalizzazione delle
masse. Era, quindi, necessaria un’opera di globale ristrutturazione dell’apparato politico e
istituzionale dello stato liberale. Questo problema diede luogo ad un lungo e complesso
processo che si realizzò in Europa tra la fine del XIX e la prima parte del XX secolo,
determinando la crisi dello stato liberale, incapace di adattarsi alle nuove condizioni

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storiche. La dissoluzione del sistema liberale tradizionale darà luogo a due differenti esiti:
la democrazia ed il totalitarismo.
Il modello istituzionale dello stato liberal democratico, risultato dell’evoluzione dello
stato liberale verso forme democratiche grazie alla diffusione della rappresentanza e del
principio di sovranità popolare, sembra uscire vincitore dalla Grande Guerra. Infatti le
potenze dell’Intesa costituivano un blocco di paesi repubblicani o a regime monarchico
costituzionale ed il loro trionfo sugli Imperi Centrali, ancora caratterizzati da residui di
assolutismo, venne interpretato come una vittoria dello stato liberal - democratico.
Tuttavia, già a partire dagli anni venti, in alcuni paesi - Unione Sovietica, Italia, Europa
centro-orientale, quindi Germania, Spagna - si assiste alla sconfitta dello stato liberale ed
all’affermazione di regimi autoritari.
Come si è cercato di mostrare, il fenomeno della massificazione della società, tocca
problemi decisivi e di grande portata che influenzeranno profondamente il dibattito sulla
“crisi della civiltà”, dibattito che si sviluppò già durante il corso della Grande Guerra e
raggiunse il suo apice negli anni venti e trenta.
Il fenomeno della massificazione, attraverso cui la società andava plasmandosi secondo
nuove forme che cambiavano radicalmente la vita economica, politica e culturale, trovò la
sua più compiuta ed eclatante espressione proprio nel corso del primo conflitto mondiale.
La mobilitazione di massa cui si assistette sul piano militare, economico, ideologico e
politico, sta a dimostrare come la trasformazione delle società occidentali fosse ormai
giunta a compimento; dimostra, inoltre, come anche da questo punto di vista, la Grande
Guerra, abbia costituito uno spartiacque tra due epoche diverse. L’evidenza della
massificazione sociale, dopo la prima guerra mondiale, non poteva più essere ignorata; se è
vero che tale fenomeno era il risultato di un processo iniziato nella seconda metà del secolo
precedente, è anche vero che la piena consapevolezza di tutte le sue implicazioni e
conseguenze, maturò negli ambienti intellettuali e nell’opinione pubblica europea, solo
dopo la tragica esperienza della guerra.

2. L’irrazionalità come forma dell’uomo-massa

L’uomo-massa diviene il simbolo di una nuova umanità che ha perduto la propria identità
standardizzazione dei consumi. Abbruttito, ridotto ad un ingranaggio dell’immenso
meccanismo produttivo posto in atto dalla tecnica e dall’industrialismo, plasmato perfino

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nello “spirito” dalla nascente società dei consumi e dalla pubblicità, l’uomo-massa viene
pensato dagli autori del tempo secondo alcune metafore che ritornano con una certa
frequenza nel dibattito sulla “crisi della civiltà” che si sviluppa tra le due guerre. L’uomo
automa, privo di consapevolezza e ridotto egli stesso ad una macchina, o l’uomo
“animale”, la cui dimensione esistenziale è ridotta al solo momento biologico, istintuale,
emotivo. In entrambe le metafore, usate anche dagli autori dei brani da noi scelti, appare
evidente un punto comune, la perdita dell’essenza razionale, il venir meno del dominio
della ragione, che non costituisce più il tratto dominante dell’identità dell’uomo-massa.
Se da Cartesio fino al positivismo, attraversando l’illuminismo e una parte dello stesso
romanticismo, l’essenza della modernità era stata individuata nella consapevolezza
razionale del soggetto e, quindi, la soggettività pensata come autocoscienza razionale, ora,
con l’avvento di quella nuova forma di uomo che è l’uomo massa, questa dimensione
appare irrimediabilmente perduta e sostituita da una concezione in cui elementi irrazionali,
come la volontà di potenza o l’inconscio, vengono a costituire l’essenza ultima dell’uomo.
Già prima della guerra, autori come Gustav Le Bon, Sigmund Freud, Ortega y Gasset, si
erano occupati del fenomeno della massificazione sociale evidenziandone non solo le
molteplici conseguenze in vari campi, ma anche cercando di mettere a fuoco la logica
dell’agire sociale in quanto agire di massa e le implicazioni che da tale logica
discendevano sul piano politico e storico.
La scelta di questi autori, nasce dal fatto che le loro opere acquistarono un valore
esemplare, sia perché focalizzarono l’attenzione dell’opinione pubblica e degli studiosi su
questa tematica, sia perché fornirono il quadro teorico di riferimento entro il quale il
dibattito sulle “masse” si andò sviluppando tra le due guerre.
L’impatto delle masse, quali nuove protagoniste del divenire storico, sulla cultura
dominante di matrice positivista e liberale è drastico, per Ortega y Gasset l’avvento delle
masse quale protagoniste di una nuova società e portatrici di una nuova forma di umanità è
il ritorno alla barbarie, un pericolo mortale per quei valori faticosamente conquistati nel
corso del XIX secolo. Irrazionalità e impulsività, sono i moventi ultimi della “psicologia
delle folle” e costituiscono il fondamento di qualsiasi forma di agire politico e sociale
“moderno” secondo Le Bon. In Freud la civiltà viene paragonato ad un sottile velo di
convenzioni e vincoli che occultano, contenendola, la natura aggressiva e irrazionale
dell’uomo.

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2.1. La perdita dei valori e la disgregazione sociale

Anche la sociologia, tra i due secoli, aveva affrontato il problema delle conseguenze che
si producono nella coscienza del singolo in una società di massa. Per Durkheim, la
divisione sociale del lavoro e le rapide trasformazioni che caratterizzano la società
moderna, minano la solidarietà sociale producendo una situazione di anomia. La società
non appare più fondata su un sistema di valori vincolanti e comuni, ma senza tale sistema
gli individui appaiono come atomi slegati, privi di riferimento e di un’identità
d’appartenenza. La mancanza di norme morali comuni, costituisce una caratteristica della
moderna società di massa e getta l’individuo in una condizione di perdita della propria
identità sociale. Lo stesso Durkheim si farà portatore, durante la Grande Guerra, di un
progetto per ricostituire un sistema di solidarietà capace di integrare gli individui, tale
progetto mirava a sostituire i valori tradizionali, venuti meno con quella che Nietzsche
aveva chiamato la morte di dio, con un nuovo sistema di valori incentrato su un forte
nazionalismo antigermanico.
Un altro importante autore è Ferdinand Tönnies1 che in un saggio del 1887,
“Gemeinschaft und Gesellschaft”, descrive la situazione della civiltà di massa come il
risultato del passaggio dalla comunità – Gemeinschaft – in cui il gruppo sociale è
organizzato su vincoli religiosi e sulla tradizione; alla società – Gesellschaft – in cui
l’integrazione tradizionale è venuta meno, sostituita dalla divisione del lavoro, e dal
dominio dello stato.
Le analisi di Durkheim e Tönnies2 sono utili per completare il quadro generale entro il
quale si svolge il dibattito sulla civiltà di massa e l’uomo massa. Le conclusioni della
maggior parte degli autori su tali punti sono ben rappresentate dalle posizioni di Ortega y
Gasset e Le Bon; massificazione e democratizzazione sono processi d’imbarbarimento dei
costumi, di perdita dei valori, di standardizzazione di uomini e idee, di fine del “regno
della qualità” e di trionfo del “regno della quantità”. L’uomo-massa è infatti il risultato del
dominio della macchina statale e della macchina produttiva sulla società.

1
Ferdinand Tönnies (1855 – 1936), sociologo e filosofo tedesco, la cui opera principale è proprio Comunità e
Società. In polemica con marxismo e positivismo studiò la dinamica sociale secondo i due contrapposti
modelli di comunità e società.
2
Pur essendo molto importanti per una completa ricostruzione del dibattito sulle masse e la civiltà di massa,
non abbiamo preso in considerazione questi autori per motivi di tempo, ma anche per la scelta deliberata di
mantenere la nostra analisi entro un ambito limitato , per evitare che si presentasse troppo dispersiva.

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2.2. La rivolta delle masse

Le paure di un crollo della civiltà ad opera dell’avvento delle masse-barbariche, vengono


a rafforzarsi proprio quando, durante il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa del
1917 travolge l’impero zarista. Non abbiamo approfondito nel corso di questo lavoro le
tematiche relative alla “rivoluzione russa”, questo avrebbe comportato un lavoro di analisi
per noi troppo vasto e complesso, tuttavia è importante segnalare come la rivoluzione,
specie quella di ottobre, rafforzò i timori, anzi, sembrò offrire una prova decisiva che le
paure di una ribellione delle masse e di una nuova barbarie non erano infondate, ma si
presentavano come un possibile, perfino probabile esito, cui la civiltà europea andava
incontro.
Se la rivoluzione russa viene vissuta come realizzarsi delle paure che agitano gli animi
degli esponenti della cultura europea, un altro paese cui molti autori guardano come ad un
possibile esempio di quello che potrebbe essere il futuro della civiltà occidentale sono gli
Stati Uniti. Tra le due guerre americanismo diviene sinonimo di “civiltà di massa”; la
civiltà americana diviene il paradigma di un mondo interamente dominato dai valori del
produttivismo, del consumismo, dell’efficientismo tecnico. Le principali metafore
utilizzate in questi anni per indicare il destino dell’uomo entro una simile civiltà sono, a
questo riguardo, significative dei timori degli autori che a vario titolo parteciparono a tale
dibattito: l’uomo come una formica, una pecora, un’ape. Ancora una volta il tema della
spersonalizzazione, della perdita dell’identità, dell’alienazione, vengono visti, e non in
astratto - ma come già storicamente dati nella società statunitense - come il destino
dell’umanità futura.
E’ nostra opinione che gli aspetti del dibattito che abbiamo tentato, sinteticamente, di
ricostruire, così come le paure di un crollo della civiltà ad opera del dominio esercitato
dalla tecnica sull’uomo ridotto alla forma di uomomassa, siano rappresentati in modo
esemplare in un film del 1927: Metropolis, di Fritz Lang. In questo film, che costituisce
una vera e propria testimonianza della coscienza collettiva dell’epoca, l’automa diviene
uomo e domina gli uomini che, a loro volta, sono ridotti a schiavi sottomessi alla
macchina. L’intreccio si risolverà, ma questo comporterà il crollo della “civiltà delle
macchine”.

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2. GUSTAVE LE BON

2.1. La Vita e il Pensiero

Gustave Le Bon, medico, psicologo e saggista francese di formazione positivista


(Nogent-le Rotrou, Eure-et-Loir 1841,- Parigi 1931), si dedicò allo studio della psicologia
delle masse, di cui può considerarsi uno dei fondatori.
Fra le sue opere principali: “Le leggi psicologiche dell’evoluzione dei popoli”(1894), “La
psicologia delle folle”(1895),”La Rivoluzione francese e la psicologia della
rivoluzione”(1912).
Il lavoro di Le Bon trasse stimolo dagli studi sulla massa rivoluzionaria durante la
rivoluzione francese.
Secondo la sua visione il comportamento degli individui quando sono coinvolti
nell’emozione collettiva di una folla, differisce in modo significativo dalle loro azioni in
gruppi più piccoli. Sotto l’influsso di una folla focalizzata, gli individui diventano capaci di
atti di barbarie come di eroismo, che singolarmente non arriverebbero a contemplare.
Secondo Le Bon, quando sono coinvolti nell’eccitazione collettiva generata dalle folle,
gli individui perdono temporaneamente alcune delle loro facoltà di ragionamento critico
normalmente attivate nella loro vita quotidiana. Essi diventano altamente suggestionabili e
facilmente esposti alle incitazioni dei capi-massa. Sotto l’influenza della folla gli individui
regrediscono verso reazioni di tipo più “primitivo”.
Sebbene molti autori abbiano attinto alle idee di Le Bon, esse suscitano qualche riserva.
Egli scriveva nelle vesti di un conservatore che criticava la democrazia, che vedeva la
Rivoluzione francese come l’inizio di un’era in cui le folle, la massa di gente comune,
avrebbero dominato sui legittimi governanti. Secondo Le Bon i gruppi numerosi, comprese
le assemblee parlamentari, non sono in grado di prendere delle decisioni razionali,
diversamente dai singoli individui.
Le Bon era interessato a dimostrare che la democrazia avrebbe scatenato gli impulsi più
primitivi degli esseri umani e schiacciato le facoltà superiori e più civili.
“La psicologia delle folle” (1895) aveva dato un ritratto delle folle tutto centrato sulla
trasformazione che avrebbe in esse del comportamento individuale. Irrazionalità, isterismo,

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e impulsività caratterizzano secondo Le Bon la natura di questi assembramenti umani, che


dalla Rivoluzione in poi (fino alle nostre assemblee parlamentari e alle giurie penali) fanno
la storia.
Negli anni fra le due guerre si accende un grande interesse per l’opera di Le Bon: egli
appare a molti un precursore, lo scopritore geniale di un carattere nuovo dell’uomo
moderno, quello che gli deriva dallo stare in gruppo. Se questa formulazione molto
emotiva di psicologia sociale poteva apparire frutto di una scoperta pionieristica, ciò si
doveva al fatto che la letteratura della crisi vedeva, nelle folle di Le Bon, la ripetizione
innumerevole del tipo umano rappresentato dall’uomo-massa. Psicologia collettiva e
sociologia della società contemporanea tendevano a coincidere e questo è il motivo per il
quale le pagine de “La psicologia delle folle”, in cui è presente la tipologia della massa,
costituiranno un necessario punto di riferimento per tutta la cultura della crisi.

2.2. Le Bon: La psicologia delle folle

L'epoca attuale costituisce uno di quei momenti critici, durante i quali il pensiero umano
si trasforma. Due fattori fondamentali stanno alla base di tale trasformazione. Il primo è la
fine delle credenze religiose, politiche e sociali […]. Il secondo è la nascita di condizioni di
vita e di pensiero interamente nuove, che risultano prodotte dalle moderne scoperte delle
scienze e dell'industria.
Dato che le idee del passato, sebbene meno salde, sono ancora molto forti, mentre quelle
che devono sostituirle sono ancora in via di formazione, l'età moderna rappresenta un
periodo di transizione e di anarchia.
Al momento attuale non è facile dire che cosa potrà nascere un giorno da quest'epoca
piuttosto caotica. Su quali idee saranno fondate le società che succederanno alla nostra?
Ancora lo ignoriamo, e tuttavia fin d'ora possiamo prevedere che, nella loro
organizzazione, queste società dovranno fare i conti con una potenza nuova, la più recente
sovrana dell'età moderna: la potenza delle folle. Sulle rovine di tante idee, ritenute vere un
tempo e oggi defunte, e di tanti poteri successivamente infranti dalle rivoluzioni, tale
potenza è la sola che continui a crescere e che paia destinata ad assorbire le altre. Mentre le
antiche credenze barcollano e spariscono, e le vetuste colonne delle società si schiantano
ad una ad una, la potenza delle folle è la sola che non subisca minacce e che vede crescere
di continuo il suo prestigio. L'età che inizia sarà veramente l'era delle folle.

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Non più di un secolo fa, la politica tradizionale degli Stati e le rivalità tra i prìncipi
costituivano i principali fattori degli avvenimenti. L'opinione delle folle, nella maggioranza
dei casi, non contava affatto. Oggi, invece, le tradizioni politiche, le tendenze individuali
dei sovrani e le rivalità esistenti tra questi ultimi hanno ben scarso peso. La voce delle folle
è divenuta preponderante. Detta ordini ai re. E’ nell'anima delle folle, e non più nei
consigli dei prìncipi, che si preparano i destini delle nazioni.
L'ingresso delle classi popolari nella vita politica, la loro trasformazione progressiva in
classi dirigenti, è una delle caratteristiche più rilevanti della nostra epoca di transizione.
Tale ingresso non ha coinciso, in verità, con il suffragio universale, che per molto tempo
ebbe limitata influenza e agli inizi fu tanto facilmente diretto. La potenza della folla nacque
dapprima col propagarsi di certe idee che si radicavano lentamente negli spiriti, poi grazie
al graduale associarsi degli individui che consentì la realizzazione di concetti fino ad allora
teorici. Il fatto di associarsi ha permesso alle folle di farsi un’idea, se non molto giusta,
almeno molto precisa dei propri interessi, e di prendere coscienza della propria forza. Le
folle formano i sindacati davanti ai quali tutti i poteri capitolano, creano le camere del
lavoro che, a dispetto delle leggi economiche, tendono a regolare le condizioni
dell'impiego e del salario. Inviano nelle assemblee governative i loro rappresentanti
sprovvisti di ogni iniziativa, di ogni indipendenza, e ridotti nella maggioranza dei casi ad
essere soltanto i portavoce dei comitati che li hanno eletti.
Poco inclini al ragionamento, le folle si dimostrano, al contrario adattissime all'azione.
L'organizzazione attuale rende immensa la loro potenza. i dogmi che vediamo nascere
acquisteranno ben presto la forza di quelli antichi, cioè la forza tirannica e sovrana che
mette al riparo da ogni discussione. Il diritto divino delle folle sostituisce il diritto divino
dei re.
Ciò che più ci colpisce di una folla psicologica è che gli individui che la compongono -
indipendentemente dal tipo di vita, dalle occupazioni, dal temperamento o dall'intelligenza
- acquistano una sorta di anima collettiva per il solo fatto di appartenere alla folla. Tale
anima li fa sentire, pensare ed agire in un modo del tutto diverso da come ciascuno di loro -
isolatamente - sentirebbe, penserebbe ed agirebbe. Certe idee, certi sentimenti nascono e si
trasformano in atti soltanto negli individui costituenti una folla. La folla psicologica è una
creatura provvisoria, composta di elementi eterogenei saldati assieme per un istante,
esattamente come le cellule di un corpo vivente formano, riunendosi, un essere nuovo con

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caratteristiche ben diverse da quelle che ciascuna di queste cellule possiede. […]
nell'aggregato di una folla non vi è affatto somma o media di elementi, ma combinazione e
creazione di elementi nuovi. La stessa cosa accade in chimica. Le basi e gli acidi, per
esempio, si combinano per formare un corpo nuovo dotato di proprietà diverse da quelle
dei corpi che hanno servito alla sua formazione.
Si può constatare facilmente quanto l’individuo immerso in una folla differisca
dall'individuo isolato. Ma è assai meno facile scoprire le cause di tale differenza.
Per arrivare a intravederle, bisogna ricordare anzitutto una scoperta fatta dalla psicologia
moderna: che i fenomeni inconsci svolgono una parte preponderante non soltanto nella vita
organica, ma anche nel funzionamento dell'intelligenza. La vita consapevole dello spirito
ha una parte minima rispetto alla vita inconsapevole di esso. L'analista più sottile,
l'osservatore più penetrante arriva a scoprire soltanto una piccola parte dei motivi inconsci
da cui egli stesso è guidato. I nostri atti coscienti derivano da un substrato inconscio
formato soprattutto da influenze ereditarie. Questo substrato racchiude gli innumerevoli
residui ancestrali che costituiscono l'anima della razza. Nei nostri atti, dietro alle cause da
noi confessate, ve ne sono di segrete da noi stessi ignorate. La maggior parte di motivi
occulti che ci sfuggono. [ … ]
La folla (lo abbiamo già detto studiandone i caratteri fondamentali) è guidata quasi
esclusivamente dall’inconscio. I suoi atti nascono dall'influenza del midollo spinale più che
dall'influenza del cervello. Le azioni da essa compiute possono essere perfette quanto
all'esecuzione, ma dato che non sono dirette dal cervello. dipendono in realtà dai moti
casuali dell’eccitazione. La folla, strumento di tutti gli stimoli esteriori, riflette le incessanti
variazioni di questi. E’ dunque schiava degli impulsi ricevuti. L’individuo isolato può
essere soggetto alle stesse eccitazioni, ma non cede ad esse, poiché la ragione gli indica
quali svantaggi deriverebbero dal cedere. Si può fisiologicamente definire tale fenomeno
dicendo che l'individuo isolato ha la possibilità di controllare i suoi riflessi, mentre la folla
ne è sprovvista.
I diversi impulsi ai quali le folle obbediscono, potranno essere, secondo le stimolazioni
ricevute, generosi o crudeli, eroici o vili, ma saranno sempre tanto imperiosi che persino
l'istinto di conservazione si annullerà davanti ad essi.
Le folle sono mutevoli poiché gli stimoli capaci di suggestionarle sono svariati, e le folle
vi obbediscono immancabilmente. Le vediamo passare in un attimo dalla ferocia più

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sanguinaria alla generosità o all'eroismo più assoluti. La folla diventa facilmente carnefice,
ma altrettanto facilmente martire. Dal suo seno hanno zampillato i fiumi di sangue che
sono stati necessari per il trionfo di ogni fede. E’ inutile risalire ai tempi eroici per vedere
di cosa son capaci le folle. Non danno troppo peso alla vita durante le sommosse, e pochi
anni fa un generale, divenuto improvvisamente popolare, avrebbe trovato con facilità
centomila uomini pronti a farsi uccidere per la sua causa.
Nelle folle, insomma, non c'è premeditazione. Possono percorrere successivamente la
gamma dei più opposti sentimenti sotto l'influsso di momentanee eccitazioni. Somigliano
alle foglie che l'uragano solleva, disperde e poi lascia ricadere. Lo studio di certe folle
rivoluzionarie ci fornirà qualche esempio della mutevolezza dei loro sentimenti.
Questa mutevolezza rende le folle molto difficilmente governabili, specie quando una
parte dei poteri pubblici è finita nelle loro mani. Se le necessità della vita quotidiana non
costituissero una sorta di regolatore invisibile degli eventi, le democrazie quasi non
potrebbero sussistere. Ma le folle, che desiderano certe cose con frenesia, non le
desiderano a lungo. Sono incapaci di volontà costante, così come sono incapaci di pensare.
La folla non è soltanto impulsiva e mutevole. Come il selvaggio, non ammette ostacoli tra
un desiderio e la sua realizzazione, tanto più se il numero dà ad essa la sensazione di
costituire una irresistibile potenza. Per l'individuo nella folla, la nozione di impossibilità
scompare. L'uomo isolato sa benissimo che non potrebbe, da solo, incendiare un palazzo o
saccheggiare un negozio. La tentazione di farlo non lo sfiora nemmeno. Ma quando si
trova in una folla, prende coscienza della forza che gli viene dal numero, e cede
immediatamente alla prima istigazione al massacro o al saccheggio. L'ostacolo inatteso
sarà infranto con frenesia. Se l'organismo umano permettesse la perpetuità del furore,
vedremmo allora che lo stato normale di una folla contrariata sarebbe appunto il furore.
Nell'irritabilità delle folle, nella loro impulsività e mutevolezza, così come in tutti i
sentimenti popolari che analizzeremo, intervengono sempre i caratteri fondamentali della
razza. Questi costituiscono il terreno invariabile su cui germinano i nostri sentimenti. Le
folle sono senza dubbio irritabili e impulsive, ma con notevoli variazioni di intensità. La
differenza tra una folla latina e una folla anglosassone, ad esempio, è lampante. I fatti
recenti della nostra storia gettano viva luce su questo punto. Nel 1870, la pubblicazione di
un semplice telegramma dove si parlava di un supposto insulto bastò per determinare in
Francia un'esplosione di furore che sfociò in una guerra terribile. [...] Le folle sono,

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Prima Parte: la rivolta delle masse 15

dunque, femminili, ma le più femminili di tutte sono le latine. Chi si appoggia ad esse può
salire molto in alto e molto in fretta, ma sfiorando sempre il ciglio della rupe Tarpea e con
la certezza di precipitare un giorno nell'abisso.
G. Le Bon, La psicologia delle folle, Mondadori, Milano 1980, pp. 24-45

2.3. Commento al brano di Le Bon: L’irrazionalità delle folle

L’occidente, nel momento in cui scrive Le Bon, ossia il momento in cui si affermano le
masse, sta attraversando un momento di significativi cambiamenti sociali. Le masse hanno
ormai preso il sopravvento sull’individuo, le tradizioni politiche hanno ormai perso il loro
peso e, con loro, tutte le tendenze individuali. Sembra quasi una profezia di ciò che avverrà
qualche anno dopo la pubblicazione di questo libro: lo scoppio della prima guerra
mondiale.
Le masse, che sono diventate il soggetto politico più importante della vita pubblica,
agiscono secondo un comportamento che, nella concezione freudiana della psicologia,
sarebbe consono ad un bambino che non ammette alcun ostacolo tra desiderio e
realizzabilità di quest’ultimo. Le folle sono prive della nozione di impossibilità. Nella vita
organica delle folle, infatti, una parte preponderante dell’attività psichica è “occupata”
dall’attività inconscia. Il comportamento di un individuo all’interno della “massa” gli
permette di abbattere gli ostacoli attraverso la frenesia e il furore. Le masse, inoltre,
seguono irrazionalmente gli istinti, agiscono con immediatezza, senza premeditazione e
consapevolezza. Esse sfuggono, però, al controllo di chi tenta di influenzarle, e si affidano
con altrettanta facilità a chi riesce ad indirizzare il loro odio a favore del proprio scopo. Le
folle sono schiave degli impulsi ricevuti, non riescono a dominarli e non riescono a
controllare i propri riflessi, agiscono mutevolmente a seconda degli stimoli esterni che le
influenzano rendendole molto difficili da governare.
Riguardo ai problemi studiati nell’area progettuale, Le Bon dimostra che le folle sono
capaci di modificare la vita politica e sociale, la loro presa di coscienza politica potrebbe,
secondo lui risultare pericolosa data l’irrazionalità con la quale esse agiscono.
Al termine “folle” sarebbe quindi più appropriato sostituire quello di “masse”.
Il pessimismo di Le Bon sulla presa di coscienza delle masse deriva anche e soprattutto
dal fatto che esse agiscono secondo una pulsione violenta dettata dall’irrazionalità e dalla
foga.

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Prima Parte: la rivolta delle masse 16

Alla base del comportamento impulsivo delle masse vi sono i caratteri della razza. La
diversa razza della folla fa si che essa subisca delle variazioni di intensità. Le folle sostiene
Le Bon sono di sesso femminile e le più femminili di tutte sono le latine (rif. Rivoluzione
francese).
Dall’analisi portata avanti da Le Bon scaturisce una concezione della società attuale
pessimista e un sentimento di nostalgia causato dalla perdita dell’equilibrio che stava alla
base della società prima della ”presa di potere” delle masse. Coloro che fanno affidamento
alle masse si espongono al carattere effimero della volontà di queste ultime.
Solo l’uomo che agisce individualmente riuscirà un giorno a risollevarsi, perché
l’organismo umano non permette, al contrario delle folle, -il perpetuarsi del furore.

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Prima Parte: la rivolta delle masse 17

3. ORTEGA Y GASSET JOSÈ

3.1. La Vita

Saggista e filosofo spagnolo. Dopo la laurea e la docenza, nel 1906 studiò in Germania
dove fu allievo di Cohen a Marburgo. Dal 1910 al 1936, insegnò metafisica all’università
di Madrid. Nel 1923 fondò “la Rivista de Occidente”, che diffuse in Spagna la filosofia e la
cultura europea.
Tra le principali opere di Ortega si possono ricordare: “Meditazioni sul Chisciotte”,
“Spettatore”, “Spagna invertebrata”, “La ribellione delle masse”

3.2. Il pensiero

La filosofia di Ortega s’ispira al realismo per l’affermazione che l’intelligenza, la scienza,


la cultura sono subordinate alla vita e non hanno altra funzione se non quella di essere
strumenti al servizio di questa. La credenza contraria, la subordinazione della vita
all’intelligenza, intelligenza priva di qualsiasi rapporto con la realtà, getta la vita in balia di
due atteggiamenti opposti che concordano nel distruggerla: il bigottismo (l’ipocrisia) della
cultura e l’insolenza anticulturale contro l’intellettualismo. Ortega afferma che l’uomo per
vivere deve pensare, e se pensa male vive male.
La subordinazione del sapere alla vita richiede che l’uomo assuma in modo consapevole
la responsabilità di divenire “artefice del proprio destino”, dominando con la propria
ragione il suo istinto e riuscendo sempre a discriminare tra ciò che “deve” e ciò che “non
deve” fare. In realtà ognuno ha bisogno di sapere che cosa debba fare delle cose che lo
circondano; questo è il senso vero del sapere. Le cose sono prive di un senso ontologico
dato e assoluto, il loro significato è funzione del comportamento dell’essere umano nei loro
confronti. Il vero problema non concerne quindi le cose, ciò che è sempre posto in gioco è
l’atteggiamento umano nei confronti della realtà. Questo, però non rende le cose stesse
soggettive, più che non renda oggettivo l’io, il suo rapporto con le cose. “Io sono io e la
mia circostanza” dice Ortega nelle meditazioni su Chisciotte, comprendendo nella

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Prima Parte: la rivolta delle masse 18

circostanza tutto il mondo esterno ed interno, il mondo cioè che è in rapporto con l’io, ma
non s’identifica con esso.
La ragione dell’uomo ha il compito di dominare la circostanza che la sua prospettiva gli
offre, di riassorbirla nell’uomo stesso al fine di umanizzarla; la ragione èè perciò una
ragione vitale, non opposta alla vita né diversa da essa. Ortega fu uno dei maggiori
esponenti dell'esistenzialismo europeo. L’elemento esistenzialistico della filosofia di
Ortega si riconosce nella contrapposizione che egli stabilisce tra autenticità e inautenticità.
L’uomo può perdere di vista se stesso, la salvezza per lui è, allora, tornare a coincidere con
se stesso, sapere chiaramente qual è il suo atteggiamento di fronte ad ogni cosa. In questa
coincidenza dell’uomo con se stesso, nella pace interiore dell’individuo con la sua stessa
spiritualità, è l’autenticità della vita cioè quella che si chiama felicità.
L’epoca di crisi è un’epoca d’instabilità in cui, per l’assenza di convinzioni positive,
l’uomo può passare dal bianco al nero, quindi tutto è quindi possibile. L’essenza della crisi,
quella che investì la natura stessa dell’uomo e il suo destino, si è verificata nel mondo
occidentale negli ultimi secoli dell’impero romano. La sua soluzione, il Cristianesimo,
appare in qualche modo ad Ortega come la soluzione delle soluzioni, l’unica veramente
radicale, la negazione dell’uomo e del mondo e di tutti i loro problemi, l’abbandono al
soprannaturale. Dall’altro lato l’epoca attuale, caratterizzata dalla “ribellione delle masse”,
appare ad Ortega come la peggiore di tutte, per l’incertezza in cui l’avvento delle masse e
la socializzazione dell’uomo hanno gettato la società attuale. Non c’è più “definitezza dei
tempi” perché questa società presuppone un avvenire chiaro, prestabilito, inequivocabile,
com’era quello del secolo XIX. Allora si credeva di sapere ciò che sarebbe accaduto
l’indomani. Ora il futuro è sconosciuto, dato che non si sa chi potrà comandare e non si sa
come si dividerà il potere sopra la terra: “Chi potrà comandare? Quale popolo? Quale
ideologia? Quale sistema di preferenze e di norme?”.
Il concetto di crisi, di cui Ortega è il più eloquente difensore, nasce da una nostalgia
mitologizzante, che pone nel passato quella perfetta stabilità e sicurezza di vita che l’uomo
sente mancargli al presente. Nel saggio “La storia come sistema”, c’è il riconoscimento
esplicito della storicità fondamentale dell’uomo: “Un pellegrino dell’essere, un sostanziale
emigrante è l’uomo”.
Per questo manca di senso mettere i limiti a ciò che l’uomo è capace di essere. In questa
illimitatezza delle sue possibilità, c’è solo un limite: il passato. Le esperienze di vita fatte

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Prima Parte: la rivolta delle masse 19

restringono il futuro dell’uomo. Se non sappiamo ciò che sarà, sappiamo ciò che non sarà.
Si vive in vista del passato.

3.3. Il Brano di Ortega: La ribellione delle masse

C'è un fatto che, bene o male che sia, è il più importante nella vita pubblica europea
dell'ora presente. Questo fatto è l'avvento delle masse al pieno potere sociale. E siccome le
masse, per definizione, non devono né possono dirigere la propria esistenza, e tanto meno
governare la società, vuol dire che l'Europa soffre attualmente la più grave crisi che tocchi
di sperimentare a popoli, nazioni, culture. Questa crisi s'è verificata più d'una volta nella
storia. La sua fisionomia e le sue conseguenze sono note. Se ne conosce anche il nome. Si
chiama la ribellione delle masse.
Per l'intelligenza del formidabile fenomeno conviene che si eviti di dare, fin d'ora, ai
termini «ribellione», «massa», «potere sociale», ecc., un significato esclusivamente o
principalmente politico. La vita pubblica non è soltanto politica, ma, in pari tempo e in
prevalenza, è intellettuale, morale, economica, religiosa; comprende tutti i costumi
collettivi, inclusa la maniera di vestire e la maniera di godere.
Forse il modo migliore di avvicinarsi a questo fenomeno storico è quello di riferirci a
un'esperienza visiva, sottolineando un aspetto della nostra epoca che è visibile con gli
occhi della fronte.
Semplicissimo ad essere enunciato, per quanto non sia altrettanto semplice ad essere
analizzato, lo possiamo denominare il fenomeno dell'agglomerazione, del «pieno». Le città
sono piene di gente. Le case, piene d'inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti. I treni, pieni di
viaggiatori. I caffè, pieni di consumatori. Le strade, piene di passanti. Le anticamere dei
medici più noti, piene d'ammalati. Gli spettacoli, appena non siano molto estemporanei,
pieni di spettatori. Le spiagge, piene di bagnanti. Quello che prima non soleva essere un
problema, incomincia ad esserlo quasi a ogni momento: trovar posto. [...]
Che cosa è ciò che vediamo, e la cui considerazione ci sorprende tanto? Vediamo la
moltitudine, come tale, che s'impossessa dei luoghi e dei mezzi creati dalla civiltà.
Il concetto di moltitudine è quantitativo e visivo. Traduciamolo, senza alterarlo, nella
terminologia sociologica. Allora troviamo l'idea della massa sociale. La società è sempre
una unità dinamica di due fattori: minoranze e masse. Le minoranze sono individui o
gruppi d'individui particolarmente qualificati. La massa è l'insieme di persone non

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Prima Parte: la rivolta delle masse 20

particolarmente qualificate. Non s'intenda, però, per masse soltanto, né principalmente, «le
masse operaie». Massa è l'uomo medio. In questo modo si converte ciò che era mera
quantità - la moltitudine - in una determinazione qualitativa: è la qualità comune, è il
campione sociale, è l'uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in se
stesso un tipo generico. E che abbiamo guadagnato con questa conversione della quantità
in qualità? E’ assai semplice: per mezzo di questa comprendiamo la genesi di quella. E’
evidente, perfino banale, che la formazione normale d'una moltitudine implica la
coincidenza di desideri, di idee, del modo d'essere, negl'individui che la costituiscono. […]
A rigore, la massa può definirsi, come fatto psicologico, senza necessità d'attendere che
appaiano gl'individui come agglomerato. Anche per una sola persona possiamo sapere se è
massa o no. Massa è tutto ciò che non valuta se stesso - né in bene né in male - mediante
ragioni speciali, ma che si sente «come tutto il mondo», e tuttavia non se ne angustia, anzi
si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri. […]
E non c'è dubbio che la divisione più radicale che occorre fare in seno all’Umanità è
questa, in due classi di creature: quelle che esigono molto e accumulano sopra se stesse
difficoltà e doveri, e quelle che non esigono nulla di speciale, se non che per esse vivere
consiste nell'essere a ogni momento ciò che già sono, senza sforzo di perfezione dentro di
se stesse, galleggianti che vanno alla deriva. […]
La divisione della società in masse e minoranze selezionate non è, pertanto, una divisione
in classi sociali, ma in classi di uomini, e non può identificarsi nell'ordine gerarchico di
classi superiori e inferiori. […]
Ebbene: esistono nella società operazioni, attività, funzioni dei più diversi ordini, che
sono, per la loro stessa indole, speciali, e, di conseguenza, non possono essere eseguite
senza qualità anch'esse speciali. Per esempio: certi godimenti di carattere artistico e
lussuoso, oppure le funzioni di governare o di giudicare politicamente intorno agli affari
pubblici. Prima queste attività speciali erano esercitate da minoranze qualificate -
qualificate, almeno, come presunzione. La massa non pretendeva d'intervenire in esse: si
rendeva conto che se voleva intervenire doveva effettivamente acquistare queste doti
speciali e cessare di essere massa. Conosceva la sua funzione in una sana dinamica sociale.
[…]
Nessuno, io credo, deplorerà che le folle godano oggi in numero e misura maggiori che
per il passato, dato che ne hanno il gusto e i mezzi. Il male è che questa decisione presa

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Prima Parte: la rivolta delle masse 21

dalle masse di assumere le attività proprie alle minoranze, non si manifesta, né potrebbe
manifestarsi, soltanto nell'ordine dei godimenti, ma essa si rivela come una maniera
generale di questo tempo. Così - anticipando ciò che vedremo a momenti - credo che le
innovazioni politiche degli anni più recenti non significano altro che l'impero politico delle
masse. La vecchia democrazia viveva temperata da un'abbondante dose di liberalismo e
d'entusiasmo per la legge. A servire questi principi l'individuo si obbligava a sostenere in
se stesso una disciplina difficile. Sotto la protezione del principio liberale e della norma
giuridica potevano agire e vivere le minoranze. Democrazia e legge, convivenza legale,
erano sinonimi. Oggi assistiamo al trionfo d'una iperdemocrazia in cui la massa opera
direttamente senza legge, per mezzo di pressioni materiali, imponendo le sue aspirazioni e
i suoi gusti, è falso interpretare le nuove situazioni come se la massa si fosse stancata della
politica e ne devolvesse l'esercizio a persone «speciali» Tutto il contrario. Questo era
quello che accadeva nel passato, questo era la democrazia liberale. La massa presumeva
che, in ultima analisi, con tutti i loro difetti e le loro magagne, le minoranze dei politici
s’intendevano degli affari pubblici un po' più di essa. Adesso, invece, la massa ritiene
d'avere il diritto d'imporre e dar vigore di legge ai suoi luoghi comuni da caffè. Io dubito
che ci siano state altre epoche della storia in cui la moltitudine giungesse a governare così
direttamente come nel nostro tempo. Per questo parlo d'iperdemocrazia.
Iil fatto caratteristico del momento è che l'anima volgare, riconoscendosi volgare, ha
l'audacia d'affermare il diritto della volgarità e lo impone dovunque. La massa travolge
tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato Chi non sia come
«tutto il mondo», chi non pensi come «tutto il mondo» corre il rischio di esser eliminato.
Ed è chiaro che questo «tutto il mondo» non è «tutto il mondo». «Tutto il mondo» era
normalmente l'unità complessa di massa e minoranze discrepanti, speciali. Adesso «tutto
mondo» è soltanto la massa.

Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna 1962, pp. 3-12

3.4. 0rtega commento

Nel brano Ortega affronta un problema tipico della società del tempo: l’avvento al potere
delle masse,(nonostante la loro incapacità di auto guidarsi)che porta ad una inevitabile crisi
dell’Europa, già verificatasi in passato, ma molto più intensa poiché non si trattava solo

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Prima Parte: la rivolta delle masse 22

della presa di potere nell’ambito politico ma anche, e soprattutto, religioso, morale,


economico ed intellettuale.
Questo problema per quanto evidente sia, comporta delle enormi difficoltà d’analisi.
Ortega utilizza un particolare metodo, che Ortega stesso definisce di facile enunciazione,
ma che comporta delle difficoltà non indifferenti di analisi. Tale fenomeno viene
convenzionalmente definito «del pieno».
Una prima spiegazione del fenomeno viene fornita da Ortega utilizzando una
terminologia non sociologica. Ortega sottolinea come qualsiasi parte della città sia
popolata; da qui nasce una prima considerazione per quanto riguarda la massa che popola
tali città: la moltitudine, quindi un concetto quantitativo e visivo.
Questa prima definizione viene poi tradotta in termini sociologici: si potrà allora parlare
di massa sociale. Ortega sottolinea come in ogni società massa siano presenti una
minoranza ed una maggioranza(massa).
I primi, sono gruppi di individui qualificati, che compongono però, come è logico, una
ristretta élite. La maggioranza, che compone invece la massa, rappresenta le persone non
qualificate. Nella massa ogni singolo individuo appare “inutile, poiché è semplicemente la
parte di un tutto in cui ciò che prevale è, come già detto, la quantità, e viene
contemporaneamente svalutata la qualità. In questo senso ogni singolo individuo che
compone la massa si sente sicuro solo se si sente uguale all’altro.
Da ciò deriva una degradazione anche della cultura in quanto anch’essa diviene
fenomeno di massa. La riaffermazione di una concezione elitaria si potrebbe verificare solo
se si verificasse un ritorno al passato.
Il brano si conclude con affermazione da parte di Ortega dell’inevitabile presa del potere
da parte delle masse, le quali riusciranno nell’intento di realizzare un regime
iperdemocratico, che porterà poi alla nascita di un inevitabile regime totalitario.

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Prima Parte: la rivolta delle masse 23

4. SIGMUND FREUD

4.1. La Vita

Benché tutta risolta all'interno di una borghesia della quale seppe esprimere e interpretare
le inquietudini, la vita di Sigmund Freud si identifica nel tempo con lo sviluppo della sua
rivoluzionaria concezione dell'uomo, e con la diffusione dl movimento psicoanalitico
stesso, del quale egli fu fondatore e capo carismatico.
Nato il 6 maggio 1856 da modesta famiglia israelitica, a Freiberg (Moravia), Freud
attribuiva a questa sua condizione - l'essere ebreo e austriaco - la propria capacita di
sopportare il peso di una posizione impopolare, il misconoscimento, la solitudine, le
accuse, le calunnie che gliene derivavano. A Vienna, dove la famiglia si era trasferita
quattro anni dopo la sua nascita, si iscrisse dapprima alla facoltà di Scienze, dedicandosi,
con alcuni successi, alla ricerca pura. Sua guida era in questo periodo lo psicologo Brucke,
portavoce di quel fervore scientifico, di quella positivistica fede nella scienza, che
dominava allora la maggior parte degli studiosi. Questo atteggiamento penetro
profondamente il giovane Freud.
Costretto da problemi economici a lasciare la facoltà' di Scienze, si iscrisse a Medicina.
Nel 1881 si laureo. Quattro anni dopo ebbe la libera docenza in neuropatologia ed una
borsa di studio; ne approfitto per andare a Parigi, da Charcot, il più grande neurologo
europeo di quei tempi. Nel 1886, dopo il matrimonio, Freud apri un gabinetto privato per la
cura delle malattie nervose. Decisivo, fu in questo momento l'incontro con J. Breuer, che lo
indusse ad utilizzare l'ipnosi.
Dal lungo periodo di collaborazione con Breuer (1887-1895), Freud ricava alcune
acquisizioni che resteranno fondamentali per la terapia dell'isteria e più tardi delle altre
nevrosi. E' proprio nel 1895 che Freud pubblica, insieme a Breuer, la sua prima opera,
Studi sull'isteria.
Motivi teorici e pratici, e soprattutto una sostanziale diversità di carattere e approccio alla
terapia, allontanarono i due poco dopo la pubblicazione degli studi. Freud si mette sulla
strada della psicoanalisi. Sempre nel 1895 Freud aveva iniziato la propria autoanalisi.

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Prima Parte: la rivolta delle masse 24

Punto di partenza fu un sogno; attraverso questo sogno Freud giunse alla conclusione che
tutti i sogni hanno un significato.
Nel 1896 muore il padre e questo sarà un periodo straziante per Freud. L'autoanalisi, con
il sostegno dei sogni, continuò e si approfondì, dilatandosi nello spazio psichico e nel
tempo e aprendogli la strada a fondamentali scoperte scientifiche e personali: l'inconscio e
la censura, la libido ed il complesso edipico. Continuerà poi ad occuparsi dei sogni,
strumento del quale egli diveniva sempre più' padrone, sino alla pubblicazione del libro a
lui più caro, L'interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung) nel 1899.
Nella sua autoanalisi Freud aveva inoltre scoperto alcune caratteristiche sintomatiche
dette "casuali", presenti in un individuo normale. ma che potevano ricondursi a sintomi
nevrotici: lapsus, amnesie passeggere, sbadataggini, smarrimenti di oggetti. Da questa idea
nacque un'altra opera fondamentale che è La psicopatologia della vita quotidiana
(Psychopathologie des Alltagslebens) pubblicata nel 1901. Approfondendo le intuizioni
elaborate nel corso dell'autoanalisi e confermate, per quanto possibile, nella pratica medica,
Freud pubblica nel 1905, i Tre saggi sulla sessualità (Drei Abhandlungen zur
Sexualtheorie): in cui esamina le aberrazioni sessuali, l'importanza della sessualità
infantile, la tendenza alla perversione, che egli ritiene essenziale nell'istinto sessuale.
Questi anni straordinariamente fertili, tra 1895 e 1905, saranno definiti da Freud di
"splendido isolamento", quelli in cui non aveva ancora seguaci. In seguito pubblicò varie
opere tra le quali Totem e tabù ( 1913 ), Al di la' del principio e del piacere (1920),
Psicologia delle masse e analisi dell'io (1920/21), L'io e l'Es.
Nelle opere di questi anni affiora, in modo talvolta sotterraneo, talvolta esplicito, il
disagio dell'animale-uomo posto, dalla Grande Guerra, di fronte alla rivelazione della sua
natura più vera, della sua natura rimossa, il suo sconvolgimento nel pacifico possesso di
quei beni, portati dal progresso e dal benessere, che credeva definitivamente acquisiti.
Nel 1930 ebbe il premio Goethe della città di Francoforte. Conobbe altre notissime
personalità del suo tempo come Thomas Mann e Albert Einstein, con il quale scrisse
Perche' la guerra? pubblicato nel 1932.
Nel 1933 i nazisti prendono il potere in Germania; nonostante i cattivi presagi di
un'aggressione all'Austria e le ripetute esortazioni degli amici, Freud non vuole lasciare
Vienna. Si deciderà solo cinque anni più tardi, di fronte all'Anschluss. I suoi libri vengono
bruciati, così nel 1938 la famiglia si trasferisce a Londra. Freud prosegue il suo lavoro;

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Prima Parte: la rivolta delle masse 25

scrive articoli, lavora al Compendio di psicoanalisi che resterà incompiuto e verrà


pubblicato postumo. Nonostante l'intensificazione del dolore data dal cancro che aveva alla
mascella, fu sino al fine estremamente lucido e, persino, completamente consapevole e
rassegnato.
Continuò le analisi fino a qualche settimana prima della sua morte avvenuta a Londra il
23 settembre 1939.

4.2. Il pensiero: Il disagio della civiltà

L’opinione di Freud riguardo la società è individuabile nel saggio “Il Disagio della
civiltà”, pubblicato nel 1929.
Il fondamentale proposito freudiano in quest’opera, è di analizzare la genesi, le funzioni e
l’essenza della civiltà dal punto di vista dell’individuo e della sua felicità.
Ciò che secondo Freud caratterizza la civiltà (costituendone anche le genesi), è la
“sostituzione del potere della comunità a quello del singolo”, mediante una serie di
limitazioni alla libertà individuale. Nell’imporre un potere esterno alla persona, nel
limitarne la libertà, la civiltà provoca, secondo Freud, dei danni gravissimi nell’individuo
medesimo. Essa, infatti, obbliga l’uomo ad inibire un numero considerevole di desideri e
pulsioni, a rinunciare al soddisfacimento di molte esigenze profonde del suo essere, e a
“deviare” l’energia libidica e la ricerca del piacere in prestazioni sociali e lavorative. In
questo modo la società cerca con vari mezzi di spersonalizzare i propri membri,
eliminando la ricerca individuale della felicità e diventando per costoro il modello in cui
riflettersi, o ancor più, il polo cui vincolare le pulsioni libidiche al fine di renderle
inoffensive.
Ciò non significa che Freud sia contro la civiltà o che vagheggi un’umanità buona e felice
da recuperarsi oltre le imposizioni sociali. Al contrario egli ritiene che l’uomo non possa
essere veramente felice, perché la sofferenza è la componente strutturale della vita, in
quanto siamo costretti a patire nel corpo e nella psiche, a decadere e a morire. Inoltre,
secondo Freud, l’uomo non è “una creatura gentile che vuol essere amata, e che al
massimo può difendere se stessa se viene attaccata”, ma è una creatura malvagia, ed una
delle sue pulsioni più profonde è l’aggressività. Per evitare all’uomo di dare libera
espressione ai suoi istinti e di distruggere la civiltà, la società pone la necessità di
reprimere gli istinti più negativi dell’uomo.

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Prima Parte: la rivolta delle masse 26

I modi o gli strumenti principali mediante i quali la società soggioga l’individuo, sono
l’instaurazione del Super-io e del sentimento di colpa. Attraverso i meccanismi educativi
ed altri sistemi di socializzazione, la società, proseguendo l’opera paterna, dà origine ad un
Super-io sociale, incarnato in una serie di divieti, valori, principi e norme di
comportamento, lontani dalle esigenze profonde dell'essere umano. In questo modo, la
società, riesce ad introiettare nell’individuo quei sensi di colpa che ne fiaccano
irrimediabilmente la capacità di ricercare attivamente e autonomamente il proprio piacere.
Perfettamente consapevole delle esigenze connesse con la convivenza intersoggettiva,
Freud ha però denunciato con fermezza le implicazioni di una pratica sociale
eccessivamente repressiva. Ha riproposto la tematica rousseauiana della contraddizione tra
il bonheur dell’individuo e le esigenze del progresso sociale; ha demistificato valori e
prìncipi morali ritenuti ovvi ed universali, mostrando in quale misura essi possono turbare
l’equilibrio psichico dell’individuo.
Questo discorso si colloca nell’ambito di un ripensamento da parte di Freud della sua
teoria psicologica generale. Negli ultimi scritti, infatti, Freud ha diviso le pulsioni in due
specie: quelle che tendono a conservare ed unire e sono quindi erotiche o genericamente
sessuali; e quelle che invece tendono a distruggere e uccidere, comprese nelle
denominazioni di pulsioni aggressive o distruttive. Ed è proprio nella lotta tra Eros e
Thanatos che Freud ha visto condensata l’intera storia del genere umano.

4.3. Il Brano di Freud: individuo e massa

La contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse,


contrapposizione che a prima vista può sembrarci molto importante, perde, a una
considerazione più attenta, gran parte della sua nettezza.
La psicologia individuale verte sull'uomo singolo e mira a scoprire per quali tramiti
questo cerca di conseguire il soddisfacimento dei propri moti pulsionali, ma solo
raramente, in determinate condizioni eccezionali, riesce a prescindere dalle relazioni di tale
singolo con altri individui.
Nella vita psichica del singolo l'altro è regolarmente presente come modello, come
oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest'accezione più ampia ma
indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è anche, fin dall'inizio, psicologia
sociale.

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Prima Parte: la rivolta delle masse 27

Il rapporto che il singolo istituisce con i suoi genitori e fratelli, con il suo oggetto
d'amore, con il suo maestro e con il suo medico, ossia tutte le relazioni finora divenute
materia precipua della ricerca psicoanalitica, possono legittimamente venir considerate alla
stregua di fenomeni sociali, e contrapporsi quindi a taluni altri processi, da noi chiamati
«narcisistici», nei quali il soddisfacimento delle pulsioni elude o rifiuta l'influsso di altre
persone. La contrapposizione tra atti psichici sociali e atti narcisistici rientra quindi per
intero nell'ambito della psicologia individuale e non consente di separare questa dalla
psicologia sociale o delle masse.
Nei menzionati rapporti che istituisce con i genitori e i fratelli, con la persona amata, con
l’amico, il maestro e il medico, il singolo subisce l’influsso di un’unica persona o di un
numero assai limitato di persone, ognuna delle quali ha per lui acquistato un'importanza
straordinaria. Ora nel parlare di psicologia sociale o delle masse, è invalsa l'abitudine di
prescindere da tali relazioni e di isolare, quale oggetto della ricerca, il simultaneo influsso
esercitato sul singolo da un numero rilevante di persone cui esso è legato da qualcosa, ma
che per molti aspetti possono essergli estranee.
La psicologia delle masse considera quindi l'uomo singolo in quanto membro di una
stirpe, di un popolo, di una casta, di un ceto sociale, di un'istituzione, o in quanto elemento
di un raggruppamento umano che a un certo momento e in vista di un determinato fine si è
organizzato come massa. Recisa in tal modo una connessione naturale, è facile scorgere nei
fenomeni che si manifestano in tali condizioni specifiche l'espressione di una pulsione
specifica e ulteriormente irriducibile: la pulsione sociale - herd instinct, group mind [istinto
gregario, psiche collettiva] - che in altre situazioni non si manifesta.
Possiamo però obiettare che ci sembra difficile attribuire al fattore numerico
un'importanza tale da renderlo di per sé capace di suscitare nella vita psichica dell'uomo
una pulsione nuova, altrimenti non operante. Propendiamo quindi per due altre possibilità:
che la pulsione sociale non possa essere originaria e indecomponibile, e che gli inizi del
suo costituirsi possano venir individuati in un ambito più ristretto, quello della famiglia ad
esempio.
Siamo partiti dal dato di fatto fondamentale che, all'interno di una massa e per influsso di
questa, il singolo subisce una profonda modificazione della propria attività psichica. La sua
affettività viene straordinariamente esaltata, la sua capacità intellettuale si riduce in misura
considerevole, ed entrambi i processi tendono manifestamente a uguagliarlo agli altri

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Prima Parte: la rivolta delle masse 28

individui della massa; questo risultato può venir conseguito unicamente tramite
l'annullamento delle inibizioni pulsionali peculiari ad ogni singolo e attraverso la rinuncia
agli specifici modi di esprimersi delle sue inclinazioni.
Ci è stato detto che tali effetti, spesso indesiderati, possono in parte almeno venir
neutralizzati da una superiore «organizzazione» delle masse; ciò tuttavia non contraddice il
fatto fondamentale della psicologia delle masse, enunciato nelle due proposizioni
dell'esaltazione dell'affetto e dell'inibizione del pensiero entro la massa primitiva.
Intendiamo ora trovare la spiegazione psicologica di tale trasformazione psichica del
singolo all'interno della massa.
Fattori razionali, come la sopra menzionata intimidazione del singolo e pertanto l'azione
della sua pulsione di auto-conservazione, non riescono evidentemente a spiegare per intero
i fenomeni che s'impongono all'osservazione. Per il resto, ciò che ci viene offerto dagli
autori occupatisi di sociologia e di psicologia delle masse è, anche se designata con nomi
diversi, sempre la stessa cosa: si tratta della magica parola suggestione. In Tarde aveva
nome «imitazione», ma dobbiamo dar ragione a un autore che obietta che l'imitazione è
assunta sotto il concetto di suggestione, di cui anzi costituisce una conseguenza. In Le Bon
tutto ciò che di sorprendente caratterizza i fenomeni sociali viene ricondotto a due fattori:
la suggestione reciproca fra i singoli e il prestigio del capo. Ma il prestigio si esprime a sua
volta solo nella sua conseguenza, vale a dire suscitando la suggestione. [...]
Cercherò invece di utilizzare, in vista di una delucidazione della psicologia delle masse, il
concetto di libido, che ci ha reso servizi tanto eccellenti nello studio della psiconevrosi.
Libido è un termine desunto dalla teoria dell'affettività. Chiamiamo così - considerandola
una grandezza quantitativa, anche se per ora non misurabile - l'energia delle pulsioni
attinenti a tutto ciò che può venir compendiato come «amore».
Il nocciolo di ciò che intendiamo per amore è naturalmente costituito da ciò che viene
chiamato amore comunemente e che i poeti celebrano, ossia dall'amore fra l'uomo e la
donna che tende all'unione sessuale. Non ne escludiamo tuttavia tutto ciò che anche
altrimenti inerisce al nome di amore, come da un lato l'amore per se stessi, dall'altro quello
per i genitori e per i bambini, l'amicizia e l'amore per gli uomini in generale, come pure
l'attaccamento a oggetti concreti e a idee astratte. Ci è lecito farlo dacché la ricerca
psicoanalitica ci ha insegnato che tutte queste tendenze sono l'espressione dei medesimi
moti pulsionali che nei rapporti tra i sessi spingono all'unione sessuale, mentre in altre

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Prima Parte: la rivolta delle masse 29

circostanze vengono deviati da tale meta sessuale od ostacolati nel suo raggiungimento,
pur serbando ancora la loro natura originaria in misura sufficiente da mantenere
riconoscibile la loro identità (casi dell'autosacrificio, dell'aspirazione all'avvicinamento).
Riteniamo quindi che, tramite la parola «amore» nelle sue molteplici accezioni, la lingua
abbia creato una sintesi perfettamente legittima e di non poter fare nulla di meglio che
porla a fondamento delle nostre discussioni e descrizioni scientifiche.
Con questa decisione la psicoanalisi ha scatenato una tempesta d'indignazione, quasi si
fosse resa colpevole di un'innovazione delittuosa. Eppure, tramite tale concezione
«ampliata» dell'amore, la psicoanalisi non ha creato nulla di originale.
L'«Eros» del filosofo Platone mostra, riguardo alla sua provenienza, alla sua funzione e al
suo rapporto con l'amore sessuale, una coincidenza perfetta con la forza amorosa, la libido
della psicoanalisi, come hanno particolareggiatamente dimostrato Nachmansohn e Pfister;
e allorché nella sua famosa Lettera ai Corinzi l'apostolo Paolo celebra al di sopra di ogni
cosa l'amore, lo intende certamente nella medesima accezione «ampliata»; dal che si ricava
soltanto che, pur ammirandoli molto in apparenza, non sempre gli uomini prendono sul
serio i loro grandi pensatori.
Nella psicoanalisi tali pulsioni amorose vengono chiamate, a maggior ragione e in base
alla loro provenienza, pulsioni sessuali. Le persone «colte» hanno perlopiù considerato tale
denominazione un'offesa e si sono vendicate ritorcendo contro la psicoanalisi la taccia di
«pansessualismo». Chi nella sessualità scorge qualcosa di vergognoso e di degradante per
la natura umana è libero di servirsi dei più distinti termini «eros» ed «erotismo». Anch'io
avrei potuto fare così fin dall'inizio e mi sarei in tal modo risparmiato molta opposizione.
Ma non ho voluto farlo perché preferisco evitare le concessioni alla pusillanimità. E’
impossibile sapere dove si va a finire per questa strada; si comincia con concessioni sulle
parole per finire a poco a poco con concessioni sulla cosa. Non posso scorgere alcun
merito nel fatto di vergognarsi della sessualità: la parola greca eros, che dovrebbe mitigare
lo sconcio, non è in ultima analisi altro che la traduzione della nostra parola tedesca Liebe
[amore], e infine, chi è in grado di attendere non ha bisogno di fare concessioni.
Cercheremo pertanto di considerare l'ipotesi che le relazioni d'amore (in termini neutri: i
legami emotivi) costituiscano del pari l'essenza della psiche collettiva. Ricordiamo che gli
autori non le menzionano: ciò che a esse dovrebbe corrispondere risulta evidentemente
nascosto dietro il riparo, il paravento, della suggestione.

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Prima Parte: la rivolta delle masse 30

Cominceremo col basare la nostra ipotesi su due idee non ancora chiaramente delineate.
La prima è che la massa vien evidentemente tenuta insieme da qualche potenza. A quale
potenza potremmo attribuire meglio questo risultato se non a Eros, che tiene unite tutte le
cose nel mondo? La seconda è che se nella massa il singolo rinuncia al proprio modo
d'essere personale e si lascia suggestionare dagli altri, ciò avviene probabilmente perché vi
è in lui un bisogno di stare in armonia con gli altri anziché di contrapporsi a essi, e quindi
forse si comporta così «per amor loro».

S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, Boringhieri, Torino 1975, pp. 11-12;
32-35.

4.4. Il Commento

L’uomo non si rende conto delle proprie capacità,


finché non prova, arde e vuole.
Ugo Foscolo
Nel brano preso in considerazione, relazionando le posizioni contrapposte e le affinità
associative tra il comportamento individuale e le esigenze fortemente irrazionali
dell’aggregato sociale massa, Freud traccia i contorni dell’attività psichica dell’individuo,
asserendo che essa viene influenzata dalla componente strutturale della società umana nel
suo insieme; fornendo con ciò una valida spiegazione, su base psicoanalitica,
dell’organizzazione comportamentale del singolo inserito nel contesto impersonale della
massa. Grazie inoltre ad un esaustiva, seppure mirata, presentazione delle facoltà
psichiche, sostenuta da aperte ma pacate condanne nei confronti della rigorosa, austera ma
“corruttibile” morale dell’opinione pubblica, egli rivendica, anche implicitamente, la
portata sociale della psicoanalisi, destinata ad essere ben più che una nuova corrente
psicologica fondata esclusivamente sullo studio teorico dei processi psichici dell’inconscio,
ma ancor più una nuova scienza umana in grado di individuare, analizzare e interpretare
l’agire sociale dell’individuo come della collettività in relazione alla propria vita mentale.
Limitatamente al testo le tesi e le risoluzioni proposte da Freud sono diverse. Innanzitutto
nel considerare l’individualità del singolo come profondamente condizionata dalle
relazioni attive o indirette di esso con le altre componenti sociali che si animano nel
dinamismo della quotidianità e che vengono assunte, o in positivo o in negativo, come

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Prima Parte: la rivolta delle masse 31

termini di confronto costante; si conclude che l’evolversi della psicologia individuale trova
da subito un corrispondente diretto nella psicologia della massa, ossia è proprio nei
rapporti che il singolo instaura con gli altri individui, viventi la sua stessa realtà sociale,
che si stabilisce l’insieme dei fenomeni sociali. Ed è infatti l’individuo in quanto parte
relativa e costituente di un raggruppamento umano che, in virtù di determinate scelte
orientate al raggiungimento incondizionato di una meta comune, dà vita all’aggregazione
di massa. Questa viene concepita da Freud come un organizzazione eterogenea, all’interno
della quale, come è chiaro, gli interessi e le aspirazioni del soggetto singolo vengono
meno, per compenetrarsi, confondersi e, in conclusione, essere uniformate alla visione
monolitica ed inequivocabile del fine perseguito dalla massa. In termini di psicoanalisi
freudiana, nel momento in cui l’espressione di una pulsione specifica avvalorata come
pulsione sociale, che comunque non risiede come un “a priori” nell’attività psichica
umana, ma viene forgiandosi attraverso l’esperienza ed il contatto sociale trovando il suo
soddisfacimento nella psicologia di massa, l’attività psichica del singolo è soggetta a
inevitabili modificazioni che prevedono la soppressione dei processi psichici razionali e
vagliati, oscurati da un aumento sconsiderato degli impulsi affettivi, convergenti però
esclusivamente nella psiche collettiva.
E se una forza irrazionale governa le strategie comportamentali del soggetto all’interno
della massa, essa è la libido, un’energia pulsionale estrema e caratterizzante, che si
sintetizza nelle qualità proprie dell’amore nell’accezione più ampia del termine: sia
soprattutto come desiderio irresistibile, brama di avere, ottenere, possedere un determinato
oggetto tra i più svariati; sia come sentimento naturale che attrae e unisce i due sessi per la
conservazione della specie, che può assumere forme nobilmente spirituali o può avere
natura di passione fino ad esprimersi in forme morbosamente sensuali. Essa, in qualsiasi
tendenza si presenti, è comunque la rappresentazione costante delle stesse cariche
pulsionali, che pur nascondendosi dietro mete tra le più differenti tra loro, non perdono la
loro identità essenziale ed originaria di impulsi sessuali.
Le relazioni amorose rappresentano la dimensione peculiare della psiche collettiva.
In conclusione:
1. La potenza che consente alla massa di mantenere la propria peculiarità di aggregato
umano è l’amore.

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Prima Parte: la rivolta delle masse 32

2. Nel caos irrazionale ed impersonale che caratterizza la psicologia delle masse, una
forma primitiva di organizzazione collettiva può provenire da una comune direttiva
intimidatoria.
3. Se la suggestione reciproca all’interno della massa implica l’inibizione della naturale
individualità del singolo, in quanto appartenente ad un gruppo sociale, ciò proviene
probabilmente da una singolare esigenza di armonizzare il rapporto con gli altri e
convivere coralmente secondo un comune denominatore; seppure ciò comporta sacrificare
l’inviolata essenza del soggetto.

…rido della felicità delle “masse” perché il mio piccolo cervello


non concepisce una massa felice composta di individui
non felici.
Giacomo Leopardi

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 33

Seconda parte

La crisi del positivismo e il dibattito sulla tecnologia

1. PREMESSA

1.1. La crisi delle scienze e il crollo del paradigma positivistico

La seconda parte di quest’antologia è dedicata agli interventi di alcuni importanti autori


che, durante gli anni tra le due guerre, dibattono e prendono posizione su un problema
chiave per la cultura del tempo e per il “destino” della civiltà occidentale: l’età moderna
come età della scienza e della tecnica. Allo scopo di valutare il significato storico di questi
interventi, il loro valore di testimonianza, la diagnosi sulla società occidentale in essi
espressa, i timori sulle conseguenze del dominio della scienza sulla società e la natura,
abbiamo ricostruito brevemente la crisi del paradigma culturale e scientifico del
positivismo e brevemente sintetizzato i principali eventi che condussero ad una rivoluzione
in ambito scientifico.
Prima di affrontare questo lavoro abbiamo però pensato di sottolineare il rapporto che,
secondo noi, esiste tra la Grande Guerra e il problema della scienza e della tecnica. Dalle
letture che abbiamo fatto abbiamo derivato due principali tesi riguardo a tale rapporto:
1. pur essendo vero che la crisi dell’ideale positivistico - in campo artistico, letterario, ma
anche scientifico - era già in atto alla fine del XIX secolo; essa diviene evidente per tutti

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 34

solo con la Grande Guerra. Tale conflitto fu infatti il primo conflitto “moderno”, la sua
natura fu determinata in modo decisivo dagli sviluppi della scienza e della tecnica;
2. è con la Grande Guerra che crolla in modo definitivo e senza possibilità di dubbio
l’equazione tra scienza = civiltà = progresso = libertà e benessere per tutti. Con il primo
conflitto mondiale la scienza e le sue applicazioni tecnologico-industriali vengono pensate,
da tutti, ormai anche dall’opinione pubblica, come un problema, perfino una possibile
minaccia a quella civiltà e a quel progresso di cui prima costituivano l’essenza.

1.2. Le magnifiche sorti e progressive

L’ideale di progresso, che tanta importanza aveva avuto nella cultura ed ideologia della
seconda metà dell’ottocento, si può definire come una concezione del tempo storico
unilineare e irreversibile, ciascun momento della linea temporale costituisce un
miglioramento rispetto a quello precedente e rappresenta una conquista acquisita in modo
definitivo, non si può tornare indietro. Un altro importante tratto caratteristico di questa
concezione del tempo è dato dalla necessità del processo storico, pur attraverso problemi,
momentanei arresti, parziali arretramenti e altre difficoltà, l’evoluzione storica avanza
inarrestabilmente, su binari diritti, verso la sua destinazione finale, come una locomotiva,
simbolo del dominio dello spazio e del tempo e dell’era scientifica e industriale. La
destinazione finale di un tale percorso storico era pensata dai positivisti come
l’emancipazione definitiva dell’uomo dalla miseria e dalla penuria; il benessere materiale,
per la prima volta nella storia umana, poteva essere alla portata di tutti. Se la radice di ogni
ingiustizia, come pensava ad esempio Frederick Taylor3, era data dalla scarsità delle risorse
non equamente distribuibili tra tutti, per cui, inevitabilmente, ci sarebbero sempre stati
ricchi e poveri, privilegiati e nullatenenti; una disponibilità di risorse sufficiente per tutti
sembrava essere una solida base su cui costruire una società giusta. In conclusione, i
principali esponenti del positivismo pensano che la scienza sia la chiave per il progresso
materiale, ma anche morale, dell’umanità. Sia Comte che Spencer insistono molto su
questo punto. Per Comte l’obiettivo etico-politico del progresso è l’armonia tra le classi;
3
F. W. Taylor (1856–1915). Ingegnere statunitense, teorizzò l’applicazione di criteri scientifici
all’organizzazione del lavoro. Le sue posizioni influenzarono incisivamente la complessiva ristrutturazione
del sistema produttivo intorno alla fine del XIX secolo.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 35

per Spencer l’evoluzione sociale raggiunge il suo culmine con la moralità assoluta,
consistente nel perfetto accordo tra egoismo e altruismo. Nel suo insieme questa
concezione della storia e della civiltà viene racchiusa nel concetto di progresso una parola
chiave che, come poche altre, permette di cogliere un aspetto essenziale dell’identità
culturale e sociale del XX secolo.
Tutta la concezione del tempo che abbiamo sopra illustrato, poggia su una premessa: la
misura del progresso, il fondamento dell’evoluzione della civiltà occidentale, è costituito
dalla scienza e dalle sue applicazioni tecnologiche. E’, infatti, la scienza che, assicurando
una conoscenza obbiettiva della natura e il dominio su essa, costituisce il motore del
progresso, il fattore principale di quelle “magnifiche sorti e progressive” verso cui
l’umanità, o almeno l’umanità europea, appare avviata. Per questo motivo, il cuore del
progetto filosofico positivista, è quello di ridefinire su basi interamente scientifiche l’intero
sapere umano e di rimodellare su basi scientifiche l’intera società.
A questo punto è importante riassumere brevemente la concezione della scienza propria
del positivismo. Abbiamo liberamente tratto dal nostro manuale di filosofia 4, le
caratteristiche principali del programma filosofico del positivismo:
1. Il metodo scientifico si articola in due importanti operazioni:
1.1. la matematizzazione dell’esperienza, consistente nella riduzione
dell’esperienza al suo aspetto quantitativo e misurabile;
1.2. la registrazione obiettiva dei dati sensibili da parte del soggetto conoscente
concepito come osservatore neutrale.
2. Finalità della scienza è quella di formulare leggi generali capaci di fornire una
descrizione fedele e oggettiva di tutti i fenomeni, tale, in altre parole, da essere valida
rispetto ad ogni tempo e ad ogni luogo.
3. La scienza costituisce il modello unico di sapere valido, ogni altra forma di sapere che
si allontani dal metodo scientifico – arte, metafisica, religione – è da respingere.
4. Il metodo scientifico deve essere applicato anche alle scienze umane.
5. Scopo della filosofia è quello di ricostruire un quadro omogeneo del sapere,
un’enciclopedia delle scienze che combini, in modo armonico e sistematico, i contributi di
ogni disciplina scientifica integrandola in una concezione globale della realtà.

4
AbbagnanoFornero, Protagonisti e testi della filosofia, vol. III, Torino, Paravia, 1996.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 36

Entro questo progetto la tecnica doveva costituire l’elemento di raccordo tra la ricerca
scientifica e la società, era attraverso la tecnica che il progresso scientifico si sarebbe
riversato sulla società garantendone il perfezionamento materiale e morale.

1.3. La seconda rivoluzione scientifica e la crisi del positivismo

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, si hanno importanti sviluppi sia nelle scienze
naturali che in quelle umane, tali sviluppi mettono radicalmente in discussione il
paradigma positivistico e scatenano un dibattito in ambito filosofico e scientifico che porta
a ridefinire gli aspetti essenziali sia delle scienze, che della concezione della razionalità
scientifica. Proprio quelli che il positivismo considerava tratti essenziali del metodo
scientifico sono abbandonati e/o capovolti. E’ il periodo che molti autori hanno definito
con l’espressione “crisi della razionalità classica”, intendendo con quest’espressione il
venire meno di quella concezione della ragione fondata sulla meccanica classica di Newton
e Laplace.
Poiché non abbiamo affrontato tali tematiche né in fisica, né in filosofia, abbiamo pensato
di limitarci a una sintetica descrizione dei principali tra questi mutamenti, del resto il
nostro scopo non è quello di approfondire tale aspetto, ma solo quello di mostrare come il
dibattito sulla crisi della civiltà che si sviluppa in ambito letterario e culturale, fosse anche
influenzato dalla crisi del positivismo e della scienza cui esso s’ispirava.
Nel campo delle discipline logico-matematiche, già dalla fine del XIX secolo, si era avuta
una sconvolgente scoperta: quella delle geometrie non euclidee. Matematici come
Riemann, Lobacewski, Gauss e Bolyai, per vie diverse e indipendentemente l’uno
dall’altro, erano giunti a formulare sistemi geometrici perfettamente coerenti, ma
incompatibili con il quinto postulato della geometria euclidea. Se nella geometria classica
di matrice euclidea si assume, in base al quinto postulato, che per un punto esterno ad una
retta passi una sola retta parallela a quella data, la geometria iperbolica assumeva che
passassero più rette parallele alla prima, quella ellittica che non né passasse nessuna. Si
giungeva così a dimostrare la possibilità di una configurazione dello spazio completamente
differente rispetto a quello data nell’intuizione sensibile. Veniva anche meno la
corrispondenza tra le rappresentazioni teoriche dello spazio - su cui in ultima analisi si
basava la fisica – e le proprietà fisiche dello spazio rilevabili empiricamente. Non
esistevano più una sola geometria e un solo spazio possibili.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 37

Anche in matematica veniva meno il progetto, condotto da vari logici tra cui il tedesco
Frege e l’inglese Russell, di dare una legittimazione logica alla matematica fondandola
sulla teoria degli insiemi. Il tentativo di ricondurre a principi logici coerenti la matematica
dava luogo a contraddizioni irrisolvibili.
Quelle che erano definite scienze esatte per antonomasia giungevano così,
paradossalmente, ad esiti contraddittori, veniva quindi meno quella che era sempre stata
considerata come la loro proprietà essenziale e costitutiva: la coerenza.
Nella fisica si assistette, agli inizi del secolo, ad una profonda rivoluzione: la nascita della
teoria della relatività e della meccanica quantistica.
Nel 1905 Albert Einstein, mostrava come lo spazio e il tempo non fossero parametri
assoluti, universali e immutabili, ma dipendano dagli strumenti d’osservazione e dai
sistemi di riferimento. In altri termini, mentre nella fisica classica di matrice newtoniana,
spazio e tempo costituiscono le coordinate assolute a partire dalle quali viene definito in
modo univoco il significato fisico degli eventi – la determinazione della posizione e
velocità di un corpo; Einstein sostenne che spazio e tempo variano e sono funzionali al
sistema di osservazione dal quale vengono misurati posizione e velocità.
Nei primi due decenni del XX secolo, ad opera dello stesso Einstein, del danese Niels
Bohr e del tedesco Werner Heisenberg, nasceva la meccanica quantistica, lo studio del
comportamento delle particelle subatomiche. Gli sviluppi di questa nuova branca della
fisica conducevano a mettere in discussione alcuni capisaldi della fisica classica. In base
agli studi di Heisenberg si giungeva alla conclusione che il principio del determinismo
causale, per il quale, dato un sistema fisico di cui si conoscano le proprietà in termini di
posizione e velocità è sempre possibile determinarne in modo univoco lo stato in un dato
tempo futuro, non è sostenibile nell’ambito delle microparticelle. In base al principio di
indeterminazione veniva anche meno la neutralità dello scienziato-osservatore: ogni
rilevazione delle proprietà fisiche di un sistema, interferisce con esso mutandone le
caratteristiche.
Il principio di causalità e il principio di un’osservazione neutrale dei fatti, non sembrano
essere compatibili con lo studio dei sistemi fisici subatomici.
In conclusione si può sostenere che, nel giro di pochi anni, tutte le certezze su cui si
fondava l’immagine della scienza che era stata fatta propria dal positivismo, si mostrano
infondate. E’ un colpo mortale che non getta nello scompiglio solo filosofi e scienziati, ma

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 38

che produce un effetto d’ampio raggio anche al di fuori degli ambienti scientifici e
intellettuali dell’epoca.
Se è vero che il positivismo aveva costruito il suo progetto sociale, culturale e filosofico
su una certa immagine della scienza e che questo progetto, sintetizzato nella parola-
simbolo di progresso era divenuto patrimonio comune, al punto da poter esser considerato
come parte dell’identità di un’intera epoca e società, allora è evidente che, l’insostenibilità
di quest’immagine, provocò un generale senso di disorientamento che fu parallelo, e forse
complementare, al “crollo dei valori” e alla denuncia dell’incalzare del nichilismo, sul
terreno della morale e della religione.
La parabola discendente del positivismo doveva avere notevoli ripercussioni nelle
vicende che segnarono il dibattito intorno alla crisi della civiltà. Proprio quando la crisi del
sistema tradizionale di valori morali, religiosi e culturali esplodeva, negli anni
immediatamente successivi alla Grande Guerra, il progetto filosofico e scientifico del
positivismo non poteva offrire una valida alternativa, capace di fornire un sistema di
riferimento assoluto e stabile ad una società, quella europea occidentale, che aveva
smarrito il senso della propria identità e la fiducia nella propria missione storica. Anzi, la
crisi di quella ragione scientifica, ragione di cui il positivismo aveva teorizzato la
centralità, doveva costituire un ulteriore motivo d’aggravamento della crisi, un segno che
ci si trovava di fronte non ad un semplice ostacolo nel cammino dell’occidente, ma ad un
momento di svolta epocale, che toccava l’essenza stessa della civiltà europea ponendone in
questione, radicalmente, quella storica missione di civilizzazione su cui essa aveva
costruito la propria identità e il proprio senso di superiorità.

1.4. Il fallimento del progetto sociale e politico del positivismo

Se si intende come positivismo non tanto e non solo una concezione epistemologica delle
scienze naturali, ma una “visione del mondo”, la forma di autorappresentazione che la
civiltà europea del XIX secolo, dava di sé, allora è necessario dare una valutazione più
vasta della “crisi del positivismo”, che non si può ridurre alla sola crisi di quelle scienze su
cui il positivismo aveva costruito il proprio progetto scientifico, ma che coinvolse anche il
progetto politico e sociale di cui il positivismo si era fatto portatore. In questo senso la
connessione tra razionalità scientifica, progresso tecnico e riforma su basi scientifiche della
società e della politica, che, come si è detto in precedenza, costituiva l’idea di fondo su cui

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 39

si basava il progetto politico-sociale del positivismo, diviene problematica già prima della
Grande Guerra, per cadere del tutto dopo il conflitto mondiale.
Due erano i capisaldi su cui questo progetto era edificato:
 L’imperativo tecnologico: il principio secondo cui “tutto ciò che è tecnologicamente
possibile fare, deve essere fatto". Tale assunto nasceva da una valutazione del progresso
scientifico e tecnologico come avente un valore morale intrinseco, qualsiasi sviluppo della
tecnica è in se stesso un fatto positivo, moralmente “buono”. Ogni sviluppo che la scienza
rendeva possibile era immediatamente valutato come qualcosa di legittimo ed eticamente
soddisfacente. Non si poneva il problema di discriminare fra tutto ciò che la scienza e la
tecnica rendevano possibile, ciò che andava perseguito in quanto utile, eticamente
accettabile, giusto; e ciò che andava scartato in quanto indesiderabile, eticamente
inaccettabile, non giusto.
 L’equazione tra sviluppo tecno-scientifico e sviluppo morale costituiva l’altra premessa
di quella visione che andrà a pezzi durante la guerra, ma che mostrò i primi segni di
cedimento già prima di essa. Nelle parole di S. Zweig l’importanza di quest’assunzione e il
suo carattere illusorio, sono evidenziati in modo esemplare: “è facile deridere l'illusione
ottimistica di quella generazione accecata dal suo idealismo: illusione che il progresso
tecnico dovesse immancabilmente avere per effetto un non meno rapido miglioramento
morale”5.
La prima Guerra Mondiale fu vissuta come un traumatico risveglio anche da
quest’illusione, la scienza e la tecnica mostravano il loro volto distruttivo, la necessità della
correlazione tra scienza e progresso e scienza ed eticità, non appariva più come una
certezza che si potesse dare per scontata. Tra le potenzialità della scienza andava
annoverata anche la brutale negazione di quei valori morali e sociali su cui era edificata
l’illusione di cui parlava Zweig, non solo la scienza mostrava di non essere quella luce che
avrebbe potuto illuminare il progresso morale e civile dell’umanità, ma l’esperienza della
guerra, sembrava addirittura avvalorare l’idea che la scienza potesse divenire lo strumento
attraverso il quale, quei valori di umanità e moralità, sarebbero andati distrutti.

5
S. Zweig, Il mondo di ieri, 1941, 134139.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 40

1.4.1 La scienza e il futuro

Nel 1924 il biochimico inglese Haldane teneva una conferenza dal titolo “Daedalus or
Science and the Future”. Haldane rappresentava il valore liberatorio della scienza nella
figura di Dedalo, Russell entrava in polemica con questa concezione ottimistica della
scienza e ne sottolineava i pericoli incentrando la sua risposta a Haldane nella figura di
Icaro. Di fronte all’esaltazione della scienza, capace di liberare l’uomo dalla miseria
materiale e morale, fatta da Haldane, che pure non mostra un’assoluta fiducia nella
scienza; Russell rispondeva che il buon uso dei prodotti della scienza non può essere dato
per scontato, esso è anzi improbabile, dato che richiederebbe un essere umano
perfettamente razionale, un essere umano, che come avevano mostrato Freud e più ancora
la guerra, non esisteva. Unica alternativa, seconda Russell, quella tra una dittatura
mondiale capace di tenere sotto controllo le potenzialità distruttive insite nella scienza – e
nell’uomo che ne fa uso; o la distruzione dell’umanità.
I timori sollevati da Russell sono ben raffigurati in Metropolis, film che, anche da questo
punto di vista, assume il valore d’importante testimonianza storica. La società totalmente
tecnologizzata e governata dalla scienza non ha i caratteri della società perfetta, al
contrario è la realizzazione di un incubo. Scienza e tecnica hanno ridotto l’uomo o ad un
vuoto meccanismo, ad un automa abbruttito da un lavoro in cui il livello d’alienazione è
divenuto totale, com’è il caso delle masse operaie di Metropolis, raffigurate come moderni
schiavi delle macchine e macchine esse stesse; o ad un individuo unicamente proteso alla
ricerca del piacere, privo di coscienza morale e di scrupoli, com’è invece il caso dell’élite
che domina la città tecnologica di Metropolis. Il banale lieto fine, un matrimonio suggella
la pacificazione tra le due classi la cui lotta avrebbe altrimenti prodotto la distruzione di
entrambe, appare, come sostenne lo stesso regista Fritz Lang, malamente giustapposto al
reale significato della vicenda: la tecnologia e massificazione della società, la scienza,
avevano condotto l’umanità ad una totale regressione e sembravano minacciare l’esistenza
stessa della civiltà. E’ il totale capovolgimento dell’illusione positivista.
Durante il periodo tra le due guerre si assiste, dunque, al venir meno di quei due postulati
su cui si fondava il progetto sociale e politico del positivismo, diviene comune la denuncia
della scienza quale strumento di dominio dell’uomo sull’uomo o quale strumento di
spersonalizzazione e disumanizzazione dell’uomo se non, addirittura, di morte.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 41

1.4.2. La divaricazione tra etica e politica

Se il progetto scientifico e sociale del positivismo viene meno e per ragioni


epistemologiche e per il rivelarsi del volto demonico dello sviluppo tecnologico, anche il
sogno di un indefinito progresso sociale frutto di una direzione scientifica della società,
teorizzato da autori come Comte e Spencer, viene meno tra i due secoli. La crisi del
pensiero sociale positivista prende le mosse dalle ricerche della sociologia, disciplina che
proprio il positivismo aveva tenuto a battesimo e che, nella concezione di Comte,
costituiva il vertice delle scienze e il motore del progresso.
La parabola discendente dell’ideale di un illimitato progresso sociale può essere illustrata
soffermandosi brevemente su alcune acquisizioni della sociologia di Durkheim e Weber e
sulla critica al positivismo condotta da Nietzsche, critica centrata sull’idea di nichilismo
che, ripresa da Spengler, doveva costituire uno dei cardini della sua tesi del tramonto
dell’occidente, forse la più influente e importante opera sulla crisi della civiltà che venne
pubblicata tra il 1918 e il 1922.
Nell’introduzione alla precedente sezione sono già stati trattati alcuni dei più importanti
concetti della sociologia di fine ottocento.
Già Marx aveva evidenziato come la modernizzazione comportasse la disumanizzazione
dell’uomo. Proprio dove il progetto positivistico vedeva il pieno dispiegarsi delle
potenzialità umane e il realizzarsi di una società del benessere materiale e spirituale, Marx
denunciava il fenomeno dell’alienazione come costitutivo dell’essenza stessa della
modernizzazione. Se il lavoro libero e creativo costituisce il Wesen proprio del genere
umano, allora nel lavoro meccanizzato tipico della società capitalistica industriale, l’uomo
perdeva la propria essenza, costretto ad un lavoro ripetitivo, schiavo della macchina. Lo
stesso Durkheim, che non si collocava nei confronti del sistema capitalistico sulle stesse
posizioni di rifiuto di Marx, avanza delle pesanti riserve su alcuni aspetti essenziali della
modernizzazione. Il passaggio dalla solidarietà meccanica, in cui ciascun membro della
società si trova in un rapporta di identificazione col proprio gruppo a causa
dell’indistinzione funzionale e culturale che caratterizza gli individui nelle società
premoderne, lascia il posto alla solidarietà organica, in cui si stabilisce un’interdipendenza
tra i membri del gruppo, frutto della divisione del lavoro, che cementa la società. Ma il
prezzo che si deve pagare è il crollo dei valori tradizionali, l’allentarsi dei vincoli di
solidarietà all’interno della comunità, la trasformazione dei vincoli da personali a

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 42

funzionali e anonimi. Si viene a determinare quella situazione d’anomia che contribuisce


ad allentare l’identificazione tra il singolo ed il gruppo cui appartiene, lasciando
l’individuo isolato, anonimo, privo di un sistema di riferimento che gli consenta e di
orientare il suo agire e di comprendere la realtà sociale in cui vive.
Anche il sociologo tedesco Max Weber6, uno dei padri della sociologia e tra i principali
studiosi della modernizzazione, giunge a conclusioni problematiche intorno alla società
moderna. Il prevalere di un modello economico industriale e di un modello politico
burocratico e centralizzato, conducono al fenomeno della razionalizzazione. L’agire
sociale si viene a caratterizzare secondo il modello della razionalità tecnica, perduto ogni
riferimento ai valori ed ai fini dell’azione, l’agire diviene mero calcolo dei mezzi per il
raggiungimento di scopi determinati dalla logica del sistema economico, da quella che
Marx chiamò la logica del profitto. Parallelamente all’imporsi di una razionalità tecnica
nell’agire umano, si sviluppa il processo di disincanto del mondo tipico della
modernizzazione. La sfera di valori morali religiosi tradizionali, che costituivano il
riferimento immediato dell’agire sociale e che s’incarnavano nelle istituzioni e tradizioni
delle società occidentali, vengono destituiti di senso a causa del progresso tecnico e
scientifico e della “razionalizzazione della società”. L’uomo si trova quindi ad agire in un
immenso meccanismo produttivo e amministrativo, retto da una logica utilitaristica e privo
di qualsiasi finalità morale e di qualsiasi diretto riferimento alla sfera dei valori. Ciò
conduce alla crisi dell’etica ed alla mancanza di un qualsiasi sistema di riferimento capace
di dare un senso morale all’agire sociale.

1.4.3. Il trionfo del nichilismo e il destino dell’Occidente

La critica radicale mossa da Nietzsche all’intera storia della civiltà occidentale, trova il
proprio coronamento nell’annuncio della morte di dio e nello smascheramento dell’essenza
nichilistica della civiltà occidentale. Perduto ogni riferimento ad un sistema di valori
oltremondani, fondati sulla trascendenza di un essere assoluto, l’occidente si muove nella
dimensione del nichilismo. Tra i nuovi idoli, surrogati del dio cristiano, che l’uomo
occidentale prende a venerare, vi sono quelli della scienza e della tecnica. Riprendendo la
denuncia di Nietzsche, Spengler, che scrive nell’immediato dopoguerra, considera
6
Max Weber (1864 – 1920), sociologo tedesco, autore di importanti studi sul capitalismo e il fenomeno della
modernizzazione, considerato uno dei padri della sociologia. Si occupò dei problemi della modernizzazione
in riferimento all’agire sociale, alla burocratizzazione, alla crisi dei valori, al rapporto tra etica e politica.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 43

concluso il percorso storico della civiltà occidentale. Il tramonto teorizzato da Spengler


trova la sua giustificazione proprio nel fatto che, ai tradizionali valori, entrati in crisi per
via della modernizzazione e definitivamente spazzati via dalla guerra, si sostituiscono il
dominio tecnico della natura, ridotta a mero oggetto da manipolare secondo i principi della
razionalità tecnica e utilitaristica, e il dominio dell’uomo sull’uomo, che si caratterizza con
la sterilità e artificiosità dell’apparato burocratico statale. L’uomo occidentale vive nella
completa assenza d’ogni valore vitale e la sua civiltà si avvia verso un’inesorabile
decadenza che porterà al declino dell’Europa7. Appare evidente in questi autori che la
causa della “morte dell’occidente” viene posta proprio nel prevalere di quella
scientifizzazione e tecnologizzazione della società che, secondo il progetto positivista,
avrebbe dovuto costituire il motore di un progresso illimitato e il trionfo del benessere
materiale e spirituale. In questo modo il sogno positivistico si rovescia nel suo contrario e
la Grande Guerra fu vissuta, sia nella coscienza degli intellettuali che presso l’opinione
pubblica, come la concreta dimostrazione del tramonto, se non dell’occidente, certo del suo
sogno, la corsa del progresso aveva condotto l’Europa non al regno del benessere ma alla
carneficina della guerra mondiale.

7
Un più esauriente esame delle posizioni di Spengler, sarà fornito nell’introduzione all’ultima parte
dell’antologia che prende proprio in esame la sua opera.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 44

2. HALDANE, JOHN BURDON SANDERSON

2.1. La Vita

Biologo (Oxford 1892), figlio di John Scott; professore di genetica a Londra (1932), poi
di biometria (dal 1937) all’University College di Londra. Autore di fondamentali contributi
in fisiologia, biochimica, genetica, biometria. Di decisiva importanza per la moderna teoria
dell’evoluzione è una serie di suoi lavori sulla teoria matematica della selezione. A lui, tra
l’altro, e a L. S. Penrose, si deve anche la prima valutazione statistica della frequenza di
mutazione di un gene umano (studi sull’emofilia).
Fu molto importante la polemica che sostenne col filosofo e matematico B. Russell nel
1924 sulla natura e le implicazioni dello sviluppo scientifico e tecnologico. La posizione
sostenuta da Haldane, pur non ignorando gli aspetti più problematici e pericolosi della
scienza, fornisce di questa una valutazione positiva. Nella scienza Haldane, in conformità
con gli ideali del positivismo, continua a vedere la principale guida per la civiltà umana.
Russell prese posizione contro le tesi di Haldane, mostrando una visione più critica della
scienza e sottolineandone i rischi e pericoli.

2.2. Il brano di Haldane: Dedalo, la scienza e il futuro.

Mi chiedo perché l'interesse sentimentale per Prometeo ha così indebitamente distratto la


nostra attenzione dalla figura assai più interessante di Dedalo. E’ con un gran sollievo che,
in mezzo al tumulto degli eroi armati con la testa di Gorgone o protetti dal battesimo nelle
acque dello Stige, lo studente di mitologia greca si imbatte nel primo uomo moderno. Dopo
i suoi inizi come scultore realistico (Dedalo fu il primo a produrre statue con i piedi
separati), era naturale che egli procedesse alla costruzione di una immagine di Afrodite le
cui membra erano attivate dall'argento vivo; dopo di che il suo interesse si indirizzò
inevitabilmente ai problemi biologici ed è ben certo che nessuno dei suoi successori lo ha
mai eguagliato nel suo unico successo documentato in fatto di genetica sperimentale. Se
alloggiare e mantenere il Minotauro fosse stato meno dispendioso, è probabile che Dedalo
avrebbe saputo anticipare Mendel.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 45

E’ naturalmente un'impresa disperata tentare una qualsiasi profezia esatta su quanto la


conoscenza scientifica rivoluzionerà nei dettagli la vita umana, ma io credo che essa
continuerà a essere rivoluzionaria, e assai più profondamente di quanto ho fin qui
suggerito. Possiamo guardare alla scienza da tre punti di vista. In primo luogo essa è la
libera attività delle divine facoltà umane della ragione e dell'immaginazione. In secondo
luogo essa è la risposta a talune delle richieste diffuse di ricchezza e benessere, doni che la
scienza garantirà solo in cambio della pace, della sicurezza, della quiete. Infine, essa è la
graduale conquista da parte dell'uomo dello spazio e del tempo, poi della materia, quindi
del suo corpo e di quello degli altri esseri viventi, e in ultimo la soggiogazione degli
elementi oscuri e malvagi della sua stessa anima.
Nessuna di queste conquiste sarà mai completa, ma tutte, come io credo, saranno
progressive. La questione di ciò che l'uomo farà di questi suoi poteri è nella sua essenza
una questione che riguarda la religione e l'estetica. Possiamo limitarci a insistere che essi
sono adatti solo alle mani di un essere che abbia appreso il controllo di se stesso e che
l'uomo armato della scienza è come un bambino con una scatola di fiammiferi.
[…]
Credo che la tendenza della scienza applicata sia quella di enfatizzare le ingiustizie fino a
che esse divengano decisamente intollerabili e quell'uomo medio da cui profeti e poeti non
dovrebbero mai allontanarsi alla fine si ribelli e ponga fine al male alla sua fonte. La teoria
di Marx sull'evoluzione industriale è un caso particolare di questa tendenza, anche se non
necessariamente dovrà essere adottata la sua soluzione un po' artificiale del problema.
Probabilmente il progresso biologico risulterà essere incompatibile con alcuni dei nostri
mali sociali proprio come il progresso industriale è risultato esserlo con la guerra o certi
sistemi di proprietà privata.
[...]
A conti fatti la scienza appare ancora nella sua infanzia e ben poco possiamo anticipare
del futuro, se non che ciò che non è stato è ciò che sarà; e che nessuna credenza, nessun
valore, nessuna istituzione è al sicuro. Lungi dall'essere un fenomeno isolato, l'ultima
guerra è solo un esempio di quei risultati distruttivi che potremmo costantemente attenderci
dal progresso della scienza. Il futuro non sarà certo una passeggiata e avrà i suoi problemi.
Alcuni saranno quelli secolari del passato, fiori giganti del male che sbocciano infine verso
la loro distruzione, altri saranno completamente nuovi. Se in fin dei conti l'uomo

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 46

sopravviverà o no al suo raggiungimento del potere non possiamo dirlo. Ma non si tratta di
un problema nuovo. E’ solo il vecchio paradosso della libertà richiamato in causa con il
genere umano come attore e la terra come palcoscenico. Per coloro che credono nella
divinità di quella parte dell'uomo che, per la propria salvezza, aspira a qualcosa che va
oltre la conoscenza la prospettiva apparirà assai promettente. Ma è solo oggetto di speranza
che il genere umano possa adattare la sua moralità ai suoi poteri. Se avremo successo in
questo, allora la scienza tiene davvero nelle sue mani una almeno delle chiavi dello spinoso
e arduo sentiero del progresso morale.

2.3. Commento ad Haldane: l’uomo del futuro come Dedalo

L’intera polemica tra Haldane e Russel si alimenta dell’ambiguità di fondo della scienza;
a Russell essa appare nelle tragiche vesti di Icaro, a Haldane in quella dell’uomo “artefice
di sé e del proprio mondo”, le vesti di Dedalo. “Mi chiedo perché l’interesse sentimentale
per Prometeo ha così indebitamente distratto la nostra attenzione dalla figura assai più
interessante di Dedalo. E’ con un grande sollievo che, in mezzo al tumulo degli eroi armati
con la testa di Gorgone o protetti dal battesimo nelle acque dello Stige, lo studente di
mitologia greca si imbatte nel primo uomo moderno. Dopo i suoi inizi come scultore
realistico (Dedalo fu il primo a produrre statue con i piedi separati), era naturale che egli
procedesse alla costruzione di un immagine di Afrodite le cui membra erano attivate
dall’argento vivo; dopo di che il suo interesse si indirizzò inevitabilmente ai problemi
biologici ed è ben certo che nessuno dei suoi successori lo ha mai eguagliato nel suo unico
successo documentato in fatto di genetica sperimentale”.
Dedalo è il simbolo dell’uomo moderno perché è espressione della razionalità scientifica
e tecnica che mira a dominare la natura. Il minotauro rappresenta invece il caos originario,
nel senso di ciò che va contro ragione (l’irrazionalità). Analizzando la prima parte del
testo, scaturisce un importante quesito: “Qual è l’impatto dello sviluppo scientifico sulla
vita dell’uomo e della società umana?”.
Haldane ritiene che sia un impresa disperata tentare una qualsiasi profezia esatta su
quanto la conoscenza scientifica rivoluzionerà la vita sociale e l’esistenza dell’uomo, forse
tali cambiamenti sono inimmaginabili. La scienza potrà portare l’uomo a controllare gli
elementi oscuri e malvagi, secondo il modello positivistico. Ci sarà del progresso, ma nel
tempo. E’ possibile osservare la scienza da tre punti di vista: essa è la libera attività delle

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 47

divine facoltà umane della ragione e della immaginazione; essa è la risposta ad alcune delle
richieste di ricchezza e benessere. Questi ultimi sono dei doni che la scienza garantirà solo
in cambio della pace, della sicurezza, della quiete.
Essa è la graduale conquista da parte dell’uomo dello spazio e del tempo, poi della
materia e quindi del suo corpo e di quello degli esseri viventi.
Bisogna avere il controllo della potenzialità che la scienza offre. Haldane sostiene che
“l’uomo armato della scienza è come un bambino con una scatola di fiammiferi”. Il
progresso nelle mani dell’uomo può essere pericoloso se l’uomo non assume una piena
coscienza di sé. Sorge quindi un importante problema: è necessario avere il controllo della
potenzialità che la scienza offre. Inoltre lo della scienza rende intollerabile le ingiustizie.
La teoria di Marx sull’evoluzione industriale è un caso particolare di questa tendenza.
Haldane afferma poi che il progresso biologico sarà incompatibile con qualche male
sociale proprio come lo sviluppo industriale è incompatibile con la guerra.
Haldane riconosce quindi la problematicità della scienza, e un altro problema che si pone
è questo: riuscirà l’uomo a progredire moralmente in modo proporzionale a quanto è
progredito sul piano tecnologico? Dobbiamo avere la capacità morale di saper scegliere
cosa fare. Haldane sostiene che la scienza appare ancora nella sua infanzia e non si può
anticipare molto sul futuro e che nessuna credenza, nessun valore, nessuna istituzione è al
sicuro. Afferma inoltre che la guerra è solo un esempio degli esiti distruttivi che possiamo
attenderci dal progresso della scienza. Il futuro avrà i suoi problemi che potranno essere
quelli del passato ed altro saranno invece del tutto nuovi: “se in fin dei conti l’uomo
sopravviverà o no al suo raggiungimento del potere non possiamo dirlo”. Egli afferma che
la prospettiva è assai promettente per quelli che credono nella divinità di quella parte
dell’uomo che aspira a qualcosa che va al di là della conoscenza. Il fatto che l’uomo possa
adattare la sua moralità ai suoi poteri costituisce l’oggetto di speranza dell’uomo stesso.
A questo punto Haldane afferma che il progresso scientifico cambia non solo ciò che è
sbagliato, ma anche ciò che è giusto. Non si capisce in effetti se la scienza sia moralmente
neutra oppure se la scienza sia buona in sé. Le virtù morali e fisiche sono essenzialmente
una questione di quantità. Perciò un’alterazione nella scala del potere umano può rendere
cattive quelle azioni che prima erano buone.
Alla fine Haldane suggerisce di non prendere troppo seriamente le morali tradizionali
perché anche la meno dogmatica delle religioni, si associa con qualche genere di morale

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 48

tradizionale inalterabile. Alla fine giunge alla conclusione che la scienza ha quindi in sé
una sua morale e dei valori propri.
Haldane ritiene infine che tra scienza e religione non potrà mai esserci una tregua.
Il lavoratore scientifico del futuro rassomiglierà, dice Haldane, alla figura di Dedalo, che,
più diventa consapevole della sua terribile missione, più ne sarà orgoglioso.

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3. BERTRAND RUSSELL

3.1. La Vita

Bertrand Russell nacque il 18 Maggio 1872 da famiglia nobile inglese. Studiò al Trinity
College di Cambridge, dove insegnò dal 1910 al 1916. Proprio in quell’anno fu destituito
dalla cattedra per aver partecipato alla campagna contro la coscrizione obbligatoria e in
favore dell’obiezione di coscienza. Nel 1918 per un articolo in favore del pacifismo fu
condannato a sei mesi di carcere; e proprio qui si dedicò al componimento dell’
“Introduzione alla Filosofia matematica”. Dopo la guerra visitò vari Paesi tra cui Russia,
Cina e Stati Uniti dove ebbe alcuni incarichi. Più tardi, nel 1940, dovette rinunciare alla
cattedra del City College di New York per lo scandalo causato dalle sue teorie etiche e
sociali; e per lo stesso motivo la Fondazione di Marion in Pennsylvania revocò il contratto
di 5 anni che gli aveva offerto. Nel 1944 riconquista la cattedra al Trinity College e qui
terminò una delle sue opere fondamentali: “La conoscenza umana, il suo ambito ed i suoi
limiti”.
Nel 1950 ricevette il Premio Nobel per la letteratura. Negli ultimi anni della sua vita,
Russell si dedicò completamente all’attività di difesa dei suoi ideali etico-politici, e
soprattutto di libertà e pace. Morì nel Galles, il 3 Febbraio 1970.

3.2. Il Pensiero

Russell restò fedele fino all’ultimo alla propria scelta di campo realistica, logistica e
“scientistica”8. Pur avendo spaziato filosoficamente in campo logico ed epistemologico,
Russell si è cimentato ampiamente anche nella riflessione etica e politica. I contributi più
significativi sono: “Quello che io credo” (1925); “Saggi scettici” (1928); e “Saggi
impopolari” (1951). Russell si dedicò anche alla liberalizzazione dei costumi, alla riforma
dell’educazione (“Matrimonio e Morale” 1929); alla questione della pace, del disarmo, dei
diritti civili e della difesa delle vittime dell’intolleranza. Il pensiero etico russelliano, più
specificamente, si muove su una prospettiva laica e terrena. La morale deve essere
8
Scientistica: l’assolutizzazione del metodo scientifico e l’affermazione della sua applicabilità a tutti i
roblemi della filosofia.

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affrancata da presupposti e valori di carattere trascendente (“Religione e Scienza” 1935).


La religione deve affrontare dei problemi concreti che riguardano comportamenti
dell’uomo sia come singolo, che come membro di una società. L’etica di Russell è di tipo
umanistico, rivolta alla tutela della persona umana, con una riabilitazione dell’essere
rispetto al “dover essere”: i desideri dell’uomo non vanno condannati, il vero problema e
compito dell’etica è quello di moderare quelli creatori di conflitti e infelicità, e di favorire
quelli che si orientano verso la pacifica convivenza sociale. Non si può certamente
chiedere all’etica di enunciare indicazioni valide universalmente ed oggettivamente, questo
perché l’universo dei valori morali è indipendente e diverso dalla razionalità e dalla
scienza.
Il punto su cui Russell si è soffermato più spesso è quello della differenza tra etica e
scienza: “l’etica, consiste di desideri di un certo tipo generale […], la scienza può discutere
le cause dei desideri e i mezzi per attuarli, ma non può contenere alcun giudizio etico”. Da
ciò, si deduce che Russell abbia respinto ogni ipotesi di fondazione di un’etica scientifica.
Nella stessa ottica egli guardò con preoccupazione alla pretesa della società moderna di
imporre principi morali “oggettivi”. Successivamente egli si convinse che uno dei problemi
della società fosse la sua tendenza a soverchiare, attraverso il sapere scientifico-
tecnologico, la sfera del privato e della ricerca individuale dei valori. Nonostante ciò non si
deve credere che il messaggio “morale” di Russell sia contro la scienza, al contrario egli ha
sempre creduto profondamente nella validità del sapere scientifico e nello stile di vita
pratico che quest’ultimo può insegnare agli uomini.

3.3 Il Brano di Russell: Icaro, il futuro della scienza

Il libro di Haldane, Daedalus, presenta un'attraente immagine del futuro, quale potrebbe
essere attraverso un uso delle scoperte scientifiche capace di promuovere la felicità umana.
Sarei ben lieto di potermi dichiarare concorde con le sue previsioni, ma una lunga
esperienza di statisti e governi mi ha reso piuttosto scettico. Mi sento costretto ad aver
timore che la scienza sarà usata per promuovere il potere dei gruppi dominanti piuttosto
che per rendere gli uomini felici. Icaro, dopo che suo padre Dedalo gli ebbe insegnato a
volare, fu distrutto dalla sua avventatezza. Temo che lo stesso destino possa toccare ai
popoli cui i moderni uomini di scienza hanno insegnato a volare.
[...]

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 51

I cambiamenti cui è stato soggetto negli ultimi due secoli il mondo in cui viviamo in
seguito all'applicazione delle scoperte scientifiche sono stati in parte buoni, in parte cattivi;
ma se, alla fine, la scienza proverà di essere stata una benedizione o una maledizione è
ancora, a mio avviso, una questione dubbia. [...]
La scienza ha accresciuto il controllo umano sulla natura e si potrebbe perciò
ugualmente supporre che aumenterà la sua felicità e il suo benessere. Le cose starebbero
così se gli uomini fossero razionali, ma di fatto essi sono solo grovigli di passioni e istinti.
Una specie animale in un ambiente stabile, se non si estingue, acquisisce un equilibrio fra
le sue passioni e le sue condizioni di vita. Se queste condizioni sono improvvisamente
alterate, l'equilibrio si sconvolge. I lupi hanno difficoltà allo stato selvaggio a procurarsi il
cibo e perciò hanno bisogno dello stimolo di una fame molto insistente. Il risultato è che i
loro discendenti, i cani domestici hanno la tendenza a mangiare troppo, se si permette loro
di farlo. Quando una certa quantità di qualcosa è profittevole e la difficoltà per ottenerla
diminuisce, normalmente l'istinto condurrà un animale che si trova nelle nuove circostanze
a eccedere. L'improvviso mutamento prodotto dalla scienza ha sconvolto l'equilibrio fra i
nostri istinti e le nostre condizioni, ma in una direzione non sufficientemente studiata.
L'eccesso nel mangiare non è un serio pericolo, ma quello nel combattere sì. Gli istinti
umani del potere e della rivalità, come il lupesco appetito del cane, hanno bisogno di essere
dominati artificialmente, se l'industrialismo finirà per affermarsi.
[...]
Il nostro pianeta è di dimensioni finite, ma la misura più efficiente di una organizzazione
è continuamente in aumento in seguito alle nuove invenzioni scientifiche. Il mondo diventa
sempre più una unità economica e ben presto esisteranno le condizioni tecniche per
l'organizzazione del mondo intero come una unità di produzione e consumo.
Se, quando sarà arrivato il tempo, due gruppi rivali si contenderanno la supremazia, la
vittoria di uno dei due potrebbe essere in grado di introdurre quella organizzazione su scala
mondiale che è necessaria per prevenire lo sterminio reciproco delle nazioni civilizzate. Il
mondo che ne risulterà sarà sulle prime assai diverso sia dai sogni dei liberali che da quelli
dei socialisti. Da principio ci sarà una tirannide politica ed economica dei vincitori, la
minaccia di continue sollevazioni e quindi una drastica soppressione della libertà. Ma se le
prime cinque o sei rivolte saranno una dopo l’altra represse, il vinto rinuncerà alla speranza
e accetterà il ruolo subordinato assegnatogli dal vincitore nel nuovo assetto mondiale. Non

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 52

appena i detentori del potere si sentiranno sicuri, essi diventeranno meno tirannici e meno
brutali. Essendo stato rimosso il motivo della rivalità, essi non si comporteranno più così
duramente come al principio e alleggeriranno la pressione sui loro subordinati. La vita sarà
all'inizio assai spiacevole, ma potrà alla fine essere possibile, cosa che andrebbe abbastanza
a favore del sistema, dopo un lungo periodo di guerra. Data un'organizzazione mondiale
economica e politica stabile, anche se essa da prima non poggerà altro che sulla forza
armata, i mali che ora minacciano la civiltà diminuirebbero gradualmente e diventerebbe
possibile una democrazia più completa di quella esistente ora. Sono convinto che, grazie
alla follia umana, un governo mondiale potrà essere stabilito solo con la forza, e sarà
perciò da principio crudele e dispotico; ma credo anche che esso sarà necessario per la
preservazione della civiltà scientifica e che, una volta realizzato, darà origine un po' per
volta alle condizioni per una esistenza tollerabile. [...]
Possiamo riassumere questa discussione in poche parole. La scienza non ha dato agli
uomini più autocontrollo, urbanità o potere di ridurre le proprie passioni quando decidono
sul da farsi. Ha dato invece ai gruppi più potere per indulgere alle passioni collettive, ma,
rendendo la società più organica, ha diminuito la parte giocata dalle passioni private. Le
passioni collettive dell'uomo sono per lo più cattive; di gran lunga le peggiori sono l'odio e
la rivalità nei confronti di altri gruppi. Perciò attualmente tutto ciò che consente all'uomo di
abbandonarsi alle sue passioni collettive è cattivo. E’ per questo che la scienza minaccia di
produrre la distruzione della nostra civiltà. La sola speranza sembra essere la possibilità di
un dominio mondiale da parte di un gruppo, ad esempio gli Stati Uniti, che conduca alla
formazione di un ordinato governo mondiale politico ed economico. Ma forse, tenendo
conto della sterilità dell'Impero romano, il collasso della nostra civiltà sarebbe in fin dei
conti preferibile a questa alternativa.
(B. Russell, Icarus or the Future of Science [1924], pp. 5-7, 12-13, 40-42, 62-64)

3.4. Commento: “Icaro” come destino dell’uomo nell’età della scienza

Il brano “Icaro, il futuro della scienza” è una risposta alla tesi sostenuta da Haldane in
“Dedalo, la scienza e il futuro”. Russell, infatti, appare assai scettico nei confronti di quella
vaga immagine del futuro designata da Haldane, in cui la scienza diviene garante non solo
del benessere materiale dell’umanità, ma anche di quello spirituale, della vera felicità

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 53

dell’uomo. Non si dichiara concorde con tale tesi, in quanto egli teme che l’uomo possa
fare uso politico della scienza e che questa possa essere strumentalizzata dai gruppi
dominanti per altri fini, quali il potere e la supremazia. Questi ultimi imponendo il loro
potere, infatti, darebbero luogo ad individui repressi, anziché felici e appagati; ne
scaturisce dunque un’immagine pessimista della scienza derivante dal possibile uso
politico di essa.
Ma Russell si pone anche ora un altro problema, che certamente i “positivisti”, lo dice la
parola stessa, non si erano mai posti, ossia: “La scienza sarà per l’umanità un valore
positivo o negativo, una benedizione o una maledizione?” Questa è per lui una questione
assai dubbia. Certamente, dice Russell, l’uomo attraverso la scienza potrebbe dominare la
natura e come conseguenza di ciò si avrebbe felicità e benessere; ma essendo l’uomo un
essere “irrazionale” e dominato da passioni e istinti malvagi, egli non sempre trae i suoi
vantaggi dalla natura in maniera coerente e senza provocare danni: al contrario l’uomo ha
mutato l’ambiente secondo le sue esigenze e senza preoccuparsi dei danni che poteva
arrecargli. Egli ha alterato profondamente le condizioni ambientali. L’unica speranza,
afferma Russell, è che l’uomo riesca a dominare il suo lupesco appetito di potere e
dominio.
Nella seconda parte del testo (Il nostro pianeta è di dimensioni finite…) Russell sembra
quasi farsi profeta dello scoppio di una seconda guerra mondiale. Egli si domanda ora
“quale sarà in futuro l’ordine mondiale?”. Due gruppi di potenze, sostiene Russell, si
contenderanno la supremazia sul mondo; colui che vincerà porrà il mondo sotto il suo
dominio, in un primo momento attraverso la forza e un governo autoritario e tirannico,
poiché solo con la forza possono essere controllati gli istinti malvagi che dominano
l’umanità e che potrebbero costituire la ragione stessa di una futura distruzione della nostra
civiltà. Conseguenze di ciò saranno le continue rivolte da parte dei popoli che vedranno
soppressi i loro ideali, i loro diritti di libertà.
Alla fine l’unico risultato di tali sommosse non sarà altro che la rinunzia alla speranza da
parte dei popoli della terra, che accetteranno di essere “sudditi” di un governo mondiale.
Solo allora coloro che detengono il potere alleggeriranno la pressione e le brutalità sui loro
subordinati. Ne conseguirà un’organizzazione mondiale economico-politica stabile e
democratica, l’unica capace di preservare la civiltà scientifica e di creare un’esigenza
sopportabile per tutti gli uomini.

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4. MAX SCHELER

4.1. La Vita e il Pensiero

L’analisi fenomenologica degli aspetti emotivi e pratici della coscienza è stata impiantata
e condotta avanti dall’opera di Max Scheler (1874/1928). Scheler fu professore a Colonia
dal 1919; la morte che lo colse a cinquantatré anni interruppe bruscamente un’attività
intensa e feconda. La sua opera più nota, intitolata “Il formalismo nell’etica materiale del
valore”, comparve per la prima volta nello “Jahrbuch” di Husserl tra il 1913 e il 1916. Ma
l’opera che costituisce il suo maggiore contributo alla filosofia contemporanea è quella
intitolata “Essenza e forme della simpatia”(1923). Gli altri scritti principali sono i seguenti:
“Il risentimento e il giudizio morale dei valori”(1912), “Guerra e costruzione”(1916), “Le
forme del sapere e la società”(1926).
L’etica di Scheler è un’analisi fenomenologica dell’esperienza emotiva, diretta allo scopo
di mettere in luce gli oggetti specifici di quest’esperienza, vale a dire i valori. Ma i valori
non sono né beni né fini. Il bene è la cosa che incorpora un valore; il fine è il termine di
un’aspirazione e di una tendenza che può avere valore come può non averlo; ma l’essere
incorporato in una cosa non modifica in alcun modo l’essere del valore che è dato in modo
diretto e immediato all’esperienza emotiva. L’esperienza emotiva, alla quale il valore si
rivela, non è la semplice emozione ma è l’esperienza intenzionale che Scheler chiama
anche intuizione emotiva. Il mondo dei valori si presenta all’intuizione emotiva, come un
mondo oggettivo, cioè indipendente dall’atto dell’apprendimento dei valori. Come mondo
oggettivo ha delle leggi a priori che determinano la gerarchia dei valori (anch’essa
indipendente dai valori realizzati o dalle attività che li realizzano).
PRIMA modalità = gradevole o sgradevole: corrisponde la funzione del sentire sensibile
con i suoi modi del godere e del soffrire.
SECONDA modalità = valori vitali: tutte le qualità comprese tra il nobile e il volgare, che
corrispondono ai modi del sentimento vitale (salute, malattia, vecchiaia e morte).
TERZA modalità = valori spirituali: appresi dal sentire spirituale. Ritroviamo i valori
estetici ( bello e brutto), i valori giuridici; i valori della conoscenza pura, dove la filosofia,
a differenza della scienza, non è guidata dallo scopo di dominare i fatti naturali.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 55

QUARTA modalità = valori religiosi: tra sacro e profano. Questi valori corrispondono ai
sentimenti della beatitudine e della disperazione, determinati dalla vicinanza o dalla
lontananza del sacro nella vita vissuta. L’atto con cui si apprendono i valori del sacro è la
maniera di amare rivolta a persone. Nella sfera del sacro il valore genuino

4.2. Il Brano di Scheler: il capovolgimento dei valori e l’industrialismo come


decadenza

La concezione moderna del mondo guidata dal risentimento […] specula al ribasso, come
fa ogni pensiero poggiante su una depressione vitale, e cerca di comprendere tutto ciò che è
vivente secondo un'analogia con ciò che è morto, cerca di capire in generale la vita come
un episodio casuale dentro un processo cosmico meccanico, l’organicità vivente come un
adattamento casuale ad un mondo circostante inanimato saldamente fissato: l'occhio per
analogia con l'occhiale, la mano per analogia con la pala, l'organo per analogia con
l'utensile! Non fa meraviglia che veda nella civiltà meccanica - che non è che una
conseguenza di un'attività vitale relativamente stagnante e quindi un surrogato di una
formazione di organi deficiente - proprio il trionfo, lo sviluppo e l'ampliamento dell'attività
vitale; non fa meraviglia che veda nel suo sconfinato «progresso» proprio il «fine»
autentico di ogni attività vitale, nella smodata elaborazione di un'intelligenza calcolatrice il
«senso» della vita.
Il fatto che il valore specifico di utilità dell'utensile venga anteposto sia al «valore vitale»
che al «valore culturale» non è che una conseguenza di questa prospettiva di fondo circa il
rapporto tra organo e utensile. Anzi questo spostamento dei valori in ultima istanza non è
la conseguenza bensì il fondamento di questa falsa concezione del mondo. Ceteris paribus
è l'essere umano relativamente stagnante, il «malcapitato», che pone l'utensile al di sopra
dei valori vitali che naturalmente a lui mancano! E’ il miope che loda gli occhiali, lo
storpio che loda il bastone, il cattivo arrampicatore che loda i ramponi e la corda che il
migliore gli regge con le sue braccia. Non si deve d'altra parte con ciò intendere l'orribile
sciocchezza che l'uomo non debba costruire utensili, che la civiltà in genere sia stata una
«mossa sbagliata». L'uomo, essendo il più stabilizzato biologicamente tra gli animali, è
necessitato a forgiare una civiltà e lo deve in quanto così vengono lasciate più libere forze
più nobili grazie al servizio prestatogli dalle forze a lui soggette, le forze cioè in ultima
analisi della natura inanimata. Ciò tuttavia soltanto entro questi limiti ossia fino a tanto che

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 56

l'utensile serve alla vita e alla vita più alta. Effetto del risentimento è non già
l'apprezzamento positivo del valore dell'utensile bensì il conferimento a questo di un valore
pari al valore dell'organo! Non esiste forse alcun punto su cui le persone intelligenti e di
retta intenzione della nostra epoca siano più concordi che sul fatto che nel dispiegarsi della
civiltà moderna la cosa sia diventata signora e padrona dell'uomo, la macchina della vita,
la Natura - che l'uomo voleva dominare e che per questo cercò di ridurre ad un
meccanismo - dell'uomo: le «cose» sono diventate sempre più complesse e potenti, più
belle e grandi, mentre l'uomo, che le ha create, è diventato sempre più una rotella dentro la
macchina da lui stesso fabbricata.
Ci si rende però troppo poco conto che questo fatto riconosciuto da ogni parte è effetto di
un fondamentale rovesciamento del giudizio di valore, che ha la sua radice nella vittoria.
del giudizio degli esseri vitalmente inferiori, degli ultimi, dei paria della specie umana: e la
radice è appunto il risentimento! Tutta quanta la Weltanschauung meccanicista (per quanto
si attribuisce un senso di verità metafisica) non è che l'immane simbolo intellettuale della
rivolta degli schiavi nella morale.
Soltanto un cedimento, un indebolimento divenuto costituzionale della signoria della vita,
nei confronti della materia, della signoria dello spirito, e prima ancora della volontà nei
confronti dell'automatismo della vita può spiegare la genesi e la diffusione della
concezione meccanicistica e dei giudizi di valore relativi che l’hanno creata.
A chi si sia reso conto dell'erroneità di questa concezione del rapporto organo-utensile si
scopre il senso di una quantità di fenomeni del nostro tempo, che poggiano
complessivamente su questo presupposto. In primo luogo tutti i fenomeni conseguenti
negativi di un industrialismo unilaterale. Chi considera la civiltà dell'utensile una
prosecuzione della formazione degli organi non può che augurare all’industrialismo una
crescita illimitata. Possono in tale caso essere considerati danni più o meno «passeggeri»,
destinati ad essere superati da una crescita ulteriore dell'industrialismo stesso, tutti i
danneggiamenti vitali che l'industrialismo produce: ad esempio il lavoro delle donne e dei
bambini, la tendenza dissolutrice nei confronti della famiglia, la formazione di grandi città
con le conseguenze dannose alla salute imposte da un tale abitato, il danneggiamento
costituzionale di intere professioni ad opera dei veleni connessi con il processo tecnico,
specializzazione dell'attività umana al servizio delle macchine fino alla riduzione
dell'uomo a ingranaggio, crescente dipendenza della possibilità di sposarsi e addirittura di

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 57

mettere al mondo figli dalla proprietà e dal denaro indipendentemente dalle qualità vitali,
dissoluzione delle unità nazionali.
La prospettiva cambia invece qualora si sia giunti a rinunciare a questo errore
fondamentale! A questo punto ogni avanzata dell'industrialismo non è più incondizionata,
ma è positivamente valida solo a condizione che non abbia a danneggiare durevolmente i
valori vitali. Dovremo a questo punto dire ad esempio che il mantenimento della salute
della razza e dentro questa la conservazione della sanità dei gruppi in proporzione alla loro
idoneità vitale e alle loro qualità e forze «nobili» vitalmente valide è un valore in sé nei
confronti delle sue prestazioni utili e merita il primato, anche se ciò comporti un
rallentamento dello sviluppo industriale. L'unità della famiglia e della nazione esige una
cura ed un appoggio anche là dove ciò rallenti, come si è detto, lo sviluppo industriale e la
diffusione della civiltà. I gruppi nei quali si fraziona un popolo meritano agevolazioni nella
distribuzione dei beni e degli onori non in proporzione del contributo che essi danno alla
produzione dei beni di utilità e di consumo bensì innanzi tutto in funzione del significato
storico-politico che essi hanno in vista dell'edificazione e della conservazione di relazioni
di predominio nel popolo: vitalmente valide.
L'agricoltura è una attività in sé più valida che l'industria e il commercio e merita di
essere protetta e incrementata non fosse altro che per il fatto che comporta una maniera di
vivere più sana e capace di impegnare in maniera equilibrata tutte le energie: essa poi, per
il fatto di rendere le unità nazionali indipendenti dall'estero, merita cura e assistenza anche
se il progresso dell'industrializzazione da un punto di vista meramente economico desse di
fatto un reddito migliore. Lo stesso dicasi per la difesa contro le tendenze distruttrici
dell'industrialismo nei confronti delle specie animali e vegetali, dei boschi, del paesaggio.
Se si considera il capovolgimento dei valori nel rapporto organo-utensile nella sua
totalità, lo spirito della civiltà moderna non costituisce affatto - come pensa Spencer - un
«progresso» ma al contrario un declino nello sviluppo dell'Umanità: rappresenta il
predominio dei deboli sui forti, dei furbi sui nobili, delle mere quantità sulle qualità. Si
dimostra documentabilmente fenomeno di decadenza in quanto dovunque significa un
cedimento delle forze conduttrici centrali dell’uomo nei confronti dell’anarchia delle sue
tensioni automatiche: un oblio dei fini contro il dispiegarsi di meri mezzi: e la decadenza
sta proprio qui! [M. Scheler, Il risentimento nella edificazione delle morali, [1915], pp.
181-185]

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 58

4.3. Commento a Scheler: la società moderna come risultato di un ribaltamento dei


valori

Abbiamo scelto questo brano di Scheler poiché ci è sembrato abbastanza significativo per
quanto riguarda il rovesciamento dei valori e le contraddizioni dell’industrializzazione.
La tecnologia è divenuta il fondamento della civiltà moderna, ma per Scheler una società
che pone come sua più alta finalità il processo meccanico, può essere definita solamente
antivitale. Infatti, la concezione moderna del mondo vede nella civiltà meccanica il trionfo,
lo sviluppo e l’ampliamento dell’attività vitale, (falsa per Scheler, vera secondo l’ideologia
del progresso), il cui fine è quello di creare surrogati artificiali dei nostri organismi. In
questo senso non contano più i valori vitali, ma solo i vantaggi, l’utilità e i profitti che
apporta il progresso. Il fondamento di questa falsa concezione del mondo è costituito dallo
spostamento dei valori autentici, da quelli vitali e culturali a quello specifico dell’utilità
dell’utensile. Si ha quindi un rovesciamento dei valori, che ha la sua radice nel
risentimento, vale a dire nella vittoria del giudizio degli esseri vitalmente inferiori. Questa
visione meccanicista del mondo, non è altro che il simbolo intellettuale della rivolta degli
schiavi nella morale, che sgorga, come affermava Nietzsche, da un sentimento di
debolezza e risulta improntata ai valori antivitali. La morale degli schiavi è rappresentata
dalla tecnologia. L’uomo debole, per superare la propria inferiorità, deve essere in grado di
costruire una civiltà sviluppando le proprie forze tecnologiche. Tuttavia bisogna porre un
limite allo sviluppo tecnologico, per evitare che l’uomo venga assoggettato alla macchina
da lui stesso fabbricata: egli non deve essere al servizio dell’utensile, ma deve
semplicemente servirsi di esso.
Di fronte all’erroneità della concezione del rapporto organo-utensile, si possono delineare
due prospettive. La prima è quella di considerare l’industrializzazione come una crescita
illimitata: si deve progredire ad ogni costo. I possibili danneggiamenti vitali creati da
questo processo saranno superati grazie ad un’ulteriore crescita dell’industrialismo stesso.
La seconda prospettiva è quella di rinunciare a questo errore fondamentale. In questo
senso lo sviluppo industriale non è più incondizionato, ma è positivamente accettabile solo
a condizione che non danneggi durevolmente i valori vitali. Il capovolgimento dei valori
deve essere quindi considerato in relazione al rapporto organo-utensile nella sua totalità;
perciò l’industrializzazione non costituisce un progresso, come sosteneva Spencer, bensì

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 59

un declino nello sviluppo dell’umanità, poiché rappresenta il predominio dei deboli sui
forti, dei furbi sui nobili, della quantità sulla quantità.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 60

5. ROBERT MUSIL

5.1. La Vita e l’opera (1890-1942)

Il “nobile animale”, abbandonata la carriera militare, studiò costruzione di macchine ed


ingegneria, poi filosofia e in particolar modo psicologia. Questa complessa evoluzione
scientifico-filosofica rispecchia alla perfezione la storia della sua opera letteraria. Uscì
dall’accademia militare austriaca con lo spirito irrobustito dalla tremenda crisi
dell’adolescenza e reso straordinariamente lucido dalle meditazioni sulla matematica. Egli
si collocava sulla difficile via intermedia tra chi vuole la verità e chi vuole lasciare libero
gioco alla sua soggettività, nessuno è andato così lontano come lo scienziato e psicologo
Musil, offrendo un panorama “saggistico” così completo delle tendenze dello spirito
contemporaneo. Di stile conservatore non desiderava cambiare più di quanto non fosse
necessario. Ora il bisogno per Musil di imporre alla realtà una nuova strutturazione
geometrica, nasce dalla consapevolezza che le parole sono soltanto sotterfugi fortuiti, che
egli riassumerà nella formula mistico-scientifica “anima e precisione”. L’uomo senza
qualità (DER MANN OHNE EIGENSCHAFTEN) di Musil, è l’uomo la cui anima è una
“rete di sensazioni” (rese crudeli da un ragionare logico e rigoroso). La “struttura spaziale”
del tempo è un “campo di tensione”. L’io non possiede quindi un carattere immutabile. La
ricerca di Musil è condotta sul mondo esteriore e nello stesso tempo sul ricercatore che fa
la ricerca anche su se medesimo. Musil vive per far rivivere il proprio passato, ricostruirne
l’unità e trovarsi un senso.
Egli sperimenta inoltre scientificamente, la possibilità di provocare, con un atto deliberato
di volontà, un sentimento che sia tuttavia ingenuo e spontaneo (coincidenza anima-
precisione); questo contrastava con la formalità e decadenza della società viennese del suo
tempo e l’opera nella quale egli cercò di realizzare tale progetto non poté essere conclusa.
Ma il suo intento fu anche quello di rappresentare tutti gli aspetti contrastanti della grande
crisi europea, il sentimento del crollo dei valori, là dove esso era forse più evidente:
nell’ambiente politico e culturale di Vienna (1913). E’ l’azione parallela (l’azione austriaca
svolta parallelamente a un’azione tedesca) il centro inesistente del romanzo che permetterà
a Musil di situare i suoi problemi psicologici e scientifici nella realtà concretissima di

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 61

Vienna e di riempire i suoi astratti schemi strutturali di una multiforme e vivissima


sostanza umana.
Tuttavia l’Austria del 1913-1914 è solo un esempio per Musil. La sua vera originalità è
nella profondità abissale, in fondo nichilista, che potenzia ed esaspera la crisi di un’età,
tanto da ricavarne una filosofia della crisi come sostanza imprescindibile dell’esistenza.
Dice Musil: “se esiste il senso della realtà, deve esistere anche il senso della possibilità”, la
paura su cosa scegliere tra le diverse possibilità, paura di fare la scelta sbagliata, dopo la
distruzione dei valori”.
Musil realizza la sua filosofia dell’assoluta inadeguatezza, attraverso una particolare
tecnica linguistica. Egli non conosce la gioia e il pericolo dell’abbandono totale. La realtà è
secondo Musil inadeguata allo spirito, ed egli dichiara di voler rappresentare non il tempo
reale ma quello irreale. Tutto il mondo di Musil è condannato allo sfacelo, perché nessuna
parola è capace di dire ciò che quel mondo veramente è. E’ proprio dalla soppressione
della possibilità di giungere al “linguaggio della totalità” nasce lo stile di questo grande
autore. Anima ed assenza significano, appunto, come già citato, precisione nella passione,
significano anche passione nella precisione. E’ possibile, dice Musil, che nell’amore ci sia
sempre una “lieve mania di scoprire connessioni”. Certo è che nello scrivere di Musil non
si distinguono più intelletto e immaginazione. Con ciò la condizione transnormale
dell’artista acquista una pericolosa somiglianza con quella subnormale del pazzo. L’artista
o il pazzo cercano dei motivi, e il motivo, spiega Musil, è ciò che ci muove in generale, ed
in particolare ciò che spinge l’artista da un immagine all’altra. Così Musil cerca ovunque
motivi e rapporti per comprendere e chiarire, per ordinare la realtà della sua epoca, che gli
appare priva di organica unità. E così “DER MENSCH OHNE EIGENSCHAFTEN” è
tragicamente sospeso fra il vagheggiamento nostalgico di una realtà storica che non ha più
il diritto di esistere e la speranza di una grande conquista mistica non conseguibile.

5.2. Il brano di Musil: il mondo dell'uomo senza qualità.

Se è attuazione di sogni ancestrali il poter volare con gli uccelli e navigare coi pesci,
penetrare nel corpo di gigantesche montagne, inviare messaggi con la rapidità degli dei,
scorgere e udire ciò che è invisibile e lontano, sentir parlare i morti, affondare in
miracolosi sonni risanatori, vedere con occhi vivi l’aspetto che avremo vent'anni dopo la
morte, nelle notti sfavillanti esser consapevoli di mille cose al di sopra e al di sotto di

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 62

questo mondo, che nessuno conosceva prima; se luce, calore, forza, godimento, comodità
sono i sogni primordiali dell'uomo, allora la ricerca odierna non è scienza soltanto: allora è
anche magia, è un rito di grandissima forza sentimentale e intellettuale, che induce Dio a
sollevare l'una dopo l'altra le pieghe del suo manto, una religione la cui dogmatica è retta e
penetrata dalla dura, agile, coraggiosa logica matematica, fredda e tagliente come una lama
di coltello.
Certo è innegabile che secondo l'opinione dei non matematici tutti questi antichissimi
sogni atavici si sono avverati in modo totalmente diverso dall'immaginazione primitiva. Il
corno da caccia di Múnchausen era più bello di una voce conservata in scatola, lo stivale
delle sette leghe era più bello dell'automobile, il regno di re Laurin era più bello d'una
galleria ferroviaria, la magica radice della mandragora era più bella d'un fotogramma,
mangiare il cuore della propria madre e capire il linguaggio dei passeri era più bello di uno
studio zoopsicologico sulle modulazioni espressive e affettive nella voce degli uccelli. Noi
abbiamo conquistato la realtà e perduto il sogno.
Non stiamo più sdraiati sotto un albero a contemplare il cielo attraverso le dita dei piedi,
ma lavoriamo e fatichiamo; d'altronde non si può starsene trasognati a stomaco vuoto, se si
vuol essere gente di polso: bisogna muoversi e mangiare bistecche. E’ precisamente come
se la vecchia inetta umanità si fosse addormentata su un formicaio; e la nuova svegliandosi
s'è trovate le formiche nel sangue, sicché da allora è costretta a compiere i moti più violenti
senza potersi liberare da quella sordida smania di animalesca laboriosità. Non occorre
davvero dilungarsi troppo sull'argomento, giacché quasi tutti gli uomini oggi si rendono
ben conto che la matematica è entrata come un demone in tutte le applicazioni della vita.
Forse non tutti credono alla storia del diavolo a cui si può vendere l'anima, ma quelli che
di anima devono intendersene, perché in qualità di preti, storici e artisti ne traggono lauti
guadagni, attestano che essa è stata rovinata dalla matematica, e che la matematica è
l'origine di un perfido raziocinio che fa, sì, dell'uomo il padrone del mondo, ma lo schiavo
della macchina. L'intima sterilità, il mostruoso miscuglio di rigore nelle minuzie e
d'indifferenza per l'insieme, la desolata solitudine dell'uomo in un groviglio di particolari,
la sua inquietudine, la malvagità, la spaventosa aridità di cuore, la sete di denaro, la
freddezza e la violenza, che contraddistinguono il nostro tempo, sarebbero secondo questi
giudizi unicamente e semplicemente conseguenze del danno che un ragionare logico e
rigoroso arreca all'anima! E così anche allora, quando Ulrich divenne matematico, v'erano

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 63

persone che predicevano il crollo della cultura europea perché l'uomo non albergava più in
cuore né fede né amore, né innocenza né bontà; ed è significativo notare che tutti costoro
da ragazzi e scolari erano cattivi matematici. Con ciò essi ritennero più tardi per dimostrato
che la matematica madre delle scienze esatte, nonna della tecnica, fosse anche la matrice di
quello spirito che ha poi prodotto i gas asfissianti e gli aeroplani da bombardamento.
[...]
Se ci si chiede senza pregiudizi come la scienza abbi assunto il suo aspetto attuale - cosa
importante per se stessa, perché la scienza regna su di noi e neppure un analfabeta si salva
dal suo dominio giacché impara a convivere con innumerevoli cose che son nate dotte -
s'ottiene un'immagine alquanto diversa. Secondo tradizioni attendibili s'è incominciato nel
sedicesimo secolo, un periodo di fortissimo movimento spirituale, a non più sforzarsi di
penetrare i segreti della natura, com'era successo fino allora in due millenni di speculazione
religiosa e filosofica, bensì ad accontentarsi di esplorare la superficie, in un modo che non
si può fare a meno di chiamare superficiale. Il grande Galileo Galilei ad esempio, il primo
nome che sempre si cita a questo proposito, tolse di mezzo il problema: per quale causa
intrinseca la natura abbia orrore degli spazi vuoti, così da obbligare un corpo che cade ad
attraversare spazi su spazi, finché esso giunge su un terreno solido; e s'accontentò di una
constatazione molto più volgare: stabilì semplicemente la velocità di quel corpo che cade,
la via che percorre, il tempo che impiega, e l'accelerazione della caduta. La Chiesa
cattolica ha commesso un grave errore minacciando di morte un tal uomo e costringendolo
alla ritrattazione invece di ammazzarlo senza tanti complimenti; perché il suo modo, e
quello dei suoi simili, di considerare le cose, ha poi dato origine - in brevissimo tempo, se
usiamo le misure della storia - agli orari ferroviari, alle macchine utensili, alla psicologia
fisiologica e alla corruzione morale del tempo presente, e ormai non può più porvi rimedio.
Probabilmente ha commesso quest'errore per troppa prudenza, giacché Galileo non era
soltanto lo scopritore del moto della terra e della legge della caduta dei gravi, ma era anche
un inventore al quale s'interessava, come si direbbe oggi, il gran capitale; e inoltre non era
l'unico che fosse pervaso allora dallo spirito nuovo; al contrario, la storia c'insegna come il
freddo positivismo che lo animava si diffondesse violento e disordinato come un'epidemia
e per quanto possa essere urtante sentir dire, quasi vanto, che uno era «animato da freddo
positivismo», mentre ci sembra di averne già fìn troppo, a quel tempo il risveglio dalla
metafisica per darsi al severo esame delle cose secondo differenti testimonianze dev'esser

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 64

stato addirittura un fuoco, un'ebbrezza di positività! Ma se ci si chiede come mai fosse


venuto in mente all'umanità di cambiare così, ecco la risposta: l'umanità fece
semplicemente quello che fanno tutti i bambini di buon senso che si son trovati troppo
presto a camminare; si sedette per terra, e la toccò con una parte del corpo non molto
nobile ma sicura, diciamolo pure: con quella parte su cui ci si siede. Lo strano è che la terra
si sia mostrata così sensibile a quel contatto, sì da lasciarsi strappare cognizioni, scoperte e
comodità in un'abbondanza che ha del miracoloso.
Dopo tali antecedenti si potrebbe sostenere non interamente a torto che ci troviamo nel
bel mezzo del miracolo dell'Anticristo; perché la similitudine del contatto con la terra non
si deve interpretare solo nel senso della sicurezza, ma anche in quello dell'indecoroso e
dell'illecito. E in verità, prima che il mondo intellettuale scoprisse la sua passione per i fatti
materiali, questa passione era propria soltanto dei guerrieri, dei cacciatori e dei mercanti,
cioè dei temperamenti astuti e violenti. Nella lotta per la vita non vi sono sentimentalismi
speculativi ma soltanto il desiderio di ammazzare il nemico nel modo più rapido e più
reale, ognuno in tal caso è positivista; così negli affari non sarebbe una virtù lasciarsi
mistificare invece di andar sul sicuro, là dove il guadagno in ultima analisi costituisce una
sopraffazione psicologica dell'avversario derivante dalle circostanze.
Se d'altra parte guardiamo quali siano le qualità che conducono a invenzioni e scoperte,
troviamo: libertà da scrupoli e riguardi tradizionali, spirito d'iniziativa e di distruzione in
uguale quantità, esclusione di considerazioni morali, paziente mercanteggiamento del
minimo vantaggio, tenace attesa sulla via del successo, se è necessario, e un rispetto per il
numero e per la misura che è l'espressione più acuta della diffidenza di fronte a ogni cosa
incerta; in altre parole, non troviamo nient'altro che gli antichi vizi dei cacciatori, dei
soldati e dei mercanti, trasportati qui sul piano intellettuale e nuovamente interpretati come
virtù. Ed è vero che così restano al di sopra della corsa al vile vantaggio personale; ma
l'elemento del male originale, come si potrebbe chiamarlo, non scompare nemmeno
mediante questa trasformazione, perché a quanto pare è indistruttibile ed eterno, almeno
eterno quanto tutte le grandezze umane, perché è precisamente ed esclusivamente il piacere
di dar lo sgambetto a quelle grandezze e di vederle battere il naso per terra. Chi non ha
provato almeno una volta, contemplando un bel vaso di vetro iridescente, la seduzione del
pensiero che con una bastonata lo si potrebbe mandare in mille pezzi? Elevato all'eroismo
dell'amara persuasione che in questo mondo non ci si può fidare di nulla che non sia ben

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 65

fermo al chiodo, quest'è un sentimento fondamentale incluso nella positività della scienza,
e se per rispetto non lo si vuol chiamare il diavolo, bisogna almeno dire che puzza
lievemente di zolfo.

5.3. Commento al brano di Musil: il demone della logica matematica

“Noi abbiamo conquistato la realtà e perduto il sogno”


Il testo si profila come un riflesso della complessa evoluzione scientifico-filosofica
musiliana. Musil argomenta e sviluppa la sua riflessione sulla scienza: egli è convinto che
l’odierna ricerca non sia soltanto scienza, ma anche magia e religione, entrambe rette dalle
leggi della logica matematica.
Con le innovazioni tecnologiche e con l’attuazione di quelli che prima erano solo
“sogni”, si è conquistata la realtà ma perduto il sogno. Non c’è più tempo per contemplare
la realtà, poiché esso deve essere utilizzato per lavorare e per procurarsi i mezzi necessari
alla sopravvivenza.
L’umanità ormai si rende conto che la matematica è entrata a far parte di tutte le
applicazioni della vita: essa rappresenta l’origine di un perfido raziocinio che di fatto toglie
all’uomo il suo ruolo di padrone del mondo, riducendolo a misero schiavo di esso. A causa
della matematica e del progresso l’uomo non ha più qualità ma è ridotto a numero, a
quantità. L’uomo non lavora più per vivere ma vive per lavorare. La frenesia del lavoro ha
allontanato l’uomo dalla propria essenza: egli non considera più le cose in profondità ma in
modo alquanto superficiale.
La scienza ha potuto assumere l’attuale aspetto attraverso una trasposizione sul piano
intellettuale degli antichi vizi dei cacciatori, dei soldati e dei mercanti, nuovamente
interpretati come virtù. Infatti, prima che il mondo scoprisse la sua passione per i fatti
materiali, questa passione apparteneva solamente alle categorie sopracitate. Tuttavia questa
trasformazione non è in grado di far scomparire l’elemento del male originale, la violenza
della lotta per la sopravvivenza, perché è, a quanto pare, eterno e indistruttibile.
In questo modo la scienza regna su di noi e sul mondo e non c’è possibilità di mutare
questa condizione. L’interpretazione che Musil offre della scienza è perciò problematica;
egli cerca di mettere in evidenza proprio l’ambiguità del problema. La sua conclusione è
che nella scienza non ci sono cose chiare, per questo non la si può né demonizzare, né
divinizzare.

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Parte Seconda: la crisi dell’ideale positivistico e la critica della tecnologia 66

(R. Musil, L'uomo senza qualità [1930-1932], vol. I, pp. 34-36, 291-293)

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori

Parte terza

La morte di dio e il crollo dei valori

1. PREMESSA: IL CROLLO DEI VALORI

1.1. La crisi dei valori

Uno dei più chiari indizi che compravano la crisi di una civiltà è il venir meno dei suoi
valori, il diffondersi, tra i testimoni dell’epoca, della sensazione che i valori, su cui la loro
civiltà aveva costruito il proprio senso d’identità, perdono la loro forza, non sono più
capaci che orientare l’agire umano e di rendere possibile la comprensione di ciò che sta
accadendo.
Questa diffusa insicurezza si manifesta, principalmente, nella perdita del senso di
continuità del divenire storico. Se è vero che una cultura fonda la propria identità nel
tempo, riconducendo il passato al presente e costruendo sul presente il proprio progetto per
il futuro, allora la perdita della continuità temporale può essere assunta come la prova più
evidente della crisi di quella civiltà. La tesi che intendiamo sostenere, dopo aver studiato
questo periodo e aver esaminato come venne vissuto nella coscienza di alcuni tra i più
significativi intellettuali del tempo, è che questa crisi trova una delle sue cause più
importanti nella disgregazione dei valori tradizionali della civiltà occidentale.
Il percorso che intendiamo seguire in questa breve premessa prenderà le mosse proprio
da questa perdita di continuità tra passato, presente e futuro. Cercheremo poi di chiarire il

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 68

concetto di valore così come veniva concepito nella cultura tradizionale; l’esame
dell’annuncio della morte di dio, ci consentirà, quindi, di definire il significato che il crollo
dei valori tradizionali assume per la cultura del tempo. Concluderemo questa introduzione
soffermandoci sui concetti di nichilismo e relativismo che, riferiti ai valori, ben
rappresentano il diffuso stato d’animo che è presente tra gli intellettuali europei già prima
della Grande Guerra, ma che divengono quasi luoghi comuni nel periodo tra le due guerre.

1.2. Nelle nebbie del domani

La sensazione dell’irrompere di un evento epocale che ha spezzato il corso della storia,


conducendo la civiltà occidentale ad una svolta, è espressa con drammaticità nelle parole di
S. Zweig: “Si fra il nostro oggi, il nostro ieri ed il nostro altroieri tutti i ponti sono crollati.
Io stesso debbo stupire rievocando la quantità e la molteplicità di vita per noi compressa
nel breve spazio di un'unica esistenza, sia pure incomoda e pericolosa; e tanto più mi
stupisco se la paragono al modo di vivere dei miei predecessori” 9. L’immagine del crollo
del ponte che collega il passato al futuro è la registrazione di una discontinuità venutasi a
produrre nello sviluppo temporale dell’occidente, ciò che è stato prima e ciò che è venuto
dopo, non sono più pensabili come due momenti successivi dello stesso percorso. La prima
guerra mondiale ha segnato una svolta, ciò che la civiltà europea era prima della guerra è
qualcosa di completamente diverso da ciò che essa è divenuta dopo la guerra. Gli uomini
che vivono dopo la guerra sono diversi rispetto a quelli che vissero prima, Zweig non si
riconosce, non può riconoscersi, nel “modo di vivere” dei suoi predecessori. Il senso
d’estraneità nei confronti di coloro che “vissero prima” è, implicitamente, il
riconoscimento che essi non possono essere realmente “i nostri predecessori”, in loro non
vi sono le radici dell’identità di coloro che sono venuti dopo. In altri termini, l’incapacità
di rispecchiarsi nel passato, che si trova in tutti i brani che abbiamo esaminato, è indice
della difficoltà di chiarire la propria identità presente se non nei termini negativi del “che
cosa non siamo”.
Un altro importante indizio presente nel brano citato e in tutti gli autori esaminati, è
l’incapacità di comprendere il presente. Zweig, che scrive nel 1941 e ha presente l’intera
vicenda dai suoi inizi al tragico epilogo del secondo conflitto mondiale, percepisce gli
accadimenti verificatisi in quest’arco temporale come un “caotico groviglio di eventi che
9
Stephan Zweig,

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 69

vengono subiti”. Se è vero, come noi intendiamo sostenere, che i valori non hanno solo una
funzione pratica, ma anche teoretica - su essi si fondano infatti anche gli strumenti per
interpretare conoscitivamente la realtà tanto storica, quanto naturale – allora appare
evidente che il fatto di “non riuscire a comprendere gli eventi” e di “subirli”, indica una
incapacità di comprendere ed agire. Zweig e i suoi contemporanei si muovono ancora nel
contesto di quei valori morali e conoscitivi dell’epoca anteriore, questo impedisce loro di
comprendere il loro tempo e di agire in esso; il loro tempo è divenuto incomprensibile
partendo dalla concezione del mondo e della storia che è ormai in crisi, ma di cui essi sono
ancora portatori.
Se nelle parole di Zweig il ponte tra passato e futuro appare crollato, nel titolo di una
delle più significative opere di denuncia della crisi in atto, anche il ponte tra presente e
futuro non esiste più.
Lo storico e letterato olandese Huizinga, diede alla sua opera il significativo titolo di
“Nelle nebbie del domani”. Non si vede alcuno sbocco per la crisi, né si riesce a concepire
alcun progetto per uscire da essa, l’incertezza del futuro è un altro segno che, nella
percezione dei contemporanei, ci si trova ad una svolta, si sa cosa si è perduto ma non si sa
ancora che cosa si è acquistato. Da ciò il tono apocalittico di molte riflessioni sulla civiltà
occidentale: da Russell che intravede la possibilità di una dittatura mondiale, a Ortega che
registra un ritorno dei “barbari” in Europa, fino all’annuncio della morte dell’occidente di
Spengler. Sola possibile forma di agire che si prospetta alla maggior parte di questi autori è
la testimonianza personale della propria fedeltà a quei valori andati perduti: “Se però con la
nostra testimonianza tramanderemo alla generazione futura anche soltanto una scheggia di
verità, non avremo lavorato invano”.10 All’intellettuale liberale e cosmopolita resta la sola
missione di tramandare quei valori della cui scomparsa egli è il testimone. Ma anche
questo scopo appare da solo incapace di fondare un nuovo progetto, dare un significato a
ciò che accade, e se allo sguardo di Huizinga il futuro appare avvolto tra le nebbie, Zweig
rinuncerà perfino a fissare il suo sguardo nel futuro, si ucciderà nel 1942.
In conclusione, appare perduto il legame di continuità col passato, il presente risulta
incomprensibile e il futuro incerto.

10
S. Zweig,

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 70

1.3. La morte di dio

I brani di Nietzsche che abbiamo preso in considerazione, benché tale autore si collochi
in un altro contesto storico e culturale, sono tuttavia essenziali per comprendere sia le
caratteristiche formali del secolare sistema di valori su cui la civiltà occidentale era
fondata, sia per valutare correttamente la portata delle conseguenze che il crollo di quei
valori doveva avere.
Non intendiamo qui esaminare la filosofia di Nietzsche in quanto tale, ma solo ricordare
brevemente il quadro della civiltà occidentale e della sua storia che egli fornisce.
Dio, come assoluto trascendente la dimensione spaziale e temporale, costituiva il
fondamento della tavola di valori su cui, il platonismo e il cristianesimo, avevano edificato
l’edificio della cultura occidentale. Trascendenza e dualismo sono i due termini chiave
della ricostruzione niciana. Solo la trascendenza, l’assoluta alterità di dio, principio primo
e fine ultimo, consentono di garantirne l’universalità e immutabilità sottraendolo al
divenire e molteplice. Tale trascendenza indica anche il dualismo tra mondano e
ultramondano che caratterizza la strategia metafisico-religiosa che ha guidato la
costruzione dell’identità della civiltà occidentale. Solo su tale base era infatti possibile
ricondurre interamente il mondo storico e naturale ad un unico principio capace di
operarne la sintesi in una totalità sistematica e globale, assegnando all’esistenza una
precisa finalità, alla vita uno scopo determinato. Solo in questo modo, era inoltre possibile,
assegnare una solida base alla tavola di valori che doveva guidare, sia in ambito morale che
gnoseologico, la civiltà occidentale. E’ quindi sulla figura di dio che l’occidente aveva
costruito il proprio destino e aveva concepito la propria identità, conferendo un senso
assoluto all’essere. Non interessa, ai fini di quest’analisi, la vicenda attraverso la quale
Nietzsche ricostruisce questo processo storico, ne giudica il significato, ne interpreta la
dissoluzione. Non interessa neanche valutare la correttezza dell’interpretazione niciana
della storia dell’occidente, quella che invece vogliamo rendere evidente è la stretta
correlazione, entro la cultura occidentale, tra il carattere assoluto dell’idea di dio e
l’incondizionatezza della tavola dei valori che su tale fondamento era stata posta. La morte
di dio, sviluppatasi in conseguenza delle vicende storiche e culturali che hanno
caratterizzato la storia dell’occidente tra il XVII e il XIX secolo, porterà al crollo dei
valori, alla perdita dell’identità, al non senso ed al nichilismo:

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 71

“Come potemmo vuotare il calice bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna
per strofinare via l'intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla
catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i
soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E' all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati?
Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito
nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire
notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?”11
Morto dio, cade ogni sistema di riferimento assoluto e l’umanità smarrisce il significato
dell’essere in generale e del proprio destino in particolare, ad un universo dotato di un
ordine e di un senso assoluti, segue una situazione di assoluto relativismo in cui ogni senso
- teoretico, morale, storico - è smarrito.
L’uomo, l’uomo occidentale, cercherà nuovi idoli con cui sostituire il “vecchio dio”, ma
ormai il seme del nichilismo, secondo Nietzsche, è stato gettato. La ragione scientifica, il
nuovo idolo del positivismo, mostrerà i suoi limiti – come si è visto nel paragrafo
precedente – e sarà incapace di sostituire il vecchio dio: tramontato ormai il sole della
ragione, l’Europa è entrata nella notte del nichilismo.

1.4. La decadenza dell’occidente come “epoca del nichilismo”

Venuto meno il suo centro unificatore, del secolare edificio culturale dell’occidente
restano solo frammenti slegati, reciprocamente irriducibili, l’orizzonte annunciato da
Nietzsche è quello del nichilismo. “Assenza di ogni valore”, questa la definizione data dal
filosofo tedesco dell’epoca moderna, ciò che è andato perduto è l’assolutezza del valore, la
dimensione morale in cui nasce e si sviluppa il dibattito sulla crisi dell’occidente è dunque
quella del relativismo dei valori.
La nostra tesi al riguardo è che, nel dibattito sulla crisi della civiltà il principale concetto
di cui gli intellettuali del tempo, che ne siano consapevoli o meno, si servono, sia molto
simile a quello del nichilismo di Nietzsche.
Il termine nichilismo deriva dal latino nihil, nulla, ed indica l’atteggiamento di coloro che
negano che l’essere possieda un senso, che esista un sistema di valori oggettivo e
universale.

11
Nietzsche,

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 72

Nella filosofia di Nietzsche, il concetto di nichilismo è fondamentale, esso viene


utilizzato per interpretare la crisi che minaccia di dissoluzione la civiltà occidentale. In
questo senso nichilismo è la svalutazione di tutti i valori, il rifiuto, prima ancora che di un
sistema determinato di valori, della stessa possibilità che possa esistere un qualsiasi valore.
L’essere non possiede alcun fondamento di senso, l’esistenza è assurda: “nichilismo:
manca il fine; manca la risposta al “perché”; che cosa significa nichilismo? Che i valori
supremi si svalorizzano”.
Sul piano ontologico, il presupposto da cui si genera il nichilismo è la morte di dio, vale a
dire il riconoscimento del carattere illusorio di un principio supremo capace di fondare un
senso assoluto dell’essere e dell’esistenza. Sul piano storico il nichilismo è il risultato della
situazione di decadenza in cui si trova una civiltà. Il mondo moderno è per Nietzsche un
mondo malato, la figura della decadenza, conseguente alla morte di dio ed all’incapacità di
affrontare l’essenza assurda e tragica di un’esistenza senza senso, conduce al disgregarsi
della civiltà a tutti i suoi livelli. Nell’epoca della decadenza la volontà cessa di volere, si
abbandona passivamente agli eventi, si ripiega su se stessa e si nutre del sentimento del
risentimento. Il risentimento è tipico della volontà malata nell’epoca della decadenza. La
dinamica del risentimento è simile a quello che Freud definirà principio di morte,
Thanatos, una rabbiosa tensione interiore e autodistruttiva che si scaglia contro tutto ciò
che è vitale e tende a disgregarlo, a ridurlo all’inorganicità.
La figura del nichilismo e della decadenza che abbiamo fin qui delineato, corrispondono
a quel nichilismo imperfetto che Nietzsche indicava col termine di nichilismo passivo,
caduti i fini e i valori, il nichilismo passivo si limita a subire gli eventi, regredendo
all’atteggiamento della fuga e della rinuncia di fronte alla vita. Come si sa, il nichilismo
perfettamente compiuto, è quello attivo, che assume come proprio dovere la distruzione dei
valori tradizionali per preparare l’avvento del superuomo.
Da Spengler a Mann, da Broch a Scheler, quasi tutti gli autori che abbiamo trattato o
fanno esplicito riferimento al concetto niciano di nichilismo e di decadenza, o utilizzano
concetti e strumenti interpretativi molto simili a quello di Nietzsche.
Rivelatore di quest’atteggiamento è il riferimento che molti di questi autori fanno al
medioevo visto come termine di riferimento per valutare la crisi moderna. A fronte di
un’epoca come quella odierna in cui “diviene di colpo impossibile collegare i singoli
campi di valore ad un valore centrale”, in cui “viene sottratto all’essere il suo carattere di

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 73

statica immutabilità”12, in cui i valori appaiono slegati e manca un senso unitario


dell’essere, il medioevo viene visto come un mondo caratterizzato da una struttura unitaria
fondata su un valore assoluto – la fede nel dio cristiano – capace di fornire un ordinamento
finalistico al mondo e alla vita umana.
Nichilismo e decadenza, perdita dei valori, trionfo della mera funzionalità tecnica,
troveranno, agli occhi di questi intellettuali, piena conferma nella Grande Guerra, essa
costituisce, infatti, secondo questa chiave di lettura, il trionfo del nichilismo, il rivoltarsi
della civiltà europea contro se stessa, il trionfo della pulsione di autodistruzione inevitabile
per un’umanità che ha smarrito i suoi antichi valori e si mostra incapace di riempire il
vuoto, così venutosi a creare, con una nuova tavola di valori.

12
H. Broch, Disgregazione dei valori,

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 74

1. NIETZSCHE

1.1. La vita

Friedrich Wilhelm Nietzsche nacque a Roken il 15 ottobre del 1844. Figlio di un pastore
protestante, studiò dapprima nel ginnasio di Pforta, poi nell’università di Bonn e in quella
di Lipsia. Il suo maestro di Lipsia, il famoso filosofo Friedrich Ritsche, procurò a
Nietzsche non ancora venticinquenne, nel 1869 la chiamata all’università di Basilea, su una
cattedra di lingua e letteratura greca. A Basilea Nietzsche insegnò dal 1869 al 1879. A
questo periodo risalgono, oltre a studi di carattere filologico, le sue prime grandi opere
filosofiche: “La nascita della tragedia dallo Spirito della musica” (1872); “Considerazioni
inattuali” (1873-1876); “Umano troppo umano” (1878). Dal 1879 (quando lasciò
definitivamente l’insegnamento) Nietzsche visse con una modesta pensione assegnatagli
dall’università, soggiornando sulla riviera francese e italiana, in Alta Engandina, e infine a
Torino. Naquero in questo periodo le opere della maturità: “Il viandante e la sua ombra
(1880); “Aurora” (1881); “La gaia scienza (1882); “Così parlò Zarathustra (1883-1885);
“Al di là del bene e del male” (1886); “Genealogia della morale”(1887); “Il caso Wagner”
(1888); “Crepuscolo degli idoli” (1881); “L’anticristo, Ecce Homo e Nietzsche contro
Wagner (postumi).
Nel gennaio del 1889 Nietzsche, che nel frattempo si era trasferito a Torino, che egli
chiama “la città che si è rivelata come la mia città”, fu colto da un grave attacco di pazzia.
Sulla natura e sull’origine di essa hanno discusso a lungo i biografi. Fin dal 1873 Nietzsche
aveva cominciato a soffrire di forti emicranie, indebolimento della vista, disturbi digestivi,
insonnia. Questi mali aggravatisi, lo avevano costretto a lasciare l’insegnamento. La
pazzia, scoppiata in modo definitivo nel 1889 era probabilmente un male ereditario.
Salute e malattia hanno un peso teorico centrale nelle opere del Nietzsche maturo; ma,
soprattutto, la circostanza biografica della sua malattia ebbe un ruolo decisivo nel far
sorgere il problema degli scritti postumi. Dopo l’attacco di Torino, infatti, Nietzsche,
trascorso un periodo in casa di cura, visse con sua sorella Elisabeth maritata Förster. Fu
proprio lei, dopo la morte del fratello, a riordinare e preparare per la pubblicazione un

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 75

insieme di appunti, che Nietzsche scrisse con il proposito di formare una grande opera
intitolata “La volontà di potenza”, proposito che però egli abbandonò.

1.2. Il Pensiero

Nel giovane Nietzsche, ebbero una grande importanza, oltre agli studi filologici, il
pensiero di Schopenhauer. Durante gli anni trascorsi a Basilea fu ospite di Wagner, ed è
proprio lì che scrisse la sua prima opera “La nascita della tragedia”. In quest’opera
Nietzsche propone una nuova visione della classicità e un nuovo concetto di decadenza.
L’immagine classica che aveva dominato dal Rinascimento al Romanticismo rifletteva la
civiltà greca in una fase già decadente. L’armonia e la compostezza delle forme greche
nascono, secondo Nietzsche, da una reazione di difesa. Lo spirito greco è composto da un
elemento, il dionisiaco, che percepisce la caoticità dell’essere e che si esprime sul piano
artistico nella musica, ma lo spirito greco nasce anche da un elemento apollineo che
reagisce producendo un mondo di forme limpide e definite e che si esprime nella scultura.
In altre parole Nietzsche, in antitesi all’immagine tradizionale dell’Ellade vista come
mondo di equilibrio ed armonia (regno dell’apollineo) contrappone un’immagine
dionisiaca del mondo greco.
Nietzsche sostiene che l’apollineo nacque nel momento in cui ci si accorse del dramma
della vita, della morte e degli aspetti crudeli dell’essere. Gli dei nacquero, infatti, per
sopportare mediante una sublimazione della vita, il dolore degli uomini. Nietzsche è in
effetti un discepolo del dionisiaco, poiché Dioniso rappresenta l’accettazione della vita così
come si presenta. Lo spirito dionisiaco non si propone come l’accettazione rassegnata della
vita, come un “si” totale al mondo. Dioniso è, infatti, il dio dell’ebbrezza, della gioia, il dio
che canta e ride, un Dio che esalta tutte quelle virtù che tendono ad esaltare la vita e che
sono degne dell’uomo.
Nietzsche parte dall’accettazione della vita per polemizzare contro la morale, la morale è,
per Nietzsche, una forma della coscienza che ha posto l’uomo contro la vita. Secondo
Nietzsche nel mondo classico vi era, inizialmente, una morale, quella dei signori, fondata
sui valori vitali della forza, della fierezza, della gioia; in un secondo momento alla morale
dei signori si contrappose quella degli schiavi fondata sui valori antivitali della
abnegazione, del disinteresse. Tutto ciò accade perché la morale dei signori non
comprendeva solo l’etica dei signori ma anche quella dei sacerdoti. Ma i sacerdoti

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 76

provavano verso i guerrieri un certo risentimento, un desiderio di rivalsa, non potendoli


però battere sul loro stesso terreno, decisero di creare una nuova tavola dei valori opposta a
quella dei signori. Ora, il sacerdote si rispecchiava nelle virtù dello spirito, mentre il
guerriero si rispecchiava in quelle del corpo. Fu per questo motivo che al corpo vediamo
anteposto lo spirito, all’orgoglio l’umiltà, etc. Si ebbe quindi, un rovesciamento dei valori
effettuato dagli ebrei che vengono definiti come il popolo sacerdotale per eccellenza.
Venne mutata la tradizionale equazione che vedeva nel buono il nobile, il potente, il caro
agli dei, il felice; adesso invece solo i poveri, gli umili possono essere considerati buoni.
Nietzsche considera questa morale, che poi diede origine al cristianesimo, il simbolo
attraverso cui l’uomo si è posto contro la vita stessa, una morale che ha identificato nella
gioia e nel piacere, il peccato. Ed è per questo motivo che il cristiano si presenta come un
uomo malato e represso, in preda a continui sensi di colpa.
L’uomo cristiano è dunque un auto-tormentato che nasconde in sé un atteggiamento
aggressivo e risentimento verso il prossimo; è per questo che la casta sacerdotale,
obbediente alla religione dell’amore, ha scatenato lotte di sangue. Nietzsche pensa inoltre,
che la vita umana sia una vita terrestre; l’uomo è nato per vivere sulla terra e non c’è altro
mondo per lui.
L’uomo è sostanzialmente corpo; il corpo, che era considerato prigione o tomba
dell’anima, diviene il concreto modo di essere dell’uomo, l’anima assume in Nietzsche un
altro significato, in quanto è considerata una semplice particella del corpo e la terra diviene
la dimora gioiosa e propria dell’uomo.
Nietzsche parte dalla critica della morale tradizionale e dal cristianesimo per affrontare il
tema della “morte di Dio”. Per Nietzsche Dio rappresenta il simbolo di ogni prospettiva
oltre-mondana ed anti-vitale, secondo il filosofo, Dio non è altro che una fuga dalla vita e
una rivolta verso il mondo. Dio è la menzogna delle menzogne, è l’espressione della paura
di fronte all’essere, in quanto l’uomo, dopo aver scoperto che la realtà è caotica,
disarmonica, crudele, non provvidenziale, contraddittoria, per poter sopportare la durezza
dell’esistenza, si è creato un mondo ordinato, buono, provvidenziale, razionale. Dio è
quindi, la personificazione di tutte quelle certezze, credenze di cui l’uomo da sempre, si è
servito per continuare a vivere.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 77

1.3. Il brano di Nietzsche: "La morte di dio"

L'Uomo folle. Avete sentito di quell'uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce
del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco
Dio!»? E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio,
suscitò grandi risa. «Si è forse perduto?» disse uno. «Si è smarrito come un bambino? Fece
un altro». «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato»?
Gridavano e ridevano in una gran confusione. L'uomo folle balzò in mezzo a loro e li
trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n'è andato Dio»? gridò «ve lo voglio dire! L'abbiamo
ucciso - voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo
vuotare il calice bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via
l'intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole?
Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un
eterno precipitare? E' all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e
un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi
lo spazio vuoto? - Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?
Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre
seppelliscono Dio, non ci è giunto ancora nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina
putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo
abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più
sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi si è dissanguato sotto i nostri
coltelli - chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo lavarci? Quali riti
espiatori, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare? Non è troppo grande, per noi, la
grandezza di questa azione? Non dobbiamo anche noi diventare dei, per apparire almeno
degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande - e tutti coloro che verranno dopo di noi
apparterranno, in virtù di questa azione, a una storia più alta di quanto mai siano state tutte
le storie fino ad oggi!». -A questo punto l'uomo folle tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo
sui suoi ascoltatori: anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la
sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto», proseguì «non è
ancora il mio tempo. Questo enorme evento è ancora per strada e sta facendo il suo
cammino - non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono
tempo, la luce delle stelle vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state
compiute, perché siano viste e ascoltate. Quest'azione è ancor sempre più lontana dagli

I.M.S. "Baudi di Vesme" - 1998/99 Classe V A Linguistico


Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 78

uomini delle stelle più lontane - eppure son loro che l'hanno compiuta!». Si racconta
ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi
abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si
fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste
chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio»?
La Gaia Scienza

"Il nichilismo"

Il nichilismo Come Stato NORMALE


Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al «perché»?; che cosa significa nichilismo?
- che i valori supremi si svalorizzano.
Esso è AMBIGUO:
A) Nichilismo come segno della cresciuta potenza dello spirito: Come NICHILISMO
ATTIVO.
Può essere un segno di forza: l'energia dello spirito può essere cresciuta tanto, che i fini
sinora perseguiti («convinzioni, articoli di fede») le riescano inadeguati.
- Una fede cioè esprime in genere la costrizione esercitata da condizioni di esistenza, una
sottomissione all'autorità di situazioni in cui un essere prospera, cresce, acquista potenza...
D'altra parte un segno di forza non sufficiente per porsi ora nuovamente, in maniera
creativa, un fine, un perché, una fede.
Il suo massimo di forza relativa, lo raggiunge come forza violenta di DISTRUZIONE,
come nichilismo attivo. Il suo contrario sarebbe il nichilismo stanco, che non aggredisce
più; la forma più famosa di questo è il buddhismo, come nichilismo passivo.
Il nichilismo rappresenta uno stato intermedio patologico (patologica è l'immensa
generalizzazione, la conclusione che non c'è nessun senso): sia che le energie creative non
siano ancora forti abbastanza, sia che la decadenza indugi ancora e non abbia ancora
trovato i suoi rimedi.
B) Nichilismo come declino e regresso della potenza dello spirito: il NICHILISMO
PASSIVO: come segno di debolezza: l'energia dello spirito può essere stanca, esaurita, in
modo che i fini sinora perseguiti sono inadeguati e non trovano più credito; la sintesi dei
valori e dei fini (su cui riposa ogni forte cultura) si scioglie, in modo che i singoli valori si

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 79

fanno la guerra: disgregamento; tutto ciò che ristora, guarisce, tranquillizza, stordisce, sarà
in primo piano, sotto diversi travestimenti, religiosi o morali o politici o, estetici, ecc.
2. PRESUPPOSTI DI QUEST'IPOTESI:
Che non ci sia una verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose una «cosa in
sé»; - ciò stesso è un nichilismo, è anzi il nichilismo estremo. Esso ripone il valore delle
cose proprio nel fatto che a tale valore non corrisponda né abbia corrisposto nessun realtà,
ma solo un sintomo di forza da parte di chi pone il valore, una semplificazione ai fini della
vita.
Frammenti postumi

1.4. Il Commento

Analizzeremo adesso il brano tratto da “La gaia scienza” dal titolo: “il grande annuncio”.
Grazie ad esso potremmo comprendere meglio il significato della nietzschiana morte di
Dio.
Questo passo nietzschiano ricorda il mito della caverna di Platone, infatti anche in questo
brano ritroviamo una ricca simbologia filosofica. Il brano si apre con l’annuncio dell’uomo
folle, un annuncio drammatico , in quanto egli proclama la morte di Dio. L’uomo folle, che
simboleggia il filosofo profeta, comprende la gravità dell’annuncio, in quanto sa che la
morte di Dio ha come conseguenza il crollo di tutti quei valori di cui l’uomo si è
impadronito per riuscire ad affrontare la dolorosa esistenza. Le grida della gente del
mercato, rappresentano l’ateismo ottimistico e superficiale degli intellettuali dell’ottocento,
che sono, invece, insensibili alla portata e agli effetti della morte di Dio. Zarathustra, a cui
Nietzsche diede il compito di rivelare la notizia, accusa gli uomini di aver ucciso Dio,
inoltre egli considera l’uccisione di Dio un’azione ardua e sovrumana.
La morte di Dio viene considerata tale perché si ha come conseguenza lo smarrimento
dell’uomo che non può più contare su delle certezze.
L’uccisione di Dio è però necessaria in quanto permette all’uomo di divenire superuomo.
Anche se in effetti Zarathustra comprende di essere arrivato troppo presto, visto che non è
ancora avvenuta la nascita del superuomo. Infatti Nietzsche dice che solo colui che avrà il
coraggio di guardare in faccia la realtà e che avrà la forza per affrontare la caducità
dolorosa del mondo può divenire superuomo. Quindi, la morte di Dio costituisce un trauma
ma solo in relazione al fatto che l’uomo non si sia ancora posto come superuomo, ed è

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 80

proprio in virtù della morte di Dio che l’uomo può diventarlo. Il brano si concluderà con la
visita del profeta alle chiese, che costituiscono i sepolcri di Dio, alludendo, quindi, alla
crisi delle religioni, considerate “cadaverici residui” del passato.
Conseguenza della morte di Dio è il nichilismo.
Il nichilismo si configura in Nietzsche in un atteggiamento di fuga e di disgusto nei
confronti del mondo che egli vede incarnato nel cristianesimo e nel platonismo; ma vede
anche nel nichilismo la condizione dell’uomo moderno che, essendosi accorto che la vita
non ha più un senso o uno scopo, finisce per avvertire un senso di vuoto e nulla. La nascita
del nichilismo è collegata, secondo Nietzsche, al fatto che l’uomo dopo aver scoperto che
gli oltre-mondi non esistono, che l’essere non è né uno né vero né buono e che quindi, i fini
assoluti sono solo delle menzogne, è piombato nell’angoscia nichilistica. Nietzsche
afferma che il nichilismo rappresenta la condizione dell’uomo cristiano, in quanto il
cristiano aveva creduto nell’aldilà, nel Dio-provvidenza e avendo, poi , smesso di credere,
soffre e sente un senso di vuoto.
Nietzsche individua anche un equivoco del nichilismo. Questo consiste nel dire che il
mondo, non avendo più quelle verità assolute, non abbia più un senso.
I fini e le verità non esistono come dati assoluti, ma come prodotti della volontà di
potenza, che ergendosi al di sopra del caos dell’essere, impone all’essere stesso i suoi fini.
Il nichilismo si configura, quindi, come un “no” alla vita, che presenta un grande “si” alla
vita stessa.
Nietzsche distingue un nichilismo attivo e uno passivo. Il nichilismo attivo è visto come
una forza violenta in grado di distruggere le vecchie fedi, esso si può presentare come una
forza non sufficiente per porsi in maniera creativa un fine, uno scopo; ma può servire
anche come superamento del nichilismo stesso e per l’affermazione della volontà di
potenza.
Il nichilismo passivo è, invece, un segno di debolezza e di disgregazione dello spirito.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 81

2. HERMANN BROCH

2.1. La Vita

Scrittore austriaco. Nato a Vienna nel 1886 e morto, figlio di un industriale tessile,
diresse per un certo tempo l’industria paterna, finché a quarant’anni non risolse di darsi
allo studio (della matematica, della filosofia, della psicologia) e alla letteratura. Nel 1931-
32 fu pubblicata a Zurigo la sua prima opera, la trilogia narrativa “I Sonnambuli” (Die
Schlafwandler), mentre nel 1934 apparve “La grandezza sconosciuta” (Die unbekonnte
Grosse). In seguito Broch si ritirò nel Tirolo, dove lavorò tra l’altro al romanzo “Il
tentatore” (Der Versucher), pubblicato postumo nel 1953. Nel 1938, dopo l’Anschluss e
dopo aver patito la prigionia nelle carceri naziste, emigrò negli Stati Uniti, dove ottenne la
cittadinanza americana. Là gli furono assegnate una Rockefeller Fellowship per le ricerche
filosofiche presso l’università di Princeton (1942-44) e la cattedra di tedesco presso
l’università di Yala (incarico che tenne sino alla morte). Nel 1945 diede alla stampa il
romanzo “La morte di Virgilio” (Der Tod des Vergil) e nel 1950 un nuovo romanzo, “Gli
innocenti” (Die Schuldlosen). Gli altri scritti di Broch sono costituiti dal dramma “La
purificazione” (Die Entsuhung), da racconti, da saggi critici (su Joyce, su Hofmannsthal,
sull’eredità mitica della poesia ecc.), da poesie e da un’indagine, rimasta frammentaria,
sulla “Psicologia delle masse” (Massenpsycologie, postumo 1959). Hermann Broch morì
nel 1951 a New Haven.
Nella tragedia “Die Schlafwandler” rivive la drammatica metamorfosi della società
tedesca tra la fine dell’Ottocento e la prima Guerra Mondiale. La stessa trasformazione di
valori si ritrova in “Posenow oder die Romantik” (1888), “Huguenau oder die Sachlichkeit
(1918) e “Die Schuldlosen”, scritto tra i due conflitti, polemico atto d’accusa contro le
egoistiche classi abbienti che dimenticano i bisogni del proletariato. Ma il capolavoro di
Broch è considerato il romanzo “Der Tod des Virgel” che pone l’aspirazione dell’anima a
valori ideali contrapposti al caduco mondo terreno.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 82

2.2. Temi dell’opera di Broch

Motivi centrali dell’opera di Broch sono la fine di una civiltà e di una cultura, lo sfaldarsi
di una vita spirituale che ha smarrito obiettivi e valori. Interprete acuto dell’intima frattura
e instabilità della società tedesca del Novecento e indagatore della crisi sociale e morale
dell’epoca borghese, Broch ha intrecciato a questi temi anche una componente più
risolutamente metafisica, esprimendo la solitudine angosciata di fronte alla morte, l’ansia
d’infinito, la ricerca del divino.
Ebreo convertitosi al cattolicesimo, ma soprattutto intellettuale consapevole
dell’irrecuperabilità di certi beni perduti, Broch vuole in fondo trovare alcuni elementi
sostitutivi della fede, cercando in una sorta di nuova mitologia il medicamento necessario
ad un’età malata e prigioniera dell’oggettività. La narrativa sperimentale di Broch si fonda
su una strumentazione espressiva assai ricca in cui si alternano moduli di prosa
naturalistica e brani poetici d’alto lirismo, il dialogo drammatico e il saggio psicologico-
filosofico. Il superamento del romanzo avviene, infatti, secondo molteplici direttrici;
spesso Broch sembra studiare non tanto la realtà quanto le virtualità che sono implicite in
quel genere letterario e che segnano, al limite, la sua disgregazione. Densa di significati e
di riferimenti culturali, d’allusioni e di reminiscenze, di simmetrie interne e
d’amplificazioni (esemplari in questo senso l’immenso monologo interiore che costituisce
“la morte di Virgilio”), la narrativa di Broch è uno dei risultati più affascinanti e grandiosi
della letteratura del nostro secolo.

2.3. Il brano di Broch: la disgregazione dei valori

Questa la grande creazione dello spirito occidentale, fondata su una assolutizzazione del
particolare che sembra destinata a toccare l’assurdo in un processo di continuo
autosuperamento. A la guerre comme à la guerre, art pour l'art, business is business, il
fine politico giustifica i mezzi; queste formule significano tutte la stessa cosa e rivelano
tutte lo stesso aggressivo radicalismo; sono espressioni di quella sinistra, direi quasi
metafisica mancanza di riguardi, di quella crudele, rigorosa, incurante logicità che guarda
dritto davanti a sé, al fatto concreto e a nient'altro e che costituisce lo stile di pensiero della
nostra epoca!

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 83

Non ci si può sottrarre a questa logica brutale e aggressiva che erompe da tutti i valori e i
disvalori del nostro tempo, neppure rintanandosi nella solitudine di un castello o
nell'isolamento di una casa ebrea. Chi teme la verità, chi non vuole conoscere e riconoscere
la realtà (e quindi il romantico, l'uomo che tiene all'armonia e che cerca nostalgicamente
nel passato una armonica immagine del mondo) si volge - e a ragione - al Medioevo. Il
Medioevo ha infatti posseduto un ideale centro di valore, indispensabile per dare al mondo
una struttura unitaria; il Medioevo ha posseduto un valore superiore a cui si assoggettavano
e si subordinavano tutti gli altri valori: la fede nel Dio cristiano.
Da questo valore centrale dipendevano tanto la cosmogonia (che poteva addirittura
venirne scolasticamente dedotta) quanto l'uomo stesso. L'uomo e ogni sua attività
costituivano una frazione di quell'ordinamento del mondo che era soltanto un riflesso
speculare della gerarchia ecclesiastica, a sua volta riflesso, in sé compiuto e finito, di
un’armonia eterna e infinita.
[...]
Era un universo costituito sulla fede, un universo finalistico, non causale, un mondo che
si fondava esclusivamente sull'essere e non sul divenire. La sua struttura sociale, la sua
arte, i suoi vincoli sociali, insomma tutta la sua organizzazione dei valori, erano sottoposti
al valore onnicomprensivo della fede. La fede era il punto di plausibilità su cui finiva ogni
catena di problemi e la fede, impregnando di sé la logica, conferiva a quest'ultima quella
specifica coloritura, quel potere di creazione stilistica che si espresse non soltanto come
stile del pensiero ma anche (almeno fino a quando la fede sopravvisse) come stile
dell'epoca.
Ma il pensiero ha osato compiere il passo dalla concezione monoteista all'astrazione, e
dio, il dio personale e visibile della trinità, è divenuto qualcosa di cui non si può più
pronunciare il nome. Qualcosa di irrappresentabile. Esso è al tempo stesso asceso e
sprofondato nell’infinita neutralità dell'assoluto, svanito in un terribile essere che non è più
in quiete e resta inattingibile.
Il turbine del rovesciamento violento, provocato dal processo di radicalizzazione, anzi si
potrebbe dire dallo scatenamento del logico, questo ribaltamento del punto di plausibilità
su un nuovo piano infinito, questa cacciata della fede dal mondo, sottraggono all'essere il
suo carattere di statica immutabilità. […]

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 84

Dissolto l’essere in pura funzionalità, dissolta persino l'immagine fisica del mondo, e ad
un tale livello di astrazione che basteranno due generazioni per dissolvere anche il concetto
di spazio, la strada verso l'astrazione pura è ormai imboccata. Di fronte a questo orizzonte
infinitamente lontano, di fronte a questo punto irraggiungibile, noumenico, verso cui tende
e dovrà d'ora in poi tendere ogni catena di plausibilità e di problemi, diviene di colpo
impossibile collegare i singoli campi di valore ad un valore centrale. L’astratto penetra
inesorabilmente nella logica di ogni attività creatrice di valori; scarnificando i contenuti
esso non soltanto impedisce ogni deviazione della forma funzionale (si tratti della
funzionalità architettonica o di qualsiasi altra funzionalità) ma radicalizza anche le singole
sfere di valore. Fondate ormai soltanto su se stesse e proiettate nell'assoluto, queste si
separano l’una dall’altra, si dispongono su piani paralleli e non essendo in grado di formare
un comune corpus di valori divengono paritetiche. Così la sfera dei valori economici si
fonda ora sulla «attività commerciale in sé», si giustappone, estranea e ostile, a quella
artistica dell'art pour l'art; la sfera dei valori militari a quella dei valori tecnici o dei valori
sportivi. Ognuna di queste sfere è autonoma, ognuna è «in sé», ognuna è «scatenata» nella
sua autonomia, ognuna si sforza di tirare con estrema radicalità le conseguenze ultime della
sua logica interna e di battere tutti i propri records. E guai se in questa lotta tra le diverse
sfere dei valori l'equilibrio si rompe ed una di esse riesce ad emergere e ad avere il
sopravvento su tutte le altre (come proprio adesso, con la guerra, è riuscita a fare la sfera
dei valori militari, o come ha fatto la concezione economica del mondo cui anche la guerra
soggiace); guai, perché essa finisce per abbracciare il mondo e tutti gli altri valori e per
divorarli come uno sciame di cavallette che si posi su un campo.
L’uomo invece, un tempo immagine di Dio, specchio del valore-mondo di cui era
depositario, non è più nulla di tutto ciò. Può bensì conservare una oscura reminiscenza
della sicura posizione di un tempo e chiedersi quale logica superiore gli abbia sconvolto la
mente; in ogni caso è ormai stato gettato nell'abisso terribile dell’infinito e a nulla serve il
suo raccapriccio, a nulla valgono il suo romanticismo e la sua sentimentalità che lo
spingono talvolta a rifugiarsi nostalgicamente sotto la protezione della fede. Stordito e in
balia del meccanismo dei valori ormai divenuti autonomi non gli rimase che assoggettarsi a
quel valore singolo che è oggi la sua professione; non gli rimane che farsi funzione di
questo suo valore. L’uomo diventa così il professionista, divorato dalla logica radicale ed
esclusivista del valore su cui è caduto prigioniero. Broch, Disgregazione dei valori [1932]

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 85

2.4. Commento a Broch: la dissoluzione dei valori

Broch individua lo stile di pensiero della nostra epoca. La logica che costituisce tale stile
è fine a se stessa. Questa logica si basa sull’assolutizzazione e sull’astrazione.
Assolutizzare significa isolare un aspetto o una dimensione della società dandole un valore
assoluto. Col termine astrazione si suole indicare un aspetto o una parte di un tutto,
considerato isolatamente dal contesto che da ad esso un senso. Broch afferma che l’uomo
romantico si volge al medioevo, per sfuggire alla realtà e mantenere l’equilibrio e
l’armonia. Broch individua nel Medioevo un modello positivo rispetto alla nostra epoca. Il
Medioevo è una società dove i valori sono incentrati su un modello assoluto: Dio. Tale
società rappresenta ciò che abbiamo perduto, e ci aiuta a comprendere la crisi in cui è
vissuto Broch. Infatti l’umanità ha limitato la concezione di divinità, passando da un dio
personale ad una astrazione dell’assoluto resa in termini scientifici e matematici.
Questa astrazione di dio ha prodotto una serie di conseguenze, come sottrarre dall’essere
il carattere di statica immutabilità; quindi tutto cambia, non esistono punti di riferimento.
Nel frattempo viene alla luce la teoria della relatività, che annulla l’immagine del mondo
che si delineava precedentemente, e la sostituisce con una che suggerisce molteplici punti
di vista atti a comprenderlo. Senza troppi sforzi si cancellerà il concetto di spazio e di
tempo sul quale si basava l’esistenza.
Viene perduta l’unità della conoscenza e del valore, diviene impossibile ricondurre i
singoli campi di valore ad un valore assoluto e unico. Le singole sfere di valori divengono
autonome e reciprocamente inconfrontabili, ciascuna centrata unicamente su se stessa. In
tal modo viene perduta l’unità ed armonia del mondo del valore e della conoscenza e si
cade nel relativismo. Tali mondi di valore si confrontano e scontrano, ciascuno tendendo a
sopprimere e l’altro.
L’uomo, una volta immagine di dio, conserva solo un vago ricordo di ciò che era in
passato e può solamente chiedersi quale sia stata la forza che l’ha portato a questo
cambiamento. L’uomo si trova ora nell’abisso dell’infinito e ignora ciò che in passato lo
portava a rifugiarsi nella fede. Egli si sente in balia del meccanismo dei valori autonomi e
si assoggetta all’unico valore a lui concesso: la sua professione.
L’uomo è diventato quindi il professionista, immerso nella logica radicale ed esclusivista
di questo valore che lo rende prigioniero.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 86

3. JOHAN HUIZINGA

3.1. La Vita

Johan Huizinga è nato a Groninga il 7 dicembre del 1872 da un’agiata famiglia. Nella
città natale compì i suoi studi e dopo un breve periodo di perfezionamento in Germania, si
dedicò all’insegnamento universitario, finché non fu chiamato nel 1905 alla cattedra di
storia universale nella stessa Groninga. Nel 1915 passò all’università di Leida, dove
trascorse gran parte della sua vita di studioso. In un saggio autobiografico del 1943, “Mein
Weg zur Geschichte”, egli ci ha narrato il suo itinerario intellettuale che, dai giovanili
interessi prevalentemente filosofico-letterari per le civiltà orientali, lo condusse agli studi
storici rivolti soprattutto all’occidente medioevale. Il suo nome è infatti legato
principalmente al lavoro pubblicato a Leida nel 1919, “l’autunno del Medioevo”, dove con
potente suggestività tratteggia un vivace affresco della società borgognona tra il XIV e il
XV secolo, introducendo con originalità e finezza in un classico studio di
Kultrurgeschichte, problemi di storia e sensibilità. Già ispiratrice di questo lavoro, la sua
concezione della civiltà come “gioco”, “stile”, “convenzione”, che s’innalza al di sopra
della vita “ordinaria”, in un mondo fittizio eppure vivo dalle regole e dai limiti peculiari e
inviolabili, è stata esposta felicemente dallo storico olandese nel saggio “Homo ludens”.
La sua formazione intellettuale e le sue tendenze conservatrici non gli impedirono di
avvertire subito, fino dal 1933, il pericolo che il nazismo rappresentava per l’Europa e per
la civiltà, e gli scritti dei suoi ultimi anni sono spesso ispirati da questa preoccupazione che
gli dettava angosciosi interrogativi esposti nell’opera “Crisi della civiltà”. Nell’Europa
ormai in gran parte ottenebrata dal fascismo, questo libro poté costituire un grido d’allarme
lanciato da uno studioso di fama internazionale per ricordare il lavoro irrinunciabile della
libertà e della dignità umana. All’indomani dell’invasione tedesca della sua terra, Huizinga
celebrava fieramente l’anniversario dell’indipendenza olandese e della lotta di Guglielmo
D’Orange; veniva pertanto imprigionato dai nazisti e solo nel 1943 confinato come
ostaggio a De Steeg presso Arnhem. Qui morirà il primo febbraio 1943.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 87

3.2. Il pensiero

Huizinga intende la cultura essenzialmente come libera e indipendente: critica chi crede
nelle trasformazioni sociali in senso comunistico, critica gli avversari di queste;
critica chi crede nella restaurazione dei troni e degli altari; se la prende con il diritto
naturale, materialistico, e se la prende con l’atteggiamento reazionario di certi circoli
cattolici. Nulla lo soddisfa. Tutta la vita moderna, per Huizinga, imbarbarisce: barbarie la
pubblicità, barbarie la propaganda, barbarie la prevalenza dell’irrazionalismo politico e
dell’estremismo violento.
Lo sfondo storico immediato del libro di Huizinga, era dunque costituito dall’eredità e
dalla sopravvivenza della grande cultura di lingua tedesca, che va dal1870 al 1930
(all’incirca), ma già negli anni del dopoguerra, la crisi di quest’ideale cominciava a
mostrare i suoi segni.
Nella Crisi della civiltà, Huizinga scrive contro le degenerazioni di una cultura e di una
concezione della storia e della vita sociale che era pur sempre la sua, quella che era stata
alla base della sua formazione generale; quindi riesce a esprimere i sentimenti di un’epoca.
In questo caso di un’epoca che si sente perire, che avverte i sintomi della perdita delle
certezze, del tentennamento di valori acquisiti attraverso i secoli.
Per il liberale e razionalista Huizinga, la crisi non risiede nel predominio dei valori
utilitari su quelli vitali, né nel soffocamento da parte dell’intelletto di altre facoltà umane,
bensì nello squilibrio tra i valori spirituali e le acquisizioni materiali frutto del progresso
scientifico e tecnologico, nell’amoralità dello Stato, nello scatenarsi di particolarismi
nazionali e sociali, nel prevalere di valori irrazionali nella cultura, cioè nel prevalere di
elementi e valori vitalistici e irrazionalistici che egli giudica pericolosi.
Si tratta di un’opera che si muove chiaramente in direzione antifascista e soprattutto
antirazzista. Nel finale del suo libro, Huizinga sembra voler suggerire un’evocazione del
sospiro di sollievo dell’umanità europea occidentale, la mattina del primo gennaio
dell’anno di grazia 1001.
Con i suoi scritti Huizinga partecipò consapevolmente alla lotta contro il nazional-
socialismo razzista e per questo fu rinchiuso in un campo di concentramento: ma neppure
là tacque. Nel campo di concentramento, tuttavia, Huizinga non parlò più della civiltà e
della crisi della civiltà, ma della storia della sua patria e del suo paese, degli olandesi nel
momento in cui si costituirono come nazione contro forze apparentemente immani, e della

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 88

gran fioritura delle arti e delle scienze, in quella che sembrò un’esplosione di ricchezza, di
forza e di grandezza.
Nell’opera da cui è tratto il brano che abbiamo esaminato, Huizinga prende in
considerazione la civiltà europea e tende a concentrare questa civiltà nella cultura
dell’Europa tedesca, austriaca, svizzera, olandese e in parte anglo-francese del suo tempo.
Huizinga confronta la decadenza del suo tempo con quelle di altri periodi. Egli cerca di
individuare le condizioni fondamentali perché si possa parlare di civiltà o cultura, di
equilibrio tra valori spirituali e valori materiali; di equilibrio in genere fra religione,
cultura, politica (come forza), senso di carità, ideale educativo di una comunità, finalismo
etico (in vista della salvezza della comunità, ci si deve sacrificare), dominio sulla natura,
senso del dovere o addirittura timore di Dio, ideale del “servire”, “ascesi”, universalismo o
cosmopolitismo. Fra tutti questi elementi, Huizinga non inserisce quello della “fede nel
progresso”, anzi, polemizza esplicitamente contro l’idea di progresso, considerandola
problematica. Scrive, infatti, Huizinga: “non è affatto paradossale affermare che una
civiltà, con un “progresso” realissimo e innegabile, potrebbe arrivare alla sua rovina”.
I caratteri della crisi moderna sono per lui i seguenti: anzitutto, il raziocinio (o capacità di
ragionamento generale da parte del singolo) si è indebolito in conseguenza dell’estremo
sviluppo della scienza (fisica e naturale) che è arrivata ai limiti della capacità pensante
(individuale o di piccoli gruppi); così tramonta lo spirito critico, e la scienza viene
profanata o prostituita per infamie come il controllo sulle nascite, gli armamenti moderni e
le tecniche moderne di distruzione (mezzi chimici, guerra batteriologica). Tutto ciò ha
effetti peggiori in quanto, fra Marx, Freud, i razzisti e le filosofie vitalistiche ed
esistenzialistiche si perde, insomma, il timor di Dio e la reverenza per il ben dell’intelletto
e per le norme morali, tanto nella vita pubblica quanto nella vita privata. Al posto
dell’autocontrollo e della saggia temperanza e del lavoro quotidiano, subentrano il culto
dell’eroismo bruto, il ritorno alle superstizioni sotto forme nude e antiche, le
manifestazioni estetiche che si allontanano dalla ragione e dalla natura; viene meno quella
qualità misteriosa che si chiama stile, predomina l’irrazionalità. E il peggio, cioè il trionfo
e lo scatenamento di queste forze del male, non è ancora venuto: sta per arrivare e la sua
ombra fa rabbrividire.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 89

3.3. Il brano di Huizinga: nelle ombre del domani

Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo. Nessuno si stupirebbe se, un bel


giorno, questa nostra demenza sfociasse in una crisi di pazzia furiosa, che, calmatasi,
lascerebbe l'Europa ottusa e smarrita; i motori continuerebbero a ronzare e le bandiere a
sventolare, ma lo spirito sarebbe spento.
Dappertutto il dubbio intorno alla durevolezza del sistema sociale sotto cui viviamo;
un'ansia indefinita dell'immediato domani; il senso del decadimento e del tramonto della
civiltà.
Queste non sono soltanto angosce che ci colgono durante le insonnie notturne, quando è
bassa la fiamma vitale. Sono, anzi, meditate prospettive, fondate sulla constatazione dei
fatti e sul giudizio. La realtà c'incalza.
Vediamo distintamente come quasi tutte le cose. che altra volta ci apparivano salde e
sacre, si siano messe a vacillare: verità e umanità, ragione e diritto. Vediamo forme di
governo che non funzionano più, sistemi di produzione che agonizzano. Vediamo delle
forze sociali che assumono uno sviluppo ipertrofico. La rimbombante macchina di questo
nostro tempo formidabile sembra in procinto d'incepparsi. Insieme, si affaccia la tesi
opposta: non vi fu mai un'epoca in cui l'uomo sia stato così autorevolmente cosciente del
suo compito di collaborare al mantenimento e al perfezionamento del benessere terreno e
della cultura. Non mai, prima, il lavoro fu così in onore. Non mai l'uomo fu così disposto a
operare, a osare, e a sacrificare di continuo il proprio coraggio, la propria esistenza ad un
bene comune. Egli non ha perduto la speranza.
Se si vuole che questa civiltà si salvi, che non decada a secoli di barbarie, ma anzi,
salvando i supremi valori che sono il suo retaggio, trovi la via per giungere a nuova
saldezza, è necessario che gli uomini d'oggi si rendano esatto conto di quanto sia già
progredita la dissoluzione che li minaccia.
Solo da poco tempo la sensazione della minaccia di un tramonto e del progressivo
dissolversi della civiltà è diventata generale. Per la maggior parte degli individui, fu la crisi
economica che li colpì nel loro corpo (giacché la maggior parte degli individui è più
sensibile nel corpo che nello spirito!) a preparare il terreno a quest'ordine di idee.
Va da sé che la gente abituata a riflettere con spirito critico e sistematico intorno alla
società e alla civiltà, i filosofi e i sociologi, già da parecchio tempo si erano accorti che

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 90

nella vantata civiltà moderna c'era qualcosa che «non andava». Per loro già da prima è
chiaro che la dislocazione economica non è che uno dei sintomi di un processo culturale di
ben più ampio respiro.
Il primo decennio del Novecento fu appena sfiorato da qualche breve indistinta ansia per
l'avvenire della civiltà. Anche allora c'erano, come ci sono in ogni epoca, attriti e minacce,
scosse e timori. Ma, tranne forse il pericolo di una rivoluzione sociale che il marxismo
faceva balenare di tanto in tanto, questi non assumevano la forma di malattie che
minacciassero la compagine sociale [...]. Il tono fondamentale, nello stato d'animo delle
persone colte, era quello di una ferma fiducia che il mondo, dominato dalla razza bianca,
fosse avviato sulla giusta e larga via dell'armonia e del benessere, animato da sensi di
libertà e umanità, assicurato da un sapere e da una capacità che sembravano ormai avere
raggiunto il loro punto culminante. Armonia e benessere, sì, se la politica avesse
conservato il senno. Ma non fu così.
Neanche gli anni della guerra mondiale portarono a un cambiamento repentino. In quel
tempo, infatti, la tensione di tutti quanti si risolveva in quest'immediata preoccupazione:
portare a termine il compito con tutta la propria forza, e poi, quando la guerra fosse finita,
ricominciare tutto da capo, meglio di prima, anzi, finalmente bene! Anche i primi anni del
dopoguerra per molti trascorsero nell'attesa ottimistica di un benefico internazionalismo.
Quindi l'apparente fioritura dell'industria e del commercio, che doveva venire stroncata nel
1929, tenne indietro ancora per qualche anno l'universale pessimismo delle persone colte.
Oggi la coscienza di vivere in mezzo a una crisi di civiltà violenta, e che minaccia rovina,
è penetrata in tutti gli strati sociali. Il Tramonto dell'Occidente dello Spengler è stato in
tutto il mondo un segnale d'allarme. Questo non significa che tutti i lettori del famoso libro
si siano convertiti alle sue vedute. Esso però li ha familiarizzati col pensiero della
possibilità di un tramonto dell'odierna civiltà, mentre prima erano ancora involti in
un'indiscussa fede nel progresso.
Un ottimismo immutabile rispetto alle sorti della civiltà attualmente non si riscontra più
se non in quelli che, per mancanza di cognizioni, non possono capire che cosa le manchi, e
quindi sono intaccati essi stessi dal suo processo regressivo, oppure in quelli che nella
propria dottrina sociale o politica stimano di possedere già la civiltà futura, e di poterla fin
da ora diffondere in mezzo alla povera umanità.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 91

Fra un pessimismo convinto e la certezza di una prossima panacea stanno tutti quelli che
scorgono i gravi mali e gli acciacchi del tempo nostro, non sanno come vi si possa
rimediare od ovviare, ma intanto lavorano e sperano, cercano di capire e sono disposti a
sopportare.
Assai istruttivo sarebbe intanto di poter vedere espressa in una curva la rapidità con cui la
parola «progresso» è sparita dall'uso, in tutto il mondo. [ ... ]
Apparterrà l'avvenire a una progressiva meccanizzazione della convivenza, sulle lucide
rigide norme dell'esclusiva utilità e del potere?
Così lo vide Oswald Spengler, allorché pose come stadio finale di una civiltà sorpassata
il periodo della «civilizzazione», in cui tutti i precedenti valori organici e vitali sono stati
soppiantati dall'esatto governo dei mezzi di dominio e dall'esatto calcolo degli effetti
voluti. Che l'impiego di questi mezzi porti la società alla rovina, lascia freddo l'autore. Egli
è pessimista per sistema; e il tramonto è per lui l'ineluttabile destino di ogni civiltà.
Se si osserva più da vicino lo schema della cupa visione spengleriana, essa non manca di
inconsistenze, che sembrano distruggerne la validità anche dal suo stesso punto di vista. In
primo luogo, le norme della valutazione spengleriana delle azioni umane si rivelano
strettamente imparentate con una certa sensibilità romantica. I suoi concetti di
«grandezza», «volontà del più forte», «sani istinti», «santa gioia bellicosa», «eroismo
nordico», «cesarismo del mondo faustiano» hanno le loro radici in un terreno d'ingenuo
romanticismo. Inoltre mi pare evidente che la strada battuta dalla civiltà occidentale nei
diciassett'anni da che è uscita la Fine dell'Occidente non mostra per nulla il progresso del
tipo «civilizzazione» da lui abbozzato. La società, è vero, si è svolta in quel senso, cioè
secondo un calcolo tecnico sempre più acuto e freddo degli effetti desiderati; ma intanto il
tipo umano è diventato sempre più incontrollato e puerile, più pronto a reagire
violentemente ai sentimenti.
Non sono le aquile d'acciaio concepite dallo Spengler che ci reggono! Forse ci si
potrebbe esprimere così: il mondo attuale presenta l'aspetto della «civilizzazione»
spengleriana, più una buona misura di demenza, ciarlataneria e crudeltà, mescolate a una
sentimentalità ch'egli non previde. Poiché anche quella nobile «belva» che secondo lui è
l'uomo, avrebbe dovuto restare immune da tutte queste debolezze. […]
Tutto ben considerato, questa «civilizzazione» di Spengler, così come appare, legata a
elementi di ferocia e di inumanità, si ha parecchie buone ragioni per chiamarla piuttosto

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 92

barbarie. Dobbiamo intanto condividere il disperato fatalismo di Spengler? Non resta


proprio nessuna via di scampo?
Ci fornisce il passato qualche ragione di conforto? Se osserviamo i due millenni che ci
precedono, e vi distinguiamo quelle unità storiche cui si dà il nome di civiltà, subito
vediamo che i periodi del massimo fiorire sono sempre stati brevi.
Il tipico processo di crescenza, piena fioritura, decadimento - che quando finisce in un
luogo ricomincia poi altrove - si conchiude sempre in pochi secoli; e il pieno rigoglio, per
quel che ci è dato osservare, dura di regola intorno ai duecento anni. Per la civiltà ellenica
è il iv e v secolo avanti Cristo; per quella romana il secolo che precede l'era cristiana e il
primo di essa (qui, veramente, il limite può essere un po’ esteso); per la civiltà del
Rinascimento, che comprende anche l'età barocca, abbiamo il Cinquecento e il Seicento.
Per quanto vaghe e anche arbitrarie possano parere queste limitazioni, una cosa resta certa.
che i periodi specifici di piena fioritura non sono mai lunghi. Dobbiamo calcolare il
Settecento e l'Ottocento come l'era della civiltà moderna? In tal caso saremmo ormai alla
fine di questa civiltà a noi ben nota. O forse all’inizio di una nuova e ignota. Forse di una
civiltà il cui pieno sviluppo è ancora molto lontano. Giacché per le civiltà non vale la
formula: «il re è morto; viva il re».
La sensazione di avvicinarsi a un termine ci è ormai abbastanza familiare. Già l'abbiamo
detto: uno sviluppo perpetuo di questa civiltà non solo non possiamo immaginarcelo, ma a
stento possiamo pensare che ci arrecherebbe fortuna o miglioramento.
(J. Huizinga, La crisi della civiltà [1935], pp. 3-6, 142-44)

3.4. Il commento: la perdita del futuro

Con la crisi della civiltà (1936) Huizinga ha avvertito la crisi che minaccia la civiltà a lui
contemporanea e l’ha identificata nell’irrazionalismo della vita moderna. Le istanze
principali dalle quali si può dedurre la posizione dell’autore e i temi su cui si esercita la sua
polemica, sono i seguenti: quali sono le basi socio-culturali che hanno reso possibile la
dissoluzione progressiva della civiltà? Com’è stato possibile ignorare il fatto che il
progresso tecnologico e scientifico stesse minacciando le basi della convivenza civile?
Quali saranno le conseguenze future della meccanizzazione dei rapporti sociali? Può il
passato fornire esempi consistenti e modelli storici di conforto che permettano di superare

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 93

la crisi della civilizzazione (barbarie) moderna, evitando un decadimento perpetuo? La


civiltà moderna si avvicina al termine dei suoi giorni o forse si è vicini ad una svolta
epocale, la fondazione di una nuova civiltà il cui sviluppo si attuerà su basi solide e sempre
migliori?
Nell’individuazione delle cause della crisi violenta che ha coinvolto la civiltà, penetrando
tutti gli strati sociali durante il primo trentennio del Novecento, Huizinga propone
esplicitamente, interessanti critiche nei confronti dell’irrazionalità moderna.
Nell’esposizione dell’inevitabile decadimento della civiltà, per opera del progressivo
evolversi delle scienze e delle tecnologie del suo tempo, Huizinga polemizza contro il tipo
antropologico umano, promotore di una civilizzazione identificabile, essendo fortemente
impregnata di sentimenti, crudeltà, ferocia e inumanità, ad una vera e propria barbarie.
L’indebolimento dello spirito critico generale e del raziocinio, reso trascurabile, proprio
per l’inutilità del ragionamento del singolo, dallo sviluppo delle scienze, costituisce la base
che determina il trionfo di un ingenuo ottimismo e la crisi sociale moderna. La minaccia
del tramonto della civiltà moderna, satura di valori irrazionali è ormai avvertita a livello
generale.
Le conseguenze future sulla convivenza civile di questo stato di cose, saranno la perdita
della fiducia nel progresso e la scomparsa dell’ottimismo, il destino dell’individuo sarà
quello di subire la meccanizzazione della sua stessa esistenza, ridotta a freddo calcolo degli
effetti e, tuttavia, questa stessa esistenza appare a Huizinga suscettibile di repentine e
incontrollate esplosioni di violenza.
Neanche il passato può fornire elementi di conforto e modelli validi e duraturi nel tempo,
poiché i periodi di fioritura non sono stati mai lunghi e si sono conclusi con un inevitabile
decadimento.
Secondo questa logica, la civiltà moderna si avvia ormai alla conclusione; tuttavia il
processo di sviluppo di una civiltà se si arresta in un luogo, ricomincia comunque altrove,
ma è impossibile che prosegua perpetuamente, col tempo la civiltà andrà incontro ad un
nuovo e irreversibile tramonto.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 94

4. STEFAN ZWEIG

4.1. La Vita

Scrittore austriaco, nasce a Vienna nel 1881 e l’anno della sua morte risale al 1942 nella
lontana America del Sud a Petropolis, Rio de Janeiro. Di origini ebree, si stabilisce a
Zurigo allo scoppio della prima guerra mondiale, poiché maggiore era la libertà
d’espressione che in Austria; e proprio nella sua prima opera di rilievo, Jeremias (1917),
un dramma corale e fortemente antibellicista e su cui pesa l’influenza dell’amicizia stretta
in Svizzera con R. Rolland, che Zweig espresse la sua posizione pacifista, denunciando con
veemenza la follia della guerra. Al termine del conflitto, lo scrittore si trasferì a Salisburgo
e si dedicò soprattutto alla stesura di biografie o saggi (Drei Meister, dedicato a Balzac,
Dickens, Dostoevskij; Der Kampf mit dem Damon, elogiando le personalità di Holderin,
Nietzsche e Kleist) Tutti si distinguono per l’acuta introspezione psicologica e per lo stile
accattivante che ne rende la lettura piacevole, e lo resero celebre più dei romanzi e delle
seducenti opere narrative, tra le quali, pubblicate, ricordiamo: Amok (1922) e Verwirrung
der Gefuhle (1927). L’ascesa poi del Nazismo e dell’Antisemitismo in Germania, costrinse
Zweig, per l’impronta chiaramente semita, a emigrare in Inghilterra nel 1924 e
successivamente negli Stati Uniti nel 1940, per stabilirsi poi definitivamente in Brasile nel
1941. Ivi si uccise insieme con la moglie, più per stanchezza che non per disperazione, non
resistendo al dolore per la distruzione della sua “patria spirituale Europa”. Appartengono
all’ultimo periodo letterario le notissime biografie romanzate Erasmus von Rotterdam
(1934) e Marie Antoinette (1932), nonché l’opera di rievocazione storico-autobiografica
Die Welt von Gestern (1941).
Guardando complessivamente agli intendimenti stilistici dell’autore, la sua intera
indagine storico-psicologica indugia compiaciuta nel passato, per scoprirvi quello che vi
fosse di più morbosamente moderno e attuale; e l’origine viennese, il suo ebraismo, la
raffinata educazione, contribuirono molto a creare quell’atmosfera d’intellettualità
cosmopolita, spregiudicata e aperta ad ogni influsso, in cui si muovono le tematiche
profondamente storico-sociali di quasi tutta la sua autentica produzione letteraria.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 95

4.2. Il Pensiero

Le opere di Zweig si prospettano come il più grande successo letterario degli anni ’20,
seppure la sua fama riguarda soprattutto gli approfondimenti sociologici ricercati nelle sue
stesse intenzioni di scrittore, che prediligono in primo luogo la divulgazione sistematica,
benché ancora lirico-intimistica, delle teorie psicoanalitiche proposte da Freud. Lo stile è
brillante e sempre facile, e ciò gli valse il ruolo di autore prediletto della vastissima massa
di lettori semicolti desiderosi di completare e specialmente di aggiornare la loro cultura.
L’aspetto comunque migliore dell’autore è il suo deciso seppure non troppo ostentato
europeismo e pacifismo; benché nella storia della letteratura Zweig viene ricordato come lo
scrittore che vi introdusse la psicoanalisi. Non si può comunque dire che Zweig valorizzi
sul piano del linguaggio o dello stile la tecnica interpretativa di Freud. Il lavoro letterario di
Zweig presenta infatti una pienezza e duttilità della parola unite ad una tecnica espositiva
molto disciplinata che conferisce un tono in complesso assai corretto della conversazione.
Appellandosi comunque alle analisi teoriche condotte da Freud e alle novità introdotte
riguardo alla sessualità, egli non si esime dall’affrontare in alcuni suoi racconti, problemi
erotici assai scabrosi, problemi che non sfiorano l’anima di adolescenti ignari, ma
sconvolgono quella di adulti. Il primo dopoguerra rappresenta una fase letteraria di
transizione per l’autore in cui compare ancora quel tono limpido, tenue e scorrevole che
era oramai anacronistico, tipico dell’anteguerra, che pure piacque perché permetteva al
lettore di passare, per così dire, la spugna su tutte le esperienze posteriori al 1914; e che
venne sistematicamente sostituito da una produzione narrativa storica, molto più legata ai
problemi sociali e alla crisi che aveva sconvolto il mondo in cui viveva e operava e che si
proponeva appunto una denuncia, a volte velata a volte marcata e diretta, dell’instabile
equilibrio del mondo moderno. Il racconto è svolto cioè in una forma del tutto diversa:
Zweig sostiene che la storia assume nel suo svolgimento forme diversissime ed
imprevedibili, sicché essa, nei momenti decisivi delude chi di quel momento si illude di
essere l’eroe. Con la delusione dell’eroe del racconto, il lettore dunque si illude di aver
capito il senso della storia, mentre non capisce che Zweig nella storia, non è più capace di
trovare più alcun senso. Il lettore disattento però, non si accorge del circolo vizioso e
dell’intento prettamente sociale dello scrittore; in compenso è soddisfatto, perché crede di
aver capito tutto bene e si convince anche di essere capace di comprendere senza grande
sforzo cose molto difficili. La critica storica, che dunque Zweig porta avanti nelle opere del

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 96

dopoguerra troverà il suo apice in “Die Welt von Gestern” (1942) in cui la narrazione è
tutta imperniata sull’inconciliabile differenza tra Ieri e Oggi.

4.3. Il brano di Zweig: la fine dell'« età d'oro della sicurezza »

Si fra il nostro oggi, il nostro ieri ed il nostro altroieri tutti i ponti sono crollati. Io stesso
debbo stupire rievocando la quantità e la molteplicità di vita per noi compressa nel breve
spazio di un'unica esistenza, sia pure incomoda e pericolosa; e tanto più mi stupisco se la
paragono al modo di vivere dei miei predecessori. Che cosa hanno veduto mio padre, mio
nonno? Ciascuno di essi ha vissuto un'unica volta, un'unica esistenza dal principio alla fine,
senza vette e senza cadute, senza scosse né pericoli; una vita di piccole emozioni, di
inavvertiti passaggi; l'ondata del tempo li ha portati con ritmo regolare, tacito e calmo,
dalla culla alla tomba. Han vissuto sempre nello stesso paese, nella stessa città e quasi
sempre persino nella stessa casa; quel che accadeva fuori nel mondo non si svolgeva in
fondo che nel giornale e non batteva alla loro porta. Ai tempi loro in qualche punto del
mondo si combatté bensì una guerra, ma, commisurata alle dimensioni odierne, era una
guerricciuola, si svolgeva lontano dai confini, non si sentivano le cannonate e dopo sei
mesi tutto era finito, dimenticato, ridotto foglia secca della storia, mentre già riprendeva la
solita monotona vita. Noi invece tutto sperimentammo senza ritorno, nulla restò del
passato, nulla si ripete; a noi toccò il privilegio di partecipare al massimo a ciò che la storia
suole suddividere con parsimonia su un paese e su di un secolo. Una generazione aveva
tutt'al più fatta una rivoluzione, un'altra una sommossa, la terza una guerra, la quarta aveva
subìto una carestia, la quinta un fallimento dello Stato, e vi erano persino dei paesi
benedetti, delle generazioni fortunate, che nulla di tutto questo avevan conosciuto. Ma noi,
che abbiamo oggi sessant'anni e che de iure avremmo ancora un certo tempo da vivere, che
cosa non abbiamo veduto, non sofferto? Abbiamo percorso da cima a fondo il catalogo di
tutte le catastrofi pensabili - e non siamo giunti ancora all'ultima pagina. [...]
D'altra parte, quasi per paradosso, nello stesso periodo in cui il nostro mondo regrediva
moralmente di un millennio, ho veduto la stessa umanità raggiungere mete inconcepite nel
campo tecnico ed intellettuale, superando in un attimo quanto era stato fatto in milioni di
anni. La conquista dell'aria con l'aeroplano, la trasmissione della parola umana nello stesso
secondo per tutto l'universo, cioè il superamento dello spazio, la disgregazione dell'atomo,
la guarigione delle più subdole infermità, la quasi quotidiana attuazione insomma di quanto

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 97

era ieri ancora inattuabile. Mai prima d'oggi l'umanità nel suo insieme si è comportata più
satanicamente e non mai d'altra parte ha compiuto opere così prossime a Dio. [...]
Per la nostra generazione non ci fu modo, come per le precedenti, di esimersi, di trarsi in
disparte; in grazia della nuova ed organizzata contemporaneità, noi fummo sempre legati al
nostro tempo. […]
Di continuo bisognava subordinarsi alle esigenze dello Stato, farsi preda della più stolta
politica, adattarsi ai mutamenti più inauditi; eravamo sempre incatenati alla sorte comune;
per quanto ci si difendesse, questa ci portava irresistibilmente con sé. Chi dunque ha
percorso, o meglio è stato rincorso ed incalzato attraverso quest'epoca - ben poche pause ci
furon concesse! - ha vissuto più storia di qualunque dei suoi avi. Anche oggi siamo di
nuovo a una svolta, ad una conclusione e ad un inizio. Non senza intenzione dunque io
lascio per ora che questo sguardo retrospettivo alla mia vita si chiuda con una data precisa.
Quel settembre 1939 segna infatti il limite definitivo dell'epoca che ha plasmato ed educato
noi sessantenni. Se però con la nostra testimonianza tramanderemo alla generazione futura
anche soltanto una scheggia di verità, non avremo lavorato invano. Se tento di trovare una
formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima guerra mondiale, il tempo
in cui son cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l'età d'oro della
sicurezza. Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo
Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità. […]
Ogni atto radicale ed ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della ragione.
Questo senso della sicurezza era il possesso più ambito, l'ideale comune di milioni e
milioni. [...]
In questa commovente fiducia, di poter chiudere anche l'ultima falla all'irrompere della
sorte, c'era, malgrado l'apparente austerità e modestia nel concepire la vita, una
presunzione pericolosa. L'Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi
sulla via diritta ed infallibile verso «il migliore dei mondi possibili». Guardava con
dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero state
tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece
non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del
tutto superate. Tale fede in un «progresso» ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell'età la
forza di una religione; si credeva in quel progresso già più che nella Bibbia ed il suo
vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli. della scienza

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 98

e della tecnica. In realtà, sulla fine di questo secolo di pace l'ascesa generale si fece sempre
più rapida e molteplice. Nelle strade splendevano di notte al posto delle tremolanti lanterne
le lampade elettriche, i negozi portavano dalle vie centrali sino alla periferia il loro
splendore seducente; già in grazia del telefono si poteva comunicare da lontano, già si
poteva correre nei carri senza cavalli con velocità impensate, già l'uomo si lanciava
nell'aria attuando il sogno di Icaro. Le comodità della vita passarono dalle dimore signorili
a quelle borghesi; non si dovette più attingere l'acqua dal pozzo o dal ballatoio, non più
accendere con pena il fornello: si diffondeva l'igiene, spariva la sporcizia. Gli uomini
diventavano più belli, più sani, più forti da quando lo sport ne irrobustiva il corpo e sempre
più raramente si vedevano deformi, gozzuti, mutilati: tutti questi miracoli erano stati
compiuti dalla scienza, arcangelo del progresso. Anche nel campo sociale si andava avanti;
di anno in anno venivano concessi nuovi diritti all'individuo, la giustizia veniva
amministrata con maggiore senso umanitario e persino il problema dei problemi, la povertà
delle masse, non appariva più insuperabile. Il diritto di voto venne concesso ad una cerchia
sempre più vasta e con ciò anche la possibilità di difendere legalmente i propri interessi;
sociologi e professori andavano a gara nello sforzo di rendere più sana e persino più felice
l'esistenza del proletariato. Come stupirsi che il secolo si compiacesse dell'opera propria e
vedesse in ogni nuovo decennio solo un gradino verso un decennio migliore? Non si
temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva
più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede
nell'irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le
divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi,
in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni
supremi. Oggi, per noi che abbiamo da un pezzo cancellato dal nostro vocabolario la parola
«sicurezza», è facile deridere l'illusione ottimistica di quella generazione accecata dal suo
idealismo: illusione che il progresso tecnico dovesse immancabilmente avere per effetto un
non meno rapido miglioramento morale. Noi che nel nuovo secolo abbiamo imparato a non
lasciarci più sorprendere da alcuno scoppio di bestialità collettiva, noi che dal domani
aspettiamo ancor più atroci eventi che dall'ieri, siamo ben più scettici circa la perfettibilità
morale degli uomini. Noi fummo costretti a dar ragione a Freud, allorché egli riconobbe
nella nostra cultura e nella nostra civiltà solamente un sottile diaframma, che ad ogni
momento può essere sfondato dagli impulsi distruttivi del mondo sotterraneo, e noi

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 99

abbiamo dovuto a poco a poco abituarci a vivere senza un saldo terreno sotto i piedi, senza
diritti, senza libertà, senza sicurezza. Da un pezzo abbiamo rinnegato per la nostra
esistenza la religione dei nostri padri, la loro fede in un’ascesa rapida e perenne
dell'umanità. A noi, così crudelmente illuminati, quell'ottimismo frettoloso appare banale
di fronte ad una catastrofe, che con un solo colpo ci ha rigettato indietro di un millennio
sulla via degli sforzi umanitari.
Il brano è tratto da “il mondo do ieri” (1914)

4.4. Commento al brano di Zweig: l’età contemporanea come età della crisi

Nel testo è presente un insistente confronto tra il mondo, l’esistenza dei contemporanei di
Zweig ed i suoi predecessori.
Si è creata una rottura insanabile della continuità tra passato, presente e futuro, ciò
significa una perdita totale sia dell’identità che delle radici della società e del singolo
individuo.
La loro esistenza deriva dal passato, dall’evoluzione del tempo e dalla tradizione, senza di
questo, niente ha senso.
Le generazioni passate hanno vissuto in tempi tranquilli, senza cambiamenti ne scosse
tanto eclatanti da provocare degli effetti duraturi. Il ritmo calmo del tempo li ha portati alla
fine dei loro giorni. Le generazioni “contemporanee” hanno invece vissuto in un era in cui
una sola esistenza comprendeva tutta la storia di un secolo: prima e seconda guerra
mondiale, crisi del ‘29 con carestie ed inflazioni. Questi eventi catastrofici hanno
cancellato il passato, tutto in cui credevamo, tutto ciò che erano i loro punti di riferimento
per poter andare avanti ed “ancora non siamo arrivati all’ultima pagina”. Da ciò si afferra
l’impatto psicologico che le guerre hanno causato: annientate, disorientate ed è molto
importante per la comprensione dell’autore perché egli si suicidò, convinto che la vittoria
fosse in mano a Hitler. Nello stesso periodo in cui la moralità era piuttosto regredità, al
scienza e la tecnica raggiungono livelli inauditi con l’aereo o il telefono; ma generalmente
l’umanità è satanica nonostante abbia compiuto delle opere così “prossime a Dio”.

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Parte Terza: La morte di dio e il crollo dei valori 100

La generazione di Zweig fu sicuramente legata al suo tempo, senza potersi ritrarre, e di


continuo dovette subordinarsi allo stato ed adeguarsi ai cambiamenti più assurdi. Con il
1939, e lo scoppio del secondo conflitto mondiale, crollò tutta l’educazione classica e
crollò il mondo che plasmò quelle generazioni che vissero la storia dei loro avi. Ma se la
loro testimonianza servirà a lasciare ai posteri almeno una scheggia di verità, le sofferenze
patite non crede più in niente e si accontenta di una piccola scheggia di verità; l’illusione
del progresso della “belle époque”, dell’età dell’oro della sicurezza scompare per far
spazio all’insicurezza e allo smarrimento. La sicurezza si delineava come il processo più
prezioso.
L’ottocento fu un periodo caratterizzato da aperta fiducia nel progresso e nella tecnica,
dall’illusione che assieme al progresso ed alla crescita materiale si sarebbe affiancata anche
una crescita spirituale, ma fu solo un illusione per coloro che sempre, disprezzarono il
passato.
Il progresso tecnico e sociale (inteso come accrescimento di tutti i diritti dell’individuo),
fu tale che i padri dei contemporanei si illusero che il futuro fosse più felice per tutte le
persone che avrebbero vissuto il secolo nuovo, ma questa fu solo un illusione.
Nel periodo in cui la parola “sicurezza” è stata cancellata, è semplice deridere
l’ottimismo di quella generazione accecata dall’idealismo; convinta che il progresso
dovesse portare anche un rapido miglioramento morale. Le generazioni “contemporanee”
non si lasciano sorprendere dagli scoppi di brutalità, perché aspettano eventi ancora più
atroci dei giorni futuri.
Essi dovettero concordare con Freud quando egli disse che “la nostra civiltà è un
diaframma molto sottile che può essere sfondato da degli impulsi distruttivi” che peraltro
le hanno scaraventate indietro di un millennio. L’ottimismo passato appare così banale
davanti ad una catastrofe simile che i contemporanei hanno dovuto saper adattarsi, pur non
riuscendoci completamente.

(S. Zweig, Il Mondo di ieri [1941], pp. 11-18)

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 101

Parte Quarta

Kultur e Zivilisation

1. PREMESSA: IL TRAMONTO DELL’OCCIDENTE

Nel 1918 esce il primo volume del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler13.
L’anno in cui si chiude la prima guerra mondiale, viene a coincidere con la pubblicazione
dell’opera che segnerà l’avvio del dibattito sulla crisi della civiltà. La fine del conflitto
viene così a coincidere con il diffondersi dell’annuncio della fine della civiltà occidentale.
La principale argomentazione che in questo lavoro abbiamo inteso sostenere è ben
esemplificata da questa coincidenza: fu la traumatica esperienza della guerra mondiale che
produsse la consapevolezza di una frattura nello sviluppo della storia occidentale, dopo tale
evento si guarda al recente passato dell’anteguerra, come a un mondo di irrimediabilmente
perduto. In realtà non fu la guerra a determinare il crollo del mondo ottocentesco e dei suoi
ideali, ma fu essa a risvegliare la cultura europea, ma anche parte dell’opinione pubblica,
dalle illusioni del secolo XIX.
L’opera di Spengler ebbe larga diffusione, tutti i temi che abbiamo finora trattato sono in
essa contenuti e l’approccio spengleriano costituirà un termine di riferimento obbligato in
tutta la “letteratura della crisi”. I temi della tecnica, del nichilismo, della decadenza,
dell’irruzione delle masse nella storia, del disfacimento dei valori e del prevalere del
razionalismo sulla forza vitale, sono tutti presenti nel lavoro di Spengler e danno luogo ad

13
O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes, il secondo volume uscirà nel 1922.

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 102

una nuova filosofia della storia entro la quale viene anche affrontato il problema del
destino dell’occidente.

1.1. La filosofia della storia di Spengler

Abbandonata, perché riduttiva e irrealistica, la filosofia che concepisce la storia come una
totalità processuale unilineare, finalisticamente orientata al perseguimento di fini assoluti –
la libertà, il progresso, la rivoluzione, il benessere – Spengler propone un’analisi
comparativa della storia delle civiltà, fondata su alcuni concetti chiave: l’organicismo, la
ciclicità del tempo storico, il relativismo culturale.
La filosofia della storia di Spengler è costruita sull’opposizione tra la vita, intesa come
creatività infinita e che trascende ogni concettualizzazione propria della razionalità
scientifica, e le forme cui essa da luogo, in cui tale forza vitale si oggettiva. Il rapporto tra
vita e forme è il rapporto tra il divenire e ciò che è divenuto, le forme tendono, infatti, a
separarsi dalla vita e fissarsi in rigide strutture sempre più lontane da quella forza che le
aveva generate. Scopo di Spengler è quello di costruire una morfologia della storia
universale, ma, a tale scopo, la logica meccanica, propria delle scienze naturali, risulta
inutilizzabile. Lo sforzo di Spengler è quello di individuare ed utilizzare una logica
organica, il modello esplicativo, che per Spengler ha anche un valore ontologico, è dunque
quello organicistico: le culture sono organismi viventi e come tali vanno studiate.
Oggetto dell’analisi spengleriana è, dunque, il ciclo vitale delle culture, in quanto
organismi viventi esse nascono, realizzano le potenzialità implicite nella loro natura,
quindi si avviano alla decadenza ed alla morte. A tale importante tesi risulta
complementare l’altra secondo cui ogni cultura è un unicum irripetibile. Ogni cultura è
generata entro una determinata situazione vitale, razziale e ambientale, fa riferimento ad un
nucleo di valori che ne costituiscono l’essenza. Non vi è nessuna possibilità di comparare
culture diverse, esse sono irriducibili e incommensurabili. Vengono meno due
fondamentali premesse proprie delle filosofie della storia di matrice ottocentesca: l’idea
della storia come sviluppo unilineare illimitato e positivo e l’idea di una storia universale
di cui la civiltà occidentale costituisse il motore. La prospettiva storica di Spengler è
totalmente altra rispetto a quelle di derivazione romantica, idealista, marxista e positivista
che avevano dominato nel corso del secolo precedente e tale alterità tocca due punti

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essenziali, che definivano i fondamenti stessi dell’idea dell’occidente e del suo destino:
l’universalità del tempo storico e il progresso come finalità della dinamica storica.
Universalità e unilinearità, sono, secondo l’autore tedesco, gli errori originari da cui nasce
l’incapacità della cultura occidentale di comprendere il senso della storia e il destino dello
stesso occidente. Non si può ridurre la ricchezza del divenire storico allo svolgersi di
un’unica linea di sviluppo entro un contesto universalistico. Scopo di Spengler è quindi
quello di partire dall’irriducibile molteplicità delle culture, ciascuna delle quali risulta
comprensibile solo in riferimento ai propri valori ed alla propria origine, per studiare il
ciclo vitale che tutte le culture attraversano. La sola possibilità di sottoporre ad un esame
generale le diverse culture, consiste nell’esaminare le fasi vitali che tutte le culture,
attraversano, tutti gli organismi viventi, nonostante le loro differenze, hanno in comune le
fasi del ciclo vitale: nascita, maturazione e morte, tale ciclo s’impone come una necessità
in quanto è proprio del metabolismo di ogni cultura.
Vi è dunque una duplice tendenza all’opera nella filosofia della storia di Spengler, alla
generalizzazione della morfologia della storia universale – che classifica le culture secondo
le varie fasi del loro ciclo vitale, uguali in ciascuna di esse, si contrappone
un’individualizzazione che tende a relativizzare ogni cultura alla sua organizzazione vitale
e simbolica interna.
Da questo breve esame della concezione spengleriana della storia si possono trarre due
conclusioni utili alla nostra analisi. In primo luogo l’abbandono dell’idea di una storia
universale unilineare e progressiva; questa tesi costituirà la necessaria premessa negativa
dell’intero dibattito sulla crisi dell’occidente in quanto segna il definitivo abbandono del
modello stesso di civiltà e di storia che aveva dominato nel secolo precedente. In secondo
luogo assume un rilievo enorme la tesi spengleriana che le culture muoiono per intrinseca
necessità inerente alla loro stessa natura: le culture sono mortali e la morte di una cultura
non costituisce un evento eccezionale e fuori dalla norma, imputabile ad agenti esterni a
quella stessa cultura, ma è il comune destino di tutte le innumerevoli culture che si sono
succedute nella storia. La scomparsa di intere e complesse culture non era certo una novità,
la storia forniva innumerevoli esempi di civiltà scomparse, la novità contenuta nella tesi di
Spengler è che la morte delle culture non andava imputata a fattori esogeni, all’irrompere
di forze estranee a una data cultura e che ne producevano la decadenza e la morte, nuova in
Spengler è l’idea che le culture muoiano per fattori interni inscritti nel loro stesso

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 104

metabolismo, le culture scompaiono perché questo è il loro normale destino, comune a tutti
gli esseri viventi. Quest’idea, da molti accettata e da altri respinta, costituirà, comunque, il
nucleo problematico centrale della discussione sulla crisi della civiltà occidentale che si
svilupperà nell’intervallo tra i due conflitti mondiali.

1.2. La decadenza delle civiltà: Kultur e Civilisation

Il tema della decadenza e morte delle culture viene affrontato da Spengler attraverso la
contrapposizione di due concetti fondamentali nella sua concezione della storia: quelli di
Kultur e Zivilisation: “Il tramonto dell’Occidente significa nulla di meno che il problema
stesso della civilizzazione”.14
Prima di ricostruire la concezione spengleriana del tramonto dell’occidente, è necessario
ricordare brevemente la storia che i concetti di Kultur e Zivilisation ebbero nella cultura
tedesca. Con la rivoluzione del 1789 e il progetto espansionistico napoleonico che mirava
ad esportare il modello rivoluzionario fuori dalla Francia, si era prodotta nella cultura
tedesca una forte reazione antifrancese tesa a difendere, in antitesi al modello politico e
culturale francese, l’identità tedesca. Col termine di civilizzazione ci si riferiva alle idee
illuministiche, alla fiducia nella ragione e nella scienza, ad una concezione ottimistica
dell’uomo e della storia, al cosmopolitismo tipico dell’età dei lumi. La civilizzazione era
l’attuazione di un progetto fondato sull’idea che l’uomo fosse libero artefice della storia, la
ragione scientifica fosse il suo strumento per plasmare la storia e la società, la
realizzazione del benessere materiale e delle idee d’uguaglianza e libertà fossero lo scopo
dell’intero progetto. Alla Civilisation francese, gli intellettuali tedeschi contrapponevano la
Kultur tedesca fondata su una concezione pessimistica della natura umana e su una visione
tragica dell’esistenza, intesa come lotta per imporre un senso al caos. In tale concezione
assumevano un valore fondamentale la religione, il genio creativo, l’immaginazione
superiore, l’irrazionalità e i valori vitalistici, inoltre prevaleva una visione della società
fondata non sull’individuo e i suoi diritti, ma sulla comunità considerata come una totalità
unita da vincoli di sangue, lingua e cultura.
Spengler, riprendendo questi concetti, li rielabora, inserendoli nella sua concezione della
storia. La civilizzazione rappresenta la fase finale della vita di una civiltà, se la Kultur
costituisce la realizzazione del progetto vitale sotteso ad ogni civiltà, “la civilizzazione è
14
Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Longanesi, Milano, 1970, p. 78.

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l’inevitabile destino di una civiltà”15, il suo momento conclusivo che ne precede la


scomparsa. Ogni civiltà viene generata dalla forza creativa della vita che si contrappone al
caos imponendo ad esso un proprio progetto, una propria idea. La storia successiva di ogni
civiltà è la realizzazione di tutte le potenzialità in essa contenute, il suo sviluppo è il
dispiegarsi delle sue possibilità nel tempo fino al loro compimento. Subentra allora il
decadimento, perché la civiltà ha esaurito la propria forza vitale e le forme da essa create si
irrigidiscono: questa fase di irrigidimento, che precede la morte di una civiltà, è definita da
Spengler civilizzazione.
Secondo la diagnosi di Spengler, tutti i sintomi che l’Occidente abbia imboccato la via
della civilizzazione, sono presenti già nel XIX secolo che costituisce il momento cruciale
della svolta in cui l’Europa passa dalla fase della civiltà a quella della civilizzazione:
“Civiltà e civilizzazione sono come il corpo vivo di un’anima e la sua mummia. In tali
termini si distingue l’esistenza euro-occidentale di prima e dopo il diciannovesimo secolo
…”16.
La Kultur si fonda sull’originario rapporto tra la forza creativa di un popolo e il suo
ambiente naturale in cui esso è radicato, secondo il binomio di sangue e suolo. Inoltre la
Kultur vive nella tradizione e nella sua forza che fornisce un sistema globale e unitario,
costituente l’identità propria della civiltà e veicolato dalla religione, dai miti, dalla lingua.
Nella civilizzazione si attua, invece, lo sradicamento della civiltà dal suolo e dalla
tradizione, ciò è ben rappresentato dall’uomo-massa che vive nella città e che ha perduto il
legame con il proprio ambiente originario e la propria tradizione: “invece di un popolo
formato, legato alla sua terra, un nuovo nomade, un parassita, l’abitante delle grandi città,
il puro uomo pratico senza tradizione, ripreso in una massa informe e fluttuante, l’uomo
irreligioso, intelligente, infecondo, …”17.
L’altra fondamentale caratteristica distintiva della civilizzazione è il prevalere del pensare
sull’agire, mentre la Kultur si caratterizza per la spontaneità e la forza dell’agire, la
civilizzazione si presenta come paralizzata dalla forza problematizzante del pensiero
razionale che frena l’azione e la snatura, in questo modo la capacità creativa, grazie alla
quale la civiltà cresce, viene perduta e subentra la paralisi dell’intelletto raziocinante. Il
mondo della civilizzazione è dunque quel mondo della massificazione, del dominio della

15
Spengler, Ibidem, p. 80.
16
Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 194.
17
Spengler, Ibidem, p. 195.

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 106

scienza e della tecnica, della perdita dell’identità, che è stato descritto nelle sezioni
precedenti di questa antologia. Il contributo di Spengler fu quello di fornire una sintesi
unificante di tutti questi elementi entro un quadro concettuale alternativo a quello
tradizionale.
Per illustrare il contrasto tra Kultur e Zivilisation ci siamo serviti di alcune tra le pagine
più significative del romanzo di Thomas Mann “La montagna incantata”, in cui il tema
della decadenza della civiltà occidentale, visto attraverso la metafora della malattia, è al
centro dell’intreccio. Il conflitto tra Naphta e Settembrini, due tra principali protagonisti
del romanzo, è il conflitto tra due contrapposte concezioni della civiltà e della storia e se
Settembrini è portatore del progetto positivista, Naphta appare invece il sostenitore della
Kultur, interprete delle tesi di Spengler sulla decadenza dell’Occidente che ha intrapreso la
strada della massificazione e del dominio della tecnica.
Per completare il quadro di quest’ultima sezione abbiamo scelto un brano dello scrittore
francese Roman Rolland, che si fa portavoce degli ideali di progresso e cosmopolitismo
propri della civilizzazione.
Abbiamo concluso la sezione con un breve brano dello scrittore ed intellettuale francese
Julien Benda, tale brano c’è sembrato particolarmente indicativo perché Benda, pur
muovendosi nell’orizzonte culturale della Civilisation e partendo quindi da premesse ben
diverse rispetto a quelle di Spengler e anche di Mann, giunge a conclusioni altrettanto
pessimistiche sul futuro dell’Occidente che vede incerto e problematico. L’interesse degli
ultimi due brani è dato dal fatto che i termini dell’analisi appaiono rovesciati: l’Occidente
corre verso la sua distruzione a causa dell’irrompere di una nuova barbarie che ha messo
fuori gioco i valori della civilizzazione: pacifismo, cosmopolitismo, progresso, sono stati
spazzati via dal ritorno di una mentalità fondata sull’irrazionalità, il prevalere della volontà
di dominio e di potenza. Insomma, in Benda e Rolland, la malattia non è la civilizzazione,
ma la Kultur.

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2. SPENGLER

2.1. La Vita e il pensiero

Oswald Spengler (Blankenburg am Harz 1880 – Monaco 1936), oltre ad essere uno fra i
più importanti filosofi dell’epoca, fu anche uno studioso di matematica, scienze naturali ed
economia politica. Nel 1918 e 1922 apparvero le due parti della sua opera principale, “Der
Untergang des Abendlandes”, che ottenne subito un enorme successo di pubblico.
In seguito Spengler pubblicò numerosi saggi politici, raccolti in volume nel 1932, in cui
attaccò la Repubblica di Weimar difendendo posizioni conservatrici.
Per un certo periodo giudicò positivamente anche il nazismo. Nel 1931 pubblicò inoltre
l’opuscolo “L’uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita”; dopo la sua morte
apparvero vari volumi di discorsi, frammenti e lettere. Spengler irrigidì in una dualità
metafisica l’oggettiva differenza tra la natura e la storia, viste come due realtà
incommensurabili. La natura è secondo Spengler, il regno dell’inerte ma in particolar
modo, il mondo del divenuto, in altre parole ciò che è stato prodotto dalla vita, staccandosi
poi dalla vita stessa.
E’ quindi il dominio della “cieca necessità causale”, nonché dell’anonima uniformità e
ripetizione”, ossia ciò che può essere espresso tramite le formule matematiche e della
scienza in genere.
La storia è invece il “vitale divenire” ossia il regno della vita che crea incessantemente
nuove forme. Nella storia vale, quindi, la necessità organica che è propria di ciò che si
manifesta in modo unico ed irripetibile. Di conseguenza, l’unica logica capace di penetrare
la natura è quella organica che trova il suo strumento nella esperienza vissuta, ciò che
Spengler chiamerà Erlebnis.
La logica organica ci permette di formulare una descrizione della “forma” o “fisionomia”
dell’elemento che costituisce la storia stessa: la Kultur (la cultura).
La cultura è la cultura positiva, vitale non prima, comunque, di una sua sana “barbarie”.
Spengler scriveva: “Ogni cultura, ogni sapere, ogni progredire e ogni declinare, ognuno
dei suoi periodi internamente necessari ha una durata determinata, sempre uguale, sempre
ricorrente con la forma di un Simbolo”. In questo senso, la Kultur è come tutti gli altri

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 108

organismi: ha una sua nascita, un suo sviluppo secondo un suo destino necessario ed un
non meno necessario “tramonto”. Ogni cultura realizza tutto ciò che le è possibile, il
completamento di tale realizzazione coincide con il suo tramonto. Il culmine di una cultura
è appunto la Zivilitation, intesa come il raggiungimento degli “stati estremi e più raffinati”
di cui sono capaci solo gli uomini superiori.
Spengler, considerando la cultura come un organismo e quest’ultimo come una totalità le
cui parti hanno rapporti reciproci necessari e necessitanti, ritiene che ogni aspetto della
cultura è una manifestazione di essa stessa e che non ha senso al di fuori di essa.
Ogni cultura ha una sua propria “natura”, una sua scienza, che hanno in essa un valore
assoluto; fuori della cultura non hanno alcun valore.
Quindi mentre non esiste una scienza, né una filosofia, né una morale universale (cioè
valida per tutte le culture), ogni singola scienza, cultura e morale è assoluta nell’ambito
della cultura cui appartiene.
Si può perciò parlare con Spengler di un”assolutismo relativo” dei valori stessi, poiché
limitato alla durata della cultura. Inoltre il processo di trasformazione e di consumazione
cui ogni cultura è necessariamente sottoposta investe anche tutti i suoi principi: una sola
necessità inesorabile presiede a tutti i suoi sviluppi e le sue vicende; e questo è il destino.
“Noi, dice Spengler, non abbiamo la libertà di realizzare questo o quello, ma la libertà di
fare ciò che è necessario o nulla; ed un compito che la necessità della storia ha posto, verrà
risolto con il singolo o contro di esso: “Ducunt fata volentem, nolentem trahunt”. Su queste
basi prevede l’inevitabile tramonto della cultura occidentale che è ormai arrivata alla fase
della piena maturità ( civilizzazione ). La crisi della morale e della religione, giacché
“l’essenza di ogni civiltà è la religione”; il prevalere della democrazia e del socialismo che
sovvertono i rapporti naturali di potere; l’equiparazione, propria della democrazia e, il
“rovesciamento di tutti i valori” di cui Nietzsche è stato il profeta, ma che l’Occidente
mostra già in atto, sono i prodromi infallibili della morte della civiltà Occidentale.
Spengler rappresentava la critica ai disegni progressisti dello sviluppo dell’umanità
(sostituendo ad essa una visione ciclica della storia), Spengler significava ancora
l’ontologia come metodo di tale comparazione, significava parlare delle civiltà al plurale,
nella loro particolarità e nel loro ritmo vitale di nascita, crescita e morte, presupponendo
una presunta fine di un mondo. Ma, soprattutto, quest’opera significava la perdita delle
speranze sul futuro dell’Occidente, poiché già entrato nella fase della “Zivilization”

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 109

caratterizzata dal prevalere dello stato sugli individui, dal dominio della tecnica, della
politica e del denaro.

2.2. Il Brano di Spengler: il tramonto dell'Occidente e le illusioni del progresso.

Antichità, medioevo, età moderna: questo è lo schema inverosimilmente scarno e privo di


senso che dominando incondizionatamente il nostro pensiero storico ci ha sempre impedito
di conoscere esattamente il luogo proprio del particolare mondo sviluppatosi dal tempo
dell'Impero sul suolo dell'Europa occidentale nei suoi rapporti con la storia complessiva
dell'umanità superiore, e così pure il rango, la figura e soprattutto la durata di esso. Alle
future civiltà sembrerà quasi incredibile che quello schema semplicistico di un decorso
lineare, che con le sue proporzioni assurde appare di secolo in secolo sempre più inadatto a
inquadrare in modo naturale i nuovi domini dischiusisi alla nostra coscienza storica, abbia
potuto mantenere così a lungo una indiscussa validità. […]
Propria a tale schema è una limitazione della storia riguardo non solo il tempo, ma anche
- e ciò è ancor peggio - il luogo. Qui il paesaggio dell'Europa occidentale va a costituire il
polo immobile (non si sa per quale ragione, se non forse perché noi, autori di tale
immagine della storia, proprio in Europa abitiamo), polo intorno al quale millenni della
storia più possente e civiltà immense e lontane umilmente graviterebbero.
Ma è un metodo del tutto assurdo d'interpretazione storica quello di chi, lasciata briglia
sciolta alle proprie convinzioni politiche, religiose o sociali, alle tre fasi, che non osa
modificare, dà proprio la direzione che le conduce là dove egli si trova, imponendo caso
per caso come misura assoluta a millenni di storia la sovranità della ragione,
l'umanitarismo, la felicità dei più, l'evoluzione economica, l’illuminismo, la libertà dei
popoli, l'assoggettamento della natura, la pace mondiale e via dicendo, e dandosi a
dimostrare che quei millenni non compresero o non seppero raggiungere quel che
dovevano, mentre, in verità, essi vollero solo cose diverse da
quelle che noi vogliamo. […] nei confronti della storia dell’umanità superiore, per quel
che concerne il corso del futuro domina un ottimismo sfrenato, incurante di ogni dato
dell'esperienza sia storica che organica, per cui ognuno ritiene di poter individuare nella
contingenza dell'oggi gli «inizi » di una qualche «ulteriore evoluzione» lineare e
meravigliosa, non perché essa sia provata scientificamente, ma solo perché corrisponde a
quel che si desidera. Qui si pensa a possibilità illimitate, mai a una fine naturale; e partendo

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 110

dalla situazione del momento si va a costruire in modo affatto ingenuo una futura
evoluzione.
Ma «l'umanità» non ha alcuno scopo, alcuna idea, alcun piano, così come non lo ha la
specie delle farfalle o quella delle orchidee. «Umanità» è o un concetto zoologico o un
vuoto nome. Si bandisca questo fantasma dal dominio dei problemi storici della forma e
allora si vedrà apparire una sorprendente dovizia di vere forme. Qui regna una sconfinata
ricchezza, una profondità e una dinamicità della realtà vivente finora nascoste da parole
d'ordine, da aridi schemi, da «ideali» personali. Invece della squallida immagine di una
storia mondiale lineare, cui ci si può tenere solo se si chiudono gli occhi dinanzi alla massa
schiacciante dei fatti, io vedo una molteplicità di civiltà possenti, scaturite con una forza
elementare dal grembo di un loro paesaggio materno, al quale ciascuna resta rigorosamente
connessa in tutto il suo sviluppo: civiltà, che imprimono ciascuna la propria forma
all'umanità, loro materia, che hanno ciascuna una propria idea e delle loro proprie
passioni, una propria vita, un proprio volere e sentire, una propria morte.
Vi è una giovinezza e una senilità nelle civiltà, nei popoli, nelle lingue, nelle verità, negli
dei, nei paesaggi - come vi sono querce e pini, fiori, rami e foglie giovani e vecchi: mentre
una «umanità» al singolare che via via si invecchi, non esiste.
Ogni civiltà ha proprie, originali possibilità di espressione che germinano, si maturano,
declinano e poi irrimediabilmente scompaiono. Esistono molte arti plastiche, pitture,
matematiche, fisiche profondamente diverse nella loro essenza, ciascuna con una sua
limitata via, ciascuna in sé conchiusa, come ogni specie vegetale ha i suoi fiori e i suoi
frutti, il suo tipo di sviluppo e di deperimento. Queste civiltà, organismi viventi d'ordine
superiore crescono in una magnifica assenza di fini, come i fiori dei campi. Come le piante
e gli animali, esse appartengono alla natura vivente di Goethe e non a quella morta di
Newton. Nella storia mondiale io vedo un eterno formarsi e disfarsi, un meraviglioso
apparire e scomparire di forme organiche. Invece lo storico di mestiere la concepisce quasi
come una tenia che produce instancabilmente epoche su epoche. […]
Nell’antichità si aveva la retorica, nell'Occidente si ha il giornalismo e, invero, al servigio
di quella cosa astratta che rappresenta la potenza della civilizzazione, il danaro. […] E
l'arte? E la filosofia? Gli ideali del tempo di Platone e di Kant valevano per una umanità
superiore; quelli dell'ellenismo e del giorno d'oggi, soprattutto il socialismo e il
darwinismo (ad esso interiormente così affine con le sue formule affatto antigoethiane

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 111

della lotta per l'esistenza e della selezione naturale), i problemi del femminismo e del
matrimonio (a ciò parimenti connessi), quali si affacciano in lbsen, in Strindberg e in
Shaw, la tendenza impressionistica verso un sensualismo anarchico, tutto il complesso
delle nostalgie, degli stimoli e dei dolori moderni quali si esprimono nella lirica di
Baudelaire e nella musica di Wagner, non esistono per il senso del mondo dell'uomo del
villaggio e, in genere, della natura, esistono esclusivamente, per l’uomo cerebrale delle
grandi città. […]
A una civiltà appartiene la ginnastica, il torneo, l'agone, alla civilizzazione lo sport. [...]
Appare una nuova filosofia realistica che per le speculazioni metafisiche ha solo un sorriso,
appare una nuova letteratura che per l'abitante delle grandi città diviene un bisogno, mentre
per il provinciale è incomprensibile e odiosa.
I Greci li possiamo comprendere anche senza considerare la loro vita economica. Invece i
Romani solo in funzione di essa possiamo capirli. A Cheronea e a Lipsia si combatté per
l'ultima volta per una idea. Ma nella prima guerra punica e a Sedan il fattore economico
non può esser più trascurato. […] Né sfuggiranno le corrispondenze quanto alle relazioni
con lo stoicismo e il socialismo.
Nell'imperialismo bisogna saper vedere il simbolo tipico di una fine. Ora, proprio tale
forma è l'ineluttabile destino dell'Occidente. Nell'uomo di una civiltà la forza è rivolta
all'interno, in quello di una civilizzazione è rivolta all'esterno. Perciò in Cecil Rhodes io
vedo il primo uomo di una nuova età. Egli incarna lo stile politico di un lontano futuro
occidentale, germanico e soprattutto tedesco. Il suo detto: «L'espansione è tutto», esprime,
nella sua formulazione napoleonica, la tendenza più caratteristica di ogni civilizzazione
matura. Ciò valse già per i Romani, per gli Arabi, per i Cinesi. Qui non vi è scelta. Qui, a
decidere, non sta la volontà cosciente né del singolo né di intere classi o nazioni. La
tendenza espansiva è una fatalità, qualcosa di demonico e di mostruoso, che afferra l'uomo
ultimo dello stadio delle grandi città, costringendolo a servirlo e sfruttandolo, lo voglia egli
o no. Vivere significa realizzare il possibile e l'uomo cerebrale conosce solo possibilità di
espansione.
Rhodes ci appare dunque come il precursore di un tipo occidentale cesareo, per il quale i
tempi tuttavia non sono ancora giunti. Egli si trova in una posizione intermedia tra
Napoleone e il tipo di uomo violento dei prossimi secoli. […]

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 112

Ma già Rhodes identifica la politica vittoriosa al solo successo territoriale e finanziario.


In una tale forza e purità la civilizzazione euro-occidentale non si era ancor mai incarnata.
[…] tutto ciò è il preludio, grande e magnifico, di un'epoca a venire con la quale la storia
dell'uomo euro-occidentale si chiuderà definitivamente.
Così l'imperium romanum non ci appare più come un fenomeno irripetibile, ma come il
prodotto normale di una intellettualità rigorosa ed energica, cosmopolita, eminentemente
pratica e come uno stadio finale tipico che già si era realizzato più volte, ma che finora non
era stato ben identificato. Dobbiamo, dunque, riconoscere che il diciannovesimo e il
ventesimo secolo, presunte culminazioni di una storia mondiale linearmente evolutiva,
possono ritrovarsi come stadio ben definito alla fine di ogni civiltà giunta alla sua maturità
estrema, non riferendoci naturalmente ai socialisti, agli impressionisti, alle ferrovie
elettriche, ai siluri e alle equazioni differenziali che appartengono soltanto al corpo di
un'epoca, bensì allo spirito da civilizzazione che può anche rivestire tutt'altre forme
esterne; che l'epoca presente rappresenta dunque uno stadio di transizione, il quale, date
certe condizioni, interviene dovunque in modo certo; che però esistono anche stadi ben
determinati ancor più spinti di quelli attuali euro-occidentali e già ripetutamente apparsi
nel corso della storia; che, di conseguenza, il futuro dell’Occidente non sarà un illimitato
ascendere e andar avanti nella direzione dei nostri ideali del momento, per spazi fantastici
di tempo, bensì un episodio della storia rigorosamente circoscritto e incontrovertibilmente
determinato quanto a forma e a durata, episodio che abbraccerà pochi secoli e i cui tratti
essenziali possono essere predetti e calcolati in base ai precedenti esempi.
(O. Spengler, Il tramonto dell’occidente, [1918-22] pp. 54-55, 60-63, 84-91)

2.3. Commento al brano di Spengler.

Il problema trattato dall’autore è costituito dalla filosofia della storia. Egli si propone, in
tale sede, di esplicitare i limiti della concezione occidentale della storia.
Primo limite è la concezione del tempo: la linearità è scorretta e la tripartizione (antichità-
medioevo-età moderna) è semplicistica.
Secondo limite è lo spazio: tendiamo ad avere una concezione eurocentrica della storia.
Gli storici, inoltre, tendono a individuare un fine assoluto allo sviluppo storico della civiltà,
in realtà tale finalità è assente dalla storia reale e non è altro che la proiezione delle idee e
dei valori dello storico.

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 113

Secondo Spengler le civiltà non mirano alla realizzazione di fini, ma a realizzare tutte le
possibilità di sviluppo che loro si offrono. L’umanità non ha un fine assoluto che la storia
tende a realizzare. Il soggetto della storia sono quindi le singole civiltà, non un’astratta e
inesistente umanità in generale.
Civiltà diverse non sono paragonabili, ognuna infatti ha i propri valori. Evidenziando le
caratteristiche della civiltà occidentale e delle altre civiltà, Spengler afferma che ogni
civiltà è incommensurabile con le altre. Ed è proprio la diversità dei valori, delle tradizioni,
dei costumi di ciascuna civiltà che costituisce una vera e propria ricchezza dei modi di vita.
La concezione della storia di Spengler è organicista, le civiltà come gli organismi viventi
hanno un ciclo vitale e quindi possono anche morire.
L’ottocento, il secolo della storia, aveva riposto nella storia l’identità e il destino della
civiltà occidentale, Spengler, scardinando i concetti fondamentali di quella filosofia della
storia, cancellava d’un colpo l’essenza stesa dell’occidente.
Si riaprivano così, di fronte alla civiltà europea, tutte le possibilità, possibilità che, però,
venivano a prospettarsi in chiave catastrofica e negativa a causa dell’esperienza traumatica
della guerra. E’ interessante sottolineare che Spengler scrisse il Tramonto dell’Occidente
durante la guerra; certamente l’esperienza traumatica della guerra, che fu la negazione dei
valori su cui la civiltà occidentale aveva costruito la propria immagine di sé, fu decisiva nel
condizionare sia l’opera di Spengler, sia la forte impressione che essa suscitò nell’opinione
degli intellettuali.
Era possibile ora avanzare nuovi e preoccupanti interrogativi sulla civiltà occidentale e
sul suo futuro: il vantato primato della civiltà occidentale doveva ancora essere dato per
scontato? O la carneficina e il fallimento degli ideali di progresso provocati dalla guerra
erano il segno che tale superiorità era infondata? Quali erano le cause della decadenza
dell’occidente? Si era, forse, vicini, alla fine della civiltà occidentale come pensava
Spengler? In che modo era stato possibile che scienza e tecnica, non solo non
mantenessero le loro promesse, ma, addirittura, producessero esiti opposti rispetto a quelli
che ottimisticamente il positivismo si era aspettato? Quale significato e quali conseguenze
aveva sull’assetto sociale il nuovo fenomeno del protagonismo delle masse?
Di fronte a queste drammatiche domande la voce di Spengler si levava per annuanciare
der Untergang des Abendlandes.

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 114

3. THOMAS MANN

3.1. La Vita e Le Opere

Thomas Mann nacque in una delle famiglie più influenti dell'aristocrazia di Lubecca,
dimostrò precocemente, come il fratello Heinrich, una vocazione letteraria.
Alla morte del padre, liquidata la ditta, la famiglia si trasferì a Monaco di Baviera. Qui
Mann frequentò gli ambienti artistici e collaborò a riviste tra cui il "Simplicissimus". Nel
1905 sposò Katja Pringsheim, dalla quale ebbe sei figli. Nel 1914 aderì al movimento
nazionalistico favorevole alla guerra. Documento delle sue posizioni, in polemica con
quelle progressiste e democratiche del fratello Heinrich, sono le notevoli "considerazioni di
un impolitico" in cui Mann contrappone la Kultur (civiltà spirituale) tedesca alla
Zivilisation (civiltà o progresso materiale) dei paesi occidentali. Solo nel 1922 prese
posizione in difesa della democrazia.
Nel 1929 gli fu conferito il premio Nobel. Nel 1933, subito dopo l'ascesa di Hitler al
potere, Mann recatosi all'estero per un giro di conferenze, decise di non rientrare in patria.
Tra il 1933 e il 1938 visse prevalentemente in Svizzera e nel 1938 si trasferì negli U.S.A. a
Princeton e dal 1940 in California. Durante la guerra svolse attività propagandistica
antihitleriana con scritti e messaggi radio. Nel 1944 aveva preso la cittadinanza americana
e nel 1952 si stabilì a Zurigo. Morì nel 1955.
Il piccolo signor Friedemann (1898), i Buddenbrook (1901), Tristano (1903), Altezza
reale (1909), La morte a Venezia (1912), La montagna incantata (1924), Giuseppe e suoi
fratelli (1933), Il giovane Giuseppe (1934), Giuseppe in Egitto (1936), Giuseppe il
nutritore(1943), Carlotta Weimar (1939), Doktor Faustus (1947) L'eletto (1952),
Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull (1954).
Fu anche un grande novellista, scrisse infatti:
Cane e padrone (1919), Disordine e dolore precoce (1926), Mario ne il mago (1930), Le
teste scambiate (1940), La legge (1944), e inoltre una produzione saggista.

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 115

3.2. Il Pensiero

Mann fu profondamente influenzato da Nietzsche e Schopenhauer, in seguito Mann


profittò delle scoperte di Freud e di una più larga visione culturale di tipo europeo, mentre
il suo modello etico-estetico diventò sempre più Goethe, che aveva saputo conciliare
realismo e lirismo, razionalità e passione, classicismo e innovazione, vita e spirito. E' nella
rappresentazione della crisi spirituale europea che l'opera di Mann raggiunge i migliori
risultati.
Dopo le prime opere si servì di strumenti ironici e parodistici, raggiungendo la perfezione
letteraria. Mann portava in sé tutta l'eredità spirituale della grande crisi con l'aggravante
che le due forze opposte, il lucido intuito della realtà proprio dello spirito borghese e la
sensibilità decadente in cui sboccò la cultura, coesistevano e agivano simultaneamente, fusi
in uno stato d'animo unico, ricco di contrasti ma indissociabile.
E' proprio la posizione di travaglio spirituale che diventa la sorgente dell'arte di Mann.
Un motivo sempre ricorrente nell'arte di Mann è la morte, molto spesso causata dalla
malattia, ma ciò che colpisce è come e quanto si muore. La moderna narrativa tedesca non
possiede un'opera in cui il motivo della morte sia così insistente. Ogni morte è diversa:
ognuno ha la sua morte così come ha avuto la sua vita.
Nei Buddenbrook, per esempio, vi sono tantissime pagine dedicate alla morte e alla
sepoltura di molti personaggi. Inoltre nei Buddenbrook è presente l'analisi scientifica del
tifo, nelle descrizioni di Mann vi è quasi un virtuosismo della poesia della morte.
La religione per Mann inizialmente rappresentava il fondamento spirituale d’ogni agire,
aveva una funzione di supporto; non si sa per quale motivo, ma probabilmente dopo le
letture di Schopenhauer e Nietzsche, Mann pensa che la religione non possa più conferirgli
quella sicurezza interiore alla cui mancanza egli ovvia sempre più attraverso il
comportamento esteriore.
Scomparsa l'ebbrezza effimera che gli aveva dato la lettura di Schopenhauer egli tenta di
ancorarsi alla religione dei padri, ma le sue promesse non bastano a soddisfarlo. Una vera
soluzione ancora sembra offrirgli l'opera: Il mondo come volontà e rappresentazione.
Mann vi scorge dapprima la condanna della vita, l'esaltazione del diritto alla sofferenza.
Ma questa sottile soddisfazione si trasforma in qualcosa di diverso: Schopenhauer si
rovescia in Nietzsche. Il rovesciamento è già insito in Schopenhauer stesso, perché
l'esortazione a liberarsi dal principio di individuazione, a ricongiungersi col tutto, non è

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 116

altro se non l'esortazione a rientrare nella volontà di vivere che è il noumeno al di sotto
delle apparenze. La volontà di vivere appare come il nirvana.
Altro punto fondamentale dell'opera di Mann è la decadenza: essa mette in luce
l'elemento repressivo implicito nei valori borghesi. La decadenza fa esplodere le
contraddizioni insite in tutta la civiltà borghese.
Mann si divide tra l'attaccamento formale alla tradizione borghese e alla sua negazione,
tra repressione e rivolta contro la repressione, che appare nell'arte, tra la decadenza che si
abbarbica ai valori perduti e quella che si abbandona a se stessa e ne trova di nuovi.
Egli dovrà cercare per tutta la vita una mediazione tra i valori della repressione borghese,
in cui continua a credere come valori fondatori di civiltà(trovando conferma in Freud) e il
sogno dischiuso della decadenza: due mondi di valori entrambi ambigui perché se il primo
uccide lo spirito, il secondo, che dallo spirito è nato, rischia di rivolgersi contro ogni ordine
umano e di condurre all'irrazionale e alla barbarie.

3.3 I Brani di Mann: cultura e civiltà.

Civilizzazione e cultura non soltanto non sono un’unica e stessa cosa, ma termini
antitetici; formano una delle molteplici manifestazioni dell’eterna discordanza della nostra
umanità e del contrasto fra spirito e natura. Cultura significa unità, stile, forma,
compostezza, gusto; è una certa organizzazione spirituale del mondo, sia pur tutto ciò
avventuroso, scurrile, selvaggio, sanguinoso, pauroso. La cultura può comprendere
l'oracolo, la magia, la pederastia, il cannibalismo, culti orgiastici, inquisizione, autodafé,
ballo di S. Vito, processi di streghe, fiorir di venefici e delle più varie atrocità. è invece
ragione, illuminismo, distensione, ritegno, compostezza, scetticismo, chiarificazione …
spirito. Sì, lo spirito è civile, è il nemico giurato degli istinti, delle passioni, è
antidemoniaco, antieroico, ed è solo un controsenso apparente quando si afferma che è
anche antigeniale. (T.Mann, Pensieri di guerra [19141, in Scritti storici e politici, p. 35)

Già quasi non sarei uno scrittore tedesco, se non avessi mai lavorato di variazioni su
questo tema e non avessi tentato di dare una cristallizzazione «definitiva» a questi termini
tanto polivalenti e consunti. Questo tentativo è stato fatto in Germania centinaia di volte
prima di me, da poeti e da pensatori, senza che riuscisse ad imporsi un'accezione unica,
valida per tutti, se non quella che riporta la «cultura» alla sfera dello spirito e la

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 117

«civilizzazione» a quella della materia. Io la trovai insufficiente, anzi sbagliata,


sembrandomi che in tal modo si facesse troppo poco onore alla civilizzazione. Mi dicevo
che la civilizzazione non solo è anch'essa qualcosa di spirituale, ma che, di più, è
addirittura lo spirito stesso, spirito nel senso della ragione, dell'urbanità di vita, del dubbio,
dell'illuminismo e infine della disgregazione, mentre la cultura significa al contrario il
principio dell'organizzazione e della costruzione artistica, il principio che alimenta e
illumina la vita. […]
Sciagurati che siete, il vostro inevitabile e inesorabile progresso uccide l'arte Ma povera
arte! Ne sono ben sicuro. Quelle società che più erano contagiate dalla superstizione, erano
anche le grandi fautrici dell'arte. Datemi la prova che si può avere un'arte della ragione,
della verità, dell'esattezza, ed io passo subito con armi e bagagli dalla vostra parte. Come
musicista Le dichiaro che, se Lei elimina l'adulterio, il fanatismo, il crimine, l'errore e il
soprannaturale, non potrà essere mai più scritta una sola nota di musica. Le assicuro che io
scriverei una musica molto migliore, se credessi a tutto quello che non è vero. Dirò, per
riassumere, che l'arte va declinando nella misura in cui progredisce la ragione. Lei non ci
crede, ma è pur vero. Provi a crearmi oggi un Omero, un Dante. Con che materia? La
fantasia vive di chimere e di visioni. Se Lei mi sopprime le chimere, naturalmente la forza
dell'immaginazione è finita. Niente più arte, scienza dappertutto. Nel caso che Lei mi
chiedesse, se questo sarebbe poi un gran male, La lascio in pace e non discuto più, perché
Lei ha ragione. Peccato, tuttavia, un gran peccato... ».
«Perché Lei ha ragione»: questo è il riconoscimento ironico del progresso della
civilizzazione fatto da un artista francese che appunto vede in questo «inevitabile»
progresso il dissolvimento e la rovina dell'arte. L'antitesi congenita fra civilizzazione e
cultura non è espressamente formulata nelle sue parole, ma è una convinzione che ne
scaturisce senza lasciare dubbi. Affermando che le società più contagiate alla superstizione
sono state le grandi fautrici dell'arte, Bizet in sostanza, vede in quelle società superstiziose
esattamente la cultura stessa, e intende quello che intendo io quando dico che la cultura
non esclude la «sanguinosa ferocia», mentre la civilizzazione mitiga la ferocia, illumina la
superstizione, svampa l'ardore delle passioni. La cultura lega, la civilizzazione porta il
dissolvimento. E’, una cosa che si tocca con mano. Chi vorrà proibirmi di vedere le cose a
questo modo, se a questo modo le vedo? E ancora: non rendo forse onore alla
civilizzazione? L'avevano definita un fatto materiale: bene, io lo nego. Si è tentato di

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 118

definirla come la semplice condizione umana, ordinata, addomesticata dallo stato.


Nemmeno questo mi basta, perché io vedo che è un principio troppo spirituale per fermarsi
e ingabbiarsi nello stato, ha troppa volontà di dissolvimento per non mirare anche al
dissolvimento dello stato. Lei è francese, e vorrebbe negarlo? La civilizzazione non si
accontenterà di sfaldare lo stato: addormenterà anche le passioni nazionali, le porterà alla
pace della tomba. Realizzerà un mondo esperantizzato in pace, dove ogni guerra è
impossibile. Io ci credo, come vede, io credo nel suo avvento, e come potrei non crederci?
Essa è certamente l'avvenire, è il progresso stesso. Il pacifismo è naturalmente un fatto,
anzi, in fondo, il fatto precipuo e principale, della civilizzazione che persegue pace e
purezza, perché è letteratura, è spirito. […]
Kant ha inciso anche su di me, semplicemente perché io sono tedesco; possiedo anch'io
quanto poteva darmi senza averlo mai studiato alla maniera dei dotti. Così, ora per me è
come se la guerra attuale che, certo, vista da un lato, è una guerra di potenza e di interessi,
ma vista dall'altro è anche una guerra d'idee, fosse già stata combattuta su un piano soltanto
spirituale; come se già una volta lo spirito tedesco «con profondo ribrezzo», come dice
Nietzsche, si fosse sollevato contro «le idee moderne», le idee dell'occidente, del
diciottesimo secolo, contro l'illuminiamo e lo sfaldamento della persona, la civilizzazione e
la disgregazione: quasi che proprio in Kant, lo spirito tedesco, volto alla società, al
mantenimento dei valori, costruttivo e organizzativo, si fosse ribellato contro il nihilismo
occidentale, dopo essere passato lui stesso attraverso gli abissi dello scetticismo erosivo di
ogni valore.
(Mann, Considerazioni di un impolitico [1918], pp. 144-46, 149)

Per progresso Giovanni Castorp aveva inteso fino allora qualcosa come lo sviluppo della
tecnica nel diciannovesimo secolo; d’altronde trovava anche che il signor Settembrini non
disprezzava cose simili e che neppure suo nonno le aveva disprezzate. L'Italiano rendeva
onore alla patria dei suoi ascoltatori perché là erano state inventate l'arte della stampa e la
polvere da sparo, perché essa aveva spezzato la corazza del feudalismo, rendendo possibile
il propagarsi delle idee democratiche. Lodava dunque la Germania sotto tale punto di vista
e per quanto riguardava il passato, ma credeva di dover dare la palma alla sua propria
patria perché, mentre le altre nazioni giacevano ancora nell'oscurantismo e nella schiavitù,
essa aveva inalberato la bandiera del progresso intellettuale, della cultura, della libertà.

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 119

Tuttavia l'omaggio che rendeva alla tecnica ed alle comunicazioni, campo di lavoro di
Giovanni Castorp, non era diretto precisamente alle potenze in sé, ma a tali potenze solo
perché da quelle risultava un perfezionamento morale dell’individuo. La tecnica - diceva
sottomettendo sempre più la natura con mezzi di comunicazione, con lo sviluppo delle reti
stradali e telegrafiche, vincendo le differenze di clima, si dimostra il mezzo maggiormente
atto ad avvicinare l'un l'altro i popoli, a favorirne la vicendevole conoscenza, a iniziare fra
essi un equilibrio umano, a distruggere i loro preconcetti e finalmente ad instaurare una
unione generale. La razza umana proviene dal buio, dalla paura, dall'odio ma essa procede
e si innalza sopra una via luminosa, verso uno stato finale di simpatia, di intima chiarezza,
di bontà e di felicità, e la tecnica è il miglior veicolo per procedere su tale via. [...]
Secondo la visione di Settembrini, nel mondo si combattevano due principi: la potenza e
il diritto, la tirannia e la libertà, la superstizione e la scienza, il principio del perseverare e
quello del movimento e del progresso. Si potrebbe chiamare l'uno il principio asiatico,
l’altro quello europeo, - diceva – poiché l’Europa è la terra della ribellionone, della critica
e dell'attività riformatrice, mentre la parte orientale del mondo è la terra che personifica la
calma inerte, l'immobilità. Naturalmente non si poteva nutrir dubbio alcuno su quale delle
due potenze avrebbe vinto alla fine: avrebbe vinto certamente quella dell'attività
riformatrice, del movimento, del progresso, poiché la solidarietà umana traeva sempre
nuovi popoli sulla sua via luminosa, conquistava sempre più terre nella stessa Europa e
cominciava a penetrare anche in Asia. […]
Ogni processo di perfezionamento morale ha origine dallo spirito della letteratura, da
questo spirito di dignità, il quale è nello stesso tempo lo spirito dell'umanità e della
politica. Sì, esso è un tutt'uno, è la stessa potenza ed idea e si può chiamare con un unico
nome. Qual è questo nome? Questo nome si compone di sillabe, il cui senso e maestà; esso
è: civiltà.
[Naphta]: per quanto riguarda la degradazione dell’uomo, essa si verifica storicamente in
concomitanza con la degradazione dello spirito cittadino. Il Rinascimento, il progresso, le
scienze naturali ed economiche del diciannovesimo secolo non hanno tralasciato di
insegnare nulla di quanto sembrava loro atto a promuovere questa degradazione, a
cominciare dalla nuova astronomia che fece del centro dell'universo, del nobile teatro sul
quale Dio e il diavolo combattono per il possesso dell'uomo ardentemente bramato da

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 120

ambedue, un piccolo pianeta qualsiasi, e pose temporaneamente fine alla grandiosa


posizione cosmica dell'uomo, sulla quale d'altronde si fondava l'astrologia. […]
Abbiamo qui citato a caso un esempio per dimostrare in qual modo Naphta si ingegnasse
di turbare il sano raziocinio. Ma era peggio ancora quand'egli veniva a parlare della
scienza, alla quale non credeva. Non vi credeva - andava affermando - poiché l'uomo era
completamente libero di credere o di non credere nella stessa. Quella era una fede come
un'altra, soltanto peggiore e più stupida di ogni altra. Perfino la parola «scienza» in se
stessa era l’espressione del realismo più scipito che non si vergognava di prendere per oro
colato le problematiche immagini dell'oggetto riflesse nell'intelletto, e di combinare con
esse il dogmatismo più sciocco e miserevole che mai fosse stato offerto all'Umanità. Il
concetto di un mondo sensibile esistente per se stesso non era forse la più ridicola delle
autocontraddizioni? Ma la scienza naturale moderna, quale dogma, viveva esclusivamente
della premessa metafisica che le nostre forme di conoscenza: spazio, tempo, causalità,
nelle quali il mondo dei fenomeni si rispecchia, fossero circostanze reali che potessero
esistere indipendentemente dal nostro intelletto. Quest’asserzione monistica era la più
grande spudoratezza che fosse mai stata offerta allo spirito. Spazio, tempo, causalità, in
linguaggio monistico significavano sviluppo. In questo consisteva il dogma centrale della
pseudoreligione del libero pensiero e dell'ateismo, col quale si voleva mettere fuori uso il
libro di Mosé contrapponendolo ad una favola quanto mai stupida di scienza progredita,
come se Haeckel fosse stato presente al sorgere del mondo. Empirismo! E l'etere
universale rappresentava forse qualcosa di esatto? L'atomo, quel grazioso scherzo
matematico della «particella più piccola e indivisibile», era provato? La dottrina della
incommensurabilità e realtà dello spazio e del tempo, poggiava forse sull’esperienza? In
verità, premettendovi un po' di logica, si sarebbe arrivati a conseguenze e a risultati allegri
con tale dottrina: si sarebbe arrivati al risultato del nulla. Alla concezione che il realismo è
il vero nichilismo. Perché? Per il semplice motivo che il rapporto di ogni e qualsiasi
grandezza verso l'infinito è uguale a nulla. Non v'è grandezza nell'infinito, non v'è durata
né mutamento nell'eternità. Siccome nell’incommensurabilità spaziale ogni distanza è
matematicamente uguale a zero, non vi possono essere neppure due punti vicini, per tacere
di corpi e meglio ancora di movimenti. Umanità degna di compassione, quella che da
un'esposizione millantatrice di cifre senza valore s'era lasciata persuadere della propria
nullità e defraudare del pathos della propria importanza!

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 121

(T. Mann, La montagna incantata [1924], vol. I, pp. 173-175, 177; vol. II, pp. 60, 379-
380)

3.4. Commento del brano di Mann

Il brano contiene due temi che costituiscono la base del pensiero di Mann: la cultura e la
civiltà. Nonostante, questi temi fossero stati già precedentemente trattati da filosofi e
pensatori della Germania, Mann fornisce una chiara definizione di cosa sia la KULTUR e
la ZIVILISATION.
La KULTUR affonda le sue radici alla tradizione ed assume come modello il medioevo,
una società retta da valori morali e sociali assoluti e trascendenti, avente quindi un identità
forte e precisa. La KULTUR è perciò unità e compostezza, forma e stile.
La ZIVILISATION è un concetto che risale alla rivoluzione francese e all’illuminismo,
secondo il quale l’uomo è artefice del proprio destino. Ma l’uomo fa la storia per mezzo
della tecnica e della ragione ossia l’uomo è un soggetto attivo della storia.
La ZIVILISATION è perciò lo spirito stesso della storia che porterà inevitabilmente alla
disgregazione, cioè al crollo dell’organizzazione e della costruzione artistica che
caratterizzava la KULTUR.
E’ evidente quindi un contrasto fra la creazione artistica e la ragione. Infatti, l’uomo
caratteristico della ZIVILISATION, è indubbiamente molto istruito e capace di sfruttare al
meglio la sua ragione al fine di ottenere mezzi tecnologici sempre più precisi, ma nel
contempo poco creativi rispetto al passato.
Caratteristica è a proposito una frase citata nel brano: “l’arte va declinando nella misura
in cui progredisce la ragione.” Da qui deriva una inevitabile controversia tra la ragione e la
creazione artistica. La società moderna, quindi la ZIVILISATION comporta la rovina e la
dissoluzione dell’arte che caratterizzò le civiltà antiche, nelle quali Mann riconosce lo
spirito della KULTUR in sé.
Quindi secondo Mann la KULTUR è vista come lo spirito costruttore, mentre la
ZIVILISATION è lo spirito di dissoluzione. Il tema trattato da Mann viene poi accentrato
nella lotta fra KULTUR e ZIVILISATION che si verifica durante la prima guerra
mondiale: in altri termini la prima guerra mondiale è vista da Mann come la lotta voluta
dalla ZIVILISATION, poiché quest’ultima non «si accontentava di sfaldare lo stato».

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 122

4. ROLLAND ROMAIN:

4.1. La Vita e il pensiero

(Clemency, Nievre 1866 – Vézelay, Yonne, 1944)


Scrittore francese e cultore di filosofia, letteratura e musica, Rolland insegnò storia
dell’arte alla “Ecole normale superiéure” e storia della musica alla “Sorbonne”. Compì
numerosi studi musicologici tra cui si ricordano: vie de Beethoven (vita di Beethoven),
Musiciens d’ autrefois (Musicisti di un tempo) e la monografia di Beethoven. Nei “cahiers
de la quinzaine” di Peguy cominciò la pubblicazione della sua massima opera “Jean-
Christophe”. Questo romanzo è la biografia di un immaginario musicista del Reno che
lascia la sua terra natia per trasferirsi a Parigi. Da Parigi, egli si allontanerà nuovamente
deluso dalla fatuità della cultura francese. Il mondo europeo di fine secolo viene descritto e
confrontato con temi ideali tradizionali e tipici di Rolland quali: il culto della sincerità e
l’esaltazione dell’azione eroica.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Rolland fece scalpore con l’articolo pacifista
“Au dessus de la melée” (al di sopra della mischia). Nel 1915 gli fu conferito il premio
Nobel per la letteratura grazie all’importanza del suo “credo” nella fratellanza umana. Nel
1919 Rolland pubblicò il romanzo “Calas Breugnon”, la storia di un artigiano borgognone
del 1600 che, fra gli orrori della guerra, riesce a mantenere intatto il suo amore per gli
uomini. Ancora nel 1919 promosse una “dichiarazione di indipendenza dello spirito” che
fu sottoscritta tra gli altri da A. Einstein, M. Gor’kij, B. Russel e B. Croce. Rolland fu
promotore di una cultura cosmopolita e controcorrente; egli esaltò in egual modo
Michelangelo e Tolstoy e manifestò simpatie sia per la rivoluzione sovietica, sia per la non
violenza gandhiana. Negli ultimi anni, caratterizzati dalla sua presa di posizione contro il
nazismo, pubblicò una sorta di diario “le voyage intérieur” (il viaggio interiore).

4.2. Rolland: l'idolo della Kultur: gli intellettuali nella mischia.

Di certo anche gli intellettuali sono colpevoli. Infatti, se possono essersi fatte ingannare le
persone semplici che in ogni paese accettano docilmente le notizie date loro in pasto dai

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 123

giornali e dai capi, la stessa cosa non è perdonabile a chi per professione cerca la verità in
mezzo all'errore e sa quanto valgono le testimonianze dell'interesse o della passione
allucinata; prima di intervenire in questa orribile disputa, la cui posta era la distruzione di
popoli e di tesori dello spirito, il loro elementare dovere (dovere di lealtà quanto di
buonsenso) sarebbe stato quello di procurarsi inchieste sulle due parti. Per cieco lealismo e
per colpevole fiducia, si sono gettati a testa bassa nelle reti che venivano loro tese dal loro
imperialismo, hanno creduto che il primo dovere fosse quello di difendere a occhi chiusi
l'onore del loro Stato contro ogni accusa, non hanno compreso che il sistema più nobile per
difenderlo era di condannarne le colpe in modo da purificarne la loro patria.
[...]
Voi, infelici, voi rappresentanti dello spirito, avete di continuo celebrato la forza e
disprezzato i deboli, quasi non sapeste che la ruota della storia gira, che questa forza peserà
di nuovo su di voi come nei secoli passati, nei quali, almeno, i vostri grandi uomini
seppero conservare il vantaggio di non abdicare, di fronte ad essa, alla sovranità dello
spirito e ai sacri diritti della legge!
[…]
Elite europea, abbiamo due cittadelle: la nostra patria terrestre e la Città di Dio. Dell'una
siamo gli ospiti, dell'altra i costruttori.
Doniamo i nostri corpi e i nostri cuori fedeli alla prima; ma niente di ciò che amiamo -
famiglia, amici, patria - niente ha diritto sullo spirito.
Lo spirito è la luce, e il nostro dovere è di elevarlo al di sopra delle tempeste e di
scacciare le nuvole che tentano di oscurarlo.
Il nostro dovere è di costruire più largo e più alto, tanto da dominare l'ingiustizia e gli odi
tra le nazioni, il muro che cinge la città in cui devono unirsi le anime fraterne e libere del
mondo intero.
Da oltre quaranta secoli, i grandi spiriti che, hanno raggiunto la libertà si sono sforzati di
farne godere i benefici ai loro fratelli, di emancipare l'umanità, di insegnarle a vedere la
realtà senza paure e senza errori di guardare in se stessa senza falso orgoglio e falsa umiltà,
di riconoscere le proprie debolezze e le forze per dominarle, di comprendere qual è il suo
posto nell'universo.
E la luce del loro pensiero o della loro vita, come la stella dei Magi, ha illuminato il
cammino dell'umanità. Il loro sforzo è fallito. Da oltre quaranta secoli, l'umanità non ha

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 124

cessato di essere asservita, non dico a dei padroni, ma ai fantasmi del suo spirito. I padroni
sono cambiati, gli schiavi sono sempre gli stessi. Il nostro secolo ha conosciuto due nuovi
idoli.
Il primo è l'idolo della razza che, generato da sogni generosi, è diventato nei laboratori di
occhialuti scienziati il Moloch lanciato contro la Francia dalla Germania del 1870, e che gli
avversari di questa, oggi, sembrano voler ritorcerle contro.
Il secondo e ultimo venuto, autentica creatura della scienza tedesca fraternamente unita
con l’industria, il commercio e la casa Krupp, è l'idolo della Kultur con la sua cerchia di
leviti costituita dai pensatori della Germania.
La caratteristica comune al culto degli idoli è l'adattamento di un ideale ai cattivi istinti
umani. L'uomo coltiva i vizi da cui trae vantaggi, non vuole sacrificarli ma sente l'esigenza
di idealizzarli; per questa ragione il problema che non ha mai cessato di tormentarlo, nel
corso dei secoli, è stato quello di conciliare un ideale con la propria mediocrità.
La folla non ha dubbi, pone sullo stesso piano virtù e vizi, eroismo e malvagità. La forza
delle sue passioni e il rapido fluire dei giorni la travolgono e le fanno dimenticare la
mancanza di logica.
Ma gli intellettuali non possono trovar soddisfazione così a buon mercato. Non già
perché, come si dice, siano meno appassionati. (Giudicarli in tal modo è un grave errore).
Questi operai dello spirito amano la perfezione e disprezzano il modo di pensare popolare,
incapace di legare compiutamente i fili del ragionamento, e hanno bisogno di una stoffa
razionale più unita, dove istinti ed idee si colleghino, costi quel che costi, in un tessuto
senza smagliature. In tal modo gli intellettuali giungono a mostruosi capolavori. Date loro
un ideale e una passione, non importa quali siano, ed essi troveranno sempre il mezzo per
farli andare d'accordo: per bruciare, uccidere e saccheggiare sono stati invocati l'amore
verso Dio e la solidarietà tra gli uomini. La fraternità del '93 è sorella della santa
ghigliottina; oggi abbiamo visto uomini di chiesa cercare e trovare nel Vangelo la
legittimazione dei traffici bancari o delle guerre.
[…]
Ma bisogna riconoscere che né da una parte né dall'altra gli intellettuali hanno fatto molto
onore all'intelligenza: nessuno l'ha saputa difendere dal soffio della violenza e della follia.
C'è una grande frase di Emerson che si applica molto bene a questa loro sconfitta: «

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 125

Nothing is more rare in any man than an act of his own » (Niente è più raro in un uomo di
un atto che venga da lui stesso).
I gesti e gli scritti degli intellettuali sono stati loro imposti da altri, dal di fuori,
dall'opinione pubblica cieca e minacciosa. Non voglio far torto a quelli che hanno dovuto
tacere perché sotto le armi o perché costretti al silenzio dalla censura che regna nei paesi
belligeranti. Ma l'inaudita debolezza dei capi del pensiero, che ovunque hanno abdicato di
fronte alla follia collettiva, ha dimostrato assai bene che essi non avevano carattere.
[…]
Chi abbatterà gli idoli? Chi aprirà gli occhi ai loro fanatici settari? Chi farà loro capire
che nessuna divinità del loro spirito, sia essa religiosa o laica, ha il diritto di venir imposta
agli altri uomini, e di umiliarli, anche se può sembrare la migliore? Pur ammettendo che la
Kultur faccia crescere, con il vostro concime tedesco, più grassa e più abbondante la pianta
umana, chi vi dà il diritto d'esserne i giardinieri? [...]
Il vero intellettuale, l'uomo davvero intelligente, non fa di sé e del proprio io il centro
dell'universo. Al contrario, guardandosi intorno vede, come nella prospettiva celeste della
Via Lattea, migliaia di fiammelle che brillano insieme con la sua, e non tenta di assorbirle
né d'imporre loro la sua strada, ma cerca di comprendere religiosamente la necessità di
tutte e la comune sorgente di fuoco che le alimenta.
(R. Rolland, Al di sopra della mischia [1914], pp. 117, 119, 136, 166, 170-173)

4.3. Commento al brano di Rolland: L’idolo della Kultur

L’autore in questo brano affronta il problema della relazione tra gli intellettuali e la
guerra imminente. Egli si scaglia contro gli intellettuali perché, come le “semplici”
persone, essi si sono fatti dominare dalle passioni nazionalistiche senza adempiere al loro
compito. Il loro compito era quello di confrontare le diverse fazioni in campo e scegliere
quella che, secondo il buonsenso dell’intellettuale è la migliore. Rolland preme sul tasto
della forma circolare della storia e quindi sul fatto che, ciò che gli intellettuali stanno
facendo nel suo periodo si ripercuoterà su di loro nei tempi futuri.
Egli esorta l’élite europea a donare solamente i propri corpi al mondo di dio, ma non
sacrificare, a favore di questo, la famiglia, gli amici, o la patria perché niente ha diritto
sullo spirito. La vita degli uomini è stata illuminata come da una luce, proveniente dai

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 126

grandi spiriti che sono riusciti a raggiungere la libertà. L’umanità è stata sempre asservita
da dei fantasmi del suo spirito, dei padroni.
L’unica differenza tra l’asservimento del passato e quello del presente è dato dal fatto
che, seppure gli schiavi sono sempre gli stessi, sono cambiati gli idoli. Il nuovo secolo ha
conosciuto due nuove idoli, quello della razza e quello della Kultur, con la loro schiera di
LEVITI costituita da pensatori tedeschi.
Ciò che caratterizza la fede in un idolo piuttosto che in un altro, è l’adattamento di questo
alla cattiveria propria della natura umana. Per questo motivo, uno dei problemi che ha
sempre assalito l’uomo è quello di conciliare un dato ideale con la propria mediocrità.
Gli intellettuali non possono trovare soddisfazione allo stesso modo delle semplici
persone, in quanto essi devono necessariamente essere amanti della verità e della
perfezione. Essi dovrebbero farsi portavoce degli ideali “più alti” e disprezzare quelli
mediocri e popolari. I potenti, elaborando una serie di ideali e facendo degli intellettuali i
portavoce di questi, riescono a controllare e gestire le reazioni della massa. Comunque sia,
questi non sono ancora riusciti ad onorare la loro intelligenza senza riuscire a difenderla
dalla violenza e dalla follia. Quasi tutti gli intellettuali sono stati oggetto di influenze da
parte dei potenti, dimostrando di non avere carattere.
Rolland allude poi all’impossibilità di imporre degli idoli, riferendosi ai capi del pensiero
della Kultur tedesca che plasmano a loro piacere le intelligenze dei tedeschi.
Il vero intellettuale, non pone se stesso al centro dell’universo. Al contrario, Rolland
paragona il genio ad una delle tante stelle che compongono la via lattea, senza imporre o
sottomettere la propria luce a quella delle altre. Essa deve cercare di comprendere quale sia
la loro essenza, in modo rispettoso. “Al di
sopra della mischia” (1914)

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 127

5. BENDA JULIEN

5.1. La Vita e il pensiero

(Parigi 1867- Fontenay-aux-Roses, Parigi 1915).


Benda fu letterato e filosofo francese. In vari saggi usciti negli anni 1910/1920 propugnò,
sia sul piano letterario sia in sede estetica, un ritorno al classicismo, al razionalismo,
“all’intelligenza pura” in opposizione tanto al bergsonismo imperante quanto al gusto
contemporaneo per l’inesprimibile, l’irrazionale, lo psicologico. Nel 1927 apparve il suo
libro più noto, “il tradimento dei chierici” in cui Benda accusa gli intellettuali di aver
tradito la causa della cultura per un impegno politico irrazionalistico. Nelle opere
successive egli riaffermerà i valori democratici contro il nazionalismo culturale prima, e il
nazionalismo invasore poi. Inoltre nella sua opera più celebre, di immediata e duratura
fortuna censurò gli intellettuali che, rinunciando alla disinteressata ricerca della verità
avevano politicizzato la propria attività e optato per l’esaltazione degli affetti e delle
passioni. Criticò, su queste premesse, ogni forma di settorialismo, di nazionalismo e di
esasperato individualismo.
Neoilluminista e difensore della classicità, fu ostile alle nuove tendenze della letteratura
contemporanea , accusandole di alessandrinismo, di decadentismo e di oscurità. Opere
principali in tal senso sono: “dialoghi a Bisanzio”, “il bergsonismo o una filosofia della
mobilità”, e soprattutto “il discorso alle nazioni europee”, Benda affrontò il problema
dell’unificazione europea, affermando la necessità di creare una coscienza culturale
unitaria.
A partire dalla critica sociale e politica, Benda maturò una più organica concezione
filosofica, che trovò espressione in “la fine dell’Eterno” (1929) e soprattutto nel “Saggio di
un discorso coerente sul rapporto tra dio e il mondo” (1931): tra dio (inteso come l’essere
indeterminato) e mondo (inteso come l’insieme dei fenomeni distinti), pone un dualismo
radicale espresso dalle due volontà del “dio infinito” e del distinto.
Nel mondo contemporaneo Benda vede la progressiva espansione della volontà di ritorno
al dio infinito e perciò il prevalere del contingente e dell’irrazionale. La sua conclusione
pessimistica è che il mondo fenomenico non ha più bisogno del dio infinito. Da ciò Benda

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 128

vide una riprova dell’esistenzialismo che egli contestò come filosofia dell’accidentale e del
caduco (tradizione dell’esistenzialismo, 1947).

5.2. Benda: la civiltà come felice accidente e l'imperialismo della specie sulla natura.

Il fatto che la specie umana abbia adottato il realismo integrale è definitivo o solo
passeggero? Assistiamo, come pensano alcuni, all'avvento di un nuovo - medioevo - molto
più barbaro del primo, tuttavia, poiché se in questo il realismo veniva praticato, almeno
non veniva esaltato - ma da cui nascerà un nuovo Rinascimento, un nuovo ritorno al culto
del disinteresse? Le componenti del realismo attuale da noi individuate non permettono
certo di sperarlo.
E’ difficile immaginarsi che i popoli si impegnino davvero a non riconoscersi più in ciò
che li rende distinti, o, se vi s'impegnano, che non lo facciano unicamente per concentrare
l'odio interumano nel campo della classe; riesce difficile concepire un clero che riconquisti
una vera potenza morale sui suoi fedeli e che possa, ammesso che ne abbia il desiderio, dir
loro impunemente delle verità spiacevoli; è difficile immaginarsi che una corporazione di
letterati (perché è l'azione corporativa che conta sempre di più) si metta a tener testa alle
classi borghesi invece di adularle; e ancora più difficile è immaginarsi che risalga la
corrente della sua decadenza intellettuale e cessi di credere che sia dar prova di alta cultura
farsi beffe della morale razionale e inginocchiarsi davanti alla storia.
Si parla invece di un’umanità che, esasperata dai suoi « sacri egoismi » e dai massacri ai
quali la condannano, lasci un giorno cadere le armi e ritorni, come fece duemila anni fa, ad
abbracciare un bene situato oltre se stessa, che lo abbracci con forza ancora maggiore di
allora, sapendo con quante lacrime e sangue ha pagato l'essersene allontanata.
Ancora una volta si avvererebbero le mirabili parole di Vauvenargues: « Le passioni
hanno insegnato agli uomini la ragione ». Ma un tale processo non mi sembra realizzabile
se non in tempi lunghi, dopo che la guerra avrà portato al mondo molti più danni di quanti
ne abbia fatti finora.
Gli uomini non mettono in discussione i propri valori per guerre che durano solamente
cinquanta mesi e uccidono in ciascuna nazione solo due milioni di uomini.
D'altra parte si può dubitare che la guerra diventi mai tanto terribile da scoraggiare coloro
che l'amano, tanto più che questi non sempre sono quelli che la fanno.

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 129

Ammettendo questa restrizione alle nostre previsioni pessimiste e ammettendo anche che
l'avvento di una rinascita sia una cosa possibile, noi vogliamo dire che è solo possibile.
Non potremmo concordare con chi dichiara che è una cosa certa, sia perché è già
successa una volta, sia perché «la civiltà è qualcosa di dovuto alla specie umana». La
civiltà come la intendo qui - il primato morale conferito al culto dei beni spirituali e al
senso dell'universale - mi sembra, nello sviluppo dell'uomo, un felice accidente; essa vi è
sbocciata, tremila anni fa, per un insieme di circostanze di cui lo storico ha sentito così
bene il carattere contingente da chiamarlo il «miracolo» greco; non mi sembra affatto
dovuta alla specie umana in virtù dei suoi dati naturali; mi sembra così poco una cosa del
genere che vedo numerosi settori della specie (il mondo asiatico nell'antichità, quello
germanico nell'età moderna) che si dimostrano incapaci di conseguirla e potrebbero
rimanere tali.
Vale a dire che se l'umanità giunge a perdere quest'ornamento, ci sono poche probabilità
che lo ritrovi; ce ne sono invece molte che non lo ritrovi affatto, come se un uomo che
avesse trovato un giorno una pietra preziosa nel fondo del mare e poi ve l'avesse lasciata
ricadere, avrebbe pochissime possibilità di rivederla.
Niente mi sembra meno fondato di quell'affermazione di Aristotele secondo la quale è
probabile che le arti e la filosofia siano state più volte scoperte e più volte perdute.
La posizione contraria che vuole che la civiltà, a dispetto di parziali eclissi, sia una cosa
che l'umanità non può perdere mi sembra non avere altro valore - ma è un valore immenso
per conservare proprio quel bene che vogliamo serbare - che quello di un atto di fede.
Non crediamo che si voglia fare una obiezione seria quando ci viene fatto presente che la
civiltà, già perduta una volta con la caduta del mondo antico, è stata però vista rinascere.
Oltre al fatto che nessuno ignora come lo spirito greco-romano fu lungi dall'essersi
veramente spento durante il medioevo e come il XVI secolo ha fatto rinascere solo ciò che
non era morto, aggiungo che, anche se questa forma di spirito allora fosse «rinata» ex
nihilo, questo esempio pur non mancando di turbarmi, per il fatto di esser unico non
basterebbe a rassicurarmi.
[...]
Dirò di più, che se l'esame del passato potesse portare a qualche valido pronostico circa
l'avvenire dell'uomo, questo pronostico sarebbe tutt'altro che rassicurante. Si dimentica che
il razionalismo ellenico ha veramente illuminato il mondo solo per settecento anni, in

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 130

seguito si è oscurato per dodici secoli e ha ricominciato a splendere appena da quattro; di


modo che il più lungo periodo di tempo consecutivo sul quale, nella storia umana,
possiamo fondare delle induzioni è, insomma, un periodo di oscurantismo intellettuale e
morale.
Più sinteticamente, guardando la storia sembra si possa dire che, tranne due o tre epoche
luminose e di durata molto breve la cui luce però, come quella di certi astri, illumina
ancora il mondo molto tempo dopo la loro estinzione, in generale l'umanità vive nella
notte, così come in generale le letterature vivono nella decadenza e l'organismo nel
disordine.
Aggiungiamo, cosa che non manca di produrre, turbamento, che l'umanità non sembra
adattarsi poi così male a questo regime di caverna e di lunghe stagioni. [...]
Dicevamo più sopra che la logica sottile di questo realismo integrale professato
dall'attuale umanità, è lo sterminio reciproco organizzato delle nazioni o delle classi. Se ne
può concepire anche un'altra, che sarebbe invece la loro riconciliazione, per cui il bene da
possedere diventerebbe la terra stessa, perché avrebbero finalmente capito che un buon
sfruttamento è possibile solo grazie alla loro unione, mentre la volontà di collocarsi fuori
del comune verrebbe trasferita dalla nazione alla specie, insorta orgogliosamente contro
tutto ciò che le è estraneo.
E, infatti, tale tendenza esiste; esiste, al di sopra delle classi e delle nazioni, una volontà
della specie di rendersi padrona delle cose e, quando un essere umano in poche ore vola da
un capo all'altro della terra, è tutta la razza umana a fremere d'orgoglio e ad adorare se
stessa come distinta dal resto del creato.
Aggiungiamo che questo imperialismo della specie, in fondo, è proprio ciò che predicano
i grandi rettori della coscienza moderna; è l'uomo, non la nazione o la classe, che
Nietzsche, Sorel, Bergson, esaltano, nel suo genio di rendersi padrone della terra; è
l'umanità, e non una sua frazione, che Auguste Comte invita a compenetrarsi della
coscienza di sé e ad assumersi infine,come oggetto della propria religione. Si può pensare a
volte che tale tendenza si affermerà sempre più e che per questa via si estingueranno 1e
guerre tra gli uomini; si arriverà così a una «fraternità universale», che però, lungi
dall'essere l'abolizione dello spirito di nazione con i suoi appetiti e i suoi orgogli, ne sarà
invece la forma suprema, dove la nazione si chiama Uomo e il nemico Dio.

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 131

E allora, unificata in un immenso esercito, in un’immensa fucina, non conoscendo altro


che eroismi, disciplina, invenzioni, irridendo a qualsiasi attività libera e disinteressata,
avendo smesso di collocare il bene al di là del mondo reale e non avendo altro Dio che se
stessa e le proprie volontà, l’umanità arriverà a grandi cose, voglio dire a una presa di
possesso della materia che la circonda veramente grandiosa, a una coscienza della propria
potenza e magnificenza veramente gioiosa.
E la storia sorriderà al pensiero che Socrate e Gesù Cristo sono morti per questa specie.
Benda, Il tradimento dei chierici [1927], pp. 191-194, 196-97)

5.3. Commento al brano di Benda: la precarietà della civiltà.

Benda si interroga sulla natura dei suoi tempi, domandandosi se l’avvento di un nuovo
Medioevo potrebbe provocare la nascita di un nuovo Rinascimento; ma egli sa bene che le
condizioni sociali attuali non permettono nemmeno di sperarlo.
E’ difficile infatti immaginare un popolo che sappia rinunciare all’individualismo, un
clero che sappia riconquistare un potere unicamente morale sui suoi fedeli, così come è
impossibile che una corporazione di letterati possa diventare il principale avversario della
borghesia anziché il suo miglior alleato.
Di fronte al prevalere di forze disgregatrici, come il militarismo e il patriottismo
esasperato, Benda si chiede se sia possibile superare la crisi provocata dalla guerra, e
ritornare ad una civiltà più giusta, più armonica.
Una rinascita quindi potrebbe essere possibile, ma ribadisce il fatto che è solo possibile.
La civiltà è un felice accidente, nel senso che non è qualcosa di dovuto alla specie umana,
tant’è che molti si dimostrano incapaci di conseguirla e, molti potrebbero addirittura
perderla.
Essa è sorta circa tremila anni fa per un insieme di circostanze, per ciò che fu chiamato il
“miracolo greco”: l’esistenza stessa della civiltà quindi, è considerata quasi un miracolo,
come qualcosa di improbabile; perderla potrebbe significare non riconquistarla più.
Dal punto di vista naturale l’uomo, di contro all’ideale positivistico di progresso, non
produce la civiltà attraverso il benessere. Egli è contro la teoria del progresso irreversibile,
inevitabile e inarrestabile. Secondo Benda la storia non progredisce necessariamente, anzi
può addirittura regredire.

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Quarta Parte: Kultur e Zivilisation 132

Benda ritiene che l’umanità, eccetto due o tre ere luminose, abbia vissuto
nell’oscurantismo intellettuale e morale, e oltretutto non sembra che si sia adattata poi così
male a questa buia condizione di decadenza.
La logica del realismo integrale tuttavia non consiste esclusivamente nello sterminio delle
nazioni o delle classi, ma anche nella logica della loro riconciliazione, grazie alla quale il
bene da possedere diventerebbe la terra stessa: la volontà della specie di rendersi padrona
delle cose esiste infatti al di sopra della nazione e delle classi. Dunque, a differenza di
Comte, Benda invita non l’uomo ma l’umanità a prendere coscienza di sé e assumersi
come oggetto della propria religione. Questa tendenza potrebbe condurre all’estinzione
della guerra tra gli uomini, arrivando così ad “una fraternità universale”, che non
rappresenta l’abolizione dello spirito di nazione, ma la sua forma suprema, dove la nazione
si chiama Uomo e il nemico è Dio.
In questo modo, l’umanità, non avendo altro Dio oltre sé stessa, conquisterà la materia
che la circonda, ritrovando così la sua perduta armonia.

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BIBLIOGRAFIA

AAVV Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano, Garzanti Editore, 1982

AAVV Enciclopedia multimediale Rizzoli-Larousse, Milano, Rizzoli, 1998

AAVV Dizionario Enciclopedico Italiano, Roma, Treccani Editore, 1961

AAVV Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano, Garzanti Editore,

1972

CIOFFI E ALTRI Profilo di storia della filosofia: ottocento e novecento, Milano,

Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 1998

CROUZET, MAURICE Storia del mondo contemporaneo, Firenze, Sansoni, 1974

FREUD, SIGMUND Psicologia delle masse e analisi dell'Io, Torino, Boringhieri, 1975

GIARDINA E ALTRI L’età contemporanea, Roma-Bari, Editori Laterza, 1993

GIDDENS, ANTHONY Sociologia, Bologna, Il Mulino, 1994

ISNENGHI, MARIO La grande Guerra, Firenze, Giunti, 1993

MANN, THOMAS La montagna incantata, Milano, dall’Oglio, 1965.

NACCI, MICHELA Tecnica e cultura della crisi, Torino, Loescher Editore, 1982

Spengler, OSWALD Il tramonto dell’Occidente, Milano, Longanesi, 1970

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SOMMARIO

Prefazione..............................................................................................................................1
Prima parte...........................................................................................................................3
La rivolta delle masse...........................................................................................................3
1. Premessa........................................................................................................................3
1. La massificazione della società..................................................................................4
1.2. La massificazione in campo sociale e ideologico...................................................5
1.3. la società di massa e la crisi della politica...............................................................5
2. L’irrazionalità come forma dell’uomo-massa............................................................6
2.1. La perdita dei valori e la disgregazione sociale......................................................8
2.2. La rivolta delle masse..............................................................................................9
2. Gustave Le Bon..........................................................................................................10
2.1. La Vita e il Pensiero..............................................................................................10
2.2. Le Bon: La psicologia delle folle..........................................................................11
2.3. Commento al brano di Le Bon: L’irrazionalità delle folle....................................15
3. Ortega Y Gasset Josè.................................................................................................17
3.1. La Vita...................................................................................................................17
3.2. Il pensiero..............................................................................................................17
3.3. Il Brano di Ortega: La ribellione delle masse.......................................................19
3.4. 0rtega commento...................................................................................................21
4. Sigmund Freud...........................................................................................................23
4.1. La Vita...................................................................................................................23
4.2. Il pensiero: Il disagio della civiltà.........................................................................25
4.3. Il Brano di Freud: individuo e massa....................................................................26
4.4. Il Commento..........................................................................................................30
Seconda parte.....................................................................................................................33
La crisi del positivismo e il dibattito sulla tecnologia.....................................................33
1. Premessa......................................................................................................................33
1.1. La crisi delle scienze e il crollo del paradigma positivistico................................33
1.2. Le magnifiche sorti e progressive.........................................................................34
1.3. La seconda rivoluzione scientifica e la crisi del positivismo................................36
1.4. Il fallimento del progetto sociale e politico del positivismo.................................38
1.4.1 La scienza e il futuro...........................................................................................40
1.4.2. La divaricazione tra etica e politica...................................................................41
1.4.3. Il trionfo del nichilismo e il destino dell’Occidente...........................................42
2. Haldane, John Burdon Sanderson............................................................................44
2.1. La Vita...................................................................................................................44
2.2. Il brano di Haldane: Dedalo, la scienza e il futuro................................................44
2.3. Commento ad Haldane: l’uomo del futuro come Dedalo.....................................46
3. Bertrand Russell.........................................................................................................49
3.1. La Vita...................................................................................................................49
3.2. Il Pensiero..............................................................................................................49
3.3 Il Brano di Russell: Icaro, il futuro della scienza...................................................50
3.4. Commento: “Icaro” come destino dell’uomo nell’età della scienza.....................52
4. Max Scheler................................................................................................................55

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4.1. La Vita e il Pensiero..............................................................................................55


4.2. Il Brano di Scheler: il capovolgimento dei valori e l’industrialismo come
decadenza.....................................................................................................................56
4.3. Commento a Scheler: la società moderna come risultato di un ribaltamento dei
valori............................................................................................................................59
5. Robert Musil...............................................................................................................61
5.1. La Vita e l’opera (1890-1942)...............................................................................61
5.2. Il brano di Musil: il mondo dell'uomo senza qualità.............................................62
5.3. Commento al brano di Musil: il demone della logica matematica........................66
Parte terza...........................................................................................................................68
La morte di dio e il crollo dei valori.................................................................................68
1. Premessa: Il crollo dei valori.....................................................................................68
1.1. La crisi dei valori..................................................................................................68
1.2. Nelle nebbie del domani........................................................................................69
1.3. La morte di dio......................................................................................................71
1.4. La decadenza dell’occidente come “epoca del nichilismo”..................................72
1. Friedrich Nietzsche....................................................................................................75
1.1. La vita....................................................................................................................75
1.2. Il Pensiero..............................................................................................................76
1.3. Il brano di Nietzsche: "La morte di dio"...............................................................78
1.4. Il Commento..........................................................................................................80
2. Hermann Broch..........................................................................................................82
2.1. La Vita...................................................................................................................82
2.2. Temi dell’opera di Broch......................................................................................83
2.3. Il brano di Broch: la disgregazione dei valori.......................................................83
2.4. Commento a Broch: la dissoluzione dei valori.....................................................86
3. Johan Huizinga...........................................................................................................87
3.1. La Vita...................................................................................................................87
3.2. Il pensiero..............................................................................................................88
3.3. Il brano di Huizinga: nelle ombre del domani......................................................90
3.4. Il commento: la perdita del futuro.........................................................................93
4. Stefan Zweig...............................................................................................................95
4.1. La Vita...................................................................................................................95
4.2. Il Pensiero..............................................................................................................96
4.3. Il brano di Zweig: la fine dell'« età d'oro della sicurezza »...................................97
4.4. Commento al brano di Zweig: l’età contemporanea come età della crisi...........100
Parte Quarta.....................................................................................................................102
Kultur e Zivilisation.........................................................................................................102
1. Premessa: Il Tramonto dell’Occidente.......................................................................102
1.1. La filosofia della storia di Spengler....................................................................103
1.2. La decadenza delle civiltà: Kultur e Civilisation................................................105
2. Oswald Spengler.......................................................................................................108
2.1. La Vita e il pensiero............................................................................................108
2.2. Il Brano di Spengler: il tramonto dell'Occidente e le illusioni del progresso.....110
2.3. Commento al brano di Spengler..........................................................................113
3. Thomas Mann...........................................................................................................115
3.1. La Vita e Le Opere..............................................................................................115
3.2. Il Pensiero............................................................................................................116

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136

3.3 I Brani di Mann: cultura e civiltà.........................................................................117


3.4. Commento del brano di Mann.............................................................................122
4. Rolland Romain........................................................................................................123
4.1. La Vita e il pensiero............................................................................................123
4.2. Rolland: l'idolo della Kultur: gli intellettuali nella mischia................................123
4.3. Commento al brano di Rolland: L’idolo della Kultur.........................................126
5. Benda Julien.............................................................................................................128
5.1. La Vita e il pensiero............................................................................................128
5.2. Benda: la civiltà come felice accidente...............................................................129
5.3. Commento al brano di Benda: la precarietà della civiltà....................................132
Bibliografia……………………………………………………………………………134
Sommario......................................................................................................................134

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