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Antropologia culturale
Antropologia Culturale
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
26 pag.
Paradigmi antropologici
Anche l'antropologia attraversa nel tempo «rivoluzioni» o «cambi di paradigma», benché la natura
di questi possa essere differente da quelli delle scienze naturali
Nell' antropologia e utile ragionare in termini sia di un insieme di prospettive teoriche in
competizione all'interno di ogni quadro di riferimento, sia di una gerarchia di livelli
teorici
Teoria ed etnografia
In antropologia si distingue spesso tra etnografia e teoria ma, in realtà, teoria ed etnografia si
fondono inevitabilmente, perché è impossibile occuparsi di etnografia senza una qualche idea di
ciò che e importante e di ciò che non lo è, così come la teoria senza etnografia non ha
assolutamente senso, poiché la comprensione delle differenze culturali è uno degli scopi più
importanti della ricerca antropologica.
Barnard ci ricorda che nella teoria ci sono quattro elementi fondamentali da considerare:
le domande
gli assunti
i metodi
i dati
Domande
Le domande possono essere di vario tipo:
cosiddette fondamentali: «Cosa stiamo cercando di scoprire?», e «Perché questa
conoscenza è utile?»,
oppure legate alla comprensioni dei processi: «Come cambiano le società?», «Come
funzionano le istituzioni sociali?», «Come gli uomini affrontano e classificano ciò che vedono
intorno a loro?»
Assunti
Gli assunti includono concezioni inerenti:
a ciò che è comune agli uomini
alla diversità culturale
all’esistenza o meno di valori condivisi in tutte le culture
Alcuni assunti sono comuni a tutti gli antropologi, altri no
Questo significa che, pur avendo qualcosa in comune, gli antropologi possono avere opinioni
significativamente diverse su come considerare il loro oggetto di studio
Metodi
I metodi si sono sviluppati nel corso del tempo e sono parte di ogni studio sul campo. Tuttavia essi
non includono solo quest'ultimo, bensì, con la stessa importanza, la comparazione
Dati
• I dati sono ovviamente una componente metodologica, ma il modo in cui vengono utilizzati, o
persino compresi, sarà differente a seconda della prospettiva teorica
• In altre parole, non solo le teorie dipendono dai dati, ma i dati stessi dipendono dalle domande a
cui si sta cercando di rispondere
La prospettiva evoluzionista
Le matrici dell’evoluzionismo antropologico
Lo sviluppo parallelo dell’ntropologia evoluzionista e della teoria darwiniana anche se la
diffusione delle teorie sull’evoluzione ebbe un forte impatto sulle scienze sociali
la teoria di Lamarck come analogia per spegare l’evoluzione culturale
tratti culturali di nuova invenzione possono essere trasmessi da un individuo all’altro
I nuovi tratti culturali hanno la capacità di trasformare le relazioni sociali esistenti
Le società divengono più complesse nel corso di questo processo
L’evoluzionismo in archeologia
Il dibattito sulla relazione tra le società «selvagge» o «primitive» contemporanee e
l’Inghilterra vittoriana
L’evoluzionismo unilineare
Secondo questa concezion esiste una linea di evoluzione dominante:
tutte le società passano attraverso gli stessi stadi.
le società progrediscono a velocità diverse e quelle che sono state più lente sono rimaste a
un livello «inferiore» rispetto a quelle che progrediscono più rapidamente.
Diversi evoluzionisti unilineari hanno posto l’accento su cose diverse:
la cultura materiale,
i mezzi di sussistenza,
l’organizzazione della parentela,
le credenze religiose.
Cultura e personalità
Quello per la cultura è stato l’interesse astratto a cui l’antropologia americana è stata
fedele da Boas agli anni “80 del secolo scorso, anche se non c’è sempre unanimità su
che cosa sia la «cultura»: AL. Kroeber e Clyde Kluckhohn nel 1952, citano più di cento
definizioni di cultura date da antropologi, filosofi, critici letterari e altri.
Tuttavia, se da un lato, la definizione di Tylor è rimasta al centro delle considerazioni
sulla cultura in senso astratto, la prospettiva che emerse come la più importante
nell’ambito antropologico fu quella di Ruth Benedict così come emerge dal suo testo
Modelli di cultura (1934) caratterizzata da:
Olismo
Nuova concezione della comparazione
In Modelli di cultura Benedict compara tre popoli:
gli zuni del New Mexico
i kwakiutl dell’Isola di Vancouver
i dobu della Melanesia
giungendo alla conclusione che ciò che è un comportamento normale in una cultura non
lo è in un’altra e che persino gli stati psicologici sono culturalmente determinati.
L’etnoscienza
Negli anni Sessanta i fautori dell’antropologia cognitiva fecero proprio l’interesse di
Whorf per la relazione tra la scienza occidentale contemporanea e le visioni del mondo
indigeno che essi studiavano.
Essi chiamarono il loro campo «etnoscienza», un termine spesso sovrapponibile ad
«antropologia cognitiva».
Al giorno d’oggi, tuttavia, «etnoscienza», più che una prospettiva teorica tende a
designare una specializzazione e precisamente l’interesse specializzato per i sistemi
indigeni di conoscenza come l’etnobotanica, l’etnozoologia, l’etnomedicina e così via.
Charles Frake
Il principale proponente dell’etnoscienza nel suo senso più ampio, Charles Frake, ha
esplorato sia gli aspetti esoterici sia quelli mondani nei suoi lavori sui sistemi
ecologici, l’interpretazione della malattia, i concetti del diritto, su come entrare in una
casa e come chiedere da bere tra i subanum, gli yakan e altre culture delle Filippine
Come mostrano questi esempi, l’etnoscienza di Frake tiene conto dell’azione sociale
oltre che delle categorie statiche del discorso etnoscientifico. Entrano in gioco
strategie e decision-making.
Emile Durkheim
L’autore cui si rifà maggiormente il funzionalismo è Emile Durkheim, sociologo, docente
alla Sorbona dal 1902 al 1917, e che ha avuto una grande influenza sull’antropologia
francese del 900, soprattutto attraverso l’opera di un suo allievo Marcel Mauss.
Durkheim ponendo l’accento sull’autonomia del sociale contro ogni riduzionismo storico
o psicologico e sulla concezione della società come SISTEMA organico — con l’uso
conseguente del concetto di funzione — viene considerato come l’anticipatore di molti
dei temi dell’antropologia funzionalista.
Lo struttural-funzionalismo
Lo struttural-funzionalismo designa il lavoro di Radcliffe-Brown e dei suoi seguaci
(Evans-Pritchard, Meyer Fortes e Jack Goody), una prospettiva che ha dominato
l’antropologia britannica tra gli anni 40 e 60 del secolo scorso
Lo struttural-funzionalismo, rispetto al funzionalismo tende a preoccuparsi meno delle
azioni e dei bisogni individuali e più della posizione degli individui nell’ordine sociale,
o nella costruzione dell’ordine sociale stesso
Benché tra le due prospettive teoriche vi siano stati sempre confini labili, le due
prospettive sono significativamente diverse e, soprattutto Radcliffe-Brown tenderà a
contrapporsi esplicitamente all’etnologia di Malinowski recuperando l’approccio
comparativo nell’elaborazione della teoria antropologica
Lo struttural-funzionalismo di Radcliffe-Brown
Secondo la prospettiva dello struttural-funzionalismo di Radcliffe-Brown la società viene
considerata funzionante:
“come un organismo sano, costituito da molte parti riunite in sistemi più ampi;
questi sistemi, ognuno con la propria funzione specifica e i suoi scopi, lavorano
insieme agli altri.
Le società hanno strutture simili a quelle degli organismi
Le istituzioni sociali, come le parti del corpo, funzionano insieme all’interno di
sistemi più grandi. I sistemi sociali come la parentela, la religione, la politica e
l’economia, presi tutti insieme costituiscono la società proprio come i diversi
sistemi biologici formano, tutti insieme, l’organismo”.
Il relativismo culturale
Melford Spiro identifica tre tipi relativismo culturale: relativismo descrittivo, relativismo
normativo e relativismo epistemologico
relativismo descrittivo
“Con entusiasmo variabile, gli antropologi sono stati «deterministi
culturali» fin dal diciannovesimo secolo, sostenendo che la cultura
stessa (e non semplicemente la biologia) regola il modo in cui gli uomini
percepiscono il mondo.
Un corollario di quest’affermazione è che la variabilità culturale produrrà
una differente comprensione culturale e psicologica a seconda della
popolazione; questa posizione è detta relativismo descrittivo.
In antropologia praticamente tutte le scuole di pensiero accettano
perlomeno una forma debole di relativismo descrittivo”.
Il relativismo normativo
il relativismo normativo parte dalla constatazione che ogni cultura giudica le altre in
conformità ai propri criteri interni, e giunge ad affermare che non esistono criteri
universali di giudizio tra le culture.
All’interno del relativismo normativo possiamo distinguere due forme logicamente
distinte:
il relativismo cognitivo
il relativismo morale
Il relativismo cognitivo
Il relativismo cognitivo riguarda le proposizioni descrittive, come «La luna è fatta di
formaggio verde» o «La musica pop fa venire il mal di testa».
Esso assume che, in termini di verità e falsità, tutte le asserzioni sul mondo sono
culturalmente contingenti, e che di conseguenza asserzioni non culturalmente
contingenti sono semplicemente impossibili. In altre parole, tutta la scienza è
etnoscienza
Il relativismo morale
Il relativismo morale ha a che fare con le proposizioni valutative, come «I gatti sono più
belli dei cani» o «E sbagliato mangiare verdura».
Esso assume che i giudizi etici ed estetici devono essere formulati nei termini di valori
culturali specifici piuttosto che universali. Ne consegue che, in termini sociali e
psicologici, sia il comportamento appropriato sia i processi di pensiero (per esempio, la
razionalità) devono essere giudicati in conformità a valori culturali.
Il relativismo epistemologico
Il relativismo epistemologico assume come suo punto d’avvio la più forte versione
possibile del relativismo descrittivo.
Esso combina una posizione estrema di determinismo culturale con la concezione che la
diversità culturale sia praticamente illimitata.
Qui è importante distinguere tra:
determinismo culturale generico che assume l’esistenza di uno schema culturale
universale tipico solo dell’uomo all’interno del quale le culture variano, per
esempio l’«unità psichica» del genere umano;
e determinismo culturale particolare secondo il quale non esiste una cosa del
genere. I relativisti epistemologici abbracciano questo secondo punto di vista.
Essi sostengono che la natura e la mente umana sono culturalmente variabili.
Quindi sia le generalizzazioni sulla cultura sia le teorie generali della cultura
sono ingannevoli.
Le nuove tecnologie:
con la loro pervasività e immediata ricettività, sembrano eliminare le mediazioni
lasciando l'individuo solo di fronte al compito di capire, scegliere, rifiutare, ecc.,
tendono ad occultare il fatto che è attraverso l'analisi e la critica culturale che
avviene la costruzione (distribuzione) delle capacità di elaborazione delle
informazioni
tendono ad occultare il fatto che è attraverso l'analisi e la critica culturale che si
formano gli orientamenti della cultura di massa e la formazione delle élites.
Habitat di significato
Il relativismo ci ha indotto a pensare alla cultura in termini di “mondi di significato” ma
ciò ci porta a pensare la cultura in termini di autonomia e di chiusura
L’habitat è una metafora derivata dall’ecologia e consente di pensare la cultura come un
ambiente in cui vive l’individuo e che può avere dei confini mobili, non
necessariamente coincidenti con gli habitat propri di altri attori sociali con i quali si
trova ad interagire
Gli habitat possono:
Espandersi e contrarsi
Possono combaciare del tutto, parzialmente o per niente
Possono essere identificati sia in singoli individui che in collettività
Per questo è solo l’analisi del processo culturale che si attiva nelle concrete relazioni
sociali a poter stabilire quando sia davvero condiviso un habitat di significato
Di fatto, nella maggior parte dei casi il processo culturale viene modellato
dall’intrecciarsi di habitat di significato piuttosto differenti fra loro
Habitat di significato
Il relativismo ci ha indotto a pensare alla cultura in termini di “mondi di significato” ma
ciò ci porta a pensare la cultura in termini di autonomia e di chiusura
L’habitat è una metafora derivata dall’ecologia e consente di pensare la cultura come un
ambiente in cui vive l’individuo e che può avere dei confini mobili, non
necessariamente coincidenti con gli habitat propri di altri attori sociali con i quali si
trova ad interagire
Gli habitat possono:
Espandersi e contrarsi
Possono combaciare del tutto, parzialmente o per niente
Possono essere identificati sia in singoli individui che in collettività
Per questo è solo l’analisi del processo culturale che si attiva nelle concrete relazioni
sociali a poter stabilire quando sia davvero condiviso un habitat di significato
Di fatto, nella maggior parte dei casi il processo culturale viene modellato
dall’intrecciarsi di habitat di significato piuttosto differenti fra loro
ANTROPOLOGIA ED ETNOGRAFIA
Se volete capire che cosa è una scienza, non dovete considerare innanzitutto le sue
teorie e le sue scoperte (e comunque non quello che dicono i suoi apologeti): dovete
guardare che cosa fanno quelli che la praticano. Nell’antropologia, o per lo meno
nell’antropologia sociale, coloro che la praticano fanno dell’etnografia. Ed è nel capire
che cosa è l’etnografia, o, più precisamente che cosa è fare etnografia, che si può
cominciare ad afferrare in che cosa consista l’analisi antropologica come forma di
conoscenza. (Geertz 1987, pp.41-42)
L’osservazione partecipante
Nella sua forma classica, losservazione partecipante consiste in una ricerca:
condotta da un singolo ricercatore e fondata sulla presunta neutralità
dell’osservatore partecipante
che trascorre un lungo periodo di tempo fra le persone che intende studiare
padroneggiandone la lingua
Immergendosi nelle loro attività quotidiane allo scopo di ottenere una
comprensione il più possibile completa dei loro significati culturali e delle
strutture sociali
attraverso l’esperienza empatica immediata e soggettiva dell’etnografo
Basata su un approccio positivistico, l’osservazione parteciapnte si fonda sul
presupposto che vi siano fatti sociali da scoprire: come sostiene M. “lo sforzo
principale deve essere quello di lasciare che i fatti parlino da soli”
Etnografia multivocale
Per comprendere la complessita dei contesti contemporanei, non basta l’asservazione
diretta e la raccolta di testimonianze orali da informatori più o meno consapevoli
A queste fonti tradizionali occorre affiancare l’analisi di altri “testi”: dai quotidiani ai
messaggi televisivi, dallo studio di documenti amministrativi all’analisi dei discorsi
politici, dai materiali foclorici ai film, ai documenti fotografici, ecc.
Alla tradizionale visione dall’interno occorre sostituire la complementarietà delle visioni:
dall’interno, dall’esterno e dai margini
In questo quadro sempre più complesso, inoltre, il ricercatore è chiamato ad esporre le
sue scelte toriche, ad esaminare ed esplicitare i percorsi metodologici, a riflettere sulle
relazioni complesse che si ativano fra i dati raccolti, i suoi vissuti e le interpretazioni
Etnografia multisituata
George Marcus a metà degli anni ‘90 ha proposto l’idea di un’”etnografia multisituata
nel sistema mondo”:
contrapponendo all’idea di un ricercatore orientato a “stare” a “radicarsi”, a
“risiedere” in un luogo e all’interno di un gruppo, l’dea di un ricercatore
orientato a “seguire” i migranti, le produzioni dei prodotti, le metafore, le
narrazioni, le biografie, i conflitti
ponendo l’accento sui processi del nomadismo contemporaneo e sui suoi effetti sia
a livello globale che locale
L’analisi culturale come scoperta dei significati che gli attori conferiscono alle loro azioni
I “significati”, per Geertz, non sono da scoprire a un livello che oltrepassa la realtà
dell’esistenza delle persone studiate, essi sono incorporati nelle società.
gli uomini interpretano non solo quando contemplano il mondo o riflettono sulla vita, ma
anche quando lavorano, giocano, danzano o altro.
l’uomo non può che “interpretare”, l’uomo interpretante agisce nei confronti della sua
vita, del flusso delle sue sensazioni, emozioni e sentimenti, ed è questa l’unica
procedura per conferire ordine e significato all’esperienza.
l’antropologo deve accantonare le sue concezioni dell’esistenza e “leggere” le
esperienze degli altri dall’interno, nel quadro della loro concezione, cogliendo il
significato delle forme simboliche e dei fatti culturali osservabili
Nella prima metà del secolo scorso, con il concetto di inculturazione, l’antropologia, ha
contribuito ad estendere gli ambiti nei quali sono rintracciabili processi significativi di
insegnamento/apprendimento ma che non sono riconosciuti come tali perché
caratterizzati da:
basso livello di intenzionalità
elevata informalità
carattere fortemente implicito e scarsamente accessibile all’individuo dei
contenuti trasmessi in quanto:
inscritti nella organizzazione profonda del sistema e delle regole comunicative
di un gruppo
Riguardano il modo di percepire, interpretare e dare significato ai contesti più
che contenuti specifici
Processi che:
si sviluppano dentro una molteplicità di condizioni e contesti, e coinvolgono una
molteplicità di attori istituzionali e non
Educazione e media
I mezzi di comunicazione di cui una società dispone per trasmettere i propri saperi,
insieme ai valori e ai modelli, giocano un ruolo importante nella strutturazione della
sfera cognitiva e nella percezione della realtà degli individui che ne fanno parte,
contribuendo a determinare alcuni aspetti del pensiero assai rilevanti, quali la
concezione del tempo, dello spazio e del rapporto interpersonale
I processi che hanno condotto l’umanità verso una sempre più spiccata
“esteriorizzazione” delle proprie capacità tecniche, mnemoniche e simboliche
attraverso l’utensile e la macchina, la tradizione orale, la scrittura e le nuove
tecnologie comunicative, si incrociano, oggi, in un mondo nel quale un numero
crescente di individui riceve e invia messaggi utilizzando quotidianamente il linguaggio
orale, quello scritto e quello iconico audiovisivo di televisioni e computer.
E’ dunque nella dinamica incessante tra “vicino” e “lontano”, tra messaggi orali e
scritti, tra rapporti diretti e virtuali, tra materiale e immateriale, che buona parte
dell’umanità produce, interpreta e trasmette alle giovani generazioni visioni del
mondo, modelli di comportamento, rappresentazioni del sé e dell’altro, individuali e
collettive
Dall’analisi antropologica del conflitto collettivo a una proposta per nuovi percorsi
educativi
La gestione delle differenze nell’epoca dell’interdipendenza dei mercati
Oggi la gestione delle differenze sembra essere divenuta la speranza e a un tempo la
minaccia per il nostro futuro
l’interdipendenza dei mercati,la diffusione di merci e di beni, la pervasività di
informazioni (solo) apparentemente omogenee :
sembrano spingere a condivisioni sempre più ampie e generali
si sovrappongono senza piani preordinati ad antiche e tenaci differenziazioni,
creandone di nuove, generando nuove tensioni, nuovi particolarismi, nuove
lacerazioni
Il potere e la cultura
Considerare che il potere risieda interamente ed esclusivamente nelle risorse materiali
restringe in modo eccessivo il campo d’analisi
Per molti gruppi umani il potere si origina dalle modalità con cui si organizzano le
relazioni interpersonali:
per molti uomini e per molte donne “vivere secondo le leggi del proprio gruppo
significa essere potenti.
L’esperienza storica dimostra ampiamente che, molte azioni politiche fondate su
simili concezioni del potere, sono in grado di sfidare a lungo gruppi che nel
conflitto possono dispiegare quantità assai maggiori di potenziale militare e di
beni materiali
Se si ignora completamente l’intero ambito delle concezioni del potere proprie delle
società “tradizionali” ci si confina in una visione poco realistica dell’attuale situazione
mondiale
Esempi
Molti esempi possono essere portati per dimostrare quale forza abbia un potere basato
su aspetti della vita sociale e culturale, su aspetti simbolici e normativi, insomma non
su beni e interessi solo materiali
L’Intifada palestinese
la resistenza di molti gruppi indiani del Nord America
le vicende dell’Afghanistan
il Vietnam
Etnicità e conflitto
Nella contemporaneità le guerre etniche mostrano come il sentimento di appartenenza
a un gruppo, l’identità culturale spesso presunta ma sempre vissuta come reale, gioca
un ruolo predominante:
“(…) essa anima la resistenza ad azioni militari violentissime, fa superare divisioni
politiche anche aspre, arma la mano omicida, travalica armoniose convivenze di
decenni, trasformando il coniuge, la maestra, l’amico, la vicina di casa, il
sacerdote, il dottore in un musulmano, in una hutu, in un serbo, in una croata, in
un sikh, in un “terrone”, si cancellano sentimenti, affinità, affetti, travolti dal
sospetto di essere traditi da chi è dipinto dalla propaganda politica, dai
nazionalismi patriottici, dagli integralismi religiosi, dagli stessi mezzi di
comunicazione di massa, come un nemico, un estraneo, un usurpatore subdolo di
posizioni economiche e sociali che non gli sono dovute proprio perché estraneo,
per nascita e sangue, alla purezza del gruppo”
I gruppi che si riconoscono in queste false identità, disseminati in tutto il mondo,
comprendono spesso milioni e milioni di individui