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KATE MOSSE

I CODICI DEL LABIRINTO


(Labyrinth, 2005)

A mio padre, Richard Mosse, uomo di grande integrità,


chevalier dei nostri tempi

A Greg, come sempre, per tutto,


passato, presente e futuro

Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi.


GIOVANNI, 8,32

L'histoire est un roman qui a été,


le roman est une histoire qui aurat pu être
La storia è il romanzo che è stato,
il romanzo è storia che avrebbe potuto essere
E. E J. DE GONCOURT
Tên përdu, jhamâi së rëcôbro
Tempo perduto mai non si riacquista
PROVERBIO OCCITANICO MEDIEVALE

Caro lettore,
sono stata per la prima volta a Carcassonne quindici anni fa. Fin dal
principio ho avuto la sensazione di conoscere quel posto, di capirlo. La
qualità della luce, le montagne in lontananza, il modo in cui le testimo-
nianze della storia sanguinosa e traumatica di quella regione erano dis-
seminate ovunque, quasi fossero cicatrici del paesaggio. Un luogo fami-
liare, sebbene non vi fossi mai stata prima: ne rimasi incantata. Ho cam-
minato, ho esplorato e ho appreso dei catari, cristiani del tredicesimo se-
colo condannati come eretici, i cui fantasmi sopravvivono nel tempo. Ho
letto tanto e di tutto, soprattutto per passione. Avevo già altri impegni e
progetti. Mi era venuta l'idea di scrivere un romanzo sui miti e le leggen-
de, sui segreti delle civiltà antiche, una storia su come questi segreti si
conservano, vengono plasmati e tramandati di generazione in generazio-
ne: una storia sul Graal che rimettesse in discussione tutte le teorie ormai
universalmente riconosciute, la storia di un Graal precristiano. Lo scena-
rio che avevo inizialmente immaginato era l'Egitto, non la Francia.
Tuttavia i miti, le leggende e le storie della Linguadoca continuavano a
ronzarmi nella testa. Poco alla volta le due cose cominciarono a fondersi
finché i contorni del romanzo non furono chiari: il destino, l'ombra della
storia, il presente radicato nel passato. Tre libri smarriti, due donne, un
segreto racchiuso in un labirinto, una storia sul Graal ambientata in ma-
niera insolita fra i paesaggi senza tempo della Francia sud-occidentale.
Fare ricerche, studiare, indagare su epoche, persone, luoghi, imparare
dagli errori, tornare indietro e ricominciare daccapo: tutto ciò ha costitui-
to un'esperienza meravigliosa, sempre stimolante, a volte sorprendente,
impegnativa, molto divertente tanto che mi spiace (quasi) che sia termina-
ta.
Ora è tutto in mano tua, caro lettore, e mi auguro che la lettura di que-
sto libro sia piacevole quanto è stato piacevole per me scriverlo.

NOTA DELL'AUTRICE

Nota storica
Nel marzo dell'anno 1208, il pontefice Innocenzo III bandì una crociata
contro una setta di cristiani che abitava la Linguadoca. Oggi essi sono ge-
neralmente noti come catari. Allora si definivano bons chrétiens; Bernardo
di Chiaravalle vi si riferiva con l'appellativo di albigesi, mentre per il tri-
bunale dell'Inquisizione essi erano soltanto "eretici". Papa Innocenzo III
intendeva cacciare i catari dal Mezzogiorno per restaurarvi l'autorità reli-
giosa della chiesa cattolica. I baroni francesi del nord che presero parte alla
crociata vedevano in essa un'occasione per annettersi nuovi territori, per
accrescere la propria ricchezza e per trarre vantaggio dall'assoggettamento
della nobiltà, oltremodo indipendente, del meridione.
Sebbene già dalla fine dell'undicesimo secolo il principio che era alla
base delle crociate fosse un concetto fondamentale per la vita cristiana del
Medioevo, e sebbene durante la quarta crociata, in occasione dell'assedio
di Zara del 1204, i crociati avessero colpito altri cristiani, quella era la
prima volta che veniva predicata la guerra santa contro gli stessi cristiani e
su suolo europeo, per giunta.
La persecuzione dei catari portò direttamente alla nascita del-
l'Inquisizione nel 1233 sotto gli auspici dei frati domenicani, i cosiddetti
frati predicatori.
Quali che fossero le motivazioni religiose della chiesa cattolica e quelle
politiche dei condottieri degli eserciti crociati, come Simon de Montfort, la
crociata contro gli albigesi fu essenzialmente una guerra di occupazione e
segnò un punto di svolta nella storia di quella che è oggi la Francia. Rap-
presentò la fine dell'indipendenza del sud e la distruzione di molte tradi-
zioni, ideali e stili di vita.
Come il termine "cataro", la parola "crociata" non veniva usata nei do-
cumenti medievali. L'armata cristiana veniva chiamata "l'esercito", "l'ost"
in occitanico. In ogni modo, dal momento che oggi entrambi i termini sono
di uso comune, li ho presi in prestito più di una volta per comodità.

Nota sulla lingua

In epoca medievale, la langue d'Oc, da cui deriva il nome della regione


Linguadoca, era la lingua del Midi, che si estendeva dalla Provenza all'A-
quitania. Era anche la lingua della Gerusalemme cristiana e dei territori
occupati dai crociati a partire dal 1099, e veniva parlata anche in alcune
zone della Spagna e dell'Italia settentrionali. Presenta diverse affinità con il
provenzale e con il catalano.
Nel tredicesimo secolo, la langue d'oil, antesignana del francese moder-
no, veniva parlata nella parte settentrionale dell'attuale Francia.
Durante le invasioni del meridione, che ebbero inizio nel 1209, i baroni
francesi del nord imposero la propria lingua alla regione conquistata. Dalla
metà del ventesimo secolo, si è verificato un ritorno in auge della lingua
occitanica, per merito di autori, poeti e storici quali René Nelli, Jean Du-
vernoy, Déodat Roché, Michel Roquebert, Anne Brenon, Claude Marti e
altri. Attualmente, esiste una scuola bilingue, occitanico-francese, nella Ci-
té al centro della fortezza medievale di Carcassonne e sui cartelli stradari si
può notare la grafia occitanica affiancata a quella francese per indicare cit-
tà e regioni.
Nel romanzo ho utilizzato ora l'occitanico ora il francese per distinguere
rispettivamente gli abitanti del Pays d'Oc dagli invasori del nord. Pertanto,
alcuni nomi di persone o di luoghi possono comparire con grafie diverse,
come per esempio Carcassonne in francese e Carcassona in lingua d'oc,
Toulouse e Tolosa, Béziers e Besièrs.
Stralci di poesie e detti sono stati tratti dal Proverbes et Dictons de lan-
gue d'Oc a cura di Pierre Trinquier e da 33 Chants Populaires du Langue-
doc.
Inevitabilmente, vi sono alcune differenze di scrittura tra l'occitanico
medievale e quello di uso contemporaneo. Per coerenza, ho utilizzato co-
me guida per lo più il dizionario occitanico-francese La Planqueta di An-
dré Lagarde. Per ulteriori informazioni si rimanda al glossario in fondo al
volume.

PROLOGO

PIC DE SOULARAC
MONTI DEL SABARTHÈS
FRANCIA SUD-OCCIDENTALE
Lunedì, 4 luglio 2005

Un rivolo di sangue scorre lungo l'interno pallido del braccio, una cuci-
tura purpurea sulla manica bianca.
All'inizio, Alice pensa che si tratti di una mosca e non ci bada. Gli insetti
rientrano nei rischi professionali di una zona archeologica e per qualche
ragione ci sono più mosche nella parte alta della montagna dove lei sta la-
vorando che sotto, nell'area principale di scavo. Poi una goccia di sangue
cade sulla gamba scoperta ed esplode nell'aria come un fuoco d'artificio
nella notte di Guy Fawkes.
Stavolta guarda e vede che il taglio nella parte interna del braccio, all'al-
tezza del gomito, si è riaperto. È una ferita profonda e non vuole rimargi-
narsi. Con un sospiro preme il cerotto e la garza per farli aderire alla pelle.
E dopo, siccome nessuno la vede, lecca la striscia rossa dal polso verso
l'alto.
Alcune ciocche di capelli, scure come zucchero di canna, sono uscite dal
berretto. Le aggiusta dietro le orecchie e si asciuga la fronte con il fazzo-
letto, poi avvolge la coda di cavallo in una crocchia ben stretta sulla nuca.
Perduta la concentrazione, Alice si alza e si sgranchisce le gambe magre
e leggermente abbronzate. Con i calzoncini di jeans sfrangiati, la T-shirt
bianca, aderente e senza maniche, e il berretto, non dimostra più di ven-
t'anni. Una volta le dispiaceva. Ora che l'età avanza, capisce quale fortuna
sia sembrare più giovane. Le uniche concessioni alla moda sono dei minu-
scoli orecchini d'argento a forma di stella che luccicano come lustrini.
Alice svita il tappo della borraccia. L'acqua e calda, ma lei ha molta sete
e ne trangugia a grandi sorsi. Più in basso, la foschia prodotta dal calore
scintilla sull'asfalto deformato della strada. Il cielo sopra di lei è di un az-
zurro senza fine. Le cicale continuano il loro coro incessante, nascoste al-
l'ombra dell'erba secca.
È la prima volta che Alice si trova sui Pirenei, eppure si sente decisa-
mente a casa. Le hanno detto che d'inverno le vette frastagliate dei monti
del Sabarthès si coprono di neve. In primavera, delicati fiori rosa, lilla e
bianchi spuntano dai loro nascondigli nelle grandi distese di rocce. All'ini-
zio dell'estate, i pascoli sono verdi e punteggiati di ranuncoli. Adesso, in-
vece, il sole ha soggiogato la terra, trasformando il verde in marrone. È un
bel posto, pensa, ma in un certo senso inospitale. È un luogo di segreti, un
luogo che ha visto e nascosto troppe cose per poter essere in pace con se
stesso.
All'accampamento principale, sui pendii meno ripidi, Alice vede i suoi
colleghi sotto i grossi tendoni. Riesce a intravedere Shelagh nell'abituale
tenuta nera. Strano che si siano già fermati. È troppo presto per una pausa,
ma in effetti tutta la squadra è alquanto demoralizzata.
Svolgono per lo più un lavoro meticoloso e monotono, scavano e ra-
schiano, catalogano e registrano, e finora non hanno trovato nulla di tanto
importante da giustificare i loro sforzi: alcuni frammenti di vasi e ciotole
dell'alto Medioevo, punte di frecce che risalgono alla fine del dodicesimo
secolo o all'inizio del tredicesimo, ma di sicuro nessuna traccia dell'inse-
diamento paleolitico che stanno cercando.
Alice è tentata di scendere e raggiungere i suoi amici e colleghi, anche
per sistemare la fasciatura. La ferita le brucia e ha i polpacci indolenziti
per essere stata accovacciata a lungo. Ha i muscoli delle spalle contratti.
Ma sa che se si ferma ora, perderà lo slancio.
Se tutto va bene, la fortuna sta per girare dalla sua. Poco fa ha notato
qualcosa che luccicava sotto un grosso masso appoggiato con estrema pre-
cisione contro la parete rocciosa, quasi che una mano gigante avesse volu-
to sistemarlo in quel modo. Sebbene non riesca a capire di cosa si tratti, e
nemmeno quanto sia grande quell'oggetto, è tutta la mattina che scava e
pensa che tra non molto riuscirà a raggiungerlo.
Sa che dovrebbe andare a chiamare qualcuno. O perlomeno dovrebbe
avvertire Shelagh, la sua migliore amica e incaricata degli scavi. Alice non
è un'archeologa professionista, è soltanto una volontaria che vuole trascor-
rere parte delle vacanze estive facendo qualcosa di utile. Ma questo è il suo
ultimo giorno di scavi e vuole dimostrare quanto vale. Se tornasse ora al-
l'accampamento principale e confessasse di aver trovato qualcosa, tutti
vorrebbero partecipare e non sarebbe più la sua scoperta.
Nei giorni e nelle settimane a venire Alice ripenserà a questo momento.
Si ricorderà della qualità della luce, del sapore metallico di sangue e polve-
re che sente in bocca, e penserà a quanto le cose sarebbero state diverse se
avesse deciso di andarsene anziché restare. Se avesse deciso di giocare se-
condo le regole.
Beve l'ultimo goccio d'acqua dalla borraccia e la butta nello zaino. Per
un'ora, o poco più, mentre il sole si alza sempre più in cielo e la temperatu-
ra aumenta, Alice continua a lavorare. Gli unici rumori sono lo stridore del
metallo contro la roccia, il ronzio degli insetti e di tanto in tanto il brusio di
un velivolo leggero in lontananza. Sente le gocce di sudore sul labbro su-
periore e fra i seni, ma continua a scavare finché, finalmente, lo spazio sot-
to il masso è abbastanza grande da infilarci la mano.
In ginocchio per terra, Alice appoggia la guancia e la spalla alla roccia
per sorreggersi. Poi, tutta eccitata, affonda le dita nella terra scura e umida.
In un attimo, capisce che il suo istinto non si sbagliava e che ha trovato
qualcosa di importante. Al tatto è liscio e scivoloso: metallo, non pietra.
Lo afferra saldamente, dicendo a se stessa di non aspettarsi troppo, poi e-
strae molto lentamente l'oggetto. La terra sembra tremare, restia a cedere il
suo tesoro.
L'odore forte e nauseante della terra bagnata le penetra nel naso e nella
gola, ma non le importa. È già immersa nel passato, ammaliata da quel
pezzo di storia che custodisce fra le mani. È una fibbia tonda e pesante, ri-
coperta di macchioline nere e verdi dovute all'età e al lungo periodo tra-
scorso sottoterra. Alice la strofina con le dita e sorride quando vede un par-
ticolare in argento e rame comparire da sotto lo sporco. A prima vista,
sembra che appartenga anch'essa all'epoca medievale, una di quelle fibbie
che si usavano per chiudere i mantelli o le tuniche. Ha già visto qualcosa
di simile in passato.
Sa quanto sia rischioso saltare alle conclusioni o lasciarsi ingannare dal-
la prima impressione, eppure non può fare a meno di figurarsi il proprieta-
rio di quell'oggetto, morto da lungo tempo oramai, che potrebbe aver per-
corso quei sentieri. Uno straniero con una storia che lei ben presto dovrà
conoscere.
Il legame le sembra fortissimo e Alice è così assorta da non accorgersi
del masso che si sposta. Poi qualcosa, una sorta di sesto senso, le dice di
alzare lo sguardo. Per una frazione di secondo, il mondo sembra sospeso,
fuori dallo spazio e dal tempo. Alice guarda incantata l'antica lastra di pie-
tra che oscilla, si inclina e poi comincia lentamente a cadere verso di lei.
Alla fine, la luce si oscura. L'incanto si rompe. Alice si sposta di lato,
ruzzola qualche istante e si allontana strisciando, giusto in tempo per evita-
re di essere schiacciata. Il masso cade a terra con un tonfo, sollevando una
nuvola di polvere marroncina, quindi comincia a rotolare come al rallenta-
tore fino a fermarsi ai piedi della montagna.
Alice si aggrappa disperatamente ai cespugli e alla sterpaglia per non
scivolare più in basso. Per un momento rimane sdraiata a terra, stordita e
disorientata. Quando realizza che per pochissimo non è stata schiacciata, si
sente gelare. C'è mancato poco. Un respiro profondo. Aspetta che il mon-
do smetta di vorticare.
A poco a poco il martellio nella testa cessa. Il senso di nausea si placa e
tutto torna normale, quanto basta perché si sieda e faccia il punto della si-
tuazione. Ha le ginocchia sbucciate e striate di sangue e ha battuto il polso
durante l'atterraggio di fortuna; ha ancora la fibbia stretta nel pugno, ma in
fondo se l'è cavata con qualche graffio. Non sono ferita.
Si rialza e si toglie la polvere di dosso, si sente un'idiota. Non può crede-
re di aver commesso un'errore tanto banale, quello di non bloccare il mas-
so. Ora Alice guarda in direzione dell'accampamento principale della zona
di scavo. È stupita, e sollevata, che nessuno laggiù abbia visto o sentito
nulla. Alza la mano, è sul punto di gridare per attirare l'attenzione di qual-
cuno, quando vede una stretta apertura sul fianco della montagna, nel pun-
to in cui si trovava il masso. Come una porta scavata nella roccia.
Si dice che questi monti siano pieni di caverne e passaggi segreti, perciò
Alice non si stupisce. Eppure, pensa, in un certo senso sapeva che c'era
quel varco, anche se dall'esterno non c'era modo di capirlo. Se lo sentiva,
più che altro.
È indecisa. Sa che dovrebbe andare a chiamare qualcuno. È stupido, for-
se anche pericoloso, entrare da sola senza nessuno che le copra le spalle.
Sa bene quante cose possono andare storte. Ma in ogni caso non dovrebbe
trovarsi lassù a lavorare per conto suo. Shelagh non ne è al corrente.
Oltretutto, c'è qualcosa che la attira là dentro. Qualcosa di personale. Si
tratta della sua scoperta.
Alice dice a se stessa che non c'è motivo di disturbare gli altri, di ali-
mentare speranze inutili. Se c'è qualcosa di interessante, allora chiamerà
qualcuno. Non farà nulla. Darà soltanto un'occhiata.
Soltanto un minuto.
Risale a fatica. C'è un profondo avvallamento nel terreno all'entrata della
caverna, nel punto in cui era posizionato il masso. La terra umida brulica
di vermi e coleotteri che, esposti alla luce improvvisa dopo tanto tempo, si
dimenano in modo frenetico. Il berretto è ancora per terra dov'è caduto.
Anche la cazzuola è esattamente dove l'ha lasciata.
Alice scruta nell'oscurità. L'apertura è alta circa un metro e mezzo e lar-
ga poco meno di un metro, i bordi sono irregolari, scabri. Sembra naturale,
più che creata dall'uomo, anche se, strofinando con le dita la superficie
rocciosa, Alice scopre dei punti stranamente lisci là dove giaceva il masso.
A poco a poco gli occhi si abituano al buio. Il nero pece diventa grigio
fumo e lei capisce che sta guardando in un tunnel lungo e stretto. Sente la
peluria sulla nuca irrigidirsi, quasi volesse avvertirla che c'è qualcosa in
agguato nell'oscurità, che sarebbe meglio non disturbare. Ma è soltanto
sciocca superstizione e scaccia via quel presentimento. Alice non crede ai
fantasmi e nemmeno alle premonizioni.
Con la fibbia stretta nel pugno come un talismano, tira un respiro pro-
fondo e si addentra nel tunnel. Subito, l'odore di chiuso di quel luogo sot-
terraneo la avvolge riempiendole bocca, gola e polmoni. L'ambiente è
freddo e umido, niente a che vedere con l'aria secca e asfissiante della ca-
verna sigillata da cui l'hanno messa in guardia, perciò pensa che debba es-
serci una sorgente di aria fresca. Fruga nelle tasche dei calzoncini finché
non trova l'accendino, non si sa mai. Lo apre con uno scatto, lo solleva nel
buio e controlla due volte che ci sia ossigeno. La fiamma si indebolisce a
causa di un soffio di vento, ma non si spegne.
Alice è nervosa e si sente un po' in colpa, avvolge la fibbia nel fazzoletto
e se l'infila in tasca, quindi avanza con cautela. La luce dell'accendino è
fioca, ma illumina il cammino davanti a lei lasciando in ombra le pareti
grigie e appuntite.
Mentre avanza, sente l'aria fredda avvolgersi come un gatto intorno alle
gambe e le braccia nude. Sta camminando in discesa. Avverte il terreno in-
clinarsi sotto i piedi, ciottoloso e irregolare. Lo scricchiolio delle pietre e
della ghiaia si sente più forte in quello spazio angusto e silenzioso. Alice si
rende conto che la luce del giorno alle sue spalle si affievolisce a mano a
mano che si inoltra nella caverna.
A un tratto non vuole più proseguire. Non vuole più neanche trovarsi lì.
Ma c'è qualcosa di ineluttabile che la spinge ad addentrarsi nel ventre della
montagna.
Dopo una decina di metri il tunnel giunge alla fine. Alice si ritrova sulla
soglia di una stanza a sé, un'altra caverna. Si trova su una piattaforma di
pietra naturale. Un paio di gradini bassi e larghi davanti a lei conducono al
centro della stanza, dove il terreno è stato spianato e levigato. La caverna è
lunga circa dieci metri e larga cinque, e pare modellata dalla mano del-
l'uomo piuttosto che dalla natura. Il soffitto a volta è basso, come quello di
una cripta.
Alice sgrana gli occhi, alza un po' la fiamma tremolante dell'accendino,
turbata da un qualcosa di familiare che non riesce a spiegarsi. È sul punto
di scendere i gradini quando vede che ci sono delle lettere incise nella pie-
tra. Si abbassa e cerca di leggere cosa c'è scritto. Solo le prime tre parole e
l'ultima lettera - una N o forse una H - sono leggibili. Le altre sono state
erose o cancellate. Alice strofina lo sporco con le dita e scandisce le parole
a voce alta. La sua voce echeggia stranamente ostile e minacciosa nel si-
lenzio.
«P-a-s a p-a-s... Pas a pas.»
Passo passo? Passo passo cosa? Un vago ricordo affiora dall'inconscio,
come una canzone dimenticata da tempo. Poi svanisce.
«Pas a pas» sussurra stavolta, ma non significa nulla. Una preghiera?
Un avvertimento? Non ha senso se non si conosce il seguito.
Agitata, si rialza e scende i gradini uno alla volta. La curiosità lotta con-
tro il presagio e sente che sulle braccia esili e scoperte sta spuntando la
pelle d'oca, non sa dire se per l'ansia o per il freddo della caverna.
Alice tiene alta la fiamma per illuminare il cammino, facendo attenzione
a non scivolare e a non spostare nulla. Arrivata nel punto più basso, si fer-
ma. Respira profondamente e fa un passo nel buio fittissimo. Riesce sol-
tanto a intravedere la parete sul fondo della stanza.
A questa distanza è difficile stabilire se si tratti di un gioco di luce o di
un'ombra provocata dalla fiamma, ma le sembra di vedere una grande figu-
ra circolare, fatta di linee e semicerchi, dipinta o scolpita nella roccia. Per
terra, di fronte alla parete, c'è un tavolo di pietra, alto poco più di un metro,
simile a un altare.
Alice tiene gli occhi incollati al simbolo sulla parete, per non perdere l'o-
rientamento, e intanto avanza lentamente. Ora riesce a vedere meglio il di-
segno. È una specie di labirinto, anche se la memoria le dice che qualcosa
non quadra. Non è un labirinto vero e proprio. Le linee non conducono
come dovrebbero verso il centro. Il disegno è sbagliato. Alice non sa spie-
gare come fa a esserne tanto sicura, sa soltanto che è così.
Senza distogliere lo sguardo dal labirinto, si avvicina sempre di più. Con
il piede urta qualcosa di duro. C'è un lieve rumore sordo, qualcosa che ro-
tola, come un oggetto che si sposta.
Alice guarda in basso.
Le gambe cominciano a tremare. La pallida fiamma dell'accendino ha un
guizzo. Lo shock le toglie il respiro. Si trova sull'orlo di una fossa poco
profonda, un leggero avvallamento del terreno, nient'altro. All'interno ci
sono due scheletri, una volta due esseri umani, le ossa ripulite dal tempo.
Le orbite vuote di uno dei due teschi sono rivolte verso di lei. L'altro te-
schio, quello che ha inavvertitamente spostato con il piede, è di profilo,
quasi rifiutasse di guardarla.
I corpi sono stati sistemati fianco a fianco e rivolti all'altare, simili a
sculture scolpite in una pietra tombale. Sono disposti in modo simmetrico
e allineati alla perfezione, ma non c'è nulla in quel sepolcro che ispiri tran-
quillità. Non c'è alcun senso di pace. Gli zigomi di un teschio sono frantu-
mati, piegati all'interno come in una maschera di cartapesta. L'altro schele-
tro ha diverse costole rotte che sporgono come i fragili rami di un albero
secco.
Non possono farti alcun male. Decisa a non cedere alla paura, Alice si
sforza di chinarsi, prestando attenzione a non spostare nient'altro. Dà u-
n'occhiata alla fossa. C'è un pugnale appoggiato fra i due corpi, la lama
smussata dagli anni, e qualche brandello di stoffa. Accanto al pugnale, una
sacca di pelle con un cordoncino, grande abbastanza da contenere una sca-
tolina o un libro. Alice aggrotta la fronte. È sicura di aver già visto qualco-
sa del genere prima d'ora, ma la memoria si rifiuta di collaborare.
L'oggetto bianco e tondo incastrato fra le dita ad artiglio dello scheletro
più minuto è talmente piccolo che quasi le sfugge. Senza fermarsi a pensa-
re se sta facendo la cosa giusta, recupera rapidamente le pinzette dalla ta-
sca. Si abbassa ed estrae l'oggetto con cautela, lo porta vicino alla fiamma
e soffia delicatamente per togliere la polvere ed esaminarlo con attenzione.
È un piccolo anello di pietra, semplice e di scarso valore, dalla superficie
liscia e bombata. Anche questo è stranamente familiare. Alice lo guarda
con attenzione. Nella parte interna vi è inciso un disegno. Dapprima pensa
che si tratti di uno stemma. D'un tratto, con un sobbalzo, capisce. Alza gli
occhi, guarda i segni sulla parete in fondo alla stanza, poi di nuovo l'anello.
Il disegno è identico.
Alice non è religiosa. Non crede all'inferno né al paradiso, né in Dio né
nel demonio, e nemmeno alle creature che si crede infestino questi monti.
Eppure, per la prima volta in vita sua, è sopraffatta dalla sensazione di tro-
varsi davanti a qualcosa di soprannaturale, qualcosa di inspiegabile, qual-
cosa che va al di là della sua esperienza e della sua capacità di compren-
sione, Sente la malvagità strisciarle sulla pelle, sulla testa, sulle piante dei
piedi.
Il coraggio vacilla. La caverna all'improvviso è gelida. La paura la affer-
ra alla gola, congela il respiro nei polmoni. Si alza in fretta. Non dovrebbe
trovarsi in questo luogo antico. Ora vuole disperatamente uscire dalla stan-
za, fuggire da quelle tracce di violenza, da quell'odore di morte, tornare al
sicuro, nella luce splendente del sole.
Ma è troppo tardi.
Sopra o dietro di lei, non sa di preciso dove, si sentono alcuni passi.
Il rumore rimbomba nello spazio angusto, rimbalza sulle rocce. Sta arri-
vando qualcuno.
Alice si volta allarmata e fa cadere l'accendino. La caverna precipita nel
buio. Cerca di scappare, ma è disorientata dall'oscurità e non riesce a tro-
vare l'uscita. Inciampa. Le gambe cedono.
Cade. L'anello vola in aria e atterra di nuovo sul cumulo di ossa a cui
appartiene.
II

CARCASSONNE
FRANCIA SUD-OCCIDENTALE

Pochi chilometri più a est in linea d'aria, in un paesino sperduto sui mon-
ti del Sabarthès, un uomo alto, magro, con un completo chiaro è seduto da
solo a un tavolo di legno scuro, lucidato a specchio.
Il soffitto basso e il pavimento rivestito di grosse mattonelle quadrate,
rosse come la terra di montagna, tengono fresca la stanza malgrado il caldo
di fuori. La persiana dell'unica finestra è chiusa, per cui è buio, tranne l'a-
lone di luce gialla prodotto da una piccola lampada a olio sul tavolo. Ac-
canto alla lampada c'è un bicchiere ricolmo di liquido rosso quasi fino al-
l'orlo.
Sparsi sul tavolo ci sono diversi fogli di pesante carta filigranata, ognuno
ricoperto di righe e righe scritte in bella grafia con inchiostro nero. La
stanza è silenziosa, si sentono solo la penna che graffia e striscia sul foglio
e i cubetti di ghiaccio che tintinnano contro il bordo del bicchiere ogni vol-
ta che l'uomo beve. C'è un lieve odore di alcol e ciliegie. Il ticchettio del-
l'orologio scandisce il passare del tempo mentre l'uomo si ferma, riflette e
riprende a scrivere.

Ciò che ci lasciamo alle spalle in questa vita è il ricordo di chi


siamo stati e di ciò che abbiamo fatto. Un'impronta, nulla di più.
Io ho imparato molto. Sono diventato saggio. Ma ho contribuito a
cambiare le cose? Non saprei dirlo. Pas a pas, se va luènh.
Ho guardato il verde della primavera cedere il posto all'oro
dell'estate, il rame dell'autunno cedere il passo al bianco dell'in-
verno, mentre me ne stavo seduto ad aspettare che il giorno finis-
se. Più e più volte me ne sono chiesto il motivo. Se avessi saputo
cosa significava vivere in questa solitudine, restare unico testi-
mone di un ciclo infinito di nascita, vita e morte, che cosa avrei
fatto? Alaïs, sono oppresso dal fardello della mia solitudine, sono
troppo debole per portarlo ancora. Sono sopravvissuto tutti questi
anni con un senso di vuoto nell'animo, un vuoto che col tempo è
diventato sempre più grande, più grande persino del mio cuore.
Ho lottato per rispettare le promesse che ti ho fatto. Una l'ho
mantenuta, l'altra è ancora in sospeso. Almeno per il momento.
Da un po' di tempo ormai ti sento più vicina. Il nostro momento
sta per arrivare. Tutto va per il verso giusto. Presto la caverna
verrà aperta. Sento già la verità diffondersi intorno a me. E il li-
bro, da lungo tempo al sicuro, verrà scoperto.

L'uomo si ferma e afferra il bicchiere. Ha lo sguardo impastato di ricor-


di, ma il Guignolet è forte e dolce e lo rinvigorisce.

L'ho trovata. Finalmente. E mi chiedo: se metto il libro nelle


sue mani, le sembrerà familiare? Il ricordo di esso è scritto nel
suo sangue e nelle sue ossa? Si ricorderà di come luccica e cam-
bia colore la copertina? Se scioglie i legacci e lo apre, attenta a
non danneggiare la pergamena ormai secca e friabile, si ricorde-
rà le parole che riecheggiano attraverso i secoli?
Io prego perché alla fine, quando i miei lunghi giorni volgeran-
no al tramonto, io abbia l'occasione di rimediare al male che ho
commesso in passato, perché alla fine io conosca la verità. La ve-
rità mi renderà libero.

L'uomo si appoggia allo schienale della sedia e distende le mani, cospar-


se di macchie brune, sul tavolo di fronte. L'occasione di sapere, dopo così
tanto tempo, quello che è accaduto alla fine.
È tutto ciò che vuole.

III

CHARTRES
FRANCIA SETTENTRIONALE

Più tardi, quello stesso giorno, quasi mille chilometri più a nord, un altro
uomo si trova in un cunicolo sotto le strade di Chartres, la luce fioca, in at-
tesa che la cerimonia abbia inizio.
Ha le mani che sudano, la bocca secca e percepisce ogni nervo e ogni
muscolo del corpo, perfino il pulsare del sangue nelle tempie. È impaccia-
to e stordito, ma non sa dire se per via dell'agitazione e dell'attesa o sem-
plicemente per effetto del vino. Le insolite vesti di cotone bianco cadono
pesanti dalle spalle e le corde di canapa intrecciata poggiano in maniera
goffa sulle anche sporgenti. L'uomo lancia uno sguardo fugace ai due indi-
vidui che sono accanto a lui, uno a destra e uno a sinistra, senza proferire
parola, ma il loro volto è nascosto dal cappuccio.
Chissà se sono nervosi quanto lui o se hanno preso parte al rituale molte
volte prima d'ora.
Sono vestiti allo stesso modo, solo che indossano una tunica dorata, non
bianca, e hanno le scarpe. Lui invece è scalzo e i lastroni di pietra sono
freddi.
Sopra quella rete segreta di cunicoli, le campane della grande cattedrale
gotica cominciano a suonare. L'uomo sente i due al suo fianco irrigidirsi. È
il segnale che aspettavano. Immediatamente china il capo e cerca di con-
centrarsi su quell'istante.
«Je suis prêt» mormora, più per convincere se stesso che per comunicare
il suo stato agli altri. Nessuno dei due compagni reagisce in alcun modo.
Quando l'ultima eco delle campane cessa di risuonare, l'accolito alla sua
sinistra fa un passo avanti e con una pietra seminascosta nel palmo della
mano batte cinque colpi sulla porta massiccia. Dall'interno qualcuno ri-
sponde. «Dintrar.» Entrate.
All'uomo sembra quasi di riconoscere quella voce di donna, ma non ha il
tempo di pensare a dove o a quando può averla sentita, perché la porta già
si apre e mostra la stanza che aspettava di vedere da così tanto tempo.
Camminando di pari passo, i tre avanzano adagio. L'uomo ha ripassato
mentalmente la scena e sa cosa aspettarsi, sa quello che deve fare, anche se
barcolla un po'. In confronto al freddo del corridoio, nella stanza fa caldo
ed è buio. Le uniche luci provengono dalle candele disposte nelle alcove e
sull'altare, che creano delle ombre danzanti sul pavimento.
L'uomo sente l'adrenalina che attraversa il corpo, ma rimane ec-
cezionalmente impassibile di fronte ai preparativi. Quando sente la porta
che sbatte alle sue spalle, ha un sussulto.
I quattro partecipanti più anziani prendono posto a nord, sud, est e ovest
della stanza. Lui vorrebbe a tutti i costi alzare lo sguardo per vedere me-
glio, ma si sforza di tenere la testa bassa e il volto nascosto, come gli è sta-
to ordinato. Riconosce le due file di iniziati che fiancheggiano le lunghe
pareti della stanza rettangolare, sei per ogni lato. Riesce a percepire il calo-
re dei corpi e l'alternarsi del loro respiro, anche se nessuno si muove e nes-
suno parla.
Ha memorizzato la disposizione sulle carte che gli hanno consegnato e,
mentre cammina verso il sepolcro al centro della stanza, sente i loro occhi
puntati addosso. Chissà se fra costoro c'è qualcuno che conosce. Un colle-
ga di lavoro, la moglie di qualcuno, chiunque potrebbe essere un membro.
Non riesce a trattenere un lieve sorriso, e intanto fantastica per un istante
su come cambieranno le cose dopo che l'avranno ammesso nel gruppo.
Viene riportato bruscamente alla realtà quando inciampa e per poco non
cade sull'inginocchiatoio di pietra ai piedi del sepolcro. La stanza è più
piccola di come sembrava dalla pianta, più angusta e claustrofobica. Si a-
spettava che la distanza fra la porta e la pietra fosse maggiore.
Mentre si inginocchia sulla pietra, qualcuno accanto a lui inspira pro-
fondamente e lui se ne domanda il motivo. Il cuore comincia a battere più
veloce quando guarda in basso e vede che ha le nocche bianche. Imbaraz-
zato, congiunge le mani e intreccia le dita, poi si ricorda e lascia cadere le
braccia sui fianchi, è lì che devono stare.
La pietra è lievemente avvallata nel mezzo, fredda e dura sulle ginocchia
protette soltanto dalla stoffa leggera della tunica. Si sposta un po' in cerca
di una posizione più comoda. Quel disagio gli procura una piacevole di-
strazione. Si sente ancora stordito e trova difficile concentrarsi o ricordare
l'ordine in cui le cose devono accadere, sebbene l'abbia ripassato nella
mente infinite volte.
Nella stanza si sente il suono acuto e sottile di un campanello; è accom-
pagnato dal sottofondo di un canto, dapprima sommesso, poi sempre più
alto a mano a mano che si aggiungono altre voci. Frammenti di parole e di
frasi risuonano nella sua testa: montanhas, Noblesa, libres, Graal...
La sacerdotessa scende dall'altare sopraelevato e attraversa la stanza. Lui
può solo intravedere i piedi della donna che strisciano delicatamente a terra
e la tunica dorata che luccica e ondeggia nella luce tremolante delle cande-
le. Questo è il momento che aspettava.
«Je suis prêt» ripete sottovoce. Stavolta ne è convinto.
La sacerdotessa si ferma davanti a lui. Sente il suo profumo, impalpabile
e delicato, sotto l'odore forte dell'incenso. L'uomo trattiene il fiato quando
lei si abbassa e gli prende la mano. Le dita sono fredde e curate; una scari-
ca di elettricità, quasi di desiderio, attraversa il braccio di lui quando la sa-
cerdotessa gli mette un oggetto piccolo e tondo nel palmo della mano e gli
richiude le dita. Ora lui vuole vederla in viso, lo vuole più di ogni altra co-
sa al mondo. Ma tiene gli occhi bassi, come gli è stato detto.
I quattro anziani lasciano la loro posizione e raggiungono la sa-
cerdotessa. Con delicatezza piegano all'indietro la testa dell'uomo e lui
sente un liquido denso e dolce scivolargli fra le labbra. È quello che si a-
spettava, perciò non oppone resistenza. Mentre il calore si propaga nel
corpo, l'uomo alza le braccia e lascia che i compagni gli facciano scivolare
un mantello dorato sulle spalle. È un rituale già noto agli spettatori, eppure
lui avverte il loro disagio.
A un tratto, è come se avesse una fascia di ferro attorno al collo che gli
comprime la trachea. Si porta le mani alla gola e intanto cerca disperata-
mente di respirare. Vorrebbe gridare, ma non gli escono le parole. Il suono
acuto e sottile del campanello torna a farsi sentire, ancora più costante e
insistente, coprendo ogni suo sforzo. Viene assalito da un'ondata di nausea.
Pensa che sia arrivata la sua ora e per avere un po' di conforto stringe l'og-
getto che ha in mano, così forte che le unghie gli si conficcano nella carne.
Il dolore acuto lo aiuta a non cadere. Adesso si rende conto che le mani
sulle sue spalle non sono lì per consolarlo. Non sono lì per sorreggerlo, ma
per tenerlo fermo. Un'altra ondata di nausea lo travolge e gli sembra che la
pietra si sposti e scivoli sotto di lui.
Ora ha gli occhi inondati di lacrime e non riesce a mettere a fuoco del
tutto, ma riesce a vedere che la sacerdotessa ha un coltello, anche se non sa
spiegarsi come faccia quella lama d'argento a trovarsi nella sua mano. Ten-
ta di alzarsi, ma la droga è troppo forte e gli ha già rubato le forze. Ha per-
so il controllo delle gambe e delle braccia.
«Non!» cerca di gridare, ma è troppo tardi.
Dapprima, pensa si tratti di un pugno fra le scapole, nient'altro. Poi un
dolore sordo si diffonde nel corpo. Qualcosa di caldo e liscio gli cola lungo
la schiena.
Senza preavviso, le mani mollano la presa e cade in avanti come una
bambola di pezza per poi incontrare il suolo. Non prova alcun dolore
quando la sua testa tocca la terra, fredda e in un certo senso piacevole sulla
pelle. Adesso tutti i rumori, la confusione e le paure stanno svanendo. Le
palpebre sbattono e si chiudono. Non si rende più conto di nulla, soltanto
della voce della sacerdotessa che sembra arrivare da molto lontano.
«Une leçon. Pour tous» pare che dica, sebbene la cosa non abbia alcun
senso.
Negli ultimi sprazzi di lucidità, l'uomo, accusato di aver rivelato segreti
e condannato per aver parlato quando invece avrebbe dovuto tacere, strin-
ge nella mano l'oggetto ardentemente desiderato fino a che la vita non lo
abbandona e il piccolo disco grigio, non più grande di una moneta, rotola
sul pavimento.
Su una delle due facce ci sono le lettere NV. Sull'altra vi è inciso un labi-
rinto.
IV

PIC DE SOULARAC
MONTI DEL SABARTHÈS

Per un momento tutto tace.


Di colpo il buio svanisce. Alice non si trova più nella caverna. È sospesa
in un mondo candido e senza gravità, limpido, tranquillo e silenzioso.
È libera. Al sicuro.
Alice ha la sensazione di essere scivolata fuori dal tempo, come se fosse
caduta da una dimensione dentro un'altra. Il confine tra passato e presente
è quasi scomparso in questo spazio infinito senza tempo.
A un tratto, come una botola che si schiude sotto il patibolo, Alice sente
uno scatto improvviso, precipita nell'aria e scende più giù, verso il fianco
della montagna ricoperto di alberi. L'aria frizzante le fa fischiare le orec-
chie e intanto cade a picco più veloce, più forte, verso il suolo.
Il momento dell'impatto non arriva. Niente ossa che si frantumano con-
tro la selce e la roccia grigio ardesia. Anzi, Alice tocca terra correndo e in-
ciampa lungo un sentiero scosceso e accidentato, fiancheggiato da due file
di alberi imponenti. Sono alti e fitti e la sovrastano impedendole di vedere
cosa c'è dietro.
Troppo veloce.
Alice si aggrappa ai rami come se potessero farla rallentare, come se po-
tessero fermare questa corsa impetuosa verso un luogo sconosciuto, ma le
mani passano attraverso di essi come quelle di un fantasma o di uno spiri-
to. Gruppi di foglie minuscole le restano fra le dita come capelli in una
spazzola. Non riesce a sentirle al tatto, ma la linfa colora di verde la punta
delle dita. Se le porta al viso per annusarne il profumo aspro e penetrante.
Non riesce a sentire nemmeno gli odori.
Ha una fitta di dolore al fianco, ma non può fermarsi perché dietro di lei
c'è qualcosa che si avvicina sempre di più. Il sentiero sotto i piedi si inclina
notevolmente. Si rende conto che il crepitio di radici secche e sassi ha so-
stituito la terra morbida, il muschio e i ramoscelli. Eppure non ci sono
suoni. Niente uccelli che cantano, niente voci che gridano, solo il suo re-
spiro affannato. Il sentiero gira e si avvolge su se stesso, facendola fuggire
di qua e di là finché volta l'angolo e vede il silenzioso muro di fiamme che
blocca il passaggio. Una colonna di fuoco serpeggiante, bianco, dorato e
vermiglio, che si ripiega su se stesso cambiando forma di continuo.
Istintivamente, Alice alza le mani per proteggersi il volto dal calore ec-
cessivo, anche se non può sentirlo. Vede delle facce intrappolate fra le
fiamme che danzano, hanno le labbra contorte in una muta agonia, mentre
il fuoco le carezza e arde.
Alice tenta di fermarsi. Deve fermarsi. Ha i piedi lacerati e sanguinanti,
le lunghe vesti bagnate rallentano la fuga, ma il predatore le sta alle calca-
gna e qualcosa di incontrollabile la spinge nell'abbraccio mortale del fuo-
co.
Non può fare altro che saltare, per evitare di essere distrutta dalle fiam-
me. Sale in volute verso il cielo come un filo di fumo, fluttua alta sopra il
giallo e l'arancione. Sembra che il vento la porti in alto, staccandola dalla
terra.
Qualcuno grida il suo nome, una voce di donna, ma lo pronuncia in mo-
do strano.
Alaïs.
È al sicuro. Libera.
Poi, la sensazione già provata, come di dita gelide che le afferrano le ca-
viglie e la inchiodano a terra. No, non sono dita, ma catene. Ora Alice si
rende conto di avere qualcosa fra le mani, un libro, tenuto insieme da le-
gacci di cuoio. Capisce che è proprio questo che lui vuole. Che loro vo-
gliono. È la perdita di questo libro ad averli resi tanto furiosi.
Se solo potesse parlare, magari potrebbe cercare un accordo. Ma la sua
testa è vuota e la sua bocca ha perso il dono della parola. Sferra colpi alla
cieca, scalcia per fuggire, ma l'hanno in pugno. La presa ferrea sulle gam-
be è troppo stretta. Comincia a gridare mentre viene trascinata di nuovo fra
le fiamme, ma c'è soltanto silenzio.
Urla ancora, sente la sua voce lottare nel profondo per essere ascoltata.
Stavolta, il suono torna a tutta velocità. Alice sente il mondo intero ritorna-
re a tutta velocità. Suono, luce, odore, tatto, il sapore metallico del sangue
in bocca. Finché, per una frazione di secondo, si ferma, avvolta all'im-
provviso da un gelo traslucido. Non è il semplice freddo della caverna, ma
qualcosa di diverso, intenso e luminoso. In esso, Alice scorge i contorni
sfuggenti di un volto, bello e indistinto. Ancora una volta quella voce grida
il suo nome.
Alaïs.
La chiama per l'ultima volta. È una voce amica. Non quella di qualcuno
che vuole farle del male. Alice si sforza di aprire gli occhi, perché sa che
se riesce a vedere potrà capire. Non ce la fa. Non del tutto.
Il sogno comincia a svanire, lasciandola libera.
È ora di svegliarsi. Devo svegliarmi.
Adesso c'è un'altra voce nella testa, diversa dalla prima. Ricomincia a
sentire le gambe e le braccia, le ginocchia ferite che bruciano. La pelle e-
scoriata nel punto in cui è caduta le fa male. Sente la presa violenta sulla
spalla, che la scuote per farla tornare alla realtà.
«Alice. Alice, svegliati.»

LA CITÉ SULLA COLLINA

CAPITOLO 1

CARCASSONA
Julhet 1209

Alaïs si svegliò di soprassalto, dritta come un fuso e con gli occhi sbar-
rati. La paura le martellava in petto come un uccellino in gabbia che si di-
mena per liberarsi. Si premette una mano contro il torace per fermare il
battito del cuore.
Per un istante, restò a metà fra il sonno e la veglia, come se avesse la-
sciato una parte di sé nel sogno. Era sospesa in aria e osservava se stessa
da una notevole altezza, come le gargouilles di pietra che facevano le
smorfie ai passanti dal tetto della cattedrale di Sant-Nasari.
Era al sicuro nel suo letto, nello Château Comtal. A poco a poco, i suoi
occhi si abituarono al buio. Riuscì a mettere a fuoco la stanza. Era al sicuro
da quegli individui emaciati e con gli occhi scuri che la perseguitavano di
notte, che la ghermivano e la tiravano con le loro dita aguzze. Non possono
prendermi ormai. La lingua incisa nelle pietre, disegni più che parole, che
per lei non avevano alcun senso, tutto era sparito come fili di fumo nell'a-
ria autunnale. Anche il fuoco si era estinto, lasciando soltanto un ricordo
dentro di lei.
Una premonizione? O soltanto un incubo?
Non aveva modo di scoprirlo. Aveva paura di scoprirlo.
Alaïs afferrò la tenda che circondava il letto a baldacchino, come se toc-
care qualcosa di concreto potesse farla sentire meno trasparente ed eterea.
La stoffa logora, intrisa di polvere e degli odori familiari del castello, era
ruvida e rassicurante al contatto con la pelle.
Ogni notte lo stesso incubo. Per tutta l'infanzia, quando si svegliava al
buio in preda al terrore, il viso pallido e coperto di lacrime, suo padre era
stato al suo fianco a vegliare su di lei come se fosse un figlio maschio.
Mentre le candele si consumavano una dopo l'altra, lui le raccontava sotto-
voce le sue avventure in Terra Santa. Le parlava delle distese infinite di
sabbia, delle curve e degli archi delle moschee e della vocazione alla pre-
ghiera dei fedeli saraceni. Le descriveva le spezie aromatiche, i colori ac-
cesi e il sapore pepato del cibo. E il magnifico splendore del sole rosso
sangue che tramontava su Gerusalemme.
Per tanti anni, nelle ore vuote fra il crepuscolo e l'alba, mentre sua sorel-
la dormiva beata accanto a lei, suo padre le aveva parlato ininterrottamente
e aveva messo in fuga i suoi fantasmi. Non aveva permesso né ai frati né ai
preti cattolici di avvicinarsi a lei con le loro superstizioni e i loro falsi sim-
boli.
Le sue parole l'avevano salvata.
«Guilhem?» sussurrò.
Suo marito dormiva profondamente, le braccia allargate come per ribadi-
re la sua supremazia nel letto. I lunghi capelli scuri, che odoravano di fu-
mo, di vino e di stalla, erano sparsi sul cuscino. Il chiaro di luna filtrava at-
traverso la finestra aperta, la persiana era bloccata in modo da fare entrare
nella stanza l'aria fresca della notte. Nella luce che si addensava, Alaïs po-
teva vedere l'ombra della barba incolta sul mento. La catena che Guilhem
portava al collo brillava intensamente ogni volta che cambiava posizione
nel sonno.
Alaïs voleva che lui si svegliasse e le dicesse che andava tutto bene, che
non doveva più avere paura. Ma lui non si voltò e a lei non venne in mente
di svegliarlo. Coraggiosa in tutto il resto, era ancora inesperta di consuetu-
dini matrimoniali e cauta nei confronti del marito, sicché si limitò a passa-
re le dita sulle braccia lisce e abbronzate e sulle spalle, larghe e forti per le
molte ore passate a esercitarsi con la spada e la quintana per la giostra. A-
laïs sentiva la vita scorrere sotto la pelle persino nel sonno. E quando ri-
pensò a come avevano trascorso la prima parte di quella serata, arrossì, an-
che se non c'era nessuno che potesse vederla.
Alaïs era sopraffatta dalle sensazioni che Guilhem le faceva provare. La
divertiva il modo in cui il cuore le balzava in petto ogni volta che lo vede-
va per caso e il modo in cui si sentiva mancare la terra sotto i piedi ogni
volta che lui le sorrideva. Nello stesso tempo, però, non le piaceva la sen-
sazione di impotenza. Temeva che l'amore la rendesse debole e frivola.
Senza dubbio amava Guilhem, eppure sapeva che c'era una piccola parte di
sé che non gli aveva ancora concesso.
Alaïs sospirò. Poteva solo sperare che con il tempo le cose sarebbero di-
ventate più facili.
C'era una luce particolare, il nero sfumava nel grigio e il canto degli uc-
celli, che di tanto in tanto proveniva dagli alberi della corte, annunciava
che l'alba non era lontana. Ormai sapeva che non si sarebbe più riaddor-
mentata.
Alaïs scivolò fra le tende e raggiunse in punta di piedi il baule nell'ango-
lo opposto della stanza. Le lastre di pietra erano fredde sotto i piedi e le
stuoie di vimini graffiavano le dita. Alzò il coperchio, tolse il sacchetto di
lavanda in cima alla pila di biancheria e prese una veste verde scuro poco
appariscente. Rabbrividì nell'indossarla dai piedi e mentre infilava le brac-
cia nelle maniche strette. Tirò su la veste ancora umida, poi allacciò ben
stretto il busto.
Alaïs aveva diciassette anni ed era sposata da sei mesi, ma non aveva
ancora acquisito le curve morbide di una donna. Il vestito cadeva senza
forma sul corpo minuto, come se non fosse suo. Appoggiandosi al tavolo
per non perdere l'equilibrio, calzò delle morbide pianelle di cuoio e prese
la mantella rossa, la sua preferita, dallo schienale della sedia. Sui bordi e
sull'orlo aveva ricamato un complicato motivo di quadrati e rombi blu e
verdi, disseminato di minuscoli fiori gialli; lo aveva disegnato lei stessa
per il giorno delle nozze. Le ci erano volute settimane per cucirlo. Ci aveva
lavorato per tutti i mesi di novembre e dicembre, con le dita doloranti e in-
tirizzite si era affrettata per finirlo in tempo.
Alaïs rivolse la sua attenzione al panièr, per terra accanto al baule. Con-
trollò che all'interno vi fossero tutti i sacchetti di erbe, insieme alle strisce
di stoffa in cui avvolgeva piante e radici, e gli attrezzi per scavare e taglia-
re. Infine, fissò bene la mantella all'altezza del collo con un nastro, infilò il
coltello nel fodero appeso alla vita, si coprì il capo con il cappuccio per ce-
lare i capelli lunghi e sciolti, quindi sgattaiolò senza far rumore fuori dalla
stanza nel corridoio deserto. La porta si chiuse con un colpo sordo alle sue
spalle.

Non era ancora l'ora prima, perciò non c'era nessuno nell'area diurna del
castello. Alaïs attraversò veloce il corridoio, accompagnata dal delicato
fruscio della mantella che sfregava contro il pavimento di pietra, diretta
verso le scale strette e ripide. Scavalcò un giovane servitore che dormiva
accasciato contro il muro, vicino alla porta della camera di sua sorella O-
riane e del marito.
Mentre scendeva, le voci che provenivano dalle cucine nel seminterrato
le si facevano incontro per le scale. La servitù era già al lavoro. Alaïs sentì
il suono di uno schiaffo, seguito da un urlo, di sicuro era qualche malcapi-
tato che cominciava la giornata assaggiando la grossa mano del cuoco sul-
la nuca.
Uno sguattero si dirigeva verso di lei barcollante, portava a fatica mezzo
barile d'acqua appena cavata dal pozzo.
Alaïs sorrise.
«Bonjorn.»
«Bonjorn, signora» rispose guardingo il ragazzo.
«Ecco» fece lei e scese gli ultimi gradini per andare ad aprirgli la porta.
«Mercé, signora» disse lui, adesso un po' meno timido. «Grand mercé.»
In cucina c'era un gran trambusto. Grosse nuvole di vapore già si solle-
vavano dall'enorme payrola, il calderone, appeso a un gancio sul fuoco vi-
vo, Un domestico più anziano prese l'acqua dallo sguattero, svuotò il barile
nella pentola e poi glielo rimise in mano senza dire una parola. Il ragazzo
volse lo sguardo verso Alaïs mentre si incamminava di nuovo verso il poz-
zo.
Capponi, lenticchie e cavoli in vasi di terracotta ben chiusi aspettavano
di essere cucinati sul grande tavolo al centro della stanza, vicino alle pen-
tole con triglie sotto sale, anguille e lucci. Da un lato c'erano fogaça, fo-
caccine racchiuse in sacchetti di stoffa, paté d'oca e tranci di maiale salato.
Dall'altro, vassoi di uva passa, mele cotogne e ciliegie. Un bambino di no-
ve o dieci anni se ne stava con i gomiti appoggiati sul tavolo, lo sguardo
torvo era eloquente su quanto fosse contento di passare un'altra giornata a
grondare sudore davanti al girarrosto per controllare la carne che arrostiva.
Accanto al focolare la ramaglia ardeva intensamente nel forno per il pane a
forma di cupola. La prima infornata di pan de blat, pane integrale, era già
stata messa sul tavolo a raffreddare. L'odore fece venire l'acquolina ad Ala-
ïs.
«Posso averne una pagnotta?»
Il cuoco alzò lo sguardo, furioso per l'intrusione di una donna nella cuci-
na. Quando vide di chi si trattava la sua faccia collerica si contorse in un
sorriso strampalato che rivelava una fila di denti marci.
«Dama Alaïs» disse con gioia, e intanto si asciugava le mani sul grem-
biule. «Benvenguda. Quale onore. Era un pezzo che non venivate a trovar-
ci. Ci siete mancata.»
«Jacques» disse lei con affetto. «Non volevo essere d'intralcio.»
«D'intralcio? Voi?» rise. «E come potreste mai essere d'intralcio?» Da
bambina, Alaïs passava un mucchio di tempo in cucina, a osservare e a
imparare, era l'unica donna a cui Jacques avesse mai consentito di varcare
la soglia del suo regno per soli uomini. «Allora, dama Alaïs, cosa posso of-
frirvi?»
«Solo un po' di pane, Jacques, e un goccio di vino, se ti avanza.»
Un'aria corrucciata comparve sul volto del cuoco. Alaïs sorrise con fare
innocente.
«Perdonatemi, ma non avrete intenzione di andarvene giù al fiume? A
quest'ora e senza un accompagnatore? Una signora del vostro rango... ed è
ancora buio, oltretutto. Si sentono tante cose, tante storie di...»
Alaïs gli mise una mano sul braccio. «Sei gentile a preoccuparti, Jac-
ques, e so che i miei interessi ti stanno a cuore, ma me la caverò. Ti dò la
mia parola. È quasi l'alba. So esattamente dove vado. Sarò di ritorno prima
che chiunque possa accorgersi della mia assenza, davvero.»
«Vostro padre lo sa?»
Si portò il dito alle labbra e gli fece cenno di tacere. «Lui non sa quello
che sai tu, ma ti prego, fai che sia un segreto tra me e te. Starò molto atten-
ta.»
Jacques non sembrava per nulla convinto, ma siccome gli sembrava di
aver già detto più di quanto gli fosse consentito, non protestò. Raggiunse
lentamente il tavolo e avvolse una pagnotta tonda in un panno di lino, poi
ordinò a uno sguattero di recuperare un fiasco di vino. Alaïs lo osservò e
provò un tuffo al cuore. Negli ultimi tempi era diventato più lento nei mo-
vimenti e zoppicava in modo preoccupante dal lato sinistro.
«La gamba ti dà ancora problemi?»
«Non molto» mentì lui.
«Posso medicartela io più tardi, se vuoi. Pare che la ferita non si stia ri-
marginando come dovrebbe.»
«Non è poi tanto grave.»
«Hai usato l'unguento che ti ho preparato?» chiese lei, già sapendo dal-
l'espressione sul suo viso che non lo aveva fatto.
Jacques aprì le mani tozze in segno di resa. «C'è così tanto da fare, si-
gnora... tutti questi ospiti in più, centinaia se si contano pure domestici,
écuyers, stallieri, dame di compagnia, per non parlare dei consoli e delle
loro famiglie. E ci sono talmente tante cose difficili da trovare oggigior-
no... Che diamine, proprio ieri ho mandato...»
«Va benissimo, Jacques,» lo interruppe Alaïs «ma la tua gamba non gua-
rirà da sola. La ferita è troppo profonda.»
All'improvviso si accorse che il livello del rumore si era abbassato. Vol-
se lo sguardo intorno e notò che tutti nella cucina ascoltavano la conversa-
zione. I ragazzi più giovani erano appoggiati con i gomiti sul tavolo e fis-
savano a bocca aperta il loro irascibile padrone che si faceva bacchettare. E
da una donna, per giunta.
Alaïs finse di non essersene accorta, ma abbassò il tono di voce.
«Potrei sempre tornare a medicarla più tardi, per sdebitarmi di questa.»
Diede qualche colpetto alla pagnotta. «Sarà il nostro secondo segreto, oc?
Uno scambio equo, non ti pare?»
Per un istante temette di essere stata troppo invadente e di aver osato
troppo, ma dopo un momento di esitazione, Jacques sogghignò.
«Ben» fece lei. Bene. «Tornerò quando il sole sarà alto e le darò un'oc-
chiata. Dins d'abord.» Presto.
Quando Alaïs uscì dalla cucina e iniziò a salire le scale, sentì Jacques ur-
lare a tutti di smetterla di stare lì impalati e di tornare al lavoro, come se
quell'interruzione non ci fosse mai stata.
Sorrise.
Era tutto nella norma.

Alaïs aprì il pesante portone che conduceva alla corte e andò incontro al
nuovo giorno.
Le foglie dell'olmo, che si innalzava al centro, e sotto il quale il visconte
Trencavel amministrava la giustizia, sembravano nere nell'oscurità che
svaniva. I rami pullulavano di allodole e scriccioli, il trillo si udiva forte e
chiaro nell'aurora.
Il nonno di Raymond-Roger Trencavel aveva fatto costruire lo Château
Comtal più di cento anni prima come residenza da cui controllare i territori
in espansione. Le sue terre si estendevano a nord fino ad Albi e a sud fino
a Narbonne, a est fino a Béziers e a ovest fino a Carcassonne.
Lo Château era stato costruito intorno a un'ampia corte rettangolare e sul
lato ovest comprendeva le rovine di un castello più antico. Faceva da rin-
forzo alla parte occidentale delle mura fortificate che circondavano la Cité,
un anello di solida roccia che torreggiava sul fiume Aude e sui terreni pa-
ludosi più a nord.
Il donjon, dove si riunivano i consoli e si firmavano importanti docu-
menti, si trovava all'angolo sud-ovest della corte ed era ben sorvegliato.
Nella luce fioca, Alaïs vide qualcosa appoggiato contro il muro esterno.
Guardò meglio e vide che era un cane che dormiva raggomitolato a terra.
Un paio di ragazzi, appollaiati come due corvi al margine del recinto per le
oche, cercavano di svegliare l'animale lanciandogli delle pietre. Nel silen-
zio, Alaïs sentiva il regolare rumore sordo dei tacchi che battevano contro
le sbarre di legno.
C'erano due passaggi per entrare e uscire dallo Château Comtal. La Porta
Ovest, ampia e ad arco, dava direttamente sui pendii erbosi che conduce-
vano alle mura ed era quasi sempre chiusa. La Porta Est, piccola e stretta,
era nascosta fra due alti torrioni e portava dritto alle strade della Ciutat, la
Cité vera e propria.
La comunicazione fra la parte superiore e la parte inferiore dei torrioni
di difesa avveniva tramite un sistema di scalette di legno e botole. Da
bambina, uno dei giochi preferiti di Alaïs era arrampicarsi su e giù per i
piani insieme ai bambini delle cucine e cercare di sfuggire alle sentinelle.
Alaïs era veloce. Vinceva sempre.
Si avvolse stretta nella mantella e attraversò il cortile a passo svelto.
Dopo che la campana della sera aveva annunciato il coprifuoco, le porte
erano state chiuse per la notte e le sentinelle erano montate di guardia, a
nessuno era permesso passare senza l'autorizzazione di suo padre. Sebbene
non fosse un console, Bertrand Pelletier si trovava in una posizione unica e
privilegiata all'interno del castello. In pochi osavano disubbidirgli.
A lui non era mai andata a genio l'abitudine della figlia di sgattaiolare
fuori dalla Cité di primo mattino. Negli ultimi tempi, poi, era ancora più
convinto che lei dovesse restare fra le mura dello Château di notte. Alaïs
temeva che suo marito la pensasse allo stesso modo, anche se non le aveva
mai detto nulla. Ma era solo nella tranquillità e nell'anonimato dell'alba, li-
bera da tutti i limiti e le restrizioni di quella casa, che Alaïs si sentiva re-
almente se stessa. Non era la figlia di nessuno, la sorella di nessuno, la
moglie di nessuno. Nel suo intimo, aveva sempre pensato che suo padre
potesse capirla. Per quanto le dispiacesse disubbidirgli, non era disposta a
rinunciare a quei momenti di libertà.
Quasi tutti i guardiani notturni chiudevano un occhio davanti ai suoi an-
dirivieni. O perlomeno lo avevano fatto. Da quando avevano iniziato a cir-
colare voci sull'eventualità di una guerra, le guardie erano diventate più
prudenti. A prima vista, la vita procedeva come al solito e, malgrado ogni
tanto giungesse alla Cité qualche profugo che raccontava di attacchi e di
persecuzioni religiose, ad Alaïs sembrava che non ci fosse niente di ecce-
zionale. I predoni che spuntavano dal nulla e colpivano come fulmini a ciel
sereno per poi passare altrove erano piuttosto comuni per chiunque abitas-
se fuori dalle mura fortificate di una città o di un villaggio. I racconti non
parevano tanto diversi dal solito.
Guilhem non sembrava particolarmente preoccupato da un conflitto im-
minente, almeno per quanto ne sapesse lei. Non le parlava mai di certe co-
se. Oriane, d'altra parte, affermava che un esercito francese di crociati e
uomini di chiesa si stava preparando ad attaccare le terre del Pays d'Oc.
Diceva inoltre che la campagna era appoggiata dal papa e dal re di Francia.
Alaïs sapeva per esperienza che qualunque cosa Oriane dicesse era solo
per turbarla. Ciononostante, sembrava che sua sorella sapesse spesso le co-
se prima di chiunque altro nel castello e non si poteva negare il fatto che il
numero di messaggeri che entravano e uscivano dallo Château aumentava
di giorno in giorno. Era anche innegabile che le rughe sul volto di suo pa-
dre erano diventate più scure e più profonde e le sue guance più scavate.
Le sirjans d'arms di guardia alla Porta Est erano in stato d'allerta, anche
se avevano gli occhi cerchiati di rosso dopo la lunga notte appena trascor-
sa. Gli elmi argentei e squadrati erano ben calcati sulla testa e le cotte
d'arme erano opache nella luce fioca dell'alba. Con gli scudi appoggiati
stancamente sulle spalle e le spade rinfoderate, sembravano pronti per an-
dare a letto più che per la battaglia.
Quando fu più vicina, Alaïs fu sollevata nel vedere che c'era Bérenger.
Quando lui la riconobbe, chinò il capo con un sogghigno.
«Bonjorn, dama Alaïs. Siete già alzata a quest'ora?»
Lei sorrise. «Non riuscivo a dormire.»
«Vostro marito non sa trovarvi un passatempo la notte?» chiese l'altro
ammiccando in modo lascivo. Aveva la faccia butterata e le unghie mor-
dicchiate e sanguinanti. Aveva l'alito che sapeva di cibo stantio e di birra.
Alaïs lo ignorò. «Come sta tua moglie, Bérenger?»
«Bene, signora. È quasi tornata quella di una volta.»
«E tuo figlio?»
«Cresce a vista d'occhio. Mangia tanto che tra un po' ci manderà in rovi-
na se non stiamo attenti!»
«Segue le orme del padre a quanto pare» esclamò lei, dandogli un col-
petto sulla pancia prominente.
«È proprio quello che dice mia moglie.»
«Portale i miei migliori saluti, Bérenger, d'accordo?»
«Le farà piacere che vi siate ricordata di lei, signora.» Esitò. «Suppongo
che ora debba farvi passare.»
«Vado solo verso la Ciutat, forse mi fermerò al fiume. Non starò via tan-
to.»
«Non dobbiamo far passare nessuno» ringhiò il suo compagno. «Ordini
dell'intendente Pelletier.»
«Nessuno ti ha interpellato» scattò Bérenger. «Non è questo, signora»
continuò, abbassando la voce. «Ma sapete qual è la situazione al momento.
Se dovesse succedervi qualcosa e si venisse a sapere che sono stato io a
farvi uscire, vostro padre mi...»
Alaïs gli mise una mano sul braccio. «Lo so, lo so» disse con dolcezza.
«Ma non c'è ragione di preoccuparsi. So badare a me stessa. Inoltre...» A-
laïs lanciò uno sguardo torvo alla seconda guardia, che ora si metteva le di-
ta nel naso per poi ripulirsele sulla manica «qualunque impiccio io possa
incontrare giù al fiume non sarà mai fastidioso quanto i tuoi qui.»
Bérenger rise. «Mi promettete di essere prudente?»
Alaïs annuì e si aprì un istante la mantella per mostrargli il coltello da
caccia che portava in vita. «Lo sarò. Ti dò la mia parola.»
Bisognava superare due porte. Bérenger tolse il catenaccio prima a una
poi all'altra, dopodiché sollevò la pesante trave di quercia che teneva chiu-
so il portone esterno e lo aprì quanto bastava perché Alaïs l'oltrepassasse
inosservata. Lei ringraziò con un sorriso, si chinò e, passando sotto il suo
braccio, se ne andò per la sua strada.

CAPITOLO 2

Appena uscita dall'ombra delle due torri di guardia, Alaïs si sentì più
leggera. Era libera. Almeno per un po'.
Una passerella mobile congiungeva i torrioni della Porta Est al ponte di
pietra levigata che portava dallo Château Comtal alle strade di Carcasson-
ne. L'erba nel fossato asciutto sotto il ponte brillava di rugiada nel chiarore
violaceo. Si vedeva ancora la luna, anche se stava per scomparire e lasciare
il posto alla luce densa del primo mattino.
Sollevando mulinelli di polvere con la mantella, Alaïs camminava svelta
per evitare che le sentinelle di guardia dalla parte opposta le rivolgessero
domande. Ebbe fortuna. Stavano sonnecchiando ai loro posti e non la vide-
ro passare. Dato che la via era libera, accelerò e si infilò nella rete di viuz-
ze, diretta alla posteria vicino alla Tour du Moulin d'Avar, la parte più an-
tica delle mura. Questa porta dava accesso diretto agli orti e ai faratjals, i
pascoli che occupavano la zona circostante la Cité e più a nord il sobborgo
di Sant-Vicens. A quell'ora era la via più breve per arrivare al fiume senza
essere vista.
Tenendosi la gonna, Alaïs si fece strada con prudenza fra i resti di un'al-
tra serata turbolenta alla taberna Sant Joan dels Evangèlis. Mele ammacca-
te, pere mangiate a metà, ossi rosicchiati e brocche di birra frantumate era-
no abbandonati per terra. Poco più avanti, un mendicante dormiva rannic-
chiato sulla soglia di una porta, il braccio appoggiato sul dorso di un e-
norme cane, vecchio e malandato. Tre uomini erano accasciati sul pozzo,
grugnivano e russavano tanto forte da coprire il canto degli uccelli.
Il soldato di guardia alla posteria faceva compassione, tossiva e borbot-
tava tutto avvolto nel suo mantello, gli si vedevano solo la punta del naso e
le sopracciglia. Non voleva essere disturbato. Dapprima fece finta che lei
non ci fosse. Alaïs frugò nel borsellino e prese una moneta. Senza neppure
guardarla in faccia, la sentinella l'afferrò con la mano sudicia, la strinse fra
i denti per verificare che non fosse falsa, poi tolse i chiavistelli e apri la
posteria quel poco che bastava perché Alaïs vi si infilasse.

Il sentiero che portava al barbacane era scosceso e roccioso. Era protetto


ai lati da due alte palizzate di legno che impedivano quasi completamente
la vista. Ma Alaïs aveva fatto molte volte quel percorso fuori dalla Cité,
conosceva ogni avvallamento e ogni rilievo del terreno, pertanto avanzò
senza difficoltà.
Costeggiò la tozza torre circolare di legno e seguì il rapido corso d'acqua
fin dove diventava quasi una gora che attraversava il barbacane.
I rovi graffiavano profondamente le gambe e le spine si impigliavano nel
vestito. Quando giunse in fondo al sentiero, l'orlo della mantella era ormai
di un intenso color cremisi ed era bagnato fradicio per aver strusciato sul-
l'erba. Le punte delle pianelle di cuoio erano tutte macchiate di nero.
Alaïs aveva il morale alle stelle quando finalmente uscì dall'ombra della
palizzata nel grande spazio aperto. In lontananza vedeva la tipica foschia
estiva sospesa intorno alla vetta della Montagne Noire. Il cielo sopra l'oriz-
zonte era squarciato da strisce rosa e viola.
Mentre rimaneva lì a guardare il perfetto mosaico di campi di orzo, ave-
na e grano e i boschi che si estendevano a perdita d'occhio, Alaïs si sentiva
come avvolta fra le grandi braccia del passato. Spiriti, amici, fantasmi che
tendevano la mano, le sussurravano qualcosa della loro vita e condivide-
vano con lei i loro segreti. Sentiva un forte legame con tutti coloro che e-
rano stati su quella collina prima di lei, e con tutti quelli che ci sarebbero
stati dopo, a fantasticare su ciò che la vita poteva mai avere in serbo per lo-
ro.
Alaïs non si era mai spinta oltre i territori del visconte Trencavel. Faceva
fatica a immaginarsi le grigie città del nord: Parigi, Amiens o Chartres,
dov'era nata sua madre. Per lei erano soltanto nomi, parole senza colore né
valore affettivo, aspre come la stessa lingua che vi si parlava, la langue
d'oïl. Eppure, nonostante avesse ben pochi termini di paragone, non crede-
va che vi fosse al mondo un paesaggio tanto bello, resistente e immutabile
come quello di Carcassonne.
Alaïs si avviò giù per la collina, si fece strada fra la sterpaglia e i cespu-
gli pieni di spine finché non giunse alla pianura paludosa lungo la riva sud
del fiume Aude. La gonna zuppa si arrotolava di continuo intorno alle
gambe e ogni tanto la faceva inciampare. Si accorse di essere nervosa,
guardinga, e di camminare più veloce del solito. Non erano stati Jacques e
Bérenger ad allarmarla, si disse. Loro si preoccupavano sempre per lei.
Quel giorno, tuttavia, si sentiva sola e indifesa.
Portò la mano al pugnale che aveva in vita, quando si ricordò la storia di
quel mercante che sosteneva di aver visto un lupo sulla riva opposta del
fiume proprio la settimana prima. Tutti avevano pensato che esagerasse. In
quel periodo dell'anno poteva trattarsi di una volpe o di un dingo. Ma ora
che si trovava lì tutta sola, quel racconto sembrava più credibile. Il manico
freddo del pugnale le infondeva sicurezza.
Per un istante, Alaïs fu tentata di tornare indietro. Non essere così vi-
gliacca. Proseguì. Si girò un paio di volte, spaventata dai rumori tutt'intor-
no, sebbene in realtà si trattasse soltanto del battito d'ali di un uccello o del
tuffo di un'anguilla nelle acque basse del fiume.
A poco a poco, mentre percorreva il solito sentiero, i nervi si rilassarono.
Il fiume Aude era largo e poco profondo e aveva diversi affluenti che si di-
ramavano da esso come le vene sul dorso di una mano. La superficie del-
l'acqua scintillava nella leggera foschia del mattino. In inverno, il fiume
scorreva veloce e senza freni, gonfio per le correnti gelide che arrivavano
dalle montagne. Ma quella era un'estate torrida, perciò l'acqua era bassa e
stagnante. I mulini per il sale si muovevano a malapena nella corrente. Le-
gati a riva con grosse corde, formavano una lisca di legno che arrivava fino
alla parte centrale del fiume.
Era troppo presto perché mosche e zanzare cominciassero a formare nu-
vole nere sopra le pozzanghere, cosa che succedeva quando il caldo au-
mentava, perciò Alaïs prese la scorciatoia attraverso le zone paludose della
riva. Era un sentiero tracciato da mucchietti di sassi bianchi che dovevano
impedire di scivolare sulla melma insidiosa. Lo seguì prestando attenzione,
finché arrivò all'inizio del bosco che si trovava esattamente sotto la parte
occidentale delle mura della Cité.
La sua meta era una piccola radura nei pressi del fiume, dove nella secca
non del tutto ombreggiata crescevano le piante migliori. Una volta al ripa-
ro sotto gli alberi, Alaïs rallentò l'andatura e cominciò a godersi la passeg-
giata. Scostava i rami di edera che incontrava sul suo cammino e respirava
l'odore intenso e terroso delle foglie e del muschio.
Malgrado non vi fosse alcuna traccia di vita umana, il bosco pullulava di
suoni e di colori. L'aria era riempita dalle grida e dal cinguettio di storni,
scriccioli e fanelli. Rametti e foglie crepitavano e si spezzavano sotto i
suoi piedi. I conigli saltellavano fra gli arbusti, le code bianche che guiz-
zavano avanti e indietro mentre si tuffavano a nascondersi fra i fiori gialli,
viola e blu dell'estate. Più in alto, sugli ampi rami dei pini, dei fulvi scoiat-
toli schiudevano le pigne, facendo cascare a terra una pioggia di aghi sottili
e profumati.
Alaïs era già esausta quando arrivò alla radura, un piccolo spazio erboso
con un'apertura che portava al fiume. Sollevata, appoggiò a terra il panièr
e si strofinò la parte interna del braccio, dove il manico aveva lasciato un
segno sulla pelle. Si tolse la mantella e l'appese al ramo basso di un salice
bianco, poi si asciugò il viso e il collo con il fazzoletto. Mise il vino nella
cavità di un tronco per mantenerlo fresco.
Le alte mura dello Château Comtal si levavano a picco sopra di lei. Il
profilo inconfondibile della Tour Pinte, slanciata e sottile, si stagliava nel
cielo sereno. Alaïs si domandò se suo padre fosse sveglio e già seduto con
il visconte nelle sue stanze private. Spostò lo sguardo a sinistra della torre
di guardia in cerca della propria finestra. Chissà se Guilhem dormiva anco-
ra, o se si era svegliato e si era accorto che lei non c'era.
Ogni volta che guardava attraverso la verde barriera di foglie rimaneva
stupita che la Cité fosse tanto vicina. Due mondi diversi in cosi netto con-
trasto. Lì, nelle stradine e nei corridoi dello Château Comtal tutto era ru-
more e fermento. Non c'era pace. Quaggiù, nel regno delle creature del bo-
sco e delle paludi, dominava un silenzio profondo e infinito.
Era qui che Alaïs si sentiva a casa.
Si tolse le scarpe. L'erba era gradevolmente fresca sulla pelle, era ancora
bagnata di rugiada e le solleticava le piante dei piedi. In quel momento di
piacere, ogni pensiero riguardo alla Cité e al castello venne spazzato via
dalla mente.
Portò gli attrezzi alla riva. Un folto cespuglio di angelica cresceva nella
secca del fiume. Gli steli robusti e scanalati sembravano una fila di solda-
tini che stavano sull'attenti nel fango. Le foglie di un verde brillante, talune
perfino più grandi della sua mano, proiettavano sull'acqua un'ombra legge-
ra.
Non c'era niente di meglio dell'angelica per depurare il sangue e preveni-
re le infezioni. La sua amica e maestra, Esclarmonde, le aveva spiegato
quanto fosse importante raccogliere ingredienti per impiastri, medicine e
rimedi ogni volta che ne trovava. Anche se oggi la Cité non era a rischio di
infezioni, diceva sempre, non si sapeva cosa poteva accadere l'indomani.
Malattie e indisposizioni potevano colpire in ogni momento. Era un buon
consiglio, come tutti quelli che Esclarmonde le impartiva. Alaïs si rimboc-
cò le maniche, fece scivolare il pugnale intorno alla vita in modo che le ri-
manesse dietro la schiena e non fosse d'intralcio. Si legò i capelli in una
treccia, così che non le scendessero sul viso mentre lavorava, infilò i lembi
del vestito dentro il busto ed entrò in acqua. Il freddo improvviso sulle ca-
viglie le fece venire la pelle d'oca e le tolse il respiro.
Alaïs immerse le strisce di stoffa nell'acqua e le allineò sulla riva, poi
cominciò a scavare fino alle radici con la paletta. Non ci volle molto per-
ché la prima pianta uscisse dall'alveo con un risucchio. Dopo averla trasci-
nata fino a riva, usò una minuscola accetta per sezionarla. Arrotolò le radi-
ci in un panno e le stese sul fondo del panièr, poi avvolse i fiorellini giallo-
verdi, dal caratteristico odore pungente, in un panno a parte che sistemò
dentro la borsa di cuoio. Scartò le foglie e gli steli restanti, quindi tornò in
acqua e ripeté la stessa operazione. Ben presto, si ritrovò con le mani mac-
chiate di verde e le braccia imbrattate di fango.
Raccolta tutta l'angelica, Alaïs si guardò intorno per vedere se c'era altro
che potesse servirle. Un po' più in là, risalendo la corrente, individuò la
consolida maggiore, con le sue inconfondibili foglie che crescevano all'in-
terno dello stelo e i grappoli asimmetrici di fiori rosa e viola a forma di
campana. La consolida maggiore, volgarmente detta erba del cardinale, era
indicata per ridurre i lividi e per curare la pelle e le ossa. Dopo aver deciso
di rimandare la colazione, Alaïs prese gli arnesi e si rimise al lavoro; si
fermò solo quando ebbe riempito il panièr e utilizzato tutti i brandelli di
stoffa a disposizione.
Riportò la cesta a riva, subito dopo andò a sedersi sotto gli alberi e diste-
se le gambe davanti a sé. Aveva la schiena, le spalle e le dita indolenzite,
ma era soddisfatta del risultato. Si allungò e tirò fuori dal tronco il fiasco
di vino che le aveva dato Jacques. Il tappo uscì con un lieve schiocco. Ala-
ïs rabbrividì un istante quando il liquido freddo le scivolò sulla lingua e in
gola. Tolse il pane fresco dall'involucro e ne staccò un pezzo. Aveva uno
strano sapore di grano, sale, acqua di fiume e alghe, ma aveva una fame da
lupi. Era la cosa migliore che avesse mai mangiato.
Il cielo adesso era azzurro chiaro, il colore dei nontiscordardimé. Alaïs
sapeva che doveva essere stata via un bel pezzo. Ma ogni volta che guar-
dava la luce dorata del sole danzare sulla superficie dell'acqua e sentiva il
soffio del vento sulla pelle, non voleva più tornare alle strade affollate e
chiassose di Carcassonne e agli spazi gremiti del castello. Si disse che
qualche minuto in più non avrebbe fatto male a nessuno, quindi si sdraiò
sull'erba e chiuse gli occhi.

Fu svegliata dal verso stridulo di un uccello.


Si mise a sedere di scatto. Guardò il tappeto di foglie screziate e non riu-
scì a ricordare dove si trovasse. A un tratto, tutto le tornò in mente.
Si alzò in preda al panico. Adesso il sole era alto nel cielo sgombro di
nuvole. Era stata via troppo a lungo. A quell'ora di sicuro qualcuno doveva
aver notato la sua assenza.
Alaïs si affrettò a riporre le sue cose il più velocemente possibile, diede
una rapida ripulita agli attrezzi nel fiume e spruzzò un po' d'acqua sui pan-
ni di lino per tenere umide le parti delle piante che aveva tagliato. Era sul
punto di andarsene quando notò qualcosa incastrato fra le canne. Sembrava
un ceppo o un tronco d'albero. Con una mano si riparò gli occhi dal sole e
si chiese come avesse fatto a non vederlo prima.
Si muoveva nella corrente in modo troppo fluido, troppo languido per
essere qualcosa di duro come un pezzo di corteccia o di legno. Si avvicinò
piano piano.
Adesso era in grado di distinguere che si trattava di una stoffa scura e
pesante, gonfiatasi a causa dell'acqua. Dopo un attimo di esitazione, la cu-
riosità ebbe la meglio e si avventurò di nuovo nel fiume, stavolta guadando
la secca fino alle acque più profonde che scorrevano rapide e scure. Più
proseguiva, più l'acqua diventava fredda. Si sforzò di mantenere l'equili-
brio. Affondò le punte dei piedi nella fanghiglia, mentre l'acqua le schiz-
zava sulle cosce bianche e sottili e sul vestito.
Arrivata a metà strada, si fermò, il cuore in gola, le mani sudate per la
paura. Adesso riusciva a vedere meglio.
«Payre sant.» Padre santo. Le parole le uscirono di bocca spontanee,
Il cadavere di un uomo galleggiava sull'acqua a faccia in giù, il mantello
rigonfio tutt'intorno al corpo. Alaïs deglutì a fatica. L'uomo indossava una
giacca di velluto marrone col bavero alto, ornata con un nastro di seta nera
e con gli orli di filo dorato. Alaïs scorse sotto l'acqua il luccichio di una ca-
tena o un bracciale d'oro. L'uomo aveva il capo scoperto, perciò si vedeva-
no i capelli ricci e neri con qualche sfumatura grigia. Sembrava che portas-
se qualcosa al collo, una sorta di cordoncino color cremisi, un nastro forse.
Alaïs fece un passo avanti. Per prima cosa pensò che l'uomo avesse mes-
so un piede in fallo, a causa del buio, fosse scivolato nel fiume e fosse an-
negato. Stava per allungare la mano, quando qualcosa nel modo in cui la
testa ciondolava nell'acqua la fermò. Tirò un profondo respiro, pietrificata
dal cadavere tumefatto. Aveva già visto un uomo annegato prima di allora.
Dilatata e deforme, la pelle chiazzata del marinaio si era colorata di blu e
di viola, come un livido in via di guarigione. Questo aveva qualcosa di di-
verso, qualcosa che non andava.
Sembrava che la vita avesse abbandonato il corpo di quest'uomo prima
ancora che fosse finito in acqua. Aveva le mani inerti aperte davanti a sé,
come se tentasse di nuotare. Il braccio sinistro si spostò lentamente verso
di lei, trasportato dalla corrente. Qualcosa di acceso, di colorato, appena
sotto il pelo dell'acqua, catturò il suo sguardo. C'era una lesione dai bordi
irregolari e frastagliati proprio nel punto in cui doveva trovarsi il pollice,
sembrava una voglia rossa sulla carne livida, tumefatta. Alaïs gli guardò il
collo.
Sentì le ginocchia che cedevano.
Tutto iniziò a muoversi in maniera rallentata, a traballare e a ondeggiare
come la superficie del mare in tempesta. Quella irregolare striatura cremisi
che lei aveva scambiato per una collana o un nastro, era un taglio selvag-
gio e profondo. Andava da dietro l'orecchio sinistro fin sotto al mento, per
poco non aveva staccato la testa dal corpo. Brandelli dentellati di pelle, di-
venuti verdi sottacqua, penzolavano intorno allo squarcio. Minuscoli pesci
d'argento e sanguisughe, gonfie e nere, banchettavano ai bordi della ferita.
Per un istante, Alaïs pensò che il cuore avesse cessato di battere. Poi fu
assalita dall'orrore e dalla paura. Si voltò e cominciò a correre nell'acqua,
slittando e scivolando sul fango; l'istinto le diceva di tenersi il più lontano
possibile dal cadavere. Era già bagnata dalla vita in giù. Il vestito zuppo e
appesantito dall'acqua si arrotolava intorno alle gambe e quasi la trascinava
sul fondo.
Il fiume sembrava due volte più ampio di prima, ma lei non si fermò fin-
ché non fu al sicuro sulla riva e la nausea la assalì facendola vomitare. Vi-
no, pane non ancora digerito, acqua di fiume.
Camminò carponi e strisciò a terra finché riuscì, finalmente, a spingersi
un po' più in là e crollò sotto l'ombra degli alberi. La testa le girava, aveva
la bocca secca e amara, ma doveva fuggire. Cercò di rialzarsi ma le gambe
erano troppo deboli, non la reggevano. Cercando di non piangere, si asciu-
gò la bocca col dorso della mano tremante e provò di nuovo a mettersi in
piedi appoggiandosi al tronco di un albero.
Stavolta ci riuscì. Dopo aver strappato con forza la mantella dal ramo,
riuscì a infilare i piedi sudici nelle pianelle. Poi, abbandonando tutto il re-
sto, cominciò a correre per la foresta come se fosse inseguita dal demonio.

Il calore ferì Alaïs nel momento in cui uscì dal bosco nella zona aperta e
paludosa. Il sole picchiava sulle guance e sul collo, dandole il tormento. Il
caldo aveva portato allo scoperto insetti che pungevano e sciami di zanzare
che ronzavano sopra le pozzanghere ai lati del sentiero, mentre Alaïs avan-
zava a stento in quel paesaggio inospitale.
Le gambe esauste si ribellavano e il fiato bruciava aspro nella gola e nel
petto, ma lei continuava a correre senza fermarsi. Sapeva solo che doveva
allontanarsi il più possibile dal cadavere e raccontare tutto a suo padre.
Invece di ripercorrere la strada dalla quale era venuta, e che poteva esse-
re chiusa, Alaïs si diresse istintivamente a Sant-Vicens e alla Porte de Ro-
dez, quella che collegava il sobborgo a Carcassonne.
Le strade erano affollate e Alaïs dovette aprirsi un varco a forza. Il ron-
zio e il brusio del mondo che cominciava a vivere diventava sempre più
forte e fastidioso a mano a mano che si avvicinava all'entrata della Cité.
Alaïs cercò di non ascoltarlo e di pensare solo ad arrivare alla porta. Pre-
gando perché le gambe non cedessero, si fece strada verso l'entrata.
Una donna le diede un colpetto sulla spalla.
«La vostra testa, signora» disse in tono pacato. La voce era gentile, ma
sembrava giungere da molto lontano.
Alaïs si rese conto di avere i capelli sciolti e arruffati, sicché si mise su-
bito la mantella e si coprì col cappuccio, le mani che le tremavano per la
stanchezza e lo spavento. Avanzò a rilento, coprendosi il vestito con la
mantella nella speranza di nascondere le macchie di fango, di vomito e di
alghe del fiume.
Tutti si spingevano, si muovevano lenti e pesanti, gridavano. Alaïs era
sul punto di svenire. Allungò una mano e si appoggiò al muro. Le sentinel-
le di guardia alla Porte de Rodez facevano passare quasi tutti gli abitanti
del luogo con un cenno del capo senza rivolgere domande, ma fermavano
vagabondi, mendicanti, zingari, saraceni ed ebrei; esigevano di sapere per
quale motivo si recassero a Carcassonne e perquisivano i bagagli più sgar-
batamente del necessario finché non ottenevano brocche di birra o denari,
quindi passavano alle vittime successive.
Fecero passare Alaïs senza neppure guardarla.
Le viuzze della Cité ora straripavano di venditori ambulanti, mercanti,
bestiame, soldati, maniscalchi, jongleurs, mogli di consoli con i domestici,
predicatori. Per non farsi riconoscere, Alaïs teneva il capo chino come se
camminasse contro un pungente vento del nord.
Finalmente, intravide la familiare sagoma della Tour du Major, seguita
dalla Tour des Casernes e dalle torri gemelle della Porta Est, mentre lo
Château Comtal appariva ora nella sua interezza.
Il sollievo le sciolse il nodo alla gola. Lacrime infuocate sgorgarono da-
gli occhi. Infuriata per la sua debolezza, Alaïs si morse il labbro tanto forte
da farlo sanguinare. Si vergognava di essere tanto sconvolta ed era decisa a
non umiliarsi ulteriormente piangendo lì, dove qualcuno poteva essere te-
stimone della sua vigliaccheria.
Voleva solamente suo padre.

CAPITOLO 3

L'intendente Pelletier si trovava in uno dei magazzini del seminterrato


accanto alle cucine e aveva appena terminato il controllo settimanale delle
provviste di grano e farina. Fu lieto di scoprire che niente fra le scorte fos-
se ammuffito.
Bertrand Pelletier era al servizio del visconte Trencavel da più di diciot-
to anni. Era l'inizio del freddo 1191 quando gli avevano comunicato di far
ritorno a Carcassonne, la sua città natale, per rivestire la carica di intenden-
te, ovvero di amministratore, del giovane Raymond-Roger, che al tempo
aveva nove anni, erede dei domini dei Trencavel. Lui non aspettava altro
che quella convocazione, sicché aveva accettato di buon grado e aveva
portato con sé la moglie francese incinta e la figlia di due anni. Il freddo e
l'umidità di Chartres non gli erano mai andati a genio.
Quello che si era trovato davanti era un ragazzo assai maturo a dispetto
dell'età, che soffriva per la perdita dei genitori e si sforzava di affrontare il
carico di responsabilità che si era ritrovato sulle giovani spalle. Da allora
Pelletier era sempre stato con il visconte Trencavel, dapprima in casa del
tutore di Raymond-Roger, Bertrand di Saissac, e poi sotto la protezione del
conte di Foix. Quando Raymond-Roger aveva raggiunto la maggiore età
ed era tornato allo Château Comtal per occupare la legittima posizione di
visconte di Carcassonne, Béziers e Albi, Pelletier era stato al suo fianco.
In qualità di amministratore, Pelletier aveva il compito di far filare tutto
liscio all'interno del castello. Si occupava anche dell'amministrazione, del-
la giustizia e dell'imposizione dei tributi eseguita per conto del visconte dai
consoli, che insieme mandavano avanti gli affari di Carcassonne. Ma so-
prattutto era il confidente ufficiale, il consigliere e l'amico fidato del vi-
sconte. Nessuno aveva più influenza di lui.
Lo Château Comtal era pieno di ospiti insigni e ogni giorno ne arrivava-
no di nuovi. I seigneurs degli châteaux più importanti all'interno dei terri-
tori dei Trencavel insieme alle loro mogli, per non parlare dei più valorosi
e celebri chevaliers del Midi. I menestrelli e i trovatori più capaci erano
stati invitati alla tradizionale Giostra d'Estate per celebrare la festa di Sant-
Nasari alla fine di luglio. Dato che l'ombra della guerra aleggiava su di lo-
ro da oltre un anno, il visconte era deciso a far divertire i suoi ospiti e a
omaggiarli con il torneo più memorabile del suo regno.
Dal canto suo, Pelletier esigeva che niente fosse lasciato al caso. Richiu-
se la porta del magazzino con una delle pesanti chiavi che portava appese
alla vita con un cerchio di metallo e s'incamminò per il corridoio.
«Ora tocca al vino» disse il servitore, François. «L'ultima botte era aci-
da.»
Pelletier percorse il corridoio a grandi passi, fermandosi a dare un'oc-
chiata alle altre stanze durante il tragitto. Il magazzino della biancheria
profumava di lavanda e timo ed era vuoto, quasi in attesa che qualcuno vi
portasse un po' di vita.
«Quelle tovaglie sono già lavate e pronte per essere sistemate sui tavo-
li?»
«Oc, messire.»
Nella dispensa davanti alla cantina, in fondo alle scale, diversi uomini
facevano rotolare tranci di carne nelle cassette per la salatura. Alcuni tagli
venivano infilzati agli uncini di ferro che pendevano dal soffitto. Altri ve-
nivano conservati in barili per un'altra occasione. In un angolo, un uomo
infilava funghi, aglio e cipolle a uno spago per poi appenderli a seccare.
All'ingresso di Pelletier, tutti lasciarono quello che stavano facendo e
ammutolirono. Qualche giovane servitore si alzò in modo goffo. Pelletier
non disse nulla: esaminò tutta la stanza con il suo sguardo vigile, poi annuì
in segno di approvazione e passò oltre.
Era sul punto di aprire la porta della cantina, quando udì qualcuno che
gridava e correva al piano superiore.
«Vai a vedere cosa succede» disse irritato. «Non posso lavorare con
questo baccano.»
«Messire.»
François si voltò e salì rapidamente le scale per andare a controllare.
Pelletier apri la porta massiccia ed entrò nelle cantine buie e fresche, ina-
lando l'odore del legno umido e quello pungente di vino e birra. Camminò
adagio fra le botti allineate finché non raggiunse quella che cercava. Prese
una coppa di terracotta dal vassoio sul tavolo e tolse il tappo. Era cauto,
lento, non voleva spezzare l'equilibrio all'interno della botte.
Un rumore nel corridoio richiamò la sua attenzione. Appoggiò la coppa.
Qualcuno lo chiamava. Alaïs. Era successo qualcosa.
Pelletier attraversò la stanza e spalancò la porta.

Alaïs arrivò sfrecciando per le scale come se avesse un branco di cani al-
le calcagna, seguita di corsa da François.
Quando vide la grigia sagoma del padre fra le botti di vino e birra, scop-
piò a piangere. Si buttò fra le sue braccia e nascose il viso rigato di lacrime
nel petto. Quell'odore familiare e rassicurante accrebbe il suo desiderio di
piangere.
«Per Sant Foy, cosa c'è? Che ti è successo? Ti sei fatta male? Dimmi.»
Alaïs avvertì la preoccupazione nella voce del padre. Si scostò un poco e
cercò di parlare, ma le parole erano rinchiuse in gola e si rifiutavano di u-
scire.
«Padre, io...»
Non appena notò il suo aspetto scompigliato gli vennero in mente un
mucchio di domande. Spostò lo sguardo oltre la figlia e attese spiegazioni
da parte di François.
«Ho trovato dama Alaïs in questo stato, messire.»
«E non ti ha accennato la causa di questo... la ragione del suo affanno?»
«No, messire. Mi ha solo detto di portarla da voi senza alcun indugio.»
«Molto bene. Lasciaci soli ora. Ti chiamerò quando avrò bisogno di te.»
Alaïs udì sbattere la porta. Poi sentì il pesante braccio del padre sulla
spalla. La condusse alla panca che occupava un'intera parete della cantina
e la fece sedere.
«Vieni, filha» disse con voce sommessa. Allungò una mano e le scostò
una ciocca di capelli dal viso. «Questo comportamento non è da te. Dimmi
cosa è successo.»
Alaïs tentò un'ultima volta di controllarsi, non sopportava l'idea di met-
terlo in agitazione, di preoccuparlo a quel modo. Si strofinò le guance im-
brattate e si sfiorò gli occhi con il fazzoletto che lui le aveva porto.
«Bevi» fece lui, mettendole in mano una coppa di vino prima di sedersi
accanto a lei. Il legno vecchio si inarcò e scricchiolò sotto il suo peso.
«François è andato via. Siamo soli. Devi smetterla di piangere e dirmi co-
s'è che ti affligge tanto. È colpa di Guilhem? Ha fatto qualcosa che ti ha in-
fastidita? Perché se è così io...»
«Guilhem non c'entra nulla, paire» disse prontamente Alaïs. «Non è col-
pa di nessuno...»
Alzò lo sguardo verso di lui, poi lo riabbassò con imbarazzo, umiliata di
trovarsi al suo cospetto in quello stato.
«E allora?» insistette lui. «Come posso aiutarti se non mi dici cosa è
successo?»
Lei deglutì a fatica, si sentiva in colpa e sconvolta. Non sapeva da che
parte cominciare.
Pelletier le prese la mano fra le sue. «Tu tremi, Alaïs.» Lei sentiva che
c'era preoccupazione e affetto nella voce del padre, avvertiva che si stava
sforzando di tenere a freno le sue paure. «E guarda i tuoi vestiti» disse, sol-
levando con due dita l'orlo del vestito. «Bagnati. Coperti di fango.»
Alaïs capiva quanto fosse stanco, quanto fosse preoccupato. Vederla tan-
to scossa lo sconcertava, per quanto cercasse di nasconderlo. Le rughe sul-
la fronte erano dei solchi. Come aveva fatto a non accorgersi che i capelli
erano screziati di grigio?
«Le parole non ti sono mai mancate» disse lui per convincerla a rompere
quel silenzio. «Devi dirmi di cosa si tratta, è.»
La sua espressione così piena di amore e di fiducia fece breccia nel cuo-
re della figlia. «Ho paura di farvi arrabbiare, paire. In effetti, ne avreste
tutto il diritto.»
Il suo volto si inasprì, ma il sorriso rimase inalterato. «Prometto che non
ti rimprovererò, Alaïs. Coraggio, ora. Parla.»
«Nemmeno se vi dicessi che sono stata al fiume?»
Lui tentennò, ma con voce ferma rispose: «Nemmeno in quel caso».
Prima parli, meglio è.
Alaïs intrecciò le mani sul ventre. «Stamattina, poco prima dell'alba, so-
no andata giù al fiume, in un punto dove vado spesso a raccogliere piante.»
«Da sola?»
«Sì, da sola» ammise, incrociando il suo sguardo. «So che vi avevo dato
la mia parola, paire, e vi chiedo perdono per avervi disobbedito.»
«A piedi?» Lei annuì e aspettò che il padre le facesse cenno di continua-
re.
«Sono rimasta lì per un po'. Non ho visto nessuno. Mentre raccoglievo le
mie cose per andarmene, ho notato qualcosa che sembrava un mucchio di
vestiti nell'acqua, vestiti di buona qualità. E difatti...» Alaïs si interruppe di
nuovo, poiché sentì che stava sbiancando in viso. «In realtà si trattava di
un cadavere. Un uomo, piuttosto vecchio. Con i capelli ricci e scuri. All'i-
nizio, ho pensato che fosse annegato. Non riuscivo a vedere granché. Poi
ho capito che gli avevano tagliato la gola.»
Pelletier si irrigidì. «Non hai toccato il corpo, vero?»
Alaïs scosse il capo. «No, ma...» Abbassò gli occhi imbarazzata. «Inor-
ridita da quella scoperta, credo di aver perso la testa e così ho iniziato a
correre, lasciandomi tutto alle spalle. Il mio unico pensiero era arrivare da
voi e raccontarvi cosa avevo visto.»
Pelletier aveva di nuovo l'aria corrucciata. «E non hai visto nessuno?»
«Neanche un'anima. Era tutto deserto. Ma dopo che ho visto il corpo di
quell'uomo, ho avuto paura che le persone che lo avevano ucciso potessero
trovarsi ancora nei paraggi.» La voce le tremò. «Mi sentivo i loro occhi
addosso, come se mi stessero sorvegliando. Almeno così mi sembrava.»
«Quindi stai bene» disse con circospezione, scegliendo con cura le paro-
le. «Nessuno ti ha importunato? Nessuno ti ha fatto del male?»
Era evidente che lei capiva il senso di quelle parole, perché il viso ripre-
se rapidamente colore.
«Non mi è stato arrecato alcun danno, soltanto il mio orgoglio è stato fe-
rito e... ho perso la vostra benevolenza.»
Vide un'espressione sollevata diffondersi sul volto del padre. Lui sorrise
e, per la prima volta da quando quella conversazione aveva avuto inizio, il
sollievo affiorò anche attraverso lo sguardo.
«Bene» fece lui, espirando lentamente. «Sorvolando, date le circostanze,
sul fatto che mi hai disobbedito, Alaïs... non tenendo conto della tua scon-
sideratezza, hai fatto la cosa giusta raccontandomi tutto.» Le afferrò le ma-
ni, la sua enorme presa avvolgeva le dita piccole e sottili della figlia. La
sua pelle sembrava di cuoio.
Alaïs sorrise, grata al padre per aver rinviato la punizione. «Mi dispiace,
paire. Volevo mantenere la promessa, è solo che...»
Pelletier le fece cenno di smetterla. «Non parliamone più. Quanto a quel-
lo sventurato, non c'è niente da fare. I ladri saranno ormai lontani. È del
tutto improbabile che rimangano nei dintorni col rischio di essere scoper-
ti.»
Alaïs aggrottò la fronte. Le considerazioni del padre avevano risvegliato
qualcosa che si nascondeva nel suo inconscio. Chiuse gli occhi. Rivide se
stessa nell'acqua fredda, paralizzata dalla visione del corpo.
«È questa la cosa strana, padre» disse riflettendoci. «Non credo che sia-
no stati dei banditi. Non gli hanno preso la sopravveste, bella e di valore, a
quanto sembrava. E poi l'uomo aveva ancora indosso i gioielli. Catene d'o-
ro ai polsi, anelli. Se fossero stati dei ladri, lo avrebbero ripulito.»
«Mi hai detto di non aver toccato il corpo» ribatté in tono aspro.
«Non l'ho fatto. Ma gli ho visto le mani sotto l'acqua, ecco tutto. Orna-
menti preziosi. Tantissimi anelli, padre. Un bracciale d'oro fatto di più ca-
tene intrecciate. Un'altra catena intorno al collo. Perché mai avrebbero do-
vuto lasciare quegli oggetti?»
Alaïs si interruppe quando si ricordò le mani gonfie e spettrali dell'uomo
tese verso di lei, il sangue e i bianchi frammenti di osso laddove doveva
trovarsi il pollice. La testa cominciò a girarle. Alaïs si appoggiò contro il
muro umido e freddo, e si concentrò sulla dura panca di legno su cui sede-
va, sull'odore acre delle botti che invadeva le narici, finché il capogiro non
passò.
«Non c'era sangue» aggiunse. «Una ferita aperta, rossa come una fetta di
carne.» Deglutì con fatica. «Mancava il pollice, era...»
«Come, mancava?» chiese bruscamente il padre. «Cosa significa?»
Alaïs alzò lo sguardo stupita dal repentino cambiamento di tono. «Gli
avevano mozzato il pollice. Tagliato fino all'osso.»
«Di quale mano, Alaïs?» chiese. Ora nulla nascondeva la premura nella
sua voce. «Pensaci bene. È importante.»
«Non sono...»
Era come se non l'avesse sentita. «Quale mano?» insistette.
«La sinistra, sì la mano sinistra, ne sono sicura. Era il lato più vicino a
me. Era rivolto a monte.»
Pelletier attraversò la stanza a grandi passi, chiamando François a squar-
ciagola, e spalancò la porta. Anche Alaïs balzò in piedi, scossa dalla furia
del padre e sorpresa da quanto stava accadendo.
«Che cosa c'è? Ditemelo, vi supplico. Perché è tanto importante sapere
se era la destra o la sinistra?»
«Fai subito sellare i cavalli, François. Il mio castrone baio, la giumenta
grigia di dama Alaïs e un cavallo per te.»
L'espressione di François era più impassibile che mai. «Benissimo, mes-
sire. Andremo lontano?»
«Soltanto al fiume.» Gli fece cenno di andare. «Sbrigati. E vai a prende-
re la mia spada e una mantella pulita per dama Alaïs. Ci vediamo al poz-
zo.»
Appena François si fu allontanato, Alaïs corse dal padre. Lui evitò lo
sguardo della figlia. Tornò alle botti e con mano tremante si versò un po' di
vino. Il liquido rosso e denso traboccò dalla coppa di terracotta e cadde sul
tavolo, macchiando il legno.
«Paire» lo implorò. «Ditemi di cosa si tratta. Perché dovete recarvi al
fiume? Di sicuro non è compito vostro. Mandate François. Posso spiegar-
gli dove.»
«Non capisci.»
«Allora spiegatemi, così capirò. Potete fidarvi di me.»
«Devo vedere il corpo con i miei occhi. Devo scoprire se...»
«Scoprire cosa?» chiese subito Alaïs.
«No, no» fece lui, scuotendo il capo brizzolato da una parte e dall'altra.
«Non è cosa per te...» La voce di Pelletier si affievolì.
«Ma...»
Pelletier alzò la mano, tornato di colpo padrone delle sue emozioni.
«Basta, Alaïs. Devi fare come ti dico. Vorrei poterti risparmiare tale sacri-
ficio, ma non mi è possibile. Purtroppo non ho altra scelta.» Le porse la
coppa. «Bevi. Ti renderà più forte, ti darà coraggio.»
«Non ho paura» obiettò lei, offesa che la sua riluttanza fosse stata scam-
biata per vigliaccheria. «Non ho paura dei morti. È stato il ribrezzo ad as-
salirmi poco fa.» Fece una pausa. «Ma vi supplico, messire, di dirmi per
quale ragione...»
Pelletier si voltò verso di lei. «Basta, non voglio sentire una sola parola
di più» gridò.
Alaïs indietreggiò come se l'avesse percossa.
«Perdonami» fece subito lui. «Sono fuori di me.» Allungò la mano per
sfiorarle la guancia. «Non si potrebbe desiderare una figlia più leale e riso-
luta.»
«Allora perché non avete fiducia in me?»
Lui esitò e per un attimo Alaïs credette di averlo convinto a parlare. Ma
poi vide di nuovo quello sguardo impenetrabile sul suo volto.
«L'unica cosa che devi fare è mostrarmi il posto» disse lui con voce cu-
pa. «Tutto il resto è nelle mie mani.»

Le campane di Sant-Nasari battevano l'ora terza quando varcarono a ca-


vallo la Porta Ovest dello Château Comtal.
Pelletier in testa, seguito da Alaïs e François. Lei era distrutta, si sentiva
in colpa perché le sue azioni avevano provocato quel misterioso cambia-
mento nel padre ed era frustrata per il fatto di non riuscire a comprendere.
Procedevano con cautela lungo lo stretto e arido sentiero di terra battuta
che scendeva a picco serpeggiando per la collina ai piedi della Cité e si ri-
piegava in continuazione su se stesso. Raggiunta la pianura, partirono al
galoppo.
Risalirono il fiume verso la sorgente. Il sole picchiava inesorabile su di
loro mentre cavalcavano per i terreni paludosi. Sciami di moscerini e di
mosche ronzavano sopra i rivoletti e le pozze di acqua torbida. I cavalli
battevano gli zoccoli e dimenavano la coda nel vano tentativo di impedire
che la miriade di insetti perforasse la loro sottile gualdrappa estiva.
Alaïs vide alcune donne che lavavano i panni nella secca ombreggiata,
sulla riva opposta del fiume Aude, rimanendo per metà nell'acqua e per
metà fuori mentre sbattevano la stoffa sulle lisce pietre grigie. Si udiva un
costante frastuono di ruote provenire dall'unico ponte di legno che collega-
va le paludi e i villaggi del nord a Carcassonne e ai sobborghi. Altre per-
sone guadavano il fiume nel punto più basso, un flusso ininterrotto di con-
tadini, allevatori e mercanti. Alcuni portavano dei bambini sulle spalle, al-
tri guidavano greggi di capre e muli, tutti diretti al mercato che si teneva
nella piazza principale.
Cavalcarono in silenzio. Non appena si spostarono dallo spazio aperto
all'ombra dei salici palustri, Alaïs si perse in balia dei pensieri. Conquistata
la calma grazie all'andatura familiare del cavallo, al canto degli uccelli e
allo stridio incessante delle cicale fra le canne, Alaïs dimenticò per qualche
istante lo scopo della spedizione.
L'apprensione ritornò quando arrivarono al confine del bosco. Si misero
in fila indiana e si fecero largo fra gli alberi. Il padre si voltò e le sorrise.
Alaïs gliene fu grata. Era nervosa adesso, allerta, prestava ascolto anche al
più piccolo segnale di pericolo. I salici palustri sembravano torreggiare
maligni su di loro e lei s'immaginò degli occhi nascosti in quella fitta oscu-
rità che li guardavano passare, in attesa. Ogni fruscio nel sottobosco, ogni
frullo d'ali le faceva battere forte il cuore.
Alaïs non sapeva di preciso cosa si aspettasse di trovare, ma quando
giunsero alla radura, era tutto tranquillo e silenzioso. Il panièr era ancora
sotto l'albero dove lo aveva lasciato, le estremità delle piante sbucavano
dalle strisce di stoffa. Scese da cavallo e passò le redini a François, quindi
s'incamminò verso l'acqua. I suoi attrezzi giacevano ancora indisturbati in
quel punto.
Alaïs trasalì quando Pelletier la prese per il gomito.
«Fammi vedere» disse.
Senza proferire parola, condusse il padre lungo la riva fino al punto in
questione. All'inizio, non riuscì a vedere alcunché, e per un attimo temette
che si fosse trattato solo di un brutto sogno. Invece, un poco più lontano di
prima, c'era il corpo che galleggiava fra le canne.
Indicò. «Lì, accanto all'erba del cardinale.»
Con sua grande sorpresa, invece di chiamare François, il padre si tolse il
mantello ed entrò in acqua.
«Tu resta lì» le gridò da sopra la spalla.
Alaïs si sedette sulla riva, si portò le ginocchia al mento e lo guardò at-
traversare la secca, noncurante dell'acqua che schizzava al di sopra degli
stivali. Quando raggiunse il cadavere, Pelletier si fermò e sguainò la spada.
Esitò un momento, quasi si stesse preparando al peggio, dopodiché, con la
punta della spada, estrasse con cautela il braccio sinistro dell'uomo dall'ac-
qua. La mano mutilata, gonfia e livida, restò in equilibrio per un attimo,
poi scivolò lungo la lama lucente verso l'impugnatura, come se fosse viva.
Infine, ricadde in acqua con un tonfo.
Pelletier rinfoderò la spada, si sporse in avanti e rovesciò il cadavere. Il
corpo ondeggiò violentemente nell'acqua, la testa ciondolava pesante,
sembrava volesse staccarsi dal collo.
Alaïs si voltò lesta. Non voleva vedere i segni della morte impressi sul
viso dello sconosciuto.

Quando ripartirono alla volta di Carcassonne, l'umore di suo padre era


cambiato parecchio. Era visibilmente sollevato, come se si fosse scrollato
di dosso un enorme peso. Scambiava battute allegre con François e, ogni
volta che Alaïs incontrava il suo sguardo, lui sorrideva affettuosamente.
Malgrado fosse esausta e frustrata, in quanto non capiva l'importanza di
ciò che era appena accaduto, anche Alaïs era pervasa da una sensazione di
benessere. Come ai vecchi tempi, quando usciva a cavallo con suo padre,
quando potevano ancora godersi i momenti che passavano insieme.
Allorché lasciarono il fiume e puntarono verso lo Château, la curiosità
ebbe la meglio su di lei, Alaïs si fece coraggio e rivolse al padre la doman-
da che aveva sulla punta della lingua da quando si erano messi in viaggio.
«Avete scoperto quello che vi interessava sapere, paire»
«Sì.»
Alaïs aspettò, finché non le fu chiaro che avrebbe dovuto cavargli le pa-
role di bocca per ottenere una spiegazione.
«Non era lui, quindi, giusto?»
Il padre le lanciò uno sguardo severo.
Lei continuò. «Credevate, dalla descrizione che vi avevo fatto, di cono-
scere quell'uomo? Per questo volevate vedere il corpo con i vostri occhi.»
Alaïs capì dalla luce nel suo sguardo che aveva indovinato.
«Ho pensato che poteva essere qualcuno di mia conoscenza» ammise lui
alla fine. «Dei tempi di Chartres. Una persona a me cara.»
«Ma era un ebreo.»
Pelletier inarcò un sopracciglio. «Sì, esatto.»
«Un ebreo» ripeté lei. «Eppure, un vostro amico?»
Silenzio. Alaïs insistette. «Ma non si trattava di lui, di quell'amico?»
Questa volta, Pelletier sorrise. «Non era lui.»
«E chi allora?»
«Non lo so.»
Alaïs tacque per un momento. Era certa che suo padre non avesse mai
nominato questo amico. Era un uomo buono, tollerante, ma in ogni caso,
se le avesse parlato di un tale di Chartres, di un ebreo, l'avrebbe ricordato.
Poiché sapeva bene che era inutile portare avanti un argomento contro la
volontà di suo padre, tentò un altro approccio.
«Non è stato un furto? Avevo ragione io?»
Suo padre sembrò lieto di rispondere a questa domanda. «No. Lo hanno
ucciso di proposito. La ferita era troppo profonda, del tutto intenzionale.
Inoltre gli hanno lasciato addosso quasi tutti gli oggetti di valore.»
«Quasi tutti?» Ma Pelletier non disse nulla. «Potrebbero essere stati in-
terrotti?» ipotizzò Alaïs, osando forse un po' troppo.
«Non credo.»
«O forse cercavano qualcosa in particolare?»
«Basta, Alaïs. Non è né il momento né il luogo opportuno.»
Lei aprì la bocca, non voleva lasciar cadere la questione, poi la richiuse.
Era evidente che la discussione era terminata. Non avrebbe appreso nien-
t'altro. Meglio aspettare che lui fosse disposto a parlare. Percorsero il resto
del tragitto in silenzio.
Quando furono di nuovo nei pressi della Porta Ovest, François passò a-
vanti.
«Sarebbe meglio non fare menzione con nessuno della nostra spedizione
di stamattina» disse in fretta Pelletier.
«Nemmeno con Guilhem?»
«Non credo che tuo marito sarebbe contento di sapere che sei andata al
fiume senza un accompagnatore» replicò sarcastico. «Le voci corrono in
fretta. Devi riposarti e cercare di dimenticare tutta questa spiacevole fac-
cenda.»
Alaïs lo guardò con aria innocente. «Ma certo. Come volete. Vi do la
mia parola, paire. Non parlerò dell'accaduto con nessuno, tranne voi.»
Pelletier esitò, aveva come il sospetto che la figlia stesse tendendogli un
tranello, poi sorrise. «Sei una figlia ubbidiente, Alaïs. Posso fidarmi di te,
lo so.»
Suo malgrado, Alaïs arrossì.

CAPITOLO 4

Da quella posizione strategica, sul tetto della taverna, il ragazzo dagli


occhi d'ambra e dai capelli biondo cenere si voltò per vedere da dove pro-
venisse il rumore.
Un messaggero avanzava al galoppo per le strade affollate della Cité ar-
rivando dalla Porte Narbonnaise, senza alcun riguardo per chi si trovava
sulla sua via. Gli uomini gli gridavano di scendere da cavallo. Le donne a
stento riuscivano a salvare i bambini dal tuonare degli zoccoli. Un paio di
cani slegati aggredirono il cavallo, abbaiarono, ringhiarono, gli azzannaro-
no le zampe posteriori. Il cavaliere non ci fece caso.
Il cavallo sudava copiosamente. Perfino da quella distanza, Sajhë riusci-
va a scorgere le righe di schiuma bianca sul garrese e intorno alla bocca.
All'improvviso svoltò in direzione del ponte che portava allo Château
Comtal.
Per avere una visuale migliore Sajhë si alzò in piedi, in equilibrio preca-
rio sul bordo affilato delle tegole sconnesse, giusto in tempo per vedere
l'intendente Pelletier apparire fra i torrioni in sella a un possente destriero,
seguito da Alaïs, anche lei a cavallo. Sembrava agitata, considerò Sajhë,
chiedendosi cosa fosse successo e dove fossero diretti. Non avevano l'ab-
bigliamento da caccia.
A Sajhë piaceva Alaïs. Quando andava in visita a sua nonna Esclarmon-
de, gli rivolgeva la parola, diversamente dalle altre donne del castello che
non lo degnavano di uno sguardo. Erano troppo preoccupate delle pozioni
e delle medicine che menina, la nonna, doveva preparare per loro: per cal-
mare la febbre, per ridurre il gonfiore, per indurre il parto o per gli affari di
cuore.
Ma in tutti gli anni in cui aveva venerato Alaïs, Sajhë non l'aveva mai
vista così. Il ragazzo strisciò sulle tegole rossicce fino al bordo del tetto e
si calò di sotto, atterrando con un leggero tonfo ed evitando per poco una
gallina legata a un malconcio carretto.
«Ehi! Guarda dove vai» gridò una donna.
«Non l'ho nemmeno sfiorata» ribatté lui, togliendosi come una saetta dal
raggio di azione della sua scopa.
La Cité era pervasa dall'atmosfera, dai suoni e dagli odori tipici del mer-
cato. Le persiane di legno sbattevano contro i muri di pietra in ogni strada
e in ogni vicolo, quando servi e padroni aprivano le finestre per far entrare
un po' d'aria per evitare che facesse troppo caldo. I bottai guardavano i loro
apprendisti fare a gara a chi arrivava prima alle taverne spingendo i barili,
che sferragliavano, sbattevano e sobbalzavano sui ciottoli. I carretti erano
trascinati a fatica sul terreno irregolare, le ruote cigolavano e si incagliava-
no di tanto in tanto mentre si dirigevano con gran fracasso alla piazza prin-
cipale.
Sajhë conosceva tutte le scorciatoie della Cité e sgattaiolava fra la folla
infilandosi fra le zampe di pecore e capre, di asini e muli carichi di merci e
ceste, di maiali che, lenti e pigri, arrancavano per le strade. Un ragazzo più
grande con un'espressione arrabbiata sul viso radunava un branco di oche
indisciplinate, che schiamazzavano e si beccavano l'un l'altra colpendo an-
che le gambe di due bambine lì accanto. Sajhë strizzò l'occhio e cercò di
farle ridere. Si mise dietro al più brutto di quei volatili e cominciò ad agita-
re le braccia a mo' di ali.
«Che cosa credi di fare?» urlò il ragazzo. «Va a farti fottere.»
Le bambine risero. Sajhë si mise a schiamazzare, quando a un tratto la
vecchia oca grigia girò in tondo, allungò il collo e gli fischiò fastidiosa-
mente in faccia.
«Ben ti sta, pèc» fece il ragazzo. «Pezzo di idiota.»
Sajhë balzò fuori dalla mischia arancione di becchi famelici. «Dovresti
sorvegliarle con più attenzione.»
«Solo i bambini hanno paura delle oche» lo schernì il ragazzo, per pro-
vocarlo. «Hai paura di una piccola oca inoffensiva, poppante? Nenon.»
«Io no» Sajhë si pavoneggiò, poi indicò le bambine che ora si na-
scondevano dietro le gambe della madre. «Ma loro sì. Dovresti stare atten-
to a quello che fai.»
«E tu che cosa c'entri, é?»
«Dico solo che devi stare attento.»
Il ragazzo si avvicinò, agitando il bastone in faccia a Sajhë.
«E chi mi obbliga? Tu?»
Il ragazzo era assai più corpulento di Sajhë. La pelle era un ammasso di
lividi violacei e segni rossi. Sajhë indietreggiò e alzò le mani.
«Ho detto, chi mi obbliga?» ripeté il ragazzo, pronto a battersi. I pugni
avrebbero preso il posto delle parole se un vecchio ubriaco, accasciato
contro il muro, non si fosse svegliato e non avesse iniziato a gridare di to-
gliersi dai piedi e di lasciarlo dormire in pace. Sajhë approfittò del diversi-
vo per squagliarsela.
Il sole si arrampicava sui tetti più alti e inondava alcune parti di strada
con righe di luce intensa che si rifletteva sui ferri di cavallo appesi alla
porta della bottega del maniscalco. Sajhë si fermò e sbirciò all'interno, per-
sino dalla strada sentiva sul viso il calore della fornace.
C'era un bel po' di gente ad aspettare intorno alla bottega, così pure di-
versi écuyers con gli elmi, gli scudi e gli usberghi dei loro padroni, e tutti
volevano essere serviti. Pensò che il maniscalco nello Château dovesse es-
sere oberato di lavoro.
Sajhë non aveva i nobili natali necessari per essere preso come scudiero,
ma ciò non lo tratteneva dal sognare di diventare chevalier a tutti gli effet-
ti. Sorrise a un paio di ragazzi che dovevano essere suoi coetanei, ma quel-
li sembravano guardare attraverso di lui, come facevano tutti e come a-
vrebbero sempre fatto.
Sajhë si voltò e se ne andò.
Molti dei venditori del mercato erano fissi e si erano sistemati nel loro
posto abituale. L'odore di grasso che sfrigolava gli penetrò nel naso appena
mise piede nella piazza. Si fermò alla bancarella di un uomo che preparava
le frittelle girandole sulla piastra bollente. Il profumo della densa zuppa di
fagioli e del pane mitadenc, metà d'orzo e metà di frumento, appena sfor-
nato, gli stuzzicò l'appetito. Passò davanti a una bancarella dove vendeva-
no fibbie e pentole, lana, pelle e cuoio, prodotti locali, cinture e borse eso-
tiche provenienti da Cordova o anche da più lontano, ma non si fermò. Si
trattenne un po' a un banchetto dove si vendevano forbici per tosare le pe-
core e coltelli, per poi spostarsi all'angolo della piazza dove la maggior
parte degli animali vivi si trovavano chiusi in un recinto. C'era una gran
quantità di polli e capponi in gabbie di legno, talvolta allodole e scriccioli
che cantavano e fischiettavano. I conigli erano i suoi preferiti, pigiati in un
ammasso di pelo marrone, nero e bianco.
Sajhë oltrepassò le bancarelle di granaglie e sale, carni bianche, birra al-
la spina e vino, finché non si trovò davanti a un banchetto ricoperto di erbe
e spezie esotiche. Davanti al banchetto c'era un mercante. Sajhë non aveva
mai visto un uomo tanto alto, e nero. Indossava una tunica blu, lunga e
sfavillante, un turbante di seta splendente e babbucce appuntite rosse e do-
rate. Aveva la pelle più scura persino degli zingari che attraversavano le
montagne dalla Navarra e dall'Aragona. Sajhë pensò che doveva essere un
saraceno, anche se non ne aveva mai visto uno.
Il mercante aveva esposto la merce in una girandola di colori: verde e
giallo, arancione, marrone e rosso, ocra. Davanti a tutto c'erano rosmarino
e prezzemolo, aglio, calendula e lavanda, ma dietro si trovavano spezie più
costose come cardamomo, noce moscata e zafferano. Sajhë non ne rico-
nobbe altre, ma già non vedeva l'ora di raccontare a sua nonna quello che
aveva visto.
Stava per avvicinarsi, per vedere meglio, quando il saraceno ruggì come
un leone. Con la pesante mano scura afferrò il polso sottile di un borsaiolo
che aveva cercato di rubargli una moneta dal borsellino ricamato che por-
tava legato alla vita con una corda rossa intrecciata. Diede uno scapaccione
al ragazzo e lo fece volare addosso a una donna che si trovava alle sue
spalle, che cominciò a gridare. Subito si formò la ressa.
Sajhë se la svignò. Non voleva ritrovarsi in qualche guaio.

Gironzolò per la piazza diretto alla taberna Sant Joan dels Evangèlis.
Dato che non aveva denaro con sé, gli venne in mente di chiedere se pote-
va sbrigare qualche commissione in cambio di una scodella di brout. A un
tratto sentì che qualcuno lo chiamava.
Sajhë si voltò e vide un amica di sua nonna, na Marti, seduta col marito
alla solita bancarella, che gli faceva cenno con la mano. Era una tessitrice e
il marito un cardatore. Quasi tutte le settimane li si trovava nello stesso po-
sto, a filare e a cardare, intenti a disporre lana e fili.
Sajhë ricambiò il saluto. Come Esclarmonde, na Marti era una seguace
della nuova chiesa. Il marito, sénher Marti non era credente, anche se era
andato a casa di Esclarmonde insieme alla moglie il giorno della Penteco-
ste a sentire la predica dei bons homes.
Na Marti gli scompigliò i capelli.
«Come stai, giovanotto? Ti sei fatto così alto ultimamente, che a mo-
menti non ti riconoscevo.»
«Bene, grazie» rispose lui con un sorriso, quindi si rivolse al marito che
preparava le matasse di lana da vendere. «Bonjorn, sénher.»
«Ed Esclarmonde?» continuò na Marti. «Anche lei sta bene? E si prende
cura di tutti come al solito?»
Lui ridacchiò. «È sempre la solita.»
«Ben, ben.» Bene.
Sajhë si sedette ai suoi piedi con le gambe incrociate e osservò il filatoio
che girava e girava.
«Na Marti?» fece dopo un po'. «Perché non venite più a pregare con
noi?»
Sénher Marti lasciò quello che stava facendo e scambiò uno sguardo
preoccupato con la moglie.
«Oh, sai com'è» rispose na Marti evitando di guardarlo. «Siamo molto
impegnati negli ultimi tempi. È difficile venire a Carcassonne ogni volta
che vogliamo.»
Sistemò il rocchetto e riprese a filare, il rollio del pedale riempiva il si-
lenzio che era piombato fra loro.
«Menina sente la vostra mancanza.»
«Anch'io, ma gli amici non sempre possono stare insieme.»
Sajhë si accigliò. «Ma allora perché...»
Sénher Marti gli diede un colpo piuttosto forte sulla spalla.
«Parla più piano» disse a bassa voce. «Questo genere di cose è meglio
tenerselo per sé.»
«Cosa è meglio tenersi per sé?» chiese Sajhë perplesso. «Ho solo...»
«Abbiamo sentito Sajhë» fece sénher Marti, guardandosi alle spalle. «Ti
ha sentito tutto il mercato. Ora basta a parlare di preghiere, è?»
Non capendo cosa avesse fatto per irritare tanto sénher Marti, Sajhë si
affrettò ad alzarsi. Na Marti si girò verso il marito. Sembrava che si fosse-
ro dimenticati di lui.
«Sei stato troppo duro con lui, Rogier» sibilò. «È soltanto un ragazzo.»
«Basta una sola persona con la lingua lunga e finiamo insieme a tutti gli
altri. Non possiamo correre rischi. Se la gente pensa che frequentiamo gli
eretici...»
«Eretico, certo» ribatté acida. «È soltanto un ragazzino.»
«Non lui. Esclarmonde. Si sa che è una di loro. E se si viene a sapere
che andiamo a pregare a casa sua, ci accuseranno di essere seguaci dei
bons homes e ci perseguiteranno.»
«Dobbiamo abbandonare gli amici, allora? Solo per via di qualche voce
allarmistica che ti è giunta all'orecchio?»
Sénher Marti abbassò il tono. «Dico solo che dobbiamo stare attenti. Sai
quello che dice la gente. Che un esercito sta arrivando per cacciare gli ere-
tici.»
«Lo dicono da anni. Stai esagerando. Quanto ai legati, questi "uomini di
Dio" se ne vanno in giro per le campagne da anni ormai, si ubriacano a
morte e non concludono niente. Lasciamo che i vescovi se la vedano fra di
loro e continuiamo a vivere la nostra vita.»
Si scostò dal marito. «Non ci fare caso» disse, mettendo una mano sulla
spalla di Sajhë. «Non hai fatto niente di male.»
Sajhë teneva lo sguardo basso, non voleva che lo vedessero piangere.
Na Marti continuò con voce squillante ma innaturale. «Allora, l'altro
giorno non dicevi che volevi comprare un regalo per Alaïs? Vediamo un
po' cosa riusciamo a trovare.»
Sajhë annuì. Sapeva che stava cercando di rassicurarlo, ma si sentiva
confuso e imbarazzato.
«Non ho soldi per pagare» la informò.
«Be', non ti preoccupare per questo. Per stavolta sono sicura che potre-
mo chiudere un occhio. Adesso perché non dai un'occhiata?» Na Marti
passò le dita fra le matasse di fili colorati. Che ne dici di questo? Pensi che
le piacerà? Si intona perfettamente con i suoi occhi.»
Sajhë toccò l'elegante filo color rame.
«Non lo so.»
«Beh, io credo di sì. Ti preparo un pacchetto?»
Si voltò in cerca di un pezzo di stoffa per avvolgere il filo e non sciupar-
lo. Non volendo apparire ingrato, Sajhë pensò a qualcosa di opportuno da
dire.
«L'ho vista poco fa.»
«Chi, Alaïs? E come stava? Era con quella strega di sua sorella?»
Lui fece una smorfia. «No. Ma non sembrava tanto felice lo stesso.»
«Be',» fece na Marti «se prima era giù di morale, allora è il momento
giusto per darle un regalo. La tirerà su. Alaïs viene al mercato tutte le mat-
tine, vero? Se tieni gli occhi ben aperti e stai all'erta, sono sicuro che la
troverai.»
Lieto di poter abbandonare quella sgradevole compagnia, Sajhë si infilò
il pacchetto sotto la tunica e si congedò. Fece qualche passo e si voltò per
salutare con la mano. I Marti erano uno accanto all'altra e lo seguivano con
lo sguardo, ma senza dire una parola.

Il sole era ormai alto. Sajhë vagò ancora chiedendo in giro di Alaïs. Nes-
suno l'aveva vista.
Aveva fame e aveva deciso che poteva anche tornarsene a casa, quando
all'improvviso intravide Alaïs ferma a una bancarella dove vendevano
formaggio di capra. Si mise a correre, poi si avvicinò a lei furtivamente e
le mise le braccia attorno alla vita.
«Bonjorn.»
Alaïs si voltò e, quando vide di chi si trattava, lo ricompensò con un lar-
go sorriso.
«Sajhë» esclamò, e gli scompigliò i capelli. «Mi hai fatto una sorpresa.»
«Vi ho cercata dappertutto» ridacchiò lui. «State bene? Vi ho visto pri-
ma. Sembravate sconvolta.»
«Prima?»
«Entravate a cavallo nello Château Comtal insieme a vostro padre. Subi-
to dopo il messaggero.»
«Ah, prima» fece lei. «Non preoccuparti, sto bene. Ho solo avuto una
mattinata stancante. Che bello rivedere il tuo faccino vispo.» Gli diede un
bacio sulla testa e Sajhë diventò paonazzo. Si fissò i piedi infuriato, non
voleva che lei se ne accorgesse. «A ogni modo, già che sei qui, aiutami a
scegliere un buon formaggio.»
Le forme tonde e lisce di formaggio di capra fresco erano disposte alla
perfezione su un letto di paglia ben pressata dentro le cassette di legno. Al-
cune parevano più asciutte e avevano una patina giallastra. Avevano un
odore penetrante ed erano forse di due settimane prima. Altre, più recenti,
erano lucide, bagnate e morbide. Alaïs domandò il prezzo, indicando ora
una forma ora l'altra, chiese il parere di Sajhë, finché alla fine scelsero il
pezzo che le piaceva di più. Prese dalla borsa una moneta per il commer-
ciante e la diede a Sajhë, mentre lei tirava fuori una lucida tavoletta di le-
gno su cui trasportare il formaggio.
Appena vide il disegno sul rovescio della tavoletta Sajhë sgranò gli oc-
chi per la sorpresa. Perché ce lo aveva Alaïs? Per quale motivo? Nella con-
fusione, fece cadere la moneta a terra. Imbarazzato si tuffò sotto il ban-
chetto, per guadagnare tempo. Quando si rialzò, vide con sollievo che Ala-
ïs non se l'era affatto presa a male e così non ci pensò più. Invece, quando
l'affare fu concluso, trovò il coraggio di dare il regalo ad Alaïs.
«Ho qualcosa per voi» annunciò timido, mettendole bruscamente il pac-
co fra le mani.
«Che gentile» fece lei. «È da parte di Esclarmonde?»
«No, da parte mia.»
«Che bella sorpresa. Lo apro ora?»
Lui annuì, con un'espressione seria in viso, ma con gli occhi che brilla-
vano per l'eccitazione; poi Alaïs aprì il pacchetto con cura.
«Oh, Sajhë, è stupendo» esclamò sollevando il lucido filo marrone. «È
davvero stupendo.»
«Non l'ho rubato» affermò subito lui. «Me lo ha dato na Marti. Credo
che volesse farsi perdonare.»
Appena quelle parole gli uscirono di bocca, Sajhë si pentì di averle pro-
nunciate.
«Farsi perdonare per cosa?» chiese prontamente Alaïs.
Proprio in quel momento si udì un grido. Un uomo lì accanto puntava il
dito al cielo. Uno stormo di uccelli neri volava basso sopra la Cité, da o-
vest a est, formando una freccia nell'aria. Il sole sembrava rimbalzare sulle
penne scure e lucenti, come scintille che sprizzano da un'incudine. Qual-
cuno lì vicino disse che si trattava di un presagio, ma nessuno era in grado
di dire se buono o cattivo.
Sajhë non credeva alle superstizioni, ma quel giorno rabbrividì. Anche
Alaïs sembrava aver captato qualcosa, perché gli mise un braccio sulle
spalle e lo attirò a sé.
«Cosa succede?» chiese lui.
«Res» fece lei, troppo veloce. Niente.
Alti sopra di loro, noncuranti del mondo degli umani, gli uccelli conti-
nuarono il loro volo, finché non divennero solo un puntino remoto nel cie-
lo.

CAPITOLO 5

Quando si separò dal suo fedele compagno e riprese il cammino verso lo


Château Comtal, Alaïs sentì le campane di mezzogiorno suonare da Sant-
Nasari.
Esausta, inciampò varie volte nello scendere le scale, che quel giorno pa-
revano più ripide del solito. Voleva soltanto sdraiarsi qualche momento
nell'intimità della sua stanza e riposare.
Alaïs fu sorpresa di trovare la porta chiusa. A quell'ora i domestici do-
vevano aver già sbrigato le faccende. Le tende attorno al letto erano ancora
tirate. Nella penombra, vide che François aveva messo il panièr sul tavoli-
no accanto al focolare, come lei aveva chiesto.
Appoggiò la tavoletta con il formaggio sul comodino, quindi andò alla
finestra per aprire la persiana. Avrebbe dovuto essere già aperta da un pez-
zo, per dare aria alla stanza. La luce inondò la camera e fece notare lo stra-
to di polvere sui mobili e le toppe sulle tende del letto, nei punti in cui la
stoffa si era assottigliata.
Alaïs si avvicinò al letto e le aprì.
Con sua grande sorpresa, vide che Guilhem era ancora lì a dormire, co-
me lo aveva lasciato prima dell'alba. Restò a bocca aperta. Sembrava che
fosse perfettamente a suo agio, ed era bellissimo. Persino Oriane, che di
rado diceva qualcosa di buono sulle persone, ammetteva che Guilhem era
uno degli uomini più attraenti fra gli chevaliers del visconte Trencavel.
Alaïs si sedette accanto a lui e gli accarezzò la pelle dorata. A un certo
punto, presa da una inspiegabile audacia, affondò il dito nel soffice for-
maggio di capra e ne spalmò una piccola quantità sulle labbra del marito.
Guilhem borbottò e si agitò sotto le lenzuola. Non aprì gli occhi, ma sorri-
se dolcemente e allungò la mano.
Alaïs trattenne il fiato. L'atmosfera intorno a lei vibrava di desiderio,
sicché lasciò che lui la attirasse a sé.
Quel momento di tenerezza fu interrotto da un rumore di passi pesanti
lungo il corridoio. Qualcuno chiamava Guilhem gridando, una voce fami-
liare, distorta dalla rabbia. Alaïs balzò in piedi, mortificata al pensiero che
suo padre potesse assistere a una scena tanto intima. Guilhem spalancò gli
occhi, proprio quando la porta si aprì e Pelletier fece il suo ingresso, segui-
to da François.
«Sei in ritardo, du Mas» ruggì, quindi afferrò un mantello dalla sedia più
vicina e lo lanciò in testa al genero. «Alzati. Tutti gli altri sono già nella
Sala Grande che aspettano.»
Guilhem si mise seduto goffamente. «Nella Sala Grande?»
«Il visconte Trencavel ha convocato tutti gli chevaliers, e tu sei ancora a
letto. Credi di poter pensare solo a te stesso?» Stava addosso a Guilhem.
«Ebbene? Cosa hai da dire a tua discolpa?»
Pelletier a un tratto notò la figlia all'angolo opposto del letto. Il suo volto
si addolcì. «Scusami, filha. Non ti avevo vista. Ti senti meglio?»
Lei chinò il capo. «Vi ringrazio, messire, sto abbastanza bene.»
«In che senso meglio?» chiese Guilhem confuso. «Stai male? C'è qual-
cosa che non va?»
«Alzati!» urlò Pelletier, rivolgendo di nuovo l'attenzione al letto. «Ti dò
giusto il tempo che mi ci vuole per scendere le scale e attraversare la corte,
du Mas. Se non sarai nella Sala Grande per allora, sarà peggio per te.»
Senza aggiungere altro, Pelletier girò i tacchi e uscì dalla stanza infuriato.
Negli attimi di penoso silenzio che seguirono, Alaïs rimase impalata in
preda alla vergogna, e non capiva se fosse più imbarazzata per il marito o
per se stessa.
Guilhem sbottò. «Come osa piombare qui come se fossi il suo servo?
Chi si crede di essere?» Lanciò le coperte a terra con un calcio e si precipi-
tò giù dal letto. «Il dovere mi chiama» disse sarcastico. «Non sta bene far
aspettare il grande intendente Pelletier.»
Alaïs temeva che qualsiasi cosa dicesse non potesse che peggiorare lo
stato di Guilhem. Voleva raccontargli quello che era accaduto al fiume,
almeno per distrarlo dalla collera, ma aveva dato la parola a suo padre che
non ne avrebbe parlato con nessuno.
Guilhem aveva già attraversato la stanza e ora si vestiva dandole le spal-
le. Aveva i muscoli contratti mentre si infilava la cotta d'arme e si allaccia-
va la cintura.
«Potrebbe esserci qualche notizia...» cominciò lei.
«Non ci sono scuse» scattò lui. «Non ho ricevuto alcun messaggio.»
«Io...» Alaïs lasciò cadere la frase. Che dire?
Prese il mantello da sopra il letto e glielo porse. «Starai via molto?» do-
mandò con voce sommessa.
«Come posso saperlo? Non so nemmeno perché sono stato convocato a
consiglio, tanto per cominciare» ribatté, ancora irritato.
Tutto a un tratto, la collera sembrò svanire. I muscoli delle spalle si ri-
lassarono e guardò la moglie, stavolta senza il broncio. «Perdonami, Alaïs.
Non puoi rispondere del comportamento di tuo padre.» Seguì il profilo del
mento con la mano. «Forza, aiutami con questa.»
Guilhem si chinò in avanti, in modo che Alaïs arrivasse più facilmente
alla chiusura. Ma dovette pur sempre alzarsi in punta di piedi per fissare la
spilla tonda d'argento e rame sulla spalla del marito.
«Mercé, mon còr» ringraziò Guilhem quando lei ebbe finito. «Bene. Ora
andiamo a vedere di cosa si tratta. Forse non è niente di grave.»
«Stamattina, mentre rientravamo a cavallo nella Cité è arrivato un mes-
saggero» disse lei senza riflettere.
Subito, si rimproverò aspramente. Ora di sicuro le avrebbe chiesto dove
fosse andata a quell'ora, e con suo padre per giunta, ma per fortuna Guil-
hem era impegnato a recuperare la spada da sotto il letto e non aveva udito
quelle parole.
Alaïs fece una smorfia, infastidita dal rumore della lama che scivolava
nel fodero. Quel rumore più di ogni altro significava che il marito si allon-
tanava da lei per entrare nella sfera riservata agli uomini.
Quando Guilhem si voltò, il mantello colpì la tavoletta di legno con il
formaggio che era in bilico sul bordo del comodino. La tavoletta si rove-
sciò e cadde fragorosamente sul pavimento di pietra.
«Non importa» lo rassicurò Alaïs, non voleva che il padre si adirasse di
nuovo per il ritardo di Guilhem. «Ci penserà la servitù. Vai. Torna appena
puoi.»
Guilhem sorrise e sparì.
Quando il rumore dei suoi passi svanì, Alaïs diede un'occhiata alla stan-
za: era tutto in disordine. Grumi bianchi di formaggio, umido e viscoso,
erano appiccicati alle stuoie che coprivano il pavimento. Sospirò e si chinò
per raccogliere la tavoletta.
Era rimasta appoggiata su un lato, contro la testata del letto. Nel prende-
re la tavoletta sfiorò qualcosa sulla parte inferiore del legno. La voltò per
vedere di cosa si trattasse.
Un labirinto, inciso nella superficie lucida e scura.
«Meravelhós» mormorò.
Incantata dalle linee perfette dei cerchi che curvavano in tondo forman-
do cerchi via via più piccoli, Alaïs seguì il disegno con le dita. Era liscio,
senza crepe, un lavoro fatto con amore, cura e precisione.
Sentì affiorare un ricordo nella mente. Sollevò in aria la tavoletta, con la
certezza di aver già visto qualcosa di simile prima, ma si trattava solo di un
vago ricordo che si rifiutava di venire allo scoperto. Non riusciva nemme-
no a ricordare da dove provenisse quell'assicella di legno. Alla fine, si ar-
rese e cercò di scacciare il pensiero.
Chiamò la serva, Severine, per farle riordinare la stanza. Dopodiché, per
non pensare a quello che stava succedendo nella Sala Grande, si dedicò al-
le piante che aveva raccolto al fiume quella mattina.
Erano rimaste lì troppo a lungo. I panni di lino si erano asciugati, le ra-
dici erano diventate friabili e le foglie avevano perso gran parte dell'umidi-
tà. Sicura di poter recuperare qualcosa, Alaïs spruzzò un po' d'acqua sul
panièr e si mise al lavoro.
Tuttavia, mentre frantumava le radici, sistemava i fiori in sacchetti pro-
fumati per depurare l'aria e preparava l'unguento per la gamba di Jacques,
lo sguardo cadeva sempre sulla tavoletta di legno che giaceva muta davanti
a lei, riluttante a svelare i propri segreti.
Guilhem attraversò il cortile di corsa, con il mantello che gli si ar-
rotolava in modo fastidioso intorno alle ginocchia, e intanto inveiva contro
la sfortuna di essere stato colto in fallo quel giorno.
Era insolito che gli chevaliers venissero ammessi nel Consiglio. Il fatto
che fossero stati convocati nella Sala Grande, piuttosto che nel donjon, la-
sciava intendere che la questione fosse grave.
Pelletier faceva sul serio quando aveva detto di aver mandato un mes-
saggero personale nella sua stanza poco prima? Non poteva dirlo con cer-
tezza, E se François fosse entrato e avesse visto che non c'era? Cosa a-
vrebbe detto Pelletier al riguardo?
In ogni caso, il risultato era lo stesso. Si trovava nei guai.
La pesante porta che conduceva nella Sala Grande era aperta. Guilhem si
affrettò su per le scale, salendo i gradini a due a due.
Appena gli occhi si abituarono all'oscurità del corridoio, vide la caratte-
ristica sagoma del suocero proprio davanti all'entrata del salone. Pelletier
distese il braccio e gli bloccò il passaggio.
«Dove sei stato?» domandò.
«Perdonatemi, messire. Non ho ricevuto la convocazione...»
Pelletier aveva il volto paonazzo e l'aria minacciosa. «Come osi arrivare
in ritardo?» disse con voce d'acciaio. «Credi che gli ordini non valgano per
te? Ti credi forse uno chevalier tanto glorioso da poter scegliere di andare
e venire quando desideri, piuttosto che quando il tuo seigneur te lo ordi-
na?»
«Messire, giuro sul mio onore che se avessi saputo...»
Pelletier scoppiò in una risata amara. «Il tuo onore» esclamò furioso e
colpì Guilhem al petto. «Non provare a burlarti di me, du Mas. Ho manda-
to il mio servitore privato nelle tue stanze perché ti recapitasse il messag-
gio di persona. Hai avuto tutto il tempo necessario per prepararti, e anche
di più. Eppure mi è toccato venire a prenderti personalmente. E quando
sono arrivato, ti ho trovato a letto.»
Guilhem aprì la bocca, poi la richiuse. Vide alcune chiazze di saliva agli
angoli della bocca di Pelletier e sui peli grigi della barba.
«Allora, non fai più il gradasso ora? Che c'è, non hai niente da dire? Ti
avverto du Mas, il fatto che tu sia sposato con mia figlia non mi impedirà
di infliggerti una punizione che serva d'esempio a tutti.»
«Signore, io non...»
All'improvviso Pelletier gli sferrò un pugno allo stomaco. Non un colpo
violento, ma un colpo abbastanza forte da fargli perdere l'equilibrio.
Colto di sorpresa, Guilhem incespicò all'indietro e finì contro il muro.
In un secondo, la possente mano di Pelletier era intorno al suo collo e
spingeva la testa contro la pietra. Con la coda dell'occhio, Guilhem intra-
vide il sirjan che faceva capolino dalla porta per vedere meglio quello che
stava succedendo.
«Sono stato chiaro?» Pelletier sputò in faccia a Guilhem, spingendolo
ancora più forte. Guilhem non riusciva a parlare. «Non ti sento, gojat» e-
sclamò. «Sono stato chiaro?»
Stavolta, riuscì a biascicare due parole. «Oc, messire.»
Si sentì diventare cianotico. Il sangue pulsava nel cervello. «Ti avverto,
du Mas. Ti terrò d'occhio. E aspetterò. Un passo falso e farò in modo che
lo rimpianga per tutta la vita. Intesi?»
Guilhem inspirò a pieni polmoni. Riuscì soltanto ad annuire, e sfregò la
guancia contro la superficie ruvida della parete quando Pelletier gli diede
l'ultimo violento spintone, schiacciandogli le costole contro la pietra dura,
per poi lasciarlo andare.
Invece di entrare nella Sala Grande, Pelletier si precipitò come una furia
nella direzione opposta, verso il cortile.
Appena se ne fu andato, Guilhem si piegò in due, tossì e si strofinò il
collo, mentre cercava di inalare più aria che poteva, come se rischiasse di
annegare. Si massaggiò il collo e si asciugò il rivolo di sangue che colava
dal labbro.
A poco a poco, il respiro tornò regolare. Guilhem si aggiustò gli abiti.
Stava già escogitando un sistema per farla pagare a Pelletier. Due volte
nella stessa giornata. Un affronto troppo grande per poterlo ignorare.
Quando all'improwiso si rese conto del mormorio costante che proveni-
va dalla Sala Grande, Guilhem capì che doveva raggiungere i compagni
prima che Pelletier tornasse e lo trovasse ancora lì fuori.
La guardia non tentò nemmeno di nascondere il suo divertimento.
«Cos'hai da guardare?» domandò Guilhem. «Tieni la lingua a posto, hai
sentito? O sarà peggio per te.»
La minaccia non fu vana. La guardia abbassò gli occhi e si fece da parte
per far entrare Guilhem.
«E non finisce qui.»
Con le minacce di Pelletier che ancora gli ronzavano nelle orecchie,
Guilhem sgusciò nella sala cercando di dare il meno possibile nell'occhio.
Solo il colorito acceso e il battito accelerato del cuore lasciavano intuire
qualcosa di ciò che era appena accaduto.

CAPITOLO 6

Il visconte Raymond-Roger Trencavel si trovava su un palco in fondo


alla Sala Grande. Vide Guilhem du Mas sgattaiolare nella stanza in ritardo,
ma era Pelletier che aspettava.
Trencavel aveva l'abbigliamento tipico della diplomazia, non della guer-
ra. La tunica rossa a maniche lunghe, con le rifiniture dorate intorno al col-
lo e ai polsini, arrivava alle ginocchia. Il mantello blu era fissato all'altezza
del collo con una grossa e tonda fibbia d'oro che catturava la luce del sole
che filtrava dalle alte finestre situate lungo la parete sud della sala. Sopra
di lui c'era un enorme scudo con il blasone dei Trencavel, dietro al quale si
incrociavano due pesanti sbarre di metallo. Lo stesso emblema compariva
su vessilli, abiti da cerimonia e armature. Era anche sullo stendardo che
pendeva sopra la saracinesca all'ingresso della Porte Narbonnaise, con la
duplice funzione di accogliere gli amici e di rammentare loro lo storico
vincolo tra la dinastia dei Trencavel e i propri sudditi. A sinistra dello scu-
do, un arazzo, appeso a quella parete da numerose generazioni, raffigurava
un unicorno che danzava.
In fondo al palco, in una rientranza del muro, c'era una porticina che
immetteva nelle stanze private del visconte nella Tour Pinte, ossia la torre
di guardia e la parte più antica dello Château Comtal. La porta era coperta
da lunghe tende blu, anch'esse abbellite dalle tre strisce di ermellino che
ornavano il blasone dei Trencavel. D'inverno riparavano dalle correnti ge-
lide che soffiavano nella Sala Grande. Quel giorno erano tenute aperte da
un grosso cordone dorato.
Raymond-Roger Trencavel vi aveva trascorso i primi anni dell'infanzia
ed era tornato fra quelle antiche mura assieme alla moglie, Agnès de Mon-
tpellier, e al figlio di due anni, suo unico erede. Si inginocchiava nella
stessa minuscola cappella in cui i suoi genitori si erano inginocchiati; dor-
miva nel loro letto di quercia, lo stesso in cui era venuto al mondo. Nei
giorni d'estate come quello, dalle stesse finestre arcuate, guardava il tra-
monto e osservava il calare del sole che tingeva di rosso il cielo del Pays
d'Oc.
Da lontano Trencavel sembrava calmo, sereno, con i capelli castani che
sfioravano delicatamente le spalle e le mani giunte dietro la schiena. Ma il
volto era carico d'ansia e gli occhi guizzavano di continuo in direzione del-
la porta principale.

Pelletier sudava copiosamente. Gli abiti erano rigidi e scomodi sotto le


braccia, stringevano sulle reni. Si sentiva vecchio e inadeguato per il com-
pito che aveva dinnanzi a sé.
Sperava che una boccata d'aria fresca lo avrebbe aiutato a sgombrare la
mente. Non fu così. Non riusciva a perdonarsi di aver perso le staffe e di
aver lasciato che l'astio nei confronti del genero lo distogliesse dal suo in-
carico. Ma non poteva concedersi il lusso di pensarci in quel momento.
Avrebbe sistemato du Mas più tardi, qualora ce ne fosse stato bisogno.
Adesso il suo posto era accanto al visconte.
Eppure non riusciva a togliersi dalla testa Simeon. Pelletier sentiva an-
cora la devastante paura che lo aveva attanagliato quando aveva rovesciato
il cadavere nell'acqua. E il sollievo che aveva provato quando lo scono-
sciuto dal volto tumefatto aveva puntato gli occhi vitrei su di lui.

Il caldo nella Sala Grande era insopportabile. Più di cento uomini, di


chiesa e di stato, erano stipati in quella stanza infuocata e soffocante, che
sapeva di sudore, ansia e vino. C'era un costante mormorio e la folla irre-
quieta si scambiava commenti pieni di angoscia.
Quando apparve Pelletier, i servitori più vicini alla porta si inchinarono e
si precipitarono a prendergli del vino, Esattamente all'altro capo della stan-
za c'era una fila di sedie di legno nero e lucido, con lo schienale alto, simili
alle poltrone del coro della cattedrale di Sant-Nasari. Lì sedeva la nobiltà
del Midi, i seigneurs di Mirepoix e Fanjeaux, di Coursan e Termenès, di
Albi e Mazamet. Erano stati tutti invitati a Carcassonne per celebrare la fe-
sta di Sant-Nasari alla fine di luglio e si ritrovavano invece convocati a
Consiglio. Pelletier colse la tensione sui loro volti.
Si fece strada fra i crocchi di uomini, consoli di Carcassonne e primi cit-
tadini di Sant-Vicens e Sant-Miquel, i sobborghi in cui si teneva il merca-
to; con lo sguardo esperto studiò la stanza senza che nessuno se ne accor-
gesse. Alcuni uomini di chiesa e qualche monaco erano rintanati nell'om-
bra lungo la parete nord, i volti seminascosti dalle vesti talari e le mani
giunte sotto le ampie maniche delle tonache nere.
Dalla parte opposta, gli chevaliers di Carcassonne, compreso Guilhem
du Mas, erano disposti davanti all'imponente focolare di pietra che andava
da terra al soffitto. L'escrivan Jehan Congost, scrivano di Trencavel e ma-
rito della primogenita di Pelletier, Oriane, sedeva all'alto scrittoio collocato
all'inizio della sala.
Pelletier si arrestò davanti al palco e si inchinò. Un'espressione sollevata
attraversò il volto del visconte Trencavel.
«Perdonatemi, messire.»
«Non importa, Bertrand» lo rassicurò il visconte, facendogli cenno di
raggiungerlo. «Ora siete qui.»
Scambiarono qualche parola, vicinissimi, in modo che nessun altro po-
tesse sentire. Quindi, su ordine di Trencavel, Pelletier fece un passo avanti.
«Signori» urlò. «Signori, di grazia, tacete per il vostro seigneur, Ra-
ymond-Roger Trencavel, visconte di Carcassona, Besièrs e Albi.»
Trencavel si fece avanti con le braccia aperte in segno di benvenuto.
Nella sala piombò il silenzio. Nessuno si muoveva. Nessuno parlava.
«Benvenguda, signori, amici fedeli» esordì. Benvenuti. La voce era
squillante come una tromba e tanto ferma da smentire la sua giovane età.
«Benvenguda a Carcassona. Vi ringrazio per essere venuti e per aver pa-
zientato tanto. Sono grato a tutti voi.»
Pelletier lanciò uno sguardo a quella distesa di volti, nel tentativo di in-
terpretare lo stato d'animo generale. Scorse curiosità, euforia, egoismo,
trepidazione e condivideva ciascuno di quei sentimenti. Finché non avesse-
ro capito perché erano stati convocati e soprattutto cosa Trencavel volesse
da loro, nessuno avrebbe saputo come comportarsi.
«Spero ardentemente,» riprese Trencavel «che il torneo e la festa possa-
no tenersi, come previsto, alla fine del mese. Tuttavia, quest'oggi abbiamo
ricevuto una notizia talmente preoccupante e dalle conseguenze così im-
mediate, che ho ritenuto giusto rendervi partecipi. Poiché riguarda tutti
noi.
A beneficio di coloro che non erano presenti all'ultimo Consiglio, lascia-
te che vi illustri la situazione. Frustrato dal fallimento della spedizione di
legati e predicatori che dovevano convertire gli abitanti di questo paese af-
finché mostrassero obbedienza alla chiesa di Roma, a Pasqua di un anno fa
Sua Santità Innocenzo III bandì una crociata per liberare la cristianità da
ciò che definiva il "cancro dell'eresia", che si diffondeva incontrollato nei
territori del Pays d'Oc.
I cosiddetti eretici, i bons homes, erano secondo il pontefice ancor peg-
gio dei saraceni. Ma le sue parole, seppur piene di entusiasmo e retorica,
rimasero inascoltate. Il re di Francia restò impassibile. I rinforzi furono
lenti ad arrivare.
Il bersaglio di tanta ostilità era mio zio, Raymond VI, conte di Tolosa. In
verità, fu proprio il comportamento intemperante dei suoi uomini, implica-
ti nell'omicidio del legato papale Pierre de Castelnau, a far sì che Sua San-
tità rivolgesse l'attenzione al Pays d'Oc. Mio zio fu accusato di aver tolle-
rato il diffondersi dell'eresia nelle sue terre e di conseguenza anche nelle
nostre.» Trencavel fece una pausa, quindi si corresse. «No, non di tollerare
l'eresia, ma di incoraggiare i bons homes a insediarsi nei suoi domini.»
Un monaco dall'aria fortemente ascetica, che si trovava in una delle pri-
me file, alzò la mano per chiedere il permesso di parlare.
«Fratello» disse prontamente Trencavel. «Vi chiedo di pazientare un al-
tro po'. Quando avrò terminato, tutti avranno modo di dire ciò che pensa-
no. Ci sarà tempo per un dibattito.»
Accigliato, il monaco abbassò la mano.
«Il confine fra tolleranza e incoraggiamento, amici miei, è piuttosto labi-
le» continuò il visconte in tono pacato. Pelletier annuiva, lodava tra sé la
sagacia nel gestire la situazione. «Pertanto, sebbene io riconosca aperta-
mente che il mio stimato zio non goda di grande fama in ambito religio-
so...» Trencavel si fermò, per far sì che cogliessero la critica sottintesa «e
sebbene io ammetta che il suo comportamento non è proprio irreprensibile,
non spetta a noi giudicare chi ha torto e chi ha ragione in questa vicenda.»
Sorrise. «Che i preti discutano di teologia e ci lascino vivere tranquilli!»
Un'altra pausa. Un'ombra gli oscurò il viso. Adesso non c'era spensiera-
tezza nella sua voce.
«Quella non era la prima volta che l'indipendenza e la sovranità delle
nostre terre venivano minacciate dagli invasori del nord. Ma non avrei mai
pensato che si sarebbe arrivati a tanto. Non riuscivo a credere che sangue
cristiano potesse essere versato su suolo cristiano con la benedizione della
chiesa cattolica.
Mio zio, conte di Tolosa, non era ottimista quanto me. Fin dal principio,
capì che quella dell'invasione era una minaccia reale. Per difendere i propri
territori e la propria sovranità, ci propose un'alleanza. Quello che gli rispo-
si, lo ricorderete: che noi, abitanti del Pays d'Oc, viviamo in pace con i no-
stri vicini, bons homes, ebrei o saraceni che siano. Fin quando rispetteran-
no le nostre leggi e avranno riguardo per i nostri usi e costumi, essi faran-
no parte del nostro popolo. Questa fu la mia risposta allora.» Riprese fiato,
«E questa sarà la mia risposta adesso.»
Pelletier annuì a quelle parole con approvazione e osservò un'ondata di
consensi diffondersi nella Sala Grande e coinvolgere persino vescovi e
preti. Soltanto il monaco eremita di prima, un domenicano a giudicare dal-
la tonaca, sembrava impassibile. «Abbiamo una concezione diversa della
tolleranza» borbottò con forte accento spagnolo.
Dall'altra estremità della sala risuonò un'altra voce.
«Perdonatemi, messire, ma tutto questo lo sapevamo già. È storia vec-
chia. Cosa ci dite della situazione attuale? Per quale ragione siamo stati
convocati a Consiglio?»
Pelletier riconobbe il tono altezzoso e svogliato del più seccante dei cin-
que figli di Bérenger de Massabrac ed era già sul punto di intervenire,
quando sentì la mano del visconte sul braccio.
«Thierry de Massabrac,» replicò Trencavel, con fare all'apparenza bene-
volo «vi siamo grati per questa domanda. Purtroppo, però, non tutti i pre-
senti sono avvezzi quanto voi alla diplomazia e alle sue complesse que-
stioni.»
Diversi uomini scoppiarono a ridere e Thierry avvampò.
«Comunque, avete fatto bene a chiedere. Vi ho convocato qui oggi per-
ché la situazione è cambiata.»
Anche se nessuno aprì bocca, l'atmosfera all'interno della sala mutò im-
provvisamente. Seppure il visconte avvertisse che la tensione cresceva,
non lo dava a vedere in alcun modo, come fu lieto di notare Pelletier, anzi
continuava a parlare con la sicurezza e l'autorità di sempre.
«Stamane ci è giunta notizia che la minaccia dell'esercito del nord è più
importante e più imminente di quanto pensassimo. L'Ost, come questo
scellerato esercito si definisce, è stato radunato a Lione nel giorno della fe-
sta di Giovanni Battista. Secondo i nostri calcoli, circa ventimila cheva-
liers hanno affollato la città, insieme a non so quante migliaia di zappatori,
preti, stallieri, carpentieri, chierici e maniscalchi. L'esercito ha lasciato
Lione capeggiato da quel lupo bianco di Arnald-Amalric, abate di Cîte-
aux.» Si interruppe e volse lo sguardo da un capo all'altro della sala. «So
che questo nome è una pugnalata al cuore per alcuni di voi.» Pelletier vide
annuire gli uomini di stato più anziani. «Con lui vi sono gli arcivescovi
cattolici di Reims, Sens e Rouen, così come i vescovi di Autun, Clermont,
Nevers, Bayeux, Chartres e Lisieux. Quanto al potere temporale, malgrado
il re Filippo di Francia abbia ignorato la chiamata alle armi e non abbia
nemmeno permesso al figlio di partecipare in sua vece, molti dei più po-
tenti baroni e principi del nord hanno risposto all'appello. Se non vi dispia-
ce, Congost.»
Appena sentì pronunciare il suo nome, l'escrivan mise giù la penna d'oca
in modo pomposo. I capelli lisci e flosci gli caddero sulla faccia. La pelle,
bianca e butterata, era diventata quasi trasparente per aver passato gran
parte della vita al chiuso. Con estrema teatralità, Congost si chinò e prese
un rotolo di pergamena dalla grossa borsa di pelle. Sembrava godere di vi-
ta propria, tanto sgusciava fra le mani sudate.
«Datti una mossa» borbottò Pelletier fra sé e sé.
Congost gonfiò il petto, si schiarì la voce diverse volte e alla fine comin-
ciò a leggere.
«Eudes, duca di Borgogna; Hervé, conte di Nevers; il conte di Saint-Pol;
il conte di Auvergne; Pierre d'Auxerre; Hervé de Genève; Guy d'Evreux;
Gaucher de Châtillon; Simon de Montfort...»
La voce di Congost era petulante e inespressiva, eppure ogni singolo
nome era come una pietra che cade in un pozzo asciutto, riecheggiava in
tutta la sala. Erano nemici poderosi, influenti baroni del nord e dell'est che
avevano a disposizione risorse, denaro e uomini. Erano avversari da teme-
re, non da affrontare.
A poco a poco, le dimensioni e la natura dell'esercito che si radunava
contro il sud presero forma. Persino Pelletier, che aveva letto l'intera lista
per conto suo, sentì un brivido di terrore lungo la schiena.
C'era un lieve e costante mormorio nella sala adesso: sorpresa, increduli-
tà e rabbia. Pelletier scorse il vescovo cataro di Carcassonne. Ascoltava
con grande concentrazione, il volto impassibile, accanto ad alcuni preti ca-
tari, i parfaits. Subito dopo, scovò con lo sguardo tagliente la sagoma
scarna e incappucciata di Bérenger de Rochefort, vescovo cattolico di Car-
cassonne, che con le braccia incrociate si trovava dalla parte opposta della
Sala Grande, affiancato da preti della cattedrale di Sant-Nasari e della
chiesa di Sant-Cernin.
Pelletier sperava che, quando i tempi lo avessero richiesto, almeno de
Rochefort sarebbe rimasto fedele al visconte Trencavel piuttosto che al pa-
pa. Ma fino a quando? Non ci si poteva fidare di un uomo la cui devozione
era rivolta a due autorità in conflitto. Avrebbe cambiato bandiera, questo
era certo come era certo che il sole sorgeva a est e tramontava a ovest. Per
l'ennesima volta Pelletier pensò che sarebbe stato più saggio congedare gli
uomini di chiesa in quel momento, in modo che non si sarebbero sentiti
obbligati a riferire ai loro superiori ciò che avevano sentito.
«Possiamo tenere testa all'esercito, non importa se è numeroso» un grido
arrivò dal fondo. «Carcassona è inespugnabile!» Ora anche altri gridavano.
«E anche Lastours!» Nel giro di pochi secondi, arrivarono voci da ogni
angolo della Sala Grande, che rimbombavano contro ogni superficie come
un tuono imprigionato fra le gole e le valli della Montagne Noire. «Che
vengano pure sulle colline» gridò un altro uomo. «Gli faremo vedere noi
cosa significa combattere.»
Raymond-Roger alzò la mano e sorrise, riconoscente per quella manife-
stazione di affetto.
«Signori e amici» replicò, quasi urlando per farsi sentire. «Vi ringrazio
per il vostro coraggio, per la vostra costante devozione.» Esitò, in attesa
che il livello del rumore si abbassasse. «Questi uomini del nord non ci de-
vono fedeltà e noi non la dobbiamo a loro, fermo restando che tutti gli uo-
mini sulla faccia della terra sono accomunati dalla fedeltà a Dio. Tuttavia,
non mi aspettavo di essere tradito da colui che è tenuto a difendere questo
paese e i suoi abitanti in base a vincoli giuridici, di sangue e morali. Parlo
di mio zio Raymond, signore feudale e conte di Tolosa.»
Il silenzio assoluto calò su tutti i presenti.
«Qualche settimana fa, mi è giunta voce che mio zio si sia sottoposto a
un rituale così umiliante che mi vergogno di descriverlo. Ho cercato con-
ferma a tali dicerie. È tutto vero. Nella grande cattedrale di Sant-Gilles, al
cospetto del legato pontificio, il conte di Tolosa è stato riaccolto fra le
braccia della chiesa cattolica. Dopo essere stato denudato e aver portato la
corda al collo come un penitente, è stato flagellato dai preti mentre stri-
sciava in ginocchio e implorava perdono.»
Trencavel si interruppe un istante, per far sì che le sue parole andassero
a segno.
«Grazie a questa vile umiliazione, è stato riammesso fra le braccia della
Santa Madre Chiesa.» Un'ondata di disprezzo si propagò nell'assemblea.
«E non è ancora finita, amici. Sono certo che quello spettacolo vergognoso
avesse lo scopo di mettere alla prova la sua fede e la sua opposizione all'e-
resia. Ebbene, pare che neanche questo sia bastato per scampare al pericolo
imminente. Egli ha ceduto il controllo dei suoi domini ai legati di Sua San-
tità il papa. Ciò che ho appreso quest'oggi...» Si interruppe. «Quest'oggi,
ho saputo che Raymond, conte di Tolosa, si trova a Valence, a neanche
una settimana di marcia, con diverse centinaia di uomini. Aspetta soltanto
l'ordine, quindi condurrà gli invasori del nord attraverso il fiume a Beau-
caire e da lì nelle nostre terre.» Fece una pausa. «Ha abbracciato la fede
dei crociati. Signori, ha intenzione di marciare contro di noi.»
A quel punto, la sala esplose in un grido di indignazione. «Silenci» urlò
Pelletier fino a perdere la voce, nel vano tentativo di ristabilire l'ordine.
«Silenzio. Fate silenzio!»
Era una lotta impari, uno contro tutti.
Il visconte avanzò fino al bordo del palco, si posizionò esattamente sotto
il blasone dei Trencavel. Aveva le guance paonazze, ma la scintilla della
guerra gli brillava negli occhi e un'espressione fiera e valorosa gli illumi-
nava il volto. Allargò le braccia più che poteva, quasi volesse abbracciare
la stanza e tutti quelli che vi si trovavano.
Quel gesto zittì tutti.
«Dunque sono qui davanti a voi, miei amici e compagni, in nome del-
l'antico onore e della devozione che lega ognuno di noi ai propri fratelli,
per sentire il vostro valido parere. Noi, abitanti del Midi, abbiamo soltanto
due strade davanti a noi e pochissimo tempo per decidere quale percorrere.
La domanda è questa. Per Carcassona» Per Carcassonne. «Per lo Miè-
gjorn.» Per le terre del Midi. «Dobbiamo arrenderci? O dobbiamo combat-
tere?»
Trencavel si lasciò cadere sulla sedia sfinito, mentre il clamore nella Sa-
la Grande si levava tutto intorno.
Pelletier non poté trattenersi. Si chinò in avanti e appoggiò la mano sulla
spalla del giovane signore.
«Ben detto, messire» affermò in tono pacato. «Un comportamento assai
nobile, signore.»

CAPITOLO 7

Ora dopo ora, la discussione si faceva più accesa.


I servi correvano su e giù, andavano a prendere ceste di pane e di uva,
vassoi di carne e di formaggio bianco, riempivano in continuazione grandi
brocche di vino. Nessuno mangiava molto, ma tutti bevevano, il che ali-
mentava la collera e offuscava la capacità di giudizio.
La vita fuori dallo Château Comtal si svolgeva come al solito. Le cam-
pane delle chiese indicavano le ore di preghiera. I monaci cantavano e le
suore pregavano, al riparo, dentro Sant-Nasari. Per le strade di Carcasson-
ne, i cittadini mandavano avanti gli affari. Nei sobborghi e nelle abitazioni
al di là della cinta muraria, i bambini giocavano, le donne lavoravano, i
mercanti, i contadini e i membri delle corporazioni mangiavano, chiacchie-
ravano e giocavano a dadi.
Nella Sala Grande, il dibattito ragionato cominciava a lasciare il posto
agli insulti e alle recriminazioni. Una fazione non voleva arrendersi. L'altra
si schierava a favore di una alleanza con il conte di Toulouse, sostenendo
che se la stima sulle dimensioni dell'esercito radunato a Lione era esatta,
allora anche se avessero unito le loro forze non sarebbero mai stati in gra-
do di resistere a un tale nemico.
Tutti gli uomini sentivano i tamburi di guerra martellare nella testa. Al-
cuni immaginavano l'onore e la gloria sul campo di battaglia, il clangore
delle armi. Altri vedevano il sangue che ricopriva colline e pianure, un
flusso continuo di diseredati e di feriti che inciampavano sconfitti sui sen-
tieri del paese in fiamme.
Pelletier camminava instancabile su e giù per la stanza, cercava qualche
atteggiamento di dissenso, di resistenza o di sfiducia nei confronti dell'au-
torità del visconte. Niente di quanto ascoltò gli diede seri motivi per pre-
occuparsi. Era sicuro che il suo seigneur avesse fatto abbastanza per legare
tutti a sé; a prescindere dagli interessi personali, i signori del Pays d'Oc sa-
rebbero rimasti compatti al fianco del visconte Trencavel, qualunque fosse
stata la sua decisione.
Lo schieramento a favore della battaglia aveva fondato la propria deci-
sione su motivi geografici, piuttosto che ideologici. Coloro che vivevano
nelle zone più vulnerabili in pianura propendevano per il dialogo. Coloro i
cui domini si trovavano più a nord, sugli altipiani della Montagne Noire o
sui monti del Sabarthès e dei Pirenei, erano determinati a non cedere di
fronte al nemico e a combattere. Pelletier sapeva che, con il cuore, il vi-
sconte Trencavel era dalla parte di questi ultimi. Lui e i signori delle mon-
tagne erano fatti della stessa pasta e avevano in comune un forte spirito di
indipendenza.
Ma Pelletier sapeva anche che la testa diceva a Trencavel che l'unico
modo per conservare integri i suoi possedimenti e per proteggere il suo
popolo era frenare l'orgoglio e negoziare.

Giunti al tardo pomeriggio, nella sala aleggiavano frustrazione e discus-


sioni logore. Pelletier era esausto. Tutti gli argomenti erano stati sviscerati
e tante belle parole si erano susseguite senza che si arrivasse a una solu-
zione. Adesso, gli doleva anche il capo. Si sentiva indolenzito e vecchio,
troppo vecchio per quel genere di cose, pensò, mentre girava l'anello che
portava sempre al pollice, tanto da far arrossare la pelle callosa sotto di es-
so.
Era ora di venire a una conclusione.
Ordinò a un servo di portare dell'acqua, immerse un fazzoletto di lino
nella brocca e lo passò al visconte.
«A voi, messire» fece.
Trencavel prese il panno bagnato con gratitudine e si strofinò la fronte e
il collo.
«Credete che gli abbiamo concesso abbastanza tempo?»
«Credo di sì, messire» replicò Pelletier.
Trencavel annuì. Era seduto con le mani appoggiate saldamente sui
braccioli di legno intarsiato, appariva calmo proprio come quando si era
alzato e aveva parlato al Consiglio. Molti uomini più anziani e più esperti
di lui avrebbero fatto fatica a mantenere il controllo di una tale adunanza,
pensò Pelletier. Era la sua forte personalità ad avergli dato il coraggio di
portarla avanti.
«È come abbiamo detto poco fa, messire?»
«Già» rispose Trencavel. «Anche se non sono tutti della stessa opinione,
credo che la minoranza si adeguerà al volere della maggioranza in que-
sta...» Si interruppe, e per la prima volta una nota di indecisione, di rim-
pianto, guastò le sue parole. «Ma, Bertrand, vorrei che esistesse un'altra
maniera.»
«Lo so, messire» disse in tono dimesso. «Anch'io. Ma, per quanto ciò
possa ripugnarci, non abbiamo alternative. L'unica speranza che avete di
proteggere il vostro popolo consiste nello scendere a patti con vostro zio.»
«È probabile che si rifiuti di ricevermi, Bertrand» gli fece notare con de-
licatezza. «L'ultima volta che ci siamo incontrati, ho detto cose che non a-
vrei dovuto dire. Ci siamo lasciati in malo modo.»
Pelletier mise una mano sul braccio di Trencavel. «È un rischio che
dobbiamo correre» affermò, sebbene nutrisse la stessa preoccupazione. «È
passato diverso tempo da allora. I fatti al riguardo parlano chiaro. Se l'e-
sercito è davvero grande quanto dicono, o anche soltanto la metà, allora
non abbiamo scelta. Saremo al sicuro all'interno della Cité, ma la vostra
gente al di fuori dalle mura... Chi la difenderà? La decisione del conte di
prendere la croce ci ha reso, o meglio vi ha reso, messire, l'unico bersaglio
possibile. L'esercito non verrà smobilitato a questo punto. Ha bisogno di
un nemico da combattere.»
Pelletier guardò il volto turbato di Raymond-Roger e vi scorse dolore e
rammarico. Voleva confortarlo in qualche modo, voleva dire qualcosa,
qualunque cosa, ma non poteva. La minima indecisione rischiava di essere
fatale. Non c'era posto per nessuna forma di debolezza o di dubbio. Dalla
decisione del visconte Trencavel dipendeva più di quanto egli stesso potes-
se immaginare.
«Avete fatto tutto il possibile, messire. Dovete tenere duro. Dovete scio-
gliere l'assemblea. Gli uomini diventano impazienti.»
Trencavel lanciò un'occhiata al blasone sopra la sua testa, poi guardò di
nuovo Pelletier. Si fissarono per qualche istante.
«Informate Congost» disse.
Con un profondo sospiro di sollievo, Pelletier andò lesto allo scrittoio
dove l'escrivan sedeva, intento a massaggiarsi le dita indolenzite. Congost
alzò la testa di colpo, ma non disse nulla mentre prendeva la penna d'oca e
si preparava a trascrivere la decisione finale del Consiglio.
Per l'ultima volta Raymond-Roger si alzò in piedi.
«Prima di annunciare la mia decisione, devo ringraziarvi tutti. Signori di
Carcassès, Razès, Albigeois e dei territori circostanti. Rendo onore alla vo-
stra forza, al vostro coraggio e alla vostra fedeltà. Abbiamo discusso sva-
riate ore e avete dimostrato pazienza e ardore. Non abbiamo nulla da rim-
proverarci. Siamo vittime innocenti della guerra e non delle nostre azioni.
Alcuni di voi resteranno delusi da quanto sto per comunicarvi, altri saran-
no compiaciuti. Prego perché tutti noi troviamo la forza, con l'aiuto e la
misericordia di Dio, di rimanere uniti.»
Si avvicinò. «Per il bene di tutti noi, e per l'incolumità del nostro popolo,
chiederò un'udienza a mio zio Raymond, signore feudale e conte di Tolosa.
Non abbiamo modo di sapere cosa ne verrà fuori. Non è neppure sicuro
che mio zio mi riceva, e il tempo non è dalla nostra parte. È dunque fon-
damentale che teniamo segrete le nostre intenzioni. Le voci corrono in fret-
ta e se qualcosa riguardo ai nostri propositi arrivasse all'orecchio di mio
zio, la nostra posizione nelle trattative verrebbe compromessa. Pertanto, i
preparativi per il torneo continueranno secondo i piani. Il mio progetto è
quello di tornare molto prima della festa, spero con buone notizie.» Fece
una pausa. «Intendo partire domani, allo spuntare del giorno, e portare con
me soltanto un piccolo contingente di chevaliers e qualche rappresentante,
con il vostro permesso, del grande casato di Cabaret, e ancora di Minerve,
Foix, Quillan...»
«Potete contare sulla mia spada, messire» gridò uno chevalier. «E sulla
mia» urlò un altro. Uno alla volta, tutti i cavalieri della Sala Grande si in-
ginocchiarono.
Trencavel alzò la mano con un sorriso.
«Il vostro coraggio e il vostro valore, ci onorano tutti» disse. «Il mio
amministratore informerà quelli di voi i cui servigi sono richiesti. Per ora,
vi prego di darmi il permesso di congedarmi. Vi suggerisco di tornare alle
vostre dimore e di riposare. Ci vedremo a cena.»
Nella commozione generale che accompagnò l'uscita del visconte dalla
Sala Grande, nessuno notò una figura solitaria, avvolta in un lungo mantel-
lo blu con il cappuccio, scivolare dall'ombra e sgattaiolare fuori dalla por-
ta.

CAPITOLO 8

La campana dei vespri taceva già da tempo quando finalmente Pelletier


uscì dalla Tour Pinte.
Sentiva tutto il peso dei suoi cinquantadue anni, scostò la tenda da un la-
to e rientrò nella Sala Grande. Si massaggiò le tempie con le mani stanche,
cercando di attenuare il dolore persistente che gli martellava nella testa.
Il visconte Trencavel dopo la fine dell'assemblea si era trattenuto con i
suoi più fedeli alleati, per decidere quale poteva essere l'approccio miglio-
re con il conte di Toulouse. La conversazione si era protratta per ore. Una
alla volta, tutte le decisioni erano state prese e i messaggeri erano partiti al
galoppo dallo Château Comtal per recapitare lettere non soltanto a Ra-
ymond VI, ma anche ai legati papali, all'abate di Cîteaux, ai consoli e ai
viguiers di Trencavel a Béziers. Gli chevaliers che dovevano scortare il vi-
sconte erano stati informati. Nelle scuderie e nell'officina del fabbro, i pre-
parativi erano già in atto e sarebbero andati avanti tutta la notte.
La sala era avvolta da un silenzio profondo ma carico di aspettative. Per
via della partenza dell'indomani all'alba, ci fu un pasto più informale inve-
ce del banchetto previsto. Lunghi tavoli senza tovaglie, appoggiati su ca-
valletti, erano stati allineati da un capo all'altro della stanza. La luce fioca
di alcune candele illuminava il centro di ogni tavolo. Negli alti candelabri
a muro le fiaccole ardevano intensamente e proiettavano ombre che danza-
vano e tremolavano.
Dal lato opposto della sala, i servitori entravano e uscivano portando
piatti abbondanti, seppur non troppo eleganti nella forma. Cervo, caccia-
gione, cosce di pollo con capsico, ciotole di terracotta piene di fagioli e
salsicce, pane bianco appena sfornato, prugne violacee cotte nel miele, vi-
no rosato dei vigneti del Corbières e caraffe di birra per quelli che regge-
vano meno l'alcol.
Pelletier annuiva con approvazione. Era compiaciuto. In sua assenza,
François lo aveva sostituito in modo esemplare. Tutto era come doveva,
perfettamente in linea con il grado di cortesia e ospitalità che gli invitati
del visconte Trencavel a buon diritto si aspettavano.
François era un bravo servitore, malgrado i suoi primi anni di vita fosse-
ro stati tanto sfortunati. La madre era stata al servizio della moglie francese
di Pelletier, Marguerite, ed era stata impiccata per furto quando François
era soltanto un ragazzino. Il padre era sconosciuto. Quando sua moglie era
morta nove anni prima, Pelletier aveva preso François sotto la sua ala, lo
aveva istruito e gli aveva dato una posizione. Di tanto in tanto, si attribuiva
il merito di averlo fatto diventare tanto diligente.
Pelletier uscì nella Cour d'Honneur. L'aria era fresca, così si trattenne un
po' sulla porta. Alcuni bambini giocavano intorno al pozzo e si prendevano
uno schiaffo sulle gambe dalle balie quando i giochi diventavano troppo
violenti. Delle ragazzine più grandi passeggiavano a braccetto nella luce
del crepuscolo, chiacchieravano e si sussurravano i propri segreti.
Dapprima, non notò il bambino dai capelli scuri che se ne stava seduto a
gambe incrociate contro il muro della cappella.
«Messire! Messire!» gridò il bambino, alzandosi in fretta. «Ho qualcosa
per voi.»
Pelletier non badò a lui. «Messire.» Il ragazzino insistette e gli tirò la
manica per attirare la sua attenzione. «Intendente Pelletier, vi prego. È im-
portante.»
Pelletier sentì che gli infilava qualcosa nella mano. Guardò giù irritato e
vide che si trattava di una lettera, scritta su pesante pergamena giallastra.
Sulla parte esterna c'era il suo nome, tracciato con una calligrafia familiare
e inconfondibile. Pelletier non avrebbe mai pensato di rivederla.
Afferrò il ragazzino per la collottola. «Dove l'hai presa?» domandò
scuotendolo con violenza. «Parla.» Il bambino si dimenava come un pesce
appeso a un amo, nel tentativo di liberarsi. «Dimmelo. Presto.»
«Me l'ha data un uomo al cancello» frignò il bambino. «Non fatemi ma-
le. Non c'entro niente.»
Pelletier lo sbatacchiò più forte. «Come era fatto quell'uomo?»
«Era soltanto un uomo.»
«Puoi fare di meglio» disse in tono severo, alzando la voce. «Ti darò un
sol se mi dici quello che voglio sapere. Era giovane? Vecchio? Un solda-
to?» Esitò. «Era un ebreo?»
Pelletier lo incalzò con le domande finché il ragazzo non sputò il rospo.
Non che ci fosse molto da dire. Pons gli disse che stava giocando con gli
amici nei pressi del fossato dello Château Comtal: il gioco consisteva nel
riuscire ad andare da una parte all'altra del ponte senza farsi acchiappare
dalle guardie. Al tramonto, quando la luce cominciava a svanire, un uomo
li aveva avvicinati e aveva chiesto se qualcuno di loro conosceva di vista
l'intendente Pelletier. Quando Pons aveva risposto di sì, l'uomo gli aveva
dato un sol per recapitare la lettera. Aveva detto che era importante e mol-
to urgente.
L'uomo non aveva caratteristiche particolari che potevano saltare all'oc-
chio. Era di mezza età, né giovane né vecchio. Non proprio moro, ma nep-
pure biondo. Non aveva segni sul volto, nessuna cicatrice, né del vaiolo né
di guerra. Non aveva notato se l'uomo indossasse un anello, perché le mani
erano nascoste sotto il mantello.
Alla fine, soddisfatto per essere riuscito a strappargli tutte le informa-
zioni che poteva, Pelletier infilò una mano nella borsa e diede una moneta
al ragazzo.
«Ecco. Questo è per il disturbo. Adesso vattene.»
Pons non se lo fece ripetere due volte. Sfuggì alla presa di Pelletier e
corse via il più veloce possibile.

Pelletier tornò dentro con la lettera stretta al petto. Non vide nessuno
mentre percorreva a grandi passi il corridoio che conduceva alla sua stan-
za.
La porta era chiusa a chiave. Pelletier inveì contro la propria eccessiva
prudenza e armeggiò con le chiavi, ma la fretta lo rendeva maldestro. Fra-
nçois aveva acceso le calèlhs, le lampade a olio, e aveva sistemato il vas-
soio con una brocca di vino e due calici di terracotta sul tavolo al centro
della stanza, come ogni sera. La superficie di ottone del vassoio, lucidata a
specchio, brillava alla luce dorata e tremolante.
Pelletier si versò da bere per distendere i nervi, aveva la testa invasa da
immagini sbiadite, ricordi della Terra Santa e delle lunghe ombre rosse del
deserto. Dei tre libri e dell'antico segreto che custodivano fra le pagine.
Quel vino scadente era acido al palato e gli bruciò la gola col suo sapore
pungente. Lo inghiottì tutto d'un fiato, quindi riempì di nuovo il calice.
Quante volte aveva cercato di figurarsi come si sarebbe sentito in quel
momento. Eppure, ora che era arrivato, si sentiva indifferente.
Si sedette e posò la lettera sul tavolo, in mezzo alle mani distese. Sapeva
cosa c'era scritto. Era un messaggio che attendeva e allo stesso tempo te-
meva di ricevere da molti anni, sin da quando era giunto a Carcassonne. A
quei tempi, le prospere e tolleranti terre del Midi erano sembrate un na-
scondiglio sicuro.
Mentre le stagioni si susseguivano, col passare degli anni la speranza di
Pelletier di essere chiamato era scemata. La vita quotidiana lo aveva so-
praffatto. Il pensiero dei libri aveva abbandonato la sua mente. Alla fine, si
era persino dimenticato che stava aspettando.
Erano passati più di vent'anni dall'ultima volta che aveva visto l'autore
della lettera. Si rese conto che, fino a quel momento, non sapeva nemmeno
se il suo maestro e mentore fosse ancora vivo. Era stato Harif a insegnargli
a leggere, all'ombra degli oliveti, sulle colline ai margini di Gerusalemme.
Era stato Harif ad aprire i suoi sensi a un mondo più glorioso, più magnifi-
co di quanto si potesse mai immaginare. Era stato Harif a insegnargli che
saraceni, ebrei e cristiani non facevano altro che seguire sentieri diversi
che conducevano tutti a un unico Dio. Ed era stato Harif a rivelargli che
dietro a tutto ciò che era noto si celava una verità molto più antica, più as-
soluta, di qualunque altra il mondo moderno avesse da offrire.
La notte dell'iniziazione alla Noublesso de los Seres era nitida e chiara
nella mente di Pelletier, quasi si fosse trattato del giorno prima. Le vesti
dorate e scintillanti, la candida tovaglia sull'altare abbagliavano come i for-
ti che luccicavano dalle alte colline sopra Aleppo, fra i cipressi e gli aran-
ceti. L'odore di incenso, l'alternarsi di voci e di sussurri nell'oscurità. L'il-
luminazione.
Quella notte, che sembrava ormai appartenere a un'altra vita, Pelletier
aveva guardato il cuore del labirinto e aveva fatto voto di custodire il se-
greto a costo della vita.
Avvicinò la candela. Sebbene il sigillo non fosse autentico, non c'era
dubbio che la lettera fosse di Harif. Avrebbe riconosciuto la sua calligrafia
ovunque, la caratteristica eleganza delle lettere e le esatte proporzioni del
corsivo.
Pelletier scosse il capo, nel tentativo di scacciare i ricordi che mi-
nacciavano di sopraffarlo. Tirò un respiro profondo, quindi infilò il coltello
sotto il sigillo. La ceralacca si aprì con una lieve incrinatura. Lisciò la per-
gamena.
Il messaggio era breve. In cima al foglio vi erano i simboli che Pelletier
ricordava di aver visto sulle pareti giallastre nella caverna del labirinto, fra
le colline nei pressi della Città Santa. Scritti nell'antica lingua degli antena-
ti di Harif, non significavano nulla per chi non faceva parte della Noubles-
so.

All'inizio dei secoli


In terra d'Egitto
Il signore di tutti i segreti
Donò il verbo e la scrittura

Pelletier lesse ad alta voce, i suoni familiari lo rassicuravano, poi passò


al messaggio vero e proprio.

Fraire,
è giunta l'ora. Le tenebre stanno per abbattersi su questo pae-
se. C'è malvagità nell'aria, un male che distruggerà e corromperà
tutto ciò che è buono. I testi non sono più al sicuro nelle pianure
del Pays d'Oc. È tempo che i Codici vengano riuniti. Tuo fratello
ti attende a Besièrs, tua sorella a Carcassona. A te spetta il com-
pito di portare i libri in un luogo più protetto.
Affrettati. I valichi estivi della Navarra saranno già chiusi il
giorno di Toussaint, forse anche prima se la neve cadrà in antici-
po. Ti aspetto per la festa di Sant-Miquel.
Pas a pas, se va luènh.

La sedia scricchiolò quando Pelletier si appoggiò bruscamente allo


schienale. Era quello che si aspettava, nient'altro. Le istruzioni di Harif e-
rano chiare. Non chiedeva né più né meno di quanto Pelletier avesse un
tempo giurato di fare. Eppure, aveva la sensazione che l'anima fosse stata
risucchiata dal corpo e avesse lasciato soltanto un vuoto dentro di lui.
La solenne promessa di custodire i libri l'aveva fatta spontaneamente,
ma con l'ingenuità di un ragazzo. Adesso, sul finire della mezza età, era
tutto molto più complicato. Si era creato una nuova vita a Carcassonne.
Aveva altri obblighi, altre persone che amava e serviva.
Soltanto allora capì che il momento della resa dei conti per lui non sa-
rebbe mai giunto. Che non avrebbe mai potuto scegliere tra la devozione e
la responsabilità verso il visconte Trencavel e gli obblighi nei confronti
della Noublesso.
Nessuno era in grado di servire con onore due padroni. Fare quello che
Harif gli comandava voleva dire abbandonare il visconte nel momento del
bisogno. D'altro canto, ogni momento trascorso al fianco di Raymond-
Roger significava mancare ai propri doveri nei confronti della Noublesso.
Pelletier lesse di nuovo la lettera, pregando che si palesasse una soluzio-
ne. Stavolta alcune parole, alcune frasi spiccarono maggiormente: «Tuo
fratello ti attende a Besièrs».
Harif poteva riferirsi soltanto a Simeon. Ma perché a Béziers? Pelletier
portò il calice alle labbra e bevve, non sentì alcun sapore. Era strano che
Simeon si fosse fatto breccia nella sua mente proprio quel giorno, dopo
anni di assenza.
Uno scherzo del destino? Una coincidenza? Pelletier non credeva a nes-
suna delle due cose. Ma allora come spiegava il terrore che lo aveva assali-
to quando Alaïs aveva descritto il corpo senza vita che galleggiava sulle
acque del fiume Aude? Non c'era ragione di credere che si trattasse di Si-
meon, eppure ne era così certo.
E poi: «Tua sorella a Carcassona.»
Perplesso, Pelletier tracciò un disegno con il dito sul sottile strato di pol-
vere che ricopriva il tavolo di legno. Un labirinto.
Era possibile che Harif avesse nominato una donna come custode? E che
quella donna fosse stata tutto il tempo sotto il suo naso, proprio a Carcas-
sonne? Scosse il capo. No, non poteva essere.

CAPITOLO 9

Alaïs era alla finestra ad aspettare che Guilhem tornasse. Il cielo sopra
Carcassonne era di un intenso indaco vellutato, gettava un morbido manto
sulla città. Il vento secco della sera che spirava da nord, il cers, scendeva
dolcemente dalle montagne, faceva stormire le foglie sugli alberi e muove-
va le canne lungo le rive dell'Aude, portando con sé la promessa di aria più
fresca.
Puntini luminosi si vedevano brillare da Sant-Miquel e da Sant-Vicens.
Le vie ciottolose della Cité brulicavano di gente che mangiava e beveva,
raccontava storie e cantava canzoni d'amore, di prodezza e di morte. A po-
chi passi dalla piazza principale, le fiamme nella fornace del maniscalco
ardevano ancora.
Aspettare. Sempre aspettare.
Alaïs si era strofinata le erbe sui denti per renderli più bianchi e aveva
imbastito un sacchettino di nontiscordardimé nel collo del vestito per pro-
fumarlo. La stanza era pervasa dal dolce aroma di lavanda arsa.
L'assemblea era terminata qualche ora prima e Alaïs si aspettava che
Guilhem tornasse o quanto meno mandasse qualcuno ad avvertirla. Stralci
di conversazioni si levavano dalla corte come fili di fumo. Intravide il ma-
rito di sua sorella Oriane, Jehan Congost, che attraversava di fretta la corte.
Contò sette o otto chevaliers del castello, che si recavano di buona lena al-
la fornace con i loro écuyers. Poco prima, aveva visto suo padre rampo-
gnare un ragazzo che bighellonava nei pressi della cappella.
Di Guilhem nemmeno l'ombra.
Alaïs sospirò, frustrata per essersi rinchiusa in camera senza motivo. Si
voltò e diede uno sguardo alla stanza, vagò senza un perché dal tavolo alla
sedia e viceversa, le mani irrequiete cercavano qualcosa da fare. Si fermò
davanti al telaio e fissò l'arazzo che stava realizzando per dama Agnès, un
complesso bestiario ricco di creature selvagge e uccelli dalle ampie code
che strisciavano e si arrampicavano sulle mura di un castello. Di solito,
quando il cattivo tempo o i suoi oneri all'interno del castello la tenevano
confinata in casa, Alaïs trovava conforto in quel raffinato lavoro.
Quella sera non riusciva a concentrarsi su nulla. Gli aghi erano intatti vi-
cino al telaio, il filo che Sajhë le aveva regalato ancora intonso lì accanto.
Le pozioni che aveva preparato prima con l'angelica e la consolida mag-
giore erano state etichettate con cura e conservate in fila su uno scaffale di
legno nella parte più fresca e buia della stanza. Sollevò la tavoletta e la i-
spezionò ancora, fin quando non fu stanca di guardarla e non ebbe le dita
doloranti per aver seguito mille volte il disegno del labirinto. Aspettare,
aspettare.
«Es totjorn lo meteis» mormorò. Sempre la stessa storia.
Alaïs raggiunse lo specchio e scrutò la sua immagine riflessa. Un viso
piccolo e a cuore, con occhi castani e arguti e guance candide, né scialbo
né bello, la fissava con espressione seria dallo specchio. Alaïs sistemò la
scollatura del vestito, come aveva visto fare dalle altre ragazze, per cercare
di renderlo più alla moda. Magari se avesse cucito un pezzo di merletto
su...
Un colpo secco alla porta interruppe i suoi pensieri.
Perfin. Finalmente. «Avanti» gridò.
La porta si aprì. Il sorriso svanì dal suo viso.
«François. Cosa c'è?»
«L'intendente Pelletier richiede la vostra presenza, signora.»
«A quest'ora?»
François spostò il peso da un piede all'altro, imbarazzato.
«Vi aspetta nelle sue stanze. Temo che vi sia una certa premura, Alaïs.»
Lei sgranò gli occhi, stupita dal fatto che l'avesse chiamata con il nome
di battesimo. Non aveva mai commesso un errore simile prima di allora.
«È successo qualcosa?» chiese prontamente. «Mio padre non si sente be-
ne?»
François esitò. «È molto... preoccupato, signora. Gradirebbe la vostra
compagnia al più presto.»
Alaïs sospirò. «A quanto pare oggi non è proprio giornata.»
François aveva l'aria confusa. «Signora?»
«Non importa, François. È solo che sono un po' di malumore stasera.
Certo che verrò, se mio padre lo desidera. Andiamo?»

Nella sua stanza, dalla parte opposta dell'ala abitativa del castello, Oria-
ne era seduta al centro del letto con le lunghe gambe formose piegate sotto
di sé.
Gli occhi verdi semichiusi, come quelli di un gatto. Aveva un sorriso
compiaciuto sul viso mentre si lasciava pettinare i riccioli neri in disordine.
Di tanto in tanto sentiva i denti del pettine d'osso sfiorarle la cute, un tocco
delicato e sensuale.
«È molto... rilassante» disse.
Accanto a lei c'era un uomo. Era completamente nudo e aveva un imper-
cettibile velo di sudore fra le spalle larghe e possenti. «Rilassante, signo-
ra?» ribatté in tono scherzoso. «Non era certo questa la mia intenzione.»
Oriane sentì il respiro caldo sul collo, quando lui si sporse in avanti e le
tolse i capelli dal viso per poi intrecciarli dietro la schiena.
«Sei bellissima» sussurrò.
Cominciò a massaggiarle le spalle e la nuca, dapprima con delicatezza,
quindi con più energia. Oriane piegò il capo, mentre lui seguiva con le
mani esperte il profilo delle guance, del naso, del mento, quasi volesse im-
primere i suoi lineamenti nella memoria. Ogni tanto, le faceva scivolare
più in basso sulla pelle candida e delicata del collo.
Oriane gli prese una mano, la portò alla bocca e leccò la punta delle dita.
Lui l'attirò a sé. Oriane sentiva il calore e il peso del suo corpo, sentiva
premere contro la schiena la prova del suo desiderio. Lui la fece voltare e
le dischiuse le labbra con le dita, poi prese a baciarla lentamente.
Oriane non fece caso al rumore dei passi lungo il corridoio, finché qual-
cuno non cominciò a bussare alla porta.
«Oriane!» sentì gridare con voce stridula e stizzita. «Sei lì?»
«È Jehan!» mormorò lei a fior di labbra, seccata più che allarmata da
quella interruzione. Sgranò gli occhi. «Credevo avessi detto che non sa-
rebbe tornato.»
L'uomo lanciò uno sguardo alla porta. «Così pensavo. Quando li ho la-
sciati, sembrava che avrebbe avuto da fare con il visconte ancora per un
bel pezzo. È chiusa a chiave?»
«Certo» replicò lei.
«Non lo troverà strano?»
Oriane scrollò le spalle. «Non è tanto sciocco da entrare senza essere sta-
to invitato. Tuttavia, faresti meglio a nasconderti.» Indicò un'alcova nasco-
sta dietro un arazzo che si trovava appeso dall'altro lato del letto. «Non
preoccuparti» sorrise, vedendo l'espressione sul suo volto. «Me ne sbaraz-
zerò in un baleno.»
«E come pensi di fare?»
Gli mise le mani intorno al collo e lo attirò a sé, tanto vicino da sfiorargli
la pelle con le ciglia. Lui si strusciò contro di lei.
«Oriane!» piagnucolò Congost, il tono di voce si faceva più acuto ogni
volta che parlava. «Apri subito la porta!»
«Aspetta e vedrai» mormorò e si chinò per baciarlo sul petto, sul ventre
piatto e più in basso ancora. «Ora sparisci. Nemmeno lui rimarrà fuori in
eterno.»
Quando fu sicura che l'amante fosse ben nascosto, Oriane raggiunse la
porta in punta di piedi, girò la chiave nella serratura senza far rumore,
quindi tornò di corsa a letto e tirò le tende del baldacchino. Era pronta per
divertirsi.
«Oriane!»
«Marito» replicò con voce petulante. «Non c'è bisogno di fare tutto que-
sto chiasso. È aperto.»
Oriane lo sentì armeggiare, poi la porta si aprì e si richiuse di nuovo
sbattendo. Il marito entrò di fretta nella stanza. Lei sentì il rumore del me-
tallo contro il legno quando lui appoggiò la candela sul tavolo.
«Dove sei?» chiese irritato. «E perché è così buio qui dentro? Non sono
in vena di scherzi.»
Oriane sorrise. Si distese sui cuscini, con le gambe leggermente divari-
cate, le braccia lisce e nude piegate sopra la testa. Non voleva lasciare
niente all'immaginazione.
«Sono qui, marito.»
«La porta non era aperta quando ho provato la prima volta» si lamentò
lui, ma quando scostò le tende ammutolì.
«Be', forse non hai... spinto... abbastanza forte» ribatté.
Oriane vide il marito diventare prima pallido, subito dopo paonazzo.
Con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata, guardava allibito i
seni alti e sodi della moglie, i capelli sciolti e sparsi sul cuscino come una
massa di serpenti che si contorcevano, le curve della vita snella e la lieve
protuberanza del ventre, il triangolo di ispidi peli neri fra le cosce.
«Cosa credi di fare?» chiese lui con voce stridula. «Copriti im-
mediatamente.»
«Dormivo, caro» replicò. «Mi hai svegliata.»
«Svegliata? Io ti ho svegliata?» farfugliò, «E dormivi in... in questo mo-
do?»
«Fa molto caldo stasera, Jehan. Non sono libera di dormire come più mi
piace, nell'intimità della mia camera?»
«Poteva entrare chiunque e vederti in questo stato. Tua sorella, la tua
serva, Guirande. Chiunque!»
Oriane si mise a sedere lentamente e lo guardò con aria di sfida, mentre
si attorcigliava una ciocca di capelli attorno al dito. «Chiunque?» ripeté
sarcastica. «Ho licenziato Guirande» disse fredda. «Non ho più bisogno
dei suoi servigi.»
Notò che il marito si sforzava di guardare altrove, ma senza successo.
Desiderio e disgusto scorrevano in ugual misura nelle sue vene rinsecchite.
«Poteva entrare chiunque» ribadì, meno convinto stavolta.
«Sì, suppongo di sì. Ma non è entrato nessuno. A parte te, marito mio,
naturalmente.» Sorrise. Aveva lo sguardo di un animale pronto ad attacca-
re. «E adesso, giacché sei qui, forse puoi dirmi dove sei stato.»
«Sai dove sono stato» scattò lui. «In Consiglio.»
Lei sorrise. «In Consiglio? Tutto questo tempo? L'assemblea si è sciolta
molto prima che facesse buio.»
Congost arrossì. «Non hai alcun diritto di mettere in dubbio la mia paro-
la,»
Oriane strinse gli occhi. «Per Sant Foy, che uomo pomposo sei, Jehan.
"Non hai alcun diritto...".» L'imitazione era perfetta ed entrambi gli uomini
trasalirono per la sua crudeltà. «Coraggio, Jehan, dimmi dove sei stato. A
discutere affari di stato, forse? O eri forse in compagnia della tua amante,
è, Jehan? Hai un'amante nascosta da qualche parte nello Château Comtal?»
«Come osi parlarmi in questo modo? Io...»
«Gli altri mariti dicono alle mogli dove sono stati. Perché tu no? A meno
che non vi sia una ragione valida per non farlo.»
Congost ora urlava. «Gli altri mariti dovrebbero imparare a tenere la
bocca chiusa. Non sono cose da donne.»
Oriane strisciò sul letto verso di lui.
«Non sono cose da donne» ripeté. «È così?»
Il tono di voce era basso e sprezzante. Congost sapeva che si stava pren-
dendo gioco di lui, ma non capiva le regole del combattimento. Non le a-
veva mai capite.
Oriane tese la mano e premette l'eloquente protuberanza che sporgeva
dalla sua tunica. Fu soddisfatta nel vedere la sorpresa e il panico sul volto
del marito, quando cominciò a muovere la mano su e giù.
«Allora, caro» riprese sdegnata. «Dimmi, quali sono le cose da donna?
L'amore?» Strinse più forte. «Questo? Come lo definiresti, sesso?»
Congost sentiva puzza di tranello, ma era talmente ammaliato da quella
donna che non sapeva cosa dire né cosa fare. Non riuscì a trattenersi e si
chinò su di lei. Muoveva le labbra umide come un pesce, teneva gli occhi
serrati. Per quanto la disprezzasse, non poteva fare a meno di desiderarla;
malgrado fosse tanto erudito, in questo era come tutti gli altri uomini, ob-
bediva a ciò che gli pendeva fra le gambe. Lei invece lo disprezzava e ba-
sta.
D'improvviso, Oriane ritirò la mano, poiché aveva ottenuto la reazione
sperata. «Bene, Jehan» disse gelida. «Se non hai niente da dirmi, puoi an-
che andartene. Non ho bisogno di te in questo momento.»
Oriane vide scattare qualcosa in lui, come se tutte le delusioni e le fru-
strazioni che aveva sopportato in vita sua gli fossero balenate nella mente.
Prima che se ne rendesse conto, il marito l'aveva già colpita, abbastanza
forte da buttarla sul letto.
Restò a bocca aperta per lo stupore.
Congost era immobile, si fissava la mano come se fosse estranea al resto
del corpo.
«Oriane, io...»
«Sei patetico» urlò. Sentiva il sapore del sangue in bocca. «Ti ho detto
di andare. Vai dunque. Sparisci dalla mia vista!»
Per un istante a Oriane sembrò che stesse tentando di scusarsi. Invece,
quando lui rialzò lo sguardo, vide odio nei suoi occhi piuttosto che vergo-
gna. Tirò un respiro di sollievo. La recita sarebbe continuata come aveva
architettato.
«Mi dai la nausea» gridò lui, scostandosi dal letto. «Sei simile a una be-
stia. No, sei peggio, perché tu sai quello che fai.» Afferrò il mantello blu
che giaceva a terra in modo lascivo e glielo gettò in faccia. «E copriti. Non
voglio trovarti in queste condizioni quando torno, a ostentare le tue grazie
come una sgualdrina.»
Quando fu sicura che se ne fosse andato, Oriane si sdraiò di nuovo sul
letto e si coprì con il mantello, un po' scossa ma euforica. Per la prima vol-
ta in quattro anni di matrimonio, quello stupido e debole vecchio che il pa-
dre l'aveva costretta a prendere come marito, era riuscito davvero a sor-
prenderla. Lo aveva provocato di proposito, era vero, ma non si aspettava
certo che la picchiasse. E con tale violenza, per giunta. Si sfiorò la pelle
con le dita, le bruciava ancora per la percossa. Le aveva fatto male inten-
zionalmente. Le avrebbe forse lasciato il segno? Le sarebbe potuto tornare
utile. In quel modo avrebbe mostrato al padre a cosa aveva portato la sua
decisione.
Oriane si tirò su di colpo, con una risata amara. Lei non era certo Alaïs.
Soltanto Alaïs contava per suo padre, sebbene egli si sforzasse di non darlo
a vedere. Oriane somigliava troppo alla madre, nell'aspetto e nella persona-
lità, per i suoi gusti. Anche se Jehan l'avesse picchiata a morte, al padre
non sarebbe importato minimamente. Voleva dire che se lo meritava.
Per un attimo, lasciò che la gelosia che teneva nascosta, a tutti tranne che
ad Alaïs, trapelasse dal volto bello e impassibile. Il risentimento per la
mancanza di potere, di influenza, il disappunto. A cosa le serviva essere
giovane e bella se era legata a un uomo senza ambizioni né prospettive, un
uomo che non aveva mai brandito una spada? Non era giusto che Alaïs, la
sorella più giovane, avesse tutte le cose che lei desiderava e che le erano
state negate. Cose che le spettavano di diritto.
Oriane strinse la stoffa fra le dita, come se stesse strizzando il pallido
braccio scarno di Alaïs. La sciatta, insignificante e viziata Alaïs. Stritolò
più forte, immaginando un livido viola che si formava sulla pelle della so-
rella.
«Non avresti dovuto provocarlo.»
La voce dell'amante fendette il silenzio. Si era quasi dimenticata di lui.
«Perché no?» ribatté la donna. «È l'unico piacere che riesce a darmi.»
L'uomo sgusciò da dietro la tenda e le sfiorò la guancia con le dita. «Ti
ha fatto male? Ha lasciato il segno.»
Oriane sorrise sentendo la preoccupazione nella sua voce. Era evidente
che non la conosceva. Vedeva solo quello che voleva vedere, l'immagine
della donna che pensava che fosse.
«Non è niente» lo rassicurò.
La catena d'argento che l'uomo portava al collo le sfiorò la pelle quando
si chinò per baciarla. Oriane sentiva l'odore del suo desiderio. Si spostò,
facendo scivolare sul corpo il mantello blu come se fosse acqua. Passò le
mani sulle cosce dell'amante, la pelle era bianca e morbida in confronto a
quella dorata della schiena, delle braccia e del petto, quindi rivolse lo
sguardo più in alto. Sorrise. Lo aveva fatto aspettare abbastanza.
Oriane si avvicinò con la bocca, ma lui la spinse sul letto e si in-
ginocchiò accanto a lei.
«E quale tipo di piacere desiderate avere da me, mia signora?» chiese lui
mentre le allargava le gambe con delicatezza. «Questo?»
Lei mormorò, quando lui si chinò e la baciò. «Oppure questo?»
Le labbra scivolarono giù, nel punto più intimo e nascosto. Oriane trat-
tenne il respiro mentre la lingua correva sulla pelle, e lui mordeva, leccava,
stuzzicava.
«O forse, questo?» Sentì le mani possenti stringerla alla vita e tirarla
verso di lui. Oriane si aggrappò con le gambe alla sua schiena. «O magari
è questo quello che volete?» disse, la voce vibrante di desiderio mentre la
penetrava a fondo. Lei gemeva di piacere e gli affondava le unghie nella
schiena per la foga.
«Dunque tuo marito ti ritiene una sgualdrina, non è così?» fece lui. «Ve-
diamo un po' se ha ragione.»

CAPITOLO 10

Pelletier percorreva la stanza a grandi passi, in attesa di Alaïs.


Faceva più fresco adesso, ma aveva la fronte imperlata di sudore e le
guance rosse. Avrebbe dovuto essere nelle cucine a supervisionare la servi-
tù, ad assicurarsi che tutto fosse sotto controllo. Ma era sopraffatto dal-
l'importanza di quel momento. Era come se si trovasse davanti a un bivio,
a un incrocio di strade che andavano in direzioni diverse e conducevano
verso un futuro incerto. Tutto ciò che era accaduto nel corso della sua vita,
e tutto ciò che ancora doveva accadere, era legato alla decisione che a-
vrebbe preso.
Perché ci impiegava tanto ad arrivare?
Pelletier strinse la lettera nel pugno. Conosceva già le parole a memoria.
Distolse lo sguardo dalla finestra e notò qualcosa che luccicava nell'om-
bra in mezzo alla polvere, vicino allo stipite della porta. Si chinò e lo rac-
colse. Era una pesante fibbia d'argento, con un particolare in rame, abba-
stanza grande da venire usata per chiudere un mantello o una tunica.
Aggrottò la fronte. Non era sua.
La portò alla luce di una candela per vederla meglio. Non aveva niente
di speciale. Al mercato, ne aveva viste centinaia. La rigirò fra le mani. Era
di qualità discreta, faceva pensare a una persona benestante, ma non ricca.
Non poteva trovarsi lì da molto. François metteva in ordine la stanza o-
gni mattina e l'avrebbe notata certamente. A nessun altro servitore era con-
sentito accedere alla sua stanza, che restava chiusa a chiave tutto il giorno.
Pelletier si guardò intorno, in cerca di qualche ulteriore segno di intru-
sione. Si sentiva a disagio. Era la sua immaginazione o gli oggetti sullo
scrittoio erano leggermente fuori posto? Le coperte sul letto erano state
scompigliate? Quella sera lo metteva in agitazione qualsiasi cosa.
«Paire?»
Alaïs lo chiamò con dolcezza, ma lui trasalì ugualmente. Con gran fretta,
infilò la fibbia nel borsello. «Padre» ripeté lei. «Mi avete mandata a chia-
mare?»
Pelletier si ricompose, «Sì, esatto. Vieni.»
«C'è altro, messire» domandò François sull'uscio.
«No. Ma aspetta qui fuori nel caso avessi bisogno di qualcosa.»
Quando la porta fu chiusa, invitò Alaïs ad accomodarsi al tavolino. Le
versò una coppa di vino e riempì la sua, ma non si mise a sedere.
«Hai l'aria stanca.»
«Sono un po' affaticata.»
«Che si dice in giro del Consiglio, Alaïs?»
«La gente non sa cosa pensare, messire. Si sentono talmente tante storie.
Tutti pregano che la situazione non sia grave quanto sembra. Sanno che il
visconte partirà per Montpelhièr domani, accompagnato da un piccolo se-
guito, per chiedere udienza allo zio, il conte di Tolosa.» Alzò il capo. «È
vero?»
Lui annuì.
«Ma si dice anche che il torneo si terrà ugualmente.»
«Anche questo è vero. Il visconte intende portare a termine la missione e
tornare a casa nel giro di due settimane. Di certo prima della fine di lu-
glio.»
«Quante probabilità ci sono che la missione del visconte abbia succes-
so?»
Pelletier non rispose, ma continuò a camminare su e giù per la stanza.
Stava trasmettendo la propria agitazione alla figlia.
Alaïs bevve un sorso di vino per farsi coraggio. «Guilhem fa parte della
scorta?»
«Non ti ha informato di persona?» chiese lui in tono severo.
«Non lo vedo da quando si è sciolta l'assemblea» confessò.
«Dove si è cacciato, per Sant-Foy?» domandò Pelletier.
«Vi prego, ditemi soltanto sì o no.»
«Guilhem du Mas è fra i prescelti, ma ti confesso che la cosa non mi ag-
grada. È il prediletto del visconte.»
«A ragione, paire» osservò lei in modo pacato. «È un abile chevalier.»
Pelletier si chinò per versarle altro vino, «Dimmi, Alaïs, ti fidi di lui?»
La domanda la prese alla sprovvista, ma rispose senza esitare. «Tutte le
mogli dovrebbero fidarsi dei propri mariti, non trovate?»
«Ma certo. Non potevi rispondere in altra maniera» replicò lui, facendo
cenno di accantonare quella domanda. «Ma ti ha chiesto cosa è successo al
fiume questa mattina?»
«Mi avete ordinato di non farne parola con nessuno» gli ricordò, «Natu-
ralmente, vi ho obbedito.»
«Non lo metto in dubbio» fece lui. «Però non hai ancora risposto alla
mia domanda. Guilhem ti ha chiesto dove sei stata?»
«Non ce n'è stata l'occasione» rispose in tono di sfida. «Come vi ho det-
to, non l'ho visto.»
Pelletier si avvicinò alla finestra. «Hai paura che scoppi la guerra?» le
chiese dandole le spalle.
Alaïs era sconcertata dal repentino cambio di argomento, ma rispose
senza tergiversare.
«A pensarci bene sì, messire» replicò con cautela. «Ma di sicuro non si
arriverà a tanto, vero?»
«No, può darsi di no.»
Poggiò le mani sul davanzale, sembrava assorto nei propri pensieri e
quasi noncurante della sua presenza, «So che giudichi impertinente la mia
domanda, ma te l'ho rivolta per un motivo ben preciso. Guarda in fondo al
tuo cuore. Pensa attentamente alla risposta. Poi, dimmi la verità. Ti fidi di
tuo marito? Credi che sia in grado di proteggerti e di comportarsi in modo
corretto nei tuoi confronti?»
Alaïs capì che dietro quelle parole ce n'erano altre taciute, nascoste da
qualche parte sotto la superficie, ma aveva timore di rispondere. Non vole-
va essere infedele a Guilhem. Allo stesso tempo, non si rassegnava a men-
tire a suo padre.
«So che non vi va a genio, messire,» disse con voce ferma «anche se non
so cosa possa aver fatto per offendervi...»
«Sai perfettamente cosa fa per offendermi» ribatté impaziente Pelletier.
«Te l'ho già detto diverse volte. Comunque, la mia opinione su du Mas,
buona o cattiva che sia, adesso non c'entra. Si può avere antipatia per un
uomo eppure riconoscere i suoi pregi. Ti prego, Alaïs. Rispondi alla mia
domanda. Da essa dipendono moltissime cose.»
L'immagine di Guilhem addormentato, dei suoi occhi scuri e magnetici,
la curva delle sue labbra quando le baciava la parte interna del polso. Era-
no ricordi così vividi che le fecero vorticare la testa.
«Non posso rispondervi» disse alla fine.
«Ah» sospirò il padre. «Bene. Bene. Capisco.»
«Con il dovuto rispetto, paire, voi non capite» si infervorò. «Non ho det-
to nulla.»
Lui si voltò. «Hai detto a Guilhem che ti ho mandata a chiamare?»
«Ve lo ripeto, non l'ho visto e... e non trovo giusto che mi rivolgiate tali
domande. Che mi chiediate di scegliere se essere fedele a voi o a lui.» Ala-
ïs fece per alzarsi. «Pertanto, se la mia presenza non è più necessaria, mes-
sire, vista l'ora tarda vi chiedo il permesso di ritirarmi.»
Pelletier cercò di calmare le acque. «Siediti, siediti. Capisco di averti of-
fesa. Perdonami. Non era mia intenzione.»
Tese la mano. Dopo un istante Alaïs l'afferrò.
«Non mi va di parlare per enigmi. Sono indeciso... Devo schiarirmi le
idee. Stasera ho ricevuto un messaggio di enorme importanza, Alaïs. Ho
passato le ultime ore a cercare di decidere cosa fare, a valutare le alternati-
ve. Anche se pensavo di aver scelto una linea di condotta e ti ho fatto
chiamare, avevo ancora qualche dubbio.»
Alaïs lo guardò negli occhi. «E adesso?»
«Adesso la strada mi appare chiara. Sì. Credo di sapere cosa devo fare.»
Alaïs impallidì. «Allora, sta per scoppiare la guerra?» chiese, in tono
improvvisamente dimesso.
«Credo che sia inevitabile. I presagi non sono buoni.» Si sedette. «Siamo
coinvolti in vicende troppo grandi che non abbiamo il potere di controllare,
per quanto ci ostiniamo a credere il contrario.» Fece una pausa. «Ma c'è
una faccenda ben più importante, Alaïs. E se le cose si mettono male a
Montpelhièr, allora forse non avrò mai occasione di... di dirti la verità.»
«Cosa può esserci di più importante della minaccia della guerra?»
«Prima che io continui, devi darmi la tua parola che tutto quello che ti
dirò stasera rimarrà tra noi.»
«È per questo che mi avete chiesto di Guilhem?»
«In parte, sì» ammise, «ma c'è dell'altro. Prima, però, assicurami che
niente di quello che ti dirò uscirà da queste quattro mura.»
«Avete la mia parola» affermò senza esitazione.
Di nuovo Pelletier sospirò, ma stavolta la sua voce rivelava sollievo e
non ansia. Il dado era tratto. Aveva fatto la sua scelta. Ora doveva sola-
mente essere deciso ad andare fino in fondo, malgrado le conseguenze.
Alaïs si avvicinò. Le fiamme delle candele danzavano e tremolavano ne-
gli occhi castani.
«Questa storia,» cominciò il padre «ha inizio nelle lontane terre d'Egitto
diverse migliaia di anni fa. È la vera storia del Graal.»

Pelletier parlò finché l'olio nelle lampade non si fu consumato.


La corte era diventata silenziosa, anche gli amanti dei bagordi erano an-
dati a dormire. Alaïs era esausta. Aveva le dita bianche e cerchi viola simi-
li a lividi intorno agli occhi.
Pelletier era invecchiato e stanco dopo il racconto.
«Per rispondere alla tua domanda, non devi fare nulla. Non ancora, forse
mai. Se le nostre istanze domani verranno ascoltate, avrò tempo e modo di
trarre i libri in salvo da solo, come è mio dovere.»
«E se invece cosi non fosse, messire? Se dovesse succedervi qualcosa?»
Alaïs si interruppe, la paura le strinse la gola.
«Andrà tutto bene» ribatté il padre con voce spenta.
«E se non sarà così?» insistette lei, rifiutandosi di farsi rassicurare. «Se
non doveste fare ritorno? Come saprò quello che devo fare?»
Lui la fissò per un istante. Quindi frugò nella borsa ed estrasse un picco-
lo oggetto avvolto in una stoffa ingiallita.
«Se mi succederà qualcosa, ne riceverai uno simile.»
Lo posò sul tavolo e lo fece scivolare verso di lei.
«Aprilo.»
Alaïs fece come gli aveva detto, aprì la stoffa un lembo alla volta finché
non trovò un dischetto di pietra bianca con due lettere incise sopra. Lo av-
vicinò alla luce e lesse a voce alta.
«NS?»
«Stanno per Noublesso de los Seres.»
«Che cos'è?»
«Un merel, un gettone segreto, che viene fatto passare tra il pollice e
l'indice. Ha una funzione ancora più importante, ma non è necessario che
tu la conosca adesso. Serve a capire se puoi fidarti di chi lo porta.» Alaïs
annuì. «Ora giralo.»
Inciso sull'altra faccia del disco c'era un labirinto, identico a quello che
aveva trovato sulla tavoletta di legno.
Alaïs trattenne il fiato. «L'ho già visto.»
Pelletier si sfilò lentamente l'anello dal pollice e glielo porse. «È inciso
nella parte interna» le mostrò. «Tutti i custodi ne indossano uno.»
«No, non qui allo Château. Ho comprato del formaggio al mercato oggi
e ho preso una tavoletta di legno dalla mia stanza per trasportarlo. Questo
disegno era inciso sul retro.»
«Ma è impossibile. Non può essere lo stesso.»
«Vi giuro che lo è.»
«Da dove proviene quella tavoletta?» chiese. «Pensaci, Alaïs. Te l'ha da-
ta qualcuno? Era un regalo?»
Alaïs scosse il capo. «Non lo so, non lo so» rispose sconsolata. «È tutto
il giorno che cerco di ricordarlo, ma non ci riesco. La cosa più strana è che
ero convinta di aver visto il disegno da qualche altra parte, anche se la ta-
voletta non mi era familiare.»
«Dov'è adesso?»
«L'ho lasciata sul tavolo nella mia camera» rispose. «Perché? Credete
che sia importante?»
«Quindi, può averla vista chiunque» commentò frustrato.
«Penso di sì» replicò nervosa lei. «Guilhem, qualcuna delle mie serve,
non saprei dire.»
Alaïs guardò l'anello che aveva in mano e a un tratto i pezzi com-
baciarono. «Pensavate che l'uomo nel fiume fosse Simeon?» chiese lenta-
mente. «È un custode anche lui?»
Pelletier annuì. «Non c'era motivo di ritenere che fosse lui, eppure ne ero
sicuro.»
«E gli altri custodi? Sapete dove si trovano?»
Lui si sporse in avanti e racchiuse il merel fra le dita della figlia. «Basta
con le domande, Alaïs. Fanne buon uso. Tienilo al sicuro. E nascondi la
tavoletta con il labirinto lontano da occhi indiscreti. Me ne occuperò al
mio ritorno.»
Alaïs si alzò. «Che mi dite a proposito di quella tavoletta?»
Pelletier sorrise per la sua insistenza. «Devo rifletterci, filha.»
«Ma il fatto che si trovi qui significa che qualcuno nello Château sa del-
l'esistenza dei libri?»
«Nessuno può saperlo» disse risoluto. «Se lo ritenessi possibile, te lo di-
rei. Lo giuro.»
Erano belle parole, grintose anche, ma contraddette dall'espressione sul
suo volto.
«E se...»
«Basta» disse dolcemente e alzò le braccia. «Basta così.»
Alaïs si lasciò avvolgere dal suo enorme abbraccio. L'odore familiare del
padre le fece venire le lacrime agli occhi.
«Andrà tutto bene» disse con fermezza. «Devi essere coraggiosa. Fai so-
lo quello che ti ho chiesto, nient'altro.» La baciò sulla fronte. «Vieni a dirci
addio all'alba.» Alaïs annuì, non aveva la forza di parlare.
«Ben, ben. Adesso sbrigati. E che Dio ti assista.»

Alaïs corse lungo il corridoio buio e uscì nella corte senza riprendere fia-
to, vedeva demoni e fantasmi dappertutto. Le girava la testa. Tutto il suo
mondo sembrava all'improvviso un'immagine riflessa, riconoscibile eppure
totalmente diversa. Il pacchetto che nascondeva sotto il vestito sembrava
perforarle la pelle.
Fuori l'aria era fresca. Quasi tutti si erano ritirati per la notte, sebbene ci
fosse ancora qualche luce accesa nelle stanze che si affacciavano sulla
Cour d'Honneur. Lo scoppio di risa delle sentinelle, di guardia alla porta
della città, la fece trasalire. Per un istante le parve di vedere qualcuno in
una delle stanze al piano superiore. Subito dopo un pipistrello le si avventò
contro attirando la sua attenzione e, quando alzò di nuovo lo sguardo, la
finestra era buia. Accelerò l'andatura. Le parole di suo padre le giravano
vorticosamente in testa, assieme a tutte le domande che avrebbe voluto
fargli e non gli aveva fatto.
Dopo pochi passi cominciò a sentire un formicolio sulla nuca. Guardò
indietro.
«Chi va là?»
Nessuna risposta. Chiese di nuovo. C'era un che di maligno nell'oscurità,
lo sentiva, lo percepiva. Camminò più veloce, sicura che qualcuno la stesse
seguendo. Sentiva un lieve fruscio di passi e il rumore di un respiro pesan-
te.
«Chi va là?» fece di nuovo.
A un tratto, una mano ruvida e callosa, che puzzava di birra, le tappò la
bocca. Alaïs urlò, quando avvertì un colpo secco, improvviso, sulla nuca, e
cadde a terra.
Le sembrò di impiegare un secolo a raggiungere il suolo. Alla fine sentì
delle mani strisciare su di lei come ratti in una cantina, finché non trovaro-
no quello che cercavano.
«Aqui es.» Eccolo.
Quella fu l'ultima cosa di cui Alaïs si rese conto prima che il buio totale
scendesse su di lei.

CAPITOLO 11

PIC DE SOULARAC
MONTI DEL SABARTHÈS
FRANCIA SUD-OCCIDENTALE
Lunedì, 4 luglio 2005

«Alice! Alice, mi senti?»


Alice sbatté le palpebre e apri gli occhi.
L'ambiente era fresco e umido, come in una chiesa non riscaldata. Non
era sospesa nell'aria, ma sdraiata sulla terra dura e fredda.
Dove diavolo sono?
Sentiva il terreno bagnato, scabro e irregolare sotto le gambe e le brac-
cia. Cambiò posizione. Rocce appuntite e arenaria le escoriavano la pelle.
No, non era una chiesa. Un vago ricordo riaffiorò nella mente. Cammi-
nava per un tunnel lungo e buio dentro una caverna, una stanza scavata
nella roccia. E poi? Era tutto confuso, dai contorni indistinti.
Alice cercò di sollevare la testa. Fu un errore. Le scoppiò un forte dolore
alla base del cranio. La nausea si agitava nello stomaco come l'acqua sul
fondo di una barca di legno fradicio.
«Alice, mi senti?»
Qualcuno le parlava. Una voce preoccupata, ansiosa, una voce conosciu-
ta.
«Alice, svegliati.» Cercò di alzare una mano. Stavolta il dolore era più
sopportabile. Con calma e attenzione riuscì a rimettersi in piedi.
«Cristo» mormorò Shelagh. Sembrava sollevata.
Sentì qualcuno infilarle le mani sotto le braccia per aiutarla a mettersi
seduta. Era tutto tetro e scuro, tranne i cerchi di luce che guizzavano dalle
torce. Due torce. Alice strinse gli occhi e riconobbe Stephen, uno dei
membri più anziani della squadra, dubbioso alle spalle di Shelagh: i suoi
occhiali dalla montatura metallica riflettevano la luce.
«Alice, rispondi. Puoi sentirmi?» chiese Shelagh.
Non ne sono sicura. Forse.
Alice si sforzò di parlare, ma aveva le labbra intorpidite e le parole non
le uscirono. Cercò di annuire. Lo sforzo le causò un capogiro. Mise la testa
fra le ginocchia per non svenire.
Con Shelagh da un lato e Stephen dall'altro si trascinò un po' indietro
finché non fu seduta su uno dei gradini di pietra, con le mani sulle ginoc-
chia. Sembrava che tutto si spostasse avanti e indietro, dentro e fuori, co-
me in una pellicola sfocata.
Shelagh si accovacciò davanti a lei e le disse qualcosa, ma Alice non
riuscì a decifrare le sue parole. Il suono era distorto, sembrava un disco che
suonava alla velocità sbagliata. Un nuovo attacco di nausea l'assalì quando
altri ricordi frammentari le tornarono alla mente: il rumore del teschio che
cadeva nell'oscurità; la sua mano che cercava di afferrare l'anello; la con-
sapevolezza di aver turbato qualcosa che riposava nei più profondi recessi
della montagna, qualcosa di malvagio.
Poi il nulla.
Aveva tanto freddo. Sentì la pelle d'oca spuntarle su braccia e gambe.
Sapeva che non poteva essere rimasta a lungo priva di sensi, qualche mi-
nuto al massimo. Un'unità di tempo così irrilevante. Ma sufficiente a darle
la sensazione di essere trasportata in un'altra dimensione.
Alice rabbrividì. Sopraggiunse un altro ricordo. Il sogno che faceva
sempre. Prima, un senso di pace e di leggerezza, un mondo candido e lim-
pido. A un certo punto precipitava nel vuoto andando veloce incontro al
suolo. Non c'era nessuno schianto, nessun impatto, solo le verdi e scure fi-
le di alberi che incombevano su di lei. Infine il fuoco, il muro di fiamme
crepitanti, dorate e vermiglie.
Si circondò con le braccia nude. Come mai quel sogno si era ri-
presentato? Per tutta l'infanzia, era stata tormentata da quell'incubo, sem-
pre uguale, che non portava mai a nulla. Mentre i genitori dormivano igna-
ri nella stanza di fronte alla sua, Alice aveva passato sveglia intere nottate
al buio, stringendo forte le coperte deciba a scacciare quei demoni da sola.
Ma ormai non le capitava più da anni. L'aveva lasciata in pace per un bel
pezzo.
«Che ne dici se proviamo a metterti in piedi?» chiese Shelagh.
Non significa nulla. Una volta sola non vuol dire che sta per rico-
minciare tutto da capo.
«Alice» ripeté Shelagh, leggermente seccata. Impaziente. «Credi di riu-
scire ad alzarti? Dobbiamo riportarti all'accampamento. Farti visitare da
qualcuno.»
«Credo di sì» rispose Alice alla fine. La voce sembrava quella di un'altra
persona. «La testa non va tanto bene.»
«Puoi farcela, Alice. Coraggio, proviamo.»
Alice si guardò il polso rosso e gonfio. Merda. Non riusciva a ricordare,
non voleva ricordare. «Non so bene cos'è successo. Questo...» Alzò la ma-
no. «Questo me lo sono fatto fuori.»
Shelagh mise un braccio intorno ad Alice per sorreggerla. «Sei pronta?»
Alice si diede una spinta e Shelagh la sollevò. Stephen la prese sotto-
braccio dall'altra parte. Barcollò un istante, cercando di trovare l'equilibrio,
ma dopo qualche secondo il capogiro svanì e riacquistò la sensibilità degli
arti addormentati. Con attenzione, cominciò a piegare e a stendere le dita:
la pelle escoriata tirava sulle nocche.
«Sto bene. Datemi soltanto un minuto.»
«Si può sapere come ti è saltato in mente di entrare qui dentro tutta so-
la?»
«Ero...» Alice si interruppe, non sapeva cosa dire. Infrangere le regole e
cacciarsi nei guai era una sua prerogativa. «C'è qualcosa che dovete asso-
lutamente vedere laggiù. Dove il terreno è avvallato.»
Shelagh illuminò con la torcia il punto indicato da Alice con lo sguardo,
lasciando nell'ombra le pareti e il soffitto della caverna.
«No, non lì» fece Alice. «Laggiù.»
Shelagh puntò il fascio di luce più in basso.
«Davanti all'altare.»
«L'altare?»
La potente luce bianca tagliò la densa oscurità della stanza come un ri-
flettore. Per una frazione di secondo, l'ombra dell'altare si proiettò sulla pa-
rete di roccia in fondo alla stanza, simile a un pi greco sovrapposto al labi-
rinto che vi era inciso. Poi Shelagh spostò la mano, l'immagine sparì e la
torcia illuminò il sepolcro. Le ossa pallide balzarono fuori dall'oscurità.
In un lampo, l'atmosfera cambiò. Shelagh inspirò profondamente. Come
un automa, discese prima uno, poi due, infine tre gradini. Sembrava che si
fosse dimenticata di Alice.
Stephen fece per seguirla.
«No» scattò lei. «Resta lì.»
«Stavo solo...»
«Appunto, vai a chiamare il dottor Brayling. Digli cosa abbiamo scoper-
to. Subito» urlò, dato che lui non si muoveva, Stephen mise la torcia in
mano ad Alice e sparì dentro il tunnel senza dire una parola. Si sentì lo
scricchiolio degli stivali sulla ghiaia diventare sempre più debole, finché
non venne risucchiato dall'oscurità.
«Non avresti dovuto alzare la voce con lui» cominciò Alice. Shelagh la
interruppe.
«Hai toccato qualcosa?»
«Non esattamente, però...»
«Però cosa?» Di nuovo quell'atteggiamento aggressivo.
«C'erano un paio di cose nel sepolcro» proseguì Alice. «Te le mostro.»
«No» gridò Shelagh, «No» un po' più pacata, «Meglio non mettersi a cu-
riosare laggiù.»
Alice stava per risponderle che ormai era troppo tardi, ma si trattenne.
Non voleva avvicinarsi di nuovo agli scheletri. Le orbite vuote, le ossa
frantumate, erano troppo impresse nella sua memoria.
Shelagh era sull'orlo di quella fossa poco profonda. Era curioso il modo
in cui faceva scorrere il raggio di luce sui corpi, su e giù, come per esami-
narli. Quasi irriverente. La luce centrò la lama opaca del pugnale, quando
si accovacciò accanto agli scheletri dando le spalle ad Alice.
«Hai detto di non aver toccato niente» affermò in modo brusco, voltan-
dosi leggermente. «Allora come mai le tue pinzette si trovano qui?»
Alice arrossì. «Mi hai interrotta prima che potessi finire. Quello che vo-
levo dire è che ho raccolto un anello, con le pinzette, prima che tu me lo
chieda, che mi sono cadute quando vi ho sentito arrivare attraverso il tun-
nel.»
«Un anello?» ripeté Shelagh.
«Forse è rotolato sotto qualcos'altro?»
«Be', io non lo vedo» replicò, alzandosi di scatto. Si avvicinò rapida ad
Alice. «Usciamo di qui. Le tue ferite hanno bisogno di cure.»
Alice la guardò incredula. Quella che si trovava davanti sembrava un'e-
stranea, non la sua migliore amica. Irascibile, sgarbata, ipercritica.
«Ma non avevi detto...»
«Gesù, Alice» esclamò, afferrandola per il braccio. «Non hai già fatto
abbastanza? Dobbiamo andare!»

Quando riemersero dall'oscurità della grotta, la luce era accecante, in


confronto al buio della caverna. Il sole esplose davanti agli occhi di Alice
come un fuoco d'artificio nel cielo scuro di novembre.
Si riparò gli occhi con le mani. Era del tutto disorientata, incapace di
collocarsi nello spazio e nel tempo. Sembrava che il mondo si fosse ferma-
to mentre si trovava nella caverna. Il paesaggio era lo stesso, eppure qual-
cosa era cambiato.
O sono io che lo guardo con occhi diversi?
Le vette scintillanti dei Pirenei non apparivano più nitide in lontananza.
Gli alberi, il cielo, persino la montagna, era tutto meno concreto, meno
reale. Alice aveva l'impressione che se avesse toccato qualcosa, sarebbe
crollato tutto come lo sfondo di un set cinematografico, rivelando un altro
mondo fino ad allora sconosciuto.
Shelagh non parlava. Scendeva svelta per il pendio, il cellulare attaccato
all'orecchio, senza nemmeno prendersi la briga di controllare se Alice ce la
facesse. Alice si sforzava di stare al passo.
«Shelagh, fermati un attimo. Aspetta.» Le prese il braccio. «Senti, mi di-
spiace davvero. So che non avrei dovuto entrare li dentro da sola. L'ho fat-
to senza riflettere.»
Shelagh non si accorse che le stava parlando. Non si voltò neppure, an-
che se aveva richiuso il cellulare.
«Rallenta. Non ce la faccio a starti dietro.»
«Okay» fece Shelagh, girandosi di scatto. «Mi sono fermata.»
«Che succede?»
«Spiegamelo tu! Cioè, cosa vorresti che ti dicessi esattamente? Che è
tutto a posto? Vuoi che non ti faccia sentire in colpa per aver mandato tutto
a puttane?»
«No, io...»
«Perché, se proprio lo vuoi sapere, in realtà non è affatto a posto. È stata
una vera cazzata entrare lì da sola. Hai contaminato la zona e Dio solo sa
cos'altro hai combinato. A che razza di gioco volevi giocare?»
Alice alzò le mani. «Okay, okay, lo so. E mi dispiace davvero» ripeté,
conscia di sembrare del tutto inadeguata.
«Hai idea della posizione in cui mi hai messa? Ho garantito io per te. Ho
convinto io Brayling a lasciarti venire. Grazie a te, che ti sei messa a fare
Indiana Jones, la polizia forse sospenderà gli scavi. Brayling se la prenderà
con me. Se penso a tutto quello che ho fatto per prendere parte al progetto.
A tutto il tempo che ci ho messo per...» Shelagh si interruppe e si passò le
dita fra i cortissimi capelli ossigenati.
Non è giusto.
«Senti, aspetta un attimo.» Anche se sapeva che Shelagh aveva tutto il
diritto di essere arrabbiata, pensava che stesse davvero esagerando. «Sei
ingiusta. Ammetto di aver fatto una stupidaggine... non ci ho riflettuto,
ammetto anche questo... ma ti stai scaldando un po' troppo, non credi?
Cazzo, non l'ho fatto apposta. Non è detto che Brayling chiami la polizia.
Non ho toccato praticamente nulla. Nessuno si è fatto male.»
Shelagh liberò il braccio dalla presa di Alice con tanta forza da farle
quasi perdere l'appiglio.
«Brayling chiamerà le autorità,» Shelagh sbottò «perché, come sapresti
anche tu, se ti degnassi di ascoltarmi una maledetta volta, il permesso per
gli scavi ci è stato accordato, contro il parere della polizia, a condizione
che qualunque scoperta di resti umani sarebbe stata immediatamente riferi-
ta a loro.»
Alice sentì un macigno caderle sulla testa. «Credevo che fosse pura bu-
rocrazia. Nessuno sembrava averla presa sul serio. Tutti ci scherzavano
sopra.»
«È ovvio che tu non l'hai presa sul serio» gridò Shelagh. «Noi altri inve-
ce sì, dato che siamo professionisti seri e abbiamo rispetto per il nostro la-
voro!»
Tutto questo non ha senso.
«Ma perché mai la polizia dovrebbe essere interessata a degli scavi ar-
cheologici?»
Shelagh andò su tutte le furie. «Cristo, Alice, proprio non ci arrivi? Al-
meno stavolta. Non importa un accidente del perché. È così e basta. Non
spetta a te decidere quali regole siano giuste e quali no.»
«Non ho mai detto...»
«Perché devi sempre contestare tutto? Pensi sempre di aver ragione tu,
di poter infrangere le regole ogni volta che vuoi, di essere diversa.»
Adesso gridava anche Alice. «Non è affatto giusto. Non sono fatta così e
tu lo sai. È solo che non pensavo...»
«È questo il punto. Non pensi mai a niente, tranne che a te stessa. E a ot-
tenere ciò che vuoi.»
«È una follia, Shelagh. Perché dovrei cercare deliberatamente di metterti
i bastoni fra le ruote? Ti sei sentita?» Alice tirò un respiro profondo, e cer-
cò di riprendere il controllo. «Ascolta, confesserò a Brayling che è stata
tutta colpa mia, però... be', il fatto è che... in circostanze normali non mi
sarei mai avventurata lì dentro da sola, ma...»
Esitò.
«Ma cosa?»
«So che può sembrare stupido, ma era come se qualcosa mi attirasse
dentro. Sapevo che c'era quella caverna lì. Non so spiegartelo, lo sapevo e
basta. Un presentimento. Un déja vu. Come se ci fossi già stata prima.»
«Credi che questo migliori le cose?» chiese Shelagh in tono sarcastico.
«Gesù, dacci un taglio. Un presentimento. È patetico.»
Alice scosse il capo. «Era qualcosa di più che...»
«In ogni caso, perché diavolo stavi scavando così in alto? E da sola? È
sempre la stessa storia. Infrangi le regole soltanto per il gusto di farlo.»
«No» fece lei. «Non è andata così. Il mio compagno oggi non c'è. Ho vi-
sto qualcosa sotto un masso e, siccome è il mio ultimo giorno qui, ho pen-
sato di lavorare un po' di più.» La sua voce si affievolì. «Volevo solo vede-
re se valeva la pena di esaminarlo» disse, accorgendosi del suo sbaglio
troppo tardi. «Non avevo intenzione...»
«Mi stai dicendo, come se non bastasse, che hai effettivamente trovato
qualcosa? Maledizione, hai trovato qualcosa e non ti sei presa il disturbo di
condividere la scoperta con gli altri?»
«Io...»
Shelagh tese la mano. «Dammelo.»
Alice la fissò per un istante, quindi frugò nella tasca dei calzoncini di je-
ans sfrangiati, tirò fuori il fazzoletto e glielo porse. Non aveva il coraggio
di parlare.
Guardò Shelagh aprire i lembi di cotone bianco che racchiudevano la
spilla. Alice non riuscì a trattenersi e allungò la mano.
«È bella, non trovi? Il modo in cui il rame sui bordi imprigiona la luce,
qui e qui.» Esitò. «Credo che appartenesse a uno degli scheletri che si tro-
vano nella caverna.»
Shelagh alzò gli occhi. Il suo umore aveva subito un nuovo cam-
biamento. La rabbia era svanita.
«Non hai idea di quello che hai fatto, Alice. Proprio non ce l'hai.» Ripie-
gò il fazzoletto. «Questa la tengo io.»
«Ma...»
«Basta, Alice. Non mi va di parlare adesso. Ogni cosa che dici non fa al-
tro che peggiorare la situazione.»

Ma di che diavolo parlava?


Alice guardava sconcertata Shelagh mentre si allontanava. Era nata una
lite da un niente, eccessiva persino per Shelagh, che era capace di arrab-
biarsi per una sciocchezza e di dimenticare tutto altrettanto in fretta.
Si sedette sulla roccia più vicina e appoggiò il polso dolorante su un gi-
nocchio. Aveva male dappertutto e si sentiva davvero sfinita, nonché ama-
reggiata. Sapeva che gli scavi erano stati finanziati da privati, anziché dal-
l'università o da qualche ente, e pertanto non erano soggetti alle restrizioni
che ostacolavano di solito le ricerche archeologiche. Di conseguenza, la
gente aveva fatto carte false pur di entrare nella squadra. Shelagh stava la-
vorando a Mas d'Azil, a pochi chilometri da Foix, quando aveva saputo
degli scavi sui monti del Sabarthès. Da quel momento aveva iniziato a
bombardare il direttore, il dottor Brayling, di lettere, e-mail e referenze
finché, diciotto mesi prima, lui aveva acconsentito per sfinimento. Già al-
lora, Alice si era domandata come mai l'amica fosse tanto ossessiva.
Guardò ai piedi della montagna. Shelagh ormai era talmente lontana che
quasi non si riusciva più a vedere la sua figura lunga e sottile, nascosta dal-
la sterpaglia e dalle ginestre che crescevano sui pendii meno ripidi. Anche
volendo, Alice non ce l'avrebbe fatta a raggiungerla.
Sospirò. Stava per rimanere a secco. Come sempre. Faceva tutto per con-
to suo. È meglio così. Era talmente presuntuosa, che preferiva non fidarsi
di nessun altro. Ma in quel momento, non era sicura di avere le forze ne-
cessarie per tornare all'accampamento. Il sole scottava troppo e le gambe
erano troppo deboli. Guardò la ferita sul braccio. Aveva ripreso a sangui-
nare, peggio di prima.
Scrutò il paesaggio brullo dei monti del Sabarthès, immobili nella loro
eterna quiete. Per un istante, sì sentì bene. Ma, a un tratto, ebbe una nuova
sensazione, un formicolio alla base della spina dorsale. Un presentimento,
quasi una sorta di impazienza. Un'intuizione, forse.
Finisce tutto qui.
Alice aveva il fiato sospeso. Il cuore le batteva sempre più veloce. Fini-
sce tutto dove è cominciato.
La testa si riempì all'improvviso di sussurri, di suoni disarticolati, che
echeggiavano nel tempo. Ora le parole incise sulla superficie dei gradini di
pietra le tornarono alla memoria. Pas a pas. Si ripetevano nella sua mente
come una filastrocca ricordata solo per metà.
È impossibile. Sei una sciocca.
Scossa, Alice appoggiò le mani sulle ginocchia e si sforzò di alzarsi.
Doveva tornare all'accampamento. Era accaldata e disidratata, doveva to-
gliersi dal sole e introdurre un po' d'acqua nell'organismo.
Iniziò a scendere lentamente, sentiva le scosse del terreno propagarsi
nelle gambe. Doveva fuggire da quella montagna risonante e dagli spiriti
che la abitavano. Non sapeva cosa le stesse capitando, sapeva solo che do-
veva fuggire.
Cominciò a camminare più veloce, finché non si mise quasi a correre, e
inciampò sulle rocce e sulle pietre frastagliate che sbucavano dalla terra ar-
sa. Ma quelle parole erano radicate nella sua mente, si ripetevano forti e
chiare come un mantra.
Passo passo, andiamo avanti. Passo passo.

CAPITOLO 12

Il termometro segnava trentatré gradi all'ombra. Erano quasi le tre. Alice


era seduta sotto il tendone e sorseggiava ubbidientemente l'Orangina che le
avevano messo in mano. Le bollicine frizzavano caustiche nella gola, men-
tre lo zucchero entrava in circolazione nel sangue. C'era un forte odore di
gabardine, tende e disinfettante.
Le avevano medicato la ferita all'interno del braccio e applicato una
nuova fasciatura. Le avevano avvolto una benda bianca sterile intorno al
polso, che si era gonfiato come una pallina da tennis. Le ginocchia e gli
stinchi erano ricoperti di minuscoli graffi e tagli, che le avevano medicato
con il disinfettante.
Te la sei cercata.
Scrutò la sua immagine riflessa nello specchietto appeso al montante
della tenda. Un viso piccolo, a cuore, con occhi castani e acuti, la fissava
dallo specchio. Nonostante l'abbronzatura e le lentiggini, era pallida. Era
un disastro. Aveva i capelli pieni di polvere e macchie di sangue secco sul-
la fronte.
L'unica cosa che voleva era tornare in albergo, a Foix, togliersi gli abiti
sudici per lavarli e fare una lunga doccia rinfrescante. Quindi, scendere giù
in piazza, ordinare una bottiglia di vino e non fare nulla per il resto della
giornata.
E non pensare a quello che era successo,
A quanto pareva, non ne avrebbe avuto la possibilità.
La polizia era arrivata mezz'ora prima. Nel parcheggio ai piedi del pen-
dio una fila di auto di servizio bianche e blu fiancheggiava le più malanda-
te Citroen e Renault degli archeologi. Sembrava un'invasione.
Alice pensava che si sarebbero occupati di lei per prima, ma dopo aver
ottenuto la rapida conferma che era stata lei a trovare gli scheletri e aver
detto che l'avrebbero interrogata a tempo debito, gli agenti l'avevano ab-
bandonata a se stessa. Nessun altro si era avvicinato, Alice capiva il per-
ché. Tutto quel rumore e quel fermento erano opera sua. Non c'era molto
da dire in generale. Di Shelagh neanche l'ombra.
L'arrivo dei gendarmi aveva cambiato l'atmosfera all'accampamento.
Sembrava ce ne fossero a dozzine, tutti con camicia celeste e stivali neri
alti fino al ginocchio, la pistola sul fianco, sciamavano sul versante della
montagna come vespe, sollevavano polvere e si gridavano ordini l'un l'al-
tro, con marcato accento francese, troppo veloci perché Alice li capisse.
Avevano subito isolato la caverna, bloccando l'entrata con un nastro di
plastica. Il rumore prodotto dalle loro azioni si diffondeva nell'aria afosa
della montagna. Il ronzio delle macchine fotografiche ad avvolgimento au-
tomatico gareggiava con lo stridio delle cicale.
Dal parcheggio giungevano voci portate dalla brezza. Alice si voltò e vi-
de il dottor Brayling salire le scale accompagnato da Shelagh e da un poli-
ziotto di grossa stazza che doveva essere il capo.
«È ovvio che questi scheletri non possono appartenere alle due persone
che state cercando» insisteva il dottor Brayling. «È evidente che queste os-
sa sono vecchie di secoli. Quando ho informato la polizia, non ho pensato
neanche per un istante che potesse andare a finire in questo modo.» Agita-
va le mani. «Ha una vaga idea dei danni che i suoi uomini stanno provo-
cando? Le assicuro che non sono affatto contento.»
Alice osservò con attenzione l'ispettore, un uomo di mezza età, basso,
moro e sovrappeso, con la pancia prominente e i capelli radi. Aveva il fiato
corto e soffriva in modo evidente il caldo. Stringeva un fazzoletto consu-
mato, con il quale si asciugava la faccia e il collo senza grossi risultati.
Persino da quella distanza Alice vedeva le chiazze di sudore sotto le ascel-
le e sui polsini della camicia.
«Mi scuso per il disturbo, monsieur le directeur» disse in inglese, par-
lando con calma e cortesia. «Ma dal momento che si tratta di scavi privati,
sono sicuro che potrà spiegare la situazione ai finanziatori.»
«Il fatto che abbiamo la fortuna di essere finanziati da un privato piutto-
sto che da un ente non c'entra nulla. È la sospensione ingiustificata dei la-
vori la cosa più grave, per non parlare del disturbo. Il nostro lavoro qui è di
enorme importanza.»
«Dottor Brayling,» ribatté Noubel come se quella conversazione stesse
andando avanti da un pezzo «ho le mani legate. Siamo nel bel mezzo di u-
n'indagine per omicidio. Ha visto i manifesti delle due persone scomparse,
oui? Perciò, disturbo o non disturbo, finché non avremo le prove sufficien-
ti per affermare che le ossa da voi trovate non appartengono alle persone
scomparse, i lavori saranno sospesi.»
«Non sia sciocco, ispettore. Non c'è alcun dubbio che quegli scheletri ri-
salgano a centinaia di anni fa!»
«Li avete esaminati?»
«Be', no» rispose Brayling furioso. «Non con accuratezza, certo. Ma è
ovvio. I suoi agenti della squadra scientifica lo confermeranno di sicuro.»
«Ne sono certo, dottor Brayling, ma fino ad allora...» Noubel scrollò le
spalle. «Non c'è altro da dire.»
Shelagh intervenne. «Comprendiamo la sua posizione, ispettore, ma può
dirci almeno orientativamente quando finirete?»
«Bientôt. Presto. Non stabilisco io le regole.»
Il dottor Brayling alzò le mani frustrato. «In tal caso, mi vedrò costretto
a scavalcarla e a rivolgermi a qualcuno con più autorità! Questo è sempli-
cemente ridicolo.»
«Come preferisce» replicò Noubel. «Nel frattempo, mi serve la lista del-
le persone che sono entrate nella caverna, oltre alla donna che ha trovato i
cadaveri. Quando avremo concluso le indagini preliminari, rimuoveremo i
corpi dalla caverna e a quel punto lei e la sua squadra sarete liberi di anda-
re.»
Alice osservò la scena che si svolgeva davanti ai suoi occhi.
Brayling se ne andò impettito, Shelagh afferrò l'ispettore per un braccio,
ma lo lasciò subito. Sembrava stessero parlando. A un tratto, si voltarono e
guardarono giù in direzione del parcheggio. Alice seguì il loro sguardo, ma
non vide niente di interessante.

Era passata mezz'ora e ancora nessuno si era avvicinato.


Alice afferrò lo zaino, che presumeva avesse riportato giù Shelagh o
Stephen, e prese la matita e il blocco da disegno. Lo aprì alla prima pagina
libera.
Immagina di essere all'ingresso della caverna, di fissare il tunnel.
Chiuse gli occhi e si rivide mentre toccava i bordi dell'entrata dello stret-
to cunicolo. Liscia. La roccia era sorprendentemente liscia, come se fosse
stata levigata o erosa. Un passo avanti, nel buio.
Il terreno è avvallato.
Cominciò a disegnare, tracciava le linee con grande rapidità ora che a-
veva ben in mente le dimensioni spaziali. Il tunnel, l'apertura, la stanza. Su
un altro foglio disegnò la zona inferiore, dai gradini all'altare, con i due
scheletri nel mezzo. Accanto al disegno del sepolcro, stilò una lista di og-
getti: coltello, borsa di cuoio, brandello di stoffa, anello. La superficie del-
l'anello era perfettamente liscia, con una leggera scanalatura al centro.
Strano che l'incisione fosse stata eseguita nella parte interna, dove nessuno
poteva vederla. Soltanto chi lo indossava doveva sapere della sua esisten-
za. Era la riproduzione in miniatura del labirinto scolpito sulla parete roc-
ciosa dietro l'aitare.
Alice si appoggiò allo schienale della sedia, in qualche modo restia ad
affidare l'immagine alla carta. Quanto era grande? Il diametro era di un
paio di metri? Di più forse? Quanti giri?
Tracciò un cerchio che riempì quasi tutta la pagina, poi si fermò. Quante
linee? Alice sapeva che se l'avesse visto di nuovo avrebbe riconosciuto il
disegno, ma, dato che aveva tenuto l'anello soltanto per qualche secondo e
aveva guardato l'incisione al buio e da lontano, era difficile ricordarla con
esattezza.
Da qualche parte, persa nei meandri della memoria, c'era l'immagine che
cercava. Lezioni di storia e di latino a scuola, qualche documentario della
BBC che aveva visto alla televisione, accoccolata sul divano insieme ai
genitori. Una piccola libreria di legno in camera, con il suo libro preferito
sullo scaffale più basso. Un'enciclopedia illustrata sugli antichi miti, le pa-
gine lucide, abbaglianti, le orecchie sugli angoli di quelle che aveva letto
più spesso.
C'era la figura di un labirinto.
Con il pensiero, Alice voltò le pagine fino a quella giusta.
Ma era diverso. Confrontò le due immagini, come in uno di quei giochi
enigmistici in cui si devono trovare le differenze tra due figure.
Impugnò la matita e provò di nuovo, decisa a fare qualche progresso.
Tracciò un altro cerchio dentro il primo e cercò di congiungerli. Niente. Il
tentativo che seguì non fu più fruttuoso, e nemmeno quello dopo ancora.
Capì che non era solo questione di quanti cerchi dovessero girare a spirale
verso il centro, ma che c'era un errore di fondo nel suo disegno.
Alice continuò, l'entusiasmo iniziale si trasformò in mera frustrazione.
La collezione di palline di carta ai suoi piedi diventava sempre più grande.
«Madame Tanner?»
Alice trasalì e bucò il foglio con la punta della matita.
«Docteur» corresse in modo automatico e si alzò.
«Je vous demande pardon, docteur. Je m'appelle Noubel. Police Judi-
ciaire, département de l'Ariège.»
Noubel le mostrò lesto la tessera di riconoscimento. Alice fece finta di
leggerla, mentre infilava tutto nello zaino. Non voleva che l'ispettore ve-
desse i suoi schizzi malriusciti.
«Vous préférez parler en anglais?»
«Mi pare più sensato, sì, grazie.»
L'ispettore Noubel era accompagnato da un agente in divisa dallo sguar-
do attento e vivace. Sembrava tanto giovane da aver appena terminato il li-
ceo. Non le fu presentato.
Noubel si pigiò in una delle malferme sedie da campeggio. Era stretta.
Le cosce sporgevano dal sedile di tela.
«Et alors, madame. Nome e cognome, per favore.»
«Alice Grace Tanner.»
«Data di nascita?»
«7 gennaio, 1974.»
«Coniugata?»
«Ha importanza?» scattò lei.
«A titolo informativo, dottoressa Tanner» ribatté l'ispettore in tono paca-
to.
«No» rispose. «Nubile.»
«Indirizzo?»
Alice gli diede l'indirizzo dell'albergo di Foix in cui alloggiava e quello
di casa, pronunciando le parole inglesi meno conosciute una lettera alla
volta.
«È un lungo viaggio venire ogni giorno da Foix?»
«Non c'era posto insieme agli altri membri del gruppo, così...»
«Bien. A quanto so, lei è una volontaria, giusto?»
«Esatto. Shelagh... la dottoressa O'Donnell... è un'amica di vecchia data.
Eravamo all'università insieme, prima che...»
Limitati a rispondere alle domande. Non gli interessa la storia della tua
vita.
«Sono soltanto un'ospite. La dottoressa O'Donnell conosce molto bene
questa zona della Francia. Quando le ho detto che avevo degli affari da
sbrigare a Carcassonne, mi ha proposto di fermarmi qualche giorno qui,
per passare un po' di tempo insieme. Per unire l'utile al dilettevole.»
Noubel scarabocchiò sul taccuino. «Lei non è un'archeologa?»
Alice fece di no con la testa. «Ma pare che sia pratica comune utilizzare
volontari, cultori appassionati o studenti di archeologia per svolgere il
grosso dei lavori.»
«Ci sono altri volontari?»
Alice arrossì, come se fosse stata appena colta con le mani nel sacco. «In
effetti no, non al momento. Sono tutti archeologi o studenti.»
Noubel la scrutò. «E lei resterà qui fino a...?»
«Oggi è l'ultimo giorno. Almeno lo era... prima che succedesse questo.»
«Andrà a Carcassonne?»
«Ho un appuntamento lì mercoledì mattina, dopodiché mi rimarrà qual-
che giorno per andare un po' in giro. Tornerò in Inghilterra domenica.»
«Bella città» commentò Noubel.
«Non ci sono mai stata.»
Noubel sospirò e si asciugò di nuovo la fronte arrossata con il fazzoletto.
«E di che natura è questo appuntamento?»
«Non lo so di preciso. Una parente, che viveva in Francia, mi ha lasciato
qualcosa in eredità.» Si interruppe, non era molto propensa a parlarne. «Ne
saprò di più quando incontrerò l'avvocato mercoledì.»
Noubel prese un altro appunto. Alice tentò di vedere cosa scrivesse, ma
non riusciva a decifrare la scrittura al contrario. Con suo grande sollievo,
l'ispettore accantonò l'argomento e passò oltre.
«Così è una dottoressa...» Noubel lasciò l'affermazione in sospeso.
«Non nel senso medico» replicò lei, lieta che fossero passati a un campo
che conosceva meglio. «Sono un'insegnante, sono laureata in Letteratura
Medievale.» Noubel era del tutto assente. «Pas médecin. Pas généraliste»
spiegò. «Je suis universitaire.»
Noubel sospirò e trascrisse un'altra annotazione.
«Bien. Aux affaires» Il suo tono non era più informale. «Stava lavorando
da sola lassù. È la prassi abituale?»
Subito Alice alzò la guardia. «No,» disse lentamente «ma dato che era
l'ultimo giorno per me, volevo proseguire, sebbene il mio compagno non ci
fosse. Ero sicura che avrei trovato qualcosa.»
«Sotto il masso che chiudeva l'entrata? Tanto per chiarezza, come viene
deciso chi scava in un determinato punto?»
«Il dottor Brayling e Shelagh, la dottoressa O'Donnell, hanno un pro-
gramma dei compiti che vogliono portare a termine nell'arco di tempo di-
sponibile. La zona viene ripartita in base a quello.»
«Quindi l'ha mandata il dottor Brayling in quel punto? O è stata la dotto-
ressa O'Donnell?»
L'istinto. Sapevo che c'era qualcosa lì.
«Be', no. Mi sono spinta così in alto sulla montagna perché ero convinta
che ci fosse qualcosa...» Esitò. «Non ho trovato la dottoressa O'Donnell
per chiederle il permesso... così ho preso una... decisione autonoma.»
Noubel aggrottò la fronte. «Capisco. Quindi, stava lavorando. Il masso si
è spostato. È caduto. Poi cosa è successo?»
Alice aveva degli autentici vuoti di memoria, ma fece del suo meglio.
Seppure in modo formale, Noubel parlava bene l'inglese e le rivolgeva
domande dirette.
«È stato allora che ho sentito qualcosa nel tunnel alle mie spalle e ho...»
All'improvviso le parole le si bloccarono in gola. Qualcosa che aveva
rimosso le tornò alla mente di colpo, il dolore lancinante al petto, come
se...
Come se?
Alice si fornì la risposta per conto suo. Come se fossi stata pugnalata.
Così si era sentita. Una lama che la perforava, in modo netto, preciso. Nes-
sun dolore, solo una ventata di aria gelida e un orrore inspiegabile.
E poi?
La luce chiara, fredda, inconsistente. E nascosto dietro di essa, un volto.
Un volto di donna.
La voce di Noubel interruppe il riaffiorare dei ricordi.
«Dottoressa Tanner?»
Era un'allucinazione?
«Dottoressa Tanner? Devo andare a chiamare qualcuno?»
Alice lo fissò con aria assente per un attimo. «No, no grazie. Sto bene. È
solo il caldo.»
«Stava dicendo che un rumore l'ha fatta trasalire...»
Si sforzò di concentrarsi. «Sì. Il buio mi disorientava. Non riuscivo a ca-
pire da dove provenisse il rumore, e questo mi spaventava. Ora so che si
trattava soltanto di Shelagh e Stephen...»
«Stephen?»
«Stephen Kirkland. K-i-r-k-1-a-n-d.»
Noubel girò il taccuino perché Alice verificasse che avesse scritto bene.
Alice annuì. «Shelagh ha visto il masso ed è venuta a vedere cosa succe-
deva. Stephen deve averla accompagnata, suppongo.» Esitò di nuovo,
«Non so bene cosa sia accaduto dopo.» Stavolta non fu difficile mentire.
«Devo essere inciampata sui gradini o qualcosa del genere. L'unica cosa
che ricordo è Shelagh che mi chiamava.»
«La dottoressa O'Donnell dice che era incosciente quando l'hanno trova-
ta.»
«Soltanto da poco. Non credo di aver perso i sensi per più di un minuto
o due. Non mi è sembrato che fosse passato molto tempo, comunque.»
«Soffre di svenimenti frequenti, dottoressa Tanner?»
Alice sussultò allo spaventoso ricordo della prima volta in cui le era ca-
pitato. «No» mentì.
Noubel non si accorse che era diventata pallida. «A quanto dice era
buio,» continuò «per questo è caduta. Ma non aveva una lampada prima?»
«Avevo un accendino ma l'ho fatto cadere quando ho sentito il rumore.
E anche l'anello.»
La reazione dell'ispettore fu immediata. «Un anello?» fece in tono aspro.
«Non mi aveva parlato di un anello.»
«C'era un piccolo anello di pietra fra gli scheletri» spiegò, allarmata dal-
l'espressione sul suo volto. «L'ho raccolto con le pinzette, per esaminarlo
con più attenzione, ma prima che...»
«Che anello?» la interruppe. «Di che materiale era fatto?»
«Non so. Credo fosse pietra: non argento, né oro, né altri metalli. Non
l'ho osservato molto bene.»
«C'era qualcosa inciso sopra? Delle lettere, un simbolo, un disegno?»
Alice aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse. A un tratto non voleva
dirgli più nulla.
«Spiacente. È successo tutto troppo in fretta.»
Noubel la fissò un istante, quindi schioccò le dita per chiamare il giova-
ne agente che si trovava accanto a lui. Alice notò che anche il ragazzo
sembrava agitato.
«Biau. On a trouvé quelque-chose comme ça?»
«Je ne sais pas, monsieur l'Inspecteur.»
«Dépechez-vous, alors. Il faut le chercher... Et informez-en monsieur
Authié. Allez! Vite!»
Alice aveva come un cerchio alla testa adesso che l'effetto degli antido-
lorifici cominciava a svanire.
«Ha toccato altro, dottoressa Tanner?»
Si massaggiò le tempie con le dita. «Ho spostato accidentalmente uno
dei teschi con il piede. Ma, a parte questo e l'anello, non ho toccato nulla.
Come ho già detto.»
«E l'oggetto che ha trovato sotto il masso?»
«La fibbia? L'ho consegnata alla dottoressa O'Donnell quando siamo u-
scite dalla caverna» disse leggermente turbata dal ricordo. «Non ho idea di
cosa ne abbia fatto.»
Noubel non ascoltava più. Continuava a guardarsi alle spalle. Alla fine,
cessò di fingere di ascoltare e richiuse il taccuino.
«Se può essere tanto gentile da aspettare, dottoressa Tanner, ci sarebbe
ancora qualche domanda che vorrei farle.»
«Ma non ho nient'altro da dire...» protestò Alice. «Posso almeno rag-
giungere gli altri?»
«Più tardi. Per il momento, è meglio che resti qui.»

Alice si lasciò cadere sulla sedia, seccata ed esausta, mentre Noubel u-


sciva con gran fracasso dalla tenda e si dirigeva verso il pendio della mon-
tagna, dove una squadra di agenti in divisa esaminava il masso.
Quando Noubel si avvicinò, il cerchio di persone si aprì abbastanza per-
ché Alice scorgesse un uomo alto, in borghese, proprio al centro del grup-
po.
Trattenne il respiro.
L'uomo indossava un completo estivo, verde chiaro e di buona fattura,
una camicia bianca inamidata e la cravatta: era chiaro che fosse lui il re-
sponsabile delle indagini. La sua autorità era evidente, si trattava di un
uomo abituato a dare ordini e a vederli rispettati. Noubel in confronto era
raggrinzito e scarmigliato. Alice sentì una punta di disagio.
Non erano soltanto gli abiti e il portamento di quell'uomo ad averla col-
pita. Persino da quella distanza, Alice avvertiva la sua forte personalità e il
suo carisma. Aveva il volto pallido e scarno, la fronte alta messa in risalto
dai capelli tirati all'indietro. C'era un che di monacale in lui. Un'aria fami-
liare.
Non essere stupida. Come potresti mai conoscerlo?
Alice si alzò e raggiunse l'entrata, intenta a osservare i due uomini che si
allontanavano dal resto del gruppo. Parlavano. Più che altro Noubel parla-
va, mentre l'altro ascoltava. Dopo pochi secondi, si voltò e tornò all'ingres-
so della caverna. L'agente in servizio sollevò il nastro, lui ci passò sotto e
sparì.
Per qualche strano motivo che ancora ignorava, Alice aveva le mani su-
date per l'ansia. La peluria sulla nuca si era drizzata proprio come quando
aveva udito quel rumore nella caverna. A stento riusciva a respirare.
È tutta colpa tua. L'hai portato tu qui.
Alice rifletté. Di cosa parli? Ma la voce nella sua testa non voleva tace-
re.
L'hai portato tu qui.
Puntò di nuovo gli occhi sull'ingresso della caverna, che la attirava come
una calamita. Non riusciva a distogliere lo sguardo, a scacciare il pensiero
che quell'uomo vi entrasse, dopo tutti gli sforzi fatti per tenere nascosto il
labirinto.
Lo troverà.
«Trovare cosa?» mormorò fra sé e sé. Non lo sapeva con esattezza.
Ma rimpiangeva di non aver preso l'anello quando ne aveva avuto l'oc-
casione.

CAPITOLO 13

Noubel non entrò dentro la caverna. Aspettò fuori con il volto paonazzo,
nell'ombra grigia del promontorio roccioso.
Sa che qualcosa non va. Di tanto in tanto scambiava qualche parola con
l'agente in servizio e fumava una sigaretta dopo l'altra, accendendole con i
mozziconi. Alice ascoltava la musica per passare il tempo. I Nickelback le
martellavano nella testa, annullando qualsiasi altro rumore.
Dopo quindici minuti, l'uomo in giacca e cravatta riapparve. Noubel e
l'agente sembravano aver guadagnato qualche centimetro di altezza. Alice
si tolse gli auricolari e rimise a posto la sedia, quindi si fermò all'entrata
della tenda.
Vide i due uomini scendere insieme lungo il pendio.
«Cominciavo a credere che si fosse dimenticato di me, ispettore» disse
quando furono arrivati abbastanza vicini da sentirla.
Noubel biascicò delle scuse, ma evitò il suo sguardo.
«Dottoressa Tanner, je vous présente monsieur Authié.»
Averlo di fronte, la aiutò a confermare l'impressione che fosse un uomo
carismatico e di bella presenza. Ma gli occhi grigi erano gelidi e distaccati.
Alice si mise subito sulla difensiva. A dispetto dell'antipatia che provava,
gli porse la mano. Dopo un attimo di esitazione, Authié la strinse. Le dita
erano fredde e il contatto quasi impercettibile. Le fece accapponare la pel-
le.
Lasciò la mano più in fretta che poté.
«Entriamo?» fece lui.
«Fa parte anche lei della Police Judiciaire, monsieur Authié?»
Lui rispose con un lieve guizzo degli occhi, ma non disse nulla. Alice
aspettò, chiedendosi se fosse possibile che non l'avesse sentita. Noubel in-
tervenne, imbarazzato dal silenzio. «Monsieur Authié è della mairie, il
municipio. Di Carcassonne.»
«Davvero?» Fu sorpresa dal fatto che Carcassonne fosse sotto la stessa
giurisdizione di Foix.
Authié si impadronì della sedia di Alice, non lasciandole altra scelta che
sedersi con le spalle rivolte all'entrata. Alice era diffidente, guardinga nei
suoi confronti.
Aveva un sorriso perfetto, da politico: opportunistico, studiato e ambi-
guo. Lo sguardo era impassibile.
«Ho un paio di domande da farle, dottoressa Tanner.»
«Non so cos'altro possa dirle. Ho già raccontato all'ispettore tutto quello
che ricordo.»
«L'ispettore Noubel mi ha fornito un fedele resoconto della sua dichiara-
zione, tuttavia avrei bisogno che mi ripetesse tutto. Ci sono alcune discre-
panze, alcuni punti del suo racconto che andrebbero chiariti. Potrebbe es-
serci qualche dettaglio che prima le è sfuggito, un particolare che al mo-
mento può esserle sembrato insignificante.»
Alice si morse la lingua. «Ho detto tutto quanto all'ispettore» ripeté in-
flessibile.
Authié unì i polpastrelli e fece pressione sulla punta delle dita, ignoran-
do quell'obiezione. Non accennò un sorriso. «Riprendiamo da quando è en-
trata nella stanza interna alla grotta, dottoressa Tanner. Passo passo.»
Alice trasalì alla scelta di quelle parole. Passo passo? La stava mettendo
alla prova? Il suo volto era impenetrabile. Lo sguardo le cadde sul crocifis-
so d'oro che Authié portava al collo, poi tornò agli occhi grigi, che la fissa-
vano ancora.
Dato che non aveva scampo, cominciò a raccontare di nuovo. Dapprima,
Authié la ascoltò in silenzio, con intensa concentrazione. Poi iniziò l'inter-
rogatorio. Sta cercando di incastrarmi.
«Le parole incise sui gradini erano leggibili, dottoressa Tanner? Ha avu-
to tempo di decifrarle?»
«Quasi tutte le lettere erano cancellate» rispose spavalda, come se voles-
se sfidarlo a contraddirla. Dato che non lo fece, Alice provò grande soddi-
sfazione. «Ho sceso i gradini e sono andata verso l'altare. Quindi ho visto i
corpi.»
«Li ha toccati?»
«No.»
Lui emise uno strano verso, come per dire che non le credeva, poi affer-
rò la giacca. «Questo è suo?» chiese e le mostrò l'accendino di plastica blu
che aveva in mano.
Alice fece per prenderlo, ma lui ritirò il braccio.
«Posso averlo indietro, per favore?»
«È suo, dottoressa Tanner?»
«Sì.»
Authié annuì e lo infilò di nuovo in tasca. «Ha dichiarato di non aver
toccato i corpi, tuttavia, poco fa ha detto all'ispettore Noubel di averlo fat-
to.»
Alice arrossì. «È stato un incidente. Ho urtato uno dei teschi con il pie-
de, ma non li ho propriamente toccati.»
«Dottoressa Tanner, sarebbe tutto più semplice se si limitasse a rispon-
dere alle mie domande.» Sempre lo stesso tono freddo e aspro.
«Non vedo cosa...»
«Che aspetto avevano?» domandò bruscamente.
Alice vide Noubel sussultare per il tono vessatorio, sebbene non facesse
nulla per tenerlo a freno. Aveva l'addome contratto per il nervoso, ma fece
del suo meglio per descrivere la scena.
«E cosa ha visto fra i due scheletri?»
«Un pugnale, un coltello. Anche una piccola borsa, di cuoio suppongo.»
Non lasciarti intimidire. «Non lo so, dato che non l'ho toccata.»
Authié strinse gli occhi. «Ha guardato dentro la borsa?»
«Come le ho detto, non ho toccato nulla...»
«Tranne l'anello, ovviamente» si avventò contro di lei come un serpente
pronto ad attaccare. «È questo che non mi spiego, dottoressa Tanner. Mi
chiedo quale interesse l'abbia spinta a raccogliere l'anello e a lasciare inve-
ce tutto il resto così com'era. Capisce la mia perplessità?»
Alice lo guardò dritto negli occhi. «Mi ha colpito. Tutto qua.»
Lui mostrò un sorriso beffardo. «Nel buio pesto della caverna lei ha no-
tato un oggetto tanto piccolo? Quanto sarà grande? Quanto una moneta da
un franco, direi. Un po' più grande, o un po' più piccolo forse?»
Non dirgli una parola.
«Pensavo che fosse in grado di stabilire da solo le dimensioni» ribatté
fredda.
Authié sorrise. Alice avvertì un vuoto allo stomaco e capì che stava fa-
cendo il suo gioco.
«Magari potessi, dottoressa Tanner» disse in modo pacato. «Ma ora arri-
viamo al nocciolo della questione. L'anello non c'è.»
Alice si sentì gelare. «Che intende?»
«Esattamente quello che ho detto. L'anello non c'è. Tutto il resto è più o
meno come lo descrive lei. Ma non c'è nessun anello.»
Alice si tirò indietro quando Authié posò le mani sulla sedia e si avvici-
nò con il viso scarno e pallido. «Che cosa ne ha fatto, Alice?» sussurrò.
Non farti intimorire. Non hai fatto niente di male.
«Le ho raccontato con esattezza quello che è successo» replicò, sforzan-
dosi di non sembrare impaurita. «L'anello mi è scivolato di mano quando
mi è caduto l'accendino. Se adesso non c'è, vuol dire che lo ha preso qual-
cun altro. Non io.» Lanciò uno sguardo a Noubel. «Se così fosse, perché
mai avrei dovuto parlargliene?»
«Nessuno a parte lei afferma di aver visto questo misterioso anello,»
continuò Authié ignorando il suo commento «il che ci lascia soltanto due
spiegazioni. O si è sbagliata e non ha visto nessun anello. Oppure lo ha ru-
bato.»
Alla fine l'ispettore Noubel intervenne. «Monsieur Authié, non penso
proprio che...»
«Lei non è pagato per pensare» scattò, senza nemmeno guardare l'ispet-
tore. Noubel avvampò. Authié continuò a fissare Alice. «Sto soltanto fa-
cendo una constatazione.»
Alice sapeva di trovarsi in un combattimento, ma nessuno le aveva spie-
gato le regole. Stava dicendo la verità, eppure non trovava il modo di con-
vincerlo.
«Diverse persone sono entrate nella caverna dopo di me» affermò osti-
nata. «La scientifica, gli agenti di polizia, l'ispettore Noubel, lei.» Lo fissò
con fare provocatorio. «Lei è rimasto dentro un bel po'.» Noubel inspirò.
«Shelagh O'Donnell può confermare quanto ho detto dell'anello. Perché
non chiede a lei?»
Abbozzò il solito sorriso a mezza bocca. «È quello che ho fatto. Dice
che non sa niente dell'anello.»
«Ma le ho raccontato tutto» urlò Alice. «Lo ha visto con i suoi occhi.»
«Sta dicendo che la dottoressa O'Donnell ha esaminato il sepolcro?»
domandò in tono severo.
La paura le impediva di ragionare. Il cervello era scollegato. Non riusci-
va più a ricordare cosa aveva detto a Noubel e cosa aveva taciuto.
«Innanzitutto, è stata la dottoressa O'Donnell a darle il permesso di lavo-
rare lassù?»
«Non proprio» rispose, mentre l'ansia cresceva.
«Bene, ha fatto qualcosa per impedirle di lavorare in quella zona della
montagna?»
«Non è così semplice.»
Tornò a sedersi sulla sua sedia. «In tal caso, temo di non avere scelta.»
«Che significa non avere scelta?»
Lanciò un'occhiata allo zaino. Alice si tuffò per prenderlo, ma fu troppo
lenta. Authié lo afferrò per primo e lo consegnò all'ispettore Noubel.
«Non ha alcun diritto» gridò Alice. Si rivolse all'ispettore. «Non può far-
lo, vero? Faccia qualcosa.»
«Perché protesta tanto se non ha nulla da nascondere?»
«È una questione di principio! Non può mettersi a frugare fra le mie co-
se.»
«Monsieur Authié, je ne suis pas certain...»
«Faccia come le dico, Noubel.»
Alice tentò di afferrare lo zaino. Authié alzò il braccio di colpo e la prese
per un polso. Alice restò talmente scioccata dal contatto fisico, che si bloc-
cò. Le gambe cominciarono a tremarle, non sapeva se per rabbia o per pau-
ra.
Con uno scatto si liberò dalla presa di Authié e si rimise a sedere con il
respiro affannoso, mentre Noubel frugava nelle tasche dello zaino.
«Continuez. Dépêchez-vous.»
Alice lo osservava mentre si accingeva a ispezionare la parte più grande
dello zaino, sapeva che avrebbe trovato il suo blocco da disegno, era solo
questione di secondi. L'ispettore incontrò il suo sguardo. Persino lui dete-
sta farlo. Purtroppo, anche Authié aveva colto la lieve esitazione di Nou-
bel.
«Che cosa c'è, ispettore?»
«Pas de bague.»
«Che cosa ha trovato?» chiese Authié, tendendo la mano. Noubel gli
passò il blocco con riluttanza. Authié sfogliò le pagine con aria condiscen-
dente. A un tratto strinse gli occhi e Alice scorse un'espressione di autenti-
ca sorpresa sul suo volto, prima che abbassasse di nuovo gli occhi semia-
perti.
Richiuse il blocco di colpo.
«Merci de votre... collaboration, dottoressa Tanner» disse.
Anche Alice si alzò. «I miei disegni, per favore» affermò, cercando di
parlare con voce ferma.
«Le verranno restituiti a tempo debito» la informò e si infilò il blocchet-
to in tasca. «E anche lo zaino. L'ispettore Noubel le darà una ricevuta e fa-
rà mettere per iscritto la sua dichiarazione, che lei dovrà firmare.»
Alice fu colta di sorpresa dalla repentina e brusca interruzione dell'inter-
rogatorio. Quando ritrovò la prontezza di spirito, Authié era già uscito dal-
la tenda, portandole via gli oggetti personali.
«Perché non lo ferma?» domandò a Noubel. «Non creda che lo lascerò
andare via con la mia roba.»
L'espressione di Noubel si inasprì. «Le riporterò io la borsa, dottoressa
Tanner. Le consiglio di proseguire la sua vacanza. Dimentichi tutta la fac-
cenda.»
«Neanche per sogno» gridò lei, ma Noubel se ne era già andato e l'aveva
lasciata sola al centro della tenda a domandarsi cosa diavolo stesse succe-
dendo.
Per un istante non seppe cosa fare. Era furibonda, non solo con Authié
ma anche con se stessa, per essersi lasciata intimidire in quel modo.
Ma lui è diverso. Non si era mai ribellata in maniera tanto aggressiva in
vita sua. Lo shock svanì a poco a poco. Fu tentata di raccontare tutto a
Brayling, o anche a Shelagh, voleva fare qualcosa. Accantonò l'idea. Data
la sua attuale condizione di persona non grata, nessuno si sarebbe mostra-
to solidale.
Alice dovette accontentarsi di scrivere a mente una lettera di reclamo, e
di riflettere su quello che era appena accaduto, cercando di attribuirgli un
senso. Poco più tardi, un altro agente di polizia le portò la dichiarazione
per fargliela firmare. Alice la lesse con attenzione, ma a quanto pareva si
trattava di una trascrizione fedele, così scarabocchiò una firma in fondo al-
la pagina senza esitare.

I Pirenei erano immersi in una delicata luce purpurea quando finalmente


le ossa furono estratte dalla grotta.
Tutti stavano in silenzio mentre il triste corteo scendeva per il pendio di-
retto al parcheggio, dove lo aspettava la fila di auto bianche e blu della po-
lizia. Una donna si fece il segno della croce al suo passaggio.
Alice raggiunse gli altri sulla cima della collina, per guardare la polizia
che caricava il carro funebre. Nessuno parlava. Le portiere furono chiuse,
quindi il veicolo uscì dal parcheggio a gran velocità provocando una piog-
gia di ghiaia e polvere. Molti dei colleghi andarono immediatamente a rac-
cogliere i propri oggetti personali, sotto la supervisione di due agenti che
dovevano vietare l'accesso alla zona una volta che tutti fossero andati via.
Alice temporeggiò, non voleva guardare in faccia nessuno, la compassione
era ancora peggio dell'ostilità.
Da quella posizione strategica sulla collina, osservò il solenne convoglio
discendere la vallata procedendo a zigzag, e diventare sempre più piccolo
fin quasi a scomparire all'orizzonte.
L'accampamento si era fatto silenzioso. Sapendo che non poteva attar-
darsi di più, Alice era sul punto di andarsene quando vide che Authié era
ancora lì. Si avvicinò e lo guardò con interesse mentre appoggiava la giac-
ca sul sedile posteriore della costosa auto color argento. Lo vide sbattere la
portiera ed estrarre il cellulare dalla tasca. Tamburellava con le dita sul tet-
tuccio mentre aspettava in linea.
Quando parlò, il messaggio fu breve e diretto.
«Ce n'est plus là» fu tutto ciò che disse. È scomparso.

CAPITOLO 14

CHARTRES

La grande cattedrale gotica di Notre Dame de Chartres torreggiava alta


sul mosaico di tetti rossi, sui timpani, sulle case di legno e muratura e su
quelle di roccia calcarea che costituivano il centro storico della città. Al di
sotto dell'affollato labirinto di strade strette e curve, all'ombra degli edifici,
il fiume Eure era immobile nella luce screziata del tardo pomeriggio.
I turisti si accalcavano davanti al portale ovest della cattedrale. Gli uo-
mini brandivano la videocamera come un'arma, immortalando la scena in-
vece di godersi il caleidoscopio di luci e di colori che si effondeva dalle tre
finestre ogivali sopra la Porta Reale.
Fino al diciottesimo secolo, le nove entrate che conducevano nell'area
recintata della cattedrale venivano sbarrate in caso di pericolo. I cancelli
non c'erano più da molto tempo ormai, ma la mentalità era rimasta la stes-
sa. Chartres era ancora una città spaccata in due parti, la vecchia e la nuo-
va. Le strade più esclusive erano quelle a nord del chiostro, dove una volta
sorgeva il palazzo vescovile. Gli edifici di pietra chiara guardavano impe-
riosi la cattedrale, avvolta nell'aura di potere centennale della chiesa catto-
lica.
La casa della famiglia de l'Oradore dominava rue du Cheval Blanc. Era
sopravvissuta alla rivoluzione e all'occupazione e ora si stagliava quale te-
stimonianza della ricchezza passata. Il batacchio e la cassetta delle lettere
in ottone risplendevano e gli arbusti nei vasi ai lati della scalinata che con-
duceva al portone a due battenti, erano potati alla perfezione.
Dalla porta principale si accedeva a un maestoso atrio. Il pavimento era
di legno scuro e lucido, un pesante vaso di vetro pieno di gigli bianchi fre-
schi era posato su un tavolo ovale al centro dell'ingresso. Le bacheche di-
sposte intorno alla sala erano tutte prudentemente dotate di antifurto e con-
tenevano una collezione di manufatti egizi dal valore inestimabile, che la
famiglia de l'Oradore aveva acquistato quando Napoleone era tornato vit-
torioso dalla campagna in Nord Africa agli inizi del diciannovesimo seco-
lo. Era una delle più vaste fra le collezioni egizie private.
Al momento il capo della famiglia, Marie-Cécile de l'Oradore, commer-
ciava in antiquariato di qualsiasi periodo, sebbene avesse, in comune con il
nonno ormai defunto, la passione per l'epoca medievale. Due notevoli a-
razzi francesi erano appesi alla parete rivestita di pannelli di legno, che si
trovava di fronte alla porta; aveva acquistato entrambi dopo aver ereditato
il patrimonio del nonno cinque anni prima. I pezzi di maggior valore della
collezione di famiglia, come quadri, gioielli, manoscritti, erano chiusi sot-
tochiave, dove nessuno poteva vederli.

Al primo piano, nella camera da letto padronale, che si affacciava su rue


du Cheval Blanc, Will Franklin, l'attuale amante di Marie-Cécile, era
sdraiato sul letto a baldacchino, coperto fino alla vita dal lenzuolo.
Le braccia abbronzate erano piegate sopra la testa e i capelli castano
chiaro, con qualche ciocca bionda, ricordo delle estati trascorse sull'isola di
Martha's Vineyard, incorniciavano il viso attraente e il sorriso da bambino
smarrito.
Marie-Cécile era seduta accanto al camino su una lussuosa poltrona Lui-
gi XIV, le lunghe gambe lisce accavallate. La lucida camiciola di seta co-
lor avorio scintillava in contrasto con il blu intenso della tappezzeria di
velluto.
Aveva il profilo caratteristico della famiglia de l'Oradore: una bellezza
pallida e spigolosa, nonostante i fianchi rotondi e sensuali e gli occhi verdi
da gatta, contornati da folte ciglia nere. I riccioli scuri, tagliati alla perfe-
zione, sfioravano le spalle scolpite.
«Questa stanza è magnifica» disse Will. «L'ideale per te. Fredda, costo-
sa, raffinata.»
I minuscoli diamanti che portava alle orecchie luccicarono quando si
sporse in avanti per spegnere la sigaretta.
«Una volta era la camera di mio nonno.»
Il suo inglese era impeccabile, aveva solo un leggero accento francese
che riusciva ancora a eccitarlo. Si alzò, attraversò la stanza e lo raggiunse,
senza fare alcun rumore sulla spessa moquette azzurra.
Will sorrise speranzoso mentre inalava il suo profumo unico: sesso,
Chanel e una nota di Gauloise.
«Voltati» disse, facendo roteare il dito in aria. «Coraggio.»
Will fece come gli aveva ordinato. Marie-Cécile cominciò a mas-
saggiargli il collo e le spalle larghe. Will sentiva che i muscoli si al-
lungavano e si rilassavano al suo tocco. Nessuno dei due si accorse che la
porta d'ingresso al piano di sotto si apriva e si richiudeva. Lui non sentì
nemmeno le voci nell'atrio e i passi di qualcuno che saliva le scale due alla
volta e si affrettava lungo il corridoio.
Udirono un paio di colpi violenti sulla porta della camera. «Maman!»
Will si irrigidì.
«È soltanto mio figlio» lo rinfrancò. «Oui? Qu'est-ce que c'est?»
«Maman! Je veux te parler.»
Will alzò il capo. «Credevo che non sarebbe tornato fino a domani.»
«Infatti.»
«Maman!» ripeté François-Baptiste. «C'est important.»
«Se sono d'intralcio...» disse Will impacciato.
Marie-Cécile continuò a massaggiargli le spalle. «Sa che non deve di-
sturbarmi. Gli parlerò più tardi.» Alzò la voce. «Pas maintenant, François-
Baptiste.» Quindi, mentre faceva scorrere le mani lungo la schiena di Will,
aggiunse in inglese per far sì che capisse anche lui: «Adesso non è pro-
prio... il momento».
Will rotolò su un fianco e si mise a sedere, era in imbarazzo. Fre-
quentava Marie-Cécile da tre mesi e non aveva mai incontrato suo figlio.
François-Baptiste era stato prima fuori città per motivi di studio e poi in
vacanza con gli amici. Solo allora Will capì che Marie-Cécile aveva archi-
tettato tutto.
«Non vai a vedere cosa vuole?»
«Se ci tieni tanto...» rispose, scivolando giù dal letto. Aprì la porta di
qualche centimetro. I due si dissero sottovoce qualcosa che Will non riuscì
a capire, dopodiché si udì il rumore di passi pesanti scendere giù nel salo-
ne. Lei girò la chiave nella toppa e si voltò verso l'amante.
«Contento?» chiese con dolcezza.
Tornò da lui lentamente, guardandolo al di sotto delle lunghe ciglia nere.
I suoi movimenti sembravano studiati, come se recitasse, ma provocarono
ugualmente una reazione fisica in Will.
Lo spinse di nuovo giù e si mise a cavalcioni su di lui, lasciando cadere
con grazia le braccia sulle sue spalle. Lasciò qualche lieve graffio sulla
pelle con le unghie appuntite. Will sentiva le sue ginocchia premere contro
i fianchi. Sollevò le mani e fece scivolare le dita sulle braccia lisce e toni-
che, sfiorò il seno con il dorso della mano attraverso la sottoveste. Le bre-
telline di seta si sfilarono con facilità dalle spalle squadrate.
Il cellulare sul comodino cominciò a squillare. Will lo ignorò. Fece
scendere la delicata camiciola sull'esile busto fino alla vita.
«Se è importante richiameranno.»
Marie-Cécile lanciò un'occhiata al numero sul display. Tutto a un tratto
il suo umore cambiò.
«Devo rispondere» disse.
Will cercò di fermarla, ma lei lo respinse con impazienza. «Non ora.»
Si coprì e andò alla finestra. «Oui. J'écoute.»
Dal crepitio Will capì che la linea era disturbata. «Trouve-le, alors!» e-
sclamò e riagganciò. Aveva il volto paonazzo di rabbia. Prese una sigaretta
e l'accese. Le tremavano le mani.
«C'è qualche problema?»
Dapprima, Will pensò che non l'avesse sentito. Sembrava che si fosse
del tutto dimenticata di lui. A un certo punto, lo guardò.
«È successa una cosa» rispose.
Will aspettò, finché non capì che quella era l'unica spiegazione che a-
vrebbe avuto e che doveva andarsene.
«Mi dispiace» fece lei, con fare conciliatorio. «Preferirei di gran lunga
stare con te, mais...»
Seccato, Will si alzò e si infilò i jeans.
«Ci vediamo per cena?»
Lei fece una smorfia. «Ho un impegno. Di lavoro, ricordi?» Scrollò le
spalle. «Facciamo più tardi, oui?»
«Quando sarebbe più tardi? Le dieci? Mezzanotte?»
Si avvicinò a lui e intrecciò le dita alle sue. «Mi dispiace.»
Will cercò di scostarsi, ma lei non voleva lasciarlo andare. «Fai sempre
così. Non so mai quello che succede.»
Si fece più vicina e lui sentì i seni premere contro il petto attraverso la
seta sottile. Nonostante fosse di malumore, era comunque eccitato.
«È soltanto lavoro» mormorò. «Non hai motivo di essere geloso.»
«Non sono geloso.» Aveva perso il conto di quante volte avevano avuto
una conversazione simile. «È solo che...»
«Ce soir» fece lei liberandolo dalla sua presa. «Adesso devo pre-
pararmi.»
Prima che lui potesse protestare, era già sparita in bagno e aveva chiuso
la porta dietro di sé.

Quando Marie-Cécile uscì dalla doccia, fu lieta di scoprire che Will era
andato via. Non si sarebbe meravigliata se lo avesse trovato ancora stra-
vaccato sul letto con quell'espressione da bambino smarrito sul viso.
Le pretese di quell'uomo cominciavano a darle sui nervi. Le chiedeva
sempre più tempo e attenzioni, più di quelle che lei era disposta a conce-
dergli. Sembrava fraintendere la natura del loro rapporto. Doveva assolu-
tamente chiarire la situazione.
Marie-Cécile smise di pensare a Will. Si guardò intorno. La cameriera
era andata a rassettare la stanza. I vestiti erano pronti sul letto, Le ciabatti-
ne dorate fatte a mano erano per terra, lì accanto.
Accese un'altra sigaretta. Stava fumando troppo, ma quella sera era par-
ticolarmente nervosa. Batté il filtro sul pacchetto prima di accenderla. Era
una delle tante manie che aveva ereditato da suo nonno.
Marie-Cécile andò davanti allo specchio e fece scivolare dalle spalle la
vestaglia di seta bianca, che restò ammassata ai suoi piedi. Picgò la testa
da un lato e fissò con occhio critico la sua immagine riflessa. Il corpo lun-
go e sottile, pallido a dispetto della moda; i seni alti e sodi, la pelle priva di
imperfezioni. Passò la mano sui capezzoli scuri, poi la fece scendere, se-
guendo il profilo dei fianchi, sul ventre piatto. Forse aveva qualche segno
in più intorno agli occhi e alla bocca, ma a parte ciò sembrava che il tempo
non fosse passato per lei.
L'orologio di bronzo dorato sulla mensola del caminetto cominciò a bat-
tere l'ora, ricordandole che doveva iniziare a prepararsi. Prese la lunga e
diafana veste dalla gruccia. Accollata dietro, ma con una profonda scolla-
tura a V sul davanti, era fatta su misura per lei.
Marie-Cécile agganciò le bretelline, due nastrini dorati, sulle spalle spi-
golose, quindi si sedette alla toletta. Si spazzolò i capelli e arrotolò i riccio-
li con le dita, finché non furono lucidi come l'ambra nera. Adorava quel
momento di metamorfosi, in cui cessava di essere se stessa e si trasforma-
va in Navigatairé. Era un rituale che stringeva un legame nel tempo con
tutti coloro che avevano ricoperto quel ruolo prima di lei.
Sorrise. Soltanto il nonno avrebbe potuto capire come si sentiva in quel
momento. Euforica, eccitata, invincibile. Non quella sera, ma molto presto,
tutto si sarebbe svolto nel luogo in cui una volta si erano trovati i suoi pre-
decessori. Tranne il nonno. Era penoso sapere quanto la caverna fosse vi-
cina alla zona in cui aveva condotto gli scavi cinquanta anni prima. Aveva
ragione. Soltanto pochi chilometri a est e sarebbe stato lui a cambiare la
storia.
Alla morte del nonno, cinque anni prima, Marie-Cécile aveva ereditato
l'azienda della famiglia de l'Oradore. Era il ruolo a cui lui l'aveva destinata
praticamente da sempre. Il padre di Marie-Cécile, unico figlio maschio, lo
aveva deluso. Lei, al contrario, lo aveva capito fin da quando era in tenera
età. Quando Marie-Cécile aveva compiuto sei anni, il nonno aveva preso
in mano la sua istruzione sociale, accademica e filosofica. Aveva la pas-
sione per le cose più raffinate e un grande occhio per il colore e per l'arte.
Mobili, arazzi, abiti, dipinti, libri, il suo gusto era impeccabile. Tutto ciò
che Marie-Cécile sapeva e di cui poteva vantarsi, lo aveva imparato da lui.
Le aveva anche insegnato cosa fosse il potere, come usarlo e come man-
tenerlo. Quando la nipote aveva raggiunto la maggiore età e la necessaria
preparazione, il nonno aveva ufficialmente diseredato il figlio e nominato
lei sua unica erede.
C'era stato un unico neo nel loro rapporto: l'inaspettata e indesiderata
gravidanza di Marie-Cécile. Malgrado la sua devozione alla ricerca dell'an-
tico segreto del Graal, la fede cattolica del nonno era forte e ortodossa e
pertanto non gli consentiva di approvare che lei avesse un figlio senza es-
sere sposata. L'aborto era fuori discussione. L'adozione anche. Fu solo
quando vide che la maternità non aveva in alcun modo scalfito la determi-
nazione di Marie-Cécile, anzi l'aveva resa addirittura più ambiziosa e riso-
luta, che accolse di nuovo la nipote fra le sue braccia.
Marie-Cécile tirò una boccata profonda dalla sigaretta, accogliendo vo-
lentieri il fumo nella gola e nei polmoni, irritata dalla vivezza di quei ri-
cordi. Dopo più di vent'anni, ripensare all'esilio la colmava ancora di rag-
gelante disperazione. Alla scomunica, come la chiamava il nonno.
Era una definizione perfetta. Era stato come morire.
Marie-Cécile scrollò il capo per scacciare quei pensieri patetici. Non vo-
leva che nulla turbasse il suo stato d'animo quella sera. Non poteva per-
mettere a niente di rovinarle la serata. Non ammetteva errori.
Si voltò di nuovo verso lo specchio. Per prima cosa applicò sul viso un
fondotinta chiaro e una cipria dorata. Quindi, disegnò le palpebre e le so-
pracciglia con una matita scura, che metteva in risalto le ciglia e gli occhi
neri; poi applicò un ombretto verde, iridescente come la coda di un pavo-
ne. Per le labbra scelse un lucido color rame scintillante di pagliuzze dora-
te e le tamponò con una velina per fissare il colore. Alla fine spruzzò una
nuvola di profumo nell'aria e lasciò che cadesse, come nebbia, sulla pelle.
Sulla toletta erano allineate tre scatole di pelle rossa, con fermagli di ot-
tone lucidi e splendenti. Ognuno di quei gioielli da cerimonia aveva parec-
chi secoli, ma era modellato su pezzi più antichi di millenni. La prima sca-
tola conteneva un ornamento per il capo, una sorta di diadema con una
punta al centro; la seconda due amuleti d'oro a forma di serpente, con scin-
tillanti occhi di smeraldo; la terza invece conteneva una collana, una gros-
sa fascia d'oro con un ciondolo appeso. La superficie luccicante dei gioielli
faceva venire in mente la polvere e il caldo dell'antico Egitto.
Una volta pronta, Marie-Cécile andò alla finestra. Laggiù le strade di
Chartres si snodavano come in una cartolina, i negozi, le auto e i ristoranti
erano annidati come sempre all'ombra della grande cattedrale gotica. Ben
presto, da quelle case sarebbero usciti gli uomini e le donne scelti per
prendere parte al rituale di quella sera.
Chiuse gli occhi davanti al profilo familiare della città e all'orizzonte che
imbruniva. Adesso, non vedeva più le guglie e i grigi porticati. No, nella
sua mente vedeva il mondo intero estendersi davanti agli occhi come una
mappa luminosa.
Finalmente a portata di mano.

CAPITOLO 15

FOIX

Alice si svegliò di soprassalto con l'insistente suono di un campanello


nelle orecchie.
Dove diavolo sono?
Il telefono beige squillò di nuovo dalla mensola sopra il letto.
Ma certo. Nella camera d'albergo a Foix. Era tornata dagli scavi, aveva
preparato un po' di bagagli e subito dopo aveva fatto una doccia. L'ultima
cosa che ricordava era di essersi sdraiata cinque minuti sul letto.
Annaspò in cerca del ricevitore. «Oui. Allo?»
Il proprietario dell'albergo, monsieur Annaud, aveva un forte accento del
luogo, caratterizzato da vocali aperte e consonanti nasali. Alice aveva già
difficoltà a capirlo quando si trovavano faccia a faccia. Al telefono, senza
l'aiuto dello sguardo e dei gesti, era impossibile. Sembrava un personaggio
dei cartoni animati.
«Plus lentements, s'il vous plaît» disse, nel tentativo di farlo parlare più
piano. «Vous parlez trop vite. Je ne comprends pas.»
Ci fu un attimo di esitazione. Poi un veloce borbottio di sottofondo. Alla
fine madame Annaud prese il telefono e spiegò ad Alice che una persona la
aspettava alla reception.
«Une femme?» chiese speranzosa.
Alice aveva lasciato un biglietto a Shelagh al suo alloggio, nonché due
messaggi sulla segreteria telefonica, ma l'amica non si era ancora fatta sen-
tire.
«Non, c'est un homme» rispose madame Annaud.
«Okay» sospirò, delusa. «J'arrive. Deux minutes.»
Si pettinò i capelli ancora umidi, si infilò una gonna e una t-shirt, calzò
un paio di espadrillas, quindi si diresse al piano di sotto, chiedendosi chi
mai potesse essere quell'uomo.
Il resto della squadra alloggiava in una piccola locanda vicino alla zona
archeologica. In ogni caso, aveva già salutato tutti quelli a cui faceva pia-
cere dirle addio. Nessun altro sapeva che si trovava lì. Inoltre, dato che lei
e Oliver avevano rotto, non c'era nessuno a cui dirlo.
La reception era deserta. Sbirciò dietro l'alto bancone di legno convinta
di trovarvi madame Annaud, invece non c'era nessuno. Diede una rapida
occhiata dietro l'angolo del salottino. Le vecchie e impolverate sedie di
vimini erano vuote, proprio come i due grandi divani di pelle perpendico-
lari al camino, che era ornato con borchie di ottone e vari omaggi lasciati
da qualche ospite in segno di gratitudine. L'espositore girevole sbilenco,
zeppo di cartoline con gli angoli piegati che ritraevano tutto ciò che si po-
teva ammirare a Foix e nell'Ariège, era immobile.
Alice tornò al banco della reception e suonò il campanello. La tenda di
perline tintinnò e monsieur Annaud emerse dalle stanze private dove abi-
tava con la famiglia.
«Il y a quelqu'un pour moi?»
«Là» rispose, sporgendosi oltre il bancone per indicare.
Alice scosse il capo. «Personne.»
Monsieur Annaud fece il giro per andare a vedere, poi alzò le spalle,
stupito di trovare il salottino deserto, «Dehors? Fuori?» Mimò un uomo
che fumava.
L'albergo si trovava su una stradina secondaria, che collegava la via
principale, con gli edifici amministrativi, i fast-food e lo straordinario uffi-
cio postale in stile art déco del 1930, alla più pittoresca zona medievale di
Foix con i caffè e i negozietti di antiquariato.
Alice guardò a destra e a sinistra, ma a quanto pareva non c'era nessuno
ad aspettarla. I negozi erano tutti chiusi a quell'ora e la strada era pratica-
mente vuota.
Perplessa, si voltò per tornare dentro e vide un uomo apparire sulla so-
glia. Il ragazzo, sulla ventina, indossava un completo estivo chiaro un po'
troppo grande per lui. Aveva i capelli, folti e neri, tagliati corti in modo
ordinato e gli occhi nascosti dietro gli occhiali scuri. Fra le dita una siga-
retta.
«Dottoressa Tanner.»
«Oui» fece lei con fare circospetto. «Vous me cherchez?»
Il ragazzo infilò una mano nel taschino. «Pour vous. Tenez» disse, men-
tre le passava una busta. Continuava a guardarsi intorno, sembrava aver
paura che qualcuno li vedesse. A un tratto Alice lo riconobbe, era il giova-
ne agente in divisa che accompagnava l'ispettore Noubel.
«Je vous ai déjà recontré, non? Au Pic de Soularac.»
Lui passò all'inglese. «Per favore» insisté, «La prenda.»
«Vous êtes avec inspecteur Noubel?» continuò lei.
Lui aveva la fronte imperlata di sudore. Cogliendo Alice alla sprovvista,
l'afferrò per il braccio e le ficcò in mano la busta con la forza.
«Ehi!» protestò lei. «Che cos'è?»
Ma quello era già sparito, risucchiato da uno dei tanti vicoli che portava-
no al castello.
Alice restò un istante a fissare la strada vuota, quasi intenzionata a se-
guirlo. Alla fine ci ripensò. La verità era che il ragazzo l'aveva spaventata.
Guardò la lettera che aveva in mano come se fosse una bomba in procinto
di esplodere, tirò un respiro profondo e infilò il dito sotto la linguetta. Nel-
la busta c'era soltanto un foglio di scadente carta da lettera con su scritto
APPELEZ, con lo stampatello di un bambino. Sotto, un numero di telefo-
no: 02 68 72 31 26.
Alice aggrottò la fronte. Non era del posto. Il prefisso dell'Ariège era 05.
Girò il foglio per vedere se c'era scritto qualcosa dall'altro lato, ma era
bianco. Stava per buttarlo nel cestino, quando cambiò idea. Puoi anche te-
nerlo, per adesso. Lo infilò in tasca, gettò la busta su un mucchio di carte
di gelato, quindi rientrò nell'albergo frastornata.
Non si accorse dell'uomo che era appena uscito dal caffè di fronte. Ed
era già nella sua stanza, quando questi raggiunse il cestino e recuperò la
busta.

Con l'adrenalina che scorreva nelle vene, Yves Biau smise finalmente di
correre. Si piegò in avanti, con le mani sulle ginocchia, per riprendere fia-
to.
Sopra di lui, il grande Château di Foix dominava la città, come faceva
ormai da più di mille anni. Era il simbolo dell'indipendenza di quella re-
gione, l'unica fortezza di una certa importanza a non essere stata coinvolta
nella crociata contro la Linguadoca. Un rifugio per i catari e per i ribelli ar-
rivati dalle città e dalle pianure.
Biau sapeva che qualcuno lo inseguiva. Chiunque fosse non si era pre-
occupato di nascondersi. Portò la mano alla pistola che aveva sotto la giac-
ca. Perlomeno aveva fatto quello che gli aveva chiesto Shelagh. Se solo
fosse riuscito a passare il confine con Andorra, prima che se ne accorges-
sero, sarebbe stato salvo. In quel momento, Biau capì che era troppo tardi
per arrestare gli eventi che egli stesso aveva contribuito a mettere in moto.
Aveva fatto tutto quello che gli avevano ordinato, ma lei tornava sempre
alla carica. Qualunque cosa facesse, non era mai abbastanza.
Il pacco era stato spedito a sua nonna con l'ultimo corriere postale del
giorno. Lei avrebbe saputo cosa farne. Era l'unica cosa che gli era venuta
in mente di fare per porre rimedio a quello che aveva combinato.
Biau guardò da un capo all'altro della strada. Nessuno,
Si incamminò verso casa, facendo un giro assurdo e tortuoso, nel caso in
cui lo stessero aspettando lì. Se fosse arrivato da quella direzione, avrebbe
avuto modo di avvistarli prima che loro vedessero lui.
Mentre attraversava il mercato coperto, inconsciamente notò la Merce-
des color argento nella place Saint-Volusien, ma non le prestò troppa at-
tenzione. Non udì il lieve borbottio del motore che girava al minimo e
nemmeno la marcia che veniva inserita, mentre l'auto cominciava ad avan-
zare inosservata, sobbalzando leggermente sui ciottoli della vecchia città
medievale.
Quando scese dal marciapiede per attraversare la strada, l'auto accelerò
di colpo, catapultandosi come un aereo sulla pista di decollo. Biau si voltò,
impietrito dalla paura. Con un rumore sordo, l'auto gli falciò le gambe e il
corpo, improvvisamente senza peso, fu scaraventato sopra il parabrezza e
al di là della vettura. Biau fluttuò in aria per una frazione di secondo, per
poi precipitare con violenza contro uno dei pali di ghisa che sostenevano il
tetto spiovente del mercato.
Restò là un istante, sospeso a mezz'aria, sembrava un bambino su una
giostra del luna park. A un tratto la forza di gravità lo attirò verso il basso
e Biau cadde al suolo, lasciando una scia rossa di sangue sul metallo scuro.
La Mercedes non si fermò.
Il rumore richiamò la gente fuori dai bar lì attorno. Alcune donne si af-
facciarono alle finestre che davano sulla piazza. Il proprietario del bar per
le scommesse diede un'occhiata e corse dentro a chiamare la polizia. Una
donna cominciò a gridare, ma fu immediatamente zittita dalla folla che si
era radunata intorno al corpo.

Dapprima Alice non si accorse del rumore. Ma quando sentì avvicinarsi


il suono delle sirene, andò alla finestra come tutti gli altri e si affacciò.
Niente che ti riguardi.
Non c'era motivo di lasciarsi coinvolgere. Eppure, per qualche strana ra-
gione, Alice lasciò la stanza e si diresse verso la piazza.
Un'auto della polizia sbarrava la stradina che conduceva alla piazza, con
i lampeggianti accesi ma le sirene spente. Dall'altra parte la gente si era di-
sposta a semicerchio intorno a qualcosa o a qualcuno che giaceva a terra.
«Non si può stare tranquilli da nessuna parte,» bisbigliò un'americana al
marito, «nemmeno in Europa.»
Più Alice si avvicinava, più il brutto presentimento cresceva. L'idea di
ciò che avrebbe potuto vedere la turbava, ma allo stesso tempo non riusci-
va a trattenersi. Un'altra auto della polizia arrivò da una traversa e si arre-
stò accanto alla prima con una sgommata. Tutti si voltarono e il folto
gruppo di persone si diradò quanto bastava perché Alice vedesse il corpo
per terra. Vestito chiaro, capelli scuri; occhiali da sole, con lenti marroni e
stanghette dorate, abbandonati lì di fianco.
Non può essere lui.
Alice si fece largo, scansando la gente, finché non arrivò davanti a tutti.
Il corpo giaceva immobile al suolo. Automaticamente portò la mano al fo-
glio di carta che aveva in tasca.
Non può trattarsi di una coincidenza.
Ammutolita per l'orrore, indietreggiò a tentoni. Sentì sbattere la portiera
di un'auto. Si voltò con un sussulto, giusto in tempo per vedere l'ispettore
Noubel che si alzava a fatica dal sedile del guidatore. Si rifugiò fra la folla.
Non farti vedere. Dando retta all'istinto attraversò la piazza e si allontanò
da Noubel, a testa bassa.
Appena voltato l'angolo, cominciò a correre.

«S'il vous plaît» gridò Noubel, aprendosi un varco fra i curiosi. «Police.
S'il vous plaît.»
Yves Biau era disteso a gambe e braccia divaricate sul selciato. Le brac-
cia aperte ad angolo retto. Una gamba era piegata in due, di sicuro rotta,
poiché l'osso bianco della caviglia sporgeva dai pantaloni. L'altra era diste-
sa in modo innaturale, rivolta da un lato. Uno dei mocassini beige si era
sfilato.
Noubel si chinò e provò a sentire il polso. Il ragazzo respirava ancora,
respiri brevi e poco profondi, ma aveva la pelle viscida al tatto e gli occhi
chiusi. L'ispettore fu lieto di sentire da lontano la sirena dell'ambulanza.
«S'il vous plaît» gridò ancora, mentre si rialzava. «Poussez vous.» Resta-
te indietro.
Arrivarono altre due auto della polizia. Era girata via radio la notizia che
un agente era stato ferito, perciò c'erano più poliziotti che spettatori. Bloc-
carono la strada e separarono i testimoni dai curiosi. Furono efficienti e
metodici, ma i volti rivelavano tensione.
«Non è stato un incidente, ispettore» affermò l'americana. «La macchina
ha puntato dritto verso di lui, velocissima.»
Noubel la guardò con attenzione. «Ha visto cosa è successo, madame?»
«Certo che l'ho visto.»
«Ha visto anche che modello di auto era? La marca?»
La donna scosse il capo. «Grigio argento, è l'unica cosa che posso dirle.»
Si voltò verso il marito.
«Mercedes» fece lui pronto. «Non ho visto tutta la scena. Mi sono girato
soltanto quando ho sentito il rumore.»
«Numero di targa?»
«Mi pare che terminasse con undici. È accaduto troppo in fretta.»
«La strada era quasi deserta, agente» ripeté la moglie, quasi temesse di
non essere stata presa sul serio.
«Ha visto quante persone c'erano nell'auto?»
«Di sicuro una sul sedile anteriore. Non saprei dire se c'era qualcuno an-
che su quello posteriore.»
Noubel affidò la donna a un agente perché annotasse i dettagli, dopodi-
ché raggiunse il retro dell'ambulanza, sulla quale stavano caricando Biau
con la barella. La testa e il collo erano retti da un sostegno, ma un rivolo di
sangue scorreva da sotto la fasciatura che avvolgeva la ferita, macchiando
di rosso la camicia.
Era bianco da far paura, come un lenzuolo. Aveva una cannula a un an-
golo della bocca e una flebo portatile attaccata alla mano. «Il pourra s'en
tirer?» Se la caverà?
Il paramedico fece una smorfia. «Se fossi in lei» disse, sbattendo la por-
tiera, «avviserei la famiglia.»
Noubel batté un colpo sul fianco dell'ambulanza che si allontanava,
quindi, compiaciuto del lavoro che i suoi uomini stavano svolgendo, tornò
alla sua auto imprecando contro se stesso. Si lasciò cadere sul sedile ante-
riore: sentiva il peso dei suoi cinquant'anni, e rifletté su tutte le decisioni
sbagliate che aveva preso quel giorno e che avevano causato tutto ciò. Infi-
lò un dito nel colletto della camicia e allentò la cravatta.
Sapeva che avrebbe dovuto parlare prima con il ragazzo. Da quando era
arrivato al Pic de Soularac, Biau non era più stato lo stesso. Di solito era
entusiasta, sempre il primo a farsi avanti. Quel giorno invece era nervoso,
irascibile, ed era sparito per metà del pomeriggio.
Agitato, l'ispettore tamburellò nervosamente con le dita sul volante.
Authié sosteneva che Biau non gli avesse riferito nessuna informazione
sull'anello. Ma perché mai avrebbe dovuto mentire su una cosa simile?
Al pensiero di Paul Authié, Noubel accusò un improvviso dolore all'ad-
dome. Si cacciò in bocca una mentina, in cerca di un po' di sollievo. Aveva
commesso un altro errore. Non avrebbe dovuto lasciare che Authié avvici-
nasse la dottoressa Tanner, anche se a pensarci bene non avrebbe potuto
fare granché per evitarlo. La denuncia del ritrovamento dei due scheletri a
Soularac era stata accompagnata dall'ordine di dare a Paul Authié libero
accesso a tutta l'area e l'assistenza necessaria. Noubel non era ancora riu-
scito a capire come Authié fosse venuto a conoscenza della scoperta così
in fretta, né tanto meno come avesse fatto a infiltrarsi nelle indagini.
Prima di allora non lo aveva mai incontrato personalmente, ma lo cono-
sceva di fama. Come la maggior parte dei poliziotti. Si diceva che Authié,
avvocato assai noto per i saldi principi religiosi, avesse in pugno metà del-
la magistratura e della gendarmeria del Midi. Nello specifico, un collega di
Noubel era stato convocato per fornire delle prove riguardo a un caso in
cui Authié era alla difesa. Due membri di un gruppo di estrema destra era-
no stati accusati dell'omicidio di un tassista algerino commesso a Carcas-
sonne. Stando alle voci di corridoio, c'era stato un tentativo di intimidazio-
ne. Alla fine, entrambi gli imputati erano stati assolti e diversi agenti di po-
lizia erano stati costretti a dimettersi.
Noubel guardò gli occhiali da sole di Biau, che aveva raccolto da terra.
Già prima non era contento. Adesso la situazione gli piaceva ancora meno.
La radio cominciò a crepitare e a trasmettere le informazioni, che Nou-
bel aveva chiesto, sui parenti prossimi di Biau. Restò seduto ancora un i-
stante, rimandando un altro po' quel momento. Quindi iniziò a fare le tele-
fonate.

CAPITOLO 16

Erano le undici quando Alice raggiunse la periferia di Tolosa. Era troppo


stanca per proseguire fino a Carcassonne, così decise di entrare in città e
cercare un posto per trascorrere la notte.
Il viaggio era passato in un lampo, Aveva la testa piena di immagini
confuse: gli scheletri e il pugnale; il viso pallido che le era apparso davanti
all'improvviso nella penombra; il ragazzo che giaceva al suolo di fronte al-
la chiesa di Foix. Era morto?
E il labirinto. Alla fine, tornava sempre al labirinto. Alice si ripeté di
non essere paranoica, che lei non c'entrava niente con quello che era acca-
duto. Eri soltanto nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma non im-
portava quante volte se lo fosse ripetuto, non riusciva a convincersi.
Si tolse le scarpe con un calcio e si sdraiò sul letto tutta vestita. La stan-
za era dozzinale. Plastica scadente e truciolato, piastrelle grigie e finto le-
gno. Le lenzuola erano eccessivamente rigide e frusciavano come carta al
contatto con la pelle.
Prese il Bushmills Single Malt dallo zaino, Nella bottiglia erano rimaste
due dita di whisky. All'improvviso sentì un groppo alla gola. Aveva con-
servato l'ultimo bicchiere per festeggiare l'ultima notte agli scavi. Fece un
altro tentativo, ma il telefono di Shelagh aveva sempre attivata la segrete-
ria. Sforzandosi di non sembrare seccata, lasciò l'ennesimo messaggio.
Sperava che Shelagh la piantasse di fare giochetti.
Trangugiò un paio di antidolorifici con il whisky, quindi si mise a letto e
spense la luce. Era davvero esausta, ma non riusciva a trovare una posizio-
ne comoda. Aveva un terribile mal di testa, il polso era bollente e gonfio e
la ferita sul braccio le faceva un male del diavolo. Andava sempre peggio.
La stanza era calda e soffocante. Dopo essersi girata e rigirata, aver sen-
tito le campane battere la mezzanotte e poi l'una, Alice andò ad aprire la
finestra per far entrare un po' d'aria. Non servì a molto. La mente non vo-
leva rilassarsi. Si sforzò di pensare a sabbia bianca e acque azzurre e lim-
pide, spiagge caraibiche e tramonti hawaiani, ma il pensiero tornava sem-
pre alla roccia grigia e all'aria umida delle viscere della montagna.
Aveva paura di addormentarsi. Temeva che l'incubo si ripresentasse.
Le ore passavano lente. Alice aveva la bocca secca e la tachicardia, per
colpa del whisky. Soltanto quando la pallida luce dell'alba filtrò dai bordi
logori delle tende, il sonno ebbe la meglio sui suoi pensieri.

Stavolta, il sogno era diverso.


Era in groppa a un cavallo sauro, in mezzo alla neve. La gualdrappa in-
vernale era spessa e lucida, la criniera e la coda bianche intrecciate con na-
stri rossi. Era in tenuta da caccia, indossava la sua mantella migliore, quel-
la con la pelisse di scoiattolo e il cappuccio, e lunghi guanti di pelle fode-
rati di pelliccia di martora che arrivavano sopra al gomito.
Al suo fianco un uomo cavalcava un destriero grigio, un animale più
grosso e possente del suo, con la criniera e la coda nere. Tirava le briglie in
continuazione per tenerlo a bada. I capelli castani erano lunghi per un uo-
mo, sfioravano le spalle. Il mantello di velluto blu sventolava all'indietro
mentre cavalcava. Portava un pugnale legato alla vita. Intorno al collo, a-
veva una catena d'argento con appesa una pietra verde, che sbatteva sul
petto a ritmo regolare, assecondando il trotto del cavallo.
Le lanciava continue occhiate, che esprimevano orgoglio e possesso nel
contempo. Il loro era un legame forte, intimo. Nel sonno, Alice cambiò po-
sizione e sorrise.
Da qualche parte, in lontananza, il suono acuto e penetrante di un corno
nell'aria frizzante di dicembre annunciava che i cani erano sulle tracce di
un lupo. Sapeva che era dicembre, un mese particolare. Sapeva di essere
felice. A un tratto, la luce cambiava.
Adesso era sola, in una zona del bosco che non conosceva. Gli alberi e-
rano più alti e fitti, i rami spogli, neri e intricati, in contrasto con il cielo
bianco e carico di neve, sembravano dita di persone morte. Dietro di lei,
minacciosi e invisibili, i cani guadagnavano terreno, eccitati dall'idea del
sangue.
Non era più la cacciatrice, ma la preda.
Nel bosco risuonava il frastuono di migliaia di zoccoli, sempre più vici-
ni. Sentiva le urla dei cacciatori adesso. Parlavano una lingua incompren-
sibile, ma sapeva che era lei che cercavano.
Il cavallo inciampava. Alice veniva disarcionata, cadeva dalla sella e fi-
niva al suolo, freddo e duro. Sentiva un colpo alla spalla e subito dopo un
dolore lancinante. Guardava giù inorridita. Un ramo secco, gelato dal fred-
do, simile alla punta di una freccia, aveva perforato la manica e si era con-
ficcato nel braccio.
Con le mani intirizzite, Alice tirava con forza il pezzo di legno fino a sfi-
larlo del tutto, chiudendo gli occhi per il dolore acuto. Immediatamente, il
sangue cominciava a sgorgare, ma lei non si lasciava intimorire.
Tamponava l'emorragia con il bordo della mantella, si rialzava e si tra-
scinava fra i rami spogli e gli arbusti ghiacciati. I ramoscelli secchi si
spezzavano sotto i piedi, l'aria gelida pungeva le guance e faceva lacrimare
gli occhi.
Il suono nelle orecchie era diventato più acuto e insistente, mentre lei si
sentiva svenire. Si sentiva incorporea, come un fantasma.
A un tratto il bosco era sparito e Alice si ritrovava sull'orlo di un preci-
pizio. Non aveva scampo. Sotto di lei, lo strapiombo. Davanti a lei, le
montagne incappucciate di neve si innalzavano a perdita d'occhio. Erano
talmente vicine che le sembrava quasi di poterle toccare.
Alice si agitò nel sonno.
Fammi svegliare. Ti prego.
Si sforzò di aprire gli occhi, ma non ci riuscì. Il sogno l'avvolgeva trop-
po forte tra le sue spire.
I cani erano saltati fuori dagli alberi, alle sue spalle, abbaiavano e rin-
ghiavano. La nuvola del loro respiro si diffondeva nell'aria dalle fauci che
si aprivano e si chiudevano, bava e sangue colavano dai denti. Le lance dei
cacciatori scintillavano nella luce densa del crepuscolo. Gli occhi erano
colmi di odio e di eccitazione. Li sentiva sussurrare, ridacchiare e farsi bef-
fe di lei.
«Hérétique, hérétique.»
In quel preciso istante, aveva preso la sua decisione. Se doveva morire,
non sarebbe morta per mano di quegli uomini. Alice allargò le braccia e
saltò, affidando il suo corpo al vuoto.
D'improvviso il mondo diventava muto.
Il tempo cessava di avere qualsiasi significato, e mentre precipitava lenta
e leggiadra, il vestito verde si gonfiava tutto intorno a lei. A quel punto si
accorgeva di avere qualcosa appuntato sulla schiena, un pezzo di stoffa a
forma di stella. No, non una stella: una croce. Una croce gialla. Rouelle.
Mentre la parola sconosciuta entrava e usciva dalla sua mente, la croce si
staccava e volava via come una foglia che cade dall'albero in autunno.
Il momento dello schianto non arrivava. Alice non aveva più paura.
Sebbene le immagini del sogno cominciassero a svanire, a sgretolarsi in
mille pezzi, il suo inconscio capiva ciò che sfuggiva alla parte cosciente di
sé. Che non era lei, Alice, a precipitare, ma un'altra.
E quello non era un sogno, bensì un ricordo. Il frammento di una vita
vissuta molto, ma molto tempo prima.

CAPITOLO 17

CARCASSONA
Julhet 1209

Ramoscelli e foglie crepitarono sotto il peso di Alaïs, quando cambiò


posizione.
Aveva un intenso odore di muschio, lichene e terra nelle narici e nella
bocca. Qualcosa di appuntito le bucò il dorso della mano, una puntura mi-
nuscola che cominciò subito a bruciare. Una zanzara o una formica. Senti-
va il veleno diffondersi nelle vene. Si grattò per scacciare l'insetto. Il mo-
vimento le fece venire da vomitare.
Dove mi trovo?
La risposta arrivò come un'eco.
Defòra. Fuori.
Era distesa faccia a terra sul suolo. La pelle appiccicosa e fredda, per la
rugiada. Era l'alba o il tramonto? Gli abiti, aggrovigliati intorno alle gam-
be, erano umidi. Piano piano, Alaïs riuscì a mettersi seduta e si appoggiò al
tronco di un faggio per mantenersi dritta.
Doçament. Dolcemente, con attenzione.
Attraverso gli alberi in cima al pendio vide il cielo bianco, striato di rosa
all'orizzonte. Cumuli uniformi fluttuavano nell'aria simili a navi nel mare
in bonaccia. Scorse i profili neri dei salici piangenti. Alle sue spalle c'erano
peri e ciliegi, spogli e privi di frutti a quel punto della stagione.
Era l'alba, dunque. Alaïs tentò di mettere a fuoco l'ambiente circostante.
La luce accecava, malgrado il sole non ci fosse. Non molto distante, si
sentiva il rumore di un corso d'acqua pigro e poco profondo. In lontananza,
si udiva il caratteristico verso stridulo di un gufo reale che tornava dalla
caccia notturna.
Alaïs si guardò le braccia, ricoperte di minuscole punture rosse. Osservò
anche i graffi e i tagli sulle gambe. Oltre che di punture di insetto, le cavi-
glie erano cosparse anche di croste di sangue. Avvicinò le mani al viso. Le
nocche erano escoriate e doloranti. Aveva delle striature color ruggine fra
le dita.
A un tratto ricordò qualcosa. Di essere stata trascinata, con le braccia
che strisciavano per terra.
No, ancora prima.
Di attraversare la corte. Di aver visto le luci al piano superiore.
Poi, la nuca che formicolava dalla paura. I passi nell'oscurità, le mani
callose sulla bocca e infine il colpo.
Perilhòs. Pericolo.
Si portò una mano alla testa e fece una smorfia quando toccò la massa
appiccicosa di sangue e capelli dietro l'orecchio. Chiuse gli occhi più forte
che poteva, nel tentativo di cancellare il ricordo delle mani che le striscia-
vano addosso come ratti. Due uomini. L'odore classico di cavalli, birra e
paglia.
Avevano trovato il merel?
Alaïs si sforzò di alzarsi. Doveva raccontare a suo padre l'accaduto. Sta-
va per andare a Montpellier, era l'unica cosa che ricordava. Doveva parlar-
gli prima che partisse. Riprovò ad alzarsi, ma le gambe erano troppo debo-
li. La testa riprese a vorticare e lei scivolò di nuovo in un sonno leggeris-
simo. Cercò di sconfiggerlo e di restare sveglia, ma fu tutto inutile. Passa-
to, presente e futuro facevano parte di una dimensione senza tempo ormai,
che si apriva bianca dinnanzi ai suoi occhi. Colori, suoni, luce, niente ave-
va più senso.

CAPITOLO 18

Dopo essersi guardato indietro con ansia un'ultima volta, Bertrand Pelle-
tier uscì a cavallo dalla Porta Est al fianco del visconte Trencavel. Non riu-
sciva a spiegarsi come mai Alaïs non fosse andata a salutarli.
Pelletier cavalcava in silenzio, perso nei suoi pensieri, ascoltava a mala-
pena le chiacchiere inutili che si susseguivano intorno a lui. Era turbato
perché al momento della partenza la figlia non era nella Cour d'Honneur ad
augurargli che la spedizione avesse successo. Era stupito, e anche deluso,
se proprio doveva ammetterlo. Si pentì di non aver mandato François a
svegliarla.
Nonostante fosse molto presto, ai lati delle strade c'erano molte persone
a salutarli e ad acclamarli. Erano stati scelti soltanto i cavalli migliori. Pa-
lafreni con una ripresa e un'elasticità su cui si poteva contare, insieme a
puledri e giumente provenienti dalle scuderie dello Château Comtal, scelti
per la velocità e per la resistenza. Raymond-Roger Trencavel era in sella al
suo stallone baio prediletto, un cavallo che aveva addestrato egli stesso da
quando era puledro. Aveva il manto fulvo come una volpe in inverno e una
caratteristica stella bianca sul muso, dalla forma identica a quella dei terri-
tori del visconte, o almeno così dicevano.
Ogni scudo riportava l'emblema dei Trencavel. Lo stemma era ricamato
su tutte le bandiere e le casacche che gli chevaliers indossavano sull'arma-
tura da viaggio. Il sole che sorgeva si rifletteva sugli elmi scintillanti, sulle
spade e sulle briglie. Persino le bisacce dei cavalli da soma erano state lu-
cidate, tanto che gli stallieri potevano specchiarsi sul cuoio.
Ci era voluto un po' per decidere quanto dovesse essere grande l'envoi.
Troppo piccolo e Trencavel sarebbe apparso come un alleato indegno e in-
significante e loro sarebbero diventati facile bersaglio per i banditi lungo il
tragitto. Troppo grande e la missione sarebbe stata scambiata per una di-
chiarazione di guerra.
Alla fine, erano stati scelti sedici chevaliers, tra i quali c'era anche Guil-
hem du Mas, malgrado le obiezioni di Pelletier. Considerando gli écuyers,
un gruppetto di servitori e uomini di chiesa, Jehan Congost e un fabbro per
i lavori di riparazione agli zoccoli dei cavalli, la compagnia contava in tut-
to una trentina di persone.
La destinazione era Montpellier, città principale dei territori del visconte
di Nìmes e luogo di nascita della moglie di Raymond-Roger, dama Agnès.
Come Trencavel, Nîmes era vassallo del re d'Aragona, Pietro II; pertanto,
sebbene Montpellier fosse una città cattolica e il re in persona fosse un fi-
do ed energico persecutore dell'eresia, c'era motivo di credere che l'avreb-
bero attraversata senza pericoli.
Avevano calcolato tre giorni di viaggio da Carcassonne. Impossibile dire
chi sarebbe arrivato per primo, se Trencavel o il conte di Toulouse.

Dapprima si diressero a est e seguirono il corso dell'Aude, andando in-


contro al sole che sorgeva. A Trèbes svoltarono a nordovest ed entrarono
nelle terre del Minervois, quindi seguirono l'antica strada romana che at-
traversava La Redorte, la città fortificata di Azille, e proseguiva per Olon-
zac.
I terreni migliori erano stati adibiti a canabières, coltivazioni di canapa,
che si estendevano a perdita d'occhio. Sulla destra c'erano i vigneti, alcuni
erano potati, mentre altri crescevano selvaggi e negletti ai lati del sentiero,
dietro folti arbusti. A sinistra i campi di orzo erano un mare di steli verde
smeraldo, che al momento del raccolto si sarebbe trasformato in oro. I con-
tadini, con i cappelli di paglia a falda larga che li riparavano dal sole, erano
già nel pieno dell'attività, mietevano l'ultimo grano della stagione. Di tanto
in tanto, il ferro ricurvo delle loro falci catturava la luce del sole che si le-
vava.
Al di là della riva del fiume, fiancheggiata da querce e salici palustri, si
estendevano i boschi fitti e silenziosi, dove volavano le aquile selvagge. Vi
si trovavano cervi, linci e orsi in gran quantità, d'inverno anche lupi e vol-
pi. Sui boschi e sulla macchia delle pianure dominava l'oscura foresta della
Montagne Noire, dove il cinghiale regnava sovrano.
Grazie alla spensieratezza e all'ottimismo tipico della gioventù, il vi-
sconte Trencavel era di buon umore, raccontava aneddoti spiritosi e ascol-
tava i racconti delle gesta passate. Discuteva con i suoi uomini di quali
fossero i migliori cani da caccia, se i levrieri o i mastini, oppure di quanto
costasse una buona fattrice, e chiacchierava di chi avesse vinto, e quanto, a
dadi o freccette.
Nessuno parlava dello scopo della spedizione, né tanto meno di cosa sa-
rebbe accaduto se le istanze del visconte fossero state ignorate dallo zio.
Un grido roco in fondo alla fila attirò l'attenzione di Pelletier. Guardò
indietro. Guilhem du Mas cavalcava fianco a fianco con Alzeu de Preixan
e Thierry Cazanon, anch'essi chevaliers della scuola di Carcassonne, no-
minati cavalieri durante la penultima settimana di quaresima.
Sapendo che il suocero lo osservava con occhio critico, Guilhem alzò la
mano e lo guardò con aria insolente. Restarono a fissarsi per un istante. A
un certo punto, il più giovane chinò lievemente il capo, un falso segno di
sottomissione, quindi si voltò. Pelletier sentì il sangue ribollirgli nelle ve-
ne, soprattutto perché si rendeva conto di non poter fare nulla.

Cavalcarono attraverso le pianure, per ore e ore. La conversazione andò


scemando fino a esaurirsi del tutto, quando l'entusiasmo che aveva accom-
pagnato la partenza dalla Cité ebbe lasciato il posto all'apprensione.
Il sole saliva sempre più in alto nel cielo. Gli ecclesiastici erano quelli
che soffrivano maggiormente nelle loro tonache nere di lana pettinata. Ri-
voletti di sudore colavano lungo la fronte del vescovo. La faccia butterata
di Jehan Congost si era coperta di disgustose chiazze, rosse come la digita-
le purpurea. Api, grilli e cicale ronzavano e stridevano nell'erba marrone.
Le zanzare pungevano i polsi e le mani, le mosche tormentavano i cavalli
che dimenavano infastiditi la criniera e la coda.
Soltanto quando il sole fu a picco, il visconte Trencavel concesse ai suoi
uomini un po' di riposo. Si sistemarono in una radura sulla riva di un tor-
rente in stanca, dopo essersi accertati che fosse un luogo sicuro. Gli écu-
yers dissellarono i cavalli, ai quali rinfrescarono il manto con foglie di sa-
lice bagnate nel fiume. Ferite e punture furono medicate con foglie di ace-
tosa e cataplasmi di senape.
Gli chevaliers si tolsero l'armatura da viaggio e gli stivali, quindi lavaro-
no via polvere e sudore dalle mani e dal collo. Un piccolo gruppo di servi-
tori fu mandato alla fattoria più vicina, e poco dopo tornò con pane, salsic-
ce, bianco formaggio di capra, olive e forte vino locale.
Non appena si sparse la voce che il visconte Trencavel era accampato
nelle vicinanze, una fiumana di allevatori e contadini, vecchi uomini e gio-
vani donne, tessitori e birrai cominciò a farsi strada verso l'umile accam-
pamento improvvisato sotto gli alberi, portando doni per il seigneur. ceste
di ciliegie e prugne appena colte, un'oca, sale e pesce.
Pelletier era a disagio. A causa di quel viavai, avrebbero fatto tardi e a-
vrebbero sprecato tempo prezioso. Avevano ancora molta strada da fare,
prima che il sole calasse e ci si accampasse per la notte. Ma, come il padre
e la madre prima di lui, Raymond-Roger aveva piacere di conoscere i pro-
pri sudditi e non ne avrebbe respinto nemmeno uno.
«È per questo che ingoiamo l'orgoglio e andiamo a fare pace con mio
zio» disse Trencavel in tono pacato. «Per proteggere quanto c'è di buono,
innocente e vero a questo mondo, è? E combatteremo, se sarà necessario.»
Come un antico re guerriero, il visconte Trencavel tenne corte all'ombra
dei lecci. Con garbo, fascino e dignità accettò tutti gli omaggi offertigli.
Sapeva che quel giorno sarebbe diventato un ricordo da custodire gelosa-
mente, una storia da inserire nella vita del villaggio.
L'ultima ad appressarsi fu una graziosa bambina di cinque o sei anni dal-
la pelle scura, con occhi luminosi del colore delle more, la quale fece un
breve inchino e recitò una poesia su orchidee selvagge, candidi bottoni
d'argento e prati di caprifoglio. Le tremavano le mani.
Il visconte Trencavel si chinò all'altezza della bambina, estrasse un faz-
zoletto di lino dalla cintura e glielo offrì. Persino Pelletier sorrise nel vede-
re le minuscole dita che si allungavano timide e afferravano il quadrato di
stoffa, bianco e fresco.
«Come ti chiami, madomaisèla?» le chiese.
«Ernestine, messire» sussurro.
Trencavel annuì. «Bene, madomaisèla Ernestine» disse, mentre coglieva
un bocciolo di rosa dal mazzo di fiori e lo fissava alla tunica. «Lo indosse-
rò come portafortuna. E per ricordarmi della gentilezza degli abitanti di
Puicheric.»
Fu solo quando gli ultimi visitatori ebbero lasciato l'accampamento, che
Raymond-Roger Trencavel sfibbiò la spada e si sedette a mangiare. Dopo
aver placato l'appetito, uno alla volta, si distesero tutti sull'erba soffice, si
appoggiarono ai tronchi degli alberi e sonnecchiarono, con la pancia piena
di vino e la testa pesante per l'afa pomeridiana.

Soltanto Pelletier non si mise a riposare. Quando fu sicuro che il viscon-


te Trencavel non avrebbe avuto bisogno di lui per un po', si incamminò
lungo il fiume, desideroso di solitudine.
Piccole imbarcazioni scivolavano sull'acqua e libellule dai colori sgar-
gianti rasentavano la superficie scintillando, saettando e fendendo l'aria pe-
sante.
Appena fu abbastanza lontano dal campo da non essere visto, Pelletier si
sedette sul tronco annerito di un albero caduto e prese la lettera di Harif
dalla tasca. Non la lesse. Non la aprì neppure, la strinse solamente fra l'in-
dice e il pollice, come un talismano.
Non riusciva a smettere di pensare ad Alaïs. I suoi pensieri oscillavano
avanti e indietro come un'altalena. Un attimo si pentiva di essersi confidato
con lei. E l'attimo dopo, temeva di non averle detto abbastanza. Ma se non
con Alaïs, con chi allora? Non poteva fidarsi di nessun altro.
A Dio piacendo, tutto sarebbe andato per il meglio. Se il conte di Tou-
louse avesse accolto favorevolmente le loro richieste, entro la fine del me-
se avrebbero fatto ritorno a Carcassonne in trionfo senza che venisse versa-
ta neanche una goccia di sangue. Dal canto suo, Pelletier avrebbe ritrovato
Simeon a Béziers e avrebbe conosciuto l'identità della «sorella» di cui Ha-
rif aveva fatto menzione.
Se il destino lo avesse permesso.
Pelletier sospirò. Guardò oltre la pacifica scena che aveva davanti a sé e
immaginò l'esatto contrario. Al posto di quel mondo, immutato e immuta-
bile, vide caos, devastazione e rovina. La fine di tutto.
Chinò il capo. Non avrebbe potuto agire diversamente. Anche se non
fosse più tornato a Carcassonne, almeno sarebbe morto con la consapevo-
lezza di aver fatto del suo meglio per difendere i Codici. Alaïs avrebbe ot-
temperato ai suoi doveri. I suoi voti sarebbero diventati quelli della figlia.
Il segreto non sarebbe andato disperso nel trambusto della battaglia, né la-
sciato a marcire in un carcere francese.
I rumori della compagnia che si rimetteva in moto riportarono Pelletier
alla realtà. Era tempo di ripartire. Ancora molte ore di viaggio li attende-
vano prima del tramonto.
Pelletier infilò la lettera di Harif nella borsa e si affrettò a tornare all'ac-
campamento, conscio del fatto che momenti di pace e tranquillità come
quello avrebbero scarseggiato nei giorni a venire.

CAPITOLO 19

Al suo risveglio, Alaïs si ritrovò distesa fra lenzuola di lino anziché sul-
l'erba. Aveva nelle orecchie un fischio lieve e continuo, simile al riecheg-
giare del vento d'autunno fra gli alberi. Si sentiva pesante e intorpidita,
come se il corpo non le appartenesse. Stava sognando che Esclarmonde era
lì con lei e le metteva la mano fredda sulla fronte per far scendere la feb-
bre.
Aprì gli occhi e sbatté le palpebre. Sopra di lei c'era il familiare baldac-
chino di legno del letto, le tende blu scuro erano aperte. La stanza era per-
vasa dalla delicata luce dorata del tramonto. L'aria, sebbene ancora calda e
afosa, prometteva un po' di fresco per la notte. Annusò il leggero aroma di
erbe appena bruciate. Rosmarino e una nota di lavanda.
Sentiva anche voci di donna, sguaiate e basse, nelle vicinanze. Sembrava
che bisbigliassero per non disturbarla. Le parole uscivano sibilando, come
il grasso che cola dallo spiedo sul fuoco. Piano piano, Alaïs voltò la testa
sul cuscino in direzione del rumore. Alziette, l'insopportabile moglie dello
stalliere capo, e Ranier, una pettegola maliziosa e antipatica con un marito
rozzo e maleducato, accomunate dalla passione per seminare zizzania, era-
no sedute accanto al focolare spento come due vecchie cornacchie. Oriane,
sua sorella, le utilizzava spesso per fare le commissioni, ma Alaïs non si
fidava di loro e non riusciva a spiegarsi come mai si trovassero nella sua
stanza. Suo padre non lo avrebbe mai permesso.
A un tratto le tornò alla mente. Lui non c'era. Era andato a Saint-Gilles,
o a Montpellier, non ricordava con esattezza. E anche Guilhem.
«Allora, dove stavano?» sibilò Ranier, avida di pettegolezzi.
«Nel frutteto, proprio vicino al ruscello sotto i salici» rispose Alziette.
«La figlia più grande di Mazelle li ha visti andare laggiù. Quella megera è
corsa subito dalla madre. Quindi Mazelle si è precipitata nel cortile, tor-
cendosi le mani per la vergogna e dicendo che avrebbe preferito non do-
vermelo dire.»
«È sempre stata gelosa della tua figliola, è? Le sue sono tutte butterate e
grasse come maiali. Brutte come lucci, non se ne salva una.» Ranier si av-
vicinò col capo. «E a quel punto cosa hai fatto?»
«Che altro potevo fare, se non andare a guardare con i miei occhi? Li ho
visti non appena sono arrivata. Non è che si fossero sforzati tanto di na-
scondersi. Ho acchiappato Raoul per i capelli, quei capellacci sudici che si
ritrova, e gli ho dato un bel ceffone. Nel frattempo si teneva la cintura, ros-
so come un peperone per la vergogna di essere stato beccato. Quando sono
passata a Jeanette, si è divincolata dalla mia presa ed è scappata via senza
neanche voltarsi indietro.»
Ranier era sdegnata.
«Non ha fatto altro che piagnucolare tutto il tempo, continuava a dire
che Raoul l'amava e che voleva sposarla. A sentirla, pareva che mai nessu-
na prima di lei si fosse fatta infinocchiare con parole sdolcinate.»
«Forse il ragazzo ha davvero buone intenzioni.»
Alziette sbuffò. «Non è in condizione di sposarsi» si lagnò. «Cinque fra-
telli più grandi e soltanto due già ammogliati. Il padre all'osteria mattina e
sera. Quei pochi sol che hanno vanno a finire dritti nelle tasche di Gaston.»
Alaïs si sforzò di non ascoltare i pettegolezzi di quelle donne. Due av-
voltoi che ripulivano una carogna, ecco cosa erano.
«Alla fine, però,» riprese Ranier con fare allusivo «è stata una fortuna
che sia andata così: Se le circostanze non ti avessero spinta laggiù non la
avresti mai trovata.»
Alaïs si irrigidì, avvertendo che le due si erano voltate in direzione del
letto.
«Hai ragione» concordò Alziette. «E scommetto che quando il padre
tornerà sarò ben ricompensata.»

Alaïs restò in ascolto, ma non apprese nulla di nuovo. Le ombre si al-


lungarono. Era in uno stato di dormiveglia.
Dopo un po' una balia notturna, un'altra delle domestiche preferite di sua
sorella, arrivò a dare il cambio ad Alziette e Ranier. Il rumore della donna
che estraeva il giaciglio di legno screpolato da sotto il letto svegliò Alaïs.
Sentì un lieve tonfo quando la balia si adagiò sul materasso bitorzoluto e,
con il peso del corpo, fece uscire l'aria dall'imbottitura di paglia secca. Do-
po qualche istante, i grugniti e il respiro pesante, irregolare e rumoroso che
proveniva dai piedi del letto le assicurarono che la donna si era addormen-
tata.
Ormai, Alaïs era del tutto sveglia. Nella testa aveva solo le istruzioni di
suo padre. Tenere al sicuro la tavoletta con il labirinto. Si mise a sedere e
guardò fra i ritagli di stoffa e le candele.
La tavoletta non c'era più.
Facendo attenzione a non svegliare la balia, Alaïs aprì l'anta del comodi-
no. Il cardine era duro per lo scarso utilizzo e cigolò quando lo sportellino
si aprì. Alaïs fece scorrere le dita lungo il bordo del letto, per controllare se
la tavoletta fosse scivolata tra il materasso e la struttura di legno. Non era
nemmeno lì.
Res. Niente.
Non le piaceva la piega che stavano prendendo i suoi pensieri. Il padre
aveva scartato l'ipotesi che qualcuno avesse scoperto la propria identità,
ma aveva ragione? Sia il merel sia la tavoletta erano spariti.
Alaïs fece penzolare le gambe giù dal letto e raggiunse in punta di piedi
la sedia da cucito. Doveva essere sicura. La mantella era appoggiata sullo
schienale. Qualcuno aveva provato a pulirla, ma il bordo rosso ricamato
era incrostato di fango, che in alcuni punti copriva la cucitura. Aveva lo
stesso odore acre e pungente dei recinti o delle stalle. Come si aspettava,
non trovò nulla. La borsa era scomparsa e il merel con lei.
Gli eventi si svolgevano troppo in fretta. A un tratto la consueta oscurità
della camera appariva piena di pericoli. Si sentiva minacciata da tutto ciò
che la circondava, persino dai brontolii che arrivavano dai piedi del letto.
E se i miei aggressori fossero ancora all'interno dello Château? E se
tornassero a prendermi?
Alaïs si vestì in fretta, prese il calèlh e regolò la fiamma. Il pensiero di
dover attraversare la corte da sola la terrorizzava, ma non poteva starsene
in camera ad aspettare che succedesse qualcosa.
Coratge. Coraggio.
Riparando con la mano la debole fiamma, Alaïs attraversò di fretta la
Cour d'Honneur fino alla Tour Pinte, in cerca di François.
Aprì la porta di qualche centimetro e lo chiamò nel buio. Nessuna rispo-
sta. Sgusciò nella stanza.
«François» sussurrò di nuovo.
La lampada emanava un alone di luce giallina, sufficiente per constatare
che c'era qualcuno a dormire sul giaciglio ai piedi del letto di suo padre.
Appoggiata la lampada a terra, Alaïs si chinò e lo toccò con delicatezza
sopra la spalla. Ritirò immediatamente il braccio come se si fosse scottata
le dita. Provò una brutta sensazione.
«François?»
Ancora nessuna risposta. Alaïs afferrò il lembo ruvido della coperta,
contò fino a tre e la tirò via.
Sotto vi trovò un mucchio di vecchi abiti e pellicce, sistemati con cura,
in modo da sembrare una persona addormentata. Si sentì sollevata, ma allo
stesso tempo confusa.
A un tratto udì un rumore nel corridoio. Afferrò la lampada e spense la
fiamma, quindi si nascose dietro le tende del letto.
La porta si aprì con uno scricchiolio. L'intruso esitò, forse aveva sentito
l'odore dell'olio della lampada, oppure aveva notato le coperte scompiglia-
te. Sfoderò il pugnale.
«Chi va là?» fece. «Vieni fuori.»
«François» disse Alaïs rincuorata, e uscì da dietro le tende. «Sono io.
Puoi mettere via il coltello.»
Sembrava più spaventato di lei.
«Signora, perdonatemi. Non immaginavo.»
Alaïs lo osservò con interesse. Aveva il respiro affannoso, come se aves-
se corso. «La colpa è mia, ma dove sei stato a quest'ora?» domandò.
«Io...»
Con una donna, ipotizzò, anche se non riusciva a capire perché fosse
tanto imbarazzato. Ebbe pietà di lui.
«In realtà non ha importanza, François. Sono qui perché sei l'unico che
può dirmi cosa mi è successo, posso fidarmi solo di te.»
François scolorò in volto. «Non so nulla, signora» disse in tono concita-
to.
«Suvvia, avrai pur sentito una voce, un pettegolezzo.»
«Qualcuno.»
«Bene, ricostruiamo insieme l'accaduto» propose, sconcertata dal suo at-
teggiamento. «Ricordo di essere stata nella stanza di mio padre, dopo che
tu sei venuto a chiamarmi. Dopodiché, due uomini mi hanno aggredita. Mi
sono risvegliata in un frutteto vicino a un ruscello. Era mattino presto.
Quando mi sono risvegliata la seconda volta, invece, mi trovavo nelle mie
stanze.»
«Riconoscerebbe quegli uomini, signora?»
Alaïs lo guardò con aria severa. «No. Era buio ed è accaduto tutto troppo
in fretta.»
«Le hanno rubato qualcosa?»
Esitò. «Niente di valore» rispose, a disagio per aver mentito. «Ho sco-
perto che Alziette Baichère ha dato l'allarme. L'ho sentita vantarsene poco
fa, anche se non capisco proprio come mai ci fosse lei a vegliarmi. Perché
non Rixende? O qualcun'altra delle mie domestiche?»
«Ordini di dama Oriane. Si è occupata personalmente delle vostre cure.»
«Nessuno ha fatto commenti sul suo comportamento?» chiese. Era dav-
vero insolito. «Mia sorella non è nota per questo tipo di... mestieri.»
François annuì. «Ma ha insistito molto, signora.»
Alaïs scosse il capo. Una vaga reminiscenza le balenò in mente. Un ri-
cordo fugace di essere stata rinchiusa in un luogo angusto, di pietra e non
di legno, l'acre tanfo di urina, bestie e sporcizia. Più lo rincorreva, più il ri-
cordo si allontanava da lei.
Tornò all'argomento in questione.
«Presumo che mio padre sia partito per Montpelhièr, François.»
Annuì. «Due giorni fa, signora.»
«È mercoledì» mormorò, stupita. Aveva perso due giorni. Si accigliò.
«François, prima di partire mio padre non ti ha chiesto come mai non fossi
lì a salutarlo?»
«Certo, signora, ma... mi ha proibito di svegliarla.»
Tutto ciò non ha senso. «E mio marito? Guilhem non si è accorto che
non ero tornata in camera quella notte?»
«Credo che lo chevalier du Mas abbia trascorso quasi tutta la notte alla
fornace, signora, e che in seguito abbia preso parte alla cerimonia di bene-
dizione nella cappella insieme al visconte Trencavel. Sembrava sorpreso
della vostra assenza tanto quanto l'intendente Pelletier, e poi...»
«Vai avanti. Dì ciò che pensi, François. Non ti rimprovererò.»
«Col vostro permesso, signora, penso che lo chevalier du Mas non gra-
disca venire a sapere da vostro padre dove vi trovate.»
Appena François ebbe pronunciato quelle parole, Alaïs capì che aveva
ragione. Al momento l'astio fra suo marito e suo padre era più forte che
mai. Serrò le labbra, temeva di tradire il giuramento fatto.
«Ma hanno corso un tale rischio» riprese, tornando all'attacco. «Ten-
dermi un agguato nel cuore dello Château Comtal era già una follia di per
sé. Aggravare il delitto tenendomi prigioniera... Come speravano di farla
franca?»
Si fermò di colpo, poiché si rese conto che stava cominciando a parlare
troppo.
«Erano tutti molto indaffarati, signora. Non era stato ancora suonato il
coprifuoco. Anche se la Porta Ovest era chiusa, la Porta Est è rimasta aper-
ta tutta la notte. Non sarà stato difficile per i due uomini trasportarvi te-
nendovi sotto braccio, a patto che aveste gli abiti e il viso nascosti. C'erano
molte signore... molte donne, intendo, quel genere di donne...»
Alaïs accennò un sogghigno. «Ti ringrazio, François. Capisco perfetta-
mente cosa vuoi dire.»
Il sorriso svanì dal suo viso. Doveva riflettere, decidere cosa fare. Era
più confusa di prima. E il fatto di non sapere perché certe cose erano suc-
cesse, e in quel modo per giunta, accresceva la sua paura. È difficile com-
battere un nemico senza volto.
«Sarebbe bene spargere la voce che non ricordo nulla dell'aggressione,
François» riprese dopo un po'. «In questo modo se i miei assalitori reste-
ranno fra le mura dello Château, non avranno motivo di sentirsi minaccia-
ti.»
Il solo pensiero di attraversare di nuovo la corte le faceva gelare il san-
gue nelle vene. Inoltre, non le andava di dormire sotto gli occhi della serva
di Oriane. Alaïs era sicura che fosse lì per spiarla e per riferire tutto alla
sorella.
«Trascorrerò qui il resto della notte» aggiunse.
Alaïs notò con sorpresa che François sembrava inorridito. «Ma, signora,
non è decoroso che voi...»
«Mi dispiace cacciarti dal letto» ribatté, addolcendo l'ordine con un sor-
riso, «ma la mia compagna di stanza non rientra nelle mie grazie.» Un'e-
spressione fredda e impenetrabile scese sul volto del servitore. «Però ti sa-
rei grata se rimanessi nei paraggi, François, in caso avessi bisogno di te.»
Lui non ricambiò il sorriso. «Come desidera, signora.»
Alaïs lo fissò un istante, poi decise che stava leggendo troppo fra le ri-
ghe. Gli chiese di accendere il lume, quindi lo congedò.
Appena François se ne fu andato, Alaïs si rannicchiò al centro del letto
di suo padre. Ritrovatasi sola, il dolore per l'assenza di Guilhem la colpì di
nuovo. Cercò di figurarsi il suo volto, gli occhi, la bocca, ma i contorni e-
rano sfocati e non riuscivano a diventare nitidi. Alaïs sapeva che l'incapa-
cità di delineare nella mente l'immagine del marito era dettata dalla rabbia.
Continuava a ripetersi che Guilhem non faceva altro che adempiere alle
proprie responsabilità di chevalier. Non si era comportato in modo scorret-
to o ipocrita. In realtà, aveva agito come doveva. Alla vigilia di una mis-
sione così importante, il suo posto era con il signore e con i compagni che
avrebbero affrontato il viaggio insieme a lui, non con la moglie. Ma, nono-
stante Alaïs se lo fosse ripetuto mille volte, non riusciva a far tacere le voci
nella testa. Qualunque cosa si dicesse, i suoi sentimenti restavano invariati.
Nel momento in cui aveva avuto bisogno di Guilhem, lui non c'era. Per
quanto ingiusto, biasimava il marito.
Se la sua assenza fosse stata notata subito, avrebbero potuto catturare gli
aggressori.
E mio padre non sarebbe partito pensando male di me.

CAPITOLO 20

In una fattoria abbandonata, alla periferia di Aniane, nelle piane e fertili


terre a ovest di Montpellier, un anziano parfait cataro e otto credentes era-
no acquattati in un angolo di un granaio, dietro una serie di vecchi fini-
menti per buoi e muli.
Uno degli uomini era gravemente ferito. La carne grigia e rosea si apriva
intorno alle ossa bianche e frantumate che una volta costituivano la faccia.
Gli occhi erano fuori dalle orbite, per la potenza del calcio che gli aveva
fracassato lo zigomo. Sangue rappreso circondava la ferita aperta. I com-
pagni si erano rifiutati di lasciarlo, quando la casa in cui erano riuniti a
pregare era stata assaltata da un gruppetto di disertori dell'esercito france-
se.
Li aveva costretti a rallentare la fuga, annullando il vantaggio dovuto al-
la conoscenza del territorio. I crociati avevano dato loro la caccia tutto il
giorno. La notte non li aveva risparmiati e adesso erano in trappola. Li sen-
tivano urlare nel cortile, udivano il rumore della legna secca che prendeva
fuoco. Stavano preparando un rogo.
Il parfait sapeva che andavano incontro alla fine. Uomini del genere e-
rano privi di misericordia, erano guidati dall'odio, dall'ignoranza e dal fa-
natismo. Non c'era mai stato un esercito come quello sul suolo cristiano. Il
parfait non avrebbe mai creduto alla sua esistenza, se non lo avesse visto
con i propri occhi. Stava andando a sud, lungo un percorso parallelo a
quello dell'esercito, quando aveva visto gli enormi e lenti barconi solcare
le acque del Rodano; trasportavano attrezzatura e provviste, insieme a cas-
se di legno bordate da fasce d'acciaio, contenenti preziose reliquie sacre
che dovevano benedire la spedizione. Gli zoccoli e i piedi di migliaia di
animali e uomini sollevavano sugli argini una gigantesca nuvola di polvere
che fluttuava sull'esercito.
Fin dall'inizio, gli abitanti di città e villaggi avevano sbarrato i cancelli,
avevano osservato l'armata da dietro le mura e pregato che passasse oltre.
Giravano storie di inaudita violenza e orrore. Si narrava di fattorie incen-
diate, di rappresaglie nei confronti di allevatori che non volevano consenti-
re ai soldati di depredare la loro terra. Credenti catari, denunciati come ere-
tici, erano stati bruciati sul rogo a Puylaroque. L'intera comunità ebraica di
Montélimar, uomini, donne e bambini, era stata trucidata e le teste insan-
guinate erano state infilzate alle lance fuori dalle mura cittadine, in pasto ai
corvi.
A Saint-Paul de Trois Châteaux, un parfait era stato crocifisso da una
piccola banda di routiers guasconi. Lo avevano legato a una croce improv-
visata con due pezzi di legno uniti mediante alcune funi e gli avevano in-
chiodato le mani al legno con un martello. Il peso tirava il corpo verso il
basso, ma lui si rifiutava di abiurare, ossia di ripudiare la propria fede. Alla
fine, annoiati da quella morte lenta, i soldati lo avevano sventrato e lo ave-
vano lasciato lì a marcire.
Questi e altri atti barbarici erano stati smentiti sia dall'abate di Cîteaux
sia dai baroni francesi, oppure spacciati come opera di qualche disertore.
Ma, mentre stava rannicchiato nel buio, il parfait sapeva che le parole di
signori, preti e legati papali non contavano nulla laggiù. Sapeva quanto
fossero assetati di sangue gli uomini che li avevano costretti a rintanarsi in
quel cantuccio dimenticato da Dio.
Sapeva riconoscere il male.
L'unica cosa che poteva fare era tentare di salvare le anime dei suoi fe-
deli, così che avrebbero potuto presentarsi al cospetto di Dio. Il passaggio
da questo mondo all'altro non sarebbe stato indolore.
Il ferito era ancora cosciente. Piagnucolò teneramente, finché il suo cor-
po non divenne rigido e la pelle livida di morte. Il parfait posò le mani sul-
la testa dell'uomo mentre gli impartiva il sacramento dei moribondi e pro-
nunciava le parole del consolament.
Gli altri fedeli si misero in cerchio a mani giunte e cominciarono a pre-
gare,
«Padre Santo, Dio delle anime giuste, Tu che tutto sai, che mai menti o
dubiti, lascia che conosciamo...»
Adesso i soldati tiravano calci alla porta, ridevano e li schernivano. Non
ci avrebbero impiegato molto a trovarli. La più giovane fra le donne, una
ragazza che non aveva più di quattordici anni, cominciò a piangere. Le la-
crime scorrevano inesorabili e silenziose, lungo le guance.
«...lascia che conosciamo ciò che Tu conosci, che amiamo ciò che Tu
ami; poiché noi non siamo di questo mondo e questo mondo non è nostro,
e temiamo di incontrare la morte nel regno di questo Dio ostile.»
Il parfait alzò la voce quando la trave che teneva chiusa la porta si spez-
zò in due. Schegge di legno, appuntite come frecce, schizzarono nel gra-
naio quando gli uomini fecero irruzione. Alla luce vermiglia del fuoco che
bruciava nel cortile, vide i loro occhi crudeli e scintillanti. Ne contò dieci,
ognuno con una spada.
Lanciò uno sguardo al comandante che faceva il suo ingresso nel gra-
naio. Un uomo alto, dal volto pallido, scarno e dagli occhi di ghiaccio;
sembrava calmo e controllato, al contrario dei suoi uomini, irruenti e indi-
sciplinati. Era circondato da un'aura di perfida autorità, un uomo avvezzo a
essere rispettato.
Il comandante francese ordinò che i fuggitivi fossero stanati dal proprio
nascondiglio. Sollevò il braccio e conficcò la lama nel petto del parfait. Lo
fissò un istante. Gli occhi grigi come la selce colmi di disprezzo. Sollevò il
braccio una seconda volta e affondò la spada nel cranio del vecchio par-
fait, facendo schizzare carne rossa e grigi pezzi di cervello sulla paglia.
Dopo l'uccisione della guida spirituale, scoppiò il panico. Gli altri tenta-
rono di fuggire, ma il terreno era scivoloso a causa del sangue. Un soldato
afferrò una donna per i capelli e le conficcò la spada nella schiena. Il padre
cercò di allontanarlo, ma il soldato si voltò di scatto e gli squarciò la pan-
cia. L'uomo sbarrò gli occhi, mentre il soldato faceva girare il coltello, per
poi spingere via con il piede il corpo trafitto.
Il soldato più giovane del gruppo si voltò dall'altra parte e vomitò sulla
paglia. Nel giro di pochi minuti, tutti gli uomini giacevano morti, dissemi-
nati per il granaio. Il capitano ordinò di portare fuori le due donne più an-
ziane. La ragazza la trattenne, insieme al giovane che vomitava. Doveva
temprarsi, la recluta.
La ragazza indietreggiò, con il terrore negli occhi. Lui sorrise. Non ave-
va fretta e la sua vittima non poteva scappare da nessuna parte. Le girò in-
torno, come un lupo che studia la preda, poi all'improvviso attaccò. Con un
solo movimento la afferrò alla gola, le sbatté la testa contro il muro e le
strappò il vestito di dosso. Adesso la ragazza urlava più forte, picchiava e
scalciava con violenza. Le sferrò un pugno sul viso, provando piacere nel
sentire l'osso che si frantumava sotto la mano.
Le gambe non la ressero. Cadde in ginocchio, lasciando una striscia di
sangue sulla parete di legno. Il capitano si chinò e le stracciò la sottana, la-
cerando la stoffa dall'alto in basso con un colpo solo. La ragazza piagnuco-
lava mentre lui le sollevava la gonna.
«Non dovrebbero permettere loro di mettere al mondo e allevare i propri
simili» affermò con freddezza, sfoderando il pugnale.
Non aveva intenzione di sporcarsi le mani toccando l'eretica. Impugnò
l'arma e conficcò l'intera lama nello stomaco della fanciulla. Con tutto l'o-
dio che nutriva per la sua razza, continuò a trafiggerla, finché il corpo non
giacque esanime ai suoi piedi. Infine, ultimo atto di dissacrazione, la girò a
pancia in giù e con due profondi tagli incise una croce sulla schiena. Gocce
di sangue, simili a rubini, stillarono dalla pelle bianca.
«Che serva di lezione a chiunque passi di qua» disse placidamente al
giovane soldato. «Ora toglila di mezzo.»
Asciugò la lama con il vestito strappato e si alzò.
Il ragazzo singhiozzava. Aveva i vestiti sporchi di vomito e sangue. Cer-
cò di fare come gli era stato ordinato, ma fu troppo lento.
Il capitano lo prese per la gola. «Ho detto, toglila di mezzo. Veloce. Se
non vuoi fare la stessa fine.» Gli tirò un calcio alle reni, lasciando un'orma
di sangue, polvere e sporcizia sulla tunica. Non gli serviva a nulla un sol-
dato debole di stomaco.

Il rogo improvvisato al centro del cortile bruciava selvaggio, alimentato


dal vento caldo della sera che spirava dal Mediterraneo.
I soldati si tenevano indietro, con le mani sulla faccia per proteggersi dal
calore. I cavalli legati al cancello scalpitavano agitati. Il tanfo di morte nel-
le narici li rendeva nervosi.
Le donne erano state spogliate e fatte inginocchiare di fronte ai carnefici,
i piedi legati e le mani bloccate dietro la schiena. I volti, i seni graffiati e le
spalle nude mostravano i segni dei maltrattamenti subiti, ma loro erano in
silenzio. Qualcuna restò senza fiato, quando il corpo della ragazza fu getta-
to davanti ai loro occhi.
Il capitano si avvicinò al fuoco. Adesso era annoiato, impaziente di an-
darsene. Uccidere gli eretici non era il motivo per il quale aveva preso la
croce. Quella brutale spedizione era un regalo per i suoi uomini. Aveva bi-
sogno di tenerli occupati. Dovevano mantenersi in allenamento e smetterla
di rivoltarsi l'uno contro l'altro.
Il cielo notturno era pieno di stelle bianche che circondavano la luna
piena. Capì che doveva essere mezzanotte, più tardi forse. Sarebbero anda-
ti via molto prima, se fosse arrivato il segnale.
«Le buttiamo fra le fiamme, signore?»
Con uno scatto improvviso, sguainò la spada e recise il capo alla più vi-
cina delle vittime. Il sangue zampillò da una vena del collo, schizzandogli
sulle gambe e sui piedi. La testa cadde a terra con un leggero tonfo. Prese a
calci il corpo ancora in preda agli spasmi fin quando non giacque esanime.
«Uccidete queste sporche eretiche, dopodiché bruciate i corpi e il gra-
naio. Ci siamo attardati anche troppo.»

CAPITOLO 21

Alaïs si svegliò appena la luce dell'alba cominciò a filtrare nella stanza.


Per un attimo non riuscì a ricordare come mai si trovasse in camera del
padre. Si sedette e distese le membra, in attesa che il ricordo del giorno
precedente le tornasse alla mente vivido e forte.
Durante le lunghe ore fra la mezzanotte e lo spuntare del giorno, a un
certo punto aveva preso una decisione. Malgrado la notte tormentata, ave-
va la mente fresca come un ruscello di montagna. Non poteva starsene se-
duta con le mani in mano, ad aspettare che suo padre tornasse. Chissà quali
sarebbero state le conseguenze se avesse indugiato ancora. Quando le ave-
va parlato degli obblighi sacri verso la Noublesso de los Seres e del segreto
che custodiva, il padre non aveva lasciato dubbi sul fatto che il suo onore e
la sua gloria risiedevano nell'abilità di adempiere i propri voti. Il compito
di Alaïs era di cercarlo e di raccontargli l'accaduto, quindi di rimettere la
questione nelle sue mani.
Molto meglio agire che non fare nulla.
Alaïs andò alla finestra e aprì le persiane per lasciare entrare l'aria del
mattino. La Montagne Noire in lontananza scintillava purpurea nella luce
densa dell'alba, forte e immutabile. La vista dei monti rafforzò la sua deci-
sione. Il mondo la chiamava a sé.
Era rischioso per una donna viaggiare da sola. Testarda, l'avrebbe defini-
ta suo padre. Ma era un'ottima cavallerizza, veloce e impulsiva, ed era in
grado di seminare qualsiasi gruppo di routiers, ossia di banditi. Inoltre, a
quanto sapeva, non si erano verificate aggressioni nei territori del visconte
Trencavel.
Alaïs portò la mano alla ferita dietro la testa, la prova che qualcuno l'a-
veva ferita di proposito. Se era giunta la sua ora, allora meglio morire con
la spada sguainata che starsene seduta ad aspettare che il nemico colpisse
di nuovo.
Prese il lume freddo dal tavolo e scorse la sua immagine riflessa nello
specchio striato di nero. Era pallida, aveva la pelle bianca come il latte e
gli occhi lucidi per la stanchezza. Ma scorse sul viso una risolutezza mai
avuta prima.

Alaïs avrebbe preferito non dover tornare in camera, ma non aveva scel-
ta. Scavalcò François prestando attenzione a non svegliarlo, attraversò la
corte e si diresse verso le sue stanze. Non c'era nessuno nei paraggi.
La fedele serva di Oriane, Guirande, dormiva per terra davanti alla porta
della camera di sua sorella; quando Alaïs la oltrepassò in punta di piedi, il
suo bel viso imbronciato era immerso nel sonno.
Dal silenzio che l'accolse appena entrata nella stanza intuì che la balia
era andata via. Era probabile che non l'avesse trovata al proprio risveglio e
avesse tagliato la corda.
Alaïs si mise all'opera, senza perdere tempo. Il successo del piano di-
pendeva dalla sua abilità nel far credere a tutti che era troppo debole per
allontanarsi dal castello. Nessuno doveva sapere che era diretta a Montpel-
lier.
Prese dal guardaroba il vestito da caccia più leggero che aveva, fulvo
come la pelliccia di scoiattolo, con maniche grigio chiaro, attillate ma am-
pie sotto le braccia, che terminavano a punta di diamante. Legò una sottile
cintura di cuoio alla vita, alla quale attaccò della frutta fresca e la borsa da
caccia invernale.
Infilò gli stivali, che arrivavano sotto il ginocchio, strinse i lacci di cuoio
nella parte più alta, in modo che reggessero un secondo coltello, quindi si-
stemò la fibbia e indossò una semplice mantella marrone con il cappuccio,
senza rifiniture sul bordo.
Quando fu vestita, prese qualche pietra preziosa e dei gioielli dallo scri-
gno, tra cui la collana di eliolite, l'anello e il girocollo di turchesi. Avrebbe
potuto barattarli o usarli per comprare un passaggio sicuro o un riparo, so-
prattutto una volta varcato il confine delle terre del visconte Trencavel.
Alla fine, quando fu certa di non aver dimenticato nulla, recuperò la
spada che teneva nascosta sotto il letto e che non toccava dal giorno delle
nozze. Afferrò saldamente l'arma con la destra e la sollevò dinanzi a sé,
posò la lama sul palmo della mano e la esaminò attentamente. Era ancora
dritta e in buone condizioni, nonostante il disuso. Disegnò un otto nell'aria,
ricordandosi quanto fosse pesante e tagliente. Sorrise. Tenerla in mano le
dava una bella sensazione.

Alaïs entrò in cucina di soppiatto e chiese apertamente a Jacques di darle


pane, fichi, pesce sotto sale, una caciotta di formaggio e un fiasco di vino.
Come sempre, il cuoco le diede molto più di quanto avesse chiesto. Per
una volta, Alaïs apprezzò la sua generosità.
Svegliò la serva, Rixende, le sussurrò un messaggio che doveva recapi-
tare a dama Agnès: Alaïs si sentiva meglio e avrebbe raggiunto le altre
donne del castello nel Solar dopo la terza. Rixende sembrò sorpresa, ma
non fece commenti. Ad Alaïs non piaceva questa parte dei suoi doveri e
chiedeva di esserne dispensata ogni volta che poteva. Quando era in com-
pagnia delle altre donne sì sentiva in gabbia e le insulse chiacchiere da un-
cinetto la annoiavano. Quel giorno, tuttavia, le sarebbero servite a dimo-
strare che aveva intenzione di tornare allo Château.
Alaïs sperava che non si accorgessero troppo presto della sua assenza.
Se tutto fosse andato bene, solo quando dalla cappella fossero rintoccati i
vespri, avrebbero capito che non era rientrata e avrebbero dato l'allarme.
Per allora sarò già lontana.
«Non andare da dama Agnès finché non ha rotto il digiuno, Rixende»
ordinò. «Aspetta che i primi raggi di sole colpiscano la parete ovest della
corte, chiaro? Oc? Prima di allora, se qualcuno viene a cercarmi, anche il
servitore di mio padre, di' che sono andata a fare una cavalcata per i campi
intorno a Sant-Miquel.»
La scuderia si trovava all'angolo nord-orientale della corte, fra la Tour
des le Casernes e la Tour du Major. I cavalli scalpitarono e drizzarono le
orecchie all'ingresso di Alaïs, nitrivano con delicatezza nella speranza di
ottenere un po' di fieno. Alaïs si fermò alla prima posta e accarezzò dolce-
mente il largo muso di una giumenta grigia. La criniera e il garrese erano
screziati di ispide setole bianche.
«Non oggi, vecchia mia» disse. «Non posso chiederti tanto.»
L'altra sua giumenta si trovava nella posta accanto. La cavalla araba di
sei anni, Tatou, era stata una sorpresa da parte del padre, un regalo di noz-
ze. Saura, del colore delle ghiande in inverno, con la coda e la criniera
bianche, nodelli paglierini e chiazze bianche su tutte e quattro le zampe.
Tatou arrivava all'altezza delle spalle di Alaïs, aveva il tipico muso schiac-
ciato della razza alla quale apparteneva, ossa robuste, dorso saldo e caratte-
re docile. Ma soprattutto era dotata di grande resistenza e velocità.
Alaïs notò con sollievo che nella scuderia c'era soltanto Amiel, il figlio
più grande del maniscalco, che sonnecchiava in mezzo al fieno dall'altro
lato della stalla. Quando la vide, balzò in piedi e si scusò, imbarazzato per
il fatto di essere stato sorpreso a dormire.
Alaïs tagliò corto.
Amiel controllò gli zoccoli e i ferri della cavalla per accertarsi che fosse
pronta per essere cavalcata, quindi sistemò la gualdrappa, la sella da viag-
gio, come gli aveva chiesto Alaïs, anziché quella da caccia, e infine le bri-
glie. Alaïs avvertiva un senso di oppressione in petto. Trasaliva al minimo
rumore e si voltava appena udiva una voce provenire dalla corte.
Soltanto quando il ragazzo ebbe finito, Alaïs estrasse la spada da sotto la
mantella.
«La lama è smussata» disse.
Si fissarono. Senza proferire parola, Amiel prese la spada e la portò al-
l'incudine della fornace. Il fuoco ardeva, alimentato giorno e notte da ra-
gazzi che trasportavano con fatica da una parte all'altra della fucina pesanti
e appuntiti fasci di rami tagliati.
Alaïs osservò le scintille sprizzare dall'incudine, vide le spalle contratte
di Amiel mentre portava il martello alla lama, affilandola, spianandola e
bilanciandola.
«È un'ottima spada, dama Alaïs» affermò in tono pacato. «Non la tradi-
rà, anche se... prego Dio che non abbia bisogno di usarla.»
Alaïs sorrise. «Ieu tanben.» Anch'io.
La aiutò a salire in sella e la accompagnò dall'altro lato della corte. Con
il cuore in gola, Alaïs temeva che qualcuno la vedesse proprio allora e
mandasse all'aria il piano.
Ma non c'era nessuno e raggiunsero presto la Porta Est.
«Buona fortuna, signora» sussurrò Amiel, mentre Alaïs gli infilava un
sol nella mano. Le sentinelle aprirono i cancelli e, con il cuore che batteva
forte, Alaïs incitò Tatou ad attraversare il ponte fino alle strade di Carcas-
sonne, avvolte dalla luce del primo mattino.
Non appena si fu allontanata dalla Porte Narbonnaise, Alaïs lasciò le
briglie su Tatou.
Libertat.
Cavalcava verso est, in direzione del sole che sorgeva, e si sentiva in
armonia con il mondo. Il vento le tirava i capelli indietro e riportava un po'
di colore sulle guance. Mentre Tatou percorreva al galoppo le pianure,
Alaïs si domandava se fosse quella la sensazione che si provava quando
l'anima abbandonava il corpo e intraprendeva il viaggio di quattro giorni
verso il paradiso. Era quel senso di grazia divina, di trascendenza, di strap-
parsi di dosso tutto ciò che è materiale fino a restare soltanto anima, che si
provava?
Sorrise. I parfaits dicevano che un giorno tutte le anime sarebbero state
salvate e tutte le domande avrebbero trovato risposta in paradiso. Per il
momento poteva aspettare. Doveva ancora portare a termine troppi compiti
sulla terra per pensare di poterla lasciare.
A mano a mano che avanzava, tutti i pensieri riguardo a Oriane e al ca-
stello svanirono insieme alla paura. Era libera. Alle sue spalle, le mura e le
torri color sabbia della Cité diventavano sempre più piccole, fino a scom-
parire del tutto.

CAPITOLO 22

TOULOUSE
Martedì, 5 luglio 2005

All'aeroporto Blagnac di Toulouse, l'addetto alla sicurezza prestò più at-


tenzione alle gambe di Marie-Cécile de l'Oradore che ai passaporti degli
altri passeggeri.
Gli uomini si voltavano a guardarla mentre attraversava l'austera distesa
di piastrelle grigie e bianche.
Capelli neri pettinati alla perfezione, giacca e gonna rosso porpora, ca-
micetta bianca appena stirata. Tutto la faceva apparire come una persona
importante, una che non era solita fare la fila o essere lasciata ad aspettare.
Il solito autista l'attendeva agli arrivi, con il completo scuro saltava subi-
to all'occhio in mezzo alla folla di parenti e turisti in maglietta e calzonci-
ni. Mentre si avviavano all'auto, Marie-Cécile sorrise e gli chiese come
stesse la famiglia, anche se aveva la mente altrove. Quando accese il cellu-
lare, vide che c'era un messaggio di Will e lo cancellò.
Mentre l'auto procedeva lenta nel traffico sulla rocade che circondava
Toulouse, Marie-Cécile si concesse qualche attimo di relax. La cerimonia
della sera precedente era stata eccitante come non mai. Ora che sapeva a-
perta la caverna, si sentiva diversa, appagata dal rituale e sedotta dal potere
ereditato dal nonno. Quando aveva levato in alto le mani e aveva pronun-
ciato la formula, aveva sentito energia pura scorrere nelle vene.
Persino il compito di mettere a tacere Tavernier, un iniziato che si era
dimostrato inaffidabile, era stato portato a termine senza difficoltà. A patto
che gli altri non parlassero, ed era sicura che nessuno lo avrebbe fatto, non
ci sarebbe stato nulla da temere. Marie-Cécile non aveva perso tempo e
non gli aveva dato modo di difendersi. Per quanto la riguardava, la trascri-
zione dell'intervista fattagli da una giornalista era una prova sufficiente.
Eppure... Marie-Cécile aprì gli occhi.
C'erano alcuni aspetti della faccenda che la turbavano. Il modo in cui
l'indiscrezione di Tavernier era stata scoperta; il fatto che gli appunti della
giornalista fossero sorprendentemente sintetici e coerenti; il fatto che la
giornalista stessa fosse scomparsa.
Se c'era una cosa che detestava erano le coincidenze. Non c'era alcun
motivo di mettere in relazione la caverna scoperta al Pic de Soularac con
un'esecuzione già pianificata e in seguito portata a termine a Chartres, ep-
pure nella sua mente le due cose erano collegate.
L'auto rallentò. Marie-Cécile vide che l'autista si era fermato per prende-
re il biglietto dell'autostrada. Bussò al vetro. «Pour le péage» disse, pas-
sandogli una banconota da cinquanta avvolta fra le dita curate. Non voleva
lasciare tracce.
Marie-Cécile aveva un affare da sbrigare ad Avignonet, circa trenta chi-
lometri a sud-est di Toulouse. Da lì avrebbe proseguito per Carcassonne.
L'appuntamento era fissato per le nove, ma lei voleva arrivare con un po' di
anticipo. Quanto si sarebbe trattenuta a Carcassonne dipendeva dall'uomo
che stava per incontrare.
Accavallò le gambe lunghe e sorrise. Era impaziente di verificare se quel
tizio fosse all'altezza della propria reputazione.

CAPITOLO 23

CARCASSONNE

Pochi minuti dopo le dieci, un uomo di nome Audric Baillard uscì dalla
stazione ferroviaria di Carcassonne e si avviò verso il centro. Era esile e il
vestito chiaro gli conferiva un'aria distinta, seppur antiquata. Camminava
di buon passo, fra le dita sottili teneva, come un'asta, un lungo bastone da
passeggio. Il cappello panama gli riparava gli occhi dal sole.
Baillard attraversò il Canal du Midi e oltrepassò il sontuoso Hotel du
Terminus, con i pomposi specchi art déco e le porte di metallo girevoli.
Carcassonne era cambiata parecchio. Poteva vederlo tutto intorno a sé,
mentre percorreva la strada pedonale che tagliava il cuore della Basse Vil-
le. Nuovi negozi di abbigliamento, pâtisseries, librerie e gioiellerie. Si re-
spirava un'atmosfera di benessere. Era di nuovo una meta. Una città al cen-
tro del mondo.
Il lastricato bianco di place Carnot brillava alla luce del sole. Era tutto
diverso. La magnifica fontana del diciannovesimo secolo era stata restau-
rata, l'acqua zampillava limpida. La piazza era punteggiata di sedie e tavo-
lini colorati dei caffè. Baillard guardò in direzione del Bar Félix e sorrise
alle solite, malconce tende da sole spiegate sotto i tigli. Almeno qualcosa
era rimasto invariato.
Infilò una stradina secondaria stretta e affollata che conduceva al Pont
Vieux. I segnali marroni che indicavano la fortificata Cité medievale erano
un'ulteriore testimonianza del fatto che la città, un tempo inserita fra i
"vaut le détour" della guida Michelin, fosse diventata una località turistica
internazionale, riconosciuta come patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.
Uscito dal vicolo, se la trovò di fronte. Baillard provò come sempre la
forte sensazione di essere tornato a casa, anche se il posto non era più lo
stesso.
Una balaustra ornamentale era stata posta all'entrata del Pont Vieux per
bloccare il traffico. Una volta bisognava schiacciarsi lungo il parapetto per
evitare la fiumana di camper, roulotte, camion e motociclette che percorre-
vano scoppiettando lo stretto ponte. Allora, le lastre di pietra portavano le
cicatrici dell'inquinamento decennale. Adesso, invece, la balaustra era pu-
lita. Forse anche troppo. Ma la malconcia statua di Gesù era ancora appesa
alla croce come una bambola di pezza; situata a metà del ponte, segnava il
confine tra la Bastide Sant-Louis e la vecchia città fortificata.
Tirò fuori dal taschino un fazzoletto giallo e si asciugò con cura la faccia
e la fronte, sotto il bordo del cappello. Gli argini del fiume erano ordinati e
ricchi di vegetazione, sentieri marroncini serpeggiavano fra alberi e cespu-
gli. Sulla riva nord, in mezzo agli ampi prati, c'erano aiuole curate, piene
di enormi fiori esotici. Signore ben vestite erano sedute sulle panchine di
metallo all'ombra degli alberi, a guardare l'acqua e a chiacchierare, con i
cagnetti che ansimavano pazienti accanto a loro o azzannavano alle cavi-
glie qualche sporadico passante che faceva jogging.
Il Pont Vieux portava dritto al Quartier de la Trivalle, che da grigio sob-
borgo si era trasformato nell'ingresso della Cité medievale. Nere balaustre
di ferro battuto erano state disposte a intervalli lungo i marciapiedi per im-
pedire alle macchine di parcheggiare. Pansé dai vivaci colori arancio, por-
pora e cremisi straripavano dai vasi come i capelli che cadono sulla schie-
na di una ragazza. Tavolini e sedie cromati scintillavano fuori dai caffè e
lampioni a spirale con la punta di rame avevano rimpiazzato le vecchie e
ordinarie illuminazioni stradali. Persino gli attempati tombini di scarico in
ferro e plastica, che gocciolavano e si deformavano sotto la pioggia batten-
te o il caldo asfissiante, erano stati sostituiti da eleganti canali di scolo in
metallo satinato con i bordi dentellati.
La boulangerie e l'alimentation générale erano sopravvissute, così come
l'Hotel du Pont Vieux, mentre la boucherie ora vendeva pezzi di antiqua-
riato e la merceria era diventata un emporio New Age, che dispensava cri-
stalli, tarocchi e libri sull'illuminazione spirituale.
Quanti anni erano passati dall'ultima volta che era stato lì? Aveva perso
il conto.
Baillard svoltò a destra in rue de la Gaffe e notò come anche questa a-
vesse preso le sembianze di una strada residenziale. Larga abbastanza da
consentire il passaggio a una sola macchina per volta, era più un vicolo che
una strada. All'angolo c'era una galleria d'arte, La Maison du Chevalier,
con due ampie finestre arcuate protette dalle inferriate, che ricordavano le
cancellate di Hollywood. Sulla parete c'erano sei scudi di legno dipinto e
vicino alla porta un anello di metallo che una volta serviva a legare i caval-
li e che ora la gente usava per i cani.
Diverse porte erano verniciate di fresco. I numeri civici erano in cerami-
ca bianca con bordi blu e gialli, circondati da ghirigori di minuscoli fiorel-
lini. Il turista di turno con lo zaino in spalla, la cartina e la borraccia in
mano, era fermo a chiedere indicazioni per la Cité in un francese zoppican-
te, ma in generale c'era poco movimento.

Jeanne Giraud abitava in una casetta il cui retro si affacciava sugli erti
pendii erbosi che conducevano fino ai bastioni medievali. Sullo stesso lato
della strada, solo alcune abitazioni erano state rimodernate. Altre erano
abbandonate o avevano porte e finestre chiuse con assi di legno. Una cop-
pia di anziani stava seduta fuori, sulle sedie della cucina. Quando passò,
Baillard sollevò il cappello e augurò loro buona giornata. Conosceva di vi-
sta alcuni dei vicini di Jeanne, aveva stabilito con loro una conoscenza su-
perficiale nel corso degli anni.
Jeanne era seduta all'ombra davanti alla porta d'ingresso, in attesa del
suo arrivo. Aveva un aspetto ordinato e dinamico come al solito, indossava
una sobria camicetta a maniche lunghe e una gonna nera dritta. Portava i
capelli legati in una crocchia sulla nuca. Aveva la consueta aria da profes-
soressa, quale era stata fino alla pensione, vent'anni prima. Da quando la
conosceva non l'aveva mai vista abbigliata in modo meno perfetto e forma-
le di quello.
Audric sorrise, al ricordo di quanto Jeanne fosse curiosa i primi tempi,
sempre a fare domande. Dove abitava? Cosa faceva nei lunghi mesi in cui
non si vedevano? Dove andava?
In viaggio, le rispondeva. A svolgere ricerche e a raccogliere materiale
per i suoi libri, a far visita agli amici.
Quali amici, chiedeva lei.
Compagni, quelli con i quali aveva studiato e condiviso tante esperienze.
Le aveva parlato della sua amicizia con Grace.
Qualche tempo dopo, le aveva rivelato che viveva in un paesino sui Pi-
renei, non lontano da Montségur. Ma le aveva raccontato poco altro della
sua vita, e con il passare degli anni lei aveva smesso di fare domande.
Jeanne era una ricercatrice intuitiva e metodica, diligente, scrupolosa e
distaccata, tutte qualità inestimabili. Negli ultimi trent'anni, aveva collabo-
rato con Baillard a ogni singolo libro, in special modo all'ultima opera in-
compiuta, la biografia di una famiglia catara vissuta a Carcassonne nel tre-
dicesimo secolo.
Per Jeanne era stata una sorta di indagine investigativa. Per Audric, un
lavoro appassionato.
Jeanne alzò la mano quando lo vide arrivare. «Audric» disse con un sor-
riso. «Da quanto tempo.»
Baillard le prese le mani fra le sue. «Bonjorn.»
L'amica arretrò di un passo per guardarlo da capo a piedi. «Sei in for-
ma.»
«Tè tanben» rispose. Anche tu.
«Alla buon'ora.»
Annuì. «Il treno è arrivato puntuale.»
Jeanne sembrò scandalizzata. «Sei venuto a piedi dalla stazione?»
«Non è tanto lontano» replicò con un sorriso. «Lo ammetto, volevo ve-
dere come era cambiata Carcassona dall'ultima volta che sono stato qui.»
Baillard la seguì nel fresco della casa. Le piastrelle marroni e beige sul
pavimento e sulle pareti davano all'ambiente un'aria cupa e antiquata. Al
centro della stanza c'era un tavolino ovale, le cui gambe malridotte spunta-
vano da sotto una tovaglia di tela cerata gialla e blu. Nell'angolo c'era uno
scrittoio, con sopra appoggiata una vecchia macchina da scrivere, accanto
alle portefinestre che si affacciavano su un terrazzino.
Jeanne arrivò dalla dispensa portando su un vassoio una brocca d'acqua,
una vaschetta con il ghiaccio, un piatto di patatine, rustici piccanti e una
ciotola di aspre olive verdi con tanto di piattino per sputare i noccioli. Pre-
stando attenzione, appoggiò il vassoio sul tavolo e raggiunse la stretta
mensola di legno che occupava l'intera parete all'altezza delle spalle. Prese
una bottiglia di Guignolet, un liquore amarognolo al gusto di ciliegia che,
come Baillard sapeva bene, conservava per le occasioni speciali.
Il ghiaccio sbatteva contro il bicchiere tintinnando, mentre il liquido ros-
so vivo colava sui cubetti. Per un attimo rimasero in piacevole silenzio,
come avevano fatto molte volte in passato. Dall'altoparlante di una navetta
per turisti, che effettuava l'abituale giro intorno alle mura, arrivò lo stralcio
della spiegazione di una guida, formulata in diverse lingue.
Audric appoggiò con cura il bicchiere sul tavolo. «Allora» esordì. «Rac-
contami cosa è successo.»
Jeanne si avvicinò al tavolo con la sedia. «Come sai, mio nipote Yves
lavora nella Police Judiciaire, département de l'Ariège, con base a Foix.
Ieri, è stato chiamato in una zona di scavi archeologici sui monti del Sabar-
thès, nei pressi del Pic de Soularac, dove erano stati rinvenuti due schele-
tri. Yves era sorpreso che i suoi superiori la considerassero una potenziale
scena di un crimine, perché era palese, secondo lui, che gli scheletri si tro-
vavano lì da un periodo di tempo considerevole.» Fece una pausa. «Ov-
viamente, non è stato Yves a interrogare la donna che aveva trovato i cor-
pi, ma era presente. Yves sa qualcosa riguardo al lavoro che svolgo per te,
di sicuro abbastanza da capire che la scoperta di quella caverna può avere
un certo interesse.»
Audric trattenne il fiato. Per tanti anni aveva provato a immaginare co-
me si sarebbe sentito in quel momento. Non aveva mai perso la speranza di
sapere un giorno, finalmente, cosa fosse accaduto davvero in quelle ultime
ore.
Erano trascorsi decenni. Aveva guardato le stagioni susseguirsi in un ci-
clo infinito; il verde della primavera trasformarsi nell'oro dell'estate; i colo-
ri bruniti dell'autunno scomparire sotto il candore austero dell'inverno; il
primo disgelarsi dei torrenti di montagna in primavera.
Ma non aveva ancora ricevuto un segno. E ara? E ora?
«Yves è entrato nella caverna?» domandò.
Jeanne annuì.
«Cosa ha visto?»
«Un altare. Dietro di esso, scolpito nella roccia, il disegno del labirinto.»
«E i corpi? Dove si trovavano?»
«In un sepolcro, nient'altro che un avvallamento del terreno, in realtà, di
fronte all'altare. C'erano alcuni oggetti fra gli scheletri, ma aveva troppa
gente davanti a sé per riuscire a vederli come si deve.»
«Quanti erano?»
«Due. Due scheletri.»
«Ma allora...» Si fermò. «Non importa, Jeanne. Ti prego, continua.»
«Sotto i... sotto di essi, ha trovato questo.»
Jeanne fece scorrere un piccolo oggetto sul tavolo.
Audric restò di sasso. Dopo tutto quel tempo, aveva paura di toccarlo.
«Ieri, nel tardo pomeriggio, Yves ha telefonato dall'ufficio postale di
Foix. La linea era disturbata e non si sentiva molto bene, ma sono riuscita
a capire che aveva preso l'anello perché non si fidava delle persone che lo
stavano cercando. Sembrava preoccupato.» Jeanne esitò. «O meglio, spa-
ventato, Audric. Le cose non stavano andando secondo la prassi. Le proce-
dure abituali non venivano rispettate, nel sito c'era un sacco di gente che
non avrebbe dovuto trovarsi lì. Sussurrava, come per timore che qualcuno
lo sentisse.»
«Chi altro è entrato nella caverna?»
«Non ne ho idea. Gli agenti in servizio? Il suo superiore? Qualcun altro
forse.»
Baillard guardò l'anello sul tavolo, poi allungò la mano e lo prese. Te-
nendolo fra il pollice e l'indice, lo inclinò verso la luce. Il fine disegno del
labirinto inciso nella parte interna era chiaramente visibile.
«È il suo anello?» chiese Jeanne.
Audric non se la sentiva di rispondere. Si meravigliò della casualità che
aveva portato l'anello nelle sue mani. Si domandò se fosse una casualità.
«Yves ti ha detto dove avrebbero portato i corpi?»
Scosse il capo.
«Puoi chiederglielo? E puoi chiedergli anche se può stilare un elenco di
tutte le persone che si trovavano lì ieri, quando la caverna è stata aperta?»
«Glielo chiederò. Sono certa che farà il possibile per aiutarci.»
Baillard infilò l'anello al pollice. «Mi raccomando, di' a Yves che gli so-
no davvero grato. Gli sarà costato caro impossessarsi di questo. Non ha i-
dea di quanto la sua prontezza possa essere stata importante.» Sorrise.
«Cos'altro hanno rinvenuto insieme ai corpi?»
«Un pugnale, una piccola borsa di cuoio senza niente dentro, una lampa-
da sul...»
«Vuèg?» esclamò incredulo. «Vuota? Ma non può essere.»
«A quanto pare l'ispettore Noubel, il suo diretto superiore, ha insistito
molto su questo punto quando ha interrogato quella donna. Yves ha detto
che è stata inflessibile. Ha affermato di non aver toccato nulla, a parte l'a-
nello.»
«E tuo nipote pensa che sia la verità?»
«Non me lo ha detto.»
«Allora... deve averlo preso qualcun altro» mormorò fra sé e sé, la fronte
corrugata per la concentrazione. «Cosa ti ha raccontato Yves di questa
donna?»
«Pochissimo. Che è inglese, sulla ventina, una volontaria, non un'ar-
cheologa. Era venuta a Foix su invito di un'amica, la seconda responsabile
degli scavi.»
«Come si chiama?»
«Taylor, mi pare.» Aggrottò le sopracciglia. «No, non Taylor. Forse era
Tanner. Sì, esatto. Alice Tanner.»
Il tempo si bloccò. «Es vertat?» Davvero? Quel nome riecheggiò nella
testa di Audric. «Es vertat?» ripeté con un sussurro.
Era stata lei a prendere il libro? Lo aveva riconosciuto. No, no. Si fermò.
Non aveva senso. Se aveva preso il libro, perché non anche l'anello?
Baillard poggiò le mani aperte sul tavolo per farle smettere di tremare,
poi guardò fisso l'amica.
«Credi di poter chiedere a Yves se ha il suo indirizzo? Se sa dove ma-
domaisèla...» Troncò la frase, incapace di continuare.
«Posso chiederglielo» rispose Jeanne, quindi aggiunse: «Ti senti bene,
Audric?».
«È la stanchezza.» Abbozzò un sorriso. «Nient'altro. Non ti preoccupa-
re.»
«Mi aspettavo che fossi più... contento. Per te questa scoperta è, o alme-
no dovrebbe essere, il culmine di tutti gli anni di lavoro.»
«È un'emozione forte.»
«Più che emozionato, sembri sconvolto.»
Baillard immaginò l'aspetto che doveva avere: occhi troppo lucidi, volto
pallidissimo, mani tremanti.
«Sono emozionato» ribatté. «E molto grato a Yves e anche a te, natu-
ralmente, ma...» Tirò un respiro profondo. «Non potresti per caso telefona-
re subito a Yves? Potrei parlargli direttamente io, o magari incontrarlo di
persona.»
Jeanne si alzò e andò nell'ingresso, dove c'era il telefono appoggiato su
un tavolino in fondo alle scale.
Baillard guardò dalla finestra i pendii che portavano alle mura della Cité,
Gli venne in mente un'immagine di lei che cantava mentre lavorava, dei
fasci luminosi che filtravano attraverso i rami degli alberi e creavano
chiazze di luce sull'acqua. Tutto intorno, i suoni e gli odori della primave-
ra; puntini colorati nel sottobosco, blu, rosa e gialli, la terra umida e il pro-
fumo inebriante dei bossi su entrambi i lati del sentiero roccioso. La pro-
messa di caldi giorni estivi in arrivo.
Sussultò quando udì Jeanne richiamarlo dai dolci colori del passato.
«Non risponde» lo informò.

CAPITOLO 24

CHARTRES

A Chartres, nella cucina della casa in rue du Cheval Blanc, Will Franklin
trangugiava il latte direttamente dalla bottiglia di plastica, nel tentativo di
togliere il sapore stantio di brandy dalla bocca.
La governante aveva apparecchiato la tavola per la colazione quella mat-
tina presto prima di smontare. La moka era sul fornello. Will pensò che il
caffè fosse per François-Baptiste, dato che la governante non era solita
prendersi un simile disturbo per lui quando Marie-Cécile non c'era. Ipotiz-
zò che François-Baptiste stesse ancora dormendo, malgrado l'ora, poiché
tutto era immacolato, nemmeno un cucchiaio o un coltello fuori posto. Due
scodelle, due piatti, due tazze con tanto di piattino. Accanto a una grossa
ciotola c'erano quattro diversi tipi di marmellata e un vasetto di miele. Will
sollevò il tovagliolo bianco. Scoprì pesche, pesche noci, melone e mele.
Non aveva appetito. La sera precedente, per ammazzare il tempo in atte-
sa che Marie-Cécile tornasse, si era preparato un drink, al quale ne erano
seguiti un altro e un altro ancora. A mezzanotte passata, finalmente Marie-
Cécile si era fatta viva, ma a quel punto lui era già ubriaco. Marie-Cécile
invece era al culmine dell'eccitazione, smaniosa di rimediare alla discus-
sione che avevano avuto. Non si erano addormentati prima dell'alba.
Accartocciò il pezzo di carta. Non si era nemmeno degnata di scrivere il
biglietto di suo pugno. Ancora una volta, era toccato alla governante in-
formarlo che la padrona era andata fuori città per affari e che sperava di
tornare per il weekend.
Will e Marie-Cécile si erano conosciuti all'inaugurazione di una galleria
d'arte a Chartres quella primavera, tramite amici di amici dei genitori di
Will. Lui si era preso un semestre di vacanza da passare in giro per l'Euro-
pa; lei era uno dei finanziatori della mostra. Era stata Marie-Cécile a fargli
delle avances, in realtà. Attratto e lusingato da quelle attenzioni, Will si era
ritrovato a raccontare la storia della sua vita davanti a una bottiglia di
champagne. Avevano lasciato la galleria e da allora erano rimasti insieme.
Almeno in teoria, pensò con amarezza. Aprì il rubinetto e si spruzzò
l'acqua fredda sulla faccia. Quella mattina l'aveva chiamata, per dirle cosa
non lo sapeva con esattezza, ma il suo cellulare era spento. Era stufo di
quei continui alti e bassi, di non sapere mai che ruolo avesse nella vita del-
la sua compagna.
Si affacciò alla finestra e fissò il cortiletto sul retro della casa. Come tut-
to il resto, era stato studiato alla perfezione, in modo molto accurato. Nien-
te era secondo natura. Ciottoli grigio chiaro, grossi vasi di terracotta con
alberi di limoni e aranci lungo la parete rivolta a sud. Le cassette sui da-
vanzali erano piene di alti gerani rossi, i petali già aperti per il sole. L'edera
ricopriva il cancelletto di ferro battuto, vecchio di secoli. Tutto esprimeva
durevolezza. Tutto sarebbe rimasto uguale anche se Will fosse andato via.
Era come se si fosse appena svegliato e avesse scoperto che il mondo re-
ale non era come credeva. La cosa più intelligente da fare era ridurre le
perdite, senza rancori, e passare ad altro. Per quanto fosse deluso dalla loro
relazione, Marie-Cécile era stata in ogni caso cortese e generosa con lui e,
a dirla tutta, anche coerente. Erano state le sue sciocche illusioni a ridurlo
così. Lei non aveva colpa. Non aveva infranto nessuna promessa.
Soltanto allora Will colse l'ironia della situazione: aveva trascorso gli ul-
timi tre mesi nello stesso genere di casa in cui era cresciuto e dalla quale
era fuggito con la scusa del viaggio in Europa. Malgrado le differenze cul-
turali, l'atmosfera di casa de l'Oradore gli ricordava quella della casa dei
suoi genitori, elegante e raffinata, un luogo creato più per intrattenere e o-
stentare che per abitarci. Proprio come in casa dei genitori, Will si ritrova-
va a passare un mucchio di tempo da solo, trascinandosi da una stanza
immacolata all'altra.
Quel viaggio era l'occasione per decidere cosa voleva fare nella vita.
Dapprincipio aveva programmato di andare in Spagna, passando per la
Francia, a raccogliere le idee e a trovare l'ispirazione, ma da quando aveva
messo piede a Chartres non aveva scritto neanche una riga. I suoi argo-
menti erano protesta, rabbia e inquietudine, l'empia triade della vita ameri-
cana. In patria, trovava un mucchio di cose contro le quali inveire. Lì, era
rimasto a corto di parole. L'unico argomento che occupava la sua mente
era Marie-Cécile ed era anche l'unico argomento tabù.
Finì il latte e gettò la bottiglia nel cestino dell'immondizia. Lanciò un ul-
timo sguardo alla tavola e decise di uscire per colazione. Il pensiero di do-
ver fare una chiacchierata di cortesia con François-Baptiste gli dava il vol-
tastomaco.

Will attraversò il corridoio, L'ingresso dalle alte volte era immerso nel
silenzio, a parte il costante ticchettio dello sfarzoso orologio della nonna.
A destra delle scale, una piccola porta conduceva alle immense cantine
che si trovavano nel seminterrato. Will prese il giubbotto di jeans dal pila-
strino della balaustra ed era sul punto di uscire, quando notò che uno degli
arazzi era storto. Era spostato solo di pochi millimetri, ma nella perfetta
simmetria che dominava il resto dell'ingresso rivestito di pannelli, saltava
all'occhio.
Allungò una mano per raddrizzarlo, poi esitò. Vide un sottile fascio di
luce filtrare dal legno lucido, alla base del muro. Guardò la finestra sopra
la porta d'ingresso e le scale, nonostante sapesse che a quell'ora nell'atrio
non entrava il sole.
Sembrava che la luce arrivasse da dietro i pannelli. Perplesso, sollevò
l'arazzo dalla parete. Ben mimetizzata con il legno, c'era una porticina ta-
gliata a filo del rivestimento. Era chiusa da un piccolo chiavistello di otto-
ne incassato nel legno scuro ed era dotata di una maniglia circolare piatta,
simile a quella della porta di un campo da squash. Era tutto molto discreto.
Will provò a togliere il chiavistello. Era ben oliato, perciò scivolò con
facilità. Un lieve cigolio e la porta si aprì, scoprendo un odore penetrante
di luoghi sotterranei e scantinati nascosti. Con la mano sullo stipite, diede
una sbirciata e trovò subito la fonte di luce, una lampadina smerigliata in
cima a una ripida rampa di scale che scendeva nell'oscurità.
Trovò due interruttori proprio accanto all'entrata. Uno azionava la lam-
padina sopra la porta e l'altro una fila di fioche lampadine gialle a forma di
candele, agganciate a chiodi di metallo conficcati nel muro di pietra, sul la-
to sinistro delle scale. Da entrambi i lati, una corda blu, intrecciata e fatta
passare attraverso anelli metallici neri, fungeva da corrimano.
Scese il primo gradino. Il soffitto era basso, un misto di vecchi mattoni,
selce e pietra, a pochi centimetri dalla sua testa. Era un luogo angusto, ma
l'aria era fresca e pulita. Non aveva l'aspetto di un posto abbandonato.
Più andava giù e più faceva freddo. Aveva già fatto venti gradini, e ce
n'erano ancora. Non era umido, però, e sebbene non vedesse ventole o altri
mezzi di aerazione sembrava che da qualche parte arrivasse un flusso di a-
ria fresca.
Giunto in fondo alle scale, Will si ritrovò in un piccolo vestibolo. Sulle
pareti non c'era nulla, nessuna indicazione, soltanto le scale alle sue spalle
e una porta davanti a sé, che occupava tutto il passaggio in altezza e lar-
ghezza. Le lampadine proiettavano una luce gialla e malaticcia.
Avvertì una forte scarica di adrenalina quando si avvicinò alla porta.
La chiave ingombrante e antiquata girò senza resistenza nella serratura.
Una volta varcata la soglia, l'atmosfera cambiò del tutto. Niente più ce-
mento a terra. Al suo posto, un tappeto rosso bordeaux tanto spesso da in-
ghiottire il rumore dei suoi passi. L'illuminazione di tipo funzionale aveva
lasciato il posto a pomposi candelabri di metallo. Le pareti erano dello
stesso miscuglio di mattoni e pietra che c'era di sopra, ma qui erano ornate
da arazzi, immagini di cavalieri medievali, donne dal viso di porcellana e
preti incappucciati in tonache bianche, con il capo chino e le braccia tese.
C'era traccia di qualcos'altro nell'aria, adesso. Incenso, un odore dolce e
forte che gli fece tornare in mente, dopo tanto tempo, il Natale e la Pasqua
della sua infanzia.
Will si guardò alle spalle. La vista, al di là della porta aperta, delle scale
che riportavano in casa, lo rassicurò. Il breve corridoio era cieco, termina-
va con una pesante tenda di velluto appesa a una sbarra di ferro nero. Era
ricoperta di simboli ricamati in oro, un misto di geroglifici egiziani, dise-
gni astrologici e segni zodiacali.
Tese la mano e scostò la tenda.
Dietro di essa c'era un'altra porta, decisamente più vecchia. Fatta con lo
stesso legno scuro usato per il rivestimento dell'ingresso al piano superio-
re, i bordi decorati con ghirigori e motivi in legno. I pannelli centrali erano
del tutto disadorni, costellati solo dai buchi dei tarli, non più grandi di una
capocchia di spillo. Non vedeva maniglie né serrature, non c'era alcun mo-
do di aprirla.
L'architrave era coronato da sculture ornamentali di pietra, non di legno.
Will le tastò in cerca di qualche fermo. Doveva esserci una maniera per en-
trare. Ripeté la stessa operazione su entrambi gli stipiti: partendo dal basso
salì fino all'architrave per poi scendere dall'altro lato, e alla fine trovò
qualcosa. Un leggero infossamento poco sopra il pavimento.
Si accovacciò e premette con forza. Ci fu un rumore, secco e sordo, co-
me quello prodotto da una biglia che rimbalza su un pavimento piastrella-
to. Il meccanismo si mise in funzione e la porta si aprì.
Will si alzò, il respiro un po' affannato e le mani sudaticce. I peli dritti
sulla nuca e sulle braccia. Ancora un paio di minuti, si disse, e sarebbe u-
scito di lì. Voleva solo dare un'occhiata veloce. Niente di più. Con fermez-
za, mise la mano sulla porta e la spinse.
Era buio pesto, ma subito intuì di trovarsi in uno spazio vasto, forse una
cantina. L'odore di incenso bruciato era diventato più forte. Cercò a tastoni
qualche interruttore sulla parete, ma non ne trovò.
Pensò che se avesse tirato indietro la tenda sarebbe arrivata un po' di lu-
ce dal corridoio, così strinse l'ingombrante velluto in un nodo a otto e si
voltò, pronto ad affrontare qualunque cosa si fosse trovato di fronte.
La prima cosa che vide fu la sua ombra, lunga e sottile, proiettata oltre la
soglia. A un tratto, quando gli occhi si abituarono alla grigia oscurità, vide
finalmente quello che si nascondeva nel buio.
Si trovava all'ingresso di una lunga stanza rettangolare. Il soffitto a volta
era basso. Panche di legno in stile ecclesiastico, come quelle di un refetto-
rio, costeggiavano le pareti più lunghe a perdita d'occhio. Tutto intorno,
nel punto in cui il soffitto incontrava le pareti, c'era un fregio, un ripetersi
concatenato di simboli e parole. Somigliavano ai geroglifici che aveva vi-
sto sulla tenda di fuori.
Will si asciugò le mani sui jeans. Dritto davanti a sé, al centro della
stanza, vide un imponente blocco di pietra, simile a una tomba. Ci girò in-
torno, facendo scorrere la mano sulla superficie. Sembrava liscia, tranne
che per un grande motivo circolare nel mezzo. Si sporse in avanti per ve-
derlo meglio e seguì le linee con il dito. Un disegno fatto di cerchi via via
più piccoli, come gli anelli di Saturno.
Quando riuscì a mettere meglio a fuoco, notò che c'erano quattro lettere
incise nella pietra, una per ogni lato del rettangolo: una E in cima, una N e
una S una di fronte all'altra sui lati più lunghi e una O ai piedi. I quattro
punti cardinali?
Subito dopo, notò un piccolo blocco di pietra alto circa trenta centimetri,
posizionato alla base del blocco più grande, in corrispondenza della lettera
E. Era lievemente infossato nel mezzo, faceva pensare a un inginocchia-
toio per le esecuzioni.
Il pavimento intorno era più scuro che nel resto della stanza. Sembrava
umido, come se fosse stato strofinato da poco. Will si accucciò e sfregò la
macchia con il dito. Disinfettante o qualcosa di simile, un odore acre, co-
me di ruggine. C'era qualcosa incastrato sotto l'angolo del blocco di pietra.
Lo grattò con le unghie.
Era un brandello di stoffa, cotone o lino, dai bordi sfilacciati, come se si
fosse impigliato a un chiodo e si fosse strappato. In un angolo c'erano delle
macchioline marroni. Sembravano di sangue secco.
Will lasciò cadere la stoffa e corse via, sbatté la porta e sganciò la tenda
prima ancora che potesse rendersene conto. Si precipitò per il corridoio,
varcò la seconda porta e sfrecciò su per le scale finché non fu di nuovo nel-
l'ingresso.
Si piegò in due, con le mani sulle ginocchia, e cercò di riprendere fiato.
A un tratto pensò che qualunque cosa fosse successa lì dentro, non poteva
rischiare che qualcuno entrasse e capisse che era stato laggiù, perciò infilò
un braccio e spense le luci. Con le mani che tremavano rimise il chiavistel-
lo alla porta e l'arazzo al suo posto, in modo che non si vedesse niente dal-
l'esterno.
Per un istante, rimase lì impalato. L'orologio della nonna gli comunicò
che non erano trascorsi più di venti minuti.
Si guardò le mani, le girò sopra e sotto, come se non gli appartenessero.
Sfregò la punta del pollice e dell'indice, poi annusò. Odore di sangue.

CAPITOLO 25

TOULOUSE

Alice si svegliò con un forte mal di testa. Per un istante, non riuscì a ca-
pire dove si trovasse. Intravide con la coda dell'occhio la bottiglia vuota
sul comodino. Ben ti sta.
Si girò su un fianco e afferrò l'orologio.
Dieci e quarantacinque.
Emise un lamento e ricadde sul cuscino. Aveva la bocca maleodorante
come il portacenere di un pub e una patina acida di whisky sulla lingua.
Aspirina. Acqua.
Barcollò fino al bagno e fissò la sua immagine nello specchio. Non ave-
va una bella cera. La fronte era chiazzata da un caleidoscopio di lividi ver-
dastri, viola e gialli. Gli occhi erano cerchiati di nero. Aveva un vago ri-
cordo di quello che aveva sognato: un bosco, rami spogli ricoperti di
ghiaccio. Il labirinto disegnato su un pezzo di stoffa gialla? Non riusciva a
ricordare.
Anche il viaggio da Foix che aveva intrapreso la sera prima era confuso
nella sua mente. Non sapeva neanche perché si fosse recata a Toulouse an-
ziché a Carcassonne, che avrebbe dovuto essere la scelta più logica. Sbadi-
gliò. Foix, Carcassonne, Toulouse. Non sarebbe andata da nessuna parte se
non si fosse prima rimessa un po' in sesto. Si distese di nuovo sul letto e
aspettò che gli antidolorifici facessero effetto.
Dopo una ventina di minuti, si sentiva ancora frastornata, ma il martellio
agli occhi si era ridotto a un dolore sordo. Restò sotto il getto della doccia
fumante finché l'acqua non divenne fredda. Ripensò a Shelagh e al resto
della squadra. Si domandò cosa stessero facendo in quel momento. Di soli-
to si recavano al sito alle otto e ci rimanevano finché non faceva buio. Gli
scavi erano la loro vita. Non riusciva a immaginare come avrebbe fatto o-
gnuno di loro senza il solito tran tran.
Avvolta nel minuscolo asciugamano logoro dell'albergo, Alice controllò
il telefono per vedere se ci fossero messaggi. Ancora niente. La sera pre-
cedente era depressa per questo, adesso invece era seccata. Più di una vol-
ta, in dieci anni che si conoscevano, era capitato che Shelagh si chiudesse
per settimane in silenzi carichi di risentimento. Toccava sempre ad Alice
mettere a posto le cose, ma adesso era stufa.
Lascia che sia lei a fare il primo passo, per una volta.
Frugò nel beauty-case fin quando non trovò un vecchio tubetto di corret-
tore, usato pochissimo, con cui coprì i lividi più evidenti. Subito dopo ap-
plicò l'eye-liner e un velo di rossetto. Si asciugò i capelli con le mani. Infi-
ne scelse la gonna più comoda che aveva e un top blu nuovo, rimise tutto il
resto in valigia, quindi scese alla reception e lasciò la stanza, prima di an-
dare a esplorare la città.
Si sentiva ancora un po' acciaccata, ma una boccata d'aria fresca e una
buona dose di caffeina l'avrebbero rimessa in forma.

Dopo aver sistemato i bagagli in macchina, Alice decise di iniziare a


camminare senza una meta ben precisa. L'aria condizionata dell'auto che
aveva preso a nolo non era un granché, perciò il programma era di aspetta-
re che la temperatura scendesse prima di mettersi in viaggio per Carcas-
sonne.
Appena entrò nell'ombra screziata dei platani e diede uno sguardo ai ve-
stiti e ai profumi esposti nelle vetrine dei negozi, commciò a sentirsi me-
glio. Si vergognava di essersi comportata in quel modo la sera precedente.
Era stata semplicemente paranoica, aveva reagito davvero in modo ecces-
sivo. Quella mattina, l'ipotesi che qualcuno la stesse seguendo le sembrava
assurda. Toccò il foglietto con il numero di telefono che aveva in tasca.
Lui non era il frutto della tua immaginazione, però.
Alice scacciò quel pensiero. Voleva essere positiva, guardare avanti.
Godersi a pieno la gita a Tolosa.
Vagabondò per i vicoli e le stradine del centro storico, lasciandosi guida-
re dall'istinto. Le imponenti facciate rosa degli edifici di pietra e mattoni
erano raffinate e discrete. I nomi delle strade, delle fontane e dei monu-
menti rivelavano la lunga e gloriosa storia della città. Condottieri militari,
santi medievali, poeti del diciottesimo secolo, rivoluzionari del ventesimo
secolo, il nobile passato della città dall'epoca romana ai giorni nostri.
Alice entrò nella cattedrale di Saint-Etienne, anche per ripararsi un po'
dal sole. Adorava la pace e la tranquillità delle chiese e delle cattedrali, una
passione che aveva ereditato dai genitori: così trascorse una piacevole
mezz'ora a gironzolare, lesse i cartelli appesi ai muri e ammirò le vetrate
istoriate.
Dato che iniziava ad avere fame, Alice decise di terminare il giro con il
chiostro e di andare a cercare un posto dove pranzare. Aveva fatto soltanto
qualche passo, quando udì il pianto di un bambino. Si voltò, ma non vide
nessuno. Continuò a camminare, alquanto turbata. I singhiozzi diventava-
no sempre più forti. A un tratto sentì qualcuno sussurrare. La voce di un
uomo, accanto a lei, che le sibilava nell'orecchio.
«Hérétique, hérétique...»
Si voltò di scatto. «Ehilà? Allo? Il y a quelqu'un?»
Non c'era nessuno. Come un cattivo auspicio, la parola si ripeteva all'in-
finito dentro la sua testa. «Hérétique, hérétique.»
Alice si tappò le orecchie. Le sembrò di vedere dei volti sulle colonne e
sulle pareti di pietra grigia. Bocche torturate, braccia tese in cerca di aiuto
spuntavano da ogni dove.
A un tratto intravide una figura davanti a lei, quasi indistinta. Una donna
con un lungo vestito verde e una mantella rossa entrava e usciva dall'oscu-
rità. In mano aveva una cesta di vimini. Alice gridò per attirare la sua at-
tenzione allorché tre uomini, o meglio tre frati, uscirono da dietro la co-
lonna. La donna urlò quando questi la afferrarono. Si dimenava mentre i
frati la trascinavano via.
Alice li chiamò, ma la bocca non produceva alcun suono. Sembrava che
solo la donna riuscisse a sentirla, perché si girò e la guardò dritto negli oc-
chi. Ora i frati l'avevano circondata. Allargarono le braccia intorno a lei, le
ampie maniche simili ad ali nere.
«Lasciatela in pace» gridò Alice e si mise a correre verso di loro. Ma più
avanzava e più le figure si allontanavano, fino a scomparire del tutto. Era
come se si fossero fuse con le pareti del chiostro.
Sconcertata, Alice passò le mani sulla superficie di pietra. Guardò a de-
stra e a sinistra in cerca di una spiegazione, ma il posto era deserto. Alla
fine fu colta dal panico. Si precipitò in strada, convinta di trovarsi alle
spalle da un momento all'altro gli uomini con le tonache nere che la inse-
guivano e le si avventavano contro.
Fuori, tutto era come doveva essere.
Va tutto bene. Tu stai bene. Con il respiro affannoso, Alice si abbandonò
contro il muro. Mentre riprendeva il controllo di sé, si accorse che quello
che provava non era più terrore, ma dolore. Non le serviva un libro di sto-
ria per capire che in quel posto era successo qualcosa di orribile. C'era u-
n'atmosfera di sofferenza, cicatrici che non potevano essere nascoste dal
cemento o dalla pietra. Gli spiriti le avevano raccontato la loro storia. Por-
tò una mano al viso e si accorse che stava piangendo.

Appena ebbe riacquistato un po' di forza nelle gambe, tornò verso il cen-
tro della città. Era decisa ad allontanarsi il più possibile da Saint-Etienne.
Non sapeva cosa le stesse succedendo, ma non aveva intenzione di arren-
dersi.
Rassicurata dal normale svolgimento della vita quotidiana intorno a sé,
si ritrovò in una piazzetta riservata ai pedoni. A un angolo della piazza, in
fondo a destra, c'era una brasserie con tende color ciclamino, file di sedie
scintillanti e tavolini tondi sistemati sul marciapiede.
Alice occupò l'ultimo tavolo disponibile e ordinò subito, sforzandosi di
rilassarsi. Trangugiò due bicchieri d'acqua, quindi si appoggiò allo schie-
nale e provò a godersi il sole sulla faccia. Si versò un bicchiere di rosé, ag-
giunse qualche cubetto di ghiaccio e ne bevve una sorsata. Non era da lei
lasciarsi spaventare così facilmente.
Ma non ti sei mai trovata in queste condizioni psicologiche.
Nell'ultimo anno non si era fermata un secondo. Aveva rotto con il pro-
prio ragazzo dopo parecchio tempo. Il rapporto era già morto da anni e da
una parte era stato un sollievo starsene per conto suo, ma non per questo
era stato meno doloroso. Aveva l'orgoglio ferito e il cuore a pezzi. Per evi-
tare di pensare a lui aveva lavorato come una pazza e aveva tirato troppo la
corda, e tutto per evitare di rimuginare sulle possibili cause di quella rottu-
ra. Due settimane nella Francia sud-occidentale avrebbero dovuto aiutarla
a ricaricarsi. A rimettersi in carreggiata.
Alice fece una smorfia. Che vacanza.
L'arrivo del cameriere pose fine a quel tentativo di autoanalisi. L'omelet-
te era squisita, gialla e morbida all'interno, con una generosa quantità di
funghi e un bel po' di prezzemolo. Alice la mangiò con estrema concentra-
zione. Soltanto mentre raccoglieva con il pane le ultime gocce di olio d'o-
liva, cominciò a considerare come poteva trascorrere il resto del pomerig-
gio. Quando arrivò il caffè, aveva già deciso.

La Bibliothèque de Toulouse era un edificio di pietra grande e quadrato.


Alice mostrò lesta il tesserino della sala di lettura della British Library a un
addetto annoiato e disattento, il quale la lasciò passare. Dopo essersi persa
per le scale un paio di volte, si ritrovò nella vasta sezione di storia genera-
le. Su entrambi i lati del corridoio centrale c'erano lucidi tavoli di legno,
ognuno con una serie di lampade da lettura allineate al centro. A quell'ora,
in un caldo pomeriggio di luglio come quello, erano pochi i posti occupati.
In fondo alla sala, c'era quello che Alice cercava, una fila di computer
che occupava l'intera parete. Si registrò alla reception, dove le diedero una
password e le assegnarono una postazione.
Appena si fu connessa, digitò la parola «labirinto» nell'apposita casella
di ricerca. La barra verde di caricamento in fondo alla pagina si riempì ve-
locemente. Piuttosto che affidarsi alla memoria, aveva deciso che era me-
glio cercare il suo labirinto in internet. Era una cosa talmente ovvia che si
stupì di non averci pensato prima.
Le differenze fra il labirinto classico e il disegno che ricordava di aver
visto inciso sulla parete della caverna e sull'anello saltavano subito all'oc-
chio. Il primo era formato da cerchi concentrici, intricati fra loro, che di-
ventavano via via più piccoli fino ad arrivare al centro, mentre era quasi
certa che quello del Pic de Soularac fosse una combinazione di vicoli cie-
chi e linee rette che si ripiegavano su se stesse e che non portavano da nes-
suna parte. Sembrava più un dedalo.
Le origini antiche del simbolo del labirinto e dei miti a esso correlati e-
rano piuttosto difficili da individuare. Si riteneva che i primi disegni risa-
lissero a più di tremila anni prima. Simboli del genere erano stati ritrovati
incisi su legno, roccia, tegole o pietra, disegnati su tessuti o inseriti nel-
l'ambiente naturale, come i labirinti creati con l'erba o con le siepi, tipici
dei giardini.
I primi labirinti rinvenuti in Europa risalivano a un periodo compreso fra
la fine dell'Età del Bronzo e l'inizio dell'Età del Ferro, ossia fra il 1200 e il
500 a.C, ed erano stati scoperti nei pressi delle prime città commerciali del
Mediterraneo. Alcune incisioni, datate fra il 900 e il 500 a.C. erano state
ritrovate in Val Camonica, nell'Italia settentrionale, a Pontevedra in Gali-
zia, e alla punta estrema della Spagna nord-occidentale a Cabo Fisterra o
Finisterre. Alice studiò la figura con attenzione. Fino ad allora era quello
che si avvicinava di più al labirinto della caverna. Chinò la testa da un lato.
Si avvicinava, ma non era uguale.
Era possibile che il simbolo fosse arrivato con i mercanti e le navi onera-
rie dall'Egitto e dalle province orientali dell'impero romano, quindi fosse
stato adattato e trasformato dall'interazione con culture diverse. Era anche
possibile che il labirinto, evidente simbolo precristiano, fosse stato rubato
dalla chiesa cristiana. Sia la chiesa bizantina sia quella romana erano col-
pevoli di aver assorbito nella loro ortodossia religiosa simboli e miti molto
più antichi.
Parecchi siti erano dedicati al labirinto più famoso di tutti: quello di
Cnosso, sull'isola di Creta, dove, stando alla leggenda, era stata imprigio-
nata la creatura mitica del Minotauro, mezzo uomo e mezzo toro. Alice
passò oltre, l'istinto le diceva che quel filone di ricerca non l'avrebbe con-
dotta da nessuna parte. L'unico fatto degno di nota era che disegni del labi-
rinto minoico, risalenti al 1550 a.C, erano stati rinvenuti durante alcuni
scavi presso l'antica città di Avaris in Egitto, nel tempio di Kom Ombo,
sempre in Egitto, e nella cattedrale di Siviglia.
Alice archiviò le informazioni in un cassetto della memoria. Dal dodice-
simo e tredicesimo secolo in poi, il labirinto compariva regolarmente nei
manoscritti medievali che circolavano fra i monasteri e le corti europee,
ampliato e abbellito dalle illustrazioni degli amanuensi, i quali aggiunge-
vano ulteriori caratteristiche al simbolo.
In epoca alto-medievale, il labirinto formato con esattezza matematica
da undici cerchi, dodici muri e quattro assi era diventato il più comune. A-
lice osservò la riproduzione di un labirinto scolpito su una parete della
chiesa di San Pantaleon di Arcera, nella Spagna settentrionale, e un'altra
più antica della cattedrale di Lucca, in Toscana. Cliccò su una mappa che
mostrava le chiese, le cappelle e le cattedrali d'Europa in cui si trovava il
simbolo del labirinto.
Straordinario.
Non riusciva a credere ai suoi occhi. C'erano più labirinti in Francia che
in tutta l'Italia, il Belgio, la Germania, la Spagna, l'Inghilterra e l'Irlanda
messi insieme: Amiens, St Quentin, Arras, St Omer, Caen e Bayeux per
quanto riguardava la Francia settentrionale; Poitiers, Orléans, Sens e Au-
xerre nella Francia centrale; Toulouse e Mirepoix nella Francia sud-
occidentale, e la lista proseguiva all'infinito.
L'incisione pavimentale più famosa si trovava nel nord del paese, esat-
tamente al centro della prima e più grandiosa delle cattedrali gotiche, quel-
la di Chartres.
Alice sbatté una mano sul tavolo, attirandosi diversi sguardi di disappro-
vazione. Ma certo. Come poteva essere stata tanto stupida? Chartres era
gemellata con la sua città natale, Chichester, sulla costa inglese meridiona-
le. Infatti, il primo viaggio all'estero che aveva fatto era stata una gita sco-
lastica proprio a Chartres, all'età di undici anni. Ricordava vagamente che
era piovuto tutto il tempo e che se ne stava infagottata nell'impermeabile,
infreddolita e bagnata, sotto imponenti colonne e volte di pietra. Ma non
ricordava nulla del labirinto.
Non c'era alcun labirinto nella cattedrale di Chichester, ma questa era
gemellata anche con la città italiana di Ravenna. Alice fece scorrere il dito
sullo schermo finché non trovò quello che cercava. Inciso sul pavimento di
marmo della basilica di San Vitale a Ravenna c'era un labirinto. Stando al-
la didascalia, era grande soltanto un quarto di quello che si trovava a Char-
tres e risaliva a un periodo storico molto più antico, probabilmente intorno
al quinto secolo d.C, ma si trovava lì ugualmente.
Alice copiò e incollò su un documento Word la parte di testo che le ser-
viva, quindi lo stampò e digitò «cattedrale Chartres Francia» nella casella
di ricerca.
Sebbene fosse esistita una struttura precedente datata intorno all'ottavo
secolo, scoprì che l'attuale cattedrale di Chartres risaliva al tredicesimo se-
colo. Da allora in poi, l'edificio era stato associato a credenze e teorie eso-
teriche. Si diceva che fra le alte volte e le particolareggiate colonne di pie-
tra di quella cattedrale si celasse un segreto di grande importanza. Nono-
stante gli sforzi della chiesa cattolica, quei miti e quelle leggende erano
sopravvissuti nel tempo.
Nessuno sapeva per ordine di chi e a quale scopo il labirinto fosse stato
costruito.
Alice selezionò i paragrafi che le interessavano e uscì.
La stampante fece uscire l'ultima pagina e si ammutolì. Intorno a lei la
gente cominciava a radunare le proprie cose. Una bibliotecaria dall'aria ar-
cigna la fissò e picchiettò sull'orologio con il dito. Alice annuì e raccolse i
suoi fogli, dopodiché si mise in fila al bancone per pagare. La coda scorre-
va con lentezza. La luce rossastra del tardo pomeriggio filtrava dalle alte
finestre che raffiguravano la scala di Giacobbe, illuminando con i suoi
raggi i granelli di polvere che danzavano.
La donna davanti a lei aveva le braccia cariche di libri da prendere in
prestito e sembrava avere una richiesta per ognuno di essi. Ripensò all'an-
sia che l'aveva tormentata per tutto il pomeriggio. Era possibile che fra tut-
te le centinaia di immagini che aveva guardato, fra tutte le centinaia di mi-
gliaia di parole che aveva letto, non vi fosse nulla che coincidesse perfet-
tamente con il labirinto di pietra del Pic de Soularac? Era possibile, ma in-
verosimile.
L'uomo alle sue spalle le stava troppo attaccato, come quelli che in me-
tropolitana cercano di leggere il tuo giornale da dietro. Alice si voltò e gli
lanciò un'occhiataccia. L'uomo indietreggiò. Aveva un'aria vagamente fa-
miliare.
«Oui, merci» disse Alice, quando arrivò al bancone e pagò le pagine che
aveva stampato. Una trentina di fogli in tutto.
Quando uscì dalla biblioteca, le campane di Saint-Etienne battevano le
sette. Era rimasta lì dentro più a lungo di quanto pensasse. Smaniosa di
andarsene, Alice si affrettò a raggiungere il punto in cui aveva parcheggia-
to l'auto, sulla riva opposta del fiume. Era così assorta nei suoi pensieri che
non si accorse che l'uomo della fila la seguiva lungo l'argine, mantenendo
una certa distanza. E non lo vide neppure tirare fuori il cellulare e fare una
telefonata, mentre lei si immetteva nel traffico lento.

I CUSTODI DEI LIBRI

CAPITOLO 26

BESIÈRS
Julhet 1209
Il sole stava tramontando quando Alaïs raggiunse le pianure fuori dalla
città di Coursan.
Fin lì il viaggio era andato bene, aveva seguito la strada romana che at-
traverso il Minervois portava a Capestang, passando per sconfinati campi
di canapa, i canabières, e smeraldine distese di orzo.
Da quando aveva lasciato Carcassonne, cavalcava ogni giorno finché il
sole non iniziava a scottare troppo. Quindi cercava un riparo e si riposava
insieme a Tatou, prima di rimettersi in marcia fino al tramonto, quando l'a-
ria si riempiva di insetti che pungevano e del verso stridulo di ghiandaie,
gufi e pipistrelli.
La prima notte aveva trovato asilo nella città fortificata di Azille, presso
alcuni amici di Esclarmonde. Più si spingeva a est e meno gente trovava
nei campi e nei villaggi, e le poche persone che incontrava sembravano so-
spettose, i loro occhi scuri rivelavano diffidenza. Le raccontarono delle a-
trocità commesse da bande di disertori francesi o da routiers, mercenari,
banditi. I racconti diventavano sempre più sanguinosi e crudeli a mano a
mano che andava avanti.
Alaïs portò Tatou al trotto, era indecisa se proseguire per Coursan o cer-
care riparo nei paraggi. Le nubi marciavano veloci nel cielo sempre più
grigio e minaccioso, l'aria era terribilmente afosa. Da lontano si sentiva di
tanto in tanto il rombo dei tuoni, simile al verso di un orso appena risve-
gliatosi dal letargo. Alaïs non voleva essere sorpresa da un temporale.
Tatou iniziava a innervosirsi. Aveva i tendini contratti sotto la gualdrap-
pa e per due volte si era impennata al rumore improvviso di una lepre o di
una volpe fra gli arbusti sul ciglio della strada.
Davanti a sé, Alaïs scorse un boschetto di querce e frassini. Non era ab-
bastanza fitto per essere abituale residenza estiva di grossi animali, come
cinghiali o linci. Ma gli alberi erano alti e folti e le estremità dei rami sem-
bravano saldamente intrecciate fra loro, come tante dita: l'avrebbero ripara-
ta a sufficienza. Il fatto che ci fosse un sentiero ben marcato, un tortuoso
lembo di terra arida, consumato da un'infinità di piedi, lasciava credere che
il bosco costituisse una scorciatoia per la città, molto usata dagli abitanti
del luogo.
Tatou sussultò quando un fulmine guizzò per un istante nel cielo che
imbruniva. Il che la aiutò a prendere una decisione. Avrebbe aspettato che
il temporale fosse passato.
Spronò la cavalla con un sussurro e la convinse a dirigersi fra le verdi
braccia del bosco.

I due uomini avevano perso la preda un po' di tempo prima. Soltanto la


minaccia del temporale impedì loro di fare dietro front e tornare all'accam-
pamento.
Dopo diverse settimane di marcia, la loro pallida pelle francese si era
scurita a causa del forte sole del meridione. Avevano nascosto nel boschet-
to l'armatura da viaggio e il sorcotto, che recavano il blasone del loro si-
gnore. Speravano almeno di ricavare qualcosa dalla missione fallita.
Un rumore. Lo scricchiolio di un ramo secco, l'andatura dondolante di
un cavallo imbrigliata, il ferro degli zoccoli che di tanto in tanto colpiva
qualche sasso.
Uno dei due, con i denti storti e neri, strisciò in avanti per avere una vi-
suale migliore. Non molto distante da lì, intravide una persona in sella a
una piccola saura araba farsi strada attraverso il bosco. La osservò con un
ghigno. Forse la loro sortie non sarebbe stata una totale perdita di tempo,
dopo tutto. La donna indossava abiti ordinari e di scarso valore, ma una
cavalla del genere poteva essere venduta a un buon prezzo.
Lanciò un sasso al compagno che si nascondeva dall'altro lato del sentie-
ro.
«Lève-toi!» esclamò, indicando Alaïs con un cenno della testa. «Regar-
de.»
«Guarda guarda» mormorò. «Une femme. Et seule.»
«Sei sicuro che sia sola?»
«Non sento nessun altro.»
I due tirarono le estremità della fune che giaceva a terra e andava da una
parte all'altra del sentiero, nascosta sotto le foglie, e aspettarono che lei si
avvicinasse.

Il coraggio di Alaïs cominciava a vacillare a mano a mano che si adden-


trava nel bosco.
La superficie del terreno era umida, anche se la terra sotto era ancora du-
ra. Le foglie ai lati del sentiero stormivano al passaggio degli zoccoli di
Tatou. Alaïs cercò di concentrarsi sul rassicurante cinguettio degli uccelli
fra gli alberi, ma aveva i peli ritti sulle braccia e sulla nuca. Quel silenzio
racchiudeva una minaccia, non tranquillità.
È soltanto la tua immaginazione.
Anche Tatou l'avvertiva. Tutto a un tratto, qualcosa si sollevò da terra
con un rumore simile a quello di una freccia scoccata da un arco.
Una beccaccia? Un serpente?
Tatou si impennò sulle zampe posteriori, agitò furiosamente gli zoccoli
in aria e nitri terrorizzata. Alaïs non ebbe il tempo di reagire. Il cappuccio
le calò sul viso e le mani si staccarono dalle redini mentre veniva disarcio-
nata. Il dolore l'attanagliò alla spalla quando batté a terra con violenza, tan-
to da mozzarle il fiato. Ansimando, si girò su un fianco e provò ad alzarsi.
Doveva riprendere Tatou prima che si imbizzarrisse.
«Tatou, doçament» urlò, con le gambe che barcollavano. «Tatou!»
Avanzò con passo malfermo, poi si fermò. C'era un uomo sul sentiero
proprio davanti a lei. Sorrideva mostrando i denti marci. In mano aveva un
coltello, con la lama opaca e la punta arrugginita.
Sentì qualcosa muoversi alla sua destra. Lanciò uno sguardo fulmineo.
Un altro uomo, con il volto sfregiato da una cicatrice frastagliata che anda-
va dall'occhio sinistro all'angolo della bocca, teneva le briglie di Tatou e
agitava in aria un bastone.
«No» urlò Alaïs. «Lasciala.»
Nonostante il dolore alla spalla, riuscì a trovare l'impugnatura della spa-
da. Dai loro ciò che vogliono e forse non ti faranno del male.
L'uomo fece un passo verso di lei. Alaïs sguainò la spada e disegnò un
arco nell'aria. Con gli occhi puntati sulla faccia dell'avversario, frugò nella
borsa e gettò a terra una manciata di monete.
«Prendile. Non ho nient'altro di valore.»
L'uomo guardò le monete d'argento sparpagliate al suolo, quindi sputò
con disprezzo. Si asciugò la bocca con il dorso della mano e fece un altro
passo avanti.
Alaïs sollevò la spada. «Ti avverto. Non ti avvicinare» gridò, di-
segnando un otto nell'aria per tenerlo lontano.
«Ligote-la» ordinò quello al compagno.
Alaïs si sentì gelare. Per un istante il coraggio venne meno. Erano solda-
ti francesi, non banditi. Le storie che aveva sentito raccontare durante il
viaggio le tornarono alla mente come un fulmine.
Si ricompose e fece volteggiare di nuovo la spada.
«Non ti avvicinare» urlò, la voce che le tremava per la paura. «O ti am-
mazzo in un...»
Si voltò di scatto e si scagliò sul secondo uomo, che nel frattempo stava
per prenderla alle spalle. Con un urlo, Alaïs gli fece volare via il bastone
dalla mano. Lui estrasse un coltello dalla cintura e si tuffò su di lei con un
ruggito. Alaïs afferrò il manico con entrambe le mani e gli conficcò la la-
ma nella mano, trafiggendolo come un orso durante un combattimento. Il
sangue cominciò a uscire a fiotti.
Tirò indietro le braccia per prepararsi a colpire ancora, quando a un trat-
to vide davanti agli occhi una pioggia di stelle viola e bianche. Barcollò in
avanti per la forza del colpo subito, ma quando la tirarono indietro per i
capelli il dolore le fece venire le lacrime agli occhi. Sentì la punta fredda di
una lama sulla gola.
«Putain» sibilò il soldato, schiaffeggiandola con la mano sanguinante.
«Laisse-tomber.» Lasciala.
Messa con le spalle al muro, Alaïs lasciò cadere la spada. L'altro uomo
la allontanò con un calcio, dopodiché estrasse un cappuccio di tela grezza
dalla cintura e lo ficcò a forza sulla testa di Alaïs. Questa si dimenò per li-
berarsi, ma l'odore pungente della stoffa polverosa la prese alla gola e la
fece tossire. Tuttavia, continuò a lottare, finché un pugno non la colpì allo
stomaco e la fece cadere a terra piegata in due.
Non aveva più la forza di reagire quando le tirarono indietro le braccia e
le legarono i polsi.
«Reste-là.»
Si allontanarono. Alaïs li sentì rovistare nelle bisacce, sollevando i lembi
di cuoio e gettando tutto alla rinfusa. Parlavano, discutevano forse. Non
riusciva a capire bene quella lingua aspra.
Perché non mi hanno uccisa?
Subito la risposta si insinuò come un fantasma nella sua mente. Vogliono
prima divertirsi un po'.
Si adoperò con tutte le forze per sciogliere il nodo, nonostante sapesse
che anche con le mani libere non sarebbe andata molto lontano. Le avreb-
bero dato la caccia. Adesso ridevano. Bevevano. Non avevano alcuna fret-
ta.
Lacrime disperate le sgorgarono dagli occhi. Esausta, piegò il capo al-
l'indietro sulla terra dura.
Dapprima, Alaïs non riuscì a distinguere da dove provenisse il frastuono.
A un tratto capì. Rumore di zoccoli. Erano cavalli che attraversavano le
pianure al galoppo. Schiacciò l'orecchio contro il suolo. Cinque, o forse sei
cavalli, diretti verso il bosco.
Da lontano si udì il rombo di un tuono. Anche il temporale si av-
vicinava. Tutto sommato, c'era qualcosa che poteva fare. Se si fosse allon-
tanata a sufficienza, forse avrebbe potuto cavarsela.
Un po' alla volta, facendo meno rumore possibile, cominciò a strisciare
fuori dal sentiero, finché non sentì i rovi pungerle le gambe. Si mise in gi-
nocchio a fatica e cominciò a muovere la testa su e giù, finché non riuscì a
slegare il cappuccio. Staranno guardando?
Nessun grido. Picgò il collo e scosse il capo a destra e a sinistra, dap-
prima con delicatezza, poi con più energia, fino a quando la stoffa non sci-
volò via. Tirò due respiri profondi, quindi cercò di orientarsi.
Dalla loro posizione i due uomini non potevano vederla, ma se si fossero
voltati e si fossero accorti che era sparita, l'avrebbero acciuffata in un ba-
leno. Alaïs premette di nuovo l'orecchio sul suolo. I cavalli arrivavano da
Coursan. Un gruppo di cacciatori? O di esploratori?
Il fragore del tuono echeggiò per il bosco, mettendo in fuga gli uccelli
dai nidi più alti. Sbattevano le ali in preda al panico, scendevano in pic-
chiata e si rifugiavano di nuovo fra gli alberi. Tatou nitriva e scalpitava.
Mentre pregava che i rumori dell'imminente temporale mascherassero il
frastuono dei cavalli fino a quando non fossero stati abbastanza vicini,
Alaïs si infilò fra gli arbusti, strisciando su sassi e ramoscelli.
«Ohé!»
Restò impietrita. L'avevano scoperta. Trattenne un urlo quando gli uo-
mini tornarono di corsa al punto in cui l'avevano lasciata. Il rumore assor-
dante di un altro tuono li costrinse a levare gli occhi al cielo con sgomento.
Non sono abituati ai violenti temporali della nostra regione. Persino da
quella distanza, Alaïs leggeva paura nei loro volti. Paura che sprizzava da
tutti i pori.
Approfittando della loro esitazione, si spinse più in là. Era in piedi ades-
so e aveva cominciato a correre.
Ma non fu abbastanza veloce. Quello con la cicatrice le si scagliò addos-
so e la buttò a terra, facendole battere la testa.
«Hérétique» urlava, mentre strisciava su di lei e la immobilizzava al
suolo. Alaïs cercò di scrollarselo di dosso, ma l'uomo era troppo pesante e
lei aveva i vestiti impigliati alle spine dei rovi. Sentiva l'odore di sangue
venire dalla mano ferita, mentre le spingeva con forza la testa fra i ramo-
scelli e le foglie.
«Ti avevo detto di non muoverti, putain.»
Si slacciò la cintura e con il respiro affannato la buttò via. Speriamo che
non abbia ancora sentito i cavalli. Alaïs cercò di divincolarsi, ma l'uomo
pesava troppo. Lasciò uscire dalla bocca un grido disperato, avrebbe fatto
qualsiasi cosa pur di coprire il frastuono dei cavalli che si avvicinavano.
Il soldato la colpì di nuovo, spaccandole il labbro. Sentì il sapore del
sangue in bocca.
«Putain.»
A quel punto si udirono altre voci. «Ara, ara!» Ora.
Alaïs sentì la corda di un arco vibrare e una freccia fendere l'aria, subito
dopo una tempesta di dardi esplose dall'ombra dei sempreverdi, distrug-
gendo qualunque cosa si trovasse in traiettoria.
«Avança! Ara, avança!»
Proprio quando il soldato francese balzò in piedi, una freccia gli si con-
ficcò nel petto grosso e tozzo facendolo girare come una trottola. Per un at-
timo sembrò sospeso nell'aria, poco dopo cominciò a barcollare, lo sguardo
pietrificato come quello di una statua. Una goccia di sangue comparve al-
l'angolo della bocca e colò lungo il mento.
Le gambe cedettero. Cadde in ginocchio, quasi stesse pregando, poi
molto lentamente crollò in avanti come un albero abbattuto in una foresta.
Alaïs ebbe la prontezza di spostarsi, giusto in tempo per evitare il corpo
che si schiantava pesante al suolo.
«Aval! Avanti!»
I cavalieri partirono alla carica dell'altro soldato. Si era riparato fra gli
alberi, ma ci fu una nuova pioggia di frecce. Una lo colpì alla spalla e lo
fece inciampare. Un'altra lo prese dietro la coscia. La terza, alle reni, lo
abbatté. Il corpo cadde a terra con uno spasmo, quindi divenne immobile.
La stessa voce ordinò di fermarsi. «Arèst.» Alla fine, i cacciatori usciro-
no dal nascondiglio e vennero allo scoperto. «Tregua.»
Alaïs si alzò. Sono amici o anch'essi uomini da temere? Il capo in-
dossava una casacca da caccia blu cobalto sotto il mantello, entrambi di
buona fattura. Gli stivali di cuoio, la cintura e la faretra erano di pelle chia-
ra, in linea con lo stile del luogo, e gli stivali erano pesanti e privi di segni.
Sembrava un uomo di moderata ricchezza, un uomo del Midi.
Alaïs aveva ancora le mani legate dietro la schiena. Non si trovava in
una posizione molto vantaggiosa. Aveva il labbro gonfio e sanguinante e i
vestiti macchiati.
«Seigneur, avete la mia gratitudine» esordì, alzando la voce per sembra-
re più convincente. «Alzate la visiera e lasciatevi identificare, così che ve-
da il volto del mio salvatore.»
«Sarebbe questa la vostra gratitudine, signora?» chiese lui, facendo ciò
che gli aveva chiesto. Alaïs vide con sollievo che stava sorridendo.
Smontò da cavallo ed estrasse un coltello dalla cintura. Alaïs in-
dietreggiò. «Per tagliare le corde» disse in tono pacifico.
Alaïs arrossì e mostrò i polsi. «Ma certo. Mercé.»
Lui fece un leggero inchino. «Amiel de Coursan. Questi boschi sono di
proprietà di mio padre.»
Alaïs tirò un sospiro di sollievo. «Perdonate la mia scortesia, ma dovevo
essere sicura che non foste...»
«La vostra prudenza è saggia e soprattutto comprensibile, date le circo-
stanze. E voi chi siete, signora?»
«Alaïs di Carcassona, figlia dell'intendente Pelletier, l'amministratore del
visconte Trencavel, e moglie di Guilhem du Mas.»
«Sono onorato di fare la vostra conoscenza, dama Alaïs.» Le baciò la
mano. «Siete ferita gravemente?»
«Soltanto qualche graffio, anche se la spalla su cui sono caduta mi duole
un po'.»
«Dov'è la vostra scorta?»
Alaïs esitò un istante. «Viaggio da sola.»
Lui la guardò stupito. «Di questi tempi è pericoloso avventurarsi senza
accompagnatori, signora. In queste pianure girano molti francesi.»
«Non avevo intenzione di cavalcare fino a quest'ora. Cercavo riparo dal
temporale.»
Alzò gli occhi, d'improvviso si accorse che non era ancora caduta una
goccia di pioggia.
«È solo il cielo che si lamenta» disse lui, leggendole lo sguardo. «Un
falso allarme, null'altro.»
Mentre Alaïs tranquillizzava Tatou, de Coursan ordinò ai suoi uomini di
spogliare i cadaveri delle armi e dei vestiti. Trovarono le armature e i ves-
silli nascosti in un punto più lontano del bosco, dove avevano legato i ca-
valli. De Coursan sollevò un lembo di stoffa con la punta della spada e
scoprì, sotto uno strato di fango, una striscia d'argento su uno sfondo ver-
de.
«Chartres» commentò sdegnato. «Sono i peggiori. Sciacalli, per la mag-
gior parte. Abbiamo avuto diverse segnalazioni di atti...»
Si interruppe di colpo.
Alaïs lo guardò. «Segnalazioni di cosa?»
«Non importa» ribatté svelto. «Torniamo in città?»
Cavalcarono in fila indiana fino al confine del bosco e uscirono nelle
pianure.
«Quale proposito vi ha spinta da queste parti, dama Alaïs?»
«Sono in cerca di mio padre, si trova a Montpelhièr insieme al visconte
Trencavel. Ho notizie di grande importanza e non posso aspettare che ri-
torni a Carcassona.»
Un'ombra attraversò il volto di de Coursan.
«Cosa c'è? Avete sentito qualcosa?»
«Resterete con noi per questa notte, dama Alaïs. Dopo che avranno me-
dicato le vostre ferite, mio padre vi riferirà cosa abbiamo sentito dire. Do-
mani, all'alba, vi scorterò personalmente a Besièrs.»
Alaïs si girò verso di lui. «A Besièrs, messire?»
«Se quel che si dice è vero, è a Besièrs che troverete vostro padre e il vi-
sconte Trencavel.»

CAPITOLO 27

Il manto dello stallone di Trencavel grondava di sudore mentre il viscon-


te guidava i suoi uomini verso Béziers, con il rombo dei tuoni alle calca-
gna.
I cavalli avevano le briglie ricoperte di schiuma e gli angoli della bocca
sporchi di bava. I fianchi e il garrese erano striati di sangue, nei punti in
cui sproni e scudisci li avevano colpiti in modo incessante per tutta la not-
te. La luce argentea della luna squarciava le nuvole nere che fuggivano
lente all'orizzonte e illuminava la stella bianca sul muso del cavallo di
Trencavel.
Pelletier cavalcava al fianco del visconte con le labbra serrate. Era anda-
ta male a Montpellier. Dato che fra Trencavel e lo zio non correva buon
sangue, non si aspettava certo che il conte acconsentisse all'alleanza senza
battere ciglio, malgrado i vincoli di sangue e gli obblighi feudali che lega-
vano i due signori. Sperava, comunque, che il conte potesse intercedere in
favore del nipote.
In realtà, si era rifiutato persino di riceverlo. Un oltraggio deliberato e
inequivocabile. Trencavel era stato costretto a lasciare l'accampamento
francese, ma quella mattina era giunta la notizia che gli era stata concessa
un'udienza.
Accompagnato soltanto da Pelletier e da due chevaliers, il visconte era
stato condotto al padiglione dell'abate di Cîteaux, dove gli era stato ordina-
to di depositare le armi. Avevano fatto come richiesto. Entrati nel padi-
glione, anziché l'abate, il visconte aveva trovato ad attenderlo due legati
pontifici.
Raymond-Roger non aveva ancora aperto bocca che i due legati lo ave-
vano già accusato di aver permesso che l'eresia si diffondesse incontrollata
nei suoi territori. Lo avevano criticato per aver assegnato agli ebrei le cari-
che più alte nelle principali città del suo regno. Avevano menzionato pa-
recchi casi in cui aveva chiuso un occhio di fronte alla condotta malvagia e
perniciosa dei vescovi catari all'interno dei suoi domini.
Alla fine, i legati avevano congedato il visconte Trencavel come un qua-
lunque, insignificante signorotto feudale, anziché come il sovrano di una
delle più influenti dinastie del Midi, Al solo pensiero, Pelletier si sentiva
ribollire il sangue nelle vene.
Le spie dell'abate avevano istruito bene i legati. Ogni capo d'accusa,
sebbene infondato e frutto di un travisamento, era stato esposto in modo
accurato e convalidato dalla testimonianza e dal resoconto di testimoni o-
culari. Questo, secondo Pelletier, ancor più dell'insulto deliberato al suo
onore, dimostrava senza alcun dubbio che il visconte Trencavel sarebbe
diventato il nuovo nemico. L'esercito aveva bisogno di qualcuno contro cui
combattere. Con la capitolazione del conte di Toulouse, non c'erano altri
candidati.
Avevano lasciato immediatamente l'accampamento crociato fuori dalle
mura di Montpellier. Guardando la luna, Pelletier aveva calcolato che se
avessero mantenuto quell'andatura sarebbero arrivati a Béziers per l'alba, Il
visconte Trencavel voleva avvisare di persona gli abitanti di quella città
che l'esercito francese si trovava a non più di quindici leghe di distanza e
che era pronto ad attaccare. La strada romana che collegava Montpellier a
Béziers era molto larga e non c'era modo di ostruirla.
Trencavel avrebbe esortato i padri della città a prepararsi all'assedio e al-
lo stesso tempo avrebbe cercato rinforzi per la guarnigione di Carcassonne.
Più a lungo l'esercito veniva trattenuto a Béziers e più tempo avrebbe avu-
to lui per organizzare le fortificazioni. Voleva anche offrire un rifugio fra
le mura di Carcassonne a coloro che erano più a rischio di persecuzione da
parte dei francesi: gli ebrei, i pochi mercanti saraceni arrivati dalla Spagna
e soprattutto i bons homes. Non era solo il dovere feudale che lo guidava.
Gran parte dell'amministrazione e dell'organizzazione di Béziers era in
mano a diplomatici e mercanti ebrei. A prescindere dalla minaccia della
guerra, non poteva privarsi dei servigi di tanti abili e preziosi sudditi.
La decisone di Trencavel aveva facilitato il compito a Pelletier. Sfiorò
con la mano la lettera di Harif che portava nella borsa. Una volta giunti a
Béziers, tutto quello che doveva fare era trovare una scusa per assentarsi
un attimo e andare a cercare Simeon.

Un sole pallido si levava sopra il fiume Orb, mentre i cavalieri esausti


attraversavano il grande ponte di pietra arcuato.
Béziers si ergeva fiera e imponente davanti ai loro occhi, sembrava
grandiosa e inespugnabile dietro le antiche mura di pietra. Le guglie della
cattedrale e delle grandi chiese dedicate a santa Maddalena, san Giuda e
santa Maria scintillavano nella luce dell'alba.
Nonostante la stanchezza, Raymond-Roger Trencavel non aveva perso la
naturale compostezza, mentre spronava il cavallo attraverso la rete di vico-
li e di strade ripide e tortuose che conducevano alle porte principali della
città. Il rumore degli zoccoli che sbattevano sui ciottoli destò gli abitanti
dei placidi sobborghi che circondavano le mura fortificate.
Pelletier smontò da cavallo e urlò alla sentinella di guardia di aprire i
cancelli e lasciarli entrare. Avanzarono lentamente, poiché si era sparsa
voce che il visconte Trencavel era in città, ma alla fine raggiunsero la resi-
denza del feudatario.
Raymond-Roger salutò il signore con sincero affetto. Era un vecchio
amico e alleato, nonché diplomatico e amministratore capace, e fedele
suddito della dinastia Trencavel. Pelletier aspettò che i due signori si salu-
tassero secondo le usanze del Midi e si scambiassero segni di stima reci-
proca. Terminati i convenevoli con insolita fretta, Trencavel andò subito al
dunque. Il signore ascoltò con ansia sempre maggiore. Appena il visconte
smise di parlare, mandò alcuni messaggeri a chiamare i consoli della città
per riunirsi tutti a consiglio.
Mentre discutevano, al centro della sala era stato apparecchiato un tavo-
lo con pane, carne, formaggio, frutta e vino.
«Messire» disse il signore. «Sarei onorato se voleste approfittare della
mia ospitalità nel frattempo.»
Pelletier colse la palla al balzo. Fece un passo avanti e bisbigliò all'orec-
chio del visconte.
«Messire, potete scusarmi? Vorrei controllare i nostri uomini di persona.
Per vedere che abbiano tutto ciò di cui hanno bisogno. E per assicurarmi
che tengano la lingua a posto e il morale alto.»
Trencavel lo guardò sbigottito. «Proprio adesso Bertrand?»
«Con il vostro permesso, messire.»
«Sono certo che i nostri uomini verranno trattati come si deve» replicò,
accennando un sorriso al loro ospite. «Devi mangiare, riposare un po'.»
«Vi chiedo umilmente scusa, ma vi chiedo di nuovo di essere congeda-
to.»
Raymond-Roger scrutò invano il volto di Pelletier in cerca di una spie-
gazione.
«E va bene» disse alla fine, ancora perplesso. «Ti do un'ora di tempo.»

Le strade erano rumorose e diventavano sempre più affollate a mano a


mano che le voci circolavano. Una folla di gente si era radunata nella piaz-
za principale davanti alla cattedrale.
Pelletier conosceva bene Béziers, l'aveva visitata diverse volte in passato
con il visconte Trencavel, ma andava contro corrente e soltanto la sua staz-
za e la sua autorità gli impedirono di essere schiacciato dalla ressa. Con la
lettera di Harif stretta in pugno, appena raggiunse il quartiere ebraico co-
minciò a chiedere ai passanti se conoscessero Simeon. Qualcuno gli strat-
tonò la manica. Abbassò lo sguardo e vide una graziosa bambina dai capel-
li e gli occhi scuri.
«Io so dove abita» disse. «Seguitemi.»
La ragazzina lo condusse nella zona commerciale della città, dove c'era-
no le botteghe degli usurai, e attraverso un dedalo di viuzze all'apparenza
tutte uguali, piene zeppe di case e di negozi. Si fermò davanti a una porta
come tante.
Pelletier si guardò intorno, finché non trovò quello che cercava. L'inse-
gna di un rilegatore con su incise le iniziali di Simeon. Pelletier sorrise sol-
levato. Era il posto giusto. Dopo averla ringraziata, diede una moneta alla
bambina e la mandò via. Quindi sollevò il pesante battaglio d'ottone e bus-
sò alla porta tre volte.
Era passato molto tempo, più di quindici anni. Ci sarebbero stati l'affetto
e la confidenza di sempre fra loro?
La porta si aprì di qualche centimetro e una donna lo fissò con aria so-
spettosa. Aveva occhi neri e ostili. Portava un velo verde che le copriva i
capelli e la parte inferiore del viso e i tradizionali pantaloni chiari e ampi,
arricciati alle caviglie, che indossavano le donne ebree in Terra Santa. La
giacca lunga e gialla arrivava alle ginocchia.
«Vorrei parlare con Simeon» disse Pelletier.
La donna scosse il capo e fece per chiudere la porta, ma lui la bloccò con
il piede.
«Consegnategli questo» riprese, sfilandosi l'anello dal pollice e ficcan-
dolo in mano alla donna. «Ditegli che c'è Bertrand Pelletier.»
La donna restò a bocca aperta. Immediatamente, si fece da parte e lo la-
sciò entrare. Pelletier la seguì attraverso una grossa tenda scarlatta, decora-
ta con monete d'oro cucite da cima a fondo.
«Attendez» disse la donna, facendogli cenno di aspettare lì.
I braccialetti che portava ai polsi e alle caviglie tintinnarono mentre si
affrettava per il lungo corridoio, fino a scomparire.
Dall'esterno, l'edificio sembrava alto e stretto, dall'interno invece Pelle-
tier capì che era solo un'illusione. Su entrambi i lati del corridoio si apriva-
no altre stanze, Nonostante l'urgenza della missione, diede con piacere u-
n'occhiata in giro. Il pavimento era rivestito di piastrelle bianche e blu, an-
ziché di legno, e appesi alle pareti c'erano dei bellissimi tappeti. Gli ricor-
davano le raffinate ed esotiche abitazioni di Gerusalemme. Erano passati
molti anni, ma sentiva ancora il richiamo dei colori, dell'atmosfera e degli
odori di quella terra straniera.
«Che mi prenda un colpo, Bertrand Pelletier!»
A quell'esclamazione Pelletier si voltò e vide un uomo basso con una
lunga sopravveste viola precipitarsi verso di lui a braccia aperte. Provò un
tuffo al cuore alla vista del vecchio amico. Gli occhi neri brillavano come
mai. Per poco non fu buttato a terra dal forte abbraccio di Simeon, sebbene
fosse molto più alto di lui.
«Bertrand, Bertrand» fece Simeon in tono affettuoso, la voce profonda
rimbombava nel corridoio silenzioso. «Che fine avevi fatto, eh?»
«Simeon, vecchio mio» Pelletier rise e strinse la spalla a Simeon mentre
riprendeva fiato. «Mi fa un immenso piacere vederti e trovarti così bene.
Guardati» disse, tirando la lunga barba nera, che era sempre stata l'orgo-
glio dell'amico. «Un po' di grigio qua e là, ma bella come una volta! La vi-
ta è stata generosa con te?»
Simeon alzò le spalle. «Poteva andare meglio, ma poteva anche andare
peggio» rispose, facendo un passo indietro. «E che mi dici di te, Bertrand?
Qualche ruga in più sul viso, forse, ma lo sguardo fiero e le spalle larghe
sono sempre uguali.» Gli accarezzò il petto con il palmo della mano. «An-
cora forte come un toro.»
Con il braccio intorno alle spalle di Simeon, Pelletier fu condotto in una
stanzetta sul retro della casa che si affacciava su un piccolo cortile. C'erano
due lunghi divani ricoperti di cuscini di seta rossa, viola e blu. Diversi ta-
voli di ebano erano sparsi per la stanza, ornati da raffinati vasi e grandi
ciotole piene di appetitosi biscotti alle mandorle.
«Coraggio, togliti gli stivali. Esther ci porterà il tè.» Indietreggiò e squa-
drò Pelletier da capo a piedi. «Bertrand Pelletier» ripeté, scuotendo il capo.
«Non posso credere ai miei occhi. Dopo tanti anni... sei davvero qui o sei
solo un fantasma? Il frutto dell'immaginazione di un povero vecchio?»
Pelletier sorrise. «Vorrei essere venuto in circostanze più fauste, Sime-
on.»
Annuì. «Lo so. Su, Bertrand, siediti.»
«Simeon, sono venuto con il nostro signore, il visconte Trencavel, per
avvisare Besièrs che l'esercito del nord avanza. Senti le campane che con-
vocano a consiglio i padri della città?»
«È difficile non fare caso alle vostre campane cristiane,» replicò Sime-
on, inarcando le sopracciglia, «anche se non annunciano mai niente di
buono per noi!»
«Questo riguarderà gli ebrei tanto quanto coloro che chiamano eretici, se
non di più, sai?»
«Come sempre» replicò in tono pacato. «Questo esercito è grande come
dicono?»
«Ventimila valorosi, anche di più. Non possiamo affrontarli in combat-
timento diretto, Simeon, sono troppi in confronto a noi. Se Besièrs riuscis-
se a trattenere gli invasori per un po', avremmo almeno la possibilità di ar-
ruolare una schiera di combattenti nell'ovest e di prepararci a difendere
Carcassona. Daremo asilo a chiunque lo vorrà.»
«Sono felice qui. Questa città mi, o meglio ci, ha trattato bene.»
«Besièrs non è più un luogo sicuro. Né per te, né per i libri.»
«Lo so. Ma,» sospirò «mi dispiacerebbe andare via.»
«Se Dio vuole, non sarà per molto.» Pelletier tacque, sconcertato dal-
l'impassibilità con cui l'amico accettava la situazione. «Questa guerra è in-
giusta, Simeon, fondata sulla menzogna e sull'inganno. Come puoi accet-
tarla con tanta facilità?»
Simeon allargò le mani. «Accettarla, Bertrand? Cosa vuoi che faccia?
Cosa vuoi che dica? Uno dei tuoi santi cristiani, Francesco, prega affinché
Dio gli conceda la forza di accettare le cose che non può cambiare. Succe-
derà quello che deve succedere, che io lo voglia o no. Perciò, sì, accetto la
situazione. Questo non vuol dire che mi piaccia o che non desideri che sia
diversa.»
Pelletier scrollò il capo.
«La rabbia non serve a nulla. Devi avere fede. Credere in un'entità supe-
riore, che va al di là della nostra vita e della nostra conoscenza, richiede
un'enorme fede. Tutte le grandi religioni hanno le loro storie, le Sacre
Scritture, il Corano, la Torah, per dare un senso a questa vita altrimenti in-
significante.» Fece una pausa, con una punta di malizia negli occhi.
«Quanto ai bons homes, loro non cercano di trovare un senso alle malefatte
dell'uomo. La loro religione insegna che questa terra non è una creazione
perfetta di Dio, bensì un regno imperfetto e corrotto. Non si aspettano che
la bontà e l'amore trionfino sulle avversità. Sanno che nella vita terrena ciò
non è possibile.» Sorrise. «Eppure eccoti qui, Bertrand, sorpreso di trovarti
faccia a faccia con il male. È strano, no?»
Pelletier alzò la testa di colpo, come se fosse stato smascherato. Allora
Simeon sapeva? Ma come era possibile?
Simeon colse l'espressione sul suo volto, ma non fece più allusioni. «Per
converso, la mia religione dice che il mondo è stato creato da Dio e che,
pertanto, è perfetto sotto ogni aspetto. Ma se per caso l'uomo si discosta
dalla parola dei profeti, l'equilibrio fra lui e Dio viene turbato e da ciò sca-
turisce una punizione, questo è certo come è certo che al giorno segue la
notte.»
Pelletier aprì la bocca per ribattere, quindi la richiuse.
«Questa guerra non è affare nostro, Bertrand, malgrado i tuoi obblighi
nei confronti del visconte Trencavel. Io e te abbiamo un compito ben più
importante. Siamo uniti dal giuramento che abbiamo prestato. Questo è ciò
che deve guidare il nostro cammino e plasmare le nostre decisioni.» Tese
la mano e strinse la spalla di Pelletier. «Perciò, amico mio, conserva la
rabbia e la spada per le battaglie che sei in grado vincere.»
«Come facevi a sapere?» chiese. «Chi te lo ha detto?»
Simeon ridacchiò. «Che eri un seguace della nuova chiesa? No. Non mi
è giunta nessuna voce al riguardo. È un argomento che affronteremo in fu-
turo, se Dio vorrà, non adesso. Anche se mi piacerebbe moltissimo discor-
rere con te di teologia, Bertrand, abbiamo questioni più urgenti da affron-
tare.»
L'arrivo della serva, con un vassoio carico di bollente tè alla menta e bi-
scotti, interruppe la conversazione. Lo posò sul tavolo davanti a loro e se
ne andò su una panca in un angolo della stanza.
«Stai tranquillo» lo rassicurò Simeon, dopo averlo visto preoccupato dal
fatto che quella discussione fosse ascoltata da estranei. «Esther è venuta
con me da Chartres. Parla ebraico e conosce soltanto qualche parola di
francese. Non capisce affatto la tua lingua.»
«Bene, bene.» Pelletier tirò fuori la lettera di Harif e la porse a Simeon.
«Ne ho ricevuta una anch'io il giorno di Shauvot, un mese fa» disse
quando ebbe finito di leggerla. «Era per avvisarmi del tuo arrivo, anche se
ti confesso che sei stato più lento di quanto mi aspettassi.»
Pelletier piegò la lettera e la rimise nella borsa.
«Quindi i libri sono ancora in tuo possesso, Simeon? Qui, in questa ca-
sa? Dobbiamo portarli...»
Una serie di violenti colpi alla porta turbò la tranquillità della stanza. E-
sther si alzò immediatamente, con gli occhi a mandorla bene aperti. A un
cenno di Simeon, si affrettò per il corridoio.
«Hai ancora tu i libri?» chiese di nuovo Pelletier, più pressante adesso
che l'espressione sul volto di Simeon cominciava a farlo agitare. «Non so-
no andati perduti, vero?»
«Non sono perduti, amico mio» iniziò, ma fu interrotto da Esther.
«Padrone, c'è una signora che chiede di essere ammessa in casa.» Pro-
nunciò talmente in fretta le parole in ebraico che l'orecchio arrugginito di
Pelletier non riuscì a comprenderle.
«Che genere di signora?»
Esther scrollò il capo. «Non lo so, padrone. Dice che è qui per vedere il
vostro ospite, l'intendente Pelletier.»
Tutti e tre si voltarono quando udirono il rumore di passi nel corridoio.
«L'hai lasciata da sola?» chiese Simeon preoccupato e si sforzò di met-
tersi in piedi.
Anche Pelletier si alzò. Batté le palpebre, non voleva credere ai suoi oc-
chi. Persino il pensiero della missione abbandonò la sua mente quando vi-
de Alaïs, ferma sulla soglia. Il viso rosso e i vispi occhi castani esprimeva-
no rincrescimento e determinazione.
«Perdonate la mia intrusione» esordì, spostando lo sguardo da suo padre
a Simeon e viceversa, «ma temevo che la vostra serva non mi avrebbe la-
sciata entrare.» Con due lunghi passi, Pelletier attraversò la stanza e strinse
la figlia fra le braccia.
«Non arrabbiatevi se vi ho disubbidito» disse Alaïs più timorosa. «Do-
vevo venire.»
«Questa incantevole fanciulla è...» iniziò Simeon.
Pelletier prese per mano Alaïs e la condusse al centro della stanza. «Ma
certo. Quasi dimenticavo. Simeon, questa è mia figlia, Alaïs, ma non so
assolutamente come e per quale motivo si trovi qui a Besièrs!» Alaïs chinò
il capo. «E questo è il mio più caro e vecchio amico, Simeon di Chartres,
un tempo della città santa di Gerusalemme.»
Il volto di Simeon era tutto un sorriso. «La figlia di Bertrand. Alaïs.» Le
prese le mani. «Sei la benvenuta.»

CAPITOLO 28

«Ora mi racconterete della vostra amicizia?» domandò Alaïs, dopo es-


sersi seduta sul divano accanto al padre. Si rivolse a Simeon. «Gli ho già
chiesto una volta di parlarmene, ma non è stato disposto a fidarsi di me.»
Simeon era più vecchio di come se lo era immaginato. Aveva le spalle
curve e il volto ricoperto di rughe che si intersecavano, la mappa di una vi-
ta che aveva visto dolore e perdite, ma anche grande felicità e allegria. Le
sopracciglia erano folte e irte, gli occhi vivaci denotavano un'intelligenza
elevata. I capelli ricci erano quasi tutti grigi, ma la lunga barba, profumata
e lucida, era ancora nera come l'ala di un corvo. Ora capiva perché suo pa-
dre aveva pensato che l'uomo nel fiume fosse lui.
Con discrezione, Alaïs fece scivolare lo sguardo sulle mani e provò u-
n'improvvisa soddisfazione. Era proprio come immaginava. Al pollice si-
nistro portava un anello identico a quello di suo padre.
«Suvvia, Bertrand» diceva Simeon. «Si è meritata la storia. Dopo tutto,
ha fatto un bel po' di strada per ascoltarla!»
Alaïs sentì il padre irrigidirsi. Lo guardò. Aveva le labbra serrate.
Andrà in collera quando saprà quello che ho fatto.
«Non sarai venuta a cavallo da Carcassona senza una scorta!» esclamò.
«Non saresti mai tanto sciocca da intraprendere un simile viaggio da sola,
vero? Non avresti mai corso un tale rischio!»
«Io...»
«Rispondi.»
«Mi è sembrata la cosa più saggia da...»
«Più saggia?» scoppiò. «Di tutte le...».
Simeon ridacchiò. «Sempre il solito temperamento, Bertrand.»
Alaïs trattenne un sorriso e posò la mano sul braccio del padre.
«Paire» disse pazientemente. «Come vedete sono sana e salva. Non mi è
accaduto nulla.»
Lui abbassò lo sguardo e vide le mani ricoperte di graffi. Alaïs le coprì
lesta con la mantella. «Non è successo nulla di grave. Non è niente. Soltan-
to un graffio.»
«Eri armata?»
Annuì. «Ma certo.»
«Allora dove...?»
«Ho ritenuto imprudente camminare per le strade di Besièrs agghindata
in quel modo.»
Alaïs lo guardò con occhi innocenti.
«Bene» borbottò sottovoce. «Non ti è capitata nessuna disavventura?
Non sei ferita?»
Con la spalla dolorante, Alaïs lo fissò. «No» mentì. Lui aggrottò la fron-
te, ma sembrava si fosse rabbonito, «Come sapevi che eravamo qui?»
«L'ho appreso da Amiel de Coursan, il figlio del seigneur, che si è gen-
tilmente offerto di scortarmi.»
Simeon annuiva. «È molto ammirato da queste parti.»
«Sei stata davvero fortunata» commentò Pelletier, ancora restio a lasciar
cadere la questione. «Fortunata, ma anche molto, molto stupida. Avrebbe-
ro potuto ucciderti. Ancora non riesco a credere che...»
«Eri sul punto di raccontarle come ci siamo conosciuti, Bertrand» inter-
venne Simeon con brio. «Le campane hanno cessato di suonare, quindi il
Consiglio deve essere cominciato. Non abbiamo molto tempo.»
Per un po' il padre continuò a tenere il broncio. Alla fine rilassò le spalle
e il volto si riempì di rassegnazione.
«Va bene, va bene. Se lo desiderate entrambi.»
Alaïs scambiò uno sguardo con Simeon. «Indossa il vostro stesso anello,
paire.»
Pelletier sorrise. «Simeon fu reclutato da Harif in Terra Santa, come me,
anche se diverso tempo prima e quindi i nostri cammini non si sono incro-
ciati. Quando la minaccia del Saladino e della sua armata crebbe, Harif ri-
mandò Simeon nella sua città natale, Chartres. Qualche mese più tardi, io
lo seguii e portai con me le tre pergamene. Il viaggiò durò più di un anno,
ma quando finalmente raggiunsi Chartres, trovai Simeon ad aspettarmi,
come Harif aveva promesso.» I ricordi lo fecero sorridere. «Quanto ho o-
diato il freddo e l'umidità, dopo il calore e la luce di Gerusalemme! Char-
tres era un posto così tetro, così desolato. Ma fra me e Simeon si creò una
certa intesa fin dall'inizio. Il suo compito era quello di rilegare le pergame-
ne in tre volumi separati. Mentre lui sgobbava sui libri, io venivo ad ammi-
rare la sua bravura, la sua saggezza, il suo buon umore.»
«Non esagerare, Bertrand» mormorò Simeon, ma si vedeva che i com-
plimenti gli facevano piacere.
«Cosa ci trovasse, poi, Simeon» continuò Pelletier «in un soldato igno-
rante e analfabeta come me, chiedilo a lui. Non spetta a me giudicare.»
«Eri desideroso di imparare, amico mio, di ascoltare» replicò Simeon
con voce sommessa. «Questo ti distingueva da tutti gli altri seguaci della
tua religione.»
«Ho sempre saputo che i libri dovevano essere separati» riprese Pelle-
tier. «Non appena Simeon ebbe terminato il lavoro, ricevetti da Harif l'or-
dine di ritornare nella mia città natale, dove mi aspettava la carica di inten-
dente del giovane visconte Trencavel. Col senno di poi, è assurdo che non
abbia mai chiesto che fine avrebbero fatto gli altri due libri. Immaginavo
che Simeon ne avrebbe custodito uno, anche se non potevo dirlo con cer-
tezza, ma l'altro? Non ho nemmeno chiesto. Oggi mi vergogno della mia
mancanza di curiosità. Ma allora mi limitai a prendere il libro affidatomi e
dirigermi a sud.»
«Non devi vergognartene» lo rincuorò Simeon con dolcezza. «Hai ese-
guito gli ordini, in buona fede e con coraggio.»
«Prima che piombassi qui facendomi dimenticare di qualunque altra co-
sa, Alaïs, stavamo proprio parlando dei libri.»
Simeon si schiarì la voce. «Del libro» lo corresse. «Ne ho soltanto uno.»
«Cosa?» esclamò bruscamente Pelletier. «Ma la lettera di Harif... avevo
capito che erano entrambi in tuo possesso. O che almeno tu sapessi dove si
trovasse ognuno dei due.»
Simeon scosse il capo. «Una volta, ma non lo so più da molti anni. Il Li-
bro dei Numeri è qui. Quanto all'altro, ti confesso che speravo di ricevere
qualche buona notizia da parte tua.»
«Ma se non lo hai tu, allora chi?» chiese Pelletier con insistenza. «Ero
convinto che li avessi tenuti entrambi con te, quando lasciasti Chartres.»
«Infatti è così ma...»
«Ma...»
Alaïs accarezzò il braccio del padre. «Lasciate che Simeon ci spieghi.»
Per un attimo sembrò che Pelletier fosse sul punto di perdere le staffe,
poi annuì. «Va bene» fece in tono sgarbato. «Racconta.»
«Lei ti somiglia proprio tanto, amico mio» ridacchiò Simeon. «Subito
dopo la tua partenza, il Navigatairé mi comunicò che un custode sarebbe
venuto a prendere il secondo testo, il Libro delle Pozioni, ma non lasciò in-
tendere chi potesse essere quella persona. Mi tenni pronto, sempre all'erta.
Gli anni passarono, io invecchiai, ma ancora non era venuto nessuno. Alla
fine, nell'anno del vostro Signore 1194, subito dopo il rogo che distrusse la
cattedrale e gran parte della città di Chartres, arrivò un uomo, un cavaliere
cristiano di nome Philippe de Saint-Mauré.»
«Il nome mi è familiare. Era in Terra Santa insieme a me, anche se non
ci siamo mai incontrati.» Si accigliò. «Perché ha aspettato tanto?»
«È quello che mi sono chiesto anch'io, Bertrand. Saint-Mauré mi ha mo-
strato il merel nel modo appropriato. Indossava l'anello che anche noi due
portiamo con orgoglio. Non avevo motivo di dubitare di lui... eppure...»
Simeon alzò le spalle. «C'era qualcosa di falso in lui. Aveva gli occhi fur-
bi, come una volpe. Non mi fidavo. Non sembrava il genere di uomo che
Harif avrebbe potuto scegliere. Non aveva rispetto. Così, decisi che, nono-
stante i segni di riconoscimento che aveva portato, dovevo metterlo alla
prova.»
«E come?» le parole uscirono di bocca ad Alaïs ancor prima che se ne
accorgesse.
«Alaïs» la riprese il padre.
«Non fa niente, Bertrand. Feci finta di non capire. Strinsi le mani in mo-
do umile, arrendevole e gli dissi che purtroppo doveva avermi confuso con
qualcun altro. Sguainò la spada.»
«Il che confermò il tuo sospetto che non fosse chi diceva di essere.»
«Mi minacciò e inveì contro di me, ma a quel punto arrivarono i miei
servi e lui si trovò in minoranza, non poté far altro che fuggire.» Simeon si
sporse in avanti, la voce diventò un sussurro. «Quando ebbi la certezza che
se ne era andato, avvolsi i due libri in un fagotto di vecchi abiti e trovai ri-
fugio presso una famiglia cristiana delle vicinanze, la quale sapevo che
non mi avrebbe tradito. Non riuscivo a decidere quale fosse la cosa miglio-
re da fare. Non ero sicuro di nulla. Era un impostore? O era davvero un cu-
stode, uno la cui anima era stata offuscata dall'avarizia o dalla promessa di
potere e di ricchezza? Ci aveva traditi? Nella prima ipotesi, c'era ancora la
possibilità che il vero custode venisse a Chartres e non mi trovasse. Nel-
l'ultima, avevo il dovere di scoprire tutto ciò che potevo. Ancora oggi, mi
chiedo se ho fatto la scelta più saggia.»
«Avete fatto quello che ritenevate giusto» lo confortò Alaïs, noncurante
dello sguardo severo con cui il padre le diceva di tacere. «Nessuno si sa-
rebbe comportato in modo diverso.»
«Giusto o sbagliato, il fatto è che non mi mossi per due giorni. Se non
che, il corpo mutilato di un uomo fu ritrovato nelle acque del fiume Eure.
Gli avevano cavato gli occhi e tagliato la lingua. Stando ai pettegolezzi, si
trattava di un cavaliere al servizio del figlio maggiore di Charles d'Evreux,
i cui domini sono poco distanti da Chartres.»
«Philippe de Saint-Mauré.»
Simeon annuì. «Gli ebrei furono accusati dell'omicidio. Subito comin-
ciarono le rappresaglie. Io ero un perfetto capro espiatorio. Cominciò a
spargersi la voce che sarebbero venuti a prendermi. C'erano testimoni, af-
fermarono, che avevano visto Saint-Mauré bussare alla mia porta e che po-
tevano giurare di averci visti litigare e venire alle mani. Questo mi fece
giungere alla conclusione che forse Saint-Mauré era chi diceva di essere.
Forse era un uomo onesto, chissà. Non aveva più importanza. Era morto,
così credevo almeno, a causa di quello che aveva scoperto sui Codici del
Labirinto. La sua morte e il modo in cui gli era stata inflitta mi convinsero
che c'erano altre persone coinvolte. Che il segreto del Graal fosse stato
violato in qualche modo.»
«Come ne siete uscito?» domandò Alaïs.
«I miei servi si erano già dileguati e messi in salvo, o perlomeno lo spe-
ravo. Restai nascosto fino alla mattina successiva. Appena si aprirono le
porte della città, dopo essermi tagliato la barba, sgattaiolai fuori travesten-
domi da vecchia signora. Esther mi accompagnò.»
«Allora non eri qui quando hanno costruito il labirinto di pietra nella cat-
tedrale nuova?» chiese Pelletier. Alaïs fu sorpresa di vederlo sorridere,
come a una battuta che potevano capire soltanto loro due. «Non lo hai vi-
sto?»
«Di che si tratta?» domandò Alaïs.
Simeon ridacchiò e si rivolse solo a Pelletier. «No, anche se ho saputo
che è servito allo scopo. Molte persone sono attratte da quell'inutile cer-
chio di pietra. Guardano, cercano, ma non capiscono che quello che giace
ai loro piedi è un falso segreto.»
«Che cos'è questo labirinto?» chiese di nuovo Alaïs.
Continuavano a non prestarle attenzione.
«Ti avrei dato rifugio a Carcassona. Un tetto sulla testa, un nascondiglio.
Perché non sei venuto da me?»
«Credimi, Bertrand, non avrei desiderato altro. Ma hai dimenticato come
sono diverse le terre del nord da quelle tolleranti del Pays d'Oc? Non pote-
vo viaggiare liberamente, amico mio. Erano tempi duri per gli ebrei quelli.
C'era il coprifuoco, le nostre botteghe venivano assaltate e depredate di
continuo.» Riprese fiato. «Inoltre, se li avessi condotti da te, chiunque essi
fossero, non me lo sarei mai perdonato. Quando quella notte abbandonai
Chartres, non avevo idea di dove mi sarei diretto. La cosa meno rischiosa
da fare era sparire finché le acque non si fossero calmate. In realtà, la pau-
ra del rogo mi fece dimenticare tutto.»
«Come vi siete ritrovato a Besièrs?» chiese Alaïs, determinata a inserirsi
di nuovo nella conversazione. «È stato Harif a mandarvi qui?»
Simeon scosse il capo. «Sono stati il caso e la buona sorte, Alaïs, non u-
n'intenzione ben precisa. Prima andai nella Champagne, dove trascorsi
l'inverno. Quando arrivò la primavera e si sciolsero i ghiacci, mi incammi-
nai verso sud. Ebbi la fortuna di imbattermi in un gruppo di ebrei inglesi,
che fuggivano dalle persecuzioni che avevano luogo nel loro paese. Erano
diretti a Besièrs. Per me un posto valeva l'altro. La città era rinomata per la
tolleranza, gli ebrei ricoprivano ruoli di responsabilità e di spicco, la nostra
cultura e le nostre abilità venivano rispettate. La vicinanza con Carcassona
significava che sarei stato a disposizione se Harif avesse avuto bisogno di
me.» Si rivolse a Bertrand. «Dio solo sa quanto sia stato difficile pensare
che tu eri soltanto a pochi giorni di viaggio da me, ma la saggezza e la
prudenza mi dicevano che era giusto così.»
Si fece più avanti, con gli occhi neri che sfavillavano. «Persino allora
c'erano versi, canzoni che circolavano all'interno delle corti del nord. Nella
Champagne, trovatori e menestrelli cantavano di una magica coppa, di un
elisir di lunga vita troppo simile a quello vero per poterli ignorare.» Pelle-
tier annuì. Era capitato anche a lui di sentirli. «Perciò mettendo tutto sul
piatto della bilancia, era più prudente restare per conto mio. Se li avessi
portati alla tua porta, non me lo sarei mai perdonato, amico mio.»
Pelletier emise un lungo sospiro. «Simeon, temo che malgrado tutti i no-
stri sforzi siamo stati traditi, anche se non posso provarlo con certezza.
Qualcuno sa del legame che intercorre fra noi, ne sono sicuro. Se ne cono-
scano anche la natura, questo non saprei dirlo.»
«È successo qualcosa che ti spinge a pensarlo?»
«Circa una settimana fa, Alaïs ha scoperto il cadavere di un uomo che
galleggiava sulle acque dell'Aude, un ebreo. Gli avevano tagliato la gola e
reciso il pollice della mano sinistra. Non gli avevano rubato nulla. Non ce
n'era motivo, ma ho subito pensato a te. Ho pensato che l'avessero scam-
biato per te.» Si fermò. «Prima di allora, c'erano stati altri indizi. Ho confi-
dato ad Alaïs alcune delle mie responsabilità, nel caso in cui mi fosse capi-
tato qualcosa e non avessi fatto ritorno a Carcassona.»
È arrivato il momento di dirgli perché sei qui.
«Padre, dal momento che...»
Pelletier alzò una mano per impedirle di interromperlo. «Hai avuto il so-
spetto che il tuo vagabondare fosse stato scoperto, Simeon? Da coloro che
ti avevano dato la caccia a Chartres o da altri?»
Simeon fece di no con la testa. «Non di recente. Sono passati più di
quindici anni da quando mi sono trasferito al sud e posso dirti che per tutto
questo tempo non c'è stato giorno in cui non mi sia aspettato di ritrovarmi
un coltello alla gola. Ma se ti riferisci a qualcosa di particolare, allora no.»
Alaïs non riuscì più a trattenersi. «Padre, quello che devo dirvi ha a che
fare con questa faccenda. Devo raccontarvi cosa è accaduto a Carcassona
dopo la vostra partenza. Vi prego.»

Quando Alaïs ebbe finito il proprio racconto, il padre aveva il volto pao-
nazzo. Alaïs temeva che sarebbe andato su tutte le furie. Né lei né Simeon
sarebbero riusciti a placare la sua ira.
«I Codici sono stati scoperti» sbraitò. «Non c'è ombra di dubbio.»
«Stai calmo, Bertrand» disse Simeon con fermezza. «La rabbia servirà
soltanto a offuscare la ragione.»
Alaïs si voltò in direzione delle finestre, poiché aveva notato che il ru-
more per le strade aumentava. Anche Pelletier, dopo un istante di esitazio-
ne, alzò il capo.
«Le campane hanno smesso di suonare» osservò rapidamente. «Devo
tornare a palazzo. Il visconte Trencavel mi aspetta.» Si alzò in piedi. «De-
vo riflettere su quanto mi hai raccontato, Alaïs, e decidere il da farsi. Per
adesso, dobbiamo concentrare i nostri sforzi sulla partenza.» Si voltò verso
l'amico. «Simeon, tu verrai con noi.»
Mentre Pelletier parlava, Simeon aveva aperto un baule di legno intarsia-
to che si trovava dalla parte opposta della stanza. Alaïs si avvicinò piano
piano. Il coperchio era bordato di velluto dall'intenso color cremisi, incre-
spato a formare grandi pieghe, simili alle tende di un baldacchino.
Simeon scosse il capo. «Non partirò insieme a voi. Seguirò il mio popo-
lo. Quindi, per il bene di tutti, devi prendere questo.»
Alaïs vide Simeon far scivolare la mano sul fondo del baule. Ci fu uno
scatto e si aprì un cassettino alla base. Quando Simeon si drizzò, Alaïs vi-
de che aveva in mano un oggetto racchiuso in un involucro di pelle di
montone.
I due uomini si scambiarono uno sguardo, quindi Pelletier prese il libro
dalle mani tese di Simeon e lo nascose sotto il mantello.
«Nella lettera Harif parlava di una sorella, a Carcassona» disse Simeon.
Pelletier annuì. «Un'amica della Noublesso, così ho interpretato quelle
parole. Non credo che significhino altro.»
«Fu una donna che venne a prendere il secondo libro, Bertrand» ribatté
Simeon in tono pacato. «Ti confesso che anch'io all'inizio ho pensato che
si trattasse soltanto di un corriere, ma alla luce di quanto mi hai detto...»
Pelletier scartò l'ipotesi con un cenno della mano. «Non credo proprio
che Harif abbia nominato una donna custode di uno dei libri, a prescindere
dalle circostanze. Non avrebbe corso un tale rischio.»
Alaïs era sul punto di parlare, ma si morse la lingua.
Simeon scrollò le spalle. «Dovremmo considerare questa ipotesi.»
«Ebbene, che genere di donna era?» chiese impaziente Pelletier, «Ti è
sembrata davvero il tipo di persona in grado di custodire un oggetto tanto
prezioso?»
Simeon scosse il capo. «A dire la verità, no. Non era di nobili natali, né
di origini troppo umili. Aveva superato da un pezzo l'età fertile, anche se
aveva un bambino con sé. Era diretta a Carcassona, passando per Servian,
la sua città natale.»
Alaïs drizzò le orecchie.
«È un numero esiguo di informazioni» si lamentò Bertrand. «Non ti ha
detto come si chiamava?»
«No, e non glie'ho chiesto, dal momento che portava una lettera di Harif.
Le ho dato pane, formaggio e frutta, poi è ripartita.»
Erano ormai arrivati all'uscio.
«Mi dispiace dovervi lasciare» disse Alaïs in modo brusco: all'im-
provviso era preoccupata per lui.
Simeon sorrise. «Andrà tutto bene, figliola. Esther preparerà le poche
cose che ho intenzione di portare a Carcassona. Viaggerò in incognito, na-
scosto fra la folla. Sarà meglio per tutti.»
Pelletier annuì. «Il quartiere ebraico si trova lungo il fiume, a est di Car-
cassona, non lontano dal sobborgo di Sant-Vicens. Manda qualcuno ad av-
visarci del tuo arrivo.»
«Lo farò.»
I due uomini si abbracciarono, quindi Pelletier uscì nella strada affollata.
Alaïs lo seguì, ma Simeon le poggiò una mano sulla spalla per trattenerla.
«Sei molto coraggiosa, Alaïs, Sei stata determinata nel servire tuo padre.
E anche la Noublesso. Ma abbi cura di lui. Il suo temperamento potrebbe
fargli perdere la retta via e ci aspettano tempi duri e scelte difficili.»
Alaïs guardò indietro e parlò sottovoce affinché il padre non la sentisse.
«Qual era il libro che quella donna ha portato a Carcassona? Il libro che è
andato smarrito?»
«Il Libro delle Pozioni» rispose. «Un elenco di piante e di erbe. A tuo
padre fu affidato il Libro delle Parole, a me invece il Libro dei Numeri.»
A ciascuno la propria arte.
«Credo di averti detto quello che volevi sapere» concluse Simeon, guar-
dandola da sotto le sopracciglia folte con l'aria di chi la sapeva lunga. «O
forse ho solo confermato una congettura?»
Sorrise. «Benlèu.» Può darsi.
Alaïs lo baciò e corse per raggiungere il padre.
Provviste per il viaggio. E forse anche una tavoletta di legno.
Alaïs era determinata a tenere per sé la sua intuizione, almeno finché
non fosse sfata sicura, anche se era già convinta di sapere dove si trovava il
libro. La miriade di legami che avvolgeva le loro vite come una tela di ra-
gno improvvisamente le apparve chiara. Se qualche piccolo indizio man-
cava, era perché non era stato cercato.

CAPITOLO 29

Mentre attraversavano di fretta la città, ebbero la conferma del fatto che


l'esodo era iniziato.
Ebrei e saraceni si dirigevano verso le porte principali, alcuni a piedi, al-
tri con carretti pieni di oggetti personali, libri, mappe, mobili; usurai su ca-
valli sellati trasportavano ceste, scrigni, bilance per la pesatura e rotoli di
pergamena, Alaïs notò anche qualche famiglia cristiana tra la folla.
La corte del palazzo era di un bianco accecante nella luce del mattino.
Quando attraversarono i cancelli, Alaïs notò l'espressione sollevata sul vol-
to del padre quando capì che il Consiglio non si era ancora concluso.
«Qualcun altro sa che sei qui?»
Alaïs si fermò, inorridita per non aver pensato a Guilhem nemmeno un
istante. «No. Sono venuta dritta da voi.»
L'aria compiaciuta che comparve sul viso del padre la irritò.
Pelletier annuì. «Aspetta qui. Avviserò il visconte Trencavel della tua
presenza e gli chiederò il permesso di farti viaggiare con noi. Anche tuo
marito dovrebbe essere informato.»
Alaïs lo vide scomparire nell'oscurità del castello. Rimasta sola, si guar-
dò attorno. Alcuni animali erano sdraiati all'ombra, il pelo schiacciato con-
tro le chiare pareti fredde, noncuranti dei problemi umani. Malgrado la sua
disavventura e le storie che Amiel de Coursan le aveva raccontato, lì, nella
tranquillità del palazzo, le risultava difficile credere che la minaccia della
guerra fosse così imminente come affermavano.
Alle sue spalle, le porte si spalancarono e una marea di gente si riversò
giù per la scalinata e nella corte. Alaïs si appoggiò a una colonna per evita-
re di essere travolta dalla calca.
Nella corte ci fu un viavai di urla, istruzioni, ordini dati e ricevuti, écu-
yers che andavano di corsa a prendere il cavallo al proprio padrone. In un
batter d'occhio, il palazzo si era trasformato da sede amministrativa in cen-
tro della guarnigione.
Nel trambusto, Alaïs udì qualcuno chiamare il suo nome. Guilhem. Il
cuore le balzò in gola. Si voltò, sforzandosi di capire da dove provenisse la
voce.
«Alaïs» urlò Guilhem incredulo. «Com'è possibile? Che ci fai qui?»
Finalmente lo vide. Guilhem si aprì a forza un varco tra la folla e alla fi-
ne la prese fra le braccia, stringendola così forte che le sembrò quasi di
soffocare. Per un istante, la vista e l'odore del marito scacciarono tutti gli
altri pensieri dalla mente di Alaïs. Tutto dimenticato, tutto perdonato. Era
quasi intimidita dalla sua palese e immensa gioia di vederla. Chiuse gli oc-
chi e immaginò che fossero soli, tornati come per miracolo allo Château
Comtal, quasi che tutte le tribolazioni degli ultimi giorni fossero state solo
un brutto sogno.
«Quanto mi sei mancata» esclamò Guilhem, baciandola dappertutto: sul-
la nuca, sul collo, sulle mani. Alaïs fece una smorfia di dolore.
«Mon còr, cosa c'è?»
«Niente» rispose lei pronta.
Guilhem alzò la mantella e scoprì i vistosi lividi violacei intorno alla
spalla. «Niente, per Sant-Foy! Come diavolo...»
«Sono caduta» lo interruppe. «Ho battuto la spalla. È meno grave di
quanto sembra. Ti prego, non ti preoccupare.»
Adesso Guilhem aveva l'aria sconcertata, o era turbato o non le credeva.
«È così che passi il tempo mentre io sono via?» le chiese, mentre un'e-
spressione sospettosa prendeva forma sul suo viso. Indietreggiò. «Perché
sei qui, Alaïs?»
Alaïs balbettò: «Per recapitare un messaggio a mio padre».
Appena le uscirono di bocca, si rese conto di aver pronunciato le parole
sbagliate. La sua gioia smisurata fu sostituita dall'ansia. Il marito diventò
scuro in volto.
«Quale messaggio?»
Alaïs restò di stucco. Cosa poteva aver detto a suo padre? Che scusa po-
teva inventare?
«Io...»
«Quale messaggio, Alaïs?»
Trattenne il respiro. Desiderava più di ogni altra cosa che ci fosse since-
rità fra loro, ma aveva dato al padre la sua parola.
«Chiedo scusa, messire, ma non posso dirlo. Era un messaggio per le sue
orecchie soltanto.»
«Non puoi o non vuoi?»
«Non posso, Guilhem» rispose rammaricata. «Vorrei che fosse altrimen-
ti.»
«Ti ha mandata a chiamare lui?» chiese furioso. «Ti ha fatto chiamare
senza chiedermi il permesso?»
«No, nessuno mi ha fatto chiamare» urlò. «Sono venuta di mia sponta-
nea volontà.»
«Ma ti rifiuti di dirmi perché.»
«Ti supplico Guilhem. Non chiedermi di infrangere la promessa fatta a
mio padre. Per favore. Cerca di capire.»
L'afferrò per le braccia e la scosse. «Non vuoi dirmelo? No?» Fece una
risata amara e pungente. «E pensare che ero convinto di avere più diritti di
chiunque altro su di te. Che stupido!»
Alaïs cercò di fermarlo, ma era già lontano in mezzo alla calca. «Guil-
hem, aspetta!»
«Che succede?»
Si voltò e vide che c'era il padre alle sue spalle.
«Mio marito è offeso perché mi sono rifiutata di confidarmi con lui.»
«Gli hai detto che ti ho proibito io di parlare?»
«Ho provato, ma non mi ha dato retta.»
Pelletier aggrottò le sopracciglia. «Non ha il diritto di chiederti di in-
frangere una promessa.»
Alaïs si oppose, sentiva la rabbia fremerle dentro.
«Con il dovuto rispetto, paire, lui ha tutti i diritti. È mio marito. Merita
la mia obbedienza e la mia lealtà.»
«Non ti stai comportando in modo sleale» ribatté Pelletier spazientito.
«La sua rabbia passerà. Questo non è né il luogo né il momento.»
«È molto sensibile. Gli insulti lo feriscono nel profondo.»
«E chi non lo è?» replicò lui. «Siamo tutti sensibili. La differenza è che
noialtri non lasciamo che le emozioni prendano il sopravvento sul buon
senso. Andiamo, Alaïs. Lascia perdere. Guilhem è qui per difendere il suo
seigneur, non per preoccuparsi di sua moglie. Non appena faremo ritorno a
Carcassona, sono certo che tutto si risolverà in fretta tra voi.» Le scoccò un
bacio sulla testa. «Lascia stare. Ora, vai a prendere Tatou. Devi prepararti
per la partenza.»
Si voltò adagio e lo seguì verso le scuderie. «Dovete chiedere a Oriane
che ruolo ha avuto nella vicenda. Sono certa che c'entri qualcosa con quan-
to che mi è accaduto.»
Pelletier agitò la mano. «Sono sicuro che hai interpretato male il com-
portamento di tua sorella. Da troppo tempo c'è astio fra voi e io ho lasciato
che crescesse senza alcun freno, convinto che presto sarebbe passato.»
«Perdonatemi, paire, ma credo che non vediate la sua vera natura.»
Pelletier ignorò quel commento. «Alaïs, sei sempre troppo dura nei con-
fronti di Oriane. Sono certo che ti abbia assistito con le più nobili intenzio-
ni. Glielo hai chiesto, almeno?» Alaïs arrossì. «Appunto. Dalla tua faccia
deduco che non lo hai fatto.» Fece un'altra pausa. «È tua sorella, Alaïs.
Merita un po' più di rispetto.»
Quell'ingiusto rimprovero fece esplodere la rabbia che le ribolliva in se-
no.
«Non sono io...»
«Se ne avrò il tempo, parlerò con Oriane» la interruppe in modo brusco:
era evidente che il discorso era chiuso.
Alaïs avvampò, ma si morse la lingua. Aveva sempre saputo di essere la
preferita di suo padre, pertanto capì che doveva essere la mancanza di af-
fetto nei confronti di Oriane che pungeva la sua coscienza e lo rendeva
cieco di fronte alle colpe della primogenita. Da lei, si aspettava qualcosa di
più.
Frustrata, si mise al passo con il padre. «Cercherete di scoprire chi ha
rubato il merel? Avete...»
«Basta, Alaïs. Non possiamo fare nulla, finché non saremo tornati a Car-
cassona. Ora, dobbiamo solo sperare che Dio ci assista durante il viaggio e
che ci faccia arrivare a casa il più presto possibile.» Pelletier si fermò e si
guardò intorno. «E pregare che Besièrs sopporti l'assedio.»

CAPITOLO 30

CARCASSONNE
Martedì, 5 luglio 2005

Alice sentiva crescere l'entusiasmo, mentre si allontanava in auto da


Toulouse.
L'autostrada correva dritta attraverso una fertile distesa di appezzamenti
verdi e marroni. Di tanto in tanto scorgeva un campo di girasoli, con i ca-
polini inclinati per via del sole del tardo pomeriggio. Per gran parte del
tragitto la ferrovia ad alta velocità costeggiava l'autostrada. In confronto
alle aspre montagne e alle valli incassate dell'Ariège, che erano state il suo
primo approccio con la Francia, questo era un paesaggio più dolce.
Sulle sommità delle colline sorgevano piccoli villaggi. Qualche casa con
le persiane chiuse e un cloche-mur, con il profilo delle campane che si sta-
gliava nel cielo roseo del tramonto. Passando, leggeva i nomi delle città:
Avignonet, Castelmaudary, Saint-Papoul, Bram, Mirepoix. Assaporava
ogni nome quasi fosse un sorso di vino. Immaginava che ogni città posse-
desse strade acciottolate e una storia nascosta fra le chiare mura di pietra.
Attraversò il département dell'Aude. Un cartello marrone diceva: Vous
êtes en Pays Cathare. Sorrise. Paese cataro. Cominciava a capire quanto
tutta la regione fosse legata al proprio passato. Non solo Foix, ma anche
Toulouse, Béziers e la stessa Carcassonne: tutte le grandi città del sud-
ovest vivevano ancora all'ombra di eventi che avevano avuto luogo circa
ottocento anni prima. Libri, souvenir, cartoline, video, un'intera industria
del turismo si era sviluppata sulla base di quegli avvenimenti. Come le
ombre della sera si allungavano verso est, così i segnali stradali sembrava-
no indirizzarla verso Carcassonne.
Alle nove, Alice era uscita dal péage e seguiva le indicazioni per il cen-
tro. Era nervosa, emozionata, stranamente agitata mentre avanzava per la
grigia zona industriale e i centri commerciali. Era vicina ormai, lo sentiva.
Appena il semaforo diventò verde, ripartì. Trasportata dalla corrente del
traffico, percorse rotatorie e ponti finché all'improvviso si trovò di nuovo
in aperta campagna. Boscaglia informe lungo la rocade, piante selvatiche,
alberi ritorti e inclinati quasi in orizzontale dal vento.
Alice scorse la cima di un colle, ed eccola là.
La Cité medievale dominava il paesaggio. Era molto più imponente di
quanto immaginasse, più solida e integra. Da lontano, in netto contrasto
con le montagne violacee, sembrava un regno incantato che fluttuava nel-
l'aria.
Alice se ne innamorò a prima vista.
Accostò e uscì dall'auto. C'erano due cinte murarie, una interna e una e-
sterna. Scorse la cattedrale e il castello. Una torre di base quadrata, molto
alta e sottile, si levava imponente sopra ogni altra cosa.
La Cité era situata sulla cima di una collina erbosa. I pendii portavano
alle strade piene di case dai tetti rossi. Nella pianura ai piedi del colle c'e-
rano vigneti, oliveti, alberi di fico e serre con file di pomodori grossi e ma-
turi.
Riluttante ad avvicinarsi per non spezzare l'incanto, Alice guardò il sole
che tramontava scolorando il paesaggio. Rabbrividì. L'aria della sera le ge-
lò improvvisamente le braccia nude.
La memoria le fornì le parole più appropriate. Arrivare dove abbiamo
cominciato e conoscere quel luogo per la prima volta.
Per la prima volta, Alice capiva perfettamente cosa voleva dire Eliot.

CAPITOLO 31

Lo studio legale di Paul Authié si trovava a Carcassonne, nel cuore della


Basse Ville.
Negli ultimi due anni l'attività era cresciuta in fretta e la sede dello stu-
dio rispecchiava tale successo. Un edificio di acciaio e vetro, progettato da
un architetto d'avanguardia. Un elegante cortile recintato, un giardinetto
interno che separava uffici e corridoi. Era sobrio e alla moda.
Authié era nella sua stanza privata al quarto piano. L'immensa finestra si
affacciava a ovest, sulla cattedrale di Saint-Michel e sulla caserma dei pa-
racadutisti. La stanza, ordinata e con un'atmosfera minimalista e raffinata,
rispecchiava la sua personalità.
Il muro esterno dell'ufficio era interamente di vetro. A quell'ora le vene-
ziane erano tirate per non far entrare il sole del tardo pomeriggio. Le altre
tre pareti erano costellate di cornici che racchiudevano fotografie, attestati
e diplomi. C'erano diverse carte geografiche antiche, originali, non ripro-
duzioni. Alcune raffiguravano il percorso dei crociati, altre gli spostamenti
dei confini della Linguadoca nel corso degli anni. La carta era ingiallita e
l'inchiostro rosso e verde, sbiadito in alcuni punti, formava chiazze irrego-
lari di colore.
Una scrivania larga e lunga, progettata su misura, era collocata davanti
alla finestra. Era quasi vuota, tranne che per lo scartafaccio con il bordo di
pelle e alcune foto incorniciate, una delle quali ritraeva la ex moglie con ì
loro due bambini. La teneva in mostra perché i clienti si sentivano rassicu-
rati dall'immagine di stabilità e dai valori familiari che trasmetteva.
C'erano altre tre foto: la prima lo raffigurava a ventun anni, mentre
stringeva la mano al leader del Front Nationale, Jean-Marie Le Pen, subito
dopo la laurea, che aveva conseguito alla École Nationale d'Administration
di Parigi; la seconda era stata scattata a Compostela; la terza, l'anno prece-
dente insieme all'abate di Citeaux, fra gli altri, in occasione dell'ultima e
consistente donazione di Authié alla Compagnia di Gesù.
Ognuna delle fotografie gli rammentava quanto fosse arrivato in alto.
Il telefono sulla scrivania squillò. «Oui?» La segretaria annunciò l'arrivo
delle persone che aspettava. «Mandali su.»
Javier Domingo e Cyrille Braissart erano entrambi ex poliziotti. Brais-
sart era stato licenziato nel 1999 per aver commesso abuso d'ufficio nell'in-
terrogare un sospettato, Domingo un anno dopo a causa di minacce e bu-
starelle. Se nessuno dei due era finito dietro le sbarre, era stato merito del-
l'abile Authié. Da allora avevano cominciato a lavorare per lui.
«Ebbene?» fece. «Se avete una spiegazione, questo è il momento di
darmela.» Chiusero la porta e restarono impalati davanti alla scrivania sen-
za aprire bocca. «No? Niente da dire?» Agitò il dito in aria. «Allora co-
minciate a pregare che Biau non si risvegli e non si ricordi chi c'era al vo-
lante dell'auto.»
«Non succederà, signore.»
«Da quando sei diventato un dottore, Braissart?»
«Le sue condizioni si sono aggravate nell'arco della giornata.»
Authié voltò le spalle ai due scagnozzi, con le mani sui fianchi fissò la
cattedrale dalla finestra.
«Allora, cosa avete da dirmi?»
«Biau le ha dato un biglietto» rispose Domingo.
«Che è sparito,» replicò Authié in tono sarcastico «insieme alla ragazza.
Perché siete qui, se non avete niente di nuovo da riferire? Perché mi fate
perdere tempo?»
Domingo diventò rosso come un peperone. «Sappiamo dov'è, capo. San-
tini l'ha pizzicata a Toulouse poco fa.»
«E...?»
«E ha lasciato la città all'incirca un'ora fa» intervenne Braissart. «Ha tra-
scorso il pomeriggio alla Bibliothèque Nationale. Santini ci manderà via
fax la lista dei siti Internet che ha visitato.»
«Avete messo l'auto sotto controllo? O è chiedere troppo?»
«Lo abbiamo fatto. È diretta a Carcassonne.»
Authié si sedette sulla sedia e li fissò dall'altro capo dell'ampia scrivania.
«Quindi state per partire in modo da aspettarla all'albergo, dico bene Do-
mingo?»
«Sissignore. Quale al...»
«Il Montmorency» scattò. Unì i polpastrelli con una leggera pressione.
«Non voglio che si accorga che la stiamo sorvegliando. Perquisite la stan-
za, l'auto, tutto, ma non fatevi scoprire.»
«Dobbiamo cercare qualcos'altro a parte l'anello e il biglietto, signore?»
«Un libro» spiegò, «alto più o meno così. Rilegato con tavolette di legno
e legacci di cuoio. È estremamente prezioso e molto delicato.» Aprì una
cartella che aveva sulla scrivania e lanciò una fotografia ai due. «Simile a
questo.» Diede a Domingo qualche secondo per guardarla, quindi la rimise
a posto. «Se non c'è altro...»
«Un'infermiera dell'ospedale ci ha procurato questa» disse svelto Brais-
sart porgendogli un pezzo di carta. «Biau ce l'aveva in tasca.»
Authié lo prese. Era la ricevuta, emessa lunedì pomeriggio dall'ufficio
postale centrale di Foix, per la consegna registrata di un pacco, spedito a
un indirizzo di Carcassonne.
«Chi è questa Jeanne Giraud?» chiese.
«La nonna materna di Biau.»
«Ah, sì?» fece sottovoce. Si sporse in avanti e chiamò la segretaria con
l'interfono. «Aurélie, mi servono informazioni su una certa Jeanne Giraud.
G-i-r-a-u-d. Abita in rue de la Gaffe. Al più presto.» Authié si appoggiò al-
lo schienale della sedia. «È al corrente di quello che è successo al nipote?»
Il silenzio di Braissart fu una risposta eloquente. «Scopritelo» ordinò
Authié in modo brusco. «Anzi, mentre Domingo va a fare visita alla dotto-
ressa Tanner, tu andrai a casa di madame Giraud a dare un'occhiata... senza
farti notare. Ci vediamo al parcheggio di fronte alla Porte Narbonnaise
tra...» lanciò uno sguardo all'orologio «trenta minuti.»
Il telefono squillò di nuovo.
«Che aspettate?» disse, facendo loro segno di andarsene. Aspettò che si
chiudesse la porta prima di rispondere.
«Dimmi, Aurélie.»
Mentre ascoltava, toccava il crocifisso d'oro che portava al collo.
«Ti ha detto perché vuole anticipare di un'ora l'incontro? Certo che è un
problema» si lagnò, interrompendo bruscamente le scuse della segretaria.
Prese il cellulare dalla tasca della giacca. Nessun messaggio. Finora, si era
sempre messa in contatto con lui di persona.
«Mi tocca uscire subito, Aurélie» la informò. «Lascia la relazione sulla
signora Giraud al mio appartamento prima di andare a casa. Entro le otto.»
Quindi afferrò la giacca dallo schienale, prese un paio di guanti da un
cassetto e uscì.
Audric Baillard era seduto allo scrittoio della camera degli ospiti, a casa
di Jeanne Giraud. Le imposte erano semichiuse e la stanza era screziata
dalla luce del tramonto che filtrava attraverso gli spiragli delle persiane.
Alle sue spalle c'era un letto singolo in stile antico, con la testata e la pe-
diera di legno intarsiato, appena rifatto con semplici lenzuola bianche di
cotone.
Jeanne aveva attrezzato quella stanza apposta per lui molti anni prima, la
teneva sempre a disposizione. Inoltre, gesto davvero commovente, l'aveva
corredata delle copie delle passate pubblicazioni di Baillard, disposte su
una mensola di legno sopra il letto.
Baillard non possedeva granché. Tutto quello che teneva nella stanza era
un ricambio di vestiti e l'occorrente per scrivere. All'inizio della loro lunga
collaborazione Jeanne lo aveva preso in giro perché usava ancora la penna
e il calamaio, oltre a una carta spessa e pesante simile a pergamena. Lui
aveva sorriso e le aveva detto che era troppo vecchio per cambiare abitudi-
ni.
Adesso, si disse. Adesso, cambiare è inevitabile.
Si appoggiò allo schienale, pensò a Jeanne e a quanto avesse significato
per lui la sua amicizia. Nelle diverse fasi della sua vita, aveva trovato mol-
te persone disposte ad aiutarlo, ma Jeanne era speciale. Era grazie a lei che
aveva rintracciato Grace Tanner, anche se le due donne non si erano mai
incontrate.
Il rumore di pentole che sbattevano in cucina lo riportò alla realtà. Im-
pugnò la penna e sentì gli anni svanire, avvertì un'assenza improvvisa di
età e di esperienza. Si sentì di nuovo giovane.
Tutto a un tratto, gli vennero in mente le parole e cominciò a scrivere.
La lettera era breve e andava dritta al sodo. Quando ebbe finito, Audric a-
sciugò l'inchiostro lucido e piegò il foglio in tre, fino a farne una busta.
Non appena avesse saputo l'indirizzo, avrebbe potuto spedire la lettera.
A quel punto sarebbe dipeso da lei. Soltanto lei avrebbe potuto decidere.
«Si es atal es atal.» Sia quel che sia.

Squillò il telefono. Baillard aprì gli occhi. Sentì Jeanne che andava a ri-
spondere, subito dopo un grido straziante. Dapprima pensò che provenisse
dalla strada. Poi il rumore del ricevitore che sbatteva sulle piastrelle del
pavimento.
Si alzò senza sapere perché, avvertiva nell'aria che era successo qualco-
sa. Si voltò al rumore dei passi di Jeanne che saliva le scale.
«Qu'es?» domandò subito. Che c'è? «Jeanne» fece, con più insistenza.
«Cos'è successo? Chi era al telefono?»
Lei aveva lo sguardo assente. «Yves. È stato ferito.»
Audric la guardò inorridito. «Quora?» Quando?
«Stanotte. L'hanno investito e sono scappati. Hanno appena avvisato
Claudette. Era lei al telefono.»
«È molto grave?»
Sembrava che Jeanne non lo avesse sentito. «Verrà a prendermi qualcu-
no per portarmi all'ospedale di Foix.»
«Qualcuno chi? Lo ha mandato Claudette?»
Jeanne scosse il capo.
«La polizia.»
«Vuoi che venga con te?»
«Sì» rispose dopo un attimo di esitazione, quindi come una sonnambula
uscì dalla stanza e attraversò il ballatoio. Un istante più tardi, Baillard sentì
chiudersi la porta della sua camera.
Impotente e spaventato da quella notizia, si voltò verso la camera. Non
si era trattato di un incidente dovuto al caso. Posò lo sguardo sulla lettera
che aveva scritto. Fece un passo avanti, pensò che forse era ancora in tem-
po per fermare l'inesorabile concatenarsi degli eventi.
Poi, lasciò cadere la mano sul fianco. Bruciare la lettera avrebbe reso
vano tutto ciò per cui aveva lottato, tutto quello che aveva sopportato.
Doveva andare fino in fondo.
Si inginocchiò e cominciò a pregare. All'inizio le antiche parole uscirono
a fatica dalla bocca, dopo un po' invece vennero fuori con la stessa facilità
di un tempo e lo fecero sentire vicino a tutti coloro che le avevano pronun-
ciate prima di allora.
Fu distratto da un clacson che strombazzava nella strada. Stanco e intor-
pidito, si sforzò di alzarsi. Infilò la lettera nel taschino, prese la giacca ap-
pesa dietro la porta e andò a chiamare Jeanne.

Authié lasciò l'auto in uno dei tanti parcheggi pubblici che si trovavano
di fronte alla Porte Narbonnaise. Orde di turisti stranieri armati di guide e
videocamere si accalcavano dappertutto. Detestava quello sfruttamento
della propria storia e quell'insensata commercializzazione del proprio pas-
sato allo scopo di intrattenere giapponesi, americani e inglesi. Odiava le
mura restaurate e le false torri grigio ardesia, simboli di un passato imma-
ginario confezionato per gli stolti e i miscredenti.
Braissart lo stava aspettando come stabilito, per fargli un breve resocon-
to. La casa era vuota e vi si poteva accedere facilmente attraverso il giardi-
no sul retro. Stando ai vicini, un'auto della polizia era andata a prendere
madame Giraud quindici minuti prima. Con lei c'era un uomo anziano.
«Chi?»
«Lo hanno già visto nei paraggi, ma nessuno sa come si chiama.»
Dopo aver congedato Braissart, Authié si avviò per la discesa. La casa si
trovava quasi ai piedi della collina, sulla sinistra. La porta era chiusa a
chiave e le finestre sbarrate, ma si vedeva che non era disabitata.
Proseguì fino alla fine della strada, girò a sinistra in rue Barbacane e si
diresse a place Saint-Gimer. Alcuni abitanti della zona erano seduti fuori a
osservare le macchine parcheggiate nella piazza. Un gruppo di ragazzi in
bicicletta, a torso nudo e con la pelle abbronzata, si trastullavano sulla sca-
linata della chiesa. Authié li ignorò. Camminò di buon passo lungo la stra-
da asfaltata che costeggiava il retro e i giardini delle case in rue de la Gaf-
fe. Poi svoltò a destra e imboccò un vialetto sterrato che si snodava tortuo-
so sui pendii erbosi ai piedi della Cité.
Ben presto raggiunse il retro di casa Giraud. I muri erano verniciati dello
stesso giallo pastello della facciata. Un cancelletto di legno aperto portava
in un giardino lastricato. Fichi neri e dolci pendevano da un munifico albe-
ro, che riparava quasi tutto il terrazzo dagli sguardi dei vicini. Le piastrelle
di cotto erano macchiate di viola nei punti in cui i fichi troppo maturi era-
no caduti e si erano spaccati.
Le porte a vetri erano sovrastate da un pergolato di legno ricoperto di
piante rampicanti. Authié diede una sbirciata e vide che, sebbene ci fosse
la chiave nella toppa, le porte erano chiuse col chiavistello sopra e sotto.
Dato che non voleva lasciare tracce, andò a cercare un'altra entrata.
Accanto alle portefinestre, vide che la finestrella della cucina era rimasta
un po' aperta. Infilò i guanti di lattice, introdusse un braccio nell'apertura e
manovrò il vecchio fermo finché non si sganciò. Era duro e i cardini cigo-
larono in segno di protesta quando la finestrella si aprì. A quel punto, fece
scivolare giù le dita e sbloccò la finestra più grande, che si trovava sotto.
Un odore di olive e pane raffermo lo accolse quando entrò nel fresco cu-
cinotto. Una reticella metallica copriva un vassoio di formaggi. Sugli scaf-
fali c'erano bottiglie, barattoli di sottaceti, marmellata e mostarda. Sul ta-
volo c'erano un tagliere di legno e un tovagliolo bianco che copriva le bri-
ciole di una vecchia baguette. Albicocche quasi sfatte in un colino nel la-
vello aspettavano di essere lavate. Due bicchieri erano stati messi ad a-
sciugare capovolti sullo scolapiatti.
Authié entrò nella stanza principale. In un angolo c'era uno scrittoio con
sopra una vecchia macchina da scrivere elettronica. Premette il pulsante di
accensione e la macchina si mise in funzione con un ronzio. Inserì un fo-
glio di carta e batté su qualche tasto. Una fila di lettere nere comparve ben
marcata sulla pagina.
Authié tirò la macchina da scrivere in avanti e frugò nel casellario che si
trovava dietro. Jeanne Giraud era una persona ordinata e teneva tutto eti-
chettato e archiviato con cura: bollette nel primo scomparto, corrisponden-
za personale nel secondo, documenti relativi alla pensione e all'assicura-
zione nel terzo, volantini e dépliant pubblicitari di ogni tipo nell'ultimo.
Niente destò il suo interesse. Rivolse l'attenzione ai cassetti. I primi due
contenevano i soliti oggetti di cancelleria: penne, graffette, buste, franco-
bolli e una scorta di fogli A4 bianchi. L'ultimo era chiuso a chiave. Authié
prese un tagliacarte, quindi con accortezza e abilità infilò la lama fra il cas-
setto e la struttura del mobile e fece scattare la serratura.
Trovò soltanto una cosa nel cassetto, una piccola busta imbottita. Abba-
stanza grande da contenere l'anello, ma di certo non il libro. Il timbro po-
stale diceva: Ariège, 18.20, 4 luglio 2005.
Authié la aprì. Dentro non c'era nulla a parte la ricevuta che confermava
che madame Giraud aveva ritirato il pacco alle otto e venti. Corrispondeva
a quella che gli aveva dato Domingo.
La mise dentro la tasca interna della giacca.
Non era la prova inconfutabile che Biau avesse preso l'anello e lo avesse
spedito alla nonna, ma era quello che lasciava credere. Authié riprese a
cercare l'oggetto. Dopo aver perquisito il pianoterra, salì di sopra. La porta
della camera da letto che si affacciava sul tetro era proprio di fronte alle
scale. Era evidente che fosse la camera della signora Giraud, luminosa, pu-
lita e femminile. Rovistò nel guardaroba e nella cassettiera, frugò con ma-
no esperta fra i vestiti e i capi di biancheria, pochi, ma di buona qualità.
Tutti ripiegati con cura e precisione, emanavano un delicato profumo di
acqua di rose.
Sulla toletta, davanti allo specchio c'era un portagioie. Un paio di spille,
un filo di perle ingiallito e un braccialetto d'oro erano mischiati a diverse
paia di orecchini e a un crocifisso d'argento. L'anello nuziale e quello di fi-
danzamento riposavano immobili sul logoro feltro scarlatto, come se ve-
nissero tirati fuori solo di rado.
L'altra camera da letto, in confronto, era disadorna e spartana, c'erano
soltanto un letto singolo e uno scrittoio di fronte alla finestra, con sopra
una lampada. Ad Authié piacque. Gli ricordava le celle austere dell'abba-
zia.
Pareva che al momento qualcuno occupasse quella stanza. Sul comodino
c'era un bicchiere d'acqua mezzo vuoto, accanto a un volume delle poesie
occitaniche di René Nelli con i bordi delle pagine macchiati. Authié passò
allo scrittoio, sul quale trovò un antiquato set di penna e calamaio insieme
a diversi fogli di carta pesante. C'era anche un pezzo di carta assorbente,
usata.
Non riusciva a credere ai suoi occhi. Qualcuno si era seduto a quel tavo-
lino e aveva scritto una lettera ad Alice Tanner. Il nome era perfettamente
leggibile.
Girò il tampone di carta assorbente e cercò di decifrare la firma in fondo
alla lettera, visibile solo per metà. La calligrafia era arcaica e alcune lettere
erano sovrapposte ad altre, ma insistette finché non ottenne l'abbozzo di un
nome.
Ripiegò il ruvido pezzo di carta e lo infilò nel taschino. Era sul punto di
uscire dalla stanza, quando notò che c'era un altro pezzo di carta sul pavi-
mento, incastrato fra la porta e lo stipite. Lo raccolse. Era il brandello di un
biglietto ferroviario di sola andata, emesso proprio quel giorno. La desti-
nazione era Carcassonne, quello era evidente, ma mancava la stazione di
partenza.
Il rintocco delle campane di Saint-Gimer gli ricordò che aveva poco
tempo a disposizione. Si guardò rapidamente intorno per controllare che
tutto fosse come lo aveva trovato e uscì da dove era entrato.
Venti minuti dopo era nel suo appartamento sul Quai de Paicherou, se-
duto sul balcone che guardava la Cité medievale al di là del fiume. Sopra il
tavolo che aveva di fronte, c'era una bottiglia di Château Villerambert
Moureau con due bicchieri. Sulle gambe aveva una cartellina con dentro le
informazioni su Jeanne Giraud che la segretaria gli aveva procurato nel
frattempo. Un altro fascicolo conteneva invece il rapporto stilato dall'an-
tropologo della scientifica sui corpi rinvenuti nella caverna.
Rifletté un istante, quindi tolse diversi fogli dal dossier sulla Giraud. In-
fine, posò la cartellina, si versò un bicchiere di vino e aspettò che la sua
ospite arrivasse.

CAPITOLO 32
L'alto argine del Quai de Paicherou era pieno di uomini e donne seduti
sulle panchine metalliche che guardavano l'Aude. I prati vasti e curati dei
giardini pubblici erano delimitati da aiuole variopinte e viottoli ben tenuti.
I colori sgargianti del parco giochi, viola, giallo e arancio, erano in perfetta
armonia con quelli vivaci dei fiori: rosse spighe di tritoma, enormi gigli,
speronelle e gerani.
Marie-Cécile lanciò uno sguardo di approvazione all'edificio di Paul Au-
thié. Era quello che si aspettava, un quartier discreto, sobrio, che non ave-
va bisogno di ostentare, un insieme di villette familiari e appartamenti pri-
vati. Mentre osservava l'edificio, una donna con una sciarpa di seta viola e
una vistosa camicetta rossa Le passò davanti in bicicletta lungo l'alzaia.
Marie-Cécile si accorse che qualcuno la stava osservando. Senza voltar-
si, guardò in alto e vide un uomo che fissava l'auto dal balcone dell'ultimo
piano, con entrambe le mani appoggiate alla ringhiera di ferro battuto. Sor-
rise. Riconobbe Paul Authié grazie alle fotografie che aveva visto. Da
quella distanza, le sembrò che non gli avessero fatto giustizia.
L'autista suonò il campanello. Marie-Cécile vide Authié voltarsi e scom-
parire dietro le portefinestre. Quando lo chauffeur andò ad aprire la portie-
ra, Authié era già ad attenderla sull'uscio di casa.
Marie-Cécile aveva scelto gli indumenti con cura, un vestito di lino bei-
ge senza maniche e una giacca abbinata, formale seppure non in modo ec-
cessivo. Semplice ed elegante.
Quando fu più vicina, le sue prime impressioni furono confermate. Au-
thié era alto e aveva un fisico atletico, indossava una camicia bianca e un
completo sportivo di buona fattura. I capelli, tirati all'indietro, mettevano
in risalto i lineamenti delicati e il pallore del viso. Lo sguardo era inquie-
tante. Ma dietro l'aspetto da gentiluomo, si nascondeva un vero duro.
Dieci minuti più tardi, dopo aver accettato un bicchiere di vino, Marie-
Cécile pensò di aver capito con che sorta di uomo aveva a che fare, Sorri-
se, mentre si sporgeva in avanti per spegnere la sigaretta nel pesante porta-
cenere di vetro.
«Bon, aux affaires. Meglio rientrare, adesso.»
Authié si fece da parte per lasciarla entrare nel soggiorno immacolato e
asettico. Tappeti e paralumi chiari, sedie dallo schienale alto intorno a un
tavolo di vetro.
«Altro vino? O preferisce bere qualcosa di diverso?»
«Del pastis, se ne ha.»
«Ghiaccio? Acqua?»
«Ghiaccio.»
Marie-Cécile si sedette su una delle poltrone di pelle color crema che si
trovavano davanti a un tavolino da caffè di vetro e lo guardò mescolare
drink. La stanza fu pervasa da un leggero aroma di anice.
Authié le porse il bicchiere e prese posto sulla sedia di fronte.
«Grazie» disse Marie-Cécile con un sorriso. «Allora, Paul. Se non le di-
spiace vorrei che mi ripetesse come si sono svolti di preciso gli eventi.»
Se era seccato non lo dava a vedere. Marie-Cécile lo osservò con atten-
zione mentre parlava, ma il suo resoconto fu chiaro e dettagliato, corri-
spondeva sotto ogni aspetto a quanto le aveva già riferito.
«E gli scheletri? Sono stati portati a Toulouse?»
«Sì, al dipartimento universitario di antropologia criminale.»
«Quando prevede che le faranno sapere qualcosa?»
Invece di rispondere, Authié le passò il fascicolo che era sul tavolo. Non
è un grande comunicatore, pensò Marie-Cécile.
«Di già? Ottimo lavoro.»
«Mi dovevano un favore.»
Marie-Cécile lo poggiò sulle gambe. «Grazie. Leggerò il dossier più tar-
di» disse in tono affettato. «Adesso, invece, perché non me ne sintetizza il
contenuto? Lei lo ha già letto, presumo.»
«È soltanto un rapporto preliminare, in attesa di analisi più dettagliate»
la avvisò.
«D'accordo» fece lei, appoggiandosi allo schienale.
«Le ossa appartengono a un uomo e a una donna. Secondo i calcoli, po-
trebbero avere settecento o al massimo novecento anni. Il maschio presenta
segni di fratture non curate sul bacino e nella parte alta del femore, che si
suppone gli siano state procurate subito prima della morte. Sono state tro-
vate tracce di precedenti fratture saldate nel braccio e nella clavicola de-
stri.»
«Età?»
«Adulto, non giovanissimo ma neppure troppo vecchio. Più o meno fra i
venti e i sessanta. Dopo ulteriori analisi, saranno in grado di restringere
l'intervallo. Lo stesso vale per la donna. La cavità cranica presenta un in-
fossamento da un lato, che potrebbe essere stato causato sia da una percos-
sa sia da una caduta. Deve aver dato alla luce almeno un figlio. Ha anche
una frattura sanata al piede destro e una non curata all'ulna sinistra, tra il
gomito e il polso.»
«Causa della morte?»
«L'antropologo non ha ancora gli elementi sufficienti per stabilirla, ma
crede che sarà difficile formulare una diagnosi ben precisa. Visto il perio-
do di cui si parla, è probabile che siano morti entrambi per una combina-
zione di cause: le ferite, la perdita di sangue e, in ultima analisi, la fame.»
«L'antropologo ritiene che i due fossero ancora vivi quando sono stati
rinchiusi nella caverna?»
Authié fece spallucce, anche se gli occhi grigi rivelarono un guizzo di
curiosità. Marie-Cécile prese una sigaretta dall'astuccio e la fece ruotare
fra le dita per un istante, mentre rifletteva.
«Che mi dice degli oggetti trovati fra i corpi?» chiese, sporgendosi in
avanti per farsi accendere la sigaretta.
«Anche qui, bisogna andarci con i piedi di piombo, ma secondo l'antro-
pologo risalgono alla fine del dodicesimo secolo o alla metà del tredicesi-
mo. La lampada sull'altare potrebbe essere un po' più antica, un modello
arabo, proveniente dalla Spagna forse, o addirittura da luoghi più lontani.
Il coltello era un comune coltello da cucina, per tagliare la carne e la frutta.
Sulla lama ci sono tracce di sangue. Le analisi ci diranno se umano o di a-
nimale. La borsa è di cuoio, fabbricata nella zona e molto in voga nella
Linguadoca dell'epoca. Nessun indizio riguardo a cosa potesse contenere,
anche se c'erano alcuni pezzetti di metallo nella fodera e qualche brandello
di pelle di pecora fra le cuciture.»
Marie-Cécile si sforzò di sembrare calma. «Nient'altro?»
«La donna che ha scoperto la caverna, la dottoressa Tanner, ha trovato
una grossa fibbia d'argento e rame. Era incastrata sotto un masso all'in-
gresso della grotta. Si ritiene che risalga anch'essa allo stesso periodo e che
sia tipica della zona o, al massimo, dell'Aragona. C'è una fotografia nel
dossier.»
Marie-Cécile agitò la mano. «Non mi interessano le fibbie, Paul» ribatté.
Espirò il fumo dalla bocca. «Quello che voglio sapere, piuttosto, è perché
non avete trovato il libro.»
Vide le dita di Authié stringersi attorno ai braccioli della sedia.
«Non abbiamo alcuna prova che il libro si trovasse davvero lì» replicò in
modo asciutto. «Anche se la borsa di cuoio è abbastanza grande da poterne
contenere uno delle dimensioni da lei descritte.»
«E l'anello? Pensa che neanche quello si trovasse nella caverna?»
Di nuovo, Authié non reagì alle sue provocazioni. «Al contrario, sono
certo che l'anello fosse lì dentro.»
«E allora?»
«Era lì, ma nell'arco di tempo tra la scoperta della grotta e il mio arrivo e
quello della polizia, qualcuno deve averlo preso.»
«Ma non può dimostrare neanche questo» gli fece notare, in tono aspro
stavolta. «Se non erro, neanche l'anello è in suo possesso.»
Guardò Authié estrarre un pezzo di carta dalla tasca. «La dottoressa
Tanner è talmente convinta di averlo visto che ha disegnato questo» disse,
porgendole il foglio. «È grossolano, lo ammetto, ma corrisponde abbastan-
za alla descrizione che mi ha fatto lei. Non trova?»
Marie-Cécile gli strappò di mano lo schizzo. Non era identico per gran-
dezza, forma e dimensioni, ma somigliava molto al simbolo del labirinto
inciso sull'anello che teneva chiuso in cassaforte a Chartres. Nessuno, a
parte la famiglia de l'Oradore, lo vedeva più da otto secoli. Doveva essere
proprio quello.
«Una vera artista» mormorò. «Questo è l'unico disegno che ha fatto?»
Authié fissò Marie-Cécile con gli occhi grigi privi di esitazione. «Ne ha
fatti altri, ma questo era l'unico che valeva la pena di considerare.»
«Lasci che sia io a giudicare» ribatté secca.
«Madame de l'Oradore, mi rincresce ma questo è l'unico che ho preso.
Gli altri non mi sono sembrati rilevanti.» Alzò le spalle per scusarsi. «Inol-
tre, l'ispettore Noubel, l'incaricato delle indagini, aveva già iniziato a inso-
spettirsi.»
«La prossima volta...» cominciò Marie-Cécile, ma si interruppe. Spense
la sigaretta, schiacciandola così forte che il tabacco uscì da tutte le parti.
«Avrà frugato tra gli oggetti personali della dottoressa Tanner, suppongo.»
Annuì. «L'anello non c'era.»
«È piccolo. Può averlo facilmente nascosto da qualche parte.»
«In teoria, sì,» concordò «ma non credo che lo abbia fatto. Se lo avesse
rubato lei, perché mai ne avrebbe parlato? E poi,» si chinò e picchiettò con
il dito sul foglio di carta «se avesse avuto fra le mani l'originale, perché
farne una riproduzione?»
Marie-Cécile guardò il disegno. «È molto accurato per essere stato fatto
a memoria.»
«Sono d'accordo.»
«Dove si trova adesso la dottoressa Tanner?»
«Qui a Carcassonne. Domani, pare, deve vedere un avvocato.»
«Riguardo a cosa?»
Scrollò le spalle. «Un'eredità, o qualcosa del genere. Tornerà a casa do-
menica.»
Adesso i dubbi che Marie-Cécile aveva iniziato a nutrire da quando i
corpi erano stati scoperti il giorno prima divennero ancora più forti. Qual-
cosa non quadrava.
«Come è entrata a far parte della squadra la dottoressa Tanner?» chiese.
«È stata raccomandata?»
Authié sembrò stupito. «A dire il vero, la Tanner non era un membro
della squadra» rispose in tutta sincerità. «Pensavo di averglielo accenna-
to.»
Marie-Cécile strinse le labbra. «Invece no.»
«Mi perdoni» disse in tono dimesso. «Credevo di averlo fatto. La dotto-
ressa Tanner è una volontaria. Dal momento che molti scavi si basano sul-
la collaborazione non retribuita, quando è stata inoltrata la domanda affin-
ché si unisse al gruppo per una settimana, non c'è stato alcun motivo di re-
spingerla.»
«Chi è stato a fare la domanda?»
«Shelagh O'Donnell, suppongo» rispose in modo disinteressato, «la vice
responsabile degli scavi.»
«La Tanner è amica della dottoressa O'Donnell?» domandò Marie-
Cécile, sforzandosi di mascherare la propria sorpresa.
«Certo, mi è venuto in mente che la Tanner potrebbe aver consegnato a
lei l'anello. Purtroppo, però, non ho avuto modo di interrogarla lunedì e
adesso pare che sia sparita.»
«Cosa?» esclamò bruscamente Marie-Cécile. «Quando? Chi glielo ha
detto?»
«Ieri sera la O'Donnell si trovava in albergo con gli altri. Ha ricevuto
una telefonata ed è uscita subito dopo. Da allora nessuno l'ha più vista.»
Marie-Cécile accese un'altra sigaretta per distendere i nervi. «Perché non
sono stata informata prima?»
«Non credevo che le interessasse un dettaglio del tutto marginale. Le
domando scusa.»
«E la polizia è stata avvisata?»
«Non ancora. Il dottor Brayling, il responsabile degli scavi, ha dato
qualche giorno libero a tutti. Secondo lui è possibile, o meglio probabile,
che la dottoressa sia semplicemente ripartita senza preoccuparsi di avverti-
re nessuno.»
«Non voglio che la polizia sia coinvolta» disse risoluta Marie-Cécile.
«Sarebbe davvero antipatico.»
«Sono pienamente d'accordo, madame de l'Oradore. Il dottor Brayling
non è uno stupido. Se pensasse che la O'Donnell abbia rubato qualcosa
dalla caverna, non farebbe il suo interesse coinvolgendo le autorità.»
«Crede che la O'Donnell abbia rubato l'anello?»
Authié rispose in modo evasivo. «Credo che dovremmo trovarla.»
«Non è quello che le ho chiesto. E il libro? Crede che possa aver preso
anche quello?»
Authié la fissò dritto negli occhi. «Come ho già detto, non credo che il
libro si trovasse nella caverna, anche se non posso scartare del tutto l'ipote-
si.» Esitò. «Se lo avesse rubato, non credo proprio che la dottoressa sareb-
be riuscita a lasciare il posto inosservata. L'anello è un'altra cosa.»
«Be', qualcuno però ci è riuscito» scattò frustrata Marie-Cécile.
«Sempre se c'era.»
Marie-Cécile balzò in piedi, cogliendolo di sorpresa, girò intorno al ta-
volo e si fermò davanti a lui. Per la prima volta colse una espressione al-
larmata negli occhi grigi di quell'uomo. Si chinò e premette la mano contro
il suo petto.
«Sento il cuore che batte» disse con voce soave. «Batte molto forte.
Chissà come mai, Paul.» Senza distogliere lo sguardo, lo spinse indietro
sulla sedia. «Non ammetto errori. E non mi piace essere tenuta all'oscuro
delle cose.» Strinse gli occhi. «Sono stata chiara?»
Authié non disse nulla. La domanda era retorica.
«L'unica cosa che deve fare è consegnarmi gli oggetti che mi aveva
promesso. La pago per questo. Perciò, trovi la ragazza inglese, sistemi
Noubel se necessario. Sono affari suoi, non mi interessa.»
«Se le ho dato l'impressione che...»
Gli mise un dito sulle labbra e lo senti sussultare al contatto fisico.
«Non mi interessa.»
Tolse il dito e si scostò, quindi uscì di nuovo sul balcone. La sera aveva
strappato via il colore a tutto, si vedeva soltanto il profilo di edifici e ponti
contro il cielo che imbruniva.
Un istante più tardi, anche Authié era fuori accanto a lei.
«Sono sicura che sta facendo del suo meglio, Paul» disse in tono pacato.
Authié appoggiò le mani sulla ringhiera accanto alle sue e per un secondo
le sfiorò le dita. «Certo, ci sono altri seguaci della Noublesso Véritable al-
trettanto bravi a Carcassonne. Tuttavia, dato il suo coinvolgimento fino-
ra...»
Lasciò cadere la frase. Capì che l'avvertimento era andato a segno, per-
ché lo vide irrigidirsi nella schiena e nelle spalle. Alzò una mano per
chiamare l'autista, che l'aspettava di sotto.
«Vorrei visitare il Pic de Soularac di persona.»
«Ha intenzione di fermarsi a Carcassonne?» chiese subito.
Marie-Cécile accennò un sorriso. «Sì, per qualche giorno.»
«Avevo capito che non voleva entrare nella caverna fino alla notte della
cerimonia...»
«Ho cambiato idea» replicò, guardandolo in faccia. «Dato che sono qui.»
Sorrise. «Ho delle faccende da sbrigare, perciò se venisse a prendermi al-
l'una, avrei il tempo di leggere il suo dossier. Alloggio all'Hôtel de la Ci-
té.»
Rientrò in casa, prese il fascicolo e lo infilò nella borsa.
«Bien. A demain, Paul. Dorma bene.»
Scese le scale sentendosi gli occhi di Authié puntati addosso e non poté
fare altro che ammirare l'autocontrollo di quell'uomo. Ma quando salì sul-
l'auto, fu soddisfatta di sentire il rumore di un bicchiere che sbatteva con-
tro il muro e andava in frantumi nell'appartamento di Authié.

Il salone dell'albergo era saturo di fumo. Alcuni ospiti in completo estivo


e abito da sera sorseggiavano un drink dopo cena, sprofondati nelle poltro-
ne di pelle o riparati dall'alto schienale delle cassapanche di mogano.
Marie-Cécile salì con calma l'ampia scalinata. Mentre saliva, alcune fo-
tografie in bianco e nero le ricordarono il glorioso passato dell'albergo nel
periodo a cavallo fra due secoli.
Arrivata in camera, si tolse i vestiti e indossò l'accappatoio. Come ogni
sera prima di andare a letto, si guardò allo specchio, in modo spassionato,
quasi stesse valutando un'opera d'arte. Aveva la pelle chiarissima, gli zi-
gomi alti, il caratteristico profilo dei de l'Oradore.
Si massaggiò il viso e il collo. Non avrebbe lasciato sfiorire la sua bel-
lezza, nonostante il passare degli anni. Se tutto fosse andato secondo i pia-
ni, avrebbe realizzato il sogno del nonno. Avrebbe beffato la vecchiaia. E
anche la morte.
Si accigliò. Soltanto, però, se il libro e l'anello fossero stati ritrovati. Pre-
se il cellulare e compose il numero. Con rinnovata fermezza, accese una
sigaretta e andò alla finestra, guardando i giardini mentre attendeva che ri-
spondessero alla sua chiamata. Dalla terrazza si levavano indistinte le vuo-
te conversazioni di fine serata. Oltre gli spalti merlati della Cité, al di là del
fiume, le luci della Basse Ville brillavano come volgari decorazioni natali-
zie bianche e arancioni.
«François-Baptiste? C'est moi. Ha chiamato qualcuno al mio numero
privato nelle ultime ventiquattro ore?» Restò in ascolto. «No? Ha chiamato
te?» Aspettò. «Sono venuta a conoscenza del problema soltanto adesso.»
Tamburellava con le dita sul braccio mentre ascoltava. «Ci sono stati svi-
luppi nell'altra faccenda?»
La risposta che ottenne non era quella sperata. «Nazionale o solo loca-
le?» Una pausa. «Tieniti in contatto. Chiamami se ci sono novità, altrimen-
ti ci vediamo giovedì sera.»
Dopo aver riagganciato, Marie-Cécile si soffermò a pensare all'altro uo-
mo che abitava la sua casa. Will era piuttosto dolce, desideroso di compia-
cerla, ma la loro relazione era ormai giunta al capolinea. Era troppo esi-
gente e le sue gelosie da adolescente cominciavano a darle sui nervi. Face-
va domande di continuo. Al momento non poteva permettersi altre compli-
cazioni.
Inoltre, avevano bisogno della casa tutta per loro.
Accese l'abat-jour e tirò fuori dalla valigetta il fascicolo sugli scheletri
che le aveva dato Authié, insieme a quello sullo stesso Paul, stilato due
anni prima, quando era stato proposto come nuovo adepto della Noublesso
Véritable.
Diede una scorsa al dossier, anche se lo conosceva già abbastanza bene.
Un paio di accuse per molestie sessuali quando era studente. Entrambe le
vittime dovevano essere state messe a tacere con il denaro, perché non era
stato preso nessun provvedimento. C'erano alcuni capi d'accusa riguardo
all'aggressione di una donna algerina durante un comizio a favore dell'I-
slam, ma anche in quel caso non era stata emessa nessuna condanna; prove
di un coinvolgimento nella pubblicazione di un trattato antisemita ai tempi
dell'università, più altre accuse di abusi sessuali e maltrattamenti nei con-
fronti della ex moglie, che non avevano avuto alcuna conseguenza penale.
Di maggiore interesse erano invece le donazioni sempre più frequenti e
sostanziose fatte da Authié alla Compagnia di Gesù. Negli ultimi due anni
anche la sua militanza nei gruppi fondamentalisti contrari al Vaticano II e
alla modernizzazione della chiesa cattolica si era intensificata.
Secondo Marie-Cécile quell'impegno religioso così rigido mal si addice-
va a un membro della Noublesso. Authié aveva giurato fedeltà all'organiz-
zazione e fino ad allora si era dimostrato molto utile. Aveva gestito la mis-
sione al Pic de Soularac in modo efficiente e presto tutto sarebbe stato
pronto per la fase finale. La dritta sulla violazione della segretezza a Char-
tres era arrivata tramite uno dei suoi contatti. Le sue informazioni erano
sempre state precise e affidabili.
Ciononostante, Marie-Cécile non si fidava di lui. Le sembrava troppo
ambizioso. Di contro ai suoi successi c'erano gli strani fallimenti delle ul-
time quarantotto ore. Non lo reputava tanto stupido da aver rubato l'anello
o il libro con le sue mani, ma non sembrava nemmeno il tipo che si lascia-
va portare via le cose da sotto il naso.
Marie-Cécile esitò, alla fine fece un'altra telefonata.
«Ho un lavoretto per te. Sto cercando un libro, lungo all'incirca venti
centimetri e largo dieci, copertina di legno rivestita in pelle, tenuto insieme
con legacci di cuoio. E anche un anello da uomo, di pietra, liscio, con una
linea sottile nel mezzo e un'incisione nella parte interna. Dovrebbe esserci
anche un piccolo gettone, della grandezza di una moneta da dieci franchi.»
Si interruppe. «Carcassonne. Un appartamento sul Quai de Paicherou e un
ufficio in rue de Verdun. Entrambi di proprietà di Paul Authié.»

CAPITOLO 33

L'albergo di Alice era situato proprio di fronte alle porte principali della
Cité medievale; immerso in splendidi giardini, non si vedeva dalla strada.
La accompagnarono in un'accogliente camera al primo piano. Alice spa-
lancò le finestre per far entrare un po' d'aria. La stanza fu subito pervasa
dall'odore di carne che si cuoceva, di aglio, vaniglia e fumo di sigaro.
Sistemò velocemente i bagagli e fece una doccia, quindi riprovò a chia-
mare Shelagh, più per inerzia che per altro ormai. Ancora nessuna risposta.
Scrollò le spalle. Non si poteva certo dire che non ci avesse provato.
Presa la guida turistica che aveva comprato in una stazione di servizio
durante il viaggio da Toulouse, Alice uscì dall'albergo e attraversò la stra-
da diretta alla Cité. Ripidi scalini di cemento conducevano a un piccolo
parco fiancheggiato su entrambi i lati da cespugli, alti sempreverdi e plata-
ni. Un carosello del diciannovesimo secolo, pieno di luci colorate, troneg-
giava nella parte più lontana dei giardini: un elemento decorativo fin-de-
siècle così sgargiante appariva fuori luogo all'ombra delle fortificazioni
medievali di arenaria. Sotto un tendone a strisce bianche e marroni, con il
bordo ornato da disegni di cavalieri, dame e cavalli bianchi, era tutto rosa e
dorato: cavalli al galoppo, tazzine rotanti, carrozze da fiaba. Persino il
chiosco dei biglietti ricordava il baraccone di una fiera. Si udì suonare un
campanello e tutti i bambini gridarono di gioia quando la giostra cominciò
a girare lenta e partì in modo automatico la vecchia canzoncina.
Al di là della giostra, Alice vide spuntare le sommità grigie delle statue e
delle lapidi da dietro le mura del cimitero, una fila di cipressi e tassi ripa-
rava i dormienti dagli occhi indiscreti. A destra dei cancelli, un gruppo di
uomini giocava a pétanque.
Per un attimo, restò immobile a testa alta davanti all'ingresso della Cité,
pronta a entrare. Alla sua destra c'era una colonna di pietra, dalla cui cima
una ripugnante gargouille di pietra con la faccia schiacciata la fissava, in-
transigente e torva. Sembrava restaurata da poco.
SUM CARCAS, Sono Carcas.
Si trattava di dama Carcas, regina saracena e moglie del re Balaack, dal-
la quale si diceva che Carcassonne avesse preso il nome dopo aver resistito
per cinque anni all'assedio di Carlo Magno.
Alice attraversò il ponte levatoio coperto: era corto e stretto, costruito
con pietra, legno e catene. Le assi scricchiolarono sotto i piedi. Nel fossato
non c'era più acqua, solo erba e qualche fiorellino selvatico qua e là.
Portava nel Lices, uno spazio ampio e polveroso fra le due cinte fortifi-
cate. A destra e a sinistra i bambini si arrampicavano sui muri e inscenava-
no finte battaglie con spade di plastica. Proprio davanti a lei si ergeva la
Porte Narbonnaise. Mentre passava sotto l'alto e stretto arco, Alice alzò gli
occhi. Notò con sorpresa una statua di pietra della Vergine Maria.
Non appena varcò la porta, Alice perse la cognizione dello spazio. Rue
Cros-Mayrevieille, la strada principale, ricoperta di ciottoli, era angusta ed
erta. Gli edifici erano talmente vicini l'uno all'altro che se due persone si
affacciavano alla finestra potevano stringersi la mano.
I suoni rimbombavano fra gli alti palazzi. Lingue diverse, grida, risa, in-
dicazioni che aiutavano un'automobile a passare nel vicolo strettissimo. I
negozi attirarono la sua attenzione: avevano cartoline, guide, manichini
che pubblicizzavano il museo delle torture dell'Inquisizione, e ancora sa-
ponette, cuscini, stoviglie, e, per finire, riproduzioni di spade e scudi dap-
pertutto. Tortili bracci di ferro battuto spuntavano dai muri con appesi car-
telli di legno: l'Éperon Médievale, lo sperone medievale, vendeva spade
finte e bambole di porcellana; A Saint Louis vendeva saponi, souvenir e
vasellame.
Alice si avventurò fino alla piazza principale, place Marcou. Era piccola
e piena di ristorantini e platani potati. Gli ampi rami, simili a grandi mani
intrecciate fra loro, riparavano i tavolini e le sedie, facendo concorrenza ai
tendoni variopinti. I nomi dei singoli caffè erano scritti in alto: Le Marcou,
Le Trouvère, Le Menèstrel.
Alice passeggiò sui ciottoli e attraversò la strada, si ritrovò di nuovo al-
l'incrocio di rue Cros-Mayrevieille e place du Château, dove un triangolo
di negozi, crêperies e ristoranti circondava un obelisco di pietra alto circa
due metri e mezzo, che terminava in cima con il busto di Jean-Pierre Cros-
Mayrevieille, storico del diciannovesimo secolo. Intorno alla base c'era un
fregio di bronzo delle fortificazioni.
Andò avanti finché non si trovò davanti a un muro tondeggiante, a semi-
cerchio, che proteggeva lo Château Comtal. Dietro gli imponenti cancelli
sprangati si vedevano le torrette e gli spalti merlati del castello. Una for-
tezza nella fortezza.
Alice si fermò, poiché si rese conto che quella era stata la sua meta fin
dall'inizio. Lo Château Comtal, residenza della famiglia Trencavel.
Sbirciò attraverso le sbarre degli alti cancelli di legno. Quel posto aveva
un che di familiare, era come se fosse tornata in un luogo in cui era già sta-
ta, molto tempo prima, e che aveva dimenticato. A entrambi i lati dell'in-
gresso c'erano due botteghini, dove si potevano comprare i biglietti; le ten-
dine erano tirate e un cartello informava sugli orari di apertura. Al di là del
cancello c'era un'enorme distesa grigia di ghiaia e polvere, non di erba, che
conduceva a un ponte stretto e piano, lungo circa due metri.
Alice si allontanò dall'entrata, con l'intenzione di tornarvi l'indomani
mattina prima di fare qualunque altra cosa. Svoltò a destra e seguì le indi-
cazioni per la Porte de Rodez. Questa era situata in mezzo a due caratteri-
stiche torri a ferro di cavallo. Scese l'ampia scalinata, consumata al centro
da un infinito numero di piedi.
Qui, la differenza di età fra le mura interne e quelle esterne era molto più
evidente. Le fortificazioni esterne, che, come aveva letto, erano state co-
struite alla fine del tredicesimo secolo e restaurate durante il diciannove-
simo, erano grigie e costituite da blocchi più o meno della stessa grandez-
za. I denigratori avrebbero detto che era solo un'ulteriore prova del fatto
che i lavori di restauro erano stati svolti male. Ad Alice non importava.
Quello che la emozionava era l'atmosfera del luogo. Le mura interne, in-
cluso il muro occidentale dello Château Comtal vero e proprio, era costi-
tuito da un misto di tegole rosse, resti di epoca gallo-romana, e di friabile
arenaria del dodicesimo secolo.
Dopo il frastuono della Cité, Alice provò un senso di pace; aveva l'im-
pressione di appartenere a quel luogo, a quelle montagne e a quei cieli.
Con le braccia appoggiate sulle merlature, restò a guardare il fiume, im-
maginando il fresco tocco dell'acqua fra le dita dei piedi.
Soltanto quando il sole cominciò a tramontare, si voltò e si incamminò
di nuovo verso la Cité.

CAPITOLO 34

CARCASSONA
Julhet 1209

Si avvicinarono a Carcassonne cavalcando in fila indiana: Raymond-


Roger Trencavel era in testa, seguito a ruota da Bertrand Pelletier. Lo che-
valier Guilhem du Mas chiudeva la fila.
Alaïs era dietro, insieme ai membri del clero.
Non era passata nemmeno una settimana da quando era partita, anche se
non sembrava. Avevano tutti il morale basso. Sebbene i vessilli di Trenca-
vel sventolassero intatti nella brezza e il numero degli uomini che tornava-
no non fosse diminuito, l'espressione sul volto di Trencavel non nasconde-
va il fallimento della missione.
Arrivati ai cancelli, i cavalli rallentarono l'andatura. Alaïs si chinò in a-
vanti e accarezzò il collo a Tatou. La giumenta era stanca e aveva perso un
ferro, ma la sua resistenza non si poteva mettere in discussione.
Quando passarono sotto gli stendardi che pendevano da entrambe le torri
della Porte Narbonnaise, trovarono una folla numerosa ad accoglierli. I
bambini correvano accanto ai cavalli, lanciavano fiori sul loro cammino e
applaudivano. Le donne sventolavano dalle finestre dei piani più alti ga-
gliardetti e fazzoletti rabberciati, mentre Trencavel li guidava attraverso le
strade in direzione dello Château Comtal.
Alaïs non provò altro che sollievo, quando passarono lo stretto ponte e
varcarono la Porta Est. La Cour d'Honneur esplose in un boato, tutti li sa-
lutavano e li acclamavano. Gli écuyers si lanciarono incontro ai padroni
per prendere i loro cavalli, i servitori corsero a preparare loro un bagno, gli
sguatteri portarono nelle cucine secchi d'acqua per preparare un banchetto.
Fra la miriade di braccia che salutavano e di volti che sorridevano, Alaïs
scorse sua sorella Oriane. Il servo di suo padre, François, era proprio dietro
di lei. Arrossì ripensando a come lo aveva abbindolato per poi sgattaiolare
sotto il suo naso.
Notò che Oriane scrutava la folla. Per un istante lo sguardo si posò sul
marito, Jehan Congost. Un'aria sprezzante attraversò il volto della sorella,
prima che rivolgesse l'attenzione su di lei, mettendola a disagio. Alaïs finse
di non averla vista, ma sentiva che Oriane la fissava attraverso il mare di
teste. Guardò di nuovo, ma era sparita.
Scese da cavallo, prestando attenzione a non urtare la spalla dolorante, e
lasciò le redini di Tatou ad Amiel per farla riportare nelle scuderie. La sen-
sazione di sollievo per essere di nuovo a casa era già svanita. La malinco-
nia calò su di lei come la nebbia invernale. Sembrava che chiunque, tranne
lei, avesse una persona ad accoglierlo, una moglie, una madre, una zia, una
sorella. Andò in cerca di Guilhem, ma non riuscì a trovarlo da nessuna par-
te.
Già nella vasca da bagno.
Nemmeno il padre era nei paraggi.
Alaïs vagò per il cortile più piccolo, voleva stare da sola. Non riusciva a
togliersi dalla testa un verso di Raymond de Mirval, anche se la rendeva
ancora più malinconica. «Res contr'Amor non es guirens, lai on sos poders
s'atura.» Niente può difenderci dall'amore, una volta che ha deciso di eser-
citare il proprio potere.
La prima volta che aveva sentito quella poesia, i sentimenti che i versi
esprimevano le erano ancora sconosciuti. Sebbene fosse solo una ragazzi-
na, era rimasta seduta nella Cour d'Honneur ad ascoltare il trouvère cantare
di un cuore spezzato e aveva capito abbastanza bene il senso di quelle pa-
role.
Aveva gli occhi pieni di lacrime. Li strofinò forte con il dorso delle ma-
ni. Non voleva cedere all'autocommiserazione. Si sedette all'ombra, su una
panchina solitaria.
Prima delle nozze, lei e Guilhem passeggiavano spesso nella Cour du
Midi. Poi però gli alberi avevano cominciato a ingiallire e un tappeto di
foglie secche, del colore del rame e dell'ocra, aveva ricoperto il terreno.
Con la punta dello stivale, Alaïs fece un disegno sulla polvere, domandan-
dosi come avrebbero fatto lei e Guilhem a riappacificarsi. A lei mancava
l'esperienza, a lui la predisposizione.
Oriane stava spesso giorni interi senza parlare col marito. Poi, così come
era piombato, il silenzio svaniva e Oriane tornava dolce e premurosa nei
confronti di Jehan, fino al litigio successivo. Per quanto ricordava, nel ma-
trimonio dei suoi genitori quei momenti di alti e bassi erano stati davvero
pochi.
Alaïs non avrebbe mai immaginato che quella sarebbe stata la sua sorte.
Nella cappella aveva pronunciato di fronte al prete la promessa nuziale da
sotto il velo rosso. Le fiamme vermiglie delle candele di San Michele
guizzavano proiettando ombre danzanti sull'altare fiancheggiato da bianco-
spini invernali in fiore. Aveva creduto, e dentro di sé credeva ancora, in un
amore eterno.
Molti innamorati si rivolgevano alla sua amica e consigliera, Esclar-
monde, per ottenere pozioni e mazzetti di fiori in grado di procurare o far
riconquistare l'affetto di qualcuno, Vino cotto aromatizzato con foglioline
di menta e pastinaca, nontiscordardimé per conservare la fertilità, mazzetti
di primule gialle. Nonostante il profondo rispetto che nutriva per Esclar-
monde, Alaïs aveva sempre liquidato certi comportamenti come sciocche
superstizioni. Si rifiutava di credere che l'amore potesse essere comprato
così facilmente o ottenuto con l'inganno.
Sapeva che altre persone praticavano arti magiche più pericolose, incan-
tesimi di magia nera per ammaliare o per punire pretendenti infedeli. E-
sclarmonde l'aveva messa in guardia da simili stregonerie, poiché non era-
no altro che la manifestazione evidente del potere del demonio sul mondo.
Non poteva scaturire alcun bene da qualcosa di tanto malvagio.
Quel giorno, per la prima volta in vita sua, Alaïs capì cosa poteva spin-
gere una donna a compiere un gesto così disperato.

«Filha.»
Alaïs trasalì.
«Dove sei stata?» chiese Pelletier, con il fiato corto. «Ti ho cercata dap-
pertutto.»
«Non vi ho sentito, paire» replicò.
«Non appena il visconte Trencavel si sarà riunito con la moglie e il fi-
glio, si comincerà a preparare la Ciutat per l'assedio. Nei giorni a venire,
non ci sarà nemmeno il tempo di respirare.»
«Quando prevedete che arriverà Simeon?»
«Tra un giorno o due.» Si accigliò. «Avrei dovuto convincerlo a partire
con noi. Ma lui è convinto che darà meno nell'occhio in mezzo alla sua
gente. Speriamo che vada tutto bene.»
«E quando sarà qui» insistette Alaïs, «deciderete il da farsi? Ho avuto
un'idea riguardo a...»
Si interruppe, pensando che avrebbe dovuto verificare la sua teoria pri-
ma di rendersi ridicola agli occhi del padre. E di fronte a lui.
«Un'idea?» fece Pelletier.
«No, niente» disse svelta. «Volevo soltanto chiedervi se potrò essere
presente anch'io quando voi e Simeon vi incontrerete per parlare.»
Dal volto segnato di Pelletier trapelava costernazione. Non sapeva cosa
rispondere.
«Visto il compito che hai svolto finora» disse alla fine, «hai il permesso
di ascoltare. Tuttavia» alzò l'indice in segno di avvertimento, «sia ben
chiaro che sarai solamente un'osservatrice. Qualsiasi forma di partecipa-
zione attiva in questa vicenda è fuori discussione. Non mi va di mettere a
rischio la tua incolumità un'altra volta.»
L'eccitazione di Alaïs crebbe. Al momento opportuno gli farò cambiare
idea.
Abbassò lo sguardo e intrecciò le mani sul ventre con atteggiamento re-
missivo. «Ma certo, paire. Come desiderate.»
Pelletier le lanciò un'occhiata, ma non ribatté. «Ho un'ultima cosa da
chiederti, Alaïs. Il visconte Trencavel ha intenzione di dare una festa uffi-
ciale per essere tornato sano e salvo a Carcassona, mentre il fatto che non
siamo riusciti a stipulare un accordo con il conte non è ancora una notizia
di pubblico dominio. Stasera, dama Agnès reciterà i vespri nella cattedrale
di Sant-Nasari anziché nella cappella.» Fece una pausa. «Desidero che par-
tecipi anche tu. Insieme a tua sorella.»
Alaïs era allibita. Anche se ogni tanto prendeva parte ai riti religiosi che
si svolgevano nella cappella dello Château Comtal, il padre non aveva mai
contestato la sua decisione di astenersi dalle funzioni che avevano luogo
nella cattedrale.
«So che sei esausta, ma il visconte ritiene importante che la sua condot-
ta, e quella delle persone a lui più vicine, non dia adito a critiche in questo
momento. Se ci sono delle spie all'interno della Ciutat, e sono sicuro che
ce ne sono, non dobbiamo lasciare che le nostre manchevolezze religiose,
come potrebbero essere interpretate, giungano all'orecchio del nemico.»
«Non è una questione di stanchezza» replicò furiosa. «Il vescovo de Ro-
chefort e i suoi preti sono degli ipocriti. Predicano una cosa e ne fanno u-
n'altra.» Il padre divenne paonazzo, senza sapere se per la rabbia o per
l'imbarazzo. «A ogni modo, voi vi prenderete parte?»
Pelletier evitò il suo sguardo. «Come certo comprenderai, sarò impegna-
to con il visconte.»
Alaïs lo guardò con occhio torvo. «E va bene» disse alla fine. «Farò co-
me volete, paire. Ma non aspettatevi che mi inginocchi davanti all'imma-
gine di un uomo ucciso su una croce di legno e che mi metta a pregare.»
Per un istante temette di essere stata troppo esplicita. Ma, con sua enor-
me sorpresa, il padre si mise a ridere.
«D'accordo» replicò. «Non mi aspetterò altro che la tua presenza. Stai
molto attenta, Alaïs. Sii prudente nell'esprimere le tue opinioni. Potrebbero
sentirti.»

Alaïs trascorse le ore successive in camera sua. Fece un impacco di ori-


gano fresco per rilassare il collo e la spalla indolenziti. Nel frattempo, a-
scoltava le benevole ciarle della sua serva.
Stando a Rixende, c'erano pareri discordanti riguardo alla fuga mattutina
di Alaïs. Alcune donne avevano mostrato ammirazione per il suo coraggio
e la sua risolutezza. Altre, tra cui anche Oriane, l'avevano criticata. Aveva
fatto fare la figura dello stupido a suo marito, con le sue azioni sconsidera-
te. E quel che era peggio aveva rischiato di compromettere il successo del-
la missione. Alaïs sperò che Guilhem non la pensasse in quella maniera,
anche se temeva il contrario. Il marito faceva fatica ad abbandonare le pro-
prie convinzioni. Inoltre, bastava un nonnulla per ferire il suo orgoglio.
Alaïs sapeva per esperienza che il suo desiderio di essere apprezzato e o-
sannato a volte lo portava a dire e a fare cose che andavano contro la sua
vera natura. Se si sentiva davvero umiliato, sarebbe stato in grado di fare
qualunque cosa.
«Ma le lasci pure parlare, dama Alaïs» disse Rixende, mentre toglieva i
resti dell'impacco. «Tutti sono tornati sani e salvi. Questo significa che Dio
è dalla nostra parte.»
Alaïs accennò un sorriso. Temeva che Rixende avrebbe visto tutto sotto
un'altra luce quando la notizia sul vero stato delle cose si fosse diffusa nel-
la Cité.
Le campane suonavano con gran clamore e il cielo era screziato di rosa e
di bianco, mentre andavano dallo Château Comtal a Sant-Nasari. A capo
della processione c'era un prete vestito di bianco, che teneva alto un croci-
fisso d'oro. Dietro c'erano altri preti, suore e frati.
Subito dopo c'erano dama Agnès e le mogli dei consoli, le loro dame di
compagnia si trovavano in coda. Alaïs fu costretta a fare coppia con sua
sorella.
Oriane non le rivolse nemmeno una parola, né buona né cattiva. Come al
solito, attirava sguardi d'ammirazione fra la folla. Indossava un vestito ros-
so scuro, con un fine busto dorato e nero, allacciato ben stretto in modo da
accentuare la vita sottile e i fianchi rotondi. I capelli neri erano puliti e lu-
cidi, le mani, intrecciate sul grembo in atteggiamento di devozione, mette-
vano in risalto la borsa delle elemosine che ciondolava dal polso.
Alaïs immaginò che il borsellino fosse il regalo di qualche ammiratore,
uno ricco, a giudicare dalle perle intorno al bordo e dal motto ricamato in
oro.
Al di sotto della cerimonia e del corteo, Alaïs sentiva scorrere un flusso
d'inquietudine e di sospetto.
Non vide François, finché questi non le diede un colpetto sul braccio.
«Esclarmonde è tornata» le sussurrò nell'orecchio. «Vengo giusto da ca-
sa sua.»
Alaïs si voltò di scatto verso di lui. «Le hai parlato?»
Esitò. «Non esattamente, signora.»
Alaïs si staccò immediatamente dal corteo. «Vado.»
«Signora, se permettete vi suggerisco di aspettare che la cerimonia fini-
sca» le consigliò, lanciando un'occhiata alla porta. Alaïs seguì il suo
sguardo. Tre frati con il cappuccio nero erano di guardia, evidentemente
per controllare chi fosse presente e chi no. «Sarebbe sconveniente se la vo-
stra assenza si ripercuotesse in modo negativo su dama Agnès o su vostro
padre. Potrebbe essere interpretata come solidarietà nei confronti della
nuova chiesa.»
«Sì, certo.» Rifletté un istante. «Ma, per favore, di' a Esclarmonde che
sarò da lei al più presto.»

Alaïs immerse le dita nel bénitier e si fece il segno della croce con l'ac-
qua santa, nel caso in cui qualcuno la stesse guardando.
Trovò un posto nel transetto gremito di persone, allontanandosi il più
possibile da Oriane, senza attirare troppo l'attenzione. Le fiamme delle
candele tremolavano alte sui lampadari appesi al soffitto sopra la navata
principale. Dal basso sembravano enormi ruote di ferro che potevano crol-
lare da un momento all'altro addosso ai peccatori.
Sebbene l'arcivescovo fosse lieto di trovare la chiesa così gremita, dopo
che era rimasta vuota tanto a lungo, la sua voce era fioca e impercettibile,
si udiva a malapena nel brusio della folla, che ansimava e si agitava per il
caldo. Com'era diversa dalla semplice chiesa di Esclarmonde.
E anche di suo padre.
Per i bons homes la fede era un fatto interiore più che una mani-
festazione esterna. A loro non servivano edifici consacrati, riti su-
perstiziosi, inchini umilianti atti a distinguere i comuni mortali da Dio.
Non adoravano le immagini sacre né si prostravano davanti agli idoli o agli
strumenti di tortura. Per i bons chrétiens, il potere di Dio risiedeva nella
parola. Avevano bisogno soltanto di libri e preghiere, di parole pronunciate
e lette ad alta voce. La salvezza non aveva nulla a che fare con la carità,
con le reliquie e le preghiere recitate in una lingua che comprendevano so-
lo i preti.
Per loro, tutti erano uguali agli occhi di Dio, ebrei e saraceni, uomini e
donne, animali delle pianure e uccelli dell'aria. Non ci sarebbe stato nessun
inferno, nessun giudizio universale, perché attraverso la grazia di Dio tutti
si sarebbero salvati, anche se alcuni sarebbero stati costretti a rivivere la
propria vita diverse volte prima di entrare nel regno dei cieli.
Sebbene Alaïs non avesse mai assistito a una cerimonia del culto, grazie
a Esclarmonde le parole delle preghiere e dei riti le erano familiari. Quello
che contava era che in quei tempi bui i bons chrétiens erano persone buo-
ne, tolleranti, uomini di pace che veneravano il Dio della luce piuttosto che
temere l'ira del Dio crudele dei cattolici.
Finalmente, Alaïs sentì le parole del Benedictus. Era il momento di svi-
gnarsela. Piano piano, con le mani giunte, attenta a non dare nell'occhio,
indietreggiò lentamente verso la porta.
Qualche attimo dopo, era libera.

CAPITOLO 35

La casa di Esclarmonde sorgeva all'ombra della Tour du Balthazar.


Alaïs esitò un istante prima di bussare alla persiana e restò a osservare,
dall'ampia finestra che dava sulla strada, l'amica che si aggirava all'interno
della casa. Indossava un modesto abito verde e aveva i capelli, striati di
grigio, legati dietro.
So che ho ragione.
Alaïs provò un impeto di affetto. Era certa che i suoi sospetti fossero
fondati. Esclarmonde alzò lo sguardo. Le fece subito cenno di entrare, con
un sorriso smagliante sul viso.
«Alaïs. Che piacere vederti. Abbiamo sentito la tua mancanza, io e Sa-
jhë.»
Alaïs sentì il consueto odore di erbe e spezie non appena varcò la soglia
dell'unica stanza che si trovava al pianterreno. Sul piccolo fornello al cen-
tro della stanza, c'era una grossa pentola d'acqua che bolliva. Un tavolo,
con una panca e due sedie, era accostato al muro.
Una pesante tenda divideva in due l'ambiente. Era là dietro che Esclar-
monde effettuava i consulti. Dato che in quel momento non aveva clienti,
la tenda era aperta e si vedevano recipienti di terracotta allineati sulle lun-
ghe mensole. Dal soffitto pendevano mazzetti di erbe e rametti di fiori sec-
chi. Sul tavolo c'erano una lanterna e un mortaio con il pestello, identico a
quello che aveva Alaïs. Era stato il regalo di nozze di Esclarmonde.
Una scaletta portava a un piccolo soppalco, sopra l'angolo dei colloqui,
dove dormivano Esclarmonde e Sajhë. Il ragazzo era di sopra quando lei
arrivò e appena la vide cacciò un urlo, si precipitò giù dalla scala e l'ab-
bracciò all'altezza della vita. Un secondo dopo, attaccò a raccontarle tutto
quello che aveva fatto, visto e sentito dall'ultima volta che l'aveva incontra-
ta.
Sajhë era bravo a raccontare le storie, faceva descrizioni partico-
lareggiate e colorite, mentre gli occhi d'ambra sfavillavano per l'ec-
citazione.
«Devi recapitare un paio di messaggi per me, manhac» gli comunicò E-
sclarmonde, dopo averlo lasciato fare per un po'. «Dama Alaïs, ti scuserà.»
Sajhë era sul punto di protestare, ma l'espressione sul viso della bisnonna
lo fermò. «Non ci vorrà molto.»
Alaïs gli arruffò i capelli. «Sei un osservatore attento, Sajhë, e sei abile
con le parole. Un giorno forse diventerai un poeta!»
Lui scosse il capo. «Voglio diventare chevalier, signora. Voglio combat-
tere.»
«Sajhë» lo rimbrottò Esclarmonde. «Ascoltami bene, adesso.»
Gli disse i nomi delle persone alle quali doveva fare visita e il messaggio
che doveva recapitare; due parfaits di Albi si sarebbero trovati nel bosco
ceduo a est del sobborgo di Sant-Miquel tre giorni dopo. «Hai capito bene
il messaggio?» Lui annuì. «Bene» la bisnonna sorrise e lo baciò sulla testa,
quindi si portò l'indice alle labbra per dirgli di non parlare con nessuno.
«Ricorda. Solo a quelli che ti ho detto io. Ora, va'. Prima parti e prima sa-
rai di ritorno per raccontare qualche altra storia a dama Alaïs.»
«Non hai paura che qualcun altro senta per sbaglio?» chiese Alaïs dopo
che Esclarmonde ebbe chiuso la porta.
«Sajhë è un ragazzo sveglio. Sa che deve parlare soltanto con quelli a
cui è indirizzato il messaggio.» Si sporse dalla finestra e chiuse le persiane.
«Qualcun altro sa che sei qui?»
«Solo François. È stato lui a dirmi che eri tornata.»
Notò uno sguardo strano negli occhi di Esclarmonde, ma non le chiese
spiegazioni. «Meglio così, è?» Esclarmonde si sedette al tavolo e fece cen-
no ad Alaïs di raggiungerla.
«Allora, Alaïs. Come è andato il viaggio a Besièrs?»
Alaïs arrossì. «Hai saputo?»
«Lo sanno tutti a Carcassona. Non si è parlato d'altro.» La sua espressio-
ne divenne più seria. «Quando l'ho sentito, mi sono preoccupata, avevi ap-
pena subito un'aggressione.»
«Sai anche questo? Non avendo ricevuto tue notizie, ho pensato che fos-
si fuori città.»
«Al contrario. Sono venuta allo Château il giorno che ti hanno trovata,
ma quel François non mi ha lasciata entrare. Ordini di tua sorella, a nessu-
no era consentito vederti senza il suo permesso.»
«François non me lo ha detto» disse, stupita da quella dimenticanza. «E
nemmeno Oriane, ma questo non mi sorprende affatto.»
«Spiegati meglio.»
«Mi ha vegliata tutto il tempo, o almeno cosi pare, di certo non per affet-
to.» Alaïs si fermò, «Perdonami per non averti informata della mia parten-
za, ma c'è stato troppo poco tempo fra la decisione e l'attuazione del pia-
no.»
Esclarmonde le fece cenno di lasciar stare. «Ora ti dirò cosa è successo
qui in tua assenza. Qualche giorno dopo che hai lasciato lo Château, è arri-
vato un uomo che cercava Raoul.»
«Raoul?»
«Il ragazzo che ti ha trovato nel frutteto.» Esclarmonde fece un sorriso
sardonico. «È diventato molto popolare grazie alla tua aggressione, ha in-
gigantito talmente tanto i suoi meriti che se lo sentissi, penseresti che abbia
affrontato da solo l'intero esercito del Saladino per salvarti.»
«Non mi ricordo affatto di lui» confessò Alaïs, scuotendo il capo. «Credi
che abbia visto qualcosa?»
Esclarmonde scrollò le spalle. «Ne dubito. Eri scomparsa da più di un
giorno quando hanno dato l'allarme. Non credo che Raoul abbia assistito
all'aggressione vera e propria, altrimenti avrebbe chiesto aiuto prima. Co-
munque sia, il forestiero ha avvicinato Raoul e lo ha portato alla taberna
Sant Joan dels Evangèlis. Lo ha fatto ubriacare, lo ha plagiato. Nonostante
i suoi bei discorsi e l'aria spavalda, Raoul è soltanto un ragazzino, pure un
po' ottuso a dirla tutta, perciò quando Gaston ha chiuso l'osteria lui non era
in grado di mettere un piede davanti all'altro. Così il suo compagno si è of-
ferto di accompagnarlo a casa.»
«E poi?»
«Raoul non è mai arrivato a casa. E da allora nessuno lo ha più visto.»
«E quell'uomo?»
«Svanito nel nulla. Alla taverna aveva detto che veniva da Alzonne.
Mentre eri a Besièrs, sono andata fin là. Nessuno lo aveva mai sentito no-
minare.»
«Quindi non possiamo sapere niente su di lui?»
Esclarmonde scosse il capo. «Che ci facevi nella corte a quell'ora della
notte?» chiese Esclarmonde. Il tono era pacato, la voce ferma, ma si intui-
va che c'era preoccupazione in quelle parole.
Alaïs le raccontò tutta la storia. Quando ebbe finito, Esclarmonde restò
zitta per un istante.
«Le domande da porsi sono due» disse alla fine. «La prima è: chi altro
sapeva che tuo padre ti aveva mandata a chiamare? Perché non credo pro-
prio che gli aggressori passassero di lì per caso. La seconda è: posto che
non abbiano architettato loro il complotto, chi è il mandante?»
«Non ho parlato con nessuno. Mio padre mi aveva detto di tenere la
bocca chiusa.»
«François ha recapitato il messaggio.»
«Sì» ammise Alaïs, «ma non riesco a credere che François possa...»
«Qualunque altro servo potrebbe averlo visto venire in camera tua e aver
origliato la vostra conversazione.» Fissò Alaïs con franchezza e sagacia.
«Perché hai seguito tuo padre a Besièrs?»
Il cambio di argomento fu così repentino e inaspettato, che colse Alaïs di
sorpresa.
«Ero...» cominciò a raccontare, accigliata, ma diligente. Era andata da
Esclarmonde per ottenere delle risposte alle sue domande. Invece, si ritro-
vò a dare delle spiegazioni. «Mi ha dato un gettone» disse, continuando a
guardare Esclarmonde negli occhi, «un disco di pietra con sopra inciso un
labirinto. È quello che mi hanno rubato. Dopo quanto mi aveva detto mio
padre, temevo che lasciarlo all'oscuro di quanto era accaduto, avrebbe
compromesso la...» Si interruppe, indecisa se continuare oppure no.
Esclarmonde non sembrava preoccupata, anzi sorrideva. «Gli hai rac-
contato anche della tavoletta di legno, Alaïs?» le chiese con dolcezza.
«La sera prima che partisse, sì, prima... prima di essere aggredita. È ri-
masto assai turbato, soprattutto per il fatto che non sapevo da dove prove-
nisse.» Fece una pausa. «Ma come fai a sapere che io...»
«Sajhë l'ha vista quando ti ha accompagnata a comprare il formaggio al
mercato e me lo ha raccontato. Come hai notato, è un grande osservatore.»
«È strano che un bambino di undici anni faccia caso a queste cose.»
«Sapeva quanto fosse importante per me» ribatté Esclarmonde.
«Come il merel.»
Si guardarono negli occhi.
Esclarmonde esitò. «No» disse, scegliendo le parole con cura.
«Non proprio.»
«Ce l'hai tu?» le domandò Alaïs a bassa voce.
Esclarmonde annuì.
«Ma non potevi semplicemente chiedermela? Te l'avrei data volentieri?»
«Sajhë era venuto proprio a chiederti questo, la sera in cui sei scompar-
sa. Ha aspettato per ore e alla fine, dato che non tornavi, l'ha presa dalla
tua camera. Viste le circostanze, si è rivelato un bene che l'abbia fatto.»
«Ed è ancora in tuo possesso?»
Esclarmonde rispose di sì con un cenno del capo.
Alaïs esultò soddisfatta; non si sbagliava sul conto dell'amica, era lei la
terza custode.
Ho visto il disegno. È stato come un segnale.
«Rispondi a questa domanda, Esclarmonde» disse, mentre l'eccitazione
la rendeva impaziente. «Se la tavoletta appartiene a te, perché mio padre
non lo sapeva?»
Esclarmonde sorrise. «Il motivo è lo stesso per il quale non sa perché ce
l'ho. Perché è stato Harif a volere così. Per il bene dei Codici del Labirin-
to.»
Alaïs era senza parole.
«Benissimo. Ora che ci siamo chiarite, devi dirmi tutto quello che sai.»

Esclarmonde ascoltò con attenzione, finché Alaïs non ebbe terminato il


suo racconto.
«E Simeon sta venendo a Carcassona?»
«Sì, ma ha affidato il libro a mio padre per sicurezza.»
«Saggia precauzione.» Annuì. «Sono impaziente di conoscerlo meglio.
Sembra una persona interessante.»
«L'ho trovato straordinario» confessò Alaïs. «A Besièrs, mio padre è ri-
masto deluso quando ha saputo che Simeon aveva soltanto uno dei libri. Si
aspettava che li custodisse tutti e due.»
Esclarmonde era sul punto di rispondere, quando a un tratto qualcuno
picchiò con violenza sulle persiane e sulla porta.
Entrambe le donne balzarono in piedi.
«Atencion! Atencion!»
«Che c'è? Che succede?» esclamò Alaïs.
«I soldati! Durante l'assenza di tuo padre ci sono state numerose perqui-
sizioni.»
«Ma cosa cercano?»
«Criminali, dicono loro, ma in realtà cercano i bons homes.»
«Ma chi li manda? I consoli?»
Esclarmonde scrollò il capo. «Bérenger de Rochefort, il nostro nobile
vescovo; il frate spagnolo Domenico di Guzman e i suoi frati predicatori;
legati papali... chi può dirlo? Non si fanno annunciare.»
«Ma è contro le nostre leggi fare...»
Esclarmonde si premette un dito sulla bocca. «Sss. Forse sono già andati
altrove.»
In quel preciso istante un violento calcio fece volare schegge di legno
per tutta la stanza. Il chiavistello cedette e la porta sbatté contro il muro di
pietra con un colpo sordo. Due uomini d'arme, con il volto nascosto dalla
visiera degli elmi, fecero irruzione in casa.
«Sono Alaïs du Mas, la figlia dell'intendente Pelletier. Esigo che diciate
chi vi ha dato l'ordine.»
Non abbassarono le armi, né si scoprirono il volto.
«Insisto nel chiedervi...»
Un'accecante luce scarlatta arrivò dalla porta e Oriane comparve sulla
soglia, lasciando Alaïs inorridita. «Sorella! Ti sembra questa la maniera di
presentarti?»
«Vengo su richiesta di nostro padre, per scortarti fino allo Château Com-
tal. La notizia del tuo precipitoso allontanamento dai vespri è già arrivata
al suo orecchio. Per paura che potesse accaderti qualche disgrazia, mi ha
mandata a cercarti.»
Stai mentendo.
«In primo luogo, non gli verrebbe mai un'idea simile, a meno che non
gliel'abbia messa in mente tu» ribatté pronta. Lanciò uno sguardo ai solda-
ti. «E poi a che serve la guardia armata?»
«La tua incolumità ci sta molto a cuore» rispose Oriane abbozzando un
sorriso. «Forse, lo ammetto, sono stati un po' troppo zelanti.»
«Non hai motivo di preoccuparti. Tornerò allo Château Comtal quando
avrò finito.»
A un tratto Alaïs si accorse che Oriane non le prestava attenzione. I suoi
occhi vagavano di qua e di là per la stanza. Alaïs provò una sensazione di
vuoto allo stomaco. E se Oriane avesse ascoltato di nascosto la loro con-
versazione?
Cambiò subito tattica. «A pensarci bene, in effetti, forse sarebbe meglio
che venissi con te. Non ho altre faccende da sbrigare qui.»
«Faccende, sorella?»
Oriane si aggirò furtiva per la casa, passando la mano sullo schienale
delle sedie e sul tavolo. Sollevò il coperchio della cassapanca che stava
nell'angolo, quindi lo lasciò cadere facendolo chiudere con un colpo secco.
Alaïs la osservava in preda all'ansia.
Si fermò sulla soglia del consultorio di Esclarmonde. «Cos'è che fai qui
dentro, sorcière?» domandò Oriane con disprezzo, rivolgendosi per la
prima volta a Esclarmonde. «Pozioni, incantesimi per gli stolti?» Sbirciò
dentro con aria disgustata, quindi si allontanò. «Molti dicono che sei una
strega, Esclarmonde de Servian, una faitilhièr, come ti chiama la gente.»
«Come osi rivolgerti a lei in questo modo!» esclamò Alaïs.
«Guardate pure, dama Oriane, se lo desiderate» disse Esclarmonde in
tono pacato.
All'improvviso Oriane afferrò il braccio di Alaïs. «Adesso ne ho abba-
stanza di te» le disse, mentre infilava le unghie appuntite nella pelle. «Hai
detto che eri pronta per tornare allo Château, allora andiamo.»
Prima che se ne rendesse conto, Alaïs era già sulla strada. I soldati le
stavano dietro, così attaccati che sentiva il loro fiato sul collo. Le tornò in
mente l'odore di birra e la mano callosa sulla bocca.
«Muoviti» fece Oriane, dandole una spinta sulla schiena.
Per il bene di Esclarmonde, Alaïs non poté fare altro che adattarsi ai de-
sideri di Oriane. All'angolo della strada, riuscì a lanciare un ultimo sguardo
alle sue spalle. Esclarmonde era sulla soglia e la guardava. Si portò lesta
un dito alle labbra, per ricordarle di tenere la bocca chiusa.

CAPITOLO 36

Nel donjon, intanto, Pelletier si strofinava gli occhi e allungava le brac-


cia per distendere i muscoli indolenziti.
Da diverse ore i messaggeri erano partiti dallo Château Comtal per reca-
pitare lettere a quelli fra i sessanta vassalli di Trencavel che non si erano
ancora presentati a Carcassonne. I vassalli più importanti erano di fatto in-
dipendenti, pertanto Pelletier sapeva che Raymond-Roger doveva persua-
derli e allettarli con le buone piuttosto che dare loro ordini. Ogni lettera
esponeva senza mezzi termini quale fosse la minaccia incombente. I fran-
cesi si ammassavano lungo i confini e si preparavano a sferrare un attacco
di portata mai vista nella regione del Midi, La guarnigione di Carcassonne
doveva essere rafforzata. I vassalli dovevano adempiere ai loro obblighi di
fedeltà e raggiungerli con quanti più uomini riuscivano a radunare.
«A la perfin» esclamò Trencavel, mentre squagliava la ceralacca sulla
fiamma prima di apporre il proprio sigillo. Finalmente.
Pelletier tornò accanto al visconte e fece un cenno con il capo a Jehan
Congost. Di solito dedicava poche attenzioni al marito di Oriane, ma do-
veva ammettere che in quella occasione Congost e il suo gruppo di scriva-
ni avevano lavorato incessantemente con ottimi risultati. Ora che il servito-
re prendeva l'ultima lettera da affidare all'unico messaggero che ancora a-
spettava, Pelletier diede agli escrivans il permesso di andare via. Seguendo
l'esempio di Congost, si alzarono uno alla volta, sgranchirono le dita an-
chilosate, si strofinarono gli occhi e raccolsero i vari rotoli di pergamena,
le penne e i calamai. Pelletier aspettò finché non rimase solo con il viscon-
te.
«Dovreste riposare, messire» suggerì. «Dovete mantenervi in forze,»
Trencavel scoppiò a ridere. «Força e vertu» replicò, riprendendo le pa-
role che aveva pronunciato a Béziers. Forza e coraggio. «Non preoccupar-
ti, Bertrand, sto bene. Mai stato meglio.» Il visconte appoggiò la mano sul-
la spalla di Pelletier. «Tu piuttosto, vecchio mio, avresti bisogno di un po'
di riposo.»
«Devo ammettere che l'idea mi alletta, messire» confessò. Dopo setti-
mane di notti insonni, cominciava ad accusare gli acciacchi della vec-
chiaia.
«Stanotte ognuno dormirà nel proprio letto, Bertrand, ma temo che il
momento del riposo sia ancora lontano, almeno per noi.» Il suo bel volto
divenne serio. «È necessario che incontri i consoli al più presto, tutti quelli
che riesco a radunare.»
Pelletier annuì. «Avete una richiesta particolare?»
«Anche se i nostri vassalli dovessero rispondere alla chiamata e portare
un discreto numero di soldati, ci serviranno comunque più uomini.» Aprì
le mani.
«Volete che i consoli istituiscano un fondo bellico?»
«Ne avremo bisogno per pagare mercenari affidabili e addestrati alla
battaglia, meglio se aragonesi o catalani: più sono a portata di mano e me-
glio è.»
«Avete considerato un aumento delle imposte? Sul sale, per esempio. O
sul grano.»
«È ancora troppo presto. Per il momento, preferisco cercare di ottenere i
fondi necessari attraverso delle donazioni, non con delle tasse.» Fece una
pausa. «Se il tentativo dovesse fallire, prenderò in considerazione misure
più drastiche. Come procedono i lavori di fortificazione?»
«Tutti gli scalpellini e i falegnami della Ciutat, di Sant-Vicens e di Sant-
Miquel, insieme a quelli dei villaggi a nord, sono stati convocati. Ha già
avuto inizio l'opera di smantellamento del refettorio e dei sedili del coro
nella cattedrale.»
Trencavel sogghignò. «Bérenger de Rochefort non sarà molto conten-
to!»
«Il vescovo dovrà farsene una ragione» borbottò Pelletier. «Ci serve tut-
to il legname che riusciamo a racimolare, per cominciare a costruire am-
bans e cadefalcs il più presto possibile. Il palazzo vescovile e il convento
sono le più immediate fonti di materia prima.»
Raymond-Roger alzò le mani come per arrendersi. «Non volevo conte-
stare la tua decisione» esclamò ridendo. «Palizzate e tramezzi contano di
più delle comodità del vescovo! Dimmi, Bertrand, è già arrivato Pierre-
Roger de Cabaret?»
«Non ancora, messire, ma sarà qui a momenti.»
«Quando arriva mandalo subito da me. Se è possibile vorrei aspettare
che ci sia anche lui per parlare con i consoli. Hanno grande stima di lui.
Notizie da Termenès o da Foix?»
«Ancora nessuna, messire.»

Poco più tardi, Pelletier scrutava la Cour d'Honneur con le mani sui
fianchi, soddisfatto della rapidità con cui si svolgevano i lavori. La corte
era già piena di suoni: il rumore di seghe e martelli, il fracasso di carretti
che trasportavano legno, chiodi e catrame, lo scoppiettio del fuoco nella
fucina.
Con la coda dell'occhio, vide Alaïs correre per la corte e andargli incon-
tro. Aggrottò la fronte.
«Perché avete mandato Oriane a prendermi?» gli chiese appena lo ebbe
raggiunto.
Apparve costernato. «Oriane? A prenderti dove?»
«Ero in visita da un'amica, Esclarmonde de Servian, nella zona sud della
Ciutat, quando all'improvviso è arrivata Oriane, accompagnata da due sol-
dati, dicendo che voi le avevate chiesto di riportarmi allo Château.» Aspet-
tò che il padre reagisse, ma sul suo volto leggeva solo sconcerto. «Era la
verità?»
«Non ho visto Oriane.»
«Avevate promesso di parlare con lei di come si è comportata in vostra
assenza, lo avete fatto?»
«Non ne ho ancora avuto l'occasione.»
«Vi supplico, non sottovalutatela. Lei sa qualcosa, qualcosa che può
nuocervi, ne sono sicura.»
Pelletier divenne paonazzo. «Non accusare tua sorella. Questo non ha
niente a...»
«La tavoletta con il labirinto appartiene a Esclarmonde» sbottò Alaïs.
Lui restò immobile, quasi fosse stato fulminato. «Cosa? Che vuoi dire?»
«Simeon ha dato il libro a una donna, ricordate?»
«Non può essere» disse, con tale forza che la figlia indietreggiò.
«Esclarmonde è l'altra custode» insistette Alaïs, parlando più veloce per
paura che lui la interrompesse. «È la sorella di Carcassona a cui si riferiva
Harif. Sapeva anche del merel.»
«Ti ha detto lei di essere una custode?» chiese. «Perché se è così, allo-
ra...»
«Non in modo esplicito» replicò Alaïs con fermezza, quindi aggiunse.
«È logico, paire. È esattamente il tipo di persona che Harif sceglierebbe.»
Riprese fiato, «Che cosa sapete sul conto di Esclarmonde?»
«Ha la fama di essere una donna saggia. E le sono grato per l'amore e le
attenzioni che ti rivolge continuamente. Ha un nipote, hai detto?»
«Un pronipote, sì. Il suo nome è Sajhë. Ha undici anni. Esclarmonde
viene da Servian, messire. È arrivata a Carcassona quando lui era appena
nato. I tempi combaciano alla perfezione con quanto ci ha raccontato Si-
meon.»
«Intendente Pelletier.»
Si voltarono entrambi, mentre un servo si affrettava a raggiungerli.
«Messire, il visconte Trencavel richiede immediatamente la vostra pre-
senza nelle sue stanze. Pierre-Roger de Cabaret è arrivato.»
«Dov'è François?»
«Non lo so, messire.»
Frustrato, Pelletier lo fissò con occhi torvi, quindi lanciò uno sguardo ad
Alaïs.
«Riferisci al mio signore che sarò subito da lui» disse in tono aspro.
«Poi, trova François e mandalo da me. Quell'uomo non c'è mai quando
serve.»
«Parlate almeno con Esclarmonde. Ascoltate cosa ha da dire. L'avviserò
io.»
Pelletier tentennò, alla fine si arrese. «Quando arriverà Simeon, ascolte-
rò quello che la tua saggia amica ha da dire.»
Salì le scale a grandi passi. Arrivato in cima si fermò.
«Una cosa sola, Alaïs. Come faceva Oriane a sapere dove trovarti?»
«Deve avermi seguita da Sant-Nasari, anche se...» si interruppe, quando
capì che Oriane non poteva aver avuto il tempo di procurarsi l'appoggio
dei soldati e ritornare così presto. «Non lo so» ammise. «Ma sono sicura
che...»
Pelletier era già andato via. Mentre attraversava la corte, Alaïs si sentiva
sollevata per il fatto che Oriane non fosse più nei paraggi. All'improvviso
si fermò.
E se fosse tornata indietro?
Si tirò su la gonna e cominciò a correre.

Non appena ebbe voltato l'angolo della strada in cui abitava Esclarmon-
de, Alaïs capì che le sue paure erano giustificate. Le persiane erano penzo-
loni e la porta era stata divelta dal telaio.
«Esclarmonde!» gridò. «Ci sei?»
Entrò in casa. I mobili erano sottosopra, i braccioli delle sedie spezzati
come ossa rotte. Il contenuto della cassapanca era buttato per terra alla rin-
fusa e i resti del fuoco erano stati presi a calci, sollevando nuvole di soffice
e grigia cenere che imbrattava il pavimento.
Salì qualche piolo della scala. Paglia, biancheria e piume ricoprivano le
assi di legno del soppalco: tutto era strappato. I segni delle lance e delle
spade che avevano squarciato il letto erano evidenti.
Il disastro nel consultorio di Esclarmonde era ancora più grande. La ten-
da era stata sradicata dal soffitto. Barattoli di terracotta frantumati e vasi
spaccati erano disseminati dappertutto fra pozze di liquidi e bende marroni,
bianche e rosso scuro. Sul pavimento c'erano mazzetti di erbe, fiori e foglie
calpestati.
Chissà se Esclarmonde si trovava lì quando erano arrivati i soldati... Ala-
ïs corse di nuovo fuori, sperando di trovare qualcuno che le raccontasse
come si erano svolti i fatti. Tutto intorno le porte erano sprangate e le fine-
stre chiuse.
«Dama Alaïs.»
All'inizio pensò che fosse la sua immaginazione. «Dama Alaïs.»
«Sajhë?» mormorò. «Sajhë, dove sei?»
«Quassù.»
Alaïs si allontanò dall'ingresso della casa e guardò in alto. Nella luce del
tramonto, intravide una massa informe di capelli castano chiaro e due oc-
chi d'ambra che la fissavano dal tetto spiovente della casa.
«Sajhë» disse sollevata. «Ti ucciderai!»
«No» ridacchiò. «L'ho fatto un sacco di volte. So anche entrare e uscire
dallo Château Comtal passando per i tetti!»
«Be', mi fai venire le vertigini. Scendi.»
Alaïs restò con il fiato sospeso quando Sajhë si dondolò dal cornicione e
saltò giù.
«Che cosa è successo? Dov'è Esclarmonde?»
«Menina è al sicuro. Mi ha detto di aspettarvi. Sapeva che sareste torna-
ta.»
Alaïs si guardò indietro e lo portò al riparo sulla soglia di casa. «Che co-
sa è successo?» ripeté con impazienza.
Sajhë abbassò lo sguardo rattristato. «Sono venuti di nuovo i soldati. Ho
sentito tutto dalla finestra. Menina temeva che lo avrebbero fatto, non ap-
pena vostra sorella vi avesse riaccompagnata allo Château, così, dopo che
ve ne siete andati, abbiamo raccattato le cose fondamentali e ci siamo na-
scosti in cantina.» Tirò un respiro profondo, «Sono stati velocissimi. Li
abbiamo sentiti andare di porta in porta a chiedere di noi, a interrogare i
nostri vicini. Sentivo i loro piedi battere sul pavimento sopra di noi, lo
hanno fatto tremare, ma non hanno trovato la botola. Ho avuto paura.» Si
interruppe, poi con aria indifesa aggiunse: «Hanno distrutto tutti i barattoli
di menina. Tutte le medicine».
«Lo so» disse lei con dolcezza. «Ho visto.»
«Non la smettevano di gridare. Dicevano che cercavano gli eretici, ma
sono sicuro che era una bugia. Non hanno fatto le solite domande.»
Alaïs gli sollevò il mento e lo guardò negli occhi.
«È molto importante, Sajhë. Erano gli stessi soldati di prima? Li hai vi-
sti?»
«No, non li ho visti.»
«Non fa niente» disse subito, notando che il ragazzo stava per scoppiare
in lacrime. «A quanto pare sei stato molto coraggioso. Devi essere stato di
grande aiuto per Esclarmonde.» Esitò. «C'era qualcun altro con loro?»
«Non credo» rispose mesto. «Non ho potuto fare niente per fermarli.»
Alaïs lo abbracciò e la prima lacrima gli rigò la guancia. «Andrà tutto
bene. Non disperare. Hai fatto del tuo meglio, Sajhë. È l'unica cosa che
possiamo fare.»
Il ragazzo annuì.
«Dov'è adesso Esclarmonde?»
«C'è una casa a Sant-Miquel» singhiozzò. «Dice che vi aspetteremo lì
finché voi non ci direte che l'intendente Pelletier è in arrivo.»
Alaïs si irrigidì. «È questo che ha detto Esclarmonde, Sajhë?» chiese
senza esitare. «Che aspetta un messaggio da mio padre?»
Sajhë sembrava perplesso. «Allora si sbagliava?»
«No, no, è solo che non capisco come...» Alaïs si interruppe. «Non im-
porta. Non fa niente.» Gli asciugò il viso con il fazzoletto. «Ecco. Così va
meglio. Mio padre desidera parlare con Esclarmonde, ma deve aspettare
che arrivi un altro... un amico, che viene da Besièrs.»
Sajhë annuì. «Simeon.»
Alaïs lo guardò sbalordita. «Esatto» confermò, sorridendo. «Simeon.
Dimmi, Sajhë, c'è qualcosa che non sai?»
Lui fece un sorrisetto. «Non molto.»
«Devi dire a Esclarmonde che riferirò tutto a mio padre, ma che lei, anzi
voi, fareste meglio a rimanere a Sant-Miquel, per il momento.»
Sajhë la colse di sorpresa prendendole la mano. «Diteglielo di persona»
suggerì. «Le farebbe piacere vedervi. Così potrete continuare a parlare.
Menina ha detto che la vostra conversazione è stata interrotta.»
Alaïs lo guardò negli occhi, sfavillanti per l'entusiasmo. «Verrete?»
Rise. «Per te, Sajhë? Certo. Non adesso però. È troppo pericoloso. Può
darsi che stiano sorvegliando la casa. Mi farò viva.»
Sajhë annuì, quindi si dileguò in fretta così come era venuto.
«Deman al vèspre» lo sentì gridare.

CAPITOLO 37

Da quando era tornato da Montpellier, Jehan Congost aveva visto poco


la moglie. Oriane non lo aveva accolto come doveva, non aveva mostrato
alcun rispetto per le pene e le umiliazioni che il marito aveva sopportato.
Inoltre Congost non aveva dimenticato l'atteggiamento lascivo della mo-
glie in camera da letto, poco prima della sua partenza.
Si affrettò per la corte, borbottando fra sé e sé, quindi entrò nell'ala abi-
tativa del castello. Incrociò il servitore di Pelletier, François. Congost lo ri-
teneva infido, incline a pensare solo a se stesso, sempre appostato nell'om-
bra per riferire tutto al padrone. Era inconsueto che si trovasse nelle abita-
zioni a quell'ora.
François chinò il capo. «Escrivan»
Congost non rispose.
Quando raggiunse le sue stanze, smaniava di indignazione, come era
giusto. Era giunto il momento di dare una lezione a Oriane. Non poteva la-
sciare impunita una disobbedienza tanto provocatoria e deliberata. Spalan-
cò la porta senza bussare.
«Oriane! Dove sei? Vieni qui.»
La stanza era vuota. Per la frustrazione di non averla trovata, spazzò via
tutto quello che c'era sul tavolo. I vasi si frantumarono, il candelabro
piombò a terra. A grandi passi raggiunse il baule e tirò fuori ogni cosa, do-
podiché tirò via dal letto le coperte, quasi volesse strappar via la lussuria di
sua moglie da quella biancheria.
Furioso, Congost si lasciò cadere su una sedia e ammirò la sua opera.
Stoffa lacerata, vasi rotti, candele. La colpa era di Oriane. Il suo compor-
tamento indecoroso era la causa di tutto.
Andò a cercare Guirande, per farle sistemare quel disastro, intanto esco-
gitava un sistema per ridurre all'obbedienza la moglie capricciosa.

L'aria era calda e satura di umidità quando Guilhem uscì dai bagni e tro-
vò Guirande ad aspettarlo, con un sorriso smagliante stampato sulla faccia.
Si rabbuiò. «Cosa c'è?»
La serva ridacchiò e sbatté le ciglia nere.
«Allora?» fece in tono aspro. «Se hai qualche cosa da dire dilla, altri-
menti lasciami in pace.»
Guirande si sporse in avanti e gli sussurrò nell'orecchio.
Lui si drizzò. «Cosa vuole?»
«Non saprei, messire. La mia signora non mi confida i propri desideri.»
«Sei una pessima bugiarda, Guirande.»
«Quale messaggio devo portarle?»
Guilhem esitò. «Dì alla tua padrona che verrò fra poco.» Le infilò una
moneta nella mano. «E tieni la bocca chiusa.»
La guardò allontanarsi, poi andò in mezzo alla corte e si sedette all'om-
bra dell'olmo. Non doveva andarci. Perché farsi tentare? Era troppo perico-
loso. Lei era pericolosa.
Non avrebbe mai voluto arrivare a quel punto. Era successo in una notte
d'inverno, la pelle nuda sotto le pellicce, il sangue infiammato dal vino cot-
to e dall'eccitazione della caccia. Era come impazzito. Stregato.
La mattina dopo si era svegliato in preda ai sensi di colpa e aveva giura-
to che non sarebbe accaduto mai più. Per i primi mesi di matrimonio, ave-
va prestato fede alla promessa. Poi però c'era stata un'altra notte come
quella, un'altra e un'altra ancora. Era sopraffatto da quella donna che do-
minava i suoi sensi.
Adesso, date le circostanze, sperava come mai che non scoppiasse uno
scandalo. Ma doveva stare attento. Era importante che la relazione finisse
bene. Sarebbe andato all'appuntamento solo per dirle che non potevano più
vedersi.
Si alzò e si diresse verso il frutteto, prima che il coraggio l'abban-
donasse. Arrivato al cancello, si fermò con la mano sul chiavistello, rilut-
tante ad andare avanti. A un tratto la vide sotto un salice, una sagoma scura
nella luce che svaniva. Il cuore gli balzò in gola. Sembrava un angelo nero,
i capelli scintillavano come ambra nera nel sole del tramonto, i boccoli ca-
devano sciolti sulle spalle.
Guilhem respirò profondamente. Doveva tornare indietro. Ma in quel
preciso istante, come se avesse avvertito la sua indecisione, Oriane si voltò
e lo attirò a sé con il suo sguardo magnetico. Guilhem ordinò all'écuyer di
sorvegliare il cancello, quindi si incamminò sull'erba soffice per raggiun-
gerla.
«Temevo che non venissi» disse, appena Guilhem fu vicino.
«Non posso restare.»
Sentì le dita calde di Oriane sfiorare le sue e subito dopo le sue mani
cingergli il polso.
«Allora ti chiedo scusa per averti disturbato» mormorò, premendosi con-
tro di lui.
«Qualcuno potrebbe vederci» sibilò Guilhem, cercando di scostarsi.
Oriane piegò il collo e lui sentì il suo profumo. Cercò di ignorare il desi-
derio che cresceva. «Perché mi parli con tanta durezza?» si lagnò. «Non
può vederci nessuno. Ho messo una sentinella di guardia al cancello. E
poi, stasera sono tutti troppo indaffarati per badare a noi.»
«La gente non è tanto affaccendata da non fare caso a noi» ribatté lui.
«Sono tutti con occhi e orecchie ben aperti. Aspettano solo che accada
qualcosa da poter usare a proprio vantaggio.»
«Che pensieri maligni» sussurrò, ravviandogli i capelli. «Dimentica il
resto del mondo. Pensa soltanto a me, adesso.» Oriane era talmente vicina
ora, che Guilhem sentiva batterle il cuore sotto la stoffa sottile del vestito.
«Perché sei così freddo, messire? Ti ho offeso in qualche modo?»
La risolutezza andava scemando, mentre il sangue si faceva più caldo.
«Oriane, stiamo commettendo un peccato. Lo sai. È scorretto nei confronti
di tuo marito e di mia moglie, questo empio...»
«Amore?» suggerì e scoppiò a ridere, un suono bello e melodioso che gli
fece stringere il cuore. «"L'amore non è un peccato, è una virtù che rende
onesto il malvagio e ancor più giusto chi già lo è." Non hai sentito i trova-
tori?»
Guilhem prese quello splendido viso fra le mani.
«È soltanto una poesia. La realtà delle nostre promesse è ben altra cosa.
Vuoi forse negarlo?» Tirò un respiro profondo. «Quello che sto cercando
di dire è che non dobbiamo più vederci.»
La sentì irrigidirsi fra le sue braccia. «Non mi vuoi più, messire?» sus-
surrò. I capelli folti e slegati le nascondevano il viso.
«Non è così» replicò, mentre la sua fermezza vacillava.
«Cosa posso fare per darti prova del mio amore?» chiese, con voce spez-
zata, così fioca che a malapena si udì. «Se ti ho offeso, dimmelo.»
Intrecciò le dita alle sue. «Non hai fatto niente di sbagliato. Sei bella, O-
riane, sei...» si interruppe, non gli venivano le parole giuste. Il fermaglio
della mantella si sganciò. La stoffa blu lucida e frusciante cadde a terra e si
ammucchiò ai suoi piedi come uno specchio d'acqua. Sembrava così vul-
nerabile, indifesa, che non poté fare a meno di prenderla fra le braccia.
«No» mormorò. «Non posso...»
Guilhem cercò di figurasi il volto di Alaïs, immaginò che lo stesse fis-
sando con il suo sorriso fiducioso. Sebbene fosse anomalo per un uomo del
suo rango e della sua posizione, credeva nelle promesse matrimoniali. Non
voleva tradirla. Quante notti, all'inizio del loro matrimonio, aveva passato
a guardarla dormire nell'intimità della loro camera e aveva capito che gra-
zie all'amore di quella creatura era, o meglio poteva essere, un uomo mi-
gliore!
Cercò di divincolarsi. Ma tutto quello che riusciva a sentire era la voce
di Oriane, mescolata alle maldicenze del castello che gli ricordavano come
Alaïs l'avesse reso ridicolo andando a Béziers. Il fragore nella testa diven-
ne sempre più forte, fino a coprire la voce fioca di Alaïs. La sua immagine
cominciò a svanire, si fece sbiadita. Si stava allontanando da lui, lascian-
dolo a combattere la tentazione da solo.
«Ti adoro» sussurrò Oriane, infilandogli una mano fra le gambe. Mal-
grado la sua decisione, Guilhem chiuse gli occhi, incapace di resistere al
soave mormorio di quella voce. Era come il vento fra gli alberi. «Da quan-
do sei tornato da Besièrs, non ti ho visto quasi mai.» Guilhem tentò di dire
qualcosa, ma aveva la gola secca. «Dicono che il visconte Trencavel ti pre-
ferisce a tutti gli altri chevaliers.»
Guilhem non era più in grado di distinguere le parole. Il sangue gli pul-
sava troppo forte nella testa, sovrastava qualsiasi altro rumore o sensazio-
ne.
La sdraiò a terra.
«Dimmi come è andata fra il visconte e suo zio» gli mormorò Oriane
nell'orecchio. «Dimmi cosa è accaduto a Besièrs.» Guilhem ansimò, quan-
do lei gli si avvinghiò con le gambe e lo attirò a sé. «Raccontami la tua av-
ventura.»
«Sono cose di cui non posso parlare» sospirò: l'unica cosa che sapeva
era di avere il corpo di Oriane sotto di sé.
Oriane gli morse il labbro. «A me puoi dirlo.»
Lui gridò il suo nome, non gli importava ormai che qualcuno potesse
sentirli o vederli. Non notò neanche lo sguardo compiaciuto negli occhi
verdi o le macchie del suo sangue sulle labbra di lei.

Pelletier si guardò intorno, contrariato perché né Oriane né Alaïs si era-


no presentate a cena.
Nonostante i preparativi per l'assedio, si teneva una sorta di banchetto
nella Sala Grande per festeggiare il fatto che il visconte e il suo seguito
fossero tornati a casa incolumi.
La riunione con i consoli era andata a meraviglia. Pelletier non aveva
ombra di dubbio che avrebbero stanziato i fondi necessari. I messaggeri
continuavano ad arrivare dagli châteaux più vicini a Carcassonne. Fino a
quel momento, nessun vassallo era venuto meno ai propri obblighi e aveva
mancato di offrire uomini e denari.
Non appena il visconte Trencavel e dama Agnès si furono ritirati, Pelle-
tier si scusò e andò a prendere una boccata d'aria. Portava di nuovo sulle
spalle il fardello dell'indecisione.
Tuo fratello ti aspetta a Besièrs, tua sorella a Carcassona.
La sorte gli aveva restituito Simeon e il secondo libro più in fretta di
quanto immaginasse. Ora, se le congetture di Alaïs erano esatte, anche il
terzo libro era a portata di mano.
Portò la mano alla tasca in cui custodiva il libro di Simeon, proprio ac-
canto al cuore.

Alaïs fu svegliata dal violento fragore di un'imposta che sbatteva sul mu-
ro. Si alzò di soprassalto, il cuore in gola. Aveva sognato di essere ancora
nel bosco di Coursan: aveva le mani legate e cercava disperatamente di to-
gliersi il ruvido cappuccio.
Prese un cuscino, ancora caldo, e lo portò al petto. Il letto era ancora
pervaso dall'odore di Guilhem, sebbene fosse passata più di una settimana
dall'ultima volta che aveva poggiato il capo accanto al suo.
Un altro colpo e la persiana si frantumò contro il muro. Il forte vento fi-
schiava fra le torri e sfiorava il tetto. L'ultima cosa che ricordava era di a-
ver chiesto a Rixende di portarle qualcosa da mangiare.
La serva bussò alla porta ed entrò timida nella stanza.
«Perdonatemi, signora. Non volevo svegliarvi, ma lui ha insistito.»
«Guilhem?» chiese lesta.
Rixende scosse il capo. «Vostro padre. Vuole che lo raggiungiate alla
Porta Est.»
«Adesso? Ma sarà mezzanotte passata!»
«Non è ancora scoccata la mezzanotte, signora.»
«Come mai ha mandato te anziché François?»
«Non lo so, signora.»
Alaïs lasciò Rixende a sorvegliare la stanza, si mise addosso la mantella
e si affrettò a scendere al piano di sotto. Il temporale infuriava ancora sulle
montagne, quando attraversò la corte a passo spedito e lo raggiunse.
«Dove andiamo?» gli chiese urlando contro il vento, mentre uscivano
dalla Porta Est.
«A Sant-Nasari» rispose. «Dove è nascosto il Libro delle Parole,»

Oriane era raggomitolata sul letto come una gatta ad ascoltare il vento.
Guirande aveva fatto un ottimo lavoro, sia nel rassettare la stanza sia nel
descrivere i danni causati dal marito. Cosa lo avesse mandato tanto in col-
lera, Oriane non lo sapeva. E nemmeno le interessava.
Gli uomini erano tutti uguali nel profondo: cortigiani, scrivani, cheva-
liers o preti che fossero. La loro fermezza si spezzava come un ramoscello
secco nonostante i loro discorsi sull'onore. Il primo tradimento era il più
difficile. Dopo, però, era incredibile quanti segreti fuoriuscissero dalle loro
infide labbra e come le loro azioni andassero contro tutto ciò che avevano
professato di avere a cuore.
Aveva saputo più di quanto si aspettasse. La cosa buffa era che Guilhem
non si rendeva neanche conto di quanto fosse importante quello che le a-
veva detto quella sera. Lei aveva solo sospettato che Alaïs avesse seguito il
padre a Béziers. Ora lo sapeva con certezza. Sapeva anche qualcosa su
quello che era accaduto fra loro la sera prima della partenza.
L'unico motivo per cui Oriane si era preoccupata che Alaïs si rimettesse
era la speranza di indurla a tradire la fiducia del padre, ma non ci era riu-
scita. La sola cosa degna di nota era stata la disperazione di Alaïs per aver
perso una tavoletta di legno che aveva in camera. Ne aveva parlato nel
sonno, mentre si girava da un lato e dall'altro. Fino a quel momento, mal-
grado gli sforzi, tutti i tentativi di recuperare la tavoletta erano falliti.
Oriane allungò le braccia sopra la testa. Nemmeno nei sogni più folli a-
veva immaginato che il padre possedesse qualcosa di una forza e di una
potenza tale che la gente avrebbe pagato una fortuna per ottenerlo. Doveva
soltanto avere pazienza.
Dopo quello che le aveva raccontato Guilhem, aveva capito che la tavo-
letta era di importanza secondaria. Se solo avesse avuto più tempo, gli a-
vrebbe fatto spifferare il nome dell'uomo che il padre aveva incontrato a
Béziers. Sempre se lo sapeva.
Si mise a sedere. François doveva saperlo. Batté le mani.
«Porta questo a François» ordinò a Guirande. «Non farti vedere da nes-
suno.»

CAPITOLO 38

Era calata la notte sull'accampamento crociato.


Guy d'Evreux si pulì le mani unte sul tovagliolo portogli da un servo
agitato. Vuotò il bicchiere e lanciò un'occhiata all'abate di Cîteaux, seduto
a capotavola, per vedere se fosse pronto.
Non lo era.
Soddisfatto e satollo, nelle sue vesti bianche, l'abate aveva preso posto
fra il duca di Borgogna e il conte di Nevers. Le manovre dei due nobili e
dei loro seguaci per accaparrarsi la posizione più vantaggiosa erano inizia-
te prima ancora che l'esercito lasciasse Lione.
Dall'espressione assente sui loro volti, era ovvio che Arnald-Amalric li
stesse di nuovo rimproverando con severità. L'eresia, le fiamme dell'infer-
no, i pericoli della lingua volgare, tutti argomenti sui quali era capace di
fare prediche per ore.
Evreux non aveva stima per nessuno dei due. Riteneva patetiche le loro
ambizioni: qualche moneta d'oro, vino, donne, un po' di combattimento e
poi a casa in gloria per aver servito l'esercito per quaranta giorni. Soltanto
de Montfort, seduto poco distante da loro, sembrava ascoltare. I suoi occhi
ardevano di una sgradevole esaltazione, paragonabile solo al fanatismo
dell'abate.
Evreux conosceva de Montfort unicamente di fama, anche se i loro terri-
tori erano confinanti. Evreux aveva ereditato delle terre con un'ampia ri-
serva di caccia a nord di Chartres. Grazie a un matrimonio d'interesse, uni-
to a un regime fiscale oppressivo, aveva assicurato alla famiglia una cre-
scita costante della ricchezza negli ultimi cinquant'anni. Non aveva fratelli
con cui contendersi il titolo e nemmeno debiti significativi.
I territori di de Montfort si trovavano fuori Parigi, a meno di due giorni
di viaggio dalle proprietà di Evreux. Era risaputo che de Montfort aveva
preso la croce dietro personale richiesta del duca di Borgogna, ma la sua
ambizione era nota a tutti, così come la sua devozione e il suo coraggio.
Era un veterano delle campagne militari orientali, in Siria e in Palestina,
uno dei pochi crociati che si era rifiutato di prendere parte all'assedio della
città cristiana di Zara durante la quarta crociata in Terra Santa.
Seppure sulla quarantina, de Montfort era ancora forte come un toro.
Lunatico e introspettivo, infondeva nei suoi uomini uno straordinario senso
della lealtà, ma molti baroni diffidavano di lui, poiché lo ritenevano subdo-
lo e troppo ambizioso. Evreux lo disprezzava, come disprezzava tutti colo-
ro che dichiaravano di agire nel nome di Dio,
Evreux aveva preso la croce per un'unica ragione. Non appena avesse
raggiunto il suo scopo, sarebbe tornato a Chartres con i libri a cui dava la
caccia da quasi tutta la vita. Non aveva intenzione di sacrificarsi per la fe-
de altrui.
«Che vuoi?» borbottò rabbioso al servo che era comparso alle sue spalle.
«C'è un messaggero per voi, mio signore.»
Evreux alzò lo sguardo. «Dove?» chiese in modo brusco.
«Fuori dall'accampamento. Non ha voluto dire il suo nome.»
«Viene da Carcassonne?»
«Non ha voluto dirlo, signore.»
Con un rapido inchino all'abate, si scusò e se la svignò, il volto pallido
era diventato rosso. Passò svelto fra le tende e gli animali fino alla radura
al confine est dell'accampamento.
Dapprima, riuscì a vedere solo sagome indistinte nel buio fra gli alberi.
Quando fu più vicino riconobbe quell'uomo, era il servo di un informatore
di Béziers.
«Ebbene?» chiese, la voce carica di disappunto.
Il messaggero si inginocchiò. «Abbiamo trovato i corpi nel bosco alla
periferia di Coursan.»
Strinse gli occhi grigi. «Coursan? Ma dovevano seguire Trencavel e i
suoi uomini. Che diavolo ci facevano a Coursan?»
«Non saprei, signore» balbettò.
In un baleno, altri due soldati sbucarono da dietro gli alberi, le mani ap-
poggiate sull'impugnatura della spada.
«Cosa hanno trovato sul posto?»
«Niente, signore. Né sorcotti, né armi, né cavalli, nemmeno le frecce che
li hanno uccisi sono state... trovate. I corpi erano svestiti. Hanno portato
via tutto.»
«Dunque la loro identità è sconosciuta?»
Il servo fece un passo indietro. «Nel castellum non si parla d'altro che
del coraggio di Amiel de Coursan, ma non si sa chi fossero gli uomini. C'e-
ra una ragazza, la figlia dell'amministratore di Trencavel. Alaïs.»
«Viaggiava sola?»
«Non lo so, signore, ma de Coursan l'ha scortata personalmente fino a
Besièrs. Si è riunita al padre nel quartiere ebraico. Hanno passato un po' di
tempo lì. In un'abitazione privata.»
Evreux esitò. «Davvero...» mormorò, le labbra sottili si piegarono in un
sorriso. «E il nome di questo ebreo?»
«Non mi hanno riferito il suo nome, signore.»
«Ha preso parte all'esodo verso Carcassonne?»
«Sì.»
Evreux era sollevato, anche se non lo dava a vedere. Sfiorò il pugnale
che aveva legato alla cintura. «Chi altro ne è al corrente?»
«Nessuno, signore, lo giuro. Non l'ho detto a nessuno.»
Evreux sferrò un colpo improvviso, conficcò il coltello dritto nella gola
del poveretto. Con l'orrore negli occhi, cominciò a soffocare, mentre usci-
vano gli ultimi aneliti e il sangue zampillava rosso dalla ferita, schizzando
per terra. Il messaggero cadde in ginocchio e si tagliò le mani cercando di-
speratamente di sfilarsi la lama dalla gola, poi precipitò in avanti.
Per un istante il corpo rimase sulla terra insanguinata in preda a violenti
spasmi, poi ebbe un ultimo fremito e si arrestò.
Evreux aveva un'espressione impassibile sul volto. Allungò la mano con
il palmo verso l'alto, in attesa che qualcuno dei soldati gli restituisse il pu-
gnale. Pulì la lama con un lembo della tunica della vittima e lo ripose nel
fodero.
«Fatelo sparire» ordinò Evreux, spingendo il cadavere con la punta dello
stivale. «Trovatemi l'ebreo. Voglio sapere se è ancora qui o se è già arriva-
to a Carcassonne. Sapete che aspetto ha?»
Il soldato annuì.
«Bene. A meno che non ci sia qualche novità, non disturbatemi più sta-
notte.»

CAPITOLO 39

CARCASSONNE
Mercoledì, 6 luglio 2005

Alice fece venti vasche nella piscina dell'albergo e consumò la colazione


sulla terrazza, con i raggi di sole che filtravano attraverso gli alberi. Alle
nove e trenta era in fila ad aspettare che lo Château Comtal aprisse. Pagò e
le diedero un opuscolo sulla storia del castello, scritto in un inglese bizzar-
ro.
Passerelle di legno erano state costruite su due parti della merlatura fino
alla destra del cancello e intorno alla Tour de Casernes, come la coffa di un
veliero.
Su di lei discese la quiete, quando varcò l'impressionante doppio portone
di ferro e legno della Porta Est ed entrò nella corte.
La Cour d'Honneur era quasi del tutto ombreggiata. C'erano già molti vi-
sitatori, che come lei si aggiravano, leggevano e osservavano. Ai tempi dei
Trencavel, al centro della corte si ergeva un olmo, sotto la cui ombra tre
generazioni di visconti avevano amministrato la giustizia. Ora non c'era
più. Al suo posto c'erano due platani perfettamente proporzionati: le foglie
proiettarono la loro ombra sulla parete occidentale della corte quando il so-
le fece capolino da dietro la merlatura della parete opposta.
L'estremità nord della Cour d'Honneur era già inondata dalla luce del so-
le. Alcuni piccioni avevano fatto il nido nelle rientranze vuote e nelle feri-
toie dei muri e degli archi abbandonati della Tour du Major e della Tour du
Degré. Le balenò in mente il ricordo di una scala di legno grezzo, di pun-
toni legati con delle funi, dell'arrampicarsi da un piano all'altro come una
monella.
Alice alzò lo sguardo, nel tentativo di distinguere quello che aveva da-
vanti agli occhi da quello che sentiva sulla punta delle dita.
Non c'era molto da vedere.
A un tratto fu colta da un devastante senso di smarrimento. Il dolore le
strinse il cuore come un pugno.
È qui che egli giacque. È qui che lei lo pianse.
Alice abbassò lo sguardo. Due strisce di bronzo a rilievo sul suolo deli-
mitavano il punto in cui un tempo sorgeva un edificio. C'era una fila di let-
tere incise sul pavimento. Si accovacciò e lesse che una volta vi si trovava
la cappella dello Château Comtal, dedicata a Sainte-Marie. Sant-Maria.
Non ne era rimasto nulla.
Alice scrollò il capo, spaventata dalle forti emozioni che provava. Il
mondo che era esistito ottocento anni prima sotto i vasti cieli del sud, era
ancora intatto sotto la superficie. La sensazione di avere qualcuno accanto
era forte, quasi che la barriera tra la sua vita presente e una passata si stes-
se sgretolando.
Chiuse gli occhi, mise da parte i colori, le forme e i suoni attuali e cercò
di figurarsi le persone che una volta avevano abitato lì, di ascoltare le loro
voci.
Un tempo quello era stato un bel posto. Candele rosse che ardevano su
un altare, biancospino in fiore, mani unite dal vincolo del matrimonio.
Le voci di altri visitatori riportarono Alice al presente e il passato svanì
quando riprese il percorso. Adesso era dentro lo Château, le gallerie di le-
gno costruite lungo gli spalti merlati erano aperte sul retro. Scavati nelle
mura c'erano altri buchetti quadrati simili a quelli che aveva visto il giorno
prima durante la visita al Lices. La guida diceva che segnavano i buchi per
i travicelli su cui dovevano essere costruiti i piani superiori.
Alice diede un'occhiata all'orologio e fu lieta di vedere che aveva ancora
abbastanza tempo per visitare il museo prima di recarsi all'appuntamento.
Le stanze del dodicesimo e del tredicesimo secolo, tutto ciò che restava
degli edifici originali, ospitavano una collezione di cori e presbiteri di pie-
tra, colonne, mensoloni, fontane e tombe, che andavano dall'epoca romana
al secolo quindicesimo.
Gironzolò, non troppo colpita. Le forti sensazioni che l'avevano assalita
nella corte erano sparite, lasciandole un vago senso di inquietudine. Seguì
le frecce e attraversò le varie stanze finché si ritrovò nella Sala Rotonda, di
forma rettangolare, a dispetto del nome.
Le venne la pelle d'oca. Il soffitto era con volta a botte e sulle due pareti
più lunghe c'erano i resti di un dipinto murale che raffigurava una scena di
guerra. Il cartello diceva che Bernard Aton Trencavel, il quale aveva preso
parte alla prima crociata e aveva combattuto contro i mori di Spagna, ave-
va commissionato l'affresco alla fine dell'undicesimo secolo. Fra le creatu-
re fantastiche e gli uccelli che ornavano il fregio, c'erano un leopardo, uno
zebù, un cigno, un toro e qualcosa di simile a un cammello.
Estasiata, Alice alzò lo sguardo al soffitto ceruleo, sbiadito e screpolato,
ma ancora splendido. Il dipinto sulla sinistra raffigurava due chevaliers in
combattimento, di cui uno, vestito di nero e con uno scudo rotondo, era de-
stinato a perire sotto la lancia dell'altro. In quello sulla parete opposta si
svolgeva una battaglia fra otto saraceni e otto cavalieri cristiani. Era me-
glio conservato e più completo dell'altro; Alice si avvicinò per guardarlo
con più attenzione. Al centro, due chevaliers si confrontavano, uno in sella
a un cavallo color ocra, l'altro, il cristiano, su un cavallo bianco con uno
scudo ovale in mano.
Senza riflettere, allungò la mano per toccarlo. Il custode la richiamò e
scosse il capo.
L'ultimo posto che visitò prima di lasciare il castello fu un piccolo giar-
dino, vicino alla corte principale, la Cour du Midi. Era abbandonato e con-
servava soltanto il ricordo delle alte finestre arcuate che una volta vi si af-
facciavano. Verdi rami d'edera e di altri rampicanti serpeggiavano intorno
alle colonne vuote e alle crepe dei muri. Aveva l'aria di essere stato un po-
sto magnifico.
Adesso, mentre si aggirava con calma per il giardino, prima di tornare
alla luce del sole, Alice si sentì pervasa da una sensazione di rimpianto,
non di dolore.

Le strade della Cité erano ancora più affollate, quando Alice uscì dallo
Château Comtal.
Aveva ancora un po'di tempo da ammazzare prima di recarsi dal-
l'avvocato, così andò nella direzione opposta a quella della sera precedente
e arrivò a Place St Nazaire, che era dominata dalla basilica. Fu la facciata
fin-de-siècle dell'Hôtel de la Cité, sobria ma al contempo grandiosa, ad at-
tirare la sua attenzione. Ricoperto di edera, con cancelli di ferro battuto, fi-
nestre ad arco istoriate e tende rosse come le ciliegie mature, l'albergo tra-
sudava ricchezza.
Mentre lo osservava, le porte scorrevoli si aprirono rivelando le pareti
rivestite di pannelli e arazzi, e apparve una donna. Era alta, con gli zigomi
prominenti e i capelli neri tagliati alla perfezione e tirati indietro da un paio
di occhiali da sole con la montatura dorata. La camicetta beige senza ma-
niche e i pantaloni abbinati sembravano scintillare e riflettere la luce men-
tre camminava. Con un braccialetto d'oro al polso e un girocollo somiglia-
va a una principessa egiziana.
Alice era sicura di aver già visto quella donna. Su una rivista oppure in
un film, o forse in televisione?
La donna salì in macchina. Alice la guardò finché non scomparve dalla
sua visuale, quindi si diresse verso l'entrata della basilica. C'era una men-
dicante all'ingresso, con il braccio teso. Alice frugò in tasca e mise una
moneta in mano alla donna, dopodiché entrò.
Si sentì gelare e restò con la mano sulla porta. Era come se si trovasse in
un condotto di aria fredda.
Non essere sciocca.
Cercò un'altra volta di entrare, decisa a non cedere a quelle sensazioni
così irrazionali. Fu assalita dallo stesso senso di terrore che aveva provato
nella chiesa di Saint-Etienne a Toulouse.
Dopo aver chiesto scusa alle persone dietro di lei, Alice lasciò la fila e si
lasciò cadere su una sporgenza di pietra all'ombra, accanto al portale nord.
Che diavolo mi prende?
I genitori le avevano insegnato a pregare. Quando aveva iniziato a inter-
rogarsi sull'esistenza del male nel mondo e aveva visto che la chiesa non
sapeva fornire risposte adeguate, aveva smesso. Ma ricordava bene quanto
la religione riuscisse a dare senso alla vita. La sicurezza, la promessa di
salvezza da qualche parte al di là delle nuvole non l'aveva mai abbandona-
ta del tutto. Proprio come Larkin, si fermava in una chiesa ogni volta che
ne aveva tempo. Si sentiva a casa. Le chiese evocavano una storia e un
passato comune che le parlavano attraverso gli elementi architettonici, le
finestre, i sedili del coro.
Ma qui no.
In quelle chiese cattoliche del Midi, non provava un senso di pace, bensì
di minaccia. Dai mattoni sembrava sprigionarsi il tanfo del male e dell'o-
dio. Lanciò un'occhiata alle orribili gargouilles che la guardavano maligne
con le bocche contorte in un ghigno.
Si alzò di scatto e lasciò la piazza. Continuò a guardarsi alle spalle, di-
cendo a se stessa che era soltanto suggestione, ma non riusciva a scrollarsi
di dosso l'impressione di avere qualcuno alle calcagna.
È solo la tua immaginazione.
Era ancora agitata quando, dopo aver lasciato la Cité, percorse rue Tri-
valle diretta verso il centro della città. Malgrado si sforzasse di convincersi
del contrario, era sicura che qualcuno la stesse seguendo.

Lo studio di Daniel Delagarde si trovava in rue George Brassens. La tar-


ga di ottone sul muro brillava al sole. Era un po' in anticipo per l'appunta-
mento, così si soffermò a leggere i nomi prima di entrare. Karen Fleury si
trovava più o meno a metà, c'era solo un'altra donna oltre a lei.
Alice salì i grigi gradini di pietra, aprì la doppia porta di vetro con una
spinta e si ritrovò nella reception rivestita di piastrelle. Disse il suo nome
alla donna dietro l'alto tavolo di mogano lucidato alla perfezione e fu ac-
compagnata in una sala d'attesa. C'era un silenzio inquietante. Appena en-
trata, un uomo sulla cinquantina dall'aspetto un po' rustico la salutò con un
cenno del capo. Copie del «Paris Match», dell'«Immo Média» e diversi
numeri arretrati dell'edizione francese di «Vogue» erano impilati con cura
su un ampio tavolino al centro della stanza. Sulla mensola di marmo bian-
co del caminetto c'era un orologio di bronzo dorato e sulla grata era ap-
poggiato un vaso di vetro rettangolare pieno di girasoli.
Alice si accomodò su una poltrona di pelle nera accanto alla finestra e
fece finta di leggere.
«Signorina Tanner? Karen Fleury. Piacere di conoscerla.»
Alice si alzò, le piacque subito la donna che si trovò davanti. Sui trenta-
cinque anni, in completo nero e camicetta bianca, la Fleury aveva l'aria di
una persona molto competente. I capelli biondi erano corti e ordinati. Al
collo portava un crocifisso d'oro.
«La mia tenuta da funerale» disse, notando il modo in cui Alice la guar-
dava. «Molto calda per questo clima.»
«Immagino.»
Le aprì la porta. «Vogliamo andare?»
«Da quanto tempo lavora qui?» domandò Alice, mentre attraversavano
una rete di corridoi sempre più stretti.
«Ci siamo trasferiti un paio di anni fa. Mio marito è francese. Un sacco
di inglesi si trasferiscono da queste parti, sono in molti ad aver bisogno di
un avvocato, perciò ci va abbastanza bene.»
Karen la fece entrare in un piccolo ufficio sul retro dell'edificio.
«È magnifico che sia riuscita a venire di persona» disse, invitando Alice
a sedersi. «Pensavo che avremmo sbrigato l'intera faccenda per telefono.»
«È stato un caso. Subito dopo l'arrivo della sua lettera, un'amica che sta
facendo dei lavori nei dintorni di Foix mi ha chiesto di andare a trovarla.
Era un'occasione a cui non si poteva rinunciare.» Fece una pausa. «Inoltre,
viste le dimensioni e la natura del lascito, venire personalmente mi è sem-
brato il minimo che potessi fare.»
Karen sorrise. «Be', semplificherà il mio compito e accelererà i tempi.»
Prese una cartellina marrone. «Da quanto mi ha detto al telefono, mi è par-
so di capire che non sapeva granché di sua zia.»
Alice fece una smorfia. «In effetti, non ne avevo mai sentito parlare.
Non avevo idea che papà avesse dei parenti ancora in vita, tanto meno una
sorellastra. Ero convinta che i miei genitori fossero entrambi figli unici. Di
certo non si sono mai visti né zii né zie a Natale o ai compleanni.»
Karen diede uno sguardo agli appunti. «Lei ha perso entrambi i genitori
diversi anni fa.»
«Sono morti in un incidente d'auto quando avevo diciotto anni» confer-
mò. «Maggio 1993. Poco prima che prendessi il diploma di maturità.»
«Deve essere stato terribile.»
Alice annuì. Che altro poteva dire?
«Non ha fratelli né sorelle?»
«Credo che i miei genitori si siano decisi troppo tardi. Erano tutti e due
relativamente anziani, quando hanno avuto me. Sulla quarantina.»
Karen annuì. «Bene, date le circostanze, credo che la cosa migliore sia
semplicemente esaminare tutta la documentazione che ho sulla sua prozia
e sulle condizioni del testamento. Fatto questo, potrà dare un'occhiata alla
casa, se ne ha voglia. Si trova in un paesino a un'oretta di macchina da qui.
Sallèles d'Aude.»
«Mi sembra una buona idea.»
«Dunque, quelle che ho davanti» continuò Karen, picchiettando sulla
cartellina, «sono per lo più informazioni generali, nomi e date, roba del
genere. Sono certa che quando visiterà la casa, si farà un'idea più precisa di
sua zia grazie alle carte e agli oggetti personali. Dopo che l'avrà vista, de-
ciderà se dobbiamo sgombrarla noi o se preferisce farlo lei. Quanto ha in-
tenzione di trattenersi?»
«In teoria fino a domenica, ma sto pensando di fermarmi un altro po'.
Non ho niente di tanto urgente da fare in Inghilterra.»
Karen annui mentre dava una scorsa agli appunti.
«Allora, iniziamo e vediamo come ce la caviamo. Grace Alice Tanner
era la sorellastra di suo padre. Era nata a Londra nel 1912, ultima e unica
sopravvissuta di cinque figli. Le altre due figlie femmine morirono durante
l'infanzia, mentre i due maschi furono uccisi nella prima guerra mondiale.
La madre venne a mancare nel...» si fermò e fece scorrere il dito sul foglio
fino a che non trovò la data che le interessava «1928, a causa di una grave
malattia, e la famiglia andò allo sbando. Grace era già andata via di casa
quando il padre lasciò la zona e più tardi si risposò. Dal suo secondo matri-
monio ebbe un altro figlio, ovvero suo padre, che nacque un anno dopo.
Da quanto emerge dalla documentazione, sembrerebbe che da allora in poi
la signorina Tanner non abbia avuto più rapporti con il padre, ovvero suo
nonno.»
«Io non lo sapevo, ma secondo lei è possibile che mio padre fosse al cor-
rente dell'esistenza di una sorellastra?»
«Non ne ho idea. Io direi di no, comunque.»
«Ma è evidente che Grace sapesse di avere un fratellastro.»
«Sì, anche se non so dirle quando e come lo abbia scoperto. Quello che
più ci interessa è che sapeva di lei. Ha cambiato il testamento nel 1993,
dopo la morte dei suoi genitori, e ha nominato lei come unica beneficiaria.
Al tempo viveva in Francia già da un pezzo.»
Alice aggrottò la fronte. «Se sapeva di me e di quello che era successo,
non capisco perché non si sia messa in contatto prima.»
Karen alzò le spalle. «Probabilmente perché pensava che lei non avrebbe
gradito la cosa. Noi non sappiamo cosa ha prodotto la spaccatura all'inter-
no della famiglia, ma può darsi che pensasse che suo padre, Alice, l'avesse
messa contro di lei. In casi del genere è piuttosto frequente pensare, talvol-
ta a ragione, che ogni tentativo di avvicinamento verrebbe respinto. Una
volta troncati i rapporti, può essere difficile rimediare ai danni.»
«Non ha redatto lei il testamento, suppongo.»
Karen sorrise. «No, ero un tantino troppo giovane. Ma ho parlato con il
collega che lo ha stilato. Ora è in pensione, ma si ricorda di sua zia. Era un
tipo molto pratico, niente chiacchiere né sentimentalismi. Sapeva bene
quello che voleva, cioè lasciare tutto a lei.»
«Quindi non sa come mai si è trasferita a vivere qui?»
«Purtroppo no.» Esitò. «Per quanto ci riguarda, è tutto abbastanza sem-
plice. Perciò, come le ho detto, ritengo che la cosa migliore che possa fare
sia andare a dare un'occhiata alla casa. In questo modo potrà scoprire qual-
cosa di più sul suo conto. Dato che resterà in zona ancora per qualche
giorno, potremmo rivederci alla fine della settimana. Domani e venerdì sa-
rò in tribunale, ma la incontrerei volentieri sabato mattina, se per lei non ci
sono problemi.» Si alzò e le porse la mano. «Lasci pure un messaggio alla
mia assistente per farmi sapere cosa ha deciso.»
«Vorrei visitare la tomba, visto che sono qui.»
«Certo. Le farò avere informazioni dettagliate. Se non erro, le modalità
della sepoltura sono state piuttosto insolite.» Karen si fermò alla scrivania
dell'assistente mentre accompagnava Alice alla porta. «Dominique, tu peux
me trouver le numéro du lot de cimitière de madame Tanner Le cimitière
de la Cité. Merci.»
«In che senso insolite?» domandò Alice.
«Madame Tanner non è stata sepolta a Sallèles d'Aude, ma qui a Carcas-
sonne, nel cimitero fuori le mura della Cité, nella tomba di famiglia di u-
n'amica.» Karen prese il foglio che l'assistente aveva stampato e cercò l'in-
formazione che le serviva. «Esatto, ora ricordo. Jeanne Giraud, una donna
del posto, anche se non c'era alcuna prova che le due si conoscessero. Qui
c'è anche l'indirizzo di madame Giraud insieme ai dettagli sul lotto in cui è
avvenuta la sepoltura.»
«Grazie. Mi farò sentire.»
«Dominique l'accompagnerà all'uscita» disse con un sorriso. «Mi faccia
sapere com'è andata.»

CAPITOLO 40

ABIÈGE

Paul Authié si aspettava che Marie-Cécile sfruttasse il viaggio nell'Ariè-


ge per continuare la discussione della sera precedente, o per lo meno che
gli chiedesse qualcosa sul dossier. Ma a parte qualche commento sporadi-
co, lei non disse nulla.
Nell'angusto abitacolo dell'auto, Authié avvertiva la presenza fisica della
donna. Il profumo di Marie-Cécile gli penetrava nel naso, così come l'odo-
re della sua pelle. Quel giorno madame de l'Oradore indossava una cami-
cetta beige senza maniche e un paio di pantaloni dello stesso colore. Gli
occhiali da sole le nascondevano gli occhi; le labbra e le unghie erano del-
lo stesso rosso fiammante.
Authié si sbottonò i polsini della camicia e lanciò con discrezione uno
sguardo all'orologio. Calcolando un paio d'ore da trascorrere sul luogo de-
gli scavi, più il viaggio di ritorno, non sarebbero tornati a Carcassonne
prima del tardo pomeriggio. Era davvero frustrante.
«Notizie della O'Donnell?» chiese Marie-Cécile.
Authié temette di aver espresso i suoi pensieri ad alta voce. «Finora no.»
«E del poliziotto?» chiese, girandosi verso di lui stavolta.
«Non è più un problema ormai.»
«Da quando?»
«Da stamattina presto.»
«Hai ottenuto altre informazioni da lui?»
Authié fece di no con la testa.
«Quindi nessuno sarebbe in grado di risalire a lei, Paul.»
«Nessuno.»
Lei tacque per un istante, poi domandò: «E la ragazza inglese?».
«È arrivata a Carcassonne ieri sera. Ho mandato qualcuno a pedinarla.»
«Non pensa che sia andata a Toulouse per depositare l'anello o il libro?»
«A meno che non lo abbia consegnato a qualcuno nell'albergo, no. Non
ha ricevuto visite. Non ha parlato con nessuno, né per strada né in bibliote-
ca.»

Arrivarono al Pic de Soularac poco dopo l'una. Una palizzata di legno


era stata innalzata intorno al parcheggio. Il cancello era chiuso con un luc-
chetto. Come previsto, non c'era nessuno in servizio che potesse assistere
al loro arrivo.
Authié aprì il cancello ed entrò con l'auto nel parcheggio. La zona era
stranamente silenziosa, in confronto al trambusto del pomeriggio di lunedì.
Un'atmosfera di desolazione aleggiava dappertutto. Le aperture laterali
delle tende erano sprangate con assi di legno; le pentole, le padelle e tutti
gli altri utensili erano etichettati con cura.
«Dov'è l'entrata?»
Authié indicò il punto, ancora circondato dal nastro giallo della polizia
che sventolava nella brezza.
Prese una torcia elettrica dal vano portaoggetti. Risalirono i bassi pendii
in silenzio, la soffocante afa pomeridiana gravava su di loro. Authié le mo-
strò il masso, ancora appoggiato da un lato, simile alla testa di un idolo ca-
duto, dopodiché la guidò per i pochi metri che li separavano dalla caverna.
«Vorrei entrare da sola» lo informò, appena furono arrivati in cima.
Authié era irritato, ma non lo diede a vedere. Era sicuro che non avrebbe
trovato nulla nella caverna. L'aveva già setacciata centimetro per centime-
tro. Le passò la torcia.
«Come desidera» replicò.
Authié la vide scomparire nel tunnel: il raggio di luce diventò sempre
più debole e più lontano, fino a svanire del tutto.
Si allontanò dall'entrata, per non farsi sentire.
Il solo stare vicino alla grotta lo rendeva furioso. Portò la mano al croci-
fisso che portava al collo, quasi fosse un talismano in grado di scacciare il
male che risiedeva in quel luogo.
«Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» recitò, mentre si
faceva il segno della croce. Aspettò che il respiro tornasse regolare, quindi
chiamò l'ufficio.
«Che notizie mi dai?»
Un'espressione compiaciuta si diffuse sul suo volto, mentre ascoltava.
«In albergo? Si sono parlati?» Ascoltò la risposta. «D'accordo. Continua a
starle dietro e vedi cosa fa.»
Sorrise e riagganciò. Un'altra cosa da aggiungere alla lista di domande
da fare alla O'Donnell.
La segretaria aveva scoperto poco o niente sul conto di Baillard. Non
possedeva auto, né passaporto, né telefono, non risultava registrato al cata-
sto né da nessun'altra parte. Non si trovava neppure il suo numéro de secu-
rité sociale. Ufficialmente, sembrava che non esistesse. Era un uomo senza
passato.
Authié ipotizzò che fosse un ex membro della Noublesso Véritable di-
staccatosi dall'associazione. L'età, la cultura, l'interesse per la storia dei ca-
tari e la conoscenza dei geroglifici lo mettevano in relazione con i Codici
del Labirinto.
Era convinto che ci fosse un legame. Si trattava soltanto di scoprire qua-
le. Avrebbe distrutto la grotta in quel preciso istante, senza esitare un se-
condo, se non fosse stato per il fatto che i libri non erano ancora in suo
possesso. Lui era lo strumento di Dio grazie al quale quell'eresia vecchia di
quattromila anni sarebbe stata cancellata dalla faccia della terra. Avrebbe
aspettato che le pergamene pagane fossero tornate all'interno della caverna
per entrare in azione. A quel punto avrebbe messo al rogo tutto e tutti.
Il pensiero di avere solo due giorni a disposizione per trovare il libro lo
spronò a rimettersi al lavoro. Con uno sguardo plumbeo, penetrante e riso-
luto, fece un'altra telefonata.
«Domani mattina» disse. «Preparatela.»

Audric Baillard sentiva i tacchi delle scarpe marroni di Jeanne picchiet-


tare sul linoleum grigio mentre percorrevano i corridoi dell'ospedale di
Foix.
Tutto il resto era chiaro. Il suo vestito bianco gesso, le divise degli in-
fermieri, le loro scarpe con la suola di gomma, le pareti, le tabelle, le car-
telline portablocco. L'ispettore Noubel, con gli abiti sgualciti e i capelli ar-
ruffati, saltava all'occhio in quell'ambiente asettico. Sembrava non si cam-
biasse da giorni.
Un carrello veniva spinto per il corridoio verso di loro, lo stridio delle
ruote disturbava il silenzio del posto. Audric e Jeanne si scostarono per la-
sciarlo passare. L'infermiera li ringraziò con un lieve cenno del capo.
Baillard sapeva che stavano trattando Jeanne con particolare attenzione.
La loro non era soltanto compassione, senza dubbio genuina, erano anche
preoccupati per come avrebbe reagito al colpo. Gli sfuggì un truce sogghi-
gno. I giovani dimenticavano sempre che la generazione di Jeanne ne ave-
va passate più della loro. La guerra, l'occupazione, la resistenza. Erano
persone che avevano combattuto, ucciso, visto morire i propri cari. Erano
temprate. Niente poteva più sconvolgerle, tranne forse l'estrema duttilità
dell'animo umano.
Noubel si fermò davanti a una grande porta bianca. La aprì e si fece da
parte per lasciarli entrare. L'aria era fresca e pervasa dall'odore acre del di-
sinfettante. Baillard si tolse il cappello e lo accostò al petto.
Le macchine erano silenziose, adesso. Il letto si trovava sotto la finestra,
al centro della stanza, il corpo coperto da un lenzuolo che pendeva spie-
gazzato da entrambi i lati.
«Hanno fatto tutto il possibile» mormorò Noubel.
«Mio nipote è stato assassinato, ispettore?» chiese Jeanne. Era la prima
volta che apriva bocca da quando erano arrivati all'ospedale e avevano sa-
puto che era troppo tardi.
Baillard vide che all'ispettore tremavano nervosamente le mani.
«È ancora presto per dirlo, madame Giraud, tuttavia...»
«Lo state trattando come un caso di omicidio oppure no, ispettore?»
«Sì.»
«La ringrazio» disse senza cambiare tono di voce. «Era tutto quello che
volevo sapere.»
«Se non c'è altro» disse Noubel, avvicinandosi lentamente alla porta, «vi
lascio porgere i vostri ossequi. Se avete bisogno di me, sono nella saletta
per i parenti insieme a madame Claudette.»
La porta si chiuse con un colpo secco. Jeanne si avvicinò al letto. Aveva
il viso cupo e le labbra tirate, ma teneva la schiena e le spalle dritte come
al solito.
Sollevò il lenzuolo. La quiete della morte avvolse la stanza. Baillard no-
tò quanto fosse giovane Yves. Aveva la pelle chiara e liscia, priva di ru-
ghe. La parte superiore del cranio era fasciata. Dalle bende spuntavano al-
cune ciocche di capelli neri. Le mani, con le nocche rosse e scorticate, era-
no intrecciate sul petto, sembrava un faraone bambino.
Baillard guardò Jeanne chinarsi sul nipote e baciarlo sulla fronte. Quin-
di, con mano ferma, ricoprirgli il viso e voltarsi.
«Andiamo?» disse, mettendosi sottobraccio a Baillard.
Percorsero di nuovo il corridoio deserto. Baillard guardò a destra e a si-
nistra, poi accompagnò Jeanne verso una fila di sedie di plastica fissate al
muro. Il silenzio era insopportabile. Istintivamente abbassarono la voce,
anche se non c'era nessuno che potesse sentirli.
«Ero preoccupata per lui negli ultimi tempi, Audric» confessò. «Non era
più lo stesso. Era diventato chiuso, agitato.»
«Gli hai chiesto cosa lo turbasse?»
Annuì. «Diceva che non era niente. Soltanto lo stress per l'eccessivo la-
voro.»
Audric posò una mano sul braccio di Jeanne. «Ti voleva bene, Jeanne.
Forse non era niente. Ma può darsi che avesse un problema.» Fece una
pausa. «Se Yves era coinvolto in qualche affare losco, ne stava sicuramen-
te soffrendo. Doveva avere la coscienza travagliata. Alla fine, al momento
opportuno, ha fatto la cosa giusta. Ha spedito l'anello a te, senza pensare
alle conseguenze.»
«L'ispettore Noubel mi ha chiesto dell'anello. Voleva sapere se avevo
parlato con Yves lunedì.»
«Cosa gli hai risposto?»
«Sono stata sincera, ho detto di no.»
Audric tirò un sospiro di sollievo.
«Ma tu credi che Yves fosse stato pagato per passare delle informazioni,
non è così, Audric?» Era perplessa, ma aveva la voce ferma. «Dimmelo.
Preferisco sapere la verità.»
Lui alzò le mani. «Come posso dirti la verità, se non la conosco?»
«Allora dimmi cosa sospetti. Non sapere,» si interruppe «è la cosa peg-
giore.»
Baillard si figurò la scena del masso che cadeva davanti all'entrata della
grotta e li intrappolava dentro. Il fatto di ignorare cosa stesse accadendo.
L'odore della scatola, lo scoppiettio delle fiamme, i soldati che gridavano
mentre correvano. Luoghi e immagini ricordati per metà. Il non sapere se
lei fosse viva o morta.
«Es vertat» disse con dolcezza. «Non sapere è la cosa più insop-
portabile.» Sospirò ancora una volta. «Benissimo. Secondo me, Yves è sta-
to pagato per fornire alcune informazioni, sì... principalmente sui Codici,
ma forse anche su qualcos'altro. Immagino che all'inizio la cosa sembrasse
innocua... qualche telefonata qua e là, particolari su dove qualcuno poteva
trovarsi o su chi si poteva ritenere affidabile... ma temo che a un tratto
quelli abbiano iniziato a chiedergli troppo.»
«"Quelli" chi? Conosci i responsabili allora?»
«Le mie sono solo congetture» replicò fulmineo. «Il genere umano non
cambia mai, Jeanne. Siamo diversi soltanto all'apparenza, Ci evolviamo,
creiamo nuove regole, nuovi modelli di vita. Ogni generazione difende va-
lori nuovi e accantona i vecchi, vantandosi di essere più civile e saggia di
quella passata. Pensiamo di avere poco in comune con quelli che sono ve-
nuti prima di noi.» Batté con il pugno sul petto. «Ma sotto questa membra-
na di carne, il cuore pulsa sempre allo stesso modo. Avidità, brama di po-
tere, paura della morte, questi sentimenti non cambiano.» Abbassò la voce.
«Né le cose belle della vita cambiano. Amore, coraggio, bontà d'animo,
volontà di dedicare la propria vita a qualcosa in cui si crede.»
«Ci sarà mai una fine?»
Baillard esitò. «Spero di sì.»
Sopra le loro teste l'orologio scandiva il passare del tempo. Dall'altro ca-
po del corridoio arrivavano voci indistinte, passi, lo stridio delle suole di
gomma sulle piastrelle.
«Non andrai alla polizia?» chiese Jeanne a un certo punto.
«Non credo sia saggio.»
«Non ti fidi dell'ispettore Noubel?»
«Benlèu.» Forse. «La polizia ti ha consegnato gli effetti personali di
Yves? Gli abiti che indossava quando lo hanno portato qui, il contenuto
delle tasche dei vestiti?»
«Gli indumenti erano... erano irrecuperabili. L'ispettore Noubel ha detto
che nelle tasche non c'era niente, tranne il portafoglio e le chiavi.»
«Proprio niente? Nessuna carte d'identité, nessun documento, neanche il
cellulare? Non ha pensato che fosse strano?»
«Non mi ha detto nulla» replicò Jeanne.
«E il suo appartamento? Hanno trovato qualcosa lì? Qualche documen-
to?»
Jeanne scrollò le spalle. «Non lo so.» Esitò. «Ho chiesto a un suo amico
di stilare un elenco di tutte le persone che si trovavano nella zona degli
scavi lunedì pomeriggio.» Gli porse un pezzo di carta con alcuni nomi sca-
rabocchiati sopra. «Non è completa.»
Lui guardò in basso. «E questo?» domandò, indicando il nome di un al-
bergo.
Jeanne diede uno sguardo. «Volevi sapere dove alloggia la ragazza in-
glese.» Fece una pausa. «O almeno, questo è quello che ha detto all'ispet-
tore Noubel.»
«Dottoressa Alice Tanner» mormorò a fior di labbra. Dopo tanto tempo,
era arrivata da lui. «Allora è là che indirizzerò la mia lettera.»
«Posso recapitarla io mentre torno a casa.»
«No» rispose brusco. Jeanne lo guardò stupita. «Perdonami» si scusò
subito lui. «Sei gentile a offrirti, ma... credo che non sia prudente che torni
a casa. Almeno per il momento.»
«E perché mai?»
«Non ci impiegheranno molto a capire che Yves ha mandato a te l'anel-
lo, sempre che non lo abbiano già scoperto. Ti prego, vai a stare da un'a-
mica. Vai da qualche parte, con Claudette, dovunque. Qui non sei al sicu-
ro.»
Con grande meraviglia di Audric, Jeanne non si oppose. «Da quando
siamo arrivati, non hai fatto altro che guardarti le spalle.»
Baillard sorrise. Pensava di aver mascherato bene la propria ap-
prensione.
«E che mi dici di te, Audric?»
«Per me è diverso» rispose. «Aspettavo questo momento da... da più
tempo di quanto immagini, Jeanne. È così che deve essere, nel bene o nel
male.»
Per un attimo, Jeanne non disse nulla.
«Chi è lei, Audric?» chiese con delicatezza. «La ragazza inglese. Perché
è così importante per te?»
L'amico sorrise, ma non riuscì a risponderle.
«Dove hai intenzione di andare?» chiese lei alla fine.
Baillard trattenne il respiro. Gli tornò in mente l'immagine del suo vil-
laggio, così come era una volta.
«Oustâou» replicò sottovoce. «Tornerò a casa. A la perfin.» Finalmente.

CAPITOLO 41
Shelagh si era abituata al buio.
Era stata rinchiusa in una stalla o in qualche altro ricovero per animali.
C'era l'odore acre e pungente di escrementi, urina, paglia e un lieve ma ri-
voltante puzzo di carne andata a male. Da sotto la porta filtrava un fascio
di luce, ma Shelagh non era in grado di dire se fosse tardo pomeriggio o
primo mattino. Non sapeva nemmeno che giorno fosse.
La corda che aveva intorno alle gambe graffiava e irritava la pelle esco-
riata e lacera delle caviglie. Aveva i polsi legati insieme ed era attaccata a
uno dei numerosi anelli metallici fissati al muro.
Cambiò posizione, cercando di mettersi comoda. Gli insetti le striscia-
vano sul viso e sulle mani. Era coperta di punture. I polsi le facevano male
nei punti in cui sfregava la corda e aveva le spalle indolenzite per aver te-
nuto le braccia tirate indietro tanto a lungo. I topi scorrazzavano nella pa-
glia agli angoli della capanna, ma Shelagh non ci faceva più caso, proprio
come con il dolore.
Se solo avesse telefonato ad Alice. Aveva commesso l'ennesimo errore.
Si domandò se Alice stesse continuando a cercarla o se si fosse arresa. Se
avesse telefonato all'alloggio vicino agli scavi e avesse scoperto che era
sparita, avrebbe capito che qualcosa non andava, no? E Yves? Brayling
aveva chiamato la polizia...
Shelagh sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Era più probabile che nes-
suno si fosse accorto della sua assenza. Molti dei colleghi avevano annun-
ciato di voler partire per qualche giorno, finché le acque non si fossero
calmate. Forse avevano pensato che lei avesse fatto lo stesso.
La fame l'aveva persa già da un pezzo, ma aveva sete. Era come se aves-
se ingoiato un blocco di carta vetrata. L'esigua scorta d'acqua che le ave-
vano lasciato era finita e aveva le labbra spaccate per averle leccate in con-
tinuazione. Si sforzò di ricordare quanto un essere umano medio e in salute
potesse sopravvivere senz'acqua. Un giorno? Una settimana?
Udì scricchiolare la ghiaia. Sentì un tuffo al cuore e una scarica di adre-
nalina attraversarle il corpo, come ogni volta che arrivava un rumore dal-
l'esterno. Fino a quel momento, non era entrato nessuno.
Si mise a sedere, mentre il lucchetto veniva aperto. La catena cadde con
un forte rumore sordo e si arrotolò su se stessa formando spirali di metallo,
poi sentì il cigolio della porta che girava sui cardini. Shelagh si voltò
quando la luce accecante del sole inondò la capanna immersa nel buio e un
uomo scuro e tarchiato si chinò per passare sotto l'architrave. Indossava la
giacca, nonostante il caldo, e aveva lo sguardo nascosto dagli occhiali da
sole. Istintivamente, Shelagh si schiacciò contro la parete, paralizzata dalla
paura che l'aveva stretta allo stomaco come una morsa.
Con due passi, l'uomo aveva percorso tutta la capanna. Afferrò la corda
e la costrinse a mettersi in piedi. Estrasse un coltello dalla tasca.
Shelagh sussultò e cercò di tirasi indietro. «Non» sussurrò. «Per favore.»
Detestava parlare con quel tono supplichevole, ma non riusciva a farne a
meno. Il terrore le aveva strappato via l'orgoglio.
L'uomo le avvicinò la lama alla gola con un sorriso, rivelando denti
marci e ingialliti dal fumo. Allungò una mano dietro di lei e tagliò la corda
che la legava al muro, quindi la strattonò in avanti. Debole e disorientata,
Shelagh perse l'equilibrio e cadde in ginocchio a peso morto.
«Non riesco a camminare. Devi slegarmi.» Indicò i piedi con lo sguardo.
«Mes pieds.»
L'uomo esitò un istante, poi tagliò le grosse funi che aveva alle caviglie,
come se stesse affettando un pezzo di carne.
«Lève-toi. Vite!» Alzò il braccio come se volesse picchiarla, invece strat-
tonò di nuovo la corda attirandola a sé. «Vite.» Shelagh aveva le gambe
anchilosate, ma aveva troppa paura per disobbedire. La pelle intorno alle
caviglie era escoriata e tirava a ogni passo, provocandole fitte di dolore fin
sopra ai polpacci.
Sentì il terreno scosceso e irregolare sotto i piedi, quando uscì in-
ciampando dalla capanna. Il sole scottava. Le perforava le retine. L'aria era
calda e umida. Sembrava avvolgere il cortile e gli edifici come un malefico
Buddha.
Mentre si allontanava dalla sua improvvisata prigione, uno dei tanti ri-
coveri per animali in disuso, Shelagh si sforzò di guardarsi intorno, poiché
sapeva che quella poteva essere l'unica occasione per scoprire dove si tro-
vasse. E soprattutto chi ce l'avesse portata. Malgrado tutto, non poteva es-
serne sicura.
Era cominciato tutto a marzo, Lui era attraente, ammaliante e quasi di-
spiaciuto di averla disturbata. Lavorava per qualcun altro, le aveva spiega-
to, qualcuno che voleva restare anonimo. Tutto quello che le chiedeva di
fare era una telefonata. Informazioni, nient'altro. Era disposto a pagarla
profumatamente. Qualche tempo dopo, gli accordi erano cambiati: metà
per le informazioni, il resto alla consegna. A ripensarci adesso, Shelagh
non sapeva dire con esattezza quando avesse iniziato a nutrire i primi so-
spetti.
Il cliente non sembrava il classico collezionista ingenuo, disposto a pa-
gare più del valore effettivo senza fare domande. Innanzitutto sembrava
giovane. In genere si trattava di cacciatori di reliquie medievali, supersti-
ziosi, suscettibili, stupidi e ossessionati. Lui non era niente di tutto ciò. Già
solo questo avrebbe dovuto far suonare nella sua testa un campanello d'al-
larme.
Guardandosi indietro, trovava assurdo non essersi fermata a chiedersi
per quale motivo, se l'anello e il libro avevano soltanto un valore affettivo,
quell'uomo fosse disposto a tutto pur di averli.
Qualunque remora Shelagh avesse sul piano etico, quanto al sottrarre e a
rivendere manufatti, era scomparsa diversi anni prima. Aveva sofferto ab-
bastanza, per colpa di antichi musei e istituzioni accademiche d'élite, da
convincersi che in fondo non erano più adatti dei collezionisti privati a cu-
stodire quei tesori dell'antichità. Lei prendeva i soldi; loro ottenevano ciò
che volevano. Tutti erano contenti. Quello che succedeva dopo non era af-
far suo.
Col senno di poi, capì che aveva cominciato ad avere paura molto prima
della seconda telefonata, di certo diverse settimane prima di invitare Alice
al Pic de Soularac. Poi, quando Yves Biau l'aveva contattata e avevano
confrontato le storie... La morsa allo stomaco era diventata più stretta.
Se fosse successo qualcosa ad Alice, sarebbe stata colpa sua.
Raggiunsero la fattoria, un edificio di medie dimensioni, circondato da
altre costruzioni disabitate, un garage e una cantina. La vernice sulle per-
siane e sulla porta d'ingresso era screpolata e le finestre erano senza vetri.
C'erano due auto parcheggiate sul davanti, per il resto la fattoria era com-
pletamente deserta.
Tutto intorno si vedevano ininterrotte montagne e vallate. Se non altro,
si trovava ancora sui Pirenei. Il che, in un certo senso, le dava un motivo
per sperare.
La porta era aperta, come se qualcuno li stesse aspettando. L'interno era
fresco, anche se a prima vista sembrava deserto. Tutto era coperto da uno
strato di polvere. Quel posto poteva essere stato un albergo o un'auberge
una volta. Proprio di fronte all'ingresso c'era il banco della reception, so-
vrastato da una fila di ganci ormai vuoti, sui quali un tempo dovevano es-
sere appese le chiavi.
L'uomo tirò la fune con uno strattone per farla muovere. Da vicino, puz-
zava di sudore, dopobarba da quattro soldi e fumo stantio. Shelagh sentì
alcune voci giungere da una stanza alla sua sinistra. La porta era accostata.
Ruotò lo sguardo per cercare di vedere qualcosa e scorse un uomo di spalle
davanti alla finestra. Scarpe di cuoio e gambe avvolte da leggeri pantaloni
estivi.
Fu costretta a salire al secondo piano, quindi a percorrere un corridoio e
a inerpicarsi su una scala stretta e ripida che conduceva a una soffitta dal-
l'aria viziata, la quale occupava quasi tutto l'ultimo piano della casa. Si
fermarono davanti alla porta del sottotetto.
L'uomo tolse i chiavistelli e le diede a uno spintone sulle reni, facendola
volare in avanti. Shelagh atterrò con violenza, battendo il gomito a terra,
mentre l'uomo richiudeva la porta dietro di sé. Malgrado il dolore, si lanciò
contro la porta e la prese a pugni urlando, ma questa era stata blindata per
precauzione.
Alla fine, si arrese e si voltò per ispezionare il nuovo alloggio. C'era un
materasso appoggiato contro la parete opposta. Una coperta era ripiegata
con cura sopra di esso. Di fronte alla porta c'era una finestrella. Era spran-
gata dall'interno. Shelagh camminò a stento per la stanza e capì di trovarsi
sul retro della casa. Le sbarre di metallo erano robuste e quando le tirò non
accennarono a spostarsi. C'era uno strapiombo, comunque.
In un angolo vide un piccolo lavandino, con accanto un secchio. Dopo
aver fatto i propri bisogni, aprì il rubinetto a fatica. I tubi borbottarono e
tossirono come un fumatore incallito ma, dopo un paio di false partenze,
cominciò a uscire un sottile filo d'acqua. Unì le mani sudice e bevve fino a
farsi gonfiare la pancia. Quindi si lavò alla meno peggio, sfregando le cor-
de sui i polsi e le caviglie incrostate di sangue.
Un attimo dopo, l'uomo le portò da mangiare. Più del solito.
«Perché mi trovo qui?»
Lui appoggiò il vassoio per terra, al centro della stanza.
«Perché mi avete portata qui? Pourquoi je suis là?»
«Il te le dira.»
«Chi vuole parlarmi?
Indicò il cibo. «Mange.»
«Dovrai slegarmi.» Poi domandò di nuovo. «Chi? Dimmelo.»
L'uomo le avvicinò il vassoio con il piede. «Mangia.»
Quando se ne fu andato, Shelagh si tuffò sul cibo. Mangiò fino all'ultima
briciola, persino il torsolo e i semi della mela, e subito dopo tornò alla fi-
nestra. I primi raggi di sole spuntavano dalla vetta della montagna, tra-
sformando tutto da grigio in bianco.
In lontananza, udì il rumore di un'auto, che si dirigeva lenta verso la fat-
toria.

CAPITOLO 42

Le indicazioni di Karen erano esatte. Un'ora dopo aver lasciato Carcas-


sonne, Alice si trovava alla periferia di Narbonne. Seguì i cartelli che por-
tavano a Cuxac d'Aude e Capestang lungo una bella strada, fiancheggiata
da alti bambù e graminacee selvatiche che ondeggiavano al vento e ripara-
vano fertili campi verdi. Era molto diverso dalle montagne dell'Ariège e
dalla garrigue del Corbières. Erano quasi le due quando Alice arrivò a Sal-
lèles d'Aude. Parcheggiò sotto i tigli e i pini che riparavano dal sole e de-
limitavano il Canal du Midi a partire dalle cateratte, quindi percorse le si-
nuose stradine fino ad arrivare a rue des Burgues.
La villetta a tre piani di Grace era all'angolo e si affacciava direttamente
sulla strada. Un favoloso cespuglio di rose, con i pesanti boccioli scarlatti
appesi ai rami, incorniciava l'antica porta di legno e le grandi persiane
marroni. La serratura era dura e Alice dovette giocare un po' con la grossa
chiave di ottone prima di riuscire a farla girare. Tirò un forte spintone e un
calcio secco. La porta si aprì con un cigolio, raschiando le mattonelle bian-
che e nere e i giornali gratuiti che la bloccavano dall'interno.
Si entrava subito in un'unica stanza, l'angolo cucina sulla sinistra e una
zona giorno più ampia sulla destra. La casa era fredda e umida, aveva il ti-
pico odore stucchevole di una casa abbandonata da tempo. L'aria fredda le
si avvinghiò attorno alle gambe come un gatto. Alice provò ad accendere
l'interruttore della luce, ma non c'era corrente elettrica. Dopo aver raccolto
la pubblicità e la carta straccia e averla posata sul tavolo, si sporse sul la-
vandino, aprì la finestra e litigò con il sofisticato chiavistello che bloccava
le persiane.
Un bollitore e un vecchio fornello con la graticola a vista erano il mas-
simo dei comfort che sua zia possedesse. Lo scolapiatti era vuoto e il lavel-
lo pulito, ma c'erano un paio di spugnette, rigide come vecchie ossa rinsec-
chite, infilate dietro il rubinetto.
Alice attraversò la stanza, aprì l'ampia finestra del soggiorno e le pesanti
persiane marroni. Subito la luce del sole inondò la stanza, trasformandola.
Si affacciò e inalò il profumo delle rose, si rilassò un istante nella calda a-
ria dell'estate, lasciando che spazzasse via le sensazioni negative.
Si sentiva un'intrusa, come se stesse sbirciando nella vita di qualcun al-
tro senza avere il permesso.
Le due poltrone di legno con lo schienale alto erano disposte ad angolo
retto con il camino. L'esterno del caminetto era di pietra grigia, sulla men-
sola c'era qualche ninnolo di porcellana ricoperto di polvere. Sulla grata
c'erano i residui di un fuoco ormai spentosi da tempo. Alice li spinse con il
piede e si sgretolarono, sollevando una nuvola di cenere grigia e sottile.
Sulla parete accanto al caminetto era appeso un dipinto a olio di una casa
di pietra con il tetto spiovente rivestito di tegole rosse, situata in mezzo a
campi di girasoli e viti. Alice decifrò la firma scarabocchiata all'angolo in
basso a destra: BAILLARD.
In fondo alla stanza c'erano un tavolo da pranzo, quattro sedie e una cre-
denza. Alice aprì le ante e trovò un servizio di sottobicchieri e sottopiatti,
decorati con disegni delle cattedrali francesi, una pila di tovaglioli di lino e
un set di posate d'argento, che sferragliarono nell'astuccio quando lo rimise
a posto. Le porcellane migliori, servizi di piatti, zuppiere, coppette da des-
sert e una salsiera, erano riposti sui ripiani più bassi.
Dall'altra parte della stanza c'erano due porte. La prima era di un riposti-
glio: asse da stiro, spazzola e paletta, scopa, un paio di appendiabiti e un
mucchio di sacchetti di plastica di Géant messi uno dentro l'altro.
I sandali incespicavano nei gradini di legno mentre saliva di sopra al
buio. Dritto davanti a sé trovò un bagno dalle piastrelle rosa, con un grumo
di sapone secco nel lavandino e una salvietta logora appesa a un gancio ac-
canto allo specchio senza cornice.
La camera da letto di Grace era a sinistra. Il letto singolo era rifatto con
lenzuola e coperte e una pesante trapunta. Sul comodino di mogano c'era
una vecchia bottiglia di latte di magnesia, con un'incrostazione intorno al
collo, e una biografia di Eleonora d'Aquitania a cura di Alison Weir.
La vista di un antiquato segnalibro in mezzo alle pagine le toccò il cuo-
re. Si figurò Grace che spegneva la luce e si metteva a dormire, infilando il
segnalibro per ritrovare la pagina che stava leggendo. Ma il tempo a sua
disposizione era terminato. Era morta prima di riuscire a finirlo. Con inso-
lita tenerezza, Alice mise da parte il libro. Lo avrebbe portato a casa con
sé.
Nel cassetto del comodino c'era un sacchetto di lavanda, legato con un
nastro rosa scolorito dal tempo, insieme a una ricetta medica e a una scato-
la di fazzoletti. Il ripiano di sotto era pieno di libri. Alice si accucciò e pie-
gò la testa da un lato per leggere il dorso dei volumi, incapace come sem-
pre di resistere alla tentazione di curiosare fra gli scaffali altrui. Uno o due
romanzi di Mary Stewart, un paio di Joanna Trollopes, una vecchia edizio-
ne speciale di Peyton Place, un volumetto sui catari. Su quest'ultimo il
nome dell'autore era scritto in stampatello: A.S. BAILLARD. Alice inarcò
le sopracciglia. Era lo stesso che aveva dipinto il quadro al pianterreno?
Sotto era riportato il nome del traduttore: J. GIRAUD.
Alice girò il libro e lesse il risvolto di copertina. Una traduzione del
vangelo di san Giovanni in occitano, più vari libri sull'antico Egitto e la
premiata biografia di Jean-François Champollion, lo studioso del dician-
novesimo secolo che aveva risolto il mistero dei geroglifici.
Una lampadina si accese nella testa di Alice. La biblioteca di Toulouse,
con le mappe, le carte e le illustrazioni che si alternavano sullo schermo
davanti ai suoi occhi. Di nuovo l'Egitto.
Sulla copertina del libro di Baillard c'era la fotografia di un castello in
rovina, avvolto in una purpurea foschia e pericolosamente arroccato su una
rupe. Alice riconobbe dalle cartoline e dalle guide che aveva visto che si
trattava di Montségur.
Aprì il libro. Le pagine si separarono da sole a circa due terzi del libro,
dove era stato infilato un pezzo di carta. Alice cominciò a leggere:

La fortezza di Montségur è arroccata sulla cima del monte, a


circa un'ora di cammino dall'omonimo villaggio. Spesso nascosto
dalle nuvole, il castello ha tre lati ritagliati dal fianco della mon-
tagna stessa. È una straordinaria fortezza naturale. Le rovine non
risalgono al tredicesimo secolo, bensì a guerre di occupazione
più recenti. Eppure l'atmosfera del luogo ricorda sempre al visi-
tatore il suo tragico passato.
Le leggende associate a Montségur, la montagna sicura, sono
innumerevoli. Alcuni la ritenevano un tempio solare, altri la fonte
d'ispirazione del Munsalvaesche di Wagner, il Forziere o Monta-
gna del Graal, nel suo capolavoro, Parsifal. Altri ancora lo hanno
visto come l'ultima dimora del Graal. È stato ipotizzato che i ca-
tari fossero i custodi della coppa di Cristo, così come di molti al-
tri tesori provenienti dal Tempio di Salomone a Gerusalemme, o
forse dell'oro dei visigoti e di altre ricchezze di origine sconosciu-
ta.
Se da una parte si pensa che il leggendario tesoro cataro sia
stato portato via dalla cittadella assediata nel gennaio 1244, su-
bito dopo la sconfitta finale, dall'altra quel tesoro non è mai stato
rinvenuto. Le voci secondo le quali il più prezioso degli oggetti
sia andato smarrito, sono infondate.*

Alice andò a leggere la nota, contrassegnata dall'asterisco, in fondo alla


pagina. Invece di una nota c'era una citazione dal vangelo di Giovanni, ca-
pitolo otto, versetto trentadue: «Conoscerete la verità e la verità vi farà li-
beri».
Inarcò le sopracciglia. Non sembrava avere molta coerenza con il testo.
Alice mise da parte il libro di Baillard per portarlo con sé, quindi andò
all'altro capo della camera da letto.
C'era una vecchia macchina da cucire Singer, una nota inglese che sto-
nava con quella casa francese dai muri spessi. Sua madre ne aveva una i-
dentica e stava seduta a cucire per ore senza fermarsi, riempiva la casa con
il rollio e il picchiettio del pedale.
Alice passò la mano sulla superficie impolverata. Sembrava in buone
condizioni. Uno alla volta aprì tutti gli scompartimenti, trovò rocchetti di
cotone, aghi, spilli, brandelli di pizzo e nastro, una bustina di vecchi auto-
matici argentati e una scatola di bottoni assortiti.
Passò alla scrivania di quercia accanto alla finestra che si affacciava su
un cortiletto recintato, sul retro della casa. I primi due cassetti erano rive-
stiti di carta da parati, ma completamente vuoti. Il terzo, stranamente, era
chiuso a chiave, anche se la chiave era stata lasciata nella toppa.
Con un po' di forza e un po' di pazienza, Alice riuscì a girare la minusco-
la chiave argentata. In fondo al cassetto c'era una scatola da scarpe. La pre-
se e la appoggiò sul piano della scrivania.
Era tutto disposto con molta cura all'interno. Un mazzo di fotografie le-
gate con uno spago. Un'unica lettera in cima a tutto. Era indirizzata a Mme
Tanner, con scrittura nera e filiforme. Il timbro postale diceva Carcasson-
ne, 16 Mars 2005, la parola PRIORITAIRE era stampata in rosso. Non c'e-
ra l'indirizzo del mittente sul retro, soltanto un nome scritto in stampatello
con lo stessa grafia: Expéditeur Audric S. Baillard.
Alice infilò le dita nella busta e tirò fuori un solo foglio di spessa carta
filigranata. Non c'era data, né indirizzo, né oggetto, soltanto una poesia
scritta dallo stesso pugno.

Bona nuèit, bona nuèit...


Braves amics, pica mièja-nuèit
Cal finir velhada
Ejos la flassada
Un vago ricordo le riaffiorò nella mente, come una canzone da tempo
dimenticata. Le parole scolpite sui gradini della caverna. Era la stessa lin-
gua, ci avrebbe giurato, il suo inconscio riusciva ad afferrare cose che
sfuggivano alla parte cosciente di sé.
Alice si appoggiò contro il letto. Il sedici marzo, un paio di giorni prima
della morte della zia. L'aveva messa lei nella scatola o era toccato a qual-
cun altro farlo? Allo stesso Baillard?
Mise da parte la poesia e sciolse lo spago.
Erano in tutto dieci fotografie in bianco e nero, sistemate in ordine cro-
nologico. Sul retro c'erano luogo e data scritti a penna, in stampatello. La
prima ritraeva un bambino dall'aria triste in divisa scolastica, i capelli
schiacciati e separati con una riga netta. Alice la girò. C'era scritto FRE-
DERICK WILLIAM TANNER, SETTEMBRE 1937 con inchiostro blu.
Una grafia diversa.
Sentì un tuffo al cuore. La stessa foto, di suo padre, era sul caminetto di
casa sua accanto a quella del matrimonio dei genitori e a una di Alice a sei
anni, in cui indossava un abito da cerimonia plissettato con le maniche a
sbuffo. Seguì il profilo del viso con il dito. Se non altro, quella era la prova
che Grace sapeva dell'esistenza del fratellino, sebbene non si fossero mai
incontrati.
La mise via e passò a quella successiva, spulciando con cura tutta la pila.
La foto più vecchia della zia era piuttosto recente, era stata scattata a una
festa d'estate nel luglio 1958.
Notò una discreta somiglianza. Come Alice, Grace era minuta, con i li-
neamenti delicati, quasi da elfo, anche se aveva i capelli grigi e lisci, ta-
gliati rigorosamente corti. La zia fissava l'obiettivo e teneva la borsa stretta
davanti a sé come uno scudo.
L'ultima fotografia era sempre di Grace, qualche anno più tardi, insieme
a un uomo anziano. Alice aggrottò la fronte. Le ricordava qualcuno. Incli-
nò un po' la foto, per vederla sotto una luce differente.
Erano davanti a un antico muro di pietra. La posa aveva un che di forma-
le, come se non si conoscessero molto bene. Dagli abiti, si intuiva che era
primavera o estate. Grace indossava un vestito leggero a maniche corte,
stretto in vita. Il compagno era alto e molto esile, in un completo estivo
chiaro. Il volto era coperto dall'ombra del panama, ma le mani grinzose e
cosparse di macchie rivelavano la sua età.
Sul muro alle loro spalle, si vedeva in parte un cartello stradale francese.
Alice scrutò le minuscole lettere e riuscì a leggere rue des Trois Degrès. La
didascalia sul retro era scritta con la grafia filiforme di Baillard: AB e GT,
junh 1992, Chartres.
Di nuovo Chartres. Doveva significare Grace Tanner e Audric Baillard.
E il 1992, l'anno prima che i suoi genitori morissero.
Dopo aver messo via anche quella, Alice tirò fuori l'unico oggetto che
rimaneva nella scatola, un vecchio libricino. La pelle era screpolata e tenu-
ta insieme da una chiusura d'ottone corrosa, le parole SACRA BIBBIA era-
no scritte a rilievo in oro sulla copertina.
Dopo vari tentativi, Alice riuscì ad aprirlo. A prima vista, non sembrava
diversa dalle altre edizioni comuni. Solo dopo aver sfogliato quasi tutte le
pagine, scoprì che nella sottilissima carta era stato fatto un buco, in modo
da creare un nascondiglio poco profondo e di forma rettangolare, circa die-
ci centimetri per sette.
All'interno, ripiegati con cura, c'erano diversi fogli di carta che Alice a-
prì con attenzione. Un disco di pietra chiara, della misura di una moneta da
dieci franchi, le scivolò sul grembo. Era liscio e molto sottile, di pietra.
Stupita, lo sollevò con due dita. C'erano due lettere incise sopra. NS. Punti
cardinali? Iniziali di qualcuno? Una moneta?
Alice girò il disco. Sull'altra faccia era scolpito il labirinto, identico in
tutto e per tutto al disegno all'interno dell'anello e sul muro della caverna.
Il buon senso le disse che doveva esserci una spiegazione del tutto ra-
zionale per quella coincidenza, anche se in quel momento non riusciva a
trovarne nessuna. Guardò timorosa i fogli di carta che avvolgevano il di-
sco. Aveva paura di quello che poteva scoprire, ma era troppo curiosa per
non guardarli.
Non puoi arrenderti adesso.
Cominciò ad aprire i fogli. Tirò un enorme sospiro di sollievo. Era solo
un albero genealogico. La prima pagina era intitolata ARBRE GÉNÉALO-
GIQUE. L'inchiostro era sbiadito e in certi punti difficile da leggere, ma si
riusciva a decifrare alcune parole. Quasi tutti i nomi erano scritti in nero,
ma sulla seconda riga ce n'era uno in rosso: Alaïs PELLETIER-DU MAS
(1193-). Alice non riuscì a decifrare il nome accanto a quello, ma sulla riga
successiva, leggermente spostato verso destra, c'era un altro nome scritto
in verde: SAJHË DE SERVIAN.
Accanto a entrambi c'era un piccolo e delicato disegno dorato. Alice pre-
se il disco di pietra e lo collocò, dalla parte dell'incisione, vicino al simbo-
lo sulla pagina. I disegni erano identici.
Sfogliò le pagine a una a una finché non giunse all'ultima. Lì, trovò il
nome di Grace, la data di morte era stata aggiunta con inchiostro di colore
diverso. Sotto, da un lato, c'erano i genitori di Alice.
L'ultimo nome era il suo. ALICE HELENA (1976-) scritto in inchiostro
rosso. Accanto a esso, il labirinto.
Alice restò seduta a lungo nella stanza silenziosa e abbandonata, con le
ginocchia piegate sotto il mento e le mani attorno alle gambe. Alla fine ca-
pì. Il passato la stava chiamando. Che le piacesse oppure no.

CAPITOLO 43

Il viaggio di ritorno da Sallèles d'Aude a Carcassonne passò in un bale-


no. Quando Alice arrivò in albergo, l'ingresso era affollato di nuovi clienti,
perciò prese la chiave della stanza per conto suo e andò di sopra senza che
nessuno si accorgesse di lei.
Fece per aprire la porta e notò che era accostata.
Esitò. Appoggiò a terra la scatola da scarpe e i libri, quindi spalancò la
porta con prudenza.
«Allo? C'è qualcuno?»
Si guardò intorno. Nella stanza era tutto come lo aveva lasciato. Ancora
timorosa, Alice scavalcò le cose che aveva messo sulla soglia ed entrò con
cautela. Si fermò. C'era un odore di vaniglia misto a tabacco stantio.
Avvertì qualcosa muoversi dietro là porta. Il cuore le balzò in gola. Si
voltò di scatto, giusto in tempo per trovarsi davanti una giacca grigia e una
chioma di capelli neri, prima di ricevere una spinta sul petto che la fece
cadere all'indietro. Batté la testa contro l'anta dell'armadio a specchio, fa-
cendo tintinnare le grucce di metallo, appese all'interno, come biglie su un
tetto di latta.
I contorni della stanza divennero sfocati. Ballava tutto. Alice strizzò gli
occhi. Lo sentì fuggire per il corridoio. Vai. Presto.
Si alzò barcollando e lo inseguì. Si precipitò giù per le scale fino all'in-
gresso, dove una numerosa comitiva di italiani le ostruì il passaggio. In
preda al panico, lo cercò con gli occhi in mezzo alla calca e lo vide dile-
guarsi attraverso l'uscita secondaria.
Si fece strada nella foresta di persone e bagagli, scavalcando valigie e
borsoni, quindi si tuffò all'inseguimento nei giardini. L'uomo si trovava già
in fondo alla strada. Racimolò ogni briciolo di energia che aveva in corpo
e gli corse dietro, ma era troppo veloce.
Quando raggiunse la strada principale, non c'erano più tracce di quel ti-
zio. Era sparito in mezzo alla folla di turisti che scendeva dalla Cité. Alice
appoggiò le mani sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato. Poi si driz-
zò e si toccò la testa. C'era già un bernoccolo.
Dopo un ultimo sguardo alla strada, si voltò e si incamminò di nuovo
verso l'albergo. Domandò scusa e andò dritta all'inizio della fila.
«Pardon, mais vous l'avez vu?»
La ragazza alla reception sembrava seccata. «Sarò da lei non appena a-
vrò finito con questo signore» replicò.
«Temo di non poter aspettare» ribatté Alice. «C'era qualcuno nella mia
stanza. È appena fuggito. Un paio di minuti fa.»
«Davvero, madame, la prego di attendere un istante...»
Alice alzò la voce, per farsi sentire da tutti. «Il y avait quelqu'un dans
ma chambre. Un voleur.»
Tutti tacquero. La ragazza sgranò gli occhi. Scivolò giù dallo sgabello e
sparì. Dopo qualche secondo, arrivò il proprietario dell'albergo, il quale
accompagnò Alice lontano dalla reception.
«Qual è il problema, madame?» chiese a bassa voce.
Alice spiegò.
«La porta non è stata forzata» disse lui, quando ebbe controllato il fer-
mo, dopo averla riaccompagnata di sopra.
Mentre il proprietario la osservava dalla soglia, Alice controllò che non
mancasse nulla. Con suo grande imbarazzo, constatò che non era stato por-
tato via niente. Il passaporto era ancora in fondo all'armadio, anche se era
stato spostato. Lo stesso valeva per il contenuto dello zaino. Era tutto lì,
solo leggermente fuori posto. Non era una prova sufficiente.
Alice ispezionò il bagno. Finalmente trovò qualcosa.
«Monsieur, s'il vous plaît» gridò. Indicò il lavabo. «Regardez.»
C'era un forte odore di lavanda, dove la saponetta era stata fatta a pezzi.
Anche il tubetto del dentifricio era squarciato e il contenuto era tutto di
fuori. «Voilà. Comme je vous ai dit.» Come le dicevo.
Il proprietario sembrò turbato, ma dubbioso. Le chiese se voleva che
chiamasse la polizia. Certo avrebbe chiesto agli altri ospiti se per caso a-
vessero notato qualcosa, ma dal momento che non mancava nulla...? La-
sciò la frase a metà.
A quel punto subentrò la paura. Non era stata un'intrusione casuale.
Chiunque fosse stato, stava cercando qualcosa in particolare, che credeva
fosse in mano di Alice.
Chi sapeva che si trovava lì? Noubel, Paul Authié, Karen Fleury e i col-
leghi, compresa Shelagh. Che lei sapesse, nessun altro.
«No» rispose in tono secco. «Niente polizia. Dato che non manca nulla...
ma voglio essere trasferita in un'altra stanza.» Il proprietario dapprima o-
biettò dicendo che l'albergo era pieno, ma quando vide l'espressione sul vi-
so di Alice acconsentì.
«Vedrò cosa posso fare.»

Venti minuti dopo, Alice fu sistemata in una diversa ala dell'albergo.


Era agitata. Controllò per due o tre volte che la porta fosse chiusa e le fi-
nestre bloccate. Si sedette sul letto, circondata dalle sue cose, e cercò di
decidere il da farsi. Si alzò, fece un giro per la minuscola stanza, si sedette
di nuovo e si rialzò. Non sapeva ancora se fosse il caso di cambiare alber-
go.
E se stanotte tornasse?
Qualcosa si mise a suonare all'improvviso. Alice sobbalzò per lo spaven-
to, prima di rendersi conto che era soltanto il cellulare che squillava nella
tasca della giacca.
«Allo, oui?»
Fu un sollievo sentire la voce di Stephen, il collega di Shelagh. «Ciao,
Steve. No, scusa. Sono appena rientrata. Non ho avuto tempo di controlla-
re i messaggi. Che succede?»
Rimase in ascolto e impallidì quando seppe che avevano sospeso gli
scavi in modo definitivo.
«Ma perché? Che motivazione ha dato Brayling?»
«Ha detto che non dipende da lui.»
«È solo per il fatto degli scheletri?»
«La polizia non lo ha detto.»
Il cuore cominciò a batterle forte. «Era presente la polizia quando Bra-
yling ha dato l'annuncio?» chiese,
«Era lì anche per via di Shelagh» rispose il collega, poi si fermò. «Alice,
mi stavo appunto chiedendo se tu avessi sue notizie.»
«Non la sento da lunedì. Ho provato a telefonarle diverse volte ieri, ma
non mi ha mai richiamata. Perché?»
Mentre attendeva la risposta di Stephen, si era alzata in piedi.
«Pare che sia scomparsa» disse lui alla fine. «Brayling è portato a crede-
re che ci sia sotto qualcosa di losco. Ha il sospetto che abbia rubato qual-
cosa dalla zona di scavo.»
«Shelagh non lo farebbe mai» esclamò Alice. «Per nulla al mondo. Non
è tipo da...»
Mentre parlava, però, rivide l'espressione furiosa sul viso di Shelagh. Si
sentì in colpa, ma non era più tanto convinta.
«È quello che pensa anche la polizia?» domandò.
«Non lo so. È soltanto un po' strano» rispose Steve in modo evasivo.
«Uno dei poliziotti che era sul luogo degli scavi lunedì è stato investito da
un'auto a Foix ed è morto» continuò. «Era sul giornale. Pare che lui e She-
lagh si conoscessero.»
Alice sprofondò nel letto. «Scusa, Steve. Faccio fatica a crederlo. Qual-
cuno la sta cercando? Stanno facendo qualcosa?»
«Una cosa ci sarebbe» disse titubante. «La farei io stesso, ma devo parti-
re domani mattina presto. Non posso proprio trattenermi.»
«Di che si tratta?»
«Prima che iniziassero i lavori, so che Shelagh stava da alcuni amici a
Chartres. Ho pensato che magari potrebbe essere andata lì e abbia sempli-
cemente dimenticato di avvertirci.»
Ad Alice sembrava difficile, ma era meglio che niente.
«Ho provato a telefonare. Mi ha risposto un ragazzo, che ha detto di non
aver mai sentito nominare Shelagh, ma sono certo che è quello il numero
che mi ha dato lei. Lo avevo memorizzato nella rubrica del cellulare.»
Alice prese carta e penna. «Dammelo. Ci farò un salto» disse, pronta a
scrivere.
Aveva la mano paralizzata.
«Scusa, Steve» disse con voce fioca, quasi si trovasse a chilometri di di-
stanza. «Puoi ripetere?»
«02 68 72 31 26» ripeté lui. «Fammi sapere se scopri qualcosa.»
Era lo stesso numero che le aveva dato Biau.
«Lascia fare a me» replicò Alice, senza rendersi conto di quello che di-
ceva. «Mi farò sentire.»
Sapeva che avrebbe dovuto chiamare Noubel per raccontargli dell'intru-
sione e dell'incontro con Biau, ma esitò. Non sapeva fino a che punto po-
tesse fidarsi dell'ispettore. Non aveva fatto nulla per fermare Authié.
Frugò nello zaino ed estrasse la carta stradale della Francia. È un'idea
folle. Saranno almeno otto ore di macchina.
Qualcosa le frullava per la testa. Recuperò gli appunti che aveva preso in
biblioteca.
Nella marea di informazioni sulla cattedrale di Chartres, c'era un breve
riferimento al Santo Graal. Anche lì, c'era un labirinto. Alice ritrovò il pa-
ragrafo che le interessava. Lo lesse due volte, per essere sicura di aver ca-
pito bene, quindi scostò di colpo la sedia dallo scrittoio e si sedette con il
libro di Audric Baillard aperto alla pagina contrassegnata.

Altri ancora lo hanno visto come l'ultima dimora del Graal. È


stato ipotizzato che i catari fossero i custodi della coppa di Cri-
sto...

Il tesoro cataro era stato portato via da Montségur. Al Pic de Soularac?


Alice prese la cartina all'inizio del libro. Montségur non era molto distante
dai monti del Sabarthès. E se il tesoro fosse stato nascosto lì?
Cosa collega Chartres a Carcassonne?
Udì i primi tuoni in lontananza. La stanza adesso era immersa in una
strana luce arancione, quella dei lampioni stradali che si rifletteva sulle
nubi della sera. Si era alzato il vento, che faceva sbattere le persiana e svo-
lazzare i rifiuti per tutto il parcheggio.
Quando Alice andò a chiudere le tende, cominciavano a cadere i primi
goccioloni, schizzando sul davanzale come inchiostro nero. Doveva partire
subito. Ma era tardi e non voleva arrischiarsi a guidare con quel temporale.
Sbarrò porta e finestre, regolò la sveglia e si mise a letto tutta vestita in
attesa che arrivasse il mattino.

All'inizio sembrava tutto uguale. Familiare, tranquillo. Fluttuava nel


candido mondo privo di gravità, trasparente e silenzioso. Poi, come la bo-
tola che si apre di colpo sotto il patibolo, uno scatto improvviso e lei che
precipitava sempre più giù nel cielo infinito, verso il fianco della montagna
ricoperto di alberi.
Sapeva dove si trovava. A Montségur, all'inizio dell'estate.
Alice iniziava a correre appena toccava terra, inciampando lungo un ri-
pido e accidentato sentiero di montagna fiancheggiato da alberi imponenti.
Alti e fitti, gli alberi incombevano sopra di lei. Si aggrappava ai rami per
rallentare, ma le mani passavano attraverso di essi e minuscole foglioline
rimanevano impigliate fra le dita, come capelli in una spazzola, macchian-
dole di verde.
Il terreno si inclinava sotto i piedi. Sentiva scricchiolare i sassi e le rocce
che avevano preso il posto della terra soffice, del muschio e dei ramoscelli
lungo il sentiero che si inerpicava sulla montagna. Eppure, non c'erano
suoni. Nessun canto di uccellini, nessuna voce, soltanto il suo respiro af-
fannoso.
Il sentiero girava e si ripiegava su se stesso, facendola correre di qua e di
là, finché non voltava l'angolo e trovava la muta barriera di fuoco a bloc-
carle il passaggio. Portava le mani al viso per proteggersi dalle fiamme
vermiglie, arancioni e dorate, che si levavano sibilando e si avvolgevano in
spirali nell'aria, come canne sotto la superficie di un fiume.
A quel punto il sogno cambiava. Stavolta, invece della moltitudine di
volti imprigionati fra le lingue di fuoco, ce n'era soltanto uno, una giovane
donna dall'aria dolce e forte allo stesso tempo, che allungava la mano e
prendeva il libro dalle mani di Alice.
Cantava, con voce argentina.
«Bona nuèit, bona nuèit.»
Non c'erano dita gelide che l'afferravano per le caviglie o che la inchio-
davano al suolo, stavolta. Il fuoco non la attirava a sé. Al contrario, Alice
volteggiava nell'aria come un filo di fumo, la giovane donna la stringeva
fra le braccia sottili e forti. Era al sicuro.
«Braves amics, pica mièja-nuèit.»
Alice sorrideva mentre insieme si libravano sempre più in alto verso la
luce, lasciando il resto del mondo ai loro piedi.

CAPITOLO 44

CARCASSONA
Julhet 1209

Alaïs si alzò molto presto, svegliata dal rumore di seghe e martelli che si
levava dalla corte. Guardò dalla finestra le gallerie e i tramezzi di legno
che venivano costruiti sopra le mura dello Château Comtal.
L'imponente struttura lignea prendeva forma con rapidità. Come un
camminamento coperto nel cielo, forniva la posizione strategica ideale dal-
la quale gli arcieri avrebbero scoccato una pioggia di frecce sul nemico,
nella remota eventualità che fosse riuscito ad aprire una breccia nelle mura
della Cité.
Si vestì in fretta e corse giù in cortile. Nella fucina il fuoco scoppiettava.
Martelli e incudini risuonavano mentre le armi venivano forgiate e affilate;
gli zappatori comunicavano fra loro urlando a intervalli rapidi e netti men-
tre venivano preparati assi, funi e contrappesi per le pèireras, le baliste.
Alaïs scorse Guilhem fuori dalla scuderia. Le si strinse il cuore. Guar-
dami. Lui non si voltò, né alzò lo sguardo. Alaïs sollevò la mano per chia-
marlo, ma poi fu sopraffatta dalla vigliaccheria e lasciò ricadere il braccio
lungo il fianco. Non aveva intenzione di umiliarsi implorando il suo affet-
to, se lui non era disposto a concederglielo.
Le stesse scene di operosità dello Château Comtal si svolgevano anche
nella Cité. Nella piazza principale venivano ammucchiate le pietre delle
Corbières, da usare per le balestre e le catapulte. Un acre tanfo di urina ve-
niva dalla conceria, dove venivano preparate le pelli di animale per difen-
dere le gallerie dal fuoco. Un'incessante processione di carri entrava dalla
Porte Narbonnaise, portando provviste per la Cité: carne salata da La Piège
e dal Lauragais, vino dalla zona di Carcassès, orzo e grano dalle pianure,
fagioli e lenticchie dagli orti di Sant-Miquel e Sant-Vicens.
Dietro tutta quell'attività c'era un sentimento di orgoglio e di risolutezza.
Solo le nuvole di soffocante fumo nero che si levavano a nord, dal fiume e
dalle paludi, dove il visconte Trencavel aveva ordinato di bruciare i mulini
e di distruggere i raccolti, ricordavano quanto fosse imminente e reale la
minaccia della guerra.
Alaïs aspettò Sajhë nel posto stabilito. Aveva in testa un milione di do-
mande che avrebbe voluto fare a Esclarmonde, le frullavano nella mente
come uccelli lungo un fiume. Quando Sajhë arrivò, era senza parole a cau-
sa dell'ansia.
Lo seguì attraverso strade prive di nome nel sobborgo di Sant-Miquel,
finché arrivarono a un porticina situata proprio accanto alle mura esterne.
Il rumore di uomini che scavavano trincee per impedire al nemico di avvi-
cinarsi abbastanza da attaccare le mura, era assordante. Sajhë dovette gri-
dare per farsi sentire.
«Menina vi sta aspettando dentro» disse, con aria improvvisamente se-
ria.
«Tu non entri?»
«Mi ha detto di accompagnarvi e di tornare allo Château per cercare l'in-
tendente Pelletier.»
«Lo troverai alla Cour d'Honneur» lo informò.
«Va bene» fece, con il sorriso di sempre. «A dopo.»
Alaïs aprì la porta e chiamò Esclarmonde, impaziente di vederla, poi si
fermò. Nell'oscurità, scorse la sagoma di un'altra persona sulla sedia al-
l'angolo della stanza.
«Entra, entra» fece Esclarmonde, dalla voce si capiva che sorrideva.
«Credo che tu conosca già Simeon.»
Alaïs era sbalordita. «Simeon? Di già?» esclamò con gioia, quindi gli
corse incontro e gli strinse le mani. «Quali nuove? Quando siete arrivato a
Carcassona? Dove alloggiate?»
Simeon scoppiò in una risata grassa e forte. «Una cosa alla volta! Che
fretta di sapere! Bertrand mi ha detto che da bambina non la smettevi mai
di fare domande!»
Alaïs riconobbe che era vero, con un sorriso. Si sedette al tavolo scivo-
lando sulla panca e accettò la coppa di vino offertale da Esclarmonde,
mentre ascoltava Simeon che parlava con l'amica. Sembrava che ci fosse
già un legame fra i due, un'intesa.
Lui era un abile oratore, intesseva racconti della sua vita a Chartres e a
Béziers insieme a ricordi delle sue esperienze in Terra Santa. Il tempo pas-
sò presto, mentre parlava delle colline della Giudea in primavera e delle
piane di Sephal coperte di gigli, di iris gialli e viola, di mandorli rosa che
si estendevano a tappeto fino ai confini del mondo. Alaïs era incantata.
Le ombre si allungarono. Nel frattempo l'atmosfera era cambiata senza
che Alaïs se ne accorgesse. Dai movimenti del suo stomaco, capiva di es-
sere nervosa per ciò che stava per accadere. Si domandò se fosse quella la
sensazione che il padre e Guilhem provavano alla vigilia di una battaglia.
La sensazione che il tempo fosse appeso a un filo.
Lanciò un'occhiata a Esclarmonde, aveva le mani intrecciate sul ventre e
un'aria serena. Sembrava calma e padrona di sé.
«Sono certa che mio padre sarà qui a momenti» disse, sentendo di dover
rendere conto per quell'assenza prolungata. «Mi ha dato la sua parola.»
«Lo sappiamo» replicò Simeon, accarezzandole la mano. Aveva la pelle
come la pergamena.
«Non possiamo aspettare ancora per molto» confessò Esclarmonde e
guardò la porta che non accennava ad aprirsi. «I proprietari di questa casa
saranno presto di ritorno.»
Alaïs notò lo scambio di sguardi fra i due. Incapace di tollerare ancora la
tensione, si sporse in avanti.
«Ieri non hai risposto alla mia domanda, Esclarmonde.» Si stupì di quan-
to sembrò risoluta. «Anche tu sei una custode? Il libro che mio padre cerca
è al sicuro nelle tue mani?»
Per un attimo fu come se quelle parole fossero rimaste sospese nell'aria,
non richieste da nessuno. A un certo punto, con grande sorpresa di Alaïs,
Simeon ridacchiò.
«Cosa ti ha detto tuo padre della Noublesso?» chiese, con gli occhi neri
che sfavillavano.
«Che ci sono sempre stati cinque custodi a proteggere i Codici del Labi-
rinto» rispose lei baldanzosa.
«E ti ha spiegato perché erano cinque?»
Alaïs fece di no con la testa.
«Di solito, il Navigatairé, la guida, è aiutato da quattro iniziati. Insieme
rappresentano i cinque punti del corpo umano e il potere del numero cin-
que. Ogni custode viene scelto in base al coraggio, alla determinazione, al-
la lealtà. Cristiani, saraceni, ebrei... è la nostra anima, il nostro valore che
conta, non il sangue, il rango o la razza. Ciò rispecchia anche la natura del
segreto che dobbiamo custodire, che appartiene a tutte le religioni e a nes-
suna.» Sorrise. «La Noublesso de los Seres esiste da più di duemila anni,
per custodire e difendere il segreto, sebbene non abbia sempre avuto que-
sto nome. A volte siamo stati costretti a nasconderci, altre volte abbiamo
potuto agire alla luce del sole.»
Alaïs si rivolse a Esclarmonde. «Mio padre non vuole accettare la tua
vera identità. Non riesce a capacitarsi.»
«È una cosa che va contro ogni sua aspettativa.»
«Bertrand è sempre stato così» ridacchiò Simeon.
«Non si sarebbe mai aspettato che il quinto custode fosse una donna»
disse Alaïs, prendendo le difese del padre.
«Nei tempi passati un fatto del genere avrebbe stupito di meno» ribatté
Simeon. «Egiziani, assiri, romani, babilonesi... tutte queste civiltà antiche
di cui avrai certo sentito parlare, nutrivano maggior rispetto per il sesso
femminile in confronto ai tempi bui in cui viviamo noi.»
Alaïs rifletté. «Credete che Harif abbia ragione a pensare che i libri sa-
ranno più al sicuro fra le montagne?» domandò.
Simeon alzò le mani. «Non spetta a noi ricercare la verità, né in-
terrogarci su quello che sarà o non sarà. Il nostro unico dovere è quello di
custodire i libri e far sì che non vengano danneggiati. Per assicurarci che
siano integri al momento del bisogno.»
«Che è lo stesso motivo per il quale Harif ha affidato il compito di tra-
sportare i libri a tuo padre, piuttosto che a noi» aggiunse Esclarmonde. «La
sua posizione faceva di lui l'envoyé più indicato. Ha a disposizione uomini
e cavalli, può viaggiare più liberamente di noi.»
Alaïs esitò, non voleva tradire il padre. «È restio ad abbandonare il vi-
sconte. È combattuto, non sa scegliere se prestare fede ai vecchi o ai nuovi
impegni.»
«Tutti siamo attanagliati da tali dubbi» replicò Simeon. «Tutti ci trovia-
mo a dover scegliere tra due strade. Bertrand è fortunato perché finora non
si era mai trovato davanti a un bivio.» Prese le mani di Alaïs fra le sue.
«Bertrand non può più temporeggiare, Alaïs. Devi incoraggiarlo a compie-
re il suo dovere. Il fatto che Carcassona non sia ancora caduta non vuol di-
re che non cadrà.»
Alaïs sentì i loro occhi puntati su di sé. Si alzò e andò verso il focolare.
Il cuore le batteva forte mentre un'idea si insinuava nella sua mente.
«È permesso a un'altra persona agire in sua vece?» chiese con voce fer-
ma.
Esclarmonde capì al volo. «Non credo che tuo padre acconsentirebbe. Ti
ama troppo.»
Alaïs si voltò di nuovo verso di loro. «Prima di partire per Montpellier,
mi ha giudicata all'altezza del compito. In teoria, mi ha già dato il permes-
so.»
Simeon annuì. «È vero, ma la situazione cambia continuamente. A mano
a mano che i francesi si avvicinano ai confini dei territori di Trencavel, le
strade diventano sempre più pericolose, come ho constatato io stesso. Tra
non molto, mettersi in viaggio sarà troppo rischioso.»
Alaïs non si diede per vinta. «Ma andrò nella direzione opposta» ribatté,
guardando ora l'uno ora l'altra. «E non avete risposto alla mia domanda. Se
le consuetudini della Noublesso non mi proibiscono di alleggerire di tale
fardello le spalle di mio padre, allora mi offro di svolgere la missione al
suo posto. Sono capacissima di badare a me stessa. Sono un'ottima cavalle-
rizza, abile con la spada e con l'arco. Nessuno sospetterebbe mai che...»
Simeon alzò la mano. «Hai frainteso la nostra esitazione, ragazza. Non
metto di certo in dubbio il tuo coraggio o la tua determinazione.»
«Allora datemi la vostra benedizione.»
Simeon sospirò e guardò Esclarmonde. «Che ne pensi, sorella? Sempre
se Bertrand è d'accordo, ovviamente.»
«Ti supplico, Esclarmonde,» la pregò Alaïs «accogli la mia richiesta.
Conosco mio padre.»
«Non posso promettere nulla» rispose alla fine l'amica, «ma non ti osta-
colerò.» Un sorriso spuntò sul viso di Alaïs. «Ma dovrai rispettare la deci-
sione di tuo padre» continuò Esclarmonde. «Se non ti darà il permesso,
dovrai rassegnarti.»
Non dirà di no. Non glielo consentirò.
«Sarò ubbidiente, è ovvio» le assicurò.

La porta si aprì e Sajhë fece irruzione in casa, seguito da Bertrand Pelle-


tier.
Questi abbracciò Alaïs, salutò Simeon con sollievo e affetto, quindi por-
se omaggi più formali a Esclarmonde. Alaïs e Sajhë andarono a prendere
pane e vino, mentre Simeon raccontò quello che era successo in sua assen-
za.
Con grande sorpresa di Alaïs, il padre ascoltò in silenzio senza fare
commenti. Sajhë all'inizio era tutto orecchi, ma dopo un po' cominciò ad
avere sonno e si raggomitolò in grembo alla nonna. Alaïs non prese parte
alla discussione, sapeva che Simeon ed Esclarmonde avrebbero perorato la
causa meglio di lei, ma di tanto in tanto lanciava qualche sguardo al padre.
Aveva il volto cupo e segnato, sembrava esausto. Si vedeva che non sa-
peva cosa fare.
Alla fine le parole si esaurirono. Un silenzio carico di aspettative piom-
bò sulla minuscola stanza. Tutti aspettavano, nessuno sapeva quale deci-
sione sarebbe stata presa.
Alaïs si schiarì la voce. «Dunque, paire. Qual è la vostra decisione? Mi
darete il permesso di andare?»
Pelletier sospirò. «Non voglio farti correre rischi.»
Alaïs si demoralizzò. «Lo so e il vostro amore mi riempie di gioia. Ma
voglio rendermi utile. Ne sono capace.»
«Ho una proposta che potrebbe accontentare entrambi» annunciò E-
sclarmonde in tono pacato. «Consentire ad Alaïs di portare con sé i Codici,
ma soltanto fino a un certo punto, diciamo fino a Limoux. Ho alcuni amici
lì, che potrebbero darle un rifugio sicuro. Quando il vostro lavoro qui sarà
terminato e il visconte Trencavel potrà fare a meno di voi, potrete raggiun-
gerla e proseguire verso i monti insieme a vostra figlia.»
Pelletier aggrottò le sopracciglia. «Non vedo come ciò possa essere
d'aiuto. La follia di intraprendere un viaggio in circostanze così travagliate
attirerà l'attenzione, cioè proprio quello che dovremmo evitare. Inoltre, non
so con esattezza quanto a lungo i miei obblighi mi tratterranno a Carcasso-
na.»
Lo sguardo di Alaïs si illuminò. «È semplice. Potrei dire a tutti che vado
per adempiere una voto personale fatto in occasione delle mie nozze» dis-
se. «Potrei dire che volevo fare un dono all'abate di Sant-Hilaire. Da lì,
Limoux non è molto distante.»
«Questo improvviso atto di devozione non convincerebbe nessuno» ri-
batté Pelletier, con una nota di sarcasmo «meno di tutti tuo marito.»
Simeon fece di no con il dito. «È un'ottima idea, Bertrand. Nessuno met-
terebbe in discussione un simile pellegrinaggio di questi tempi. D'altronde,
Alaïs è la figlia dell'amministratore di Carcassona. Nessuno si sognerebbe
di dubitare delle sue intenzioni.»
Pelletier cambiò posizione sulla sedia, con aria ostinata e decisa. «Resto
dell'opinione che i Codici sarebbero più al sicuro qui, all'interno della Ciu-
tat. Harif non è al corrente dell'attuale situazione quanto noi. Carcassona
non verrà espugnata.»
«Qualunque città, per quanto forte e inespugnabile, può cadere. Lo sai.
Le istruzioni del Navigatairé sono di consegnargli i libri sui monti.» Fissò
Pelletier con gli occhi neri. «Capisco che non te la senta di abbandonare il
visconte Trencavel in questo momento. Lo hai detto e lo accettiamo. È la
tua coscienza che ti parla, nel bene o nel male.» Fece una pausa. «A ogni
modo, se non andrai tu, qualcun altro dovrà farlo al tuo posto.»
Alaïs vide suo padre sforzarsi di conciliare i suoi sentimenti contrastanti.
Commossa, tese la mano e la posò sulla sua. Lui non disse nulla, ma rispo-
se al gesto con una forte stretta.
«Aquò es vòstre» sussurrò lei con dolcezza. Lasciate che lo faccia per
voi.
Pelletier emise un lungo sospiro. «Hai già messo la tua vita in pericolo
una volta, filha.» Alaïs annuì. «Eppure vuoi assolvere questo compito?»
«Sarebbe un onore per me rendervi tale servigio.»
Simeon mise la mano sulla spalla di Pelletier. «È coraggiosa, tua figlia.
Risoluta. Proprio come te, vecchio mio.»
Alaïs quasi non riusciva a respirare.
«Il cuore mi consiglia di dire no» si pronunciò alla fine Pelletier. «La ra-
gione mi dice il contrario, pertanto...» Esitò, quasi terrorizzato da ciò che
stava per dire. «Se tuo marito e dama Agnès ti lasceranno andare, e se E-
sclarmonde ti accompagnerà, allora hai il mio permesso.»
Alaïs si sporse sul tavolo e baciò il padre sulle labbra.
«Hai fatto la scelta più saggia» affermò raggiante Simeon.
«Quanti uomini potete offrirci, intendente Pelletier?» domandò Esclar-
monde.
«Quattro soldati, sei al massimo.»
«E quanto occorre per i preparativi?»
«Non più di una settimana» replicò Pelletier. «Agire in fretta darebbe
troppo nell'occhio. Devo chiedere il permesso a dama Agnès e tu devi
chiederlo a tuo marito, Alaïs.» La figlia stava per dire che Guilhem non
avrebbe nemmeno notato la sua assenza, ma preferì tacere. «Se vogliamo
che il tuo piano funzioni, filha, dobbiamo rispettare l'etichetta.» Quando
l'indecisione fu sparita del tutto dal volto e dai modi, Pelletier si alzò per
congedarsi. «Alaïs, torna allo Château Comtal e cerca François. Informalo
dei tuoi piani, a grandi linee, e digli che arriverò a breve.»
«Non venite subito?»
«Fra poco.»
«E va bene. Devo portare con me il libro di Esclarmonde?»
Pelletier la guardò con un sardonico sorriso. «Dal momento che Esclar-
monde ti accompagnerà, Alaïs, credo che il libro sarà al sicuro se resterà in
mano sua ancora un po'.»
«Non volevo dire...»
Pelletier diede un colpetto alla borsa che portava sotto al mantello. «Il
libro di Simeon però...» Infilò la mano sotto il mantello ed estrasse l'invo-
lucro di pergamena che Alaïs aveva intravisto quando Simeon lo aveva da-
to al padre a Besièrs. «Portalo allo Château. Cucilo alla tua mantella da
viaggio. Presto andrò a prendere il Libro delle Parole.»
Alaïs prese il libro e lo infilò nella borsa, quindi alzò gli occhi e guardò
il padre. «Vi ringrazio, paire, per aver riposto in me la vostra fiducia.»
Pelletier arrossì. Sajhë si alzò in modo goffo. «Mi assicurerò che dama
Alaïs arrivi a casa sana e salva» annunciò. Tutti scoppiarono a ridere.
«Mi raccomando, gentilòme» disse Pelletier, dandogli una pacca sulla
spalla. «Le nostre speranze sono nelle sue mani.»

«Vedo in lei le tue stesse qualità» disse Simeon mentre si dirigevano


verso i cancelli che conducevano fuori da Sant-Miquel e dentro al sobbor-
go ebraico. «È coraggiosa, ostinata, leale. Non si arrende facilmente. E la
tua primogenita ti somiglia?
«Oriane somiglia più a sua madre» rispose secco Pelletier. «Ha l'aspetto
e il temperamento di Marguerite.»
«Capita spesso. Un figlio è la copia a volte di uno a volte dell'altro geni-
tore.» Esitò. «È sposata all'escrivan del visconte Trencavel?»
Pelletier sospirò. «Non è un matrimonio felice. Congost non è più gio-
vanissimo e non tollera i modi di mia figlia. Ma a parte tutto, ha una certa
posizione all'interno del castello.»
Camminarono ancora un po' in silenzio. «Se somiglia a Marguerite, deve
essere bella.»
«Oriane è così bella e raffinata che non passa inosservata. Molti uomini
vorrebbero corteggiarla. Alcuni non lo nascondono.»
«Le tue figlie devono essere di grande conforto per te.»
Pelletier lanciò uno sguardo a Simeon. «Alaïs, sì.» Esitò. «So che sono
da biasimare, ma trovo la compagnia di Oriane meno... cerco di essere im-
parziale, ma temo che tra le due sia rimasto ben poco affetto.»
«Peccato» mormorò Simeon.
Erano arrivati ai cancelli. Pelletier si arrestò.
«Vorrei persuaderti a restare nella Ciutat. O almeno a Sant-Miquel. Se i
tuoi nemici sono nei paraggi, non sarò in grado di proteggerti fuori dalle
mura...»
Simeon mise la mano sul braccio di Pelletier. «Ti preoccupi troppo, a-
mico mio. Il compito è finito ormai. Ti ho consegnato il libro affidato a
me. Anche gli altri due sono fra queste mura. Hai l'appoggio di Esclar-
monde e di Alaïs. A che servo io a questo punto?» Fissò l'amico con i neri
occhi scintillanti. «Il mio posto adesso è con la mia gente.»
Nel tono di Simeon c'era qualcosa che mise Pelletier in allarme.
«Mi rifiuto di credere che questo sia un addio definitivo» disse perento-
rio. «Prima della fine del mese ci ritroveremo a bere vino insieme, fidati.»
«Non è di te che non mi fido, vecchio mio, ma delle spade dei francesi.»
«Per la prossima primavera, scommetto che sarà tutto finito. I francesi se
ne saranno tornati a casa zoppicando con la coda fra le gambe, il conte di
Tolosa sarà in cerca di una nuova alleanza e io e te ce ne staremo tranquilli
davanti al fuoco a ricordare i bei tempi andati.»
«Pas a pas, se va luènh» disse Simeon, e lo abbracciò. «Porta i miei mi-
gliori saluti ad Harif. Digli che aspetto ancora quella partita a scacchi che
mi ha promesso trent'anni fa!»
Pelletier salutò con la mano Simeon che varcava i cancelli. Senza voltar-
si.
«Intendente Pelletier!»
Pelletier continuò a guardare fra la folla che si dirigeva verso il fiume,
ma non riusciva più a vedere Simeon.
«Messire!» ripeté il messaggero, con la faccia rossa e il respiro af-
fannato,
«Che c'è?»
«Vi vogliono con una certa urgenza alla Porte Narbonnaise, messire.»
CAPITOLO 45

Alaïs aprì la porta della camera e corse dentro.


«Guilhem?»
Sebbene avesse bisogno di solitudine e non ci fosse motivo di aspettarsi
il contrario, fu delusa nel trovare la stanza vuota.
Chiuse la porta a chiave, slegò la borsa dalla vita, l'appoggiò sul tavolo e
tolse il libro dall'involucro protettivo. Era piccolo come un salterio da si-
gnora. Le copertine erano di legno rivestito di pelle, completamente lisce,
solo un tantino consumate agli angoli.
Alaïs sciolse i legacci di cuoio e il libro si aprì nelle sue mani, come una
farfalla che spiega le ali. La prima pagina era vuota, fatta eccezione per un
minuscolo calice in foglia d'oro al centro, che scintillava come un gioiello
sulla pesante pergamena giallastra. Non era più grande del disegno che a-
veva visto sull'anello del padre o sul merel che era stato per così breve
tempo in suo possesso.
Voltò pagina. Trovò quattro righe in inchiostro nero, scritte con grafia
preziosa ed elegante.
Lungo i bordi c'erano disegni e simboli, un motivo ripetuto simile a una
filza sull'orlo di una mantella. Uccelli, animali, personaggi con braccia
lunghe e dita affusolate. Alaïs restò senza fiato.

All'inizio dei secoli


In terra d'Egitto
Il signore di tutti i segreti
Donò il verbo e la scrittura

Sono i volti e i personaggi dei miei sogni. Una alla volta, sfogliò tutte le
pagine. Ciascuna riportava frasi scritte in corsivo nero e aveva il rovescio
vuoto. Riconobbe alcune parole della lingua di Simeon, anche se non ne
capì il senso. Quasi l'intero libro era scritto nella sua lingua. Ogni pagina
aveva la prima lettera miniata in rosso, blu o giallo con bordo dorato, per il
resto era disadorna. Nessuna illustrazione a margine, nessuna lettera evi-
denziata nel corpo del testo, le parole si susseguivano con pochi spazi o
segni di interpunzione fra di loro a indicare dove finiva un concetto e dove
ne iniziava un altro.
Alaïs arrivò alla pergamena che era nascosta a metà del libro. Era più
spessa e più scura delle pagine che la racchiudevano, pelle di capra invece
che di pecora. Oltre a simboli e illustrazioni, c'erano soltanto alcune paro-
le, accompagnate da file di numeri e di misure. Sembrava una specie di
mappa.
Scorse minuscole frecce che puntavano in diverse direzioni. Ce n'era
qualcuna d'oro, ma per lo più erano nere.
Alaïs provò a leggere da sinistra a destra, partendo dall'inizio della pagi-
na, ma non vi trovò alcun senso e capì che non era quello il modo appro-
priato. Pertanto, provò a decifrare la pagina da destra a sinistra partendo
dal basso, quasi fosse la finestra istoriata di una chiesa, ma neanche in quel
modo riuscì a interpretarla. Infine, lesse una riga sì e una no oppure una
parola ogni tre righe, ma neppure stavolta capì.
Guarda oltre le immagini visibili e vedrai i segreti nascosti sotto di esse.
Si sforzò di riflettere. A ogni custode un libro, in base alle sue capacità e
conoscenze. Esclarmonde aveva la capacità di curare e guarire la gente,
perciò a lei Harif aveva affidato il Libro delle Pozioni. Simeon era uno
studioso dell'antico sistema numerico ebraico, per cui aveva ricevuto il Li-
bro dei Numeri.
Questo libro.
Cosa poteva aver spinto Harif a designare suo padre come custode del
Libro delle Parole?
Assorta in tali considerazioni, Alaïs accese il lume e raggiunse il como-
dino, dal quale estrasse carta, penna e calamaio. Pelletier aveva insistito
che le figlie imparassero a leggere e a scrivere, poiché in Terra Santa ave-
va constatato l'importanza di queste abilità. A Oriane interessavano solo le
virtù che si confacevano a una dama del castello: il ballo, il canto, la falco-
neria e il ricamo. Scrivere, come non si stancava mai di ripetere, era roba
da vecchi e da preti. Alaïs invece non si era lasciata sfuggire l'opportunità.
Aveva imparato in fretta e, sebbene avesse poche occasioni di sfruttare tale
capacità, ne faceva tesoro.
Dispose sul tavolo l'occorrente per scrivere. Non capiva il senso della
pergamena, né poteva ambire a riprodurre la squisita fattura, i colori o lo
stile. Ma poteva comunque farne una copia, finché era in tempo.
Ci volle un po', ma quando ebbe finito lasciò la copia della pergamena
sul tavolo ad asciugare. Subito dopo, conscia del fatto che il padre poteva
fare ritorno allo Château Comtal da un momento all'altro con il Libro delle
Parole, Alaïs si preoccupò di nascondere il volume, come il padre le aveva
detto di fare.
La sua prediletta mantella rossa non era adatta. La stoffa era troppo leg-
gera e l'orlo era in rilievo. Scelse piuttosto una pesante mantella marrone.
Era un indumento invernale, più adatto per la caccia in teoria, ma non po-
teva fare altrimenti. Con mano esperta, Alaïs scucì la passementerie sul
davanti fino a formare uno spazio abbastanza grande da infilarci il libro.
Fatto ciò, prese il filo che le aveva regalato Sajhë, esattamente dello stesso
colore della stoffa, e cucì con esse il libro all'interno, in modo che fosse
ben protetto.
Prese la mantella e la appoggiò sopra le spalle. Al momento pendeva da
un lato, ma quando avesse ricevuto l'altro libro dal padre, sarebbe stata
perfettamente bilanciata.
Aveva un ultimo compito da svolgere. Lasciò la mantella sulla sedia e
tornò al tavolo per vedere se l'inchiostro era asciutto. Sapendo che poteva
essere interrotta in ogni momento, ripiegò la pergamena e la infilò in un
sacchetto di lavanda. Cucì l'apertura, così che nessuno la trovasse acciden-
talmente, quindi la ripose sotto il cuscino.
Si guardò intorno soddisfatta della propria opera e cominciò a mettere
via l'occorrente per il cucito.

Bussarono alla porta. Alaïs andò ad aprire di corsa, convinta che fosse il
padre. Invece c'era Guilhem sulla soglia, timoroso di non essere benaccet-
to. Il solito sorriso a mezza bocca e il solito sguardo da bambino smarrito.
«Posso entrare, signora?» chiese con dolcezza.
Il primo istinto sarebbe stato di buttargli le braccia al collo. Ma la pru-
denza la trattenne. Troppe cose dette e poche perdonate.
«Posso?»
«È anche camera tua» rispose lei in tono pacato. «Non ti vieterei mai
l'ingresso.»
«Come sei formale» ribatté il marito chiudendo la porta dietro di sé.
«Vorrei che avessi risposto in questa maniera per piacere e non per dove-
re.»
«Sono...» esitò, disorientata dal profondo desiderio che divampava den-
tro di lei. «Sono contenta di vederti, messire.»
«Hai l'aria stanca» disse, sfiorandole il viso.
Come sarebbe stato facile arrendersi... Abbandonarsi fra le sue braccia..
Chiuse gli occhi, quasi sentisse le sue dita scorrere sulla pelle. Una ca-
rezza, lieve come un sussurro, naturale come un respiro. Immaginò di ap-
poggiarsi al suo petto e di lasciarsi stringere. Averlo davanti le faceva gira-
re la testa, la faceva sentire debole.
Non posso. Non devo.
Alaïs si impose di aprire gli occhi e indietreggiò. «Non farlo» mormorò.
«Ti prego.»
Guilhem le prese la mano e la strinse fra le sue. Alaïs notò quanto fosse
agitato.
«Presto... a meno che non vi sia un intervento divino, saremo costretti ad
affrontarli. Quando sarà il momento, io, Alzeu, Thierry e gli altri partire-
mo. E forse non faremo ritorno.»
«Lo so» replicò lei sottovoce, con la speranza di riportare un po' di colo-
re sul suo volto.
«Da quando siamo rientrati da Besièrs, mi sono comportato male nei
tuoi confronti, Alaïs, senza motivo né giustificazione. Me ne rammarico e
sono venuto a chiederti perdono. Sono troppo geloso e la gelosia mi porta
a dire cose... cose di cui mi pento.»
Alaïs lo fissava ma, non essendo sicura dei propri sentimenti, restò in si-
lenzio.
Guilhem si avvicinò. «Non sei dispiaciuta di vedermi.»
Sorrise. «Sei stato lontano da me per tanto tempo, Guilhem, che non so
dire quello che provo.»
«Vuoi che vada via?»
Alaïs sentì salire le lacrime agli occhi, ma ebbe la forza di non cedere.
Non voleva che la vedesse piangere.
«Credo che sia meglio.» Infilò la mano nella scollatura del vestito, tirò
fuori un fazzoletto e lo mise in mano al marito. «C'è ancora tempo perché
le cose tra noi si sistemino.»
«Il tempo è l'unica cosa che ci manca, Alaïs» le fece notare con delica-
tezza. «Ma, a meno che Dio o i francesi non me lo impediscano, tornerò
domani.»
Alaïs pensò ai libri e alla responsabilità che aveva sulle spalle. Tra non
molto sarebbe partita. Potrei non rivederlo mai più. Le si spezzò il cuore.
Esitò e dopo un attimo lo abbracciò con forza, quasi volesse imprimere il
profilo del marito sul proprio corpo.
Quindi, con la stessa rapidità con cui lo aveva abbracciato, lo lasciò an-
dare.
«Siamo tutti nelle mani di Dio» disse. «Ora va', ti prego, Guilhem.»
«Domani?»
«Vedremo.»
Alaïs restò immobile come una statua, con le mani intrecciate sul grem-
bo per farle smettere di tremare, fino a che la porta non si chiuse e Guil-
hem sparì. Poi, persa nei propri pensieri, tornò piano piano al tavolino,
domandandosi cosa lo avesse spinto ad andare da lei. Amore? Pentimento?
O qualcos'altro?

CAPITOLO 46

Simeon alzò lo sguardo al cielo. Nuvole grigie lottavano fra loro, fa-
cendo a gara per oscurare il sole. Si era già allontanato parecchio dalla Ci-
té, ma voleva tornare al suo alloggio prima che scoppiasse il temporale.
Raggiunto il margine del bosco, che separava le pianure attorno a Car-
cassonne dal fiume, rallentò il passo. Era senza fiato, troppo vecchio per
camminare tanto a lungo. Si appoggiò con forza al bastone e allentò il col-
letto della tunica. C'era quasi ormai. Esther gli aveva di certo preparato
qualcosa da mangiare, forse anche un bicchiere di vino. Quel pensiero lo
ristorò. Magari Bertrand aveva ragione, a primavera sarebbe stato tutto fi-
nito.
Simeon non si accorse che due uomini erano sbucati sul sentiero alle sue
spalle. Non si rese conto del braccio sollevato né della mazza che si abbat-
teva sulla testa, finché non avvertì il colpo e sprofondò nell'oscurità.

Quando Pelletier giunse alla Porte Narbonnaise, si era già formata la


calca.
«Lasciatemi passare» gridò, mentre si apriva un varco fra la folla. C'era
un uomo a terra. Perdeva sangue da una ferita sulla fronte.
Due soldati torreggiavano sopra di lui, le lance puntate alla gola. Era e-
vidente che l'uomo fosse un musicista. Il tamburello era stato bucato e il
flauto spezzato in due e gettato da una parte, come ossi a un banchetto.
«Per Sant-Foy, che succede?» domandò Pelletier. «Quale torto ha com-
messo costui?»
«Non si è fermato quando gli è stato imposto» rispose il soldato più an-
ziano. Il volto era un mosaico di cicatrici e vecchie ferite. «Non ha l'auto-
rizzazione.»
Pelletier si accovacciò accanto al musicista.
«Sono Bertrand Pelletier, intendente del visconte. Per quale motivo vi
recate a Carcassona?»
L'uomo batté le palpebre. «L'intendente Pelletier?» mormorò e afferrò il
braccio di Pelletier.
«Esatto. Parlate, amico mio.»
«Besièrs es presa.» Béziers è stata presa.
Una donna lì accanto soffocò un urlo tappandosi la bocca con la mano.
Inorridito, Pelletier si alzò di nuovo in piedi.
«Voi,» ordinò «andate a chiamare rinforzi e aiutate quest'uomo ad arri-
vare allo Château. Se non riacquisterà la favella a causa dei vostri maltrat-
tamenti, sarà peggio per voi.» Pelletier si voltò verso la folla. «Rammenta-
te queste parole» urlò. «Che nessuno parli di quello che è accaduto. Accer-
teremo presto la veridicità della notizia.»

Giunti allo Château Comtal, Pelletier ordinò che il musicista fosse ac-
compagnato nelle cucine per farsi medicare le ferite, mentre lui andava di
filato a informare il visconte Trencavel. Poco dopo, ristorato da vino soave
e miele, il musicista fu portato nel donjon.
Era pallido, ma padrone di sé. Nel timore che le gambe del poveretto
non reggessero, Pelletier fece portare uno sgabello, in modo che potesse
rendere la sua testimonianza stando seduto.
«Diteci il vostro nome, amic» esordì.
«Pierre de Murviel, messire.»
Il visconte Trencavel sedeva nel mezzo, gli alleati disposti a semicerchio
intorno a lui.
«Benvenguda, Pierre de Murviel» disse. «Che notizie avete per noi?»
Drizzandosi sullo sgabello, con le mani sulle ginocchia e la faccia bianca
come il latte, il musicista si schiarì la voce e cominciò a raccontare. Era
nato a Béziers, anche se aveva trascorso gli ultimi anni nelle corti della
Navarra e dell'Aragona. Era un musicista, che aveva appreso la propria ar-
te da Raimon de Mirval in persona, il più bravo trovatore del Midi. Era per
questo che aveva ricevuto un invito dal signore di Béziers. Vedendolo co-
me un'occasione di riabbracciare la propria famiglia, aveva accettato ed era
tornato a casa.
La voce era talmente bassa che gli ascoltatori dovettero sforzarsi per ca-
pire quello che diceva. «Diteci di Besièrs» lo esortò Trencavel. «Non trala-
sciate alcun dettaglio.»
«L'esercito francese è arrivato presso le mura cittadine il giorno prima
della festa di Santa Maria Maddalena e si è accampato sulla riva sinistra
del fiume Orb. Nei pressi del fiume c'erano pellegrini e mercenari, mendi-
canti e diseredati, una massa di cenciosi scalzi, con indosso soltanto brache
e camicia. Più in là, i colori dei baroni e degli ecclesiastici sventolavano
sui padiglioni, formando un ammasso verde, dorato e rosso. Hanno innal-
zato aste per le bandiere e abbattuto alberi per costruire recinti per gli ani-
mali.»
«Chi è stato inviato a trattare con il nemico?»
«Il vescovo di Besièrs, Renaud de Montpeyroux.»
«Si dice che sia un traditore, messire» disse Pelletier, sporgendosi per
sussurrare all'orecchio del visconte, «e che abbia già preso la croce.»
«Il vescovo Montpeyroux ha fatto ritorno con una lista di presunti eretici
stilata dai legati pontifici. Non so dirvi con esattezza quanti nomi vi fosse-
ro sulla pergamena, messire, ma di sicuro erano centinaia. Riportava i no-
mi di alcuni fra i più influenti, più ricchi e più nobili cittadini di Besièrs,
così pure i seguaci della nuova chiesa e quanti erano accusati di essere
bons chrétiens. Se i consoli avessero consegnato gli eretici, allora Besièrs
sarebbe stata risparmiata. Altrimenti...» Lasciò in sospeso la frase.
«Qual è stata la riposta dei consoli?» chiese Pelletier. Sarebbe stato un
primo indizio per capire se la coalizione avesse tenuto testa ai francesi op-
pure no.
«Hanno risposto che avrebbero preferito annegate fra le acque salmastre
del mare piuttosto che arrendersi o tradire i propri concittadini.» Trencavel
emise un flebile sospiro.
«Il vescovo si è allontanato dalla città insieme a un gruppetto di preti
cattolici. Il comandante della guarnigione, Bernard de Servian, ha comin-
ciato a organizzare le opere di difesa.»
Si interruppe e deglutì con fatica. Persino Congost, chino sulla pergame-
na, si fermò e alzò lo sguardo.
«La mattina del ventidue luglio il sole è sorto in tranquillità. Faceva cal-
do, malgrado fosse l'alba. Un manipolo di crociati, gente che seguiva l'e-
sercito, nemmeno soldati, è andato al fiume e si è appostato proprio al di
sotto delle fortificazioni a sud della città. Sono stati avvistati dalle mura.
C'è stato uno scambio di insulti. Uno dei routiers si è spinto fino al ponte,
pavoneggiandosi e imprecando. Ha infiammato i nostri giovani uomini
tanto da farli armare di alabarde e clave e persino di un tamburo e di uno
stendardo improvvisati. Decisi a dare una lezione ai francesi, essi hanno
aperto il cancello e si sono precipitati giù per il pendio, prima che qualcu-
no potesse realizzare ciò che stava accadendo, e sono andati all'assalto del
francese urlando con tutto il fiato che avevano. Lo scontro è durato pochi
istanti. Hanno gettato il corpo del routier giù dal ponte, dentro il fiume.»
Pelletier lanciò un'occhiata a Trencavel. Aveva il volto pallido.
«Da sopra le mura, i cittadini hanno urlato ai ragazzi di tornare indietro,
ma loro erano troppo infervorati dalla propria baldanza per ascoltarli. Gli
schiamazzi hanno attirato l'attenzione del capitano dei mercenari, il Roi,
come dicono i francesi. Vedendo il cancello aperto, ha dato subito l'ordine
di attaccare. Finalmente, i ragazzi si sono resi conto del pericolo, ma ormai
era troppo tardi. I routiers li hanno massacrati all'istante. I pochi scampati
hanno tentato di richiudere il cancello, ma i routiers erano troppo veloci e
ben attrezzati. Hanno forzato il cancello e alla fine lo hanno aperto.
Una volta entrati i crociati, ha avuto inizio il massacro. C'erano corpi
dappertutto, morti e mutilati; eravamo nel sangue fino alle ginocchia. I
bambini sono stati strappati dalle braccia delle madri trafitti dalla punta di
lance e spade. Le teste sono state recise dal corpo e issate sulle mura in pa-
sto ai corvi: sembrava che una fila di gargouilles insanguinate, fatte di
carne e sangue anziché di pietra, assistessero a bocca aperta alla nostra
sconfitta. Hanno massacrato chiunque capitasse loro sotto mano, senza di-
stinzione di età o di sesso.»
Il visconte Trencavel non poteva più tacere. «Ma perché i legati o i ba-
roni francesi non hanno fermato una tale carneficina? Non ne erano al cor-
rente?»
De Murviel alzò il capo. «Ne erano a conoscenza, messire.»
«Ma massacrare persone innocenti va contro qualsiasi onore e conven-
zione di guerra» esclamò Pierre-Roger de Cabaret. «Non posso credere che
l'abate di Cîteaux, nonostante il fanatismo e l'avversione per l'eresia, abbia
approvato il massacro di donne e bambini cristiani, macchiandosi di un co-
sì grave peccato.»
«Pare che quando hanno chiesto all'abate come riconoscere i buoni cat-
tolici dagli eretici egli abbia risposto: "Tuez-les tous. Dieu reconnâitra les
siens"» riferì con voce cupa de Murviel. «"Uccideteli tutti. Dio riconoscerà
i suoi." O almeno così si vocifera in giro.»
Trencavel e de Cabaret si scambiarono uno sguardo.
«Andate avanti» disse arcigno Pelletier. «Finite il racconto.»
«Le grandi campane di Besièrs suonavano l'allarme. Donne e bambini si
sono rifugiati nella chiesa di Sant-Jude e quella di Santa Maria Maddalena
nella città alta, migliaia di persone stipate come animali in un recinto. I
preti cattolici hanno indossato i paramenti sacri e hanno iniziato a cantare
il Requiem, ma i crociati hanno sfondato la porta e li hanno trucidati tutti.»
Gli tremò la voce. «Nel giro di pochissime ore, l'intera città si è trasfor-
mata in un ossario. Quindi sono cominciati i saccheggi. Le nostre splendi-
de case sono state spogliate dall'avidità e dalla barbarie. Solo adesso, i ba-
roni francesi, per cupidigia e non certo per coscienza, cercano di arginare i
routiers. Questi, uno alla volta si sono inferociti per essere stati privati del
bottino che si erano meritati, così hanno dato la città alle fiamme in modo
che nessuno potesse beneficiarne. Le abitazioni di legno dei quartieri pove-
ri si sono incendiate come polveriere. Le grosse travi del tetto della catte-
drale hanno preso fuoco e sono crollate, intrappolando tutti quelli che vi
avevano trovato riparo. Le fiamme erano così violente che la cattedrale si è
spezzata nel mezzo.»
«Ditemi una cosa, amic. In quanti sono sopravvissuti?» chiese il viscon-
te.
Il musicista chinò il capo. «Nessuno, messire. Tranne quei pochi che
come me sono riusciti a fuggire dalla città. Per il resto, sono morti tutti.»
«Ventimila persone massacrate in una sola mattinata» Raymond-Roger
mormorò inorridito. «Com'è possibile?»
Nessuno rispose. Non c'erano parole adatte a spiegare un simile orrore.
Trencavel alzò il capo e guardò il musicista.
«Avete visto cose che nessun uomo dovrebbe vedere, Pierre de Murviel.
Avete dimostrato valore e coraggio nel portarci questo messaggio. Carcas-
sona è in debito con voi e farò in modo che veniate ricompensato in modo
equo.» Esitò. «Ma, prima che ve ne andiate, vorrei porvi un'ultima doman-
da. Anche mio zio, il conte di Tolosa, ha preso parte al sacco della città?»
«Credo di no, messire. Corre voce che sia rimasto nell'accampamento
francese.»
Trencavel lanciò uno sguardo a Pelletier. «È già qualcosa.»
«E mentre vi recavate a Carcassona, avete incontrato qualcuno lungo la
strada?» domandò Pelletier. «La notizia del massacro si è diffusa?»
«Non lo so, messire. Mi sono tenuto alla larga dalle strade principali, ho
seguito i vecchi sentieri fra le gole di Lagrasse. Ma non ho visto soldati.»
Trencavel guardò i consoli, nel caso avessero avuto domande da porre,
ma nessuno parlò.
«Benissimo» disse, rivolgendosi di nuovo al musicista. «Potete andare
ora. Ancora una volta, vi ringraziamo.»
Non appena l'uomo fu accompagnato fuori, Trencavel si voltò verso Pel-
letier.
«Perché non siamo stati avvisati? Non riesco a credere che non ci sia ar-
rivata nemmeno una voce. Sono passati quattro giorni dalla strage.»
«Se quello che dice de Murviel è vero, non c'erano molte persone che
potevano portarci la notizia» replicò de Cabaret in tono aspro.
«Non importa» ribatté Trencavel, mentre con la mano faceva l'atto di ac-
cantonare quel commento. «Inviate subito un gruppo di cavalieri, tutti
quelli che riuscite a raggruppare. Dobbiamo scoprire se l'esercito è ancora
a Besièrs o se è già in marcia verso est. La vittoria lo farà avanzare più ve-
locemente.»
Tutti si inchinarono quando il visconte si alzò.
«Ordinate ai consoli di diffondere la triste notizia per tutta la Ciutat. Va-
do nella capèla di Sant-Maria. Dite a mia moglie di raggiungermi lì.»

Pelletier sentiva le gambe come avvolte da un'armatura, mentre saliva le


scale che conducevano all'ala abitativa del castello. Gli sembrava di avere
qualcosa che lo stringeva al petto, come una fascia o un laccio, che gli im-
pediva di respirare.
Alaïs lo aspettava sulla porta.
«Avete portato il libro?» chiese con impazienza. L'espressione sul volto
del padre la fece arrestare di colpo. «Cosa c'è? E accaduto qualcosa?»
«Non sono stato a Sant-Nasari, filha. Ci sono novità.» Pelletier si lasciò
cadere pesantemente sulla sedia.
«Che genere di novità?» sentì la paura nella voce della figlia.
«Besièrs è stata assediata» rispose. «Tre o quattro giorni fa. Nessun su-
perstite.»
Alaïs si appoggiò alla panca. «Tutti morti?» chiese atterrita. «Anche le
donne e i bambini?»
«Ormai siamo sull'orlo della rovina» rispose. «Se sono capaci di perpe-
trare tali atrocità su persone innocenti...»
Alaïs si sedette accanto a lui. «Cosa succederà adesso?» domandò.
Per la prima volta, Pelletier avvertì terrore nella voce di Alaïs.
«Possiamo solo aspettare e vedere» replicò. La vide trattenere il respiro.
«Questo però non cambia in alcun modo i nostri accordi» disse guardin-
ga. «Mi permetterete di portare al sicuro i Codici?»
«La situazione è cambiata.»
Un'aria di intensa determinazione si impadronì di lei. «Con il dovuto ri-
spetto, paire, a maggior ragione dobbiamo andare. Se non lo facciamo, i
libri resteranno intrappolati nella Ciutat. Sono certa che non è questo che
volete.» Fece una pausa. Lui non rispose. «Dopo tutti i sacrifici che voi,
Simeon ed Esclarmonde avete fatto, dopo tutti gli anni passati a nascon-
dervi, per tenere i libri al sicuro, non possiamo fallire proprio ora.»
«Quello che è accaduto a Besièrs non accadrà qui» ribatté lui con fer-
mezza. «Carcassona è in grado di sostenere l'assedio. Resisterà. I libri sa-
ranno più al sicuro qui.»
Alaïs si allungò sul tavolo e gli afferrò la mano.
«Vi supplico, non rimangiatevi la parola.»
«Arèst, Alaïs» ribatté secco. «Non sappiamo dove si trovi l'esercito. La
tragedia che si è abbattuta su Besièrs è già notizia vecchia. Sono passati
diversi giorni da quando questi eventi hanno avuto luogo, anche se noi ne
siamo venuti a conoscenza soltanto oggi. Un'avanguardia potrebbe essere
già a due passi dalla Ciutat. Se ti lasciassi andare, firmerei la tua condanna
a morte.»
«Ma...»
«Te lo proibisco. È troppo pericoloso.»
«Sono pronta a correre il rischio.»
«No, Alaïs» gridò, la paura alimentava la sua collera. «Non sacrificherò
te. Il compito è mio, non tuo.»
«Allora venite con me» urlò. «Stanotte. Prendiamo i libri e partiamo, su-
bito, finché ne abbiamo la possibilità.»
«È troppo pericoloso» ripeté con ostinazione.
«Credete che non lo sappia? Sì, è possibile che il nostro viaggio termini
per colpa di una spada francese. Ma è di sicuro meglio morire per aver ten-
tato, che sottrarsi al pericolo per il timore di ciò che potrebbe accadere.»
Con sua sorpresa, e frustrazione, il padre sorrise. «La tua fermezza ti fa
onore, filha» ribatté, anche se sembrava sconfitto. «Ma i libri resteranno
nella Ciutat.»
Alaïs lo fissò stupefatta, quindi si voltò e corse fuori dalla stanza.

CAPITOLO 47

BESIÈRS

Per i due giorni successivi alla vittoria di Béziers, i crociati restarono nei
prati della ricca campagna circostante la città. Aver ottenuto un tale tesoro
con così poche perdite era un miracolo. Dio non poteva dare segno più
chiaro di quanto fosse giusta la loro causa.
Sopra di loro il fumo si levava dalle macerie di quella che una volta era
stata una grande città. Frammenti di cenere grigia salivano a spirale nel
cielo estivo di un azzurro straordinario e venivano sparsi dai venti sulla
terra conquistata. Di tanto in tanto, si udiva l'inconfondibile rumore di mat-
toni frantumati e di legname secco che si sgretolava.
La mattina seguente, l'esercito tolse le tende e marciò verso sud, attra-
verso l'aperta campagna, diretto alla città romana di Narbonne. A capo del-
la schiera di uomini c'era l'abate di Cîteaux, circondato dai legati pontifici,
il suo potere temporale rafforzato dalla devastante sconfitta della città che
aveva osato ospitare l'eresia. Ogni croce, bianca o dorata che fosse, sem-
brava scintillare come la più pregiata delle stoffe sulla schiena dei guerrieri
di Dio. Ogni crocifisso sembrava catturare i raggi del sole che splendeva.
L'esercito conquistatore avanzava a zigzag come un serpente, per il pae-
saggio fatto di saline, stagni ed estesi tratti di gialla sterpaglia agitata dai
forti venti che soffiavano dal golf du Lion. Rampicanti crescevano selvag-
gi ai lati della strada, così come olivi e mandorli.
I soldati francesi, inesperti e non abituati agli eccessi climatici del meri-
dione, non avevano mai visto simili terreni. Si fecero il segno della croce,
considerandoli una conferma del fatto che erano davvero entrati in una ter-
ra abbandonata da Dio.
Una delegazione guidata dall'arcivescovo di Narbonne e dal visconte
della città si recò a incontrare i crociati a Capestang il 25 luglio.
Narbonne era un fiorente porto commerciale sulla costa del Me-
diterraneo, anche se il cuore della città si trovava a una certa distanza, nel-
l'entroterra. Con le notizie degli orrori inflitti a Béziers ancora fresche nel-
la mente, e con la speranza di evitare che Narbonne subisse la stessa sorte,
le autorità sia civili che religiose si erano preparate a sacrificare l'indipen-
denza e l'onore. Davanti a testimoni, il vescovo e il visconte di Narbonne
si inginocchiarono ai piedi dell'abate e giurarono totale e assoluta sotto-
missione alla chiesa. Acconsentirono a consegnare tutti gli eretici accertati
dai legati, a confiscare le proprietà di catari ed ebrei, persino a pagare una
tassa sui propri possedimenti per sussidiare la crociata.
In poche ore, le condizioni furono sancite. Narbonne sarebbe stata ri-
sparmiata. Mai un fondo bellico era stato ottenuto con più facilità.
Se l'abate e i legati si sorpresero per la rapidità con cui gli abitanti della
città avevano rinunciato al proprio diritto di nascita, non lo diedero a vede-
re. Se gli uomini che marciavano sotto le vermiglie bandiere del conte di
Toulouse furono imbarazzati dalla mancanza di coraggio mostrata dai pro-
pri compatrioti, non lo espressero a voce.
Fu ordinato un cambio di programma. Avrebbero passato la notte fuori
Narbonne e al mattino si sarebbero diretti a Olonzac. Da lì, sarebbero stati
solo pochi giorni di marcia fino a Carcassonne.

Il giorno seguente, la cittadella fortificata di Azille si arrese e spalancò le


porte all'invasore. Numerose famiglie denunciate come eretiche furono
bruciate su un rogo costruito in fretta e furia al centro della piazza del mer-
cato. Il fumo nero serpeggiava per le strade strette e ripide, scivolando sul-
le spesse mura fino alle pianure circostanti.
Uno alla volta, gli châteaux e i villaggi si arresero senza nemmeno bran-
dire la spada. La confinante città di La Redorte seguì l'esempio di Azille,
come molti dei paesini e dei minuscoli gruppetti di abitazioni che si trova-
vano nel mezzo. Altre places fortes furono trovate deserte.
L'esercito arraffò quello che voleva da granai stracolmi e dispense di
frutta ben fornite. La scarsa resistenza che incontrò fu repressa con violen-
te e fulminee rappresaglie. La crudele reputazione dell'esercito si diffuse in
modo incessante, come un'ombra malvagia che si estendeva nera davanti a
esso. A poco a poco l'antico legame fra la popolazione della Linguadoca
orientale e la dinastia Trencavel si spezzò.

Alla vigilia della festa di St Nazaire, una settimana dopo la vittoria di


Béziers, l'avanguardia raggiunse Trèbes, due giorni prima del grosso del-
l'esercito.
Nel corso del pomeriggio, l'aria divenne sempre più umida. La pallida
luce pomeridiana lasciò il posto a una tetra luce grigia. Qualche tuono
rombò nel cielo, squarciato subito dopo dai lampi. Mentre i crociati varca-
vano le porte della città, lasciate indifese e aperte, cominciarono a cadere
le prime gocce di pioggia.
Le strade erano stranamente deserte. Erano tutti spariti, dileguatisi come
fantasmi o spiriti. Il cielo era un'infinita distesa di nero e viola, mentre nu-
bi livide correvano all'orizzonte. Quando il temporale scoppiò, infuriando
sulle pianure che circondavano la città, il fragore dei tuoni rimbombò sulle
loro teste quasi che il cielo si stesse disintegrando.
I cavalli scalpitavano e slittavano sull'acciottolato. Ogni viale, ogni vico-
lo si era trasformato in fiume. La pioggia batteva con violenza su scudi ed
elmi. Ratti correvano per la scalinata della chiesa, in cerca di un riparo dai
torrenti vorticosi. La torre fu colpita da un fulmine, ma non si incendiò,
I soldati del nord si inginocchiarono, si fecero il segno della croce e pre-
garono Dio di risparmiarli. Le pianure intorno a Chartres, i campi della
Borgogna o la campagna boschiva della Champagne non offrivano un cli-
ma così rigido.
Veloce come aveva colpito, quale una bestia selvaggia, il temporale si
placò. L'aria divenne gradevolmente fresca. I crociati udirono le campane
del vicino monastero iniziare a suonare in segno di gratitudine per lo
scampato pericolo. Pensando che il peggio fosse passato, uscirono dal ripa-
ro offerto dagli alberi e si misero al lavoro. Gli scudieri andarono in cerca
di pascoli per i cavalli. I servi cominciarono a disfare i bagagli dei padroni
e andarono a cercare legna asciutta per accendere il fuoco.
A poco a poco, l'accampamento prese forma.
Sopraggiunse il tramonto. Il cielo era un mosaico di rosa e di viola.
Quando le ultime strisce di nubi furono spazzate via, i soldati del nord in-
travidero per la prima volta le torri e le torrette di Carcassonne stagliarsi
d'improvviso all'orizzonte.
La Cité sembrava sospesa nell'aria, una fortezza di pietra nel cielo, che
incombeva maestosa sul mondo degli umani. Niente di ciò che avevano
sentito aveva preparato i crociati a una tale vista della città che dovevano
conquistare. Le parole non rendevano onore a un simile splendore.
Era magnifica, imponente, Inespugnabile.

CAPITOLO 48

Quando riprese i sensi, Simeon non si trovava più nel bosco, bensì in
una sorta di stalla per bovini. Ricordava di aver intrapreso un viaggio, un
lungo viaggio. Le costole gli dolevano per via del movimento del cavallo.
L'odore era terribile, un misto di sudore, capra, paglia umida e qualcosa
che non riusciva a identificare. Nauseante, come di fiori che marcivano.
C'erano diversi finimenti appesi al muro e un forcone appoggiato nell'an-
golo più vicino alla porta, che era alta quanto la spalla di un uomo medio.
Sulla parete di fronte alla porta c'erano cinque o sei anelli metallici per le-
gare gli animali.
Simeon guardò in basso. Il cappuccio che gli avevano infilato sulla testa
era per terra accanto a lui. Aveva mani e piedi legati.
Mentre tossiva e cercava di sputare i fili di ruvida stoffa che gli erano
rimasti in bocca, si mise a sedere. Ammaccato e intorpidito, si trascinò
piano piano all'indietro, finché non raggiunse la porta. Ci volle un po' di
tempo, ma il sollievo di avere qualcosa di duro dietro le spalle e la schiena
fu immenso. Con pazienza, riuscì ad alzarsi, la testa toccava quasi il soffit-
to. Picchiò alla porta. Il legno scricchiolò e si piegò, ma la porta era sbarra-
ta dall'esterno e non si aprì.
Simeon non aveva idea di dove si trovasse, se ancora nei pressi di Car-
cassonne oppure molto più lontano. Aveva un vago ricordo di essere stato
trasportato in groppa a un cavallo per il bosco e in seguito nella pianura.
Dal poco che sapeva del territorio, ipotizzò di trovarsi da qualche parte nei
dintorni di Trèbes.
Dalla fessura sotto la porta filtrava un fascio di luce bluastra, non era an-
cora il nero pece della notte. Premette l'orecchio contro il suolo e sentì i
rapitori mormorare nelle vicinanze.
Aspettavano l'arrivo di una persona. Il pensiero lo fece rabbrividire, poi-
ché quello provava, sebbene non ce ne fosse bisogno, che non si trattava di
un agguato casuale.
Simeon strisciò di nuovo in fondo alla stalla. Mentre il tempo passava,
sonnecchiò accasciato su un fianco, svegliandosi di soprassalto ogni tanto
per poi scivolare di nuovo nel sonno.
Fu svegliato da qualcuno che gridava. In pochi secondi aveva già i nervi
a fior di pelle. Sentì il rumore degli uomini che si alzavano in modo sgra-
ziato, poi un tonfo quando la robusta sbarra di legno che bloccava la porta
fu rimossa.
Sulla soglia apparvero tre individui, o meglio tre sagome indistinte con-
tro l'accecante luce del sole. Simeon strizzò gli occhi, non riusciva a vede-
re granché.
«Où est-il? Dov'è?»
Qualcuno parlò con raffinato accento del nord, in modo freddo e peren-
torio. Ci fu un attimo di esitazione. Alzò la torcia e illuminò Simeon, che
aveva gli occhi socchiusi nell'oscurità. «Portatelo qui.»
Simeon non ebbe nemmeno il tempo di riconoscere il capo dei rapitori,
che fu afferrato per le braccia e costretto a inginocchiarsi davanti al france-
se.
Simeon alzò lo sguardo lentamente. L'uomo aveva il volto scarno e cru-
dele, occhi impenetrabili del colore della selce. Indossava giubba e calzoni
di buona qualità, dal tipico taglio settentrionale, che però non svelavano il
ceto o il rango.
«Dove si trova?» domandò.
Simeon alzò il capo. «Non capisco» rispose in yiddish.
Il calcio lo prese alla sprovvista. Sentì una costola incrinarsi e cadde al-
l'indietro, con le gambe ripiegate sotto di sé. Mani raspose lo afferrarono
sotto le ascelle e lo tirarono su.
«So chi sei, ebreo» disse il francese. «Non ti conviene fare questo gioco
con me. Te lo chiedo un'altra volta. Dove si trova il libro?»
Simeon alzò di nuovo il capo e non disse nulla.
Stavolta, l'uomo mirò alla faccia. Simeon sentì il dolore scoppiargli nella
testa, quando la bocca si spaccò e i denti si ruppero nella mascella. Sangue
e saliva gli bruciavano la lingua e la gola.
«Ti ho dato la caccia come a un animale, ebreo» continuò, «da Chartres
a Béziers e ora fin qui. Ti ho stanato come una preda. Mi hai fatto perdere
un mucchio di tempo. La mia pazienza si è quasi esaurita.» Fece un passo
avanti e Simeon poté vedere l'odio negli occhi grigi e imperscrutabili. «Per
l'ennesima volta: dov'è il libro? Lo hai dato a Pelletier? C'est ça?»
Due pensieri balenarono allo stesso tempo nella mente di Simeon. Pri-
mo, che non aveva scampo. Secondo, che doveva proteggere gli amici.
Aveva ancora il potere di farlo. Aveva gli occhi tumefatti e chiazze di san-
gue intorno alle orbite.
«Ho il diritto di sapere il nome di colui che mi accusa» disse con la ma-
scella rotta. «Così potrò pregare per voi.»
L'uomo strinse gli occhi. «Mi dirai dove tieni nascosto il libro, stanne
certo.»
Fece un cenno col capo.
Gli altri due tirarono su Simeon. Gli strapparono i vestiti di dosso e lo
gettarono a faccia in giù sopra un carretto, uno gli reggeva le mani e l'altro
le gambe per tenere la schiena scoperta. Simeon udì lo schiocco del cuoio
nell'aria prima che la fibbia toccasse la pelle nuda. Si dimenò in agonia.
«Dov'è?» Simeon chiuse gli occhi mentre la cintura sferzava di nuovo l'a-
ria. «È già a Carcassonne? O ce l'hai ancora tu, ebreo?» gridava seguendo
il ritmo delle frustate. «Me lo dirai. Se non tu, lo faranno loro.»
Il sangue sgorgava dalle ferite sulla schiena. Simeon cominciò a pregare
secondo ì costumi dei propri antenati, antiche parole sacre pronunciate nel-
l'oscurità che lo distraevano dal dolore.
«Où-est-le-livre?» insistette l'uomo, una frustata per ogni parola.
Fu l'ultima cosa che Simeon udì prima di essere avvolto dalle tenebre.

CAPITOLO 49

L'avanguardia crociata arrivò nei pressi di Carcassonne il giorno della


festa di Sant-Nasari, percorrendo la strada che arrivava da Trèbes. Le sen-
tinelle alla Tour Pinte accesero i fuochi. Le campane cominciarono a suo-
nare l'allarme.
La sera del primo di agosto, l'accampamento francese sulla riva opposta
del fiume era cresciuto talmente tanto che sembrava una città rivale, fatta
di tende e padiglioni, stendardi e croci dorate che scintillavano al sole. Ba-
roni del nord, mercenari guasconi, soldati provenienti da Chartres, dalla
Borgogna e da Parigi, zappatori, tiratori di arco lungo, preti e servitori da
campo.
Ai vespri, il visconte Trencavel risalì i bastioni accompagnato da Pierre-
Roger de Cabaret, Bertrand Pelletier e altri due o tre uomini. In lontananza
si vedeva il fumo alzarsi in volute nell'aria. Il fiume era un nastro d'argen-
to.
«Sono davvero numerosi.»
«Non più di quanto ci aspettassimo, messire» replicò Pelletier.
«Tra quanto credi che arriverà il grosso dell'esercito?»
«È difficile stabilirlo» rispose. «Una schiera di combattenti così vasta
avanza con lentezza. E il caldo li farà rallentare ancora di più.»
«Rallentare, certo» ribatté Trencavel. «Ma non li fermerà.»
«Siamo preparati all'attacco, messire. La Ciutat è ben equipaggiata. Le
hourds sono pronte per difendere le mura dagli zappatori; tutte le zone
malridotte o i punti deboli sono stati riparati o bloccati; le torri sono zeppe
di uomini.» Pelletier indicò con la mano. «Le gomene con cui i mulini era-
no attraccati alla riva del fiume sono state tagliate e i raccolti bruciati. I
francesi troveranno ben pochi mezzi di sostentamento.»
Con una scintilla negli occhi, Trencavel si rivolse a de Cabaret.
«Selliamo i cavalli e andiamo a fare una sortie. Prima che il sole tramon-
ti e scenda la sera, prendiamo quattrocento dei nostri uomini migliori,
quelli più abili con la lancia e la spada, e cacciamo i francesi dalle nostre
colline. Non si aspettano un attacco adesso. Che ne dite?»
Pelletier comprendeva quel desiderio di attaccare per primo. Ma sapeva
anche che sarebbe stato un atto di estrema follia.
«Messire, sulle pianure vi sono battaglioni, routiers, piccoli contingenti
del reparto avanzato.»
Pierre-Roger de Cabaret fece sentire la sua voce. «Non mandate i vostri
uomini al macello, Raymond.»
«Ma se riuscissimo a scendere in campo per primi...»
«Ci siamo preparati per respingere l'assedio, messire, non per combatte-
re in campo aperto. La guarnigione è forte. Abbiamo i più coraggiosi ed
esperti chevaliers, i quali non aspettano altro che mettere alla prova la pro-
pria abilità.»
«Ma...» sospirò Trencavel.
«Li sacrifichereste per nulla» ribatté con fermezza l'alleato.
«I vostri sudditi hanno fiducia in voi, vi amano» intervenne Pelletier.
«Darebbero la propria vita per voi, qualora ce ne fosse bisogno. Ma è me-
glio aspettare. Lasciamo che siano loro ad attaccare per primi.»
«Temo che sia per colpa del mio orgoglio se siamo arrivati a questo pun-
to» ammise sottovoce. «Non so perché, ma non mi aspettavo che si giun-
gesse a tanto, e così presto.» Sorrise. «Quando c'era mia madre lo Château
era sempre pieno di musica e danze, ricordi Bertrand? I più grandi trovato-
ri e giullari venivano a esibirsi per lei. Aiméric de Pegulham, Arnaut de
Carcassès, persino Guilhem Fabre e Bernat Alanham di Narbonne. Erava-
mo sempre a banchettare, a festeggiare.»
«Ho sentito dire che fosse la corte più raffinata del Pays d'Oc.» Il vassal-
lo posò la mano sulla spalla del signore. «E lo sarà ancora.»
Le campane smisero di suonare. Tutti gli occhi erano puntati su Trenca-
vel.
Quando parlò, Pelletier fu orgoglioso di sentire che ogni traccia di insi-
curezza era svanita dalla voce del suo signore. Non era più un ragazzo
immerso nei ricordi della propria infanzia, ma un condottiero alla vigilia di
una battaglia.
«Ordina che le posterie vengano chiuse e i cancelli sbarrati, Bertrand, e
convoca il comandante della guarnigione nel donjon. Daremo ai francesi
ciò che si meritano.»
«Forse sarebbe bene anche mandare dei rinforzi a Sant-Vicens, messire»
suggerì de Cabaret. «Quando attaccherà, l'esercito comincerà da lì. E non
possiamo rinunciare all'accesso al fiume.»
Trencavel annuì.

Quando tutti se ne furono andati, Pelletier si trattenne ancora un istante a


guardare il paesaggio, quasi volesse imprimere quella immagine nella
memoria.
Le mura di Sant-Vicens, a nord, erano basse e difese da uno scarso nu-
mero di torri. Se gli invasori si fossero infiltrati nei sobborghi, sarebbero
arrivati sotto le mura della Cité riparati dalle case. Il sobborgo meridionale
di Sant-Miquel avrebbe resistito più a lungo.
Carcassonne era davvero pronta per l'assedio. C'era abbondanza di cibo:
pane, formaggio, legumi. Avevano anche numerose capre per il latte. Ma
c'era troppa gente dentro le mura e Pelletier era preoccupato per le scorte
d'acqua. Su suo ordine, era stata collocata una guardia davanti a ogni poz-
zo, per il razionamento.
Quando lasciò la Tour Pinte e uscì nella corte, Pelletier si ritrovò di nuo-
vo a pensare a Simeon. Aveva mandato due volte François al quartier e-
braico per avere sue notizie, ma entrambe le volte il servitore era tornato a
mani vuote e l'ansia di Pelletier cresceva di giorno in giorno.
Si guardò intorno nella corte e decise che poteva assentarsi per qualche
ora, quindi si incamminò verso le stalle.

Pelletier seguì il percorso meno tortuoso attraverso le pianure e i boschi,


conscio del fatto che l'esercito era accampato nei paraggi.
Sebbene il quartiere ebraico fosse affollato e le strade fossero gremite, vi
regnava un insolito e profondo silenzio. Sui volti dei cittadini, sia vecchi
sia giovani, c'era ansia e paura. Sapevano che presto lo scontro avrebbe
avuto inizio. Mentre Pelletier percorreva a cavallo gli stretti vicoli, donne e
bambini lo fissavano preoccupati, in attesa che un barlume di speranza
comparisse sul suo volto. Non aveva nulla da offrire.
Nessuno aveva notizie di Simeon, Trovò l'alloggio senza troppe difficol-
tà, ma la porta era sbarrata. Smontò dal cavallo e bussò alla casa di fronte.
«Cerco un uomo di nome Simeon» disse, quando una donna andò alla
porta intimorita. «Sapete di chi parlo?»
La donna annuì. «È venuto con altre persone da Besièrs.»
«Ricordate quando lo avete visto l'ultima volta?»
«Pochi giorni fa, prima che arrivasse la notizia di Besièrs, è andato a
Carcassona. È venuto a cercarlo un uomo.»
Pelletier aggrottò la fronte. «Che tipo era?»
«Un servo d'alto lignaggio. Capelli rossicci» rispose, e arricciò il naso.
«Mi è sembrato che Simeon lo conoscesse.»
Pelletier era sempre più sconcertato. Dalla descrizione sembrava Franç-
ois, ma come poteva essere? Aveva detto di non aver trovato Simeon.
«È stata quella l'ultima volta che l'ho visto.»
«State dicendo che Simeon non è tornato da Carcassona?»
«Se ha un po' di sale in zucca, è rimasto lì. Sarebbe più al sicuro che in
questo posto.»
«È possibile che Simeon sia tornato senza che voi ve ne accorgeste?»
chiese Pelletier in preda allo sconforto. «Forse dormivate. O forse non ve
ne siete accorta.»
«Ascoltate, messire» replicò la donna, indicando la casa dirimpetto alla
sua, «Potete vederlo con i vostri occhi. Vuèg.» Vuota.

CAPITOLO 50

Oriane percorse il corridoio in punta di piedi finché non raggiunse la


camera della sorella.
«Alaïs!» Era certa che questa fosse di nuovo a colloquio con il padre, ma
fu cauta. «Sòrre?»
Dato che non rispondeva nessuno, Oriane aprì la porta ed entrò. Con l'a-
bilità di una ladra, cominciò a frugare lesta fra le cose di Alaïs. Bottiglie,
vasetti e ciotole, il baule, i cassetti pieni di panni, profumi ed erbe dall'odo-
re dolciastro. Oriane tastò i cuscini e trovò un sacchetto di lavanda, che
non destò in lei alcun interesse. Poi controllò sopra e sotto il letto. C'erano
soltanto insetti morti e ragnatele.
Quando si voltò, vide una pesante mantella da caccia appoggiata allo
schienale della sedia da cucito. Gli aghi e i fili erano sparsi dappertutto.
Oriane provò un brivido di eccitazione. Che ci faceva lì una mantella in-
vernale in quel periodo dell'anno? Perché Alaïs si rammendava gli abiti da
sola?
La prese e intuì subito che aveva qualcosa di strano. Pendeva da un lato,
era del tutto sbilenca. Oriane sollevò il lembo e notò che qualcosa era stato
cucito nella parte interna.
Scucì i punti alla svelta, infilò le dita ed estrasse un piccolo oggetto ret-
tangolare, avvolto in un panno.
Era sul punto di esaminarlo, quando udì un rumore per il corridoio. Ra-
pida come una saetta Oriane nascose l'involto sotto il vestito e rimise la
mantella sullo schienale.
Sentì una mano pesante sulla spalla. Sussultò.
«Che diavolo credi di fare?»
«Guilhem» ansimò Oriane, stringendo le mani al petto. «Mi hai spaven-
tata.»
«Che ci fai in camera di mia moglie, Oriane?»
Oriane alzò il mento, «Potrei rivolgerti la stessa domanda?»
Nella penombra della stanza, vide indurirsi il volto di Guilhem e capì di
aver colpito nel segno.
«Io ho tutti i diritti di stare qui, tu invece...» Guardò la mantella, quindi
di nuovo Oriane.
«Che stavi facendo?»
La donna lo fissò. «Niente che ti riguardi.»
Guilhem richiuse la porta col tallone.
«Vi comportate in modo indecoroso, signora» disse, afferrandole il pol-
so.
«Non essere sciocco, Guilhem» sussurrò a bassa voce. «Apri la porta.
Saranno guai per entrambi se qualcuno arriva e ci trova insieme.»
«Non fare giochetti con me, Oriane. Non sono dell'umore giusto. Non ti
lascerò andare, se prima non mi dirai che ci fai qui. Ti ha mandato lui?»
Oriane sembrava davvero confusa. «Non capisco di cosa parli, Guilhem,
te lo giuro.»
Guilhem la strinse con più forza. «Pensavi che non me ne sarei accorto,
è? Vi ho visti insieme, Oriane.»
Trasse un respiro di sollievo. Ora capiva il motivo della sua collera.
Ammesso che Guilhem non avesse riconosciuto il suo compagno, Oriane
avrebbe potuto sfruttare l'equivoco a suo vantaggio.
«Lasciami andare» gli ordinò, cercando di divincolarsi. «Se ricordi bene,
messire, sei stato tu a dire che non dovevamo più vederci.» Scrollò i capel-
li corvini e lo fulminò con lo sguardo. «Pertanto, se decido di trovare con-
forto altrove non ti riguarda. Non hai alcun diritto su di me.»
«Chi è?»
Oriane rifletté alla svelta. Le serviva un nome che lo mettesse a tacere.
«Prima di dirtelo, voglio che giuri di non compiere gesti avventati...» lo
implorò, per temporeggiare.
«Al momento, signora, non siete nella posizione di dettare condizioni.»
«Almeno andiamo da qualche altra parte, nella mia camera, nella corte,
dovunque tranne qui. Se Alaïs dovesse arrivare...»
Dall'espressione sul volto di Guilhem, Oriane capì di averlo convinto. La
sua paura più grande adesso era che Alaïs scoprisse il tradimento.
«D'accordo» ribatté in tono aspro. Spalancò la porta con l'altra mano, la
spinse fuori dalla camera e la trascinò per il corridoio. Quando raggiunsero
la camera di Oriane, questa aveva raccolto le idee.
«Parlate, signora» le ordinò.
Con lo sguardo fisso a terra, Oriane confessò di aver ricevuto le atten-
zioni di un nuovo corteggiatore, il figlio di uno dei vassalli del visconte.
Era un suo ammiratore da tempo.
«È la verità?» domandò.
«Lo giuro, sulla mia vita» sussurrò, con le ciglia imperlate di lacrime.
Lui nutriva ancora qualche sospetto, si leggeva incertezza nel suo sguar-
do.
«Questo non spiega perché ti trovavi nella camera di mia moglie.»
«Volevo solo salvaguardare la tua reputazione» ribatté. «Rimettendo al
proprio posto una cosa che ti appartiene.»
«Che cosa?»
«Mio marito ha trovato una fibbia da uomo in camera.» La descrisse con
la mano. «Grande all'incirca così, fatta di rame e argento.»
«Ho perso davvero una fibbia come quella» ammise.
«Jehan era deciso a scovare il proprietario e a rendere pubblico il suo
nome. Sapendo che era tua, ho pensato che fosse più prudente riportarla in
camera.»
Guilhem si accigliò. «Perché non restituirla direttamente a me?»
«Tu mi eviti, messire» disse in tono mellifluo. «Non sapevo quando e se
ti avrei rivisto. Inoltre, se ci avessero visti insieme sarebbe stata la prova di
quanto c'è stato fra noi. Giudica pure ridicolo il mio gesto. Ma non dubita-
re delle intenzioni.»
Oriane vide che non era convinto, ma non volle tirare troppo la corda.
Guilhem portò la mano al pugnale che portava alla vita.
«Se ti lasci sfuggire una sola parola con Alaïs,» la avvertì «ti ammazzo,
Oriane, mi venga un colpo se non lo faccio.»
«Da me non verrà mai a saperlo» replicò con un sorriso. «Certo, a meno
che non mi veda costretta. Devo tutelarmi. E poi» esitò. Guilhem tirò un
respiro profondo. «E poi, guarda caso, ho un favore da chiederti.»
Guilhem strinse gli occhi. «E se mi rifiutassi?»
«Voglio soltanto sapere se mio padre ha affidato ad Alaïs qualcosa di
prezioso da portare, ecco tutto.»
«Vuoi che mi metta a spiare mia moglie?» fece lui, incredulo. «Non farò
niente di simile, Oriane, e tu vedi di non fare niente che possa turbarla,
chiaro?»
«Turbarla, io? Sarà la paura di essere scoperto che tira fuori tutta la ca-
valleria che c'è in te. Se stato tu a tradirla infilandoti notte dopo notte nel
mio letto, Guilhem. Quello che cerco è una semplice informazione. Scopri-
rò ciò che mi interessa sapere, con o senza il tuo aiuto. Tuttavia, se la fai
tanto difficile...» Lasciò che la minaccia aleggiasse nell'aria.
«Non oseresti mai.»
«Sarebbe una cosa da nulla raccontare ad Alaïs tutto quello che abbiamo
fatto insieme, ripeterle le cose che mi hai sussurrato nelle orecchie, mo-
strarle i doni che mi hai fatto. Mi crederebbe, Guilhem. La tua faccia lascia
trapelare troppo della tua anima.»
Disgustato da se stesso, Guilhem spalancò la porta. «Che tu sia maledet-
ta, Oriane» disse, quindi uscì furioso nel corridoio.
Oriane sorrise. Lo aveva messo in trappola.

Alaïs trascorse il pomeriggio in cerca del padre. Nessuno lo aveva visto.


Era andata nella Cité, con la speranza di riuscire almeno a parlare con E-
sclarmonde. Ma lei e Sajhë non si trovavano più a Sant-Miquel e a quanto
pareva non erano neppure tornati a casa.
Alla fine, esausta e preoccupata, Alaïs aveva fatto ritorno nella sua stan-
za da sola. Non poteva andare a letto. Era troppo nervosa, troppo agitata,
perciò accese un lume e si sedette al tavolino.
Le campane avevano suonato l'una, quando fu svegliata dai passi lungo
il corridoio. Alzò la testa, che aveva appoggiato sopra le braccia, e guardò
con occhi assonnati in direzione del rumore.
«Rixende?» sussurrò nel buio. «Sei tu?»
«No, non sono Rixende.»
«Guilhem?»
Il marito si avvicinò alla luce con un sorriso, incerto se fosse il benvenu-
to. «Perdonami. Ho promesso di lasciarti in pace, lo so, ma... posso?»
Alaïs drizzò la schiena.
«Sono stato alla cappella» disse, «Ho pregato, ma credo che le mie paro-
le non siano state ascoltate.»
Guilhem si sedette sul bordo del letto. Dopo un istante di esitazione, A-
laïs lo raggiunse. Sembrava pensieroso.
«Coraggio» sussurrò. «Lascia che ti aiuti.»
Slacciò gli stivali e lo aiutò a togliere l'armatura dalle spalle e la cintura.
Il cuoio e la fibbia caddero a terra con un rumore sordo.
«Cosa crede che accadrà il visconte Trencavel?» chiese.
Guilhem si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi. «Che l'esercito attaccherà
prima Sant-Vicens, quindi Sant-Miquel, e che infine riuscirà ad avvicinarsi
alle mura della Ciutat.»
Alaïs si sedette accanto a lui e gli ravviò i capelli. Sentire la sua pelle
sotto le dita le fece provare un fremito.
«Dovreste dormire, messire. Avete bisogno di tutte le vostre forze per la
battaglia imminente.»
Adagio, Guilhem aprì gli occhi e le sorrise. «Potresti farmi compagnia.»
Alaïs ricambiò il sorriso e prese un preparato di rosmarino dal comodi-
no. Si inginocchiò accanto a lui e iniziò a massaggiargli le tempie con la
lozione rinfrescante.
«Prima, mentre cercavo mio padre, sono passata davanti alla camera di
mia sorella. Credo che ci fosse qualcuno con lei.»
«Forse Congost» suggerì fulmineo.
«Penso di no. Al momento dorme nella Tour Pinte insieme agli altri
scrivani, nel caso in cui il visconte avesse bisogno di loro.» Si fermò. «Ho
sentito delle risa.»
Guilhem le mise il dito sulla bocca per farla tacere. «Basta parlare di O-
riane» sussurrò, cingendole la vita e attirandola a sé. Aveva ancora il sapo-
re di vino sulle labbra. «Profumi di miele e camomilla» le disse. Allungò
una mano e le sciolse i capelli, che le scesero sul viso come una cascata.
«Mon còr.»
Alaïs sentì un brivido, la pelle di Guilhem contro la sua era così eccitan-
te e intima. Lentamente e con cura, Guilhem le tolse il vestito dalle spalle e
lo abbassò fino alla vita. Alaïs si alzò. La veste si sfilò e scivolò a terra,
quasi fosse una pelle invernale che non occorreva più.
Guilhem alzò la coperta e la fece sdraiare accanto a sé, sui cuscini che
sapevano ancora di lui. Per un istante, restarono abbracciati, l'uno di fianco
all'altra, i piedi freddi di lei contro la sua pelle calda. Si chinò su di lei.
Adesso Alaïs sentiva il suo respiro sfiorarle la pelle come la brezza d'esta-
te. Le labbra di Guilhem danzavano mentre la lingua scivolava sui seni.
Alaïs trattenne il fiato quando le prese il capezzolo fra le labbra, lo leccò e
lo stuzzicò.
Guilhem alzò la testa. Accennò un sorriso.
Poi, senza distogliere lo sguardo, scivolò fra le sue gambe nude. Alaïs
guardava i suoi occhi castani, seri e imperturbabili.
«Mon còr» ripeté.
Con delicatezza, Guilhem entrò dentro di lei, a poco a poco, fino a pene-
trarla del tutto. Per un attimo restò immobile, quasi riposasse racchiuso
dentro di lei.
Alaïs si sentì forte, potente, come se in quel momento fosse in grado di
fare qualunque cosa. Un calore forte e soporifero si impadronì delle sue
membra, colmandola e divorando i suoi sensi. Sentiva pulsare il sangue
nella testa. Aveva perso la cognizione del tempo e dello spazio. Esistevano
solo Guilhem e la luce tremolante della candela.
A poco a poco, lui riprese a muoversi.
«Alaïs.» Le parole gli uscivano languide dalle labbra. Lei mise le mani
sulla sua schiena, le dita aperte a forma di stella. Sentiva la sua forza, la
potenza delle braccia abbronzate e delle cosce muscolose, i morbidi peli
sul petto che sfioravano il suo. La lingua saettava fra le labbra, calde, umi-
de e vogliose.
Aveva il respiro più veloce, più affannato, per via del desiderio, del bi-
sogno. Alaïs lo strinse a sé, mentre Guilhem gridava il suo nome. Un fre-
mito e fu di nuovo immobile.
A poco a poco, il ronzio nella testa svanì e restò soltanto il profondo si-
lenzio della stanza.
Più tardi, dopo aver parlato ed essersi scambiati promesse nell'oscurità,
scivolarono nel sonno. L'olio del lume si consumò. La fiamma guizzò e si
spense. Alaïs e Guilhem non si accorsero di nulla. Né del cammino argen-
teo della luna attraverso il cielo, né della luce violacea dell'alba che filtrava
dalla finestra. Erano consapevoli solo di loro stessi, mentre giacevano ad-
dormentati, l'una nelle braccia dell'altro, moglie e marito, di nuovo inna-
morati.
Riconciliati. Sereni.

CAPITOLO 51

CARCASSONNE
Giovedì, 7 luglio 2005

Alice si svegliò qualche secondo prima che suonasse la sveglia e si ri-


trovò sdraiata sul letto con una marea di carte sparpagliate lì intorno.
Aveva davanti l'albero genealogico e gli appunti che aveva preso alla bi-
blioteca di Toulouse. Sogghignò. Proprio come quando era studentessa, si
addormentava sempre alla scrivania.
Non era dispiaciuta, comunque. Malgrado l'intrusione della sera prima,
quella mattina si sentiva di buon umore. Contenta, addirittura felice.
Sgranchì le braccia e il collo, quindi si alzò e aprì le persiane e la fine-
stra. Il cielo mostrava squarci di sereno fra pallide nuvole leggere e uni-
formi. I pendii della Cité erano coperti dalle nubi e le rive erbose al di sot-
to delle mura scintillavano di rugiada mattutina. Sopra le torrette e le torri,
il cielo era azzurro e lucente come la seta. Scriccioli e allodole cinguetta-
vano fra loro sui tetti. Dappertutto c'erano tracce dei postumi del tempora-
le. Detriti trasportati dal vento sopra i balconi, scatoloni fradici e capovolti
sul retro dell'albergo, giornali ammassati ai piedi dei lampioni nel par-
cheggio.
Alice era turbata al pensiero di lasciare Carcassonne, come se quella par-
tenza potesse scatenare qualcosa. Ma doveva mettersi in moto e, in quel
momento, Chartres era l'unico collegamento con Shelagh.
Era la giornata ideale per un viaggio.
Mentre metteva via le carte, pensava che fosse anche una decisione sen-
sata. Non voleva restare lì come una vittima ad aspettare che l'intruso della
sera prima tornasse.
Spiegò alla ragazza della reception, che sarebbe stata fuori città per un
giorno, ma che voleva comunque tenere la stanza.
«C'è una signora che vuole vederla» la informò la receptionist, indican-
do il salottino. «Stavo proprio per chiamarla in camera.»
«Oh?» Alice si voltò verso il salottino. «Ha detto cosa voleva?»
La ragazza fece di no con la testa.
«Okay. Grazie.»
«È arrivata anche questa per lei stamattina» aggiunse, e le consegnò una
lettera. Alice diede un'occhiata al timbro postale. Era stata spedita il giorno
prima da Foix. Non riconobbe la scrittura. Era sul punto di aprirla, quando
la donna che la aspettava si avvicinò.
«Dottoressa Tanner?» chiese. Sembrava agitata.
Alice infilò la lettera nella tasca della giacca con l'intenzione di leggerla
più tardi. «Sì?»
«Ho un messaggio per lei da parte di Audric Baillard. Vorrebbe sapere
se può incontrarsi con lui al cimitero.»
La donna aveva un'aria vagamente familiare, eppure Alice non sapeva
trovarle una collocazione ben precisa.
«Ci siamo già viste da qualche parte?» domandò.
La donna esitò. «Da Daniel Delargarde» rispose. «Notaires.»
Alice la squadrò di nuovo. Non ricordava di averla vista il giorno prece-
dente, ma c'era un mucchio di gente nello studio centrale.
«Monsieur Baillard la aspetta alla tomba Giraud-Biau.»
«Davvero?» fece Alice. «Perché non è venuto di persona?»
«Ora devo andare.»
A quel punto la donna girò le spalle e se ne andò, mentre Alice rimase a
fissarla sconcertata. Rivolse lo sguardo alla receptionist, che fece spalluc-
ce.
Alice guardò l'orologio. Era impaziente di partire. La aspettava un lungo
viaggio. D'altra parte, dieci minuti in più non avrebbero
fatto molta differenza.
«A demain» disse alla receptionist, la quale era già tornata alla sua occu-
pazione, qualunque fosse.
Alice passò a lasciare lo zaino in macchina, quindi, un tantino seccata, si
avviò in tutta fretta al cimitero.

Non appena varcò l'alto cancello di ferro, l'atmosfera si trasformò. Il


trambusto della Cité che si risvegliava al mattino fu sostituito dalla quiete.
Sulla destra c'era un basso edificio imbiancato. All'esterno, c'era una fila
di ganci ai quali erano appesi annaffiatoi neri e verdi. Alice sbirciò dalla
finestra e vide una vecchia giacca buttata sullo schienale di una sedia e un
giornale aperto sul tavolo: sembrava che qualcuno si fosse appena alzato.
Alice percorse adagio il vialetto principale, all'improvviso aveva i nervi
tesi. Trovava soffocante l'atmosfera di quel luogo. Grigie lapidi scolpite,
bianchi cammei di porcellana e iscrizioni di granito nero che riportavano la
data di nascita e di morte, luoghi di riposo comprati dagli abitanti del posto
à perpétuité, per ricordare la scomparsa dei propri familiari. Fotografie di
persone morte giovani si facevano largo a gomitate accanto ai volti di
quelle più anziane. Ai piedi di quasi tutte le tombe c'erano fiori, alcuni veri
e appassiti, altri fatti di seta, plastica o porcellana.
Seguendo le indicazioni che le aveva dato Karen Fleury, Alice trovò con
discreta facilità la tomba Giraud-Biau. Era una tomba larga e piatta sovra-
stata dalla statua di un angelo con le braccia aperte e le ali chiuse, collocata
in fondo al viale principale.
Si guardò attorno. Nessuna traccia di Baillard.
Alice sfiorò la superficie con le dita. Lì giaceva gran parte della famiglia
di Jeanne, una donna di cui non sapeva molto, soltanto che era l'anello di
congiunzione tra Audric Baillard e Grace. Solamente adesso, mentre era lì
a fissare i nomi cesellati di quella famiglia, Alice realizzò quanto fosse in-
solito che la zia avesse trovato posto in quella tomba.
Fu distratta da un rumore in uno dei vialetti trasversali. Si voltò, convin-
ta di trovarsi davanti l'anziano signore della fotografia che le andava in-
contro.
«Dottoressa Tanner?»
Erano due uomini, entrambi con un completo estivo ed entrambi con i
capelli scuri e gli occhi nascosti dagli occhiali da sole.
«Sì?»
Il più basso le mostrò un tesserino.
«Polizia. Dobbiamo rivolgerle alcune domande.»
Alice sentì una morsa allo stomaco. «Riguardo a cosa?»
«Non ci vorrà molto, madame.»
«Vorrei vedere un distintivo.»
L'uomo infilò una mano nel taschino ed estrasse un documento. Alice
non sapeva affatto se fosse originale oppure no. Ma la pistola nella fondina
sotto la giacca sembrava vera eccome. Aveva il battito del polso accelera-
to.
Finse di esaminarlo e intanto lanciò un'occhiata al cimitero. Non c'era
nessuno nei paraggi. I vialetti si diramavano deserti in tutte le direzioni.
«Di che si tratta?» chiese di nuovo, cercando di sembrare calma.
«Dovrebbe venire con noi.»
Non possono farmi nulla di male, siamo in pieno giorno.
Alice capì troppo tardi perché la donna che le aveva recapitato il mes-
saggio avesse l'aria familiare. Somigliava all'uomo che aveva visto di
sfuggita la sera prima nella sua stanza. A quest'uomo.
Con la coda dell'occhio, notò una rampa di gradini di cemento che por-
tava giù alla parte più nuova del cimitero. Superata quella, c'era un cancel-
lo.
L'uomo le appoggiò una mano sul braccio. «Maintenant, Dr Tan...»
Alice si tuffò in avanti, come una velocista che scatta dai blocchi, e li
colse alla sprovvista. Furono lenti a reagire. Li sentì urlare, ma aveva già
disceso la gradinata e correva verso il cancello, che dava su Chemin des
Anglais.
Un'automobile che saliva borbottando per la collina frenò di colpo. Alice
non si fermò. Varcò il rumoroso cancello di legno di una tenuta agricola e
attraversò di corsa i filari di viti, inciampando nei solchi del terreno. Senti-
va gli uomini alle calcagna, ormai l'avevano quasi raggiunta. Il sangue pul-
sava nelle orecchie, i muscoli delle gambe erano tesi come corde di violi-
no, ma continuò a correre.
In fondo al campo c'era una rete metallica a maglia stretta, troppo alta
per essere scavalcata. Alice si guardò attorno in preda al panico, a un tratto
individuò un buco in un punto più lontano della rete. Si buttò per terra,
strisciò sulla pancia, con i sassi e le rocce appuntite che affondavano nei
palmi delle mani e nelle ginocchia. Scivolò sotto la rete, i bordi sfilacciati
si aggrapparono alla giacca, intrappolandola come una mosca in una tela di
ragno. Con uno strattone e uno sforzo sovrumano, Alice riuscì a liberarsi e
lasciò solo un brandello di jeans blu impigliato alla rete.
Si ritrovò in un orto, si fece scudo con le lunghe file di alte strutture in
bambù usate per sostenere melanzane, zucchine e fagioli di Spagna. A te-
sta bassa, Alice avanzò a zigzag fra le coltivazioni, con l'intenzione di tro-
vare rifugio negli edifici annessi. Un enorme mastino legato a una pesante
catena di metallo le si avventò contro appena voltò l'angolo, abbaiando in-
ferocito e digrignando i denti minaccioso. Alice soffocò un urlo e fece un
balzo indietro.
L'ingresso principale della tenuta agricola dava direttamente sulla strada
affollata, ai piedi della collina. Una volta sul marciapiede, si guardò final-
mente alle spalle. Nessuno, dietro di lei soltanto uno spazio deserto. Li a-
veva seminati.
Si piegò in avanti con le mani sulle ginocchia, ansimava per lo sforzo e
per il sollievo, e aspettò che le braccia e le gambe cessassero di tremare.
La mente si era già messa in moto.
Che hai intenzione di fare?
Quei due sarebbero tornati all'albergo e l'avrebbero aspettata lì. Non po-
teva andarci. Controllò la tasca e fu lieta di scoprire che non aveva perso la
chiave dell'auto nell'ansia di fuggire. Lo zaino era nascosto sotto il sedile
anteriore.
Devi chiamare Noubel.
Si figurò il pezzo di carta con su scritto il numero dell'ispettore, nello
zaino sotto il sedile dell'auto, insieme a tutto il resto. Si diede una ripulita.
I jeans erano coperti di fango e strappati sul ginocchio. L'unica cosa da fa-
re era tornare alla macchina e pregare che non la stessero aspettando lì.
Alice percorse svelta rue Barbacane, abbassava la testa ogni volta che
passava un'auto. Superò la chiesa, quindi tagliò per una stradina sulla de-
stra chiamata rue de la Gaffe.
Chi li avrà mandati?
Camminò veloce, tenendosi all'ombra. Era difficile dire dove finisse una
casa e dove ne iniziasse un'altra. Sentì uno strano formicolio alla base del
cranio. Si fermò, lanciò uno sguardo a destra alla graziosa casa dai muri
gialli, convinta che qualcuno la stesse osservando dalla soglia. Ma la porta
era sbarrata e le persiane erano chiuse. Dopo un istante di esitazione, Alice
proseguì.
Doveva cambiare idea riguardo a Chartres?
Se non altro, avere la conferma che era in pericolo, e che non si trattava
di pura immaginazione, accresceva la sua risolutezza. Mentre ragionava,
diventava sempre più convinta che ci fosse Authié dietro a quella faccen-
da. Quell'uomo credeva che avesse rubato l'anello. Si capiva che era deciso
a non mollare.
Chiama Noubel.
Di nuovo, ignorò la voce della coscienza. Fino a quel momento l'ispetto-
re non aveva risolto nulla. Un agente era morto e Shelagh era scomparsa.
Poteva fidarsi soltanto di se stessa.
Era arrivata alle scale che congiungevano rue de Trivalle con il retro del
parcheggio, era logico che se avessero voluto aspettarla lo avrebbero fatto
all'ingresso principale.
I gradini erano ripidi e da quel lato del parcheggio c'era un muro alto,
che le copriva la visuale ma consentiva di vederla perfettamente a chiun-
que guardasse dall'alto. Se erano lì, lo avrebbe scoperto troppo tardi.
C'è soltanto un modo per saperlo.
Alice tirò un respiro profondo e salì di corsa le scale, le gambe spinte
dall'adrenalina che scorreva nella vene. Arrivata in cima, si fermò e si
guardò intorno. C'erano un paio di pullman e qualche auto, ma pochissime
persone.
La macchina era dove l'aveva lasciata. Avanzò fra le file di veicoli par-
cheggiati, restando accucciata. Le tremavano le mani quando si sedette al
posto di guida. Si aspettava che i due uomini sbucassero da un momento
all'altro. Sentiva ancora le voci, le urla nella testa. Appena fu seduta, chiu-
se la portiera con la sicura e inserì la chiave nel quadro di accensione.
Lanciando sguardi in ogni direzione, la mani bianche sul volante, Alice
aspettò che un camper si allontanasse e il custode sollevasse la sbarra. Ac-
celerò al massimo e sgommò sull'asfalto, diretta all'uscita. Il custode gridò
e fece un salto indietro, ma Alice non ci badò.
Proseguì per la sua strada.

CAPITOLO 52

Audric Baillard era sul binario della stazione di Foix insieme a Jeanne,
in attesa del treno per Andorra.
«Dieci minuti» disse Jeanne, dopo aver guardato l'orologio. «Non è
troppo tardi. Puoi sempre cambiare idea e venire con me.»
Audric sorrise alla sua insistenza. «Sai che non posso.»
Jeanne agitò la mano insofferente. «Hai passato trent'anni a raccontare le
loro storie, Audric. Alaïs, la sorella, il padre, il marito... hai trascorso tutta
la vita in compagnia di persone morte.» Addolcì il tono. «E i vivi?»
«La mia vita è la loro vita, Jeanne» replicò con pacata dignità. «Le paro-
le sono l'unica arma che abbiamo contro le menzogne della storia. Dob-
biamo testimoniare la verità. Se non lo facciamo, coloro che amiamo mori-
ranno due volte.» Fece una pausa. «Non avrò pace finché non saprò come
è andata a finire.»
«Dopo ottocento anni? La verità potrebbe essere sepolta troppo in pro-
fondità.» Jeanne esitò. «E forse è meglio così. Alcuni segreti non devono
essere svelati.»
Baillard guardava i monti davanti a sé. «Mi rincresce di aver portato tan-
to dolore nella tua vita, lo sai.»
«Non era quello che intendevo, Audric.»
«Ma scoprire la verità e metterla per iscritto,» continuò come se non la
avesse ascoltata «è la mia ragione di vita, Jeanne.»
«Vero! Ma che mi dici dei tuoi nemici, Audric? Che cosa cercano? La
verità? Ne dubito.»
«No, infatti» ammise alla fine. «Non credo che sia quello il loro scopo.»
«E qual è, allora?» chiese con impazienza. «Sto per partire, come mi hai
consigliato di fare. Che male può esserci se me lo dici adesso?»
Baillard esitò ancora.
Jeanne non si arrese. «La Noublesso Véritable e la Noublesso de los Se-
res sono la stessa organizzazione ma con nomi diversi?»
«No» pronunciò quella parola in modo più brusco di quanto volesse.
«No.»
«E allora?»
Audric sospirò. «Noublesso de los Seres era il nome con cui erano desi-
gnati i custodi dei Codici del Graal. Per quattromila anni essi hanno svolto
tale ruolo. Finché, purtroppo, i testi non furono separati.» Fece una pausa e
scelse le parole con cura. «La Noublesso Véritable, invece, è stata creata
soltanto un secolo e mezzo fa, quando si cominciò di nuovo a capire il lin-
guaggio oscuro dei testi. La parola "Véritable", che significa custodi veri,
ossia reali, era un deliberato tentativo di conferire validità all'organizza-
zione.»
«Quindi la Noublesso de los Seres non esiste più?»
Audric scosse il capo. «Quando i Codici si dispersero, i custodi non eb-
bero più motivo di esistere.»
Jeanne aggrottò la fronte. «Ma non hanno provato a recuperare i testi
perduti?»
«All'inizio, sì» confessò, «ma senza successo. Con il passare del tempo,
diventò sempre più imprudente continuare le ricerche, c'era il rischio di sa-
crificare l'ultimo libro rimasto nel tentativo di recuperare gli altri due. Dal
momento che nessuno era in grado di decifrare i testi, il segreto non sareb-
be stato scoperto. Solo una persona...» Baillard vacillò. Sentiva gli occhi di
Jeanne puntati addosso. «L'unica persona in grado di leggerli decise di non
tramandare il proprio sapere.»
«Che cosa accadde?»
«Per centinaia di anni, nulla. Poi, nel 1798, Napoleone sbarcò in Egitto
portando al seguito eruditi e studiosi, oltre che soldati. Scoprirono i resti
delle civiltà che avevano dominato in quelle terre migliaia di anni prima.
Centinaia di manufatti, tavole sacre, pietre, furono riportate in Francia. A
quel punto, non ci volle molto tempo perché gli antichi sistemi di scrittura
- demotica, cuneiforme, geroglifica - fossero decifrati. Come sai, Jean-
François Champollion fu il primo a capire che i geroglifici andavano letti
non come ideogrammi o come simboli, bensì come segni fonetici. Nel
1822, decifrò il codice, come si dice in parole povere. Per gli antichi egizi
la scrittura era un dono degli dèi, infatti la parola "geroglifico" vuol dire
"sacra incisione".»
«Ma se i libri del Graal sono scritti nella lingua degli antichi egizi, allo-
ra...» sfumò la frase. «Se ho capito bene quello che dici, Audric...» Scrollò
la testa. «Che questa associazione chiamata Noublesso sia esistita, va bene.
Che nei Codici fosse racchiuso un antico segreto, va bene. Ma tutto il re-
sto? È inconcepibile.»
Audric sorrise. «Che c'è di meglio per custodire un segreto del celarlo
sotto un altro? Fare propri o assimilare i potenti simboli e le idee di altri è
il mezzo di sopravvivenza di una civiltà.»
«Che vuoi dire?»
«Le persone cercano la verità. Quando pensano di averla trovata, si fer-
mano, senza immaginare che sotto può celarsi qualcosa di ancora più stra-
ordinario. La storia è piena di esempi di simboli religiosi, rituali, sociali
rubati a una società per costruirne un'altra. Per esempio, il giorno in cui i
cristiani celebrano la nascita di Gesù il Nazareno, ossia il venticinque di-
cembre, in realtà è la festa di Sol Invictus, nonché il momento del solstizio
d'inverno. La croce cristiana, proprio come il Graal, è in realtà un simbolo
dell'antico Egitto, l'ankh, di cui l'imperatore Costantino si appropriò modi-
ficandolo. "In hoc signo vinces... con questo segno vincerai..." sono le pa-
role a lui attribuite, quando vide apparire in cielo un simbolo a forma di
croce. Più di recente, i seguaci del Terzo Reich hanno fatto della svastica
l'emblema del loro partito. Di fatto, essa è un antico simbolo di rinascita
indù.»
«Il labirinto» disse Jeanne, come se avesse capito.
«L'antica simbol del Miègjorn.» L'antico simbolo del Midi.
Jeanne si sedette mentre rifletteva, le mani unite sul ventre, le gambe in-
crociate all'altezza delle caviglie. «E adesso che succederà?»
«Ora che la caverna è stata aperta, è solo questione di tempo, Jeanne» ri-
spose. «Non sono l'unico a sapere queste cose.»
«Ma i monti del Sabarthès sono stati esplorati dai nazisti durante la guer-
ra» ribatté. «I nazisti a caccia del Graal sapevano che secondo la leggenda
il tesoro dei catari era sotterrato da qualche parte fra le montagne. Hanno
trascorso anni a scavare in punti di potenziale interesse esoterico. Se que-
sta caverna è tanto importante, come mai non l'hanno scoperta sessant'anni
fa?»
«Abbiamo fatto in modo che non la trovassero.»
«Tu eri lì?» chiese, la voce carica di stupore.
Baillard sorrise. «Ci sono conflitti interni alla Noublesso Veritàble»
spiegò, per tergiversare. «A capo dell'organizzazione c'è una donna di no-
me Marie-Cécile de l'Oradore. Crede nel Graal ed è decisa a riconquistar-
lo. Crede nella ricerca.» Si fermò. «Però, nell'organizzazione c'è un altro
membro.» Divenne scuro in volto. «E ha motivazioni differenti.»
«Devi parlare con l'ispettore Noubel» disse Jeanne in tono perentorio.
«E se anche lui, come ho ipotizzato, lavorasse per loro? È un rischio
troppo grande.»
Il fischio acuto del treno venne a turbare la quiete della stazione. Si vol-
tarono entrambi in direzione del convoglio che si fermava sul binario con
uno stridio di freni. La conversazione era finita.
«Non mi va di lasciarti qui da solo, Audric.»
«Lo so» fece, dandole la mano per aiutarla a salire in carrozza. «Ma è
così che deve finire.»
«Finire?»
Aprì il finestrino e gli tese la mano. «Mi raccomando, fai attenzione.
Non pretendere troppo da te stesso.»
Lungo tutto il binario le pesanti porte si richiusero sbattendo e il treno
cominciò a muoversi, prima lentamente, poi più velocemente, fino a
scomparire fra i recessi della montagna.
CAPITOLO 53

Shelagh avvertiva la presenza di qualcuno nella stanza insieme a lei.


Si sforzò di alzarsi. Si sentiva male. Aveva la bocca secca e un martellio
sordo nella testa, simile al monotono ronzio dell'aria condizionata. Non
riusciva a muoversi. Impiegò qualche secondo a rendersi conto che era se-
duta su una sedia, con le braccia bloccate saldamente dietro la schiena e le
caviglie legate alle gambe di legno.
Ci fu un leggero movimento, uno scricchiolio nelle squallide assi del pa-
vimento quando qualcuno si spostò.
«Chi va là?»
Aveva le mani viscide per la paura. Un rivolo di sudore le colò lungo la
schiena. Shelagh si sforzò di aprire gli occhi, ma non vide nulla. Andò nel
panico, scosse la testa, batté le palpebre, sperando di recuperare la vista,
finché non si rese conto di avere un'altra volta il cappuccio sulla testa. O-
dorava di terra e polvere.
Si trovava ancora alla fattoria? Si ricordò dell'ago, dell'iniezione doloro-
sa che l'aveva colta di sorpresa. Lo stesso uomo che le aveva portato da
mangiare. Ma qualcuno sarebbe andato senz'altro a salvarla. Vero?
«Chi va là?» Nessuno rispose, ma sentiva che erano vicini. L'aria era in-
trisa dell'odore di dopobarba e sigarette. «Cosa volete?»
La porta si aprì. Passi. Shelagh avvertì che l'atmosfera era cambiata. Fu
colta dall'istinto di sopravvivenza e per un istante cercò con tutte le forze
di liberarsi. Invece la corda si strinse, aumentando la tensione delle spalle e
causandole dolore.
La porta si richiuse con un forte e sinistro tonfo.
Restò immobile. Per un attimo, ci fu silenzio, poi il rumore di passi che
si avvicinavano, sempre di più. Shelagh arretrò sulla sedia. Si era fermato
proprio davanti a lei. Sentì tutti i muscoli del corpo contrarsi, come se mi-
gliaia di minuscoli fili le tirassero la pelle. Come un animale che studiava
la propria preda, l'uomo girò un paio di volte intorno alla sedia, dopodiché
lasciò cadere le mani sulle spalle di Shelagh.
«Chi c'è? Vi prego, almeno scopritemi la faccia.»
«Dobbiamo fare un'altra chiacchierata, dottoressa O'Donnell.»
Una voce conosciuta, fredda e precisa, la attraversò come la lama di un
coltello. Capì che era colui che aspettava. Colui che temeva.
D'improvviso l'uomo tirò indietro la sedia.
Shelagh urlò e cadde all'indietro, incapace di fermarsi. Non colpì il suo-
lo. Lui la afferrò a pochi centimetri da terra, quindi era quasi sdraiata, con
la testa rovesciata e le gambe sospese nell'aria.
«Non è nella condizione di fare richieste, dottoressa O'Donnell.»
La tenne in quella posizione, per ore le sembrò. A un certo punto, d'im-
provviso, raddrizzò la sedia. Shelagh piegò la testa in avanti per la forza
della spinta. Era disorientata, si sentiva come un bambino che gioca a mo-
sca cieca.
«Per chi lavora, dottoressa O'Donnell?»
«Non riesco a respirare» mormorò.
La ignorò. Shelagh lo sentì sgranchire le dita e piazzare una sedia di
fronte alla sua. Si sedette e l'avvicinò sé, le bloccò le gambe con le ginoc-
chia.
«Torniamo a lunedì pomeriggio. Come mai ha lasciato che la sua amica
si avventurasse in quella zona?»
«Alice non c'entra niente in questa storia» gridò. «Non le ho detto io di
lavorare lassù, ci è andata di sua spontanea volontà. Non lo sapevo neppu-
re. È stato solo uno sbaglio. Lei non sa nulla.»
«Allora mi dica che cosa sa lei, Shelagh.» Il suo nome pronunciato da
quell'uomo suonava come una minaccia.
«Non so niente» urlò. «Vi ho detto tutto lunedì, lo giuro.»
Uno schiaffo improvviso le colpì la guancia destra e le spinse la testa al-
l'indietro. Shelagh sentì il sapore del sangue in bocca, mentre scorreva sul-
la lingua e scendeva in gola.
«È stata la sua amica a prendere l'anello?» chiese in tono più pacato.
«No, no, giuro di no.»
Strinse più forte. «Chi allora? Lei? È rimasta da sola con gli scheletri un
bel po'. Me lo ha detto la dottoressa Tanner.»
«Perché avrei dovuto prenderlo? Non ha nessun valore per me.»
«Come fa a essere tanto sicura che non sia stata la dottoressa Tanner?»
«Non lo farebbe mai. Non lo farebbe e basta» gridò. «Un sacco di gente
è entrata dopo di noi. Potrebbe averlo preso chiunque. Il dottor Brayling, la
polizia...» Shelagh si interruppe in maniera brusca.
«Giusto, la polizia» commentò lui. Shelagh trattenne il fiato. «Qualun-
que agente avrebbe potuto prendere l'anello. Yves Biau, per esempio.»
Shelagh si sentì gelare. Sentiva l'alternarsi del suo respiro, calmo, senza
fretta. Lui sapeva.
«L'anello non c'era.»
Sospirò. «Biau lo ha per caso dato a lei? O alla sua amica?»
«Non capisco» fu tutto ciò che riuscì a dire.
La colpì di nuovo, stavolta con il pugno e non con il palmo della mano.
Il sangue cominciò a uscire dal naso e a colare lungo il mento.
«Quello che non mi spiego,» riprese, come se nulla fosse accaduto «è
perché non le abbia dato anche il libro, dottoressa O'Donnell.»
«Non mi ha dato niente» ribatté con voce strozzata.
«Il dottor Brayling dice che ha lasciato l'alloggio nei pressi degli scavi
lunedì sera, con una borsa.»
«Mente.»
«Per chi lavora?» chiese in modo pacato, cordiale. «Adesso basta. Se la
sua amica non è coinvolta, allora non c'è motivo di farle alcun male.»
«La prego» piagnucolò. «Alice non sa...»
Shelagh trasalì quando le mise una mano sulla gola e la accarezzò simu-
lando un gesto d'affetto. Poi iniziò a stringere, sempre più forte, finché la
mano non diventò un cerchio di ferro intorno al collo. Lei si dimenò da
una parte e dall'altra, in cerca di aria, ma la stretta era troppo potente.
«Lei e Biau lavorate entrambi per quella donna?» chiese.
Proprio quando stava per perdere i sensi, la lasciò andare. Lo sentì ar-
meggiare con i bottoni della camicetta, aprirli uno a uno.
«Cosa crede di fare?» sussurrò, quindi sussultò al tocco della mano fred-
da ed esperta sulla pelle.
«Nessuno la sta cercando.» Shelagh sentì uno scatto, poi l'odore del gas
dell'accendino. «Non arriverà nessuno.»
«La prego, non mi faccia del male...»
«Lei e Biau lavorate insieme?»
Annuì.
«Per madame de l'Oradore?»
Annuì di nuovo. «Il figlio» riuscì a dire. «François-Baptiste. Ho parlato
solamente con lui...»
Sentiva la fiamma avvicinarsi alla pelle.
«E il libro?»
«Non sono riuscita a trovarlo. Nemmeno Yves.»
Replicò qualcosa, quindi ritirò la mano.
«Perché, dunque, Biau è andato a Foix? Sa perché è andato all'albergo
della dottoressa Tanner?»
Shelagh tentò di negare con un cenno del capo, ma sentì una nuova on-
data di dolore diffondersi per tutto il corpo.
«Le ha consegnato qualcosa.»
«Non era il libro» si sforzò di dire.
Prima che potesse terminare la frase, la porta si aprì e udì voci soffocate
nel corridoio, subito dopo un misto di dopobarba e sudore.
«In che modo avrebbe dovuto consegnare il libro a madame de l'Orado-
re?»
«François-Baptiste.» Parlare era doloroso. «L'appuntamento è al Pic de...
ho un numero di telefono.» Rifuggì dal tocco della sua mano sul seno.
«La prego no...»
«Vede com'è più facile quando collabora? Ora, in questo istante, farà
quella telefonata davanti a me.»
Shelagh scosse il capo terrorizzata. «Se vengono a sapere che ve l'ho
detto, mi uccideranno.»
«E se non lo fa, io ucciderò lei e mademoiselle Tanner» ribatté placida-
mente. «A lei la scelta.»
Shelagh non poteva sapere se tenesse prigioniera anche Alice. Se fosse
al sicuro oppure no.
«Sta aspettando che lo chiami non appena avrà trovato il libro, giusto?»
Non aveva più la forza di mentire. Annuì. «Sono interessati soprattutto a
un piccolo disco, della stessa grandezza dell'anello, più che all'anello in sé
e per sé.»
Inorridita, Shelagh capì di aver rivelato l'unico particolare che l'uomo
non conosceva.
«A cosa serve il disco?» domandò.
«Non lo so.»
Shelagh gettò un urlo quando la fiamma le sfiorò la pelle.
«A-cosa-serve?» chiese. Non c'era espressione nella sua voce. Lei si sen-
tiva gelare. C'era un orribile puzzo di carne bruciata, dolce e nauseabondo.
Non era più in grado di distinguere una parola dall'altra, il dolore stava
per farle perdere conoscenza. Si lasciò trasportare, si lasciò cadere. Sentiva
che il collo era sul punto di cedere.
«La stiamo perdendo. Toglietele il cappuccio.»
Lo straccio fu rimosso, sfregando sulle ferite e sulle escoriazioni.
«Va dentro l'anello...»
Sembrava che parlasse sottacqua. «Una specie di chiave. Per il la-
birinto...»
«Chi altro ne è a conoscenza?» gridò, ma sapeva che non c'era niente da
fare. Il mento le cadde sul petto. Le tirò indietro la testa. Aveva un occhio
tumefatto, l'altro socchiuso. Tutto quello che Shelagh riusciva a vedere era
un ammasso indistinto di volti, che entravano e uscivano dalla sua visuale.
«Lei non si rende conto...»
«Chi?» fece lui. «Madame de l'Oradore? Jeanne Giraud?»
«Alice» mormorò.

CAPITOLO 54

Alice arrivò a Chartres nel tardo pomeriggio. Trovò un albergo, do-


podiché comprò una cartina e andò dritta all'indirizzo che le aveva dato il
servizio informazioni. Guardò sbalordita la raffinata abitazione cittadina,
con il battaglio e la buca per le lettere di ottone lucido, le eleganti piante
sui davanzali e i vasi che fiancheggiavano la scalinata. Non riusciva a im-
maginarsi Shelagh in un posto del genere.
Che accidenti dirai se verrà a rispondere qualcuno?
Alice tirò un respiro profondo, poi salì i gradini e suonò il campanello.
Nessuna risposta. Aspettò, fece un passo indietro e guardò le finestre,
quindi riprovò. Compose il numero di telefono. Un secondo dopo, sentì
l'apparecchio squillare all'interno della casa.
Il posto era quello giusto, almeno.
Era delusa ma, a dire la verità, anche sollevata. Il confronto, se così si
poteva chiamare, avrebbe aspettato.

La piazza davanti alla cattedrale era zeppa di turisti, tutti accalcati con le
macchine fotografiche in mano, e di guide che portavano bandierine o om-
brelli colorati bene in vista. Tedeschi composti, inglesi riservati, italiani at-
traenti, giapponesi silenziosi, americani entusiasti. I bambini avevano tutti
l'aria annoiata.
A un certo punto, durante il lungo viaggio verso nord, Alice si era chie-
sta se il labirinto di Chartres l'avrebbe aiutata a scoprire qualcosa. Il nesso,
tra la caverna al Pic de Soularac, Grace e Alice stessa, sembrava davvero
ovvio, addirittura troppo. Una parte di lei aveva la sensazione di aver se-
guito una falsa pista.
In ogni caso, acquistò il biglietto e si unì a un gruppo di inglesi, che a-
vrebbe cominciato la visita cinque minuti dopo. La guida era una dinamica
signora di mezza età dai modi altezzosi e dal tono caustico.
«Agli occhi dei contemporanei, le cattedrali appaiono grigi e imponenti
luoghi di devozione e di fede. Tuttavia, in epoca medievale, erano edifici
pieni di colore, molto più simili ai templi indù dell'India o della Thailan-
dia. Le statue e i timpani che ornano i magnifici portali, a Chartres come in
ogni altra città, erano policromi.» La guida indicò l'esterno della chiesa
con l'ombrello. «Se guardate con più attenzione, potrete vedere alcuni resi-
dui di rosa, azzurro e giallo fra le crepe delle statue.»
Intorno ad Alice, tutti annuirono in modo ubbidiente.
«Nel 1194,» riprese la donna «un incendio distrusse gran parte della cit-
tà, compresa la cattedrale. Dapprima si pensò che la reliquia sacra custodi-
ta nella chiesa, la sancta camisia, ossia la veste indossata da Maria al mo-
mento della nascita di Cristo, fosse andata distrutta. Ma dopo tre giorni la
reliquia fu ritrovata, poiché era stata nascosta nella cripta dai monaci. Il
fatto fu visto come un miracolo, come segno che la cattedrale dovesse es-
sere ricostruita. L'attuale edificio fu terminato nel 1223 e consacrato nel
1260 come cattedrale dell'Assunzione di Nostra Signora, la prima in Fran-
cia a essere dedicata alla Vergine Maria.»
Alice ascoltò senza eccessiva attenzione, finché non giunsero alla faccia-
ta nord della chiesa. La guida indicò l'inquietante corteo di statue, re e re-
gine dell'Antico Testamento, scolpite sopra il portale.
Alice si sentì fremere d'impazienza.
«Questa è l'unica raffigurazione significativa dell'Antico Testamento che
possiamo trovare nella cattedrale» spiegò la guida, invitandoli ad avvici-
narsi. «Scolpita su questa colonna c'è quella che secondo molti rappresenta
l'Arca dell'Alleanza, portata via a Gerusalemme da Menelik, figlio di Sa-
lomone e della regina di Saba, nonostante gli storici affermino che la storia
di Menelik non fosse conosciuta in Europa prima del quindicesimo secolo.
E qui,» abbassò leggermente il braccio «c'è un altro mistero. Chi di voi ha
una buona vista riuscirà a intravedere il latino... HIC AMITITUR ARCHA
CEDERIS.» Si guardò intorno con un sorriso compiaciuto. «Se c'è fra voi
qualche latinista, avrà notato che l'iscrizione non ha senso. Alcune guide
interpretano ARCHA CEDERIS come "Tu lavorerai per l'Arca" e traducono
l'intera iscrizione "Qui le cose seguono il proprio corso: tu lavorerai per
l'Arca". Invece, se consideriamo CEDERIS una corruzione della parola
FOEDERIS, come molti esegeti hanno proposto, allora l'iscrizione potreb-
be essere tradotta "Qui è nascosta l'Arca dell'Alleanza".»
Lanciò uno sguardo al gruppo. «Questo portale, fra le altre cose, è uno
dei motivi per cui sono nati tanti miti e leggende intorno alla cattedrale.
Fatto insolito, non si conoscono i nomi di coloro che hanno costruito la
cattedrale di Chartres. È probabile che, per qualche ragione, non siano stati
annotati in nessun documento e che siano semplicemente andati persi. Tut-
tavia, chi è dotato di una immaginazione più fervida, per così dire, ha in-
terpretato in modo differente la mancanza di tale informazione. Secondo i
più accaniti sostenitori di leggende, la cattedrale sarebbe stata costruita dai
discendenti dei Poveri Cavalieri di Salomone, i Templari, concepita come
un libro codificato nella pietra, un gigantesco puzzle che soltanto gli ini-
ziati sono in grado di decifrare. Molti hanno ipotizzato che sepolte sotto il
labirinto un tempo ci fossero le ossa di Maria Maddalena. Altri hanno par-
lato addirittura del Santo Graal.»
«Qualcuno ha controllato?» chiese Alice, pentendosene non appena ebbe
formulato la domanda. Tutti la guardarono con aria di disapprovazione.
La guida inarcò le sopracciglia. «Ma certo. In più di una occasione. Ma
nessuno sarà sorpreso di sapere che non hanno trovato nulla. L'ennesima
leggenda.» Esitò. «Vogliamo entrare?»
A disagio, Alice seguì il gruppo fino al portale ovest e si mise in fila per
entrare nella chiesa. All'improvviso tutti abbassarono il tono di voce, ap-
pena l'inconfondibile odore di pietra e incenso creò il suo incanto. Nelle
cappelle laterali e davanti all'ingresso principale, file di tremolanti candele
votive brillavano nella penombra.
Alice si preparò ad avere qualche strana reazione, qualche visione del
passato, come le era capitato a Toulouse e a Carcassonne. Non provò nulla
e dopo un po', si rilassò e cominciò godersi la visita. Dalle ricerche che a-
veva fatto, sapeva che la cattedrale di Chartres aveva la più preziosa colle-
zione di vetrate istoriate del mondo, ma non era preparata all'abbagliante
splendore delle finestre. Un caleidoscopio di colori scintillanti inondava la
chiesa, raffigurando scene di vita quotidiana e della Bibbia. Il rosone e la
vetrata della Vergine Azzurra, quella di Noè che rappresentava il diluvio
universale e gli animali che a due a due salivano sull'arca. Mentre giron-
zolava, Alice tentava di immaginare che aspetto avesse la chiesa quando le
pareti erano affrescate e ricoperte di arazzi, di stoffe orientali e drappi di
seta ricamati di oro zecchino. A quei tempi, il contrasto fra la sontuosità
del tempio del Signore e il mondo al di là del chiostro doveva essere sor-
prendente. Testimonianza, forse, della gloria di Dio in terra.
«E infine,» fece la guida «arriviamo al famoso labirinto scolpito nel pa-
vimento di pietra e formato da undici passaggi. Terminato nel 1200, è il
più grande d'Europa. La parte centrale originale non c'è più da molto tem-
po, ma il resto è intatto. Per i cristiani del Medioevo, il labirinto rappresen-
tava l'opportunità di intraprendere un pellegrinaggio spirituale in luogo di
un effettivo viaggio a Gerusalemme. Di qui, il fatto che i labirinti incisi nei
pavimenti, al contrario di quelli che si trovano sulle pareti di chiese e cat-
tedrali, erano spesso chiamati "Chemin de Jérusalem", ovvero la strada o il
cammino per Gerusalemme. I pellegrini eseguivano tutto il percorso fino
al centro, anche più volte in alcuni casi, simbolo di una crescente intesa e
vicinanza a Dio. I penitenti spesso facevano tutto il percorso in ginocchio,
a volte impiegandoci giorni.»
Alice si avvicinò piano piano, il cuore batteva all'impazzata, solo allora
si rese conto che inconsciamente aveva rimandato quel momento mille
volte.
Questo è il momento.
Tirò un respiro profondo. La simmetria era guastata dalle file di sedie
disposte su ciascun lato della navata centrale, rivolte all'altare, per le pre-
ghiere della sera. Comunque, nonostante conoscesse le dimensioni del la-
birinto per via delle ricerche fatte, Alice restò sorpresa dalla sua grandezza.
Dominava tutta la cattedrale.
Adagio, come gli altri, Alice cominciò a camminare nel labirinto, per-
corse i cerchi che diventavano via via più piccoli, finché non raggiunse il
centro: sembrava quel gioco in cui i bambini devono ripetere tutte le azioni
del capofila.
Non sentì nulla. Nessun brivido lungo la schiena, nessun attimo di illu-
minazione né di metamorfosi. Niente. Si accovacciò e toccò il pavimento.
La pietra era liscia e fredda, ma non le diceva niente.
Alice sorrise in modo sardonico.
Che ti aspettavi?
Non ebbe nemmeno bisogno di prendere il disegno del labirinto dalla
borsa per capire che non c'era niente di interessante lì. Senza far rumore, si
separò dal gruppo e scappò via.

Dopo il caldo intenso del Midi, il delicato sole settentrionale fu un sol-


lievo e Alice ne approfittò per passare qualche ora nel pittoresco centro
storico della città. Cercò il punto in cui Grace e Audric Baillard avevano
posato per la fotografia.
O non esisteva oppure non si trovava nella zona riportata sulla cartina.
Molte strade avevano preso il nome dalle attività commerciali che un tem-
po vi si svolgevano: orologiai, conciatori, scudieri e cartolai, questi ultimi
ricordavano l'importanza di Chartres come grande centro di produzione
della carta e di rilegatura dei libri nella Francia dei secoli dodicesimo e
tredicesimo. Ma di rue des Trois Degrès neanche l'ombra.
Alla fine, Alice tornò al punto di partenza, davanti al portale occidentale
della cattedrale. Si sedette sul muretto appoggiandosi alle sbarre di ferro.
Immediatamente, l'occhio le andò all'angolo della strada che aveva proprio
davanti a sé. Balzò in piedi e andò di corsa a leggere l'insegna sul muro:
RUE DE L'ÉTROIT DEGRÉ, DITE AUSSI RUE DES TROIS DEGRÉS
(DES TROIS MARCHES).
La strada aveva cambiato nome. Con un sorriso, Alice arretrò per veder-
lo meglio e andò a sbattere contro un uomo immerso nella lettura del gior-
nale.
«Pardon» disse, scostandosi.
«No, scusi lei» fece l'uomo, con un gradevole accento dell'East Coast.
«È stata colpa mia. Non stavo guardando dove andavo. Sta bene?»
«Benissimo.»
Alice notò meravigliata che l'uomo la fissava intensamente.
«C'è qualche...»
«Sei Alice, giusto?»
«Sì» rispose diffidente.
«Ma certo, Alice. Ciao» esclamò, passando le dita fra la massa incolta di
capelli castani. «Pazzesco!»
«Mi spiace, ma io...»
«William Franklin» disse e tese la mano. «Will. Ci siamo conosciuti a
Londra, nel novantaquattro o nel novantacinque. Eravamo un bel gruppo.
Tu uscivi con un tizio...come si chiamava... Oliver. Dico bene? Io ero ve-
nuto a trovare mio cugino.»
Alice ebbe una vaga reminescenza di un pomeriggio trascorso in un ap-
partamento sovraffollato, pieno dei compagni di università di Oliver. Le
parve di ricordare un ragazzo americano, affascinante, bello, anche se al
tempo lei aveva occhi solo per Oliver.
Questo ragazzo?
«Hai buona memoria» commentò e gli strinse la mano. «È passato un
mucchio di tempo.»
«Non sei cambiata poi tanto» disse lui con un sorriso. «Allora, come sta
Oliver?»
Alice fece una smorfia. «Non stiamo più insieme.»
«Che peccato» disse. Ci fu un attimo di silenzio, quindi aggiunse: «Chi
sono le persone della foto?».
Alice guardò in basso. Aveva dimenticato di averla in mano.
«Mia zia. L'ho trovata per caso fra le sue cose e, dato che ero qui, ho
pensato di cercare il posto in cui è stata scattata.» Sorrise. «È stato più dif-
ficile di quanto pensassi.»
Will guardò da dietro la spalla di Alice. «E lui?»
«Solo un amico. Uno scrittore.»
Un'altra pausa, sembrava che volessero entrambi continuare la conversa-
zione pur non sapendo bene cosa dire. Will osservò di nuovo la fotografia.
«È una bella donna.»
«Bella? A me sembra piuttosto severa, anche se non posso dirlo. Non
l'ho mai conosciuta.»
«Davvero? Allora come mai te ne vai in giro con una sua foto?»
Alice la rimise nella borsa. «È una storia complicata.»
«Mi piacciono le storie complicate» ridacchiò lui. «Senti...» esitò. «Ti va
di prendere un caffè o che so io? Se non devi andare da nessuna altra par-
te.»
Alice era stupita, ma in realtà aveva avuto la stessa idea.
«Rimorchi sempre così le ragazze?»
«Non sempre» replicò. «Il punto è: tu di solito ci stai?»

Alice aveva l'impressione di guardare la scena dall'esterno. Un uomo e


una donna, che somigliava a lei, entravano in una patisserie vecchio stile
con torte e pasticcini disposti in una lunga vetrinetta.
Non posso credere a quello che sto facendo.
Colori, odori, suoni. I camerieri andavano e venivano dai tavolini, l'aro-
ma intenso di caffè bruciato, il fischio della macchina per montare il latte,
il tintinnio delle forchette sui piattini, tutto era straordinariamente vivace.
E soprattutto Will, il modo in cui sorrideva, in cui girava la testa, in cui le
dita sfioravano la catena d'argento sul collo mentre parlava.
Si sedettero all'aperto. La guglia della cattedrale si vedeva appena sopra
i tetti delle case. Un leggero imbarazzo calò non appena furono seduti,
Cominciarono a parlare all'unisono. Alice scoppiò a ridere, Will chiese
scusa.
Con cautela ed esitazione, cominciarono a raccontare tutto quello che
avevano fatto da quando si erano visti l'ultima volta, dieci anni prima.
«Sembravi del tutto assorto» disse Alice e capovolse il giornale per leg-
gere il titolo. «Quando sei sbucato da dietro l'angolo, intendo.»
Will ridacchiò. «Già, mi dispiace» si scusò. «Il quotidiano locale di soli-
to non è così interessante. Hanno trovato il cadavere di un uomo nel fiume,
in pieno centro. Lo hanno accoltellato alla schiena dopo avergli legato ma-
ni e piedi, la stazione radio locale sta diventando matta. Pensano che si
tratti di qualche rito omicida. Pare che l'episodio sia collegato con la
scomparsa di un giornalista del posto che stava compilando un exposé sul-
le sette religiose segrete.»
Il sorriso svanì dal volto di Alice. «Posso dare uno sguardo?» disse, af-
ferrando il giornale.
«Certo. Fai pure.»
Il senso di angoscia cresceva a mano a mano che leggeva l'elenco delle
sette. Noublesso Véritable. Quel nome aveva un che di familiare.
«Ti senti bene?» Alice alzò lo sguardo e vide che Will la fissava.
«Scusa» fece. «Avevo la testa altrove. Il fatto è che mi sono imbattuta in
qualcosa di simile di recente. La coincidenza mi ha colpito.»
«Coincidenza? Sembra interessante.»
«È una storia lunga.»
«Io non ho fretta» ribatté Will, appoggiò i gomiti sul tavolo e la incorag-
giò con un sorriso.
Dopo essere stata intrappolata nei propri pensieri tanto a lungo, Alice era
allettata dalla possibilità di parlare finalmente con qualcuno. E poi Will
non era proprio un estraneo.
Digli soltanto quello che ti va.
«Ecco, non so se ti sembrerà assurdo» cominciò. «Un paio di mesi fa ho
scoperto di punto in bianco che una zia, di cui non avevo mai sentito parla-
re, era morta e aveva lasciato a me tutto ciò che possedeva, compresa una
casa in Francia.»
«La signora della foto.»
Annuì. «Si chiamava Grace Tanner. Sarei dovuta venire in Francia co-
munque, per far visita a un'amica che stava lavorando a degli scavi archeo-
logici sui Pirenei, così ho deciso di prendere due piccioni con una fava.»
Riprese fiato. «Durante gli scavi è successa una cosa... non voglio tediarti
con i particolari... ma devi sapere che... Be', lascia perdere.» Inspirò. «Ieri,
dopo l'incontro con un avvocato, sono andata a casa di mia zia e ho trovato
alcune cose... una cosa, un disegno che avevo già visto agli scavi.» Ince-
spicò, non riusciva a esprimersi. «Ho trovato anche un libro di un certo
Audric Baillard, che al novantanove per cento dovrebbe essere l'uomo del-
la fotografia.»
«È ancora vivo?»
«A quanto ne so, sì. Non sono riuscita a rintracciarlo.»
«In che rapporti era con tua zia?»
«Non so di preciso. Spero che lui sia in grado di dirmelo. È l'unico col-
legamento che ho con lei. E con tutto il resto.»
Il labirinto, l'albero genealogico, il sogno.
Quando alzò lo sguardo, notò che Will era confuso, ma interessato. «A-
desso sì che ho tutto chiaro» commentò con una risatina.
«Non mi sono spiegata molto bene, in effetti» ammise. «Parliamo di co-
se meno complicate. Non mi hai ancora detto che ci fai a Chartres.»
«Come tutti gli americani che vengono in Francia, cerco di scrivere.»
Alice sorrise. «Di solito non si va a Parigi?»
«Inizialmente sono andato là, ma l'ho trovata troppo, come dire, imper-
sonale... capisci cosa intendo? I miei avevano degli amici qui a Chartres. Il
posto mi è piaciuto e ho finito per rimanerci un bel po'.»
Alice annuì, convinta che lui proseguisse. Invece, tornò su quello che
aveva detto lei poco prima. «Il disegno di cui parlavi» disse, con noncha-
lance. «Quello che hai visto agli scavi e a casa di Grace, che aveva di par-
ticolare?»
Alice esitò. «Si tratta di un labirinto.»
«Allora è per questo che sei venuta a Chartres? Per visitare la cat-
tedrale?»
«Non è proprio lo stesso...» Tornò a essere cauta. «In parte, ma più che
altro spero di rintracciare un'amica. Shelagh. È... possibile che sia a Char-
tres.» Alice frugò nella borsa e passò a Will il pezzo di carta sul quale ave-
va scarabocchiato l'indirizzo. «Ci sono stata poco fa, ma non ho trovato
nessuno. Così ho deciso di fare un giro per la città e di tornarci dopo un'o-
retta.»
Alice notò sconvolta che Will era sbiancato. Sembrava sbalordito.
«Ti senti bene?» gli chiese.
«Perché pensi che la tua amica si trovi in questo posto?» domandò con
voce ferma.
«Non lo so con certezza» rispose, ancora sconcertata dalla tra-
sformazione che il ragazzo aveva subito.
«Si tratta dell'amica che lavorava agli scavi?»
Fece di si con la testa.
«E anche lei ha visto il disegno del labirinto? Come te?»
«Credo di sì, anche se non me lo ha detto. Era troppo ossessionata da
una cosa che avevo trovato e che...» Alice si interruppe, quando Will si al-
zò di scatto.
«Che ti prende?» chiese, agitata dall'espressione sulla sua faccia quando
la prese per mano.
«Vieni con me. C'è una cosa che devi vedere.»

«Dove andiamo?» domandò di nuovo, affrettandosi per stare al passo


con Will.
Poi, voltarono l'angolo e Alice si accorse che erano all'altro capo di rue
du Cheval Blanc. Will si avvicinò a grandi passi alla casa, quindi salì di
corsa per i gradini fino alla porta d'ingresso.
«Sei fuori di testa? E se qualcuno torna a casa?»
«Non succederà.»
«Ma come fai a saperlo?»
Alice guardò stupita Will che estraeva una chiave dalla tasca e apriva la
porta. «Sbrigati. Dobbiamo fare in fretta, prima che ci veda qualcuno.»
«Hai la chiave» esclamò incredula. «Che ne dici di cominciare a dirmi
che diavolo succede?»
Will corse giù dalle scale e le afferrò la mano.
«Qui dentro c'è un'altra versione del tuo labirinto, okay?» sibilò. «Ora, ti
sbrighi?»
E se fosse una trappola?
Dopo tutto quello che era successo, sarebbe stata una pazza a seguirlo.
Era troppo rischioso. Nessuno avrebbe mai saputo che si trovava lì. Ma la
curiosità ebbe la meglio sul buon senso. Alice guardò in faccia Will, impa-
ziente e preoccupata allo stesso tempo.
Decise di concedergli una possibilità e si fidò di lui.

CAPITOLO 55

Alice si ritrovò in un maestoso atrio, più simile a un museo che a una re-
sidenza privata. Will andò dritto a un arazzo che si trovava di fronte alla
porta d'ingresso e lo scostò dalla parete.
«Che fai?»
Lo raggiunse di corsa e vide un minuscolo pomello di ottone incassato
nel rivestimento. Will lo sbatacchiò e lo spinse, quindi si voltò con aria
frustrata.
«Maledizione. È chiusa dall'interno.»
«È una porta?»
«Esatto.»
«E il labirinto che hai visto si trova lì dentro?»
Will annuì. «Si scende una rampa di scale e si percorre un corridoio, che
porta in una stanza piuttosto misteriosa. Ci sono simboli egizi sul muro e
una tomba con il disegno del labirinto, proprio come quello che hai de-
scritto tu, inciso sulla superficie. Adesso...» si interruppe. «L'articolo sul
giornale, il fatto che la tua amica avesse questo indirizzo...»
«Stai facendo un mucchio di congetture basate sul nulla» osservò Alice.
Will lasciò cadere il lembo dell'arazzo e si avviò in una stanza dalla par-
te opposta dell'ingresso. Dopo un istante di esitazione, Alice lo seguì.
«Cosa fai?» sibilò quando Will aprì la porta.
Entrare nella biblioteca fu come fare un tuffo nel passato. Era una stanza
austera, con l'aspetto di un circolo per soli uomini. Le persiane erano semi-
chiuse e sottili fasci di luce gialla si proiettavano sulla moquette simili a
strisce di stoffa dorata. C'era un'atmosfera di durevolezza, un odore di vec-
chio e di cera per mobili.
Gli scaffali andavano dal soffitto fino a terra lungo tre lati della stanza,
con scalette scorrevoli che consentivano di arrivare ai libri più alti. Will
sapeva esattamente dove dirigersi. C'era una sezione dedicata ai testi su
Chartres, volumi illustrati che erano collocati accanto a più seri saggi di
architettura e storia sociale.
Mentre controllava ansiosa la porta, con il cuore in gola, Alice osservò
Will tirare fuori un libro con uno stemma gentilizio stampato in rilievo sul-
la copertina e portarlo sul tavolo. Alle sue spalle, Alice lo guardò sfogliare
le pagine. Lucide fotografie a colori, vecchie mappe di Chartres, disegni al
tratto e a inchiostro si susseguirono finché Will non raggiunse la parte che
gli interessava.
«Che cos'è?»
«Un libro su casa de l'Oradore. Questa casa» spiegò. «La famiglia vive
qui da quattrocento anni, da quando è stata costruita. Ci sono planimetrie e
prospetti di ogni piano della casa.»
Will diede una scorsa alle pagine fino a quando non arrivò a quella che
cercava, «Ecco» esclamò, girando il libro per farlo vedere meglio ad Alice.
«È questo?»
Alice restò senza fiato. «Oh, Dio» sussurrò.
Era la copia esatta del suo labirinto.

Il rumore della porta d'ingresso che sbatteva li fece trasalire entrambi.


«Will, la porta! L'abbiamo lasciata aperta!»
Udì voci soffocate di un uomo e una donna provenire dall'atrio.
«Vengono qui» sibilò Alice.
Will le mise in mano il libro. «Svelta» sussurrò e indicò un grosso diva-
no a tre posti che si trovava sotto la finestra. «Lascia fare a me.»
Raccolse la borsa, corse al divano e si infilò nello spazio tra il muro e la
spalliera. C'era un odore penetrante di pelle screpolata e fumo di sigari
stantio, e la polvere le solleticava il naso. Sentì Will richiudere la libreria
con un colpo sordo e quindi posizionarsi al centro della stanza proprio nel
momento in cui la porta della biblioteca si apriva con un cigolio.
«Qu'est-ce que vous foutez là?»
Piegando un po' la testa, Alice riuscì a scorgere l'immagine dei due ri-
flessa nelle ante di vetro della libreria. Lui era giovane e alto, più o meno
con la stessa corporatura di Will, solo più spigoloso. Capelli ricci e neri,
fronte alta e naso importante. Alice aggrottò la fronte. Le ricordava qual-
cuno.
«François-Baptiste. Ciao» replicò Will. Persino alle orecchie di Alice il
suo tono spensierato suonò fasullo.
«Che cazzo ci fai qua?» ripeté in inglese.
Will mostrò per un secondo la rivista che aveva preso da sopra il tavolo.
«Sono solo passato a cercare qualcosa da leggere.»
François-Baptiste lanciò uno sguardo al titolo ed emise una risata secca.
«Non mi sembra il tuo genere.»
«Ci sono lati di me che non conosci.»
Il ragazzo si avvicinò a Will. «Non resisterai ancora molto» sussurrò in
tono aspro. «Si stuferà di te e ti caccerà a calci come tutti gli altri. Non sa-
pevi nemmeno che sarebbe andata fuori città, non è vero?»
«Quello che succede tra me e lei non è affar tuo, perciò se non ti dispia-
ce...»
François-Baptiste lo ostacolò. «Come mai tanta fretta?»
«Non provocarmi, François-Baptiste, ti avverto.»
François-Baptiste mise una mano contro il petto di Will per non farlo
passare.
Will spinse via la mano del ragazzo. «Non toccarmi.»
«Perché, altrimenti cosa farai?»
«Ça suffit.»
Tutti e due si voltarono di scatto. Alice si allungò per vedere meglio, ma
la donna non si era addentrata abbastanza.
«Che cosa succede?» domandò. «Bisticciate come due bambini. Franç-
ois-Baptiste? William?»
«Rien, maman. Je lui demandais...»
Will restò allibito quando capì che era lei a essere rientrata insieme a
François-Baptiste. «Marie-Cécile. Non avevo idea che...» balbettò. «Non ti
aspettavo così presto.»
La donna fece qualche passo avanti e Alice riuscì a vederla bene in viso.
Non può essere.
Quel giorno era vestita in modo meno formale dell'ultima volta che l'a-
veva vista, con una gonna longuette color ocra e una giacca abbinata. I ca-
pelli erano sciolti intorno al viso, anziché tirati indietro con una fascia.
Ma non c'era ombra di dubbio. Era la stessa donna che Alice aveva visto
a Carcassonne, fuori dall'Hôtel de la Cité. Quella era Marie-Cécile de l'O-
radore.
Guardò prima la madre e poi il figlio. La somiglianza fisica era impres-
sionante. Lo stesso profilo, lo stesso atteggiamento autoritario. La gelosia
di François-Baptiste e la rivalità fra lui e Will ora era spiegata.
«In effetti, però, mio figlio non ha tutti torti» diceva Marie-Cécile. «Che
ci fai qui dentro?»
«Stavo... stavo solo cercando qualcosa di diverso da leggere. Ero... triste,
senza di te.»
Alice arricciò il naso. Non era sembrato per nulla convincente.
«Triste?» ripeté lei. «Dalla tua faccia non si direbbe, Will.»
Marie-Cécile si sporse in avanti e baciò Will sulle labbra. Alice sentì un
velo di imbarazzo discendere sulla stanza. Un gesto intimo non gradito, in
quel momento. Vide Will stringere i pugni.
Gli dà fastidio che io veda.
Il pensiero, per quanto sconcertante, le passò di mente in un batter d'oc-
chio.
Marie-Cécile lo lasciò, con una punta di soddisfazione sul viso.
«Ci vediamo più tardi, Will. Ora, purtroppo, io e François-Baptiste ab-
biamo una piccola faccenda da sbrigare. Desolée. Perciò se vuoi scusar-
ci...»
«In questa stanza?»
Troppo veloce. Troppo scontato.
Marie-Cécile strinse gli occhi. «Hai qualcosa in contrario?»
«Niente affatto» rispose svelto.
«Maman. Il est dix-huit heures déja.»
«J'arrive» replicò la madre, continuando a guardare Will in modo so-
spettoso.
«Mais, je ne...»
«Va le chercher» scattò. Vai a prenderlo.
Alice sentì François-Baptiste lasciare la stanza furioso, quindi vide Ma-
rie-Cécile mettere le braccia intorno alla vita di Will e attirarlo a sé. Le un-
ghie fiammanti risaltavano sul bianco della maglietta di lui. Alice voleva
distogliere lo sguardo ma non ci riusciva.
«Tiens» fece Marie-Cécile. «A bientôt.»
«Non vieni?» chiese Will. Si avvertì il panico nella sua voce, quando si
rese conto di dover lasciare Alice intrappolata nella biblioteca.
«Toute à l'heure.» Più tardi.
Alice non poteva fare niente. Soltanto sentire i passi di Will che si allon-
tanavano.

I due uomini si incrociarono lungo il corridoio.


«Ecco» disse François-Baptiste alla madre, porgendole una copia del
giornale che Will stava leggendo poco prima.
«Come hanno fatto a impadronirsi della storia così presto?»
«Non ne ho idea» rispose scontroso. «Authié, suppongo.»
Alice si irrigidì.
Lo stesso Authié?
«Lo sai per certo, François-Baptiste?» chiese Marie-Cécile,
«Be', qualcuno deve aver parlato. La polizia ha mandato i sommozzatori
nell'Eure martedì, proprio nel punto esatto. Sapevano cosa cercare e dove
cercarlo. Pensaci. Prima di tutto chi è stato ad affermare che a Chartres c'e-
ra una spia? Authié. Ha mai fornito prove del fatto che Tavernier avesse
spifferato tutto alla giornalista?»
«Tavernier?»
«Il tizio del fiume» rispose in tono sgarbato.
«Ah, certo.» Marie-Cécile accese una sigaretta. «Il servizio nomina in
modo esplicito la Noublesso Véritable.»
«Potrebbe averlo rivelato lo stesso Authié.»
«Finché non esiste nulla che possa ricondurre Tavernier a questa casa,
non c'è problema» replicò, sembrava annoiata. «Ci sono novità?»
«Ho fatto quello che mi hai detto.»
«E hai preparato tutto per sabato?»
«Sì,» le assicurò «ma non capisco perché ci diamo tanto da fare, se non
abbiamo né l'anello né il libro.»
Le labbra rosse di Marie-Cécile si piegarono in un sorriso. «Be', vedi, è
per questo che Authié ci serve ancora, nonostante sia chiaro che non ti fidi
di lui» spiegò con voce melliflua. «Authié afferma di avere, miracle, recu-
perato l'anello.»
«Perché diavolo non me lo hai detto prima?» chiese furibondo François-
Baptiste.
«Te lo sto dicendo adesso» ribatté. «Dice che i suoi uomini lo hanno ru-
bato dalla camera d'albergo dell'inglese, la scorsa notte a Carcassonne.»
Alice si sentì gelare. È impossibile.
«Pensi che menta?»
«Non essere sciocco, François-Baptiste» scattò. «È ovvio che mente. Se
lo avesse davvero preso la dottoressa Tanner, Authié non ci avrebbe im-
piegato quattro giorni per recuperarlo. Inoltre, ho fatto perquisire il suo
appartamento e il suo ufficio.»
«Allora...»
Lo interruppe. «Se, e dico se, Authié è in possesso dell'anello, anche se
ne dubito, allora o lo ha preso dalla nonna di Biau oppure lo ha sempre a-
vuto. È possibile che lo abbia preso di persona dalla caverna.»
«Ma perché mettersi nei guai?»
Il telefono squillò in modo invadente. Alice sentì il cuore balzarle in go-
la.
François-Baptiste guardò la madre.
«Rispondi» comandò.
Fece come gli aveva ordinato. «Oui.»
Alice non osava quasi respirare, per paura di essere scoperta.
«Oui, je comprends. Attends.» Coprì la cornetta con la mano. «È la O-
'Donnell. Dice che ha il libro.»
«Chiedile perché non si è tenuta in contatto.»
Annuì. «Dove è stata da lunedì?» Ascoltò. «Qualcun altro sa che ce lo
ha lei?» Ascoltò. «Okay. A vingt-deux heures. Demain soir.»
Rimise a posto il ricevitore.
«Sei sicuro che fosse lei?»
«Era la sua voce. Conosceva gli accordi.»
«Sono certa che lui fosse in ascolto.»
«Che vuoi dire?» chiese perplesso. «Chi?»
«Per la miseria, chi secondo te?» ribatté seccata. «Authié naturalmente.»
«Io...»
«Shelagh O'Donnell sparisce per giorni. E non appena mi tolgo dai piedi
e torno a Chartres, eccola che riappare! Prima l'anello, ora il libro.»
A quel punto, François-Baptiste perse la pazienza. «Ma lo hai difeso fi-
no a un minuto fa!» gridò. «Hai accusato me di saltare alle conclusioni. Se
sapevi che agisce contro di noi, perché non me lo hai detto, invece di trat-
tarmi come uno stupido? E soprattutto perchè non fai niente per fermarlo?
Ti sei almeno chiesta come mai è tanto interessato ad avere i libri? Che ha
intenzione di farne? Venderli al migliore offerente?»
«So esattamente perché vuole i libri» rispose con voce gelida.
«Perché devi sempre comportarti così? Mi umili di continuo!»
«La discussione è finita» lo informò, «Partiremo domani. Arriveremo
abbastanza presto per il tuo appuntamento con la O'Donnell e io avrò il
tempo di prepararmi. La cerimonia si terrà a mezzanotte, come previsto.»
«Vuoi che la incontri?» chiese incredulo.
«Be', mi pare ovvio» replicò. Per la prima volta, Alice percepì una nota
di emozione nella voce di quella donna. «Voglio il libro, François-
Baptiste.»
«E se non ce l'ha lui?»
«Non credo che si prenderebbe tanto disturbo se così non fosse.»
Alice sentì François-Baptiste attraversare la stanza e aprire la porta.
«E che mi dici di quell'americano?» chiese, infervorandosi di nuovo.
«Non puoi lasciarlo qui a...»
«Lascia che mi occupi io di lui. Will, come tante altre cose, non è un af-
fare che ti riguarda.»

Will era nascosto nell'armadio del corridoio che portava in cucina.


Era angusto e puzzava di giubbotti di pelle, stivali vecchi e giacche ince-
rate, ma era l'unico posto che gli consentiva di tenere d'occhio le porte del-
la biblioteca e dello studio. Vide François-Baptiste uscire per primo dalla
stanza ed entrare nello studio, seguito un attimo dopo da Marie-Cécile.
Aspettò che la pesante porta si richiudesse, quindi uscì svelto dall'armadio
e andò di corsa nella biblioteca.
«Alice» sussurrò. «Presto. Devo farti uscire di qui.» Ci fu un lieve rumo-
re e subito dopo lei sbucò da dietro il divano. «Mi dispiace moltissimo»
disse Will. «È tutta colpa mia. Stai bene?»
Annuì, ma era bianca come un cadavere.
Will la prese per mano, ma Alice si rifiutò di seguirlo.
«Cosa c'è sotto a questa faccenda, Will? Tu abiti qui. Conosci questa
gente eppure sei pronto a tradirli per aiutare un'estranea. Non ha senso.»
Voleva dirle che non era un'estranea, ma si trattenne.
«Io...»
Non sapeva come spiegarsi. La stanza sembrò dissolversi. Will vedeva
soltanto il viso a cuore di Alice e i suoi inflessibili occhi castani che sem-
bravano guardarlo dritto in fondo al cuore.
«Perché non mi hai detto che tu... che tu e lei... che tu abiti qui?»
Will non riusciva a sostenere il suo sguardo. Alice lo fissò ancora un i-
stante, quindi uscì in fretta dalla stanza, lasciandolo dietro di sé.
«Che hai intenzione di fare adesso?» chiese lui in tono disperato.
«Be', ho scoperto in che modo Shelagh è legata a queste persone» rispo-
se. «Lavora per loro.»
«Per loro?» fece lui sconcertato, mentre apriva la porta di casa e sgat-
taiolavano fuori. «Che vuoi dire?»
«Non si trova qui, però. Anche madame de l'Oradore e il figlio la stanno
cercando. Da quanto ho sentito, credo che la tengano prigioniera da qual-
che parte nei dintorni di Foix.»
A un tratto, Alice si voltò terrorizzata verso le scale.
«Will, ho lasciato la borsa nella biblioteca» disse in preda al panico.
«Dietro il divano, con il libro.»
Più di qualunque altra cosa, Will aveva voglia di baciarla. Il momento
non poteva essere dei peggiori, erano coinvolti in una situazione assurda,
Alice nemmeno si fidava di lui. Eppure, gli sembrava che andasse tutto
bene.
Senza riflettere, fece per sfiorarle il viso. Aveva l'impressione di sapere
già quanto fosse liscia e fresca la sua pelle, quasi avesse fatto quel gesto un
migliaio di volte prima di allora. Ma il ricordo della diffidenza mostrata da
Alice al caffè gli fece cambiare idea e si fermò, con la mano a un pelo dal-
la guancia.
«Perdonami» cominciò, come se lei fosse in grado di leggergli nel pen-
siero. Alice lo fissò, poi un sorriso comparve sul viso tirato e ansioso.
«Non volevo importunarti» balbettò Will. «È che...»
«Non importa» lo rassicurò con dolcezza.
Will tirò un sospiro di sollievo. Sapeva che non era così. Importava più
di qualunque altra cosa al mondo, ma perlomeno non era arrabbiata con
lui.
«Will» fece Alice, stavolta in tono un po' più severo. «La borsa? C'è tut-
to lì dentro. Tutti i miei appunti.»
«Sì, certo» disse subito. «Mi dispiace. Te la riprenderò io. E te la porte-
rò.» Cercò di concentrarsi. «Dove alloggi?»
«Hôtel Petit Monarque. Place des Epars.»
«Perfetto» fece, e corse verso la scalinata. «Dammi mezz'ora.»

Will la guardò allontanarsi, dopodiché rientrò in casa. Da sotto la porta


dello studio filtrava un fascio di luce.
La porta si aprì all'improvviso. Con un balzo, Will si nascose tra questa
e il muro. François-Baptiste uscì e si avviò in cucina. Will udì la porta del
corridoio aprirsi e richiudersi con un rumore sordo, poi fu di nuovo silen-
zio.
Accostò il viso alla fessura e scorse Marie-Cécile. Era seduta alla scri-
vania, guardava qualcosa, qualcosa che luccicava e rifletteva la luce quan-
do lo muoveva.
Will si dimenticò della sua missione mentre osservava Marie-Cécile al-
zarsi e togliere uno dei dipinti che erano appesi alla parete dietro di lei. Era
una tela dorata, con brillanti macchie di colore, rappresentava dei soldati
francesi intenti a fissare i pilastri crollati e le rovine dei palazzi dell'antico
Egitto. Intenti a fissare le sabbie del tempo, 1799. Era quello il titolo, si
rammentò.
Sulla parete, nel punto in cui si trovava il quadro, c'era uno sportellino di
metallo con accanto una tastiera elettronica. Marie-Cécile digitò sei cifre.
Ci fu uno scatto secco e la combinazione fece aprire lo sportellino. Dalla
cassaforte, estrasse due astucci neri e li appoggiò con cura sulla scrivania.
Will si sistemò meglio, moriva dalla curiosità di vedere cosa contenessero.
Era talmente preso che non sentì i passi alle sue spalle.
«Non muoverti.»
«François-Baptiste, io...»
Will sentì la fredda bocca di una pistola puntata contro la tempia.
«E metti le mani dove posso vederle.»
Cercò di voltarsi, ma François-Baptiste lo afferrò per il collo e lo sbatté
con la faccia contro il muro.
«Qu'est-ce qui se passe?» gridò Marie-Cécile,
François-Baptiste lo colpì un'altra volta.
«Je mon occupe» disse. Tutto sotto controllo.

Alice guardò di nuovo l'orologio.


Non verrà.
Era nell'atrio dell'albergo, fissava le porte a vetri come se per magia po-
tesse far comparire Will dal nulla. Era passata quasi un'ora da quando lo
aveva lasciato in rue du Cheval Blanc. Non sapeva cosa fare. Il portafogli,
il telefono, le chiavi della macchina erano tutti nelle tasche della giacca. Il
resto si trovava nello zaino. Il suo nome, il suo indirizzo.
Non ha importanza. Vattene di qui.
Più aspettava e più cominciava a dubitare delle intenzioni di Will. Il fat-
to che fosse apparso all'improvviso. Alice ripercorse nella mente l'intero
svolgimento del loro incontro.
Era stata davvero una pura coincidenza a farli imbattere l'uno nell'altra
in quel modo? Non aveva detto ad anima viva dove fosse diretta.
Allora perché non arriva?
Alle otto e mezza, Alice decise che non poteva più aspettare. Spiegò che
la stanza in realtà non le occorreva più, scarabocchiò un messaggio per
Will, nel caso si fosse presentato, in cui lasciava il suo numero di telefono,
quindi se ne andò.
Buttò la giacca sul sedile del passeggero e notò un angolo della busta
che sporgeva dalla tasca. La lettera che le avevano recapitato in albergo; se
ne era completamente dimenticata. La tirò fuori e la appoggiò sul cruscotto
per leggerla quando si fosse fermata per fare una sosta.
Scese la sera, mentre Alice guidava verso sud. I fari delle auto che arri-
vavano dalla direzione opposta l'abbagliavano. Alberi e cespugli saltavano
fuori dall'oscurità come spettri. Orléans, Poitiers, Bordeaux... i cartelli le
passavano accanto fulminei.
Al riparo nel suo microcosmo, Alice si pose le stesse domande per ore.
Ogni volta si dava una risposta differente.
Perché? Per ottenere informazioni. Gliene aveva fornite di sicuro in ab-
bondanza. Tutti gli appunti, i disegni e la fotografia di Grace e Baillard.
Ti aveva promesso di mostrarti la camera del labirinto.
Non aveva visto un bel niente, invece. A parte la figura su un libro.
Scosse il capo. Non voleva crederci.
Perché l'aveva aiutata a scappare allora? Perché aveva ottenuto ciò che
voleva, o magari ciò che madame de l'Oradore voleva.
Perché così potranno seguirti.

CAPITOLO 56

CARCASSONA
Agost 1209
All'alba di lunedì tre agosto, i francesi attaccarono Sant-Vicens,
Alaïs si arrampicò sulle scale della Tour du Major per raggiungere il pa-
dre e osservare lo scontro dagli spalti merlati. Cercò Guilhem nella mi-
schia, ma non riuscì a vederlo.
In quel momento, sopra al clangore delle spade e alle grida di guerra dei
soldati che assaltavano le basse mura difensive, le sembrò di sentire un
canto venire dalla collina di Gravèta.

«Veni creator spiritus


Mentes tuorum visita!»

«I preti» disse Alaïs atterrita. «Invocano Dio mentre vengono a massa-


crarci.»
Il sobborgo cominciò a bruciare. Mentre il fumo saliva in volute verso il
cielo, dietro le basse mura persone e animali fuggivano in preda al panico.
Gli arpioni vennero lanciati sopra ai parapetti in modo così rapido che i
difensori non riuscirono a fermarli. Dozzine di scale da assedio furono in-
nalzate contro le mura. La guarnigione respinse giù i nemici e diede loro
fuoco, ma alcuni riuscirono a mantenere la postazione. I soldati della fante-
ria francese brulicavano come formiche. Più li respingevano e più sembra-
va che aumentassero.
Ai piedi delle fortificazioni, da entrambi i lati, i feriti e i morti venivano
ammassati l'uno sopra all'altro, come legna da ardere. La pila diventava più
alta ogni ora che passava.
I crociati puntarono una catapulta e cominciarono a bombardare le forti-
ficazioni. I tonfi scossero Sant-Vicens fino alle fondamenta, inesorabili,
implacabili nella tempesta di frecce e proiettili che pioveva dall'alto.
Le mura cominciarono a crollare.
«Sono passati» gridò Alaïs. «Hanno aperto una breccia nelle mura!»
Il visconte Trencavel e i suoi uomini li aspettavano pronti. Brandirono
spade e asce e, affiancati per due o per tre, attaccarono gli assedianti. I
massicci zoccoli dei cavalli da guerra calpestavano tutto ciò che trovavano
sulla strada, con i pesanti piedi ferrati fracassavano crani quasi fossero gu-
sci vuoti e schiacciavano membra riducendole in una poltiglia di pelle,
sangue e ossa. Strada dopo strada, la battaglia si propagò nella città e si
avvicinò sempre di più alle mura della Cité. Alaïs scorse un gruppo di abi-
tanti che attraverso la Porte de Rodez si riversavano terrorizzati nella Cité,
per sfuggire alla violenza dello scontro. Vecchi, infermi, donne, bambini.
Chiunque fosse fisicamente idoneo era dotato di un'arma e combatteva al
fianco dei soldati della guarnigione. Alcuni furono abbattuti all'istante, non
potendo le clave competere con le spade dei crociati.
I difensori combatterono con valore, ma i nemici li superavano di nume-
ro con un rapporto di dieci a uno. Come una mareggiata che si abbatte im-
provvisa sulla riva, i crociati fecero irruzione, si aprirono un varco nelle
fortificazioni e demolirono le mura in alcuni punti.
Trencavel e gli chevaliers lottarono con tutte le loro forze per non perde-
re il controllo sul fiume, ma fu tutto vano.
Suonò la ritirata.
Con le urla trionfanti dei francesi in sottofondo, i pesanti cancelli della
Porte de Rodez si aprirono per consentire ai superstiti l'accesso nella Cité.
Mentre Trencavel guidava per le strade lo stuolo di sopravvissuti sconfitti
che procedeva in fila indiana verso lo Château Comtal, Alaïs guardava i-
norridita la scena di devastazione e sconfitta che aveva sotto gli occhi, A-
veva visto la morte diverse volte, ma mai a quel livello. Si sentiva infettata
dalla realtà della guerra, da quello spreco assurdo.
Anche ingannata. Ora capiva quanto fossero false le chansons à gestes
che tanto aveva amato durante l'infanzia. Non vi era nobiltà alcuna nella
guerra.
C'era soltanto morte.
Alaïs scese dagli spalti merlati, attraversò la corte e si unì alle altre don-
ne che andavano ad aspettare i mariti ai cancelli, pregando che Guilhem
fosse fra loro. Fa' che torni sano e salvo.
Finalmente, udì il rumore degli zoccoli sul ponte. Alaïs lo vide subito e
il cuore le balzò in petto. Aveva la faccia e l'armatura sporche di sangue e
cenere, gli occhi che riflettevano la ferocia della battaglia, ma non era feri-
to.
«Vostro marito si è battuto con ardore, dama Alaïs» le disse il visconte
Trencavel, vedendola lì. «Ne ha abbattuti molti e salvati altrettanti. Gli
siamo grati per la sua destrezza e il suo coraggio.» Alaïs arrossì. «Ditemi,
dov'è vostro padre?»
Lei indicò l'angolo nord-est della corte. «Abbiamo assistito allo scontro
dalle ambans, messire.»
Guilhem intanto era smontato da cavallo e aveva lasciato le redini al suo
écuyer.
Alaïs si avvicinò timida al marito, non sapeva come l'avrebbe accolta.
«Messire.»
Guilhem prese la mano candida della moglie e la portò alle labbra.
«Thierry è stato colpito» la informò con voce cupa. «Lo stanno trasportan-
do qui in questo momento. Ha riportato ferite molto gravi.»
«Messire, sono addolorata.»
«Era come un fratello per me,» continuò «e anche Alzeu. Abbiamo quasi
la stessa età. Siamo cresciuti insieme, abbiamo faticato per comprare u-
sberghi e spade. Ci hanno nominati cavalieri lo stesso giorno.»
«Lo so» fece Alaïs con dolcezza, accostando la testa del marito alla sua.
«Vieni, lascia che ti aiuti, poi farò tutto il possibile per Thierry.»
Vide che Guilhem aveva gli occhi velati di lacrime. Si affrettò, poiché
sapeva che lui non voleva che lo vedesse piangere. «Andiamo, Guilhem»
lo esortò in tono amorevole. «Portami da lui.»

Thierry era stato portato nella Sala Grande insieme ai feriti più gravi. Le
file di uomini moribondi o feriti erano tre. Alaïs e le altre donne fecero ciò
che potevano. Con i capelli legati in una treccia sopra la spalla, sembrava
poco più che una bambina.
Mentre le ore passavano, l'aria in quella stanza chiusa diventava sempre
più viziata e le mosche più numerose. Per la maggior parte del tempo, Ala-
ïs e le compagne lavorarono in silenzio e con salda determinazione, poiché
sapevano che la tregua prima dell'attacco successivo sarebbe durata poco. I
preti camminavano fra le file di soldati feriti e morenti, ascoltavano le con-
fessioni, davano l'estrema unzione. Travestiti da preti cattolici, due parfaits
amministravano il consolament ai credenti catari.
Le ferite di Thierry erano profonde. Era stato colpito più volte. La cavi-
glia era rotta e una lancia gli aveva perforato la coscia, frantumando l'osso
all'interno. Alaïs sapeva che aveva perso troppo sangue, ma per amore di
Guilhem, fece tutto il possibile. Riscaldò un decotto di radici e foglie di
consolida nella cera bollente e, quando si fu raffreddato, ne fece un impac-
co.
Lasciò Guilhem a vegliarlo e rivolse l'attenzione a coloro che avevano
maggiori possibilità di sopravvivere. Sciolse radici di angelica in polvere
nell'acqua di cardo e con l'aiuto degli sguatteri della cucina, che portavano
il liquido nei secchi, somministrò la medicina a chiunque fosse in grado di
ingoiarla. Se riusciva a frenare l'infezione e a mantenere puro il sangue, le
ferite forse sarebbero guarite.
Tornava da Thierry ogni volta che poteva, per cambiare le bende, ma era
evidente che non aveva speranze. Aveva perso conoscenza e la pelle aveva
preso il pallore livido della morte. Posò la mano sulla spalla di Guilhem.
«Mi dispiace» sussurrò. «Non resisterà ancora per molto.»
Guilhem si limitò ad annuire.
Alaïs si fece strada verso l'altro capo della sala. Quando la vide passare,
un giovane chevalier, di poco più grande di lei, urlò. Alaïs si fermò e si in-
ginocchiò accanto al ragazzo. Il volto del fanciullo era disfatto dal dolore e
dalla confusione, le labbra erano screpolate e gli occhi, che dovevano esse-
re marroni, erano tormentati dalla paura.
«Sss» mormorò. «Non hai nessuno?»
Il ragazzo scosse il capo con fatica. Alaïs gli posò la mano sulla fronte e
sollevò il telo con cui gli avevano coperto il braccio che teneva lo scudo.
Lo lasciò cadere immediatamente. La spalla del ragazzo era spappolata.
Frammenti bianchi di osso sporgevano dalla pelle lacerata, come relitti
nella bassa marea. Aveva uno squarcio sul fianco. Il sangue sgorgava in-
cessantemente dalla ferita e creava una pozza intorno a lui.
La mano destra era immobile sull'impugnatura della spada. Alaïs cercò
di fargli lasciare la presa, ma le dita rigide non la mollarono. Strappò un
brandello di stoffa dalla gonna e tamponò la profonda ferita. Da una fiala
che aveva nella borsa, prese una tintura di valeriana e ne lasciò cadere due
gocce sulle labbra del ragazzo, per alleviare il dolore del trapasso. Non c'e-
ra altro da fare.
La morte fu crudele. Arrivò a poco a poco. Un po' alla volta, il rantolo
nel petto divenne più forte, a mano a mano che il respiro si faceva più af-
fannoso. Quando gli si scurì la vista, il ragazzo urlò in preda al terrore. A-
laïs restò con lui, cantò e gli accarezzò la fronte finché l'anima non abban-
donò il corpo,
«Possa Dio accogliere la tua anima» sussurrò e chiuse gli occhi al gio-
vane chevalier. Gli coprì il volto e passò altrove.
Alaïs lavorò tutto il giorno, spalmò unguenti e medicò ferite finché non
ebbe gli occhi che bruciavano e le mani striate di sangue. Alla fine della
giornata, la luce della sera filtrò attraverso le alte finestre della Sala Gran-
de. I morti erano stati portati via, I vivi stavano bene, per quanto le ferite lo
permettessero.
Era sfinita, ma il ricordo della notte precedente, trascorsa di nuovo fra le
braccia di Guilhem, le dava forza. Le facevano male le ossa e aveva la
schiena indolenzita per essere stata sempre chinata o accovacciata, ma le
sembrava che ormai non avesse più importanza.
Approfittando della frenetica attività nello Château Comtal, Oriane sgat-
taiolò in camera sua e aspettò il suo informatore.
«Era ora» scattò. «Dimmi cos'hai scoperto.»
«L'ebreo è morto prima che riuscissimo a sapere qualcosa, ma il mio si-
gnore è convinto che abbia già consegnato il libro in custodia a vostro pa-
dre.»
Oriane accennò un sorriso, ma non disse nulla. Non aveva confidato a
nessuno cosa aveva trovato cucito nella mantella di Alaïs.
«Che mi dici di Esclarmonde de Servian?»
«È stata coraggiosa, ma alla fine ha confessato dove potevo trovare il li-
bro.»
Gli occhi verdi di Oriane si illuminarono. «E lo hai portato?»
«Non ancora.»
«Ma si trova dentro la Ciutat? Il signor Evreux lo sa?»
«Confida che voi, signora, gli forniate tale informazione.»
Oriane ci pensò un secondo. «La vecchia è morta? E il ragazzo? Può an-
cora interferire con i nostri piani? Può avvisare mio padre?»
L'informatore fece un sorriso tirato. «La donna è morta. Il marmocchio
ci è sfuggito, ma in ogni caso non credo che potrà fare grossi danni. Appe-
na lo trovo, lo ammazzo.»
Oriane annuì. «E hai detto al signor Evreux del mio... interesse?»
«Sì, Signora. Si è sentito onorato dalla vostra disponibilità.»
«E le mie condizioni? Mi assicurerà un'uscita sicura dalla Ciutat?»
«Sì, a patto che gli consegniate i libri, signora.»
Oriane si alzò e cominciò a camminare. «Bene, molto bene. Puoi occu-
parti tu di mio marito?»
«Senza problemi, signora, basta che mi diciate dove lo troverò all'ora
prestabilita.» Esitò. «Le costerà qualcosa in più rispetto all'altra volta, pe-
rò. I rischi sono molto più alti, persino in questo trambusto. È l'escrivan
del visconte Trencavel. Un uomo di un certo rango.»
«Lo so benissimo» replicò con voce gelida. «Quanto?»
«Tre volte quello che ha pagato per Raoul» rispose,
«È assurdo!» esclamò subito. «Non riuscirò mai a mettere le mani su
una tale somma di denaro.»
«Purtroppo, signora, questo è il prezzo.»
«E il libro?»
Stavolta, l'uomo sorrise sul serio. «Per quello, vi sono delle trattative a
parte, signora» disse.
CAPITOLO 57

I bombardamenti ripresero e andarono avanti tutta la notte. Il rumore di


dardi, massi e pietre, che sollevavano nuvole di polvere nell'aria ogni volta
che venivano scagliati, era incessante.
Dalla finestra, Alaïs vide che le abitazioni sulle pianure erano state ridot-
te in macerie fumanti. Un'orribile nuvola si librava sulle cime degli alberi
come foschia nera intrappolata fra i rami. Alcuni abitanti erano avanzati al-
lo scoperto fino alle macerie di Sant-Vicens e da lì avevano cercato asilo
nella Cité. Ma molti erano stati uccisi durante la fuga.
Nella cappella, le candele ardevano sull'altare.

All'alba di martedì quattro agosto, il visconte Trencavel e Bertrand Pel-


letier salirono di nuovo sui bastioni.
L'accampamento francese era avvolto dalla nebbia mattutina che si alza-
va dal fiume. Tende, stalle, animali, padiglioni, un'intera città sembrava
essersi insediata. Pelletier guardò in alto. Sarebbe stata un'altra giornata
torrida. Il fatto di aver perso il controllo del fiume nella fase iniziale del-
l'assedio era terribile. Senz'acqua non avrebbero potuto resistere molto a
lungo. Se non li avessero uccisi i francesi, lo avrebbe fatto la sete.
Il giorno prima, Alaïs aveva riferito al padre che in giro si parlava di una
prima manifestazione di epidemia, riscontrata nel quartier vicino alla Porte
de Rodez, la quale aveva già colpito gran parte dei profughi di Sant-
Vicens. Pelletier era andato a vedere di persona e, sebbene il console del
quartier lo avesse negato, temeva che Alaïs avesse ragione.
«Sei molto pensieroso, amico mio.»
Bertrand si voltò verso il visconte. «Perdonatemi, messire.»
Trencavel gli fece cenno di lasciar perdere. «Guardali, Bertrand! Sono
troppi perché possiamo sconfiggerli... e senza acqua...»
«Dicono che Pietro II d'Aragona sia a un solo giorno di cammino da
qui» lo informò Pelletier. «Voi siete sub vassallo, messire. È suo dovere
venire in vostro aiuto.»
Pelletier sapeva che qualunque appello sarebbe stato inutile. Pietro era
un fedele cattolico, nonché cognato di Raymond VI, conte di Toulouse;
malgrado non corresse buon sangue fra i due, il legame storico fra il casato
di Toulouse e quello di Aragona era forte.
«Le iniziative diplomatiche del re sono strettamente collegate al destino
di Carcassona, messire. Egli non desidera certo che il Pays d'Oc cada sotto
il controllo francese.» Esitò. «Pierre-Roger de Cabaret e gli altri vostri al-
leati sostengono questa linea di azione.»
Trencavel appoggiò le mani sul muro che aveva davanti a sé.
«Sì, hanno detto così.»
«Allora manderete un messaggero?»

Pietro rispose all'invito e arrivò nel tardo pomeriggio di mercoledì cin-


que agosto,
«Aprite i cancelli! Aprite i cancelli a lo Rèi!»
I cancelli dello Château Comtal si spalancarono. Alaïs fu attirata alla fi-
nestra dai rumori e corse giù a vedere cosa stesse accadendo. All'inizio,
voleva limitarsi a chiedere notizie, Ma, quando alzò lo sguardo verso le al-
te finestre della Sala Grande, la curiosità di sapere cosa stesse per succede-
re lì dentro ebbe la meglio. Troppo spesso le arrivavano versioni di terza o
quarta mano.
C'era una piccola alcova dietro le tende che separavano la Sala Grande
dall'ingresso delle stanze private del visconte Trencavel. Alaïs non si intru-
folava in quel posto da quando era bambina, quando vi si appostava spesso
per spiare il padre che lavorava. Non sapeva nemmeno se sarebbe ancora
riuscita a infilarsi in quello spazio tanto stretto.
Salì sulla panchina di pietra e arrivò alla finestra più bassa della Tour
Pinte, che si affacciava sulla Cour du Midi. Si tirò su, si contorse sopra al
davanzale di pietra e sgusciò nella stretta fessura.
Ebbe fortuna. La stanza era vuota. Alaïs balzò a terra, fu attenta a fare
meno rumore possibile, quindi aprì piano piano la porta e si infilò nello
spazio dietro la tenda. Con dei piccoli movimenti, cercò di avvicinarsi più
che poté. Era così vicina al punto in cui si trovava il visconte Trencavel, in
piedi con le mani intrecciate dietro la schiena, che avrebbe potuto allunga-
re una mano e toccarlo.
Appena in tempo. Dall'altra parte della Sala Grande le porte si spalanca-
rono. Vide il padre entrare a grandi passi, seguito dal re d'Aragona e da di-
versi alleati di Carcassonne, compresi i seigneurs di Lavaur e di Cabaret.
Il visconte Trencavel si inginocchiò davanti al suo signore feudale.
«Non ce n'è bisogno» disse Pietro, invitandolo ad alzarsi.
Dal punto di vista fisico i due uomini mostravano differenze notevoli. Il
re era molto più vecchio di Trencavel, avrebbe potuto essere suo padre.
Era alto e robusto, un toro, e sulla faccia portava i segni di numerose cam-
pagne militari. I lineamenti erano duri e resi ancora più minacciosi dai folti
baffi neri sulla pelle scura. I capelli, per la maggior parte neri, erano briz-
zolati sulle tempie come quelli di suo padre.
«Fate ritirare i vostri uomini» ordinò brusco. «Voglio parlarvi in privato,
Trencavel.»
«Col vostro permesso sire, vorrei che il mio amministratore restasse.
Tengo in gran conto il suo giudizio.»
Il re esitò, alla fine annuì.
«Non ci sono parole adeguate a esprimere la nostra gratitudine...»
Pietro lo interruppe. «Non sono venuto per appoggiarvi, ma per aiutarvi
a capire i vostri errori. Avete portato voi la situazione fino a questo punto
rifiutandovi di consegnare gli eretici che abitano i vostri domini. Avete a-
vuto quattro anni, quattro, per risolvere la questione, ma non avete mosso
un dito. Permettete che i vescovi catari predichino liberamente nelle vostre
città e nei vostri villaggi. I vostri vassalli appoggiano apertamente i bons
homes...»
«Nessun vassallo...»
«Volete forse negare che attacchi a preti e ad altri membri del clero sia-
no rimasti impuniti? Volete negare l'umiliazione subita dagli uomini della
chiesa? Nelle vostre terre, gli eretici praticano i loro culti alla luce del sole.
I vostri alleati offrono loro protezione. È noto a tutti che il conte di Foix
insulta le sacre reliquie rifiutando di inchinarsi davanti a esse e che sua so-
rella si è discostata tanto dalla fede da prendere i voti come parfaite, ceri-
monia alla quale il conte ha ritenuto opportuno partecipare.»
«Non posso parlare per il conte di Foix...»
«Egli è vostro vassallo e alleato» ribatté re Pietro. «Perché consentite a
cose di questo genere di prosperare?»
Alaïs vide il visconte trattenere il respiro. «Sire, avete già risposto alla
vostra domanda. Viviamo a stretto contatto con quelli che definite eretici.
Siamo cresciuti insieme, fra loro vi sono i nostri parenti più stretti. I par-
faits conducono una vita decorosa e onesta alla guida di un gregge di fedeli
sempre più numeroso. Non posso cacciarli, come non posso impedire al
sole di sorgere ogni mattina!»
Quelle parole non impietosirono Pietro. «La vostra unica speranza è di
riconciliarvi con la Santa Madre Chiesa. Siete alla pari con tutti gli altri ba-
roni del nord che l'abate ha con sé e vi tratteranno come tale se solo cer-
cherete di fare ammenda. Ma se anche per un istante date loro motivo di
credere che condividete i principi degli eretici, con il cuore se non con le
azioni, allora vi annienteranno.» Il re sospirò. «Ritenete davvero di poter
tener testa a un simile attacco, Trencavel? Siete in difetto numerico di cen-
to a uno.»
«Abbiamo cibo in abbondanza.»
«Cibo sì, ma niente acqua. Avete perso il controllo del fiume.»
Alaïs vide il padre lanciare un'occhiata al visconte, con l'evidente timore
che potesse perdere la pazienza.
«Non è mia intenzione sfidarvi né tanto meno ignorare i vostri buoni uf-
fici, ma vi renderete certo conto che essi vengono a combattere per le no-
stre terre, anziché per le nostre anime. Questa guerra non è dettata dalla
gloria divina, bensì dall'avidità umana. È una guerra di occupazione, sire.
Se ho mancato di rispetto alla chiesa e in questo modo ho offeso voi, vi
chiedo perdono. Ma non ho alcun obbligo nei confronti del conte di Ne-
vers o dell'abate di Citeaux. Essi non hanno nessun diritto, né spirituale né
temporale, sui miei territori. Non tradirò la mia gente consegnandola agli
sciacalli francesi per un motivo tanto ignobile.»
Alaïs sentì un impeto di orgoglio. Dall'espressione di suo padre, capì che
provava lo stesso sentimento. Per la prima volta, il coraggio e l'ardore di
Trencavel sembrarono sortire un qualche effetto sul re.
«Le vostre sono nobili parole, visconte, ma non vi saranno d'aiuto in
questo momento. Per il bene del vostro popolo, che voi tanto amate, lascia-
temi almeno dire all'abate di Cîteaux che ascolterete le sue condizioni.»
Trencavel raggiunse la finestra e guardò fuori.
«Non abbiamo abbastanza acqua per soddisfare tutti quelli che si trova-
no nella Ciutat?»
Pelletier scosse il capo. «No, messire.»
Soltanto le mani del visconte, bianche in confronto al davanzale di pie-
tra, lasciavano trapelare quanto fosse doloroso pronunciare quelle parole.
«D'accordo. Ascolterò cosa ha da dire l'abate di Cîteaux.»

Dopo che Pietro se ne fu andato, Trencavel restò in silenzio per un po'.


Rimase nella stessa posizione a osservare il sole calare nel cielo. Alla fine,
quando le candele furono accese, si mise a sedere. Pelletier comandò che
fosse portato qualcosa da mangiare e da bere dalle cucine.
Alaïs non osava muoversi, per paura di essere scoperta. Aveva i crampi
alle braccia e alle gambe. Era come se il muro le stesse crollando addosso,
ma non poteva farci nulla.
Da dietro le tende, intravedeva i piedi del padre che camminava su e giù
e di tanto in tanto li sentiva mormorare qualcosa a bassa voce durante la
conversazione.
Era tardi quando Pietro II fece ritorno. Dall'espressione sul suo viso, A-
laïs capì subito che la missione non aveva avuto esito positivo. Il suo mo-
rale precipitò. Era l'ultima occasione che avevano di portare i Codici fuori
dalla Cité prima che l'assedio cominciasse sul serio.
«Portate notizie?» chiese Trencavel, dopo essersi alzato all'ingresso del
re.
«Non buone, visconte» rispose Pietro. «Mi offende persino riferire le pa-
role oltraggiose dell'abate.» Accettò una coppa di vino e la mando giù in
un sorso solo. «L'abate di Cîteaux permetterà a voi e a dodici uomini a vo-
stra scelta di lasciare indisturbati lo Château stasera stessa e di tenere con
voi tutto quello che riuscirete a portare.»
Alaïs vide il visconte stringere i pugni. «E Carcassona?»
«La Ciutat, con tutto e tutti al suo interno, passerà in mano crociata. Do-
po Besièrs, i signori cercano una ricompensa.»
Quando ebbe finito, ci fu un attimo di silenzio.
Poi finalmente Trencavel diede sfogo alla sua collera e scagliò la coppa
contro il muro. «Come osa farmi un simile affronto!» sbottò. «È un oltrag-
gio al nostro onore e al nostro orgoglio! Non abbandonerò nemmeno uno
dei miei sudditi fra le grinfie di quegli sciacalli.»
«Messire» mormorò Pelletier.
Trencavel era in piedi con le mani sui fianchi e il respiro affannoso. A-
spettò che la rabbia sbollisse.
Quindi si rivolse al re. «Sire, vi sono grato per la vostra intercessione e
per gli uffici interposti in nostro favore. Tuttavia, se non volete o non pote-
te combattere al nostro fianco, dobbiamo separarci. È meglio che vi ritiria-
te.»
Pietro annuì, sapeva che non c'era altro da dire.
«Che Dio vi assista, Trencavel» augurò con aria dolente.
Trencavel incontrò il suo sguardo. «Credo che lo stia già facendo» ribat-
té in tono spavaldo.
Quando Pelletier accompagnò il re fuori dal salone, Alaïs colse l'occa-
sione per sgattaiolare via.

La festa della Trasfigurazione della Vergine passò senza clamore, con


pochi progressi su entrambi i fronti. Trencavel seguitava a scagliare frecce
e proiettili sui crociati, mentre la catapulta continuava imperterrita a lan-
ciare massi e pietre entro le mura. Uomini morirono da entrambi i lati, ma
nessuna delle due parti guadagnò o perse molto terreno.
Le pianure somigliavano a un ossario. I corpi restavano a marcire, gonfi
per il caldo e infestati da neri sciami di mosche. Nibbi e falchi si aggirava-
no sul campo di battaglia per ripulire le ossa.
Venerdì sette agosto, i crociati sferrarono un attacco al sobborgo meri-
dionale di Sant-Miquel. Per un po' riuscirono a occupare il fossato sotto le
mura, ma poi furono ricacciati indietro da una pioggia di frecce e sassi.
Dopo sette ore di stallo, i francesi si ritirarono, con scherno e trionfo degli
abitanti di Carcassonne.

All'alba del giorno seguente l'assalto riprese, mentre il mondo scintillava


d'argento nella luce del primo mattino e una leggera foschia ondeggiava
dolcemente sui pendii, da dove più di mille crociati guardavano Sant-
Miquel.
Elmi, scudi, spade, lance e sguardi brillavano nel chiarore del mattino.
Ogni soldato portava una croce bianca appuntata sul petto. Risaltavano fra
i colori di Nevers, Borgogna, Chartres e Champagne.
Il visconte Trencavel si era appostato sulle mura di Sant-Miquel, spalla a
spalla con i suoi uomini, pronto a respingere l'attacco.
Gli arcieri e i dardasiers erano all'erta con gli archi tesi. Sotto le mura,
c'era la fanteria armata di asce, spade e lance. Dietro, al sicuro dentro la
Cité finché la situazione non avesse richiesto il loro intervento, c'erano gli
chevaliers.
In lontananza, i tamburi francesi cominciarono a rullare. I crociati batte-
vano a terra le lance con un costante rumore sordo che echeggiava per tutta
la zona circostante.
È l'inizio.
Alaïs era sulla muraglia accanto al padre, la sua attenzione era divisa in
due, con un occhio cercava Guilhem e con l'altro osservava i crociati che
fluivano giù dalla collina.
Quando l'esercito fu a tiro, Trencavel alzò il braccio e diede l'ordine.
Uno scroscio di frecce oscurò il cielo in un istante.
Da entrambi i lati, caddero degli uomini. La prima scala di assedio era
già contro le mura. La freccia di una balestra sfrecciò nell'aria come un
fulmine e colpì il pesante legno grezzo, abbattendolo. La scala si inclinò e
si sbilanciò. Cadde adagio all'inizio, quindi acquistò velocità e ridusse gli
uomini al suolo in un ammasso di sangue, ossa e legno.
I crociati riuscirono a portare una gata, una macchina da guerra, fino alle
mura del sobborgo. Al riparo della copertura inzuppata d'acqua, gli zappa-
tori cominciarono a estrarre i blocchi di pietra dalle mura e a indebolire co-
sì la fortificazione.
Trencavel ordinò di distruggere la struttura. Un'altra pioggia di dardi e
frecce infuocate saettò nell'aria e colpì la costruzione di legno. Nel cielo si
levò un fumo nero come la pece finché la gata non si incendiò: a quel pun-
to gli uomini schizzarono fuori dalla gabbia infuocata con i vestiti che bru-
ciavano e vennero colpiti dalle frecce.
Era troppo tardi. I difensori poterono solo constatare che i crociati ave-
vano dato fuoco alla mina che preparavano da giorni. Alaïs si riparò il viso
con le mani quando l'esplosione provocò una tempesta di pietra, polvere e
fuoco nell'aria.
I crociati partirono alla carica attraverso la breccia. Il ruggito delle
fiamme copriva persino le urla delle donne e dei bambini che cercavano di
mettersi in salvo da quell'inferno.
Il pesante portone che separava Sant-Miquel dalla Cité si spalancò e gli
chevaliers di Carcassonne si lanciarono all'attacco. Fa' che si salvi, mor-
morava fra sé e sé Alaïs come se le parole potessero respingere le frecce.
Adesso i crociati catapultavano dentro le mura le teste dei morti recise
dai corpi per seminare panico e terrore. Le grida e le urla divennero più
forti quando il visconte Trencavel guidò i cavalieri nella mischia. Fu uno
dei primi a versare sangue, trafisse con la spada il collo di un crociato ed
estrasse la lama spingendo il corpo con il piede.
Guilhem non era molto distante da lui durante l'assalto, cavalcava il suo
destriero attraverso la massa di invasori calpestando qualunque cosa tro-
vasse sulla strada.
Alaïs scorse Alzeu de Preixan al suo fianco. Inorridita vide il cavallo di
Alzeu scivolare e cadere a terra. In un batter d'occhio Guilhem tornò indie-
tro e andò a soccorrere l'amico. Imbizzarrito dall'odore del sangue e dallo
stridore delle armi, il possente destriero di Guilhem si impennò sulle zam-
pe posteriori e schiacciò un crociato sotto i piedi, offrendo ad Alzeu il
tempo sufficiente per alzarsi e mettersi in salvo.
Il nemico era in superiorità numerica. Orde di uomini terrorizzati e feriti,
di donne e bambini in fuga verso la Cité andavano incontro agli chevaliers.
L'esercito avanzava inesorabile. Una strada dopo l'altra, l'intero sobborgo
cadde sotto il controllo francese.
Alla fine, Alaïs sentì levarsi un urlo.
«Repli! Repli!» Ritirata.
Col favore delle tenebre, alcuni difensori si introdussero di soppiatto nel
sobborgo distrutto. Trucidarono i pochi crociati lasciati di guardia e appic-
carono il fuoco a quello che rimaneva delle case, almeno per privare i
francesi di un riparo quando avessero ripreso i bombardamenti sulla Cité.
Ma la verità era amara.
Sia Sant-Vicens sia Sant-Miquel erano cadute. Carcassonne era rimasta
sola.

CAPITOLO 58

Per volere del visconte Trencavel, erano stati allestiti dei tavoli nella Sa-
la Grande. Il visconte e dama Agnès passavano fra essi per ringraziare gli
uomini del servizio che avevano reso e che avrebbero continuato a presta-
re.
Pelletier iniziava a sentirsi sempre peggio. La stanza era piena degli odo-
ri di cera bruciata, sudore, cibo freddo e birra calda. Non pensava di poter
resistere ancora per molto. I dolori all'addome si erano fatti più acuti e fre-
quenti.
Si sforzò di restare in piedi, ma a un tratto le gambe cedettero. Si appog-
giò al tavolo per sorreggersi e cadde in avanti facendo volare per aria piat-
ti, coppe e ossi. Era come se un animale selvaggio gli stesse rosicchiando
lo stomaco.
Il visconte Trencavel si voltò di scatto. Qualcuno si mise a gridare. Pel-
letier sentì i servi che accorrevano in suo aiuto e qualcuno che chiamava
Alaïs.
Sentì mani che lo afferravano e lo portavano verso la porta. Vide appari-
re e scomparire in un baleno il volto di François. Gli parve di udire la voce
di Alaïs che dava ordini, ma la voce sembrava arrivare da molto lontano e
parlare in una lingua sconosciuta.
«Alaïs» gridò e cercò disperatamente la mano della figlia nell'oscurità.
«Sono qui. Vi portiamo nella vostra camera.»
Sentì possenti braccia sollevarlo e l'aria della sera sulla faccia mentre lo
portavano attraverso la Cour d'Honneur e poi su per le scale. Le cose non
migliorarono molto. Gli spasmi aumentavano, divenivano sempre più vio-
lenti. Sentiva il morbo diffondersi nel corpo, infettare il sangue e il respiro.
«Alaïs...» sussurrò, stavolta preso dalla paura.
Non appena ebbero raggiunto la camera del padre, Alaïs mandò Rixende
a cercare François e a prendere dalla sua stanza le medicine che le occor-
revano. Spedì altri due servitori nelle cucine a prendere acqua preziosa.
Fece sdraiare il padre sul letto. Gli tolse i vestiti macchiati e li ammuc-
chiò per farli bruciare. Il morbo sembrava filtrare attraverso i pori della
pelle. Gli attacchi di diarrea si erano fatti più frequenti e dolorosi, caratte-
rizzati per lo più da sangue e pus. Alaïs ordinò di bruciare erbe e fiori per
mascherare l'odore, ma nessuna quantità di lavanda o di rosmarino avrebbe
potuto nascondere la realtà delle sue condizioni.
Rixende arrivò presto con gli ingredienti e aiutò Alaïs a mischiare rossi
mirtilli secchi con acqua bollente per crearne un impasto fluido. Dopo a-
verlo spogliato degli indumenti infetti e averlo coperto con un sottile len-
zuolo pulito, Alaïs accostò alle labbra pallide del padre un cucchiaio del
liquido ottenuto.
Il moribondo ne ingoiò un primo sorso e lo vomitò un secondo dopo.
Provò di nuovo. Stavolta riuscì a ingerirlo, anche se gli costò molta fatica e
fu scosso dà altri spasmi.
Il tempo non contava più, non passava né veloce né lento, mentre Alaïs
cercava di ritardare il propagarsi dell'infezione. A mezzanotte, il visconte
Trencavel entrò nella stanza.
«Ci sono novità, signora?»
«Sta molto male, messire.»
«Avete bisogno di qualcosa? Dottori, medicine?»
«Un altro po' d'acqua, se si può avere. Ho mandato Rixende a cercare
François già da un pezzo, ma non è ancora arrivato.»
«Sarà fatto.»
Trencavel lanciò uno sguardo al letto stando dietro ad Alaïs. «Come mai
la malattia si è estesa tanto in fretta?»
«È difficile dire perché tale flagello colpisce in modo così grave una
persona e ne risparmia un'altra, messire. La salute di mio padre si è molto
indebolita dopo il periodo trascorso in Tetra Santa. È particolarmente in-
cline ai disturbi di stomaco.» Esitò. «Preghiamo Dio che non si trasmetta
in tutto il corpo.»
«È sicuro che si tratti di una malattia infettiva?» chiese con voce cupa.
Alaïs rispose di sì con un cenno del capo.
«Sono addolorato. Mandatemi a chiamare qualora le sue condizioni do-
vessero cambiare.»
Mentre le ore trascorrevano lente, la vita del padre rimaneva sospesa a
un filo. Aveva momenti di lucidità, in cui pareva rendersi conto di quanto
gli stesse accadendo. In altri momenti sembrava che non sapesse più chi
fosse né dove si trovasse.
Poco prima dell'alba, il respiro di Pelletier si fece più corto. Alaïs, che
sonnecchiava accanto a lui, avvertì il cambiamento e subito si allarmò.
«Filha...»
Gli toccò le mani e la fronte e capì che non ci avrebbe impiegato molto
ad andarsene. La febbre era scesa, la pelle adesso era gelida.
La sua anima lotta per la libertà.
«Aiutami...» disse con fatica «...a sedermi.»
Con l'aiuto di Rixende, Alaïs riuscì a sollevarlo. La malattia lo aveva in-
vecchiato nel giro di una sola notte.
«Non parlate» sussurrò. «Non dovete sforzarvi.»
«Alaïs» la ammonì con dolcezza. «Il mio momento è arrivato.» Il respiro
affannoso produceva un rantolo nel petto. Gli occhi erano vacui e cerchiati
di giallo, chiazze marroni si andavano formando sulla pelle delle mani e
del collo. «Puoi mandare a chiamare un parfait?» Si sforzò di aprire gli
occhi. «Vorrei fare una bella morte.»
«Volete essere consolato, paire?» chiese con cautela.
Pelletier accennò un sorriso e per un istante le sembrò di vedere l'uomo
di sempre.
«Ho ascoltato con attenzione le prediche dei bons chrétiens. Ho impara-
to le parole del melhorer e del consolament...» Si interruppe. «Sono nato
cristiano e morirò come tale, ma non fra le braccia di chi fa guerra in nome
del Signore davanti ai nostri cancelli. Con grazia di Dio, se ho vissuto co-
me si deve, raggiungerò le gloriose anime del paradiso.»
Fu scosso da un attacco di tosse. Alaïs si guardò attorno disperata. Man-
dò un servo ad avvisare il visconte che le condizioni del padre si erano ag-
gravate. Appena questi partì, chiamò Rixende.
«Devi portare qui i parfaits. Prima erano nella corte. Dì loro che una
persona vorrebbe ricevere il consolament.»
Rixende sembrò terrorizzata.
«Non ti cadrà addosso nessuna colpa se recapiterai il messaggio» disse
per rassicurare la ragazza. «Non sei obbligata a venire con loro.»
Un movimento del padre attirò di nuovo la sua attenzione verso il letto.
«Sbrigati, Rixende. Fai presto.»
Alaïs si chinò. «Cosa c'è, paire? Sono qui con voi.»
Cercava di parlare, ma sembrava che le parole si spegnessero in gola
prima che potesse pronunciarle. Gli versò qualche goccia di vino in bocca
e gli passò un panno bagnato sulle labbra secche.
«Il Graal è la parola di Dio, Alaïs. È questo che Harif ha cercato di inse-
gnarmi, anche se io non lo comprendevo.» La voce usciva a tratti. «Ma
senza il merel... la verità del labirinto. È la strada sbagliata.»
«Che volete dire del merel?» sussurrò impaziente, poiché non capiva.
«Avevi ragione tu, Alaïs. Sono stato troppo ostinato. Avrei dovuto la-
sciarti andare quando ce n'era ancora la possibilità.»
Alaïs si sforzava di trovare un senso a quel discorso sconclusionato.
«Quale strada?»
«Io non l'ho mai vista,» mormorò «e mai la vedrò. La caverna... in pochi
l'hanno veduta.»
Alaïs si voltò di colpo verso la porta, in preda alla disperazione.
Che fine ha fatto Rixende?
Sentì qualcuno arrivare di corsa per il corridoio. Era Rixende, seguita da
due parfaits. Alaïs riconobbe uno dei due, un uomo scuro con la barba fol-
ta e l'aria cordiale che aveva incontrato una volta a casa di Esclarmonde.
Indossavano entrambi una tunica blu scuro e una cintura fatta di corda in-
trecciata e fissata da una fibbia a forma di pesce.
Il parfait si inchinò. «Dama Alaïs.» Lanciò uno sguardo al letto. «È vo-
stro padre, l'intendente Pelletier, che ha bisogno della consolazione?»
Alaïs annuì.
«Ce la fa a parlare?»
«Troverà la forza per farlo.»
Ci fu di nuovo scompiglio nel corridoio e subito dopo il visconte Tren-
cavel apparve sulla soglia.
«Messire...» disse Alaïs allarmata. «Mi ha chiesto mio padre di chiamare
i parfaits... desidera fare una buona fine, messire.»
Lo stupore balenò nello sguardo del visconte, che ordinò di chiudere la
porta.
«Non mi interessa» commentò. «Voglio restare.»
Alaïs lo fissò un istante, quindi si voltò verso il padre quando il parfait
officiante la chiamò.
«L'intendente Pelletier soffre molto, ma la mente è ancora lucida e il co-
raggio non lo ha abbandonato.» Alaïs annuì. «Ha fatto qualcosa che abbia
arrecato danno alla nostra chiesa o che lo abbia indebitato verso di noi?»
«È un protettore di tutti i figli di Dio.»
Alaïs e Raymond-Roger si fecero da parte quando il parfait si accostò al
letto e si chinò accanto al moribondo. Gli occhi di Bertrand tremolavano
mentre il prete sussurrava il melhorer, la benedizione.
«Giuri di rispettare la regola della giustizia e della verità e di consegnarti
a Dio e alla chiesa dei bons chrétiens?»
Pelletier si sforzò di pronunciare le parole: «Lo...giuro».
Il parfait gli appoggiò una copia del Nuovo Testamento sulla testa. «Che
Dio ti benedica, faccia di te un buon cristiano e ti conduca alla vita eter-
na.» Recitò il Benedicté e tre volte l'Adoremus.
Alaïs rimase colpita dalla semplicità del rito, Il visconte Trencavel guar-
dava dritto davanti a sé. Sembrava stesse compiendo un enorme sforzo di
volontà per mantenere il controllo.
«Bertrand Pelletier, sei pronto a ricevere la preghiera che il Signore ci ha
donato?»
Il padre assentì con un mormorio.
Con voce chiara e intonata, il parfait recitò sette Paternoster, fer-
mandosi solo per consentire a Pelletier di rispondere.
«Questa è la preghiera che Gesù Cristo ha portato nel mondo e ha inse-
gnato ai bons homes. Non mangiare né bere senza prima averla recitata; se
mancherai al tuo dovere, dovrai fare penitenza di nuovo.»
Pelletier annuì con fatica. Il cupo fischio nel petto era diventato più acu-
to adesso, ricordava il fruscio delle foglie secche.
Il parfait iniziò a leggere il vangelo di Giovanni.
«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio.» Pelletier scuoteva le mani sulle coperte
mentre il parfait continuava a leggere. «Conoscerete la verità e la verità vi
farà liberi.»
Pelletier spalancò gli occhi all'improvviso. «Vertat» sussurrò. «Sì, la ve-
rità.»
Alaïs afferrò preoccupata la mano di suo padre. Stava morendo. Non a-
veva più luce negli occhi. Si accorse che il parfait parlava più veloce ades-
so, quasi temesse di non avere il tempo sufficiente per terminare il rituale.
«Deve pronunciare le parole finali» disse sollecito ad Alaïs. «Aiutatelo.»
«Paire, dovete...» Il dolore le spezzò la voce.
«Per tutti i peccati... che ho commesso... in parole o opere,» disse Pelle-
tier con voce roca «io... io chiedo perdono a Dio e alla chiesa... e a tutti co-
loro qui presenti.»
Con evidente sollievo, il parfait gli mise le mani sul capo e gli diede il
bacio della pace. Alaïs trattenne il respiro. Un'espressione distesa aveva
trasformato il volto del padre mentre la grazia del consolament discendeva
su di lui. Fu un momento di trascendenza, di illuminazione. La sua anima
ormai era pronta a lasciare il corpo malato e la terra che l'avevano ospitata.
«La sua anima è pronta» comunicò il parfait.
Alaïs annuì. Si sedette sul letto e strinse la mano al padre. Il visconte
Trencavel era dall'altro lato del capezzale. Pelletier era quasi del tutto in-
cosciente, ma sembrava che in qualche modo avvertisse la loro presenza.
«Messire?»
«Sono qui Bertrand.»
«Carcassona non deve cadere.»
«Ti dò la mia parola, in nome dell'affetto e della devozione che ci hanno
legato per tutti questi anni, che farò tutto il possibile.»
Pelletier tentò di alzare una mano dalla coperta. «È stato un onore ser-
virvi.»
Alaïs vide che il visconte aveva gli occhi pieni di lacrime. «Sono io che
devo ringraziarti, amico mio.»
Pelletier cercò di sollevare la testa. «Alaïs?»
«Sono qui padre» disse pronta. Il colore ormai aveva abbandonato il vol-
to di Pelletier. La pelle formava grigie pieghe sotto gli occhi. «Nessun uo-
mo ha mai avuto una figlia come te.»
Sembrò trarre un sospiro quando la vita lasciò il suo corpo. A un tratto,
scese il silenzio.
Per un istante Alaïs restò immobile, senza respirare né reagire in alcun
modo. Dopo poco, un feroce impeto di dolore si impossessò di lei fino a
farla scoppiare in un pianto disperato.

CAPITOLO 59

Un soldato comparve sulla soglia. «Messer Trencavel?»


Il visconte si voltò. «Cosa c'è?»
«Un furto, messire. Qualcuno ha rubato l'acqua da Place du Plô.»
Gli comunicò con un cenno che sarebbe andato. «Signora, devo lasciar-
vi.»
Alais annuì. Aveva esaurito le lacrime.
«Farò in modo che venga sepolto con l'onore e la cerimonia che si con-
vengono al suo rango. È stato un uomo valoroso, un leale consigliere e un
amico fidato.»
«La sua chiesa non lo richiede, messire. La carne non conta. L'anima è
già andata via. Vorrebbe che vi preoccupaste soltanto dei vivi.»
«Vedetelo pure come un atto di egoismo da parte mia, ma desidero por-
gere l'estremo saluto a vostro padre, in ossequio alla sincera amicizia e alla
grande stima che nutrivo per lui. Voglio che il corpo venga portato nella
capèla di Sant-Maria.»
«Sarebbe lusingato da una tale dimostrazione d'affetto.»
«Posso mandare qualcuno a farvi compagnia? Non posso concedervi la
presenza di vostro marito, ma posso mandare a chiamare vostra sorella.
Oppure qualche donna che vi aiuti a organizzare il funerale.»
Alais alzò la testa di scatto, soltanto allora si rese conto di non aver pen-
sato a Oriane nemmeno per un istante. Aveva persino dimenticato di dirle
che il padre si era sentito male.
Lei non lo amava.
Zittì la voce nella sua testa. Aveva mancato al suo dovere, nei confronti
sia del padre sia della sorella. Si alzò in piedi.
«Andrò da mia sorella di persona, messire.»
Si inchinò quando il visconte lasciò la stanza, quindi si voltò. Non riu-
sciva a staccarsi dal padre. Cominciò a preparare il corpo per la cerimonia.
Ordinò che il letto fosse rifatto da capo e che le coperte venissero bruciate.
Poi, con l'aiuto di Rixende, preparò il sudario e gli unguenti per la sepoltu-
ra. Pulì il corpo con le proprie mani e scostò i capelli dalla fronte, in modo
che anche da morto il padre apparisse come l'uomo che era stato in vita.
Si trattenne ancora un po', a guardare il volto privo di vita. Non puoi più
rimandare.
«Informa il visconte che il corpo è pronto per essere portato alla capèla,
Rixende. Io devo avvisare mia sorella.»
Guirande dormiva sul pavimento davanti alla porta della camera di O-
riane.
Alaïs la scavalcò e aprì la porta. Non era chiusa a chiave, stavolta. Oria-
ne era sdraiata da sola sul letto con le tende aperte. La massa arruffata di
riccioli neri era sparsa sul cuscino e la pelle era bianca come la neve nella
luce del primo mattino. Alaïs si stupì che riuscisse a dormire.
«Sorella!»
Oriane sbarrò i verdi occhi da gatta e il viso rivelò spavento, poi sorpre-
sa, infine la consueta aria di disprezzo.
«Porto cattive notizie» esordì Alaïs. La voce cupa, gelida.
«Non potevi aspettare? Non è ancora suonata l'ora prima.»
«Non potevo. Nostro padre...» si fermò.
Come poteva essere accaduto sul serio?
Alaïs tirò un respiro profondo. «Nostro padre è morto.»
Oriane fece una faccia sconvolta, poi riprese l'espressione di sempre.
«Cosa hai detto?» chiese, stringendo gli occhi.
«Nostro padre è passato a miglior vita, questa mattina. Poco prima del-
l'alba.»
«Come? E di cosa è morto?»
«È tutto quello che sai dire?» urlò Alaïs.
Oriane balzò fuori dal letto. «Dimmi di cosa è morto.»
«Un'infezione. È successo molto in fretta.»
«Eri con lui al momento del suo trapasso?»
Alaïs annuì.
«E non hai ritenuto opportuno informarmi?» domandò furiosa.
«Mi dispiace» sussurrò Alaïs. «È stato tutto così veloce. So che avrei
dovuto...»
«Chi altro c'era?»
«Il nostro signore, il visconte Trencavel, e...»
Oriane notò l'esitazione, «Nostro padre ha confessato i suoi peccati e ri-
cevuto l'estrema unzione?» domandò. «È morto fra le braccia della chie-
sa?»
«Nostro padre non è morto senza essere stato assolto» replicò Alaïs,
scegliendo le parole con cura. «Se ne è andato in pace con Dio.»
Ha intuito.
«Che importanza ha?» gridò, inorridita per l'insensibilità di Oriane. «È
morto, sorella. Questo non significa niente per te?»
«Hai mancato a un tuo dovere, Alaïs» disse Oriane, puntandole il dito
contro. «In quanto primogenita, avevo più di te il diritto di essere presente.
Io avrei dovuto stare al suo fianco. E se per caso vengo a sapere che hai
permesso agli eretici di mettergli le mani addosso mentre era moribondo,
puoi stare certa che te ne farò pentire.»
«Non provi alcun dolore, alcun rimpianto?»
Alaïs lesse la risposta sul viso di Oriane. «La sua scomparsa mi addolora
quanto quella di un cane randagio. Non mi ha mai amata. Ho rinunciato al
suo affetto molti anni fa. Per quale motivo adesso dovrei soffrire?» Fece
un passo avanti. «Era te che amava. In te rivedeva se stesso.» Sorrise in
modo irritante, «Era di te che si fidava, con te che condivideva i segreti più
intimi.»
Sebbene fosse agghiacciata, Alaïs si sentì avvampare in viso. «Che vuoi
dire?» chiese, temendo la risposta.
«Sai perfettamente cosa voglio dire» sibilò Oriane. «Credi che non sap-
pia delle vostre chiacchierate notturne?» Si avvicinò. «La tua vita cambie-
rà, sorellina, ora che non c'è più lui a proteggerti. Sei stata accontentata fin
troppo.» Allungò la mano rapidissima e afferrò Alaïs per il polso.
«Dimmi. Dove si trova il terzo libro?»
«Non so di cosa parli.»
Oriane le tirò un schiaffo in pieno volto.
«Dov'è?» domandò minacciosa. «So che ce lo hai tu.»
«Lasciami andare.»
«Non fare giochetti con me, sorella. Deve averlo dato a te. Di chi altro
poteva fidarsi? Dimmi dove si trova. Devo averlo.»
Alaïs sentì un brivido lungo la schiena.
«Smettila. Arriverà qualcuno.»
«Chi?» chiese Oriane. «Dimentichi che non c'è più nostro padre a salvar-
ti.»
«Guilhem.»
Oriane scoppiò a ridere. «Certo, dimenticavo che ti sei riconciliata con
tuo marito. Sai cosa pensa davvero di te Guilhem?» continuò. «Lo sai?»
La porta si spalancò e sbatté contro il muro.
«Adesso basta!» gridò Guilhem, Oriane lasciò subito andare il polso di
Alaïs, mentre il cognato attraversava la stanza a grandi passi per prendere
la moglie fra le braccia. «Mon còr, sono venuto appena ho avuto notizia
della morte di tuo padre. Sono addolorato.»
«Che scena toccante!» la voce aspra di Oriane interruppe quel momento
di intimità.
«Chiedigli un po' come mai è tornato nel tuo letto» chiese ad Alaïs in to-
no sprezzante, senza distogliere lo sguardo dal volto di Guilhem. «O hai
troppa paura di ascoltare quello che ha da dire? Chiediglielo, Alaïs. Non è
stato né amore, né desiderio. Si è riconciliato con te soltanto per via del li-
bro.»
«Ti avverto, chiudi il becco!» esclamò Guilhem.
«Perché? Temi forse quello che potrei dire?»
Alaïs avvertì la tensione fra i due. Notò la confidenza. E a un tratto le fu
tutto chiaro.
No. Questo no.
«Non è te che vuole, Alaïs. È il libro. Per questo è tornato nel tuo letto.
Come puoi essere così cieca?»
Alaïs si scostò da Guilhem. «Dice la verità?»
Il marito si voltò di scatto verso di lei, con la disperazione negli occhi.
«Mente. Lo giuro sulla mia vita, non mi importa niente del libro. Non le
ho detto nulla. Come avrei potuto?»
«Ha frugato nella tua stanza mentre dormivi. Non può negarlo» insinuò
Oriane.
«Non è vero» gridò Guilhem.
Alaïs lo guardò. «Ma sapevi dell'esistenza del libro?»
Il suo sguardo allarmato le diede la risposta che temeva.
«Ha cercato di ricattarmi per farsi aiutare, ma ho rifiutato.» Gli tremò la
voce. «Ho rifiutato, Alaïs.»
«Che potere ha lei su di te per poterti fare una simile richiesta?» gli chie-
se sottovoce, quasi in un sussurro.
Lui allungò una mano per toccarla, ma lei si scansò.
Quanto vorrei che negasse.
Guilhem lasciò cadere la mano. «Ebbene sì, una volta io... Perdonami.»
«È un po' tardi per i rimorsi» intervenne Oriane.
Alaïs ignorò il commento della sorella. «La ami?»
Guilhem scosse il capo. «Non vedi quello che sta facendo, Alaïs? Sta
cercando di metterti contro di me.»
Alaïs era sbalordita dal fatto che il marito pensasse di poter avere ancora
la sua fiducia.
Lui tese ancora la mano. «Ti prego, Alaïs» la implorò. «Io amo te.»
«Ne ho abbastanza» esclamò Oriane, tornando ai propri interessi. «Dov'è
il libro?»
«Non ce l'ho io.»
«E chi allora?» chiese Oriane con fare intimidatorio.
Alaïs non si arrese. «Perché lo vuoi? Perché mai è così importante per
te?»
«Dimmelo senza fare tante storie,» scattò «e la cosa finirà qui.»
«E se non lo faccio?»
«È così facile ammalarsi» rispose. «Hai accudito nostro padre. Forse la
malattia è già nel tuo corpo.» Si rivolse a Guilhem. «Capisci cosa succede-
rà, Guilhem, se ti metti contro di me?»
«Non ti permetterò di farle del male!»
Oriane si mise a ridere. «Non sei proprio nella condizione di poter fare
minacce, Guilhem. Ho talmente tante prove del tuo adulterio che potrei
farti impiccare.»
«Prove di tua invenzione» gridò lui. «Il visconte Trencavel non ti crede-
rà mai.»
«Mi sottovaluti, Guilhem, se credi che abbia dato motivo di dubitare di
me. Vuoi rischiare?» Si voltò verso Alaïs. «Dimmi dove hai nascosto il li-
bro o andrò dal visconte.»
Alaïs deglutì a fatica. Che aveva combinato Guilhem? Non sapeva cosa
pensare. Nonostante la rabbia, non riusciva a condannarlo.
«François» rispose. «Nostro padre lo ha dato a François.»
Lo sguardo di Oriane fu attraversato da un'ombra di dubbio, che svanì in
pochi secondi. «Bene. Ma ti avverto, sorella, se hai mentito te ne farò pen-
tire.» Si voltò e si incamminò verso la porta.
«Dove vai?»
«A porgere i miei ossequi a nostro padre, dove altrimenti? Tuttavia,
prima voglio vederti al sicuro nella tua stanza.»
Alaïs alzò il capo e incontrò lo sguardo della sorella. «Non è affatto ne-
cessario.»
«Oh, certo che è necessario. Se François non si rivelerà in grado di aiu-
tarmi, potrei aver bisogno di parlarti ancora.»
Guilhem cercò di avvicinarla. «Sta mentendo. Non ho fatto nulla di ma-
le.»
«Quello che hai fatto o non hai fatto, Guilhem, non mi riguarda più or-
mai» ribatté Alaïs. «Sapevi quello che facevi quando sei andato a letto con
lei. Adesso, lasciami in pace.»
A testa alta, Alaïs attraversò il corridoio e raggiunse la camera, con O-
riane e Guirande alle calcagna.
«Tornerò presto. Non appena avrò parlato con François.»
«Come desideri.»
Oriane chiuse la porta. Qualche secondo più tardi, come temeva, Alaïs
sentì la chiave girare nella serratura. Udì Guilhem protestare con Oriane.
Si tappò le orecchie per non sentirli. Cercò di tenere lontano dalla mente
le orribili immagini dettate dalla gelosia. Non riusciva a smettere di pensa-
re a Guilhem e Oriane avvinghiati l'una all'altro, non poteva fare a meno di
immaginare Guilhem che sussurrava nell'orecchio della sorella le stesse
parole intime che lei custodiva in fondo al cuore come pietre preziose.
Alaïs premette contro il petto le mani che tremavano. Sentiva il cuore
battere forte contro le costole, sconcertato e tradito. Deglutì a fatica.
Non pensare a te stessa.
Aprì gli occhi e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, i pugni stretti per
la sofferenza. Non poteva permettersi di essere debole. Altrimenti Oriane
le avrebbe portato via tutto ciò che aveva di più caro. Ci sarebbe stato tem-
po per il rimpianto e per le recriminazioni. In quel momento, la promessa
fatta al padre, di tenere il libro al sicuro, contava più del suo cuore infran-
to. Per quanto fosse difficile, doveva togliersi Guilhem dalla testa. Aveva
acconsentito a farsi rinchiudere nella sua stanza per via di quello che aveva
detto Oriane. Il terzo libro. Le aveva chiesto dove avesse nascosto il terzo
libro.
Corse alla mantella, ancora appesa allo schienale della sedia, l'afferrò
con forza e tastò lungo il bordo, dove aveva nascosto il libro.
Era sparito.
Alaïs si accasciò sulla sedia, colta dalla disperazione. Oriane aveva il li-
bro di Simeon. Presto, avrebbe scoperto che aveva mentito riguardo a Fra-
nçois e sarebbe tornata.
E che ne sarà di Esclarmonde?
Alaïs si accorse che Guilhem non era più nel corridoio a urlare.
Sarà andato con lei?
Non sapeva cosa credere. In ogni caso non aveva importanza. L'aveva
tradita una volta. Lo avrebbe fatto di nuovo. Fu costretta a rinchiudere i
suoi sentimenti feriti nel cuore spezzato. Doveva fuggire finché poteva.
Alaïs aprì il sacchetto di lavanda e recuperò la copia della pergamena
che si trovava nel Libro dei Numeri, quindi lanciò un ultimo sguardo alla
stanza che pensava sarebbe stata la sua casa per sempre.
Sapeva che non sarebbe tornata mai più.
Poi, con il cuore in gola, andò alla finestra e guardò il tetto. La sua unica
possibilità era di scappare prima che Oriane arrivasse di nuovo.

Oriane non provava alcun sentimento. Alla luce fioca delle candele, sta-
va ai piedi del catafalco e osservava la salma del padre.
Dopo aver ordinato ai presenti di ritirarsi, si chinò come per baciare la
testa del defunto. Accostò la mano a quella del padre e sfilò dal pollice l'a-
nello con il labirinto, stentava a credere che Alaïs fosse stata tanto stupida
da lasciarglielo al dito.
Si drizzò e lo fece scivolare in tasca. Risistemò il sudario, si inginocchiò
davanti all'altare e, dopo essersi fatta il segno della croce, uscì in cerca di
François.

CAPITOLO 60
Alaïs mise un piede sulla panca e salì sopra il davanzale, le girava la te-
sta al pensiero di quello che stava per fare.
Cadrai.
Che importava ormai se fosse caduta? Il padre era morto. Guilhem l'ave-
va tradita. In fin dei conti, il giudizio del padre nei confronti del marito si
era dimostrato esatto.
Che altro c'è da perdere?
Tirò un respiro profondo, si calò con cautela dal davanzale finché non
toccò le tegole con il piede destro. Dopo aver mormorato una preghiera, al-
lungò braccia e gambe e si lasciò andare. Atterrò con un lieve tonfo. Le
scivolarono i piedi. Perse l'equilibrio e slittò sulle tegole, mentre cercava
disperatamente un appiglio. Una crepa nel tetto, una fessura nel muro,
qualsiasi cosa le impedisse di precipitare.
Il momento della caduta le sembrò eterno. All'improvviso, dopo un vio-
lento sobbalzo si arrestò in modo brusco. L'orlo della mantella si era impi-
gliato in un chiodo e la teneva sospesa. Restò del tutto ferma, non osava
muoversi. Sentiva la stoffa allungarsi. Era di buona qualità, ma era tesa
come una corda di violino e poteva strapparsi da un momento all'altro.
Alaïs alzò lo sguardo verso il chiodo. Anche se fosse riuscita ad arrivare
tanto in alto, avrebbe dovuto usare entrambe le mani per districare la stoffa
che si era arrotolata più volte intorno allo spuntone di ferro. Non poteva ri-
schiare di cadere. L'unica speranza era lasciare la mantella e cercare di ar-
rampicarsi di nuovo sul tetto, che sul lato ovest era collegato alle mura e-
sterne dello Château Comtal. Pensava di riuscire a infilarsi fra le assicelle
di legno delle bertesche. Le fessure in tali opere di difesa erano strette, ma
lei era esile. Valeva la pena di tentare.
Stando attenta a non compiere movimenti bruschi, Alaïs tese il braccio
verso l'alto e tirò la stoffa finché non cominciò a lacerarsi. Poco alla volta
riuscì a strappare un quadrato di stoffa dalla mantella. Si era lasciata un
brandello di tessuto alle spalle, ma era di nuovo libera.
Alaïs sollevò un ginocchio e si diede una spinta, quindi portò su anche
l'altro. Sentiva le gocce di sudore sulle tempie e fra i seni, dove aveva ripo-
sto le pergamene. Aveva la pelle escoriata per aver strusciato contro le te-
gole ruvide.
Avanzò adagio, finché non arrivò a raggiungere le ambans.
Allungò le mani e afferrò i puntoni di legno, la cui solidità le diede con-
forto. A quel punto unì le ginocchia, in modo da essere quasi accucciata
sul tetto, e si incuneò nello spazio fra le bertesche e il muro. Lo spazio era
più stretto di quanto sperasse, profondo poco più di un palmo e largo tre
volte tanto. Alaïs distese la gamba destra, piegò la sinistra sotto di sé per
agganciarsi in modo saldo, infine passò attraverso la fessura. La borsa con
la copia delle pergamene del labirinto la rendeva impacciata e continuava a
infilarsi fra le gambe, ma lei non si arrese.
Noncurante del dolore agli arti, si mise subito in piedi e procedette con
cautela lungo la barriera. Sebbene sapesse che le sentinelle non l'avrebbero
riconsegnata a Oriane, era meglio che uscisse al più presto dallo Château
Comtal ed entrasse dentro Sant-Nasari.
Scrutò in basso per controllare che non ci fosse nessuno, poi si calò svel-
ta dalla scala fino a terra. Saltò gli ultimi pioli; quando atterrò, le gambe
vacillarono e cadde di schiena, il che le tolse l'ultimo respiro che aveva.
Guardò in direzione della cappella. Non c'era traccia di Oriane, né di
François. Rasentando il muro, Alaïs entrò nella scuderia e si fermò alla po-
sta di Tatou. Aveva bisogno di dissetarsi e di dare da bere alla giumenta
tormentata dall'arsura, ma l'acqua rimasta era destinata ai cavalli da guerra.

Le strade erano piene di profughi. Alaïs si coprì la bocca con la manica


per il tanfo di sofferenza e malattia che aleggiava come nebbia sopra la cit-
tà. Uomini e donne feriti, diseredati con bambini fra le braccia, la fissava-
no con sguardo assente e privo di speranza, mentre passava.
La piazza di fronte a Sant-Nasari era gremita. Si guardò indietro per es-
sere sicura che nessuno la seguisse, dopodiché aprì la porta ed entrò di
soppiatto. C'erano alcune persone che dormivano nella navata. Data la loro
infelice condizione, non badarono troppo a lei.
Sull'altare principale bruciavano delle candele. Alaïs percorse in fretta il
transetto nord e raggiunse una cappella laterale poco visitata, con un picco-
lo altare disadorno. I topi scappavano in cerca di un nascondiglio, correva-
no con le minuscole zampe sui lastroni di pietra. Dopo essersi inginocchia-
ta, Alaïs fece il giro intorno all'altare, come le aveva mostrato il padre. Ta-
stò con le dita la superficie del muro. Un ragno, disturbato nella sua tana,
le sfrecciò sulla mano e sparì.
Si udì un lieve scatto. Piano piano, Alaïs allentò con cura la lastra di pie-
tra e la fece scivolare da un lato, quindi introdusse la mano nella nicchia
nascosta nella parete. Trovò la chiave lunga e sottile, il metallo reso opaco
dal tempo e dal disuso, e subito dopo la infilò nella serratura dello sportel-
lo di legno a graticcio. I cardini cigolarono mentre il legno sfregava contro
il pavimento di pietra.
Alaïs avvertiva impetuosa la presenza del padre. Si morse il labbro per
non scoppiare in lacrime.
Al momento è tutto quello che puoi fare per lui.
Infilò la mano ed estrasse la scatola, come aveva visto fare da lui. Non
più grande di un cofanetto portagioie, era ordinaria e priva di decorazioni,
con un semplice fermaglio. Alaïs aprì il coperchio. Dentro c'era un sac-
chetto di pelle di montone, era rimasto intatto da quando il padre le aveva
mostrato quel posto. Trasse un sospiro di sollievo, solo allora capì quanto
fosse terrorizzata dall'idea che Oriane fosse riuscita ad arrivare prima di
lei.
Sapendo di avere pochissimo tempo a disposizione, Alaïs nascose lesta
il libro sotto il vestito e rimise tutto esattamente come lo aveva trovato. Se
Oriane o Guilhem conoscevano il nascondiglio, il pensiero che lo scrigno
fosse ancora lì almeno li avrebbe fatti agire con più calma.
Attraversò di corsa la chiesa un'altra volta, la testa coperta dal cappuc-
cio, quindi aprì il pesante portone e fu risucchiata dalla marea di sofferenti
che si aggirava senza meta per la piazza. L'epidemia che aveva contagiato
suo padre si diffondeva in fretta. I vicoli erano pieni di carcasse in decom-
posizione, pecore, capre e persino bovini, i corpi rigonfi emanavano un
odore ripugnante che rendeva l'aria fetida.

Senza pensarci due volte, Alaïs si avviò verso la casa di Esclarmonde.


Era assurdo sperare di trovarla, dato che l'amica non si faceva vedere da
giorni, ma non sapeva dove altro andare.
Quasi tutte la case del quartier meridionale avevano porte e finestre
sprangate, compresa quella di Esclarmonde. Alaïs alzò la mano e bussò.
«Esclarmonde?»
Bussò di nuovo. Provò ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave. «Sa-
jhë?»
Stavolta udì un rumore. Di passi che correvano e di un chiavistello che
veniva aperto.
«Dama Alaïs?»
«Sajhë, grazie a Dio. Presto, fammi entrare.»
La porta si aprì quel tanto che bastava per farla sgusciare dentro.
«Dove sei stato?» chiese Alaïs, abbracciandolo forte. «Che succede?
Dov'è Esclarmonde?»
Alaïs sentì la manina di Sajhë scivolare nella sua. «Venite con me.»
La portò nella stanza in fondo alla casa, separata dalla tenda. Sul pavi-
mento c'era una botola aperta. «Sei stato là dentro tutto il tempo?» chiese
Alaïs. Diede una sbirciata di sotto e vide un calèlh acceso in fondo alla
scaletta. «Nelle cantine? Mia sorella è tornata...»
«Non lei» disse il ragazzino con voce tremula. «Presto, signora.»
Alaïs scese per prima. Sajhë tolse il puntello e la botola si richiuse sbat-
tendo sopra le loro teste. Scese in fretta la scala e saltò gli ultimi pioli at-
terrando direttamente al suolo.
«Da questa parte.»
La condusse lungo una galleria umida fino a una piccola cavità, quindi
sollevò il lume così che Alaïs potesse vedere Esclarmonde, che giaceva i-
nerte su un mucchio di pellicce e coperte.
«No!» esclamò e corse al suo fianco.
Aveva la testa tutta avvolta dalle bende. Alaïs sollevò un lembo della fa-
sciatura e portò la mano alla bocca inorridita. L'occhio sinistro era rosso,
interamente coperto di sangue. C'era una garza pulita sulla ferita, ma la
pelle penzolava dall'orbita frantumata.
«Potete aiutarla?» domandò Sajhë.
Alaïs alzò la coperta. Sentì una fitta allo stomaco. C'era una fila di gravi
ustioni rosse sul petto di Esclarmonde, la pelle giallastra e annerita nei
punti in cui era stata tenuta la fiamma.
«Esclarmonde» sussurrò, chinandosi su di lei. «Mi senti? Sono io, Alaïs.
Chi ti ha ridotto così?»
Le sembrò di vedere un segno di vita sul volto dell'amica. Le labbra si
mossero appena. Alaïs si rivolse a Sajhë, «Come hai fatto a portarla quag-
giù?»
«Mi hanno aiutato Gaston e suo fratello.»
Alaïs si voltò di nuovo verso il giaciglio dell'amica seviziata. «Che le è
successo, Sajhë?»
Scosse il capo.
«Non ti ha detto niente?»
«Lei...» Per la prima volta, lo vide perdere la calma. «Non può parlare...
la lingua...»
Alaïs impallidì. «No» mormorò sconvolta, quindi si ricompose e aggiun-
se in tono pacato: «Allora raccontami quello che sai».
Per il bene di Esclarmonde, dovevano entrambi essere forti.
«Dopo aver saputo che Besièrs era caduta, menina aveva paura che l'in-
tendente Pelletier avesse cambiato idea e non vi avesse permesso di portare
i Codici ad Harif.»
«Aveva ragione» ammise con sguardo cupo.
«Menina sapeva che avreste cercato di convincerlo, ma pensava che Si-
meon fosse l'unico a cui l'intendente Pelletier avrebbe dato ascolto. Io non
volevo,» piagnucolò «ma lei è andata lo stesso al quartier ebraico. L'ho
seguita, ma per non farmi vedere sono rimasto indietro e così l'ho persa nel
bosco. Ho avuto paura. Ho aspettato fino al tramonto, ma a un certo punto,
pensando che si sarebbe arrabbiata se fosse tornata a casa e non mi avesse
trovato, ho deciso di rientrare. È stato allora che...» si interruppe, gli occhi
d'ambra fiammeggiavano sul volto pallido.
«Ho capito subito che era lei. Era accasciata a terra, fuori dai cancelli. I
piedi sanguinavano come se avesse camminato a lungo.» Sajhë alzò lo
sguardo. «Volevo venire a chiamarvi, signora, ma non ho avuto il corag-
gio. Aiutato da Gaston, l'ho portata quaggiù. Ho cercato di ricordare che
rimedio usare, quali unguenti.» Scrollò le spalle. «Ho fatto del mio me-
glio.»
«Hai fatto un ottimo lavoro» lo rassicurò Alaïs. «Esclarmonde sarà mol-
to orgogliosa di te.»
La loro attenzione fu attirata da un movimento proveniente dal giaciglio.
Si voltarono all'istante.
«Esclarmonde» fece Alaïs. «Puoi sentirmi? Siamo tutti e due qui. Sei al
sicuro.»
«Sta cercando di dire qualcosa,»
Alaïs vide che agitava le mani in modo frenetico. «Credo che voglia car-
ta e penna» disse.
Con l'aiuto di Sajhë, Esclarmonde riuscì a scrivere.
«Credo che voglia dire "François"» disse Alaïs accigliata.
«Che significa?»
«Non lo so. Forse lui può aiutarci» ipotizzò. «Ascoltami, Sajhë. Ho brut-
te notizie. Quasi sicuramente Simeon è morto. Mio padre... è morto anche
lui.»
Sajhë le prese la mano. Il gesto fu talmente sentito che le fece venire le
lacrime agli occhi. «Mi dispiace.»
Alaïs si morse il labbro per trattenersi dalle lacrime. «Quindi per amore
di mio padre, e anche di Simeon e di Esclarmonde, devo mantenere la pa-
rola data e raggiungere Harif. Devo...» tentennò ancora. «Purtroppo ho sol-
tanto il Libro delle Parole. Quello di Simeon è perso.»
«Ma l'intendente Pelletier lo aveva dato a voi.»
«Lo ha rubato mia sorella. Mio marito l'ha fatta entrare nella nostra ca-
mera. Non posso più fidarmi di lui, Sajhë. È per questo che non posso tor-
nare allo Château. Ora che mio padre non c'è più, niente potrà fermarli.»
Sajhë guardò la bisnonna, poi di nuovo Alaïs.
«Se la caverà?» chiese sottovoce.
«Le ferite sono gravi, Sajhë. Ha perso la vista all'occhio sinistro, ma...
non ci sono infezioni. La sua volontà è forte. Si rimetterà, se decide di far-
lo.»
Sajhë annuì, d'improvviso sembrava che avesse più di undici anni.
«Ma prenderò il libro di Esclarmonde, col tuo permesso, Sajhë.»
Per un istante, sembrò che il ragazzo stesse finalmente per scoppiare a
piangere. «Anche quel libro è andato perso» confessò alla fine.
«No!» esclamò Alaïs. «Come?»
«Le persone che l'hanno... hanno rubato il libro» ammise. «Lo aveva
menina quando si è avventurata verso il quartier ebraico. L'ho vista pren-
derlo dal nascondiglio.»
«Soltanto un libro» disse Alaïs, anche lei era sul punto di scoppiare in
lacrime. «Allora è la fine. È stato tutto inutile.»

Per i cinque giorni successivi, vissero in modo alquanto singolare.


Alaïs e Sajhë uscivano nelle strade a turno, col favore della notte. Fu su-
bito chiaro che non c'era modo di lasciare Carcassonne indisturbati. L'as-
sedio era implacabile. C'era una sentinella a ogni posteria, a ogni cancello,
ai piedi di ogni torre, un solido anello di uomini e ferro tutto intorno alle
mura. Giorno e notte, le macchine da guerra bombardavano le fortificazio-
ni, e gli abitanti della Cité non sapevano più quando si trattasse di un vero
attacco o dell'eco che rimbombava nelle loro teste.
Era un sollievo tornare nelle umide e fresche gallerie, dove il tempo era
immobile e non esisteva né giorno né notte.

CAPITOLO 61

Guilhem se ne stava all'ombra del grande olmo che si trovava al centro


della Cour d'Honneur.
Per conto dell'abate di Cîteaux, il conte di Auxerre si era spinto fino alla
Porte Narbonnaise per proporre un inoffensivo colloquio. Quella proposta
inaspettata aveva restituito ottimismo al visconte Trencavel. Lo si poteva
notare dall'espressione sul viso e dall'atteggiamento con cui si rivolgeva
agli abitanti del castello. Infondeva un po' di speranza e forza d'animo an-
che in coloro che lo ascoltavano.
Le ragioni che avevano spinto l'abate a cambiare strategia all'improvviso
erano discutibili. I crociati stavano facendo pochi progressi, ma l'assedio
andava avanti da poco più di una settimana, che non era nulla. Ma la moti-
vazione contava? Trencavel decise di no.
Guilhem ascoltava a malapena. Si era messo in gabbia con le proprie
mani e non riusciva a liberarsi, né con le parole né con la forza. Non sape-
va che pesci prendere. Alaïs era sparita da cinque giorni. Guilhem aveva
organizzato spedizioni furtive per la Cité e aveva setacciato lo Château
Comtal, ma non era riuscito a scoprire dove Oriane la tenesse prigioniera.
Era intrappolato nella tela delle proprie malefatte. Aveva capito troppo tar-
di che Oriane aveva premeditato tutto. Se non avesse fatto quello che vo-
leva, lei avrebbe smascherato il suo adulterio e Alaïs ne avrebbe sofferto.
«Dunque, amici» concluse Trencavel. «Chi mi accompagnerà in questa
spedizione?»
Guilhem sentì il dito aguzzo di Oriane conficcarsi nella schiena. Fece un
passo avanti. Si inginocchiò, la mano sull'impugnatura della spada e si of-
frì volontario. Quando Raymond-Roger gli strinse la spalla in segno di gra-
titudine, Guilhem avvampò per la vergogna.
«Avete tutta la nostra riconoscenza, du Mas. Chi altro verrà con noi?»
Altri sei chevaliers seguirono l'esempio di Guilhem. Oriane sgattaiolò
fra loro e si inchinò davanti al visconte.
«Messire, col vostro permesso.»
Congost non aveva notato la moglie fra la moltitudine di uomini. Diven-
ne paonazzo e batté le mani per la vergogna, quasi stesse scacciando le
cornacchie da un campo.
«Fatti da parte, donna» balbettò. «Non è posto per te.»
Oriane lo ignorò. Trencavel alzò la mano e le fece cenno di avvicinarsi.
«Cosa desiderate dire, signora?»
«Perdonatemi, messire, prodi chevaliers, amici... marito. Con il vostro
permesso e il volere di Dio, desidero prendere parte alla spedizione. Ho
perso mio padre e ora a quanto pare anche mia sorella. È un dolore troppo
grande da sopportare. Ma se mio marito acconsente, potrei liberarmi da ta-
le sofferenza e dimostrare il mio affetto per voi, messire, con questo atto. È
quello che vorrebbe anche mio padre.»
Congost avrebbe voluto che la terra si spaccasse in due e lo inghiottisse.
Guilhem fissava il suolo. Il visconte Trencavel non poté nascondere la
propria sorpresa.
«Con il dovuto rispetto, dama Oriane, non è una faccenda da donne.»
«In tal caso, mi offro volontaria come ostaggio, messire. La mia presen-
za sarà la prova delle vostre buone intenzioni, un chiaro segno di come
Carcassona rispetti le regole dell'abboccamento.»
Trencavel ci rifletté un istante, quindi si rivolse a Congost. «È vostra
moglie. Potete sacrificarla per la causa?»
Jehan balbettò e strofinò le mani sudate sulla tunica. Voleva negarle il
permesso, ma era ovvio che la proposta era meritevole agli occhi del vi-
sconte.
«Il mio unico desiderio è servirvi» borbottò.
Trencavel la invitò ad alzarsi. «Il vostro defunto padre, un amico per me
prezioso, sarebbe fiero di ciò che fate oggi.»
Oriane lo guardò al di sotto delle ciglia nere. «E se permettete vorrei
portare con me François. Egli condivide il nostro dolore per la perdita del
mio lodevole padre e sarebbe lieto di rendersi utile.»
Guilhem sentì la bile salirgli fino in gola, non riusciva a credere che an-
che solo uno dei presenti potesse essere persuaso dalla dimostrazione d'af-
fetto filiale fatta da Oriane, eppure era così. Un'aria d'ammirazione era
stampata sul volto di tutti, tranne che del marito. Guilhem fece una smor-
fia. Soltanto lui e Congost conoscevano la reale natura di Oriane, Tutti gli
altri si lasciavano abbindolare dalla bellezza e dalle parole gentili. Come
d'altronde era capitato anche a lui.
Disgustato nel profondo, Guilhem lanciò uno sguardo a François ai mar-
gini della folla, il suo volto impassibile era una maschera perfetta.
«Se ritenete che possa giovare alla causa, signora,» replicò il visconte
Trencavel «allora avete il mio consenso.»
Oriane si inchinò di nuovo. «Vi ringrazio, messire.»
Il visconte batté la mani. «Sellate i cavalli.»

Oriane cavalcò al fianco di Guilhem attraverso le terre devastate fino al


padiglione del conte di Nevers, dove avrebbe avuto luogo il colloquio. Chi
aveva avuto la forza di arrampicarsi sulle mura della Cité, li aveva osserva-
ti in silenzio mentre partivano.
Non appena entrarono nell'accampamento, Oriane si dileguò. Ignorando
i commenti sconci e volgari dei soldati, seguì François nel mare di tende e
stendardi, finché non raggiunsero quella verde e argento del casato di
Chartres.
«Da questa parte, signora» mormorò François, indicando una serie di
padiglioni un po' in disparte. I soldati si misero sull'attenti e bloccarono
l'entrata con le lance. Uno di essi salutò François con un cenno del capo.
«Dite al vostro comandante che dama Oriane, figlia del defunto ammini-
stratore di Carcassona, è qui e desidera parlare con messer Evreux.»
Oriane correva un rischio enorme mostrandosi al suo cospetto. Aveva
saputo da François quanto fosse crudele e collerico. Stava puntando in al-
to.
«Riguardo a che cosa?» chiese il soldato.
«La mia signora parlerà solo ed esclusivamente con messer Evreux.»
L'uomo esitò, quindi si chinò ed entrò nella tenda. Qualche istante dopo,
tornò fuori e ordinò loro di seguirlo.
La prima immagine di Guy d'Evreux non sedò le paure di Oriane. Era di
spalle quando entrarono nella tenda. Si voltò e gli occhi grigi come la selce
scintillarono sul volto pallido. I capelli erano impomatati all'indietro, in
pieno stile francese. Aveva l'aria di un falco sul punto di colpire la preda.
«Ho sentito molto parlare di voi, signora.» La voce era calma e ferma,
ma aveva un che di metallico. «Non mi aspettavo il piacere di fare la vo-
stra conoscenza di persona. Cosa posso fare per voi?»
«Credo che sia più che altro questione di cosa posso fare io per voi, mio
signore» replicò lei.
Prima che se ne rendesse conto, Evreux l'aveva già afferrata per il polso.
«Vi consiglio di non fare giochi di parole con me, dama Oriane. I vostri
rozzi modi del sud non vi saranno di alcun aiuto qui.» Dietro di sé, Oriane
sentì François sforzarsi di restare calmo. «Avete informazioni per me, sì o
no?» chiese. «Parlate.»
Oriane mantenne i nervi saldi. «Non è un bel modo di trattare chi viene a
portarvi ciò che più desiderate» rispose, senza distogliere lo sguardo.
Evreux alzò il braccio. «Potrei farvi parlare a suon di percosse: ridurreb-
be l'attesa e ci farebbe risparmiare tempo.»
Oriane continuò a fissarlo. «In tal caso, verreste a sapere soltanto una
parte di quello che ho da dire» disse più risoluta che poteva. «Avete inve-
stito molto nella ricerca dei Codici del Labirinto. Io posso darvi ciò che
volete.»
Evreux la fissò un istante, quindi abbassò il braccio.
«Siete coraggiosa, dama Oriane, devo ammetterlo. Se siete anche saggia
è ancora da vedere.»
Schioccò le dita e un servo portò del vino su un vassoio. A Oriane le
mani tremavano troppo per arrischiarsi a prenderne una coppa.
«No, grazie, mio signore.»
«Come desiderate» rispose, facendole cenno di sedersi. «Cosa volete in
cambio, signora?»
«Se vi consegno ciò che cercate, desidero che mi portiate con voi al nord
quando vi farete ritorno.» Dall'espressione sul volto di lui, Oriane capì che
finalmente era riuscita a sorprenderlo. «Quale vostra moglie.»
«Avete già un marito» ribatté Evreux, lanciando uno sguardo a François
per conferma, «Lo scrivano di Trencavel, a quanto ho sentito. Non è forse
vero?»
Oriane non distolse lo sguardo. «Purtroppo mio marito è stato ucciso.
Accoltellato dentro le mura mentre svolgeva il suo dovere.»
«Le mie condoglianze per la perdita.» Evreux unì i polpastrelli, forman-
do una sorta di campanile con le lunge dita sottili. «L'assedio potrebbe an-
che durare anni. Cosa vi fa essere tanto sicura che farò ritorno al nord?»
«Sono convinta, messer Evreux,» disse, scegliendo con cura le parole
«che voi vi troviate qui per un motivo ben preciso. Se, con il mio aiuto,
riuscirete a concludere subito il vostro affare nel sud, non vedo perché do-
vreste restare qui più di quaranta giorni.»
Evreux piegò le labbra in un sorriso tirato. «Non avete fede nelle capaci-
tà di persuasione del vostro signore, il visconte Trencavel?»
«Con tutto il dovuto rispetto per i vessilli sotto i quali marciate, signore,
non credo affatto che il venerabile abate abbia intenzione di chiudere lo
scontro con mezzi diplomatici.»
Evreux la fissava ancora. Oriane trattenne il respiro.
«Sapete giocare bene le vostre carte, dama Oriane» disse alla fine.
Oriane chinò il capo, ma non disse nulla. Lui si alzò e la raggiunse.
«Accetto la vostra proposta» annunciò, e le porse un calice.
Stavolta, lo prese di buon grado.
«C'è un'ultima cosa, signore» disse. «Nella scorta del visconte Trencavel
c'è uno chevaliers, Guilhem du Mas. È il marito di mia sorella. Sarebbe
consigliabile, se ne avete il potere, fare qualcosa per limitare la sua in-
fluenza.»
«Per sempre?»
Oriane scosse il capo. «Potrebbe ancora giocare un ruolo a nostro favore.
Ma sarebbe meglio tenerlo d'occhio. Il visconte Trencavel lo predilige e
ora che mio padre non c'è più...»
Evreux annuì e congedò François. «Ora, signora» disse non appena fu-
rono rimasti soli. «Basta tergiversare. Ditemi cosa avete da offrire.»

CAPITOLO 62

«Alaïs! Alaïs! Sveglia!»


Qualcuno le scuoteva le spalle. C'era qualcosa che non andava. Era se-
duta sulla riva del fiume, nella pace e nella luce screziata della sua radura.
Sentiva l'acqua fra le dita dei piedi, fresca e piacevole, e il sole che le sfio-
rava con delicatezza le guance. Sulla lingua aveva il sapore forte del Cor-
bières e nelle narici il profumo inebriante del pane bianco appena sfornato
che si portava alla bocca.
Accanto a lei, Guilhem era sdraiato sull'erba a dormire.
Il mondo era così verde, il cielo così azzurro.
Si svegliò di soprassalto e si ritrovò nelle umide e buie gallerie sotterra-
nee. Sajhë era in piedi vicino a lei.
«Dovete svegliarvi, signora.»
Alaïs si mise a sedere in modo goffo. «Cosa è successo? Esclarmonde
sta bene?»
«Il visconte Trencavel è stato catturato.»
«Catturato» ripeté allibita. «Dove? Da chi?»
«Con l'inganno, a quanto pare. Alcuni dicono che i francesi l'hanno atti-
rato all'accampamento e poi lo hanno preso di forza. Altri, invece, sosten-
gono che si è consegnato al nemico per salvare la Ciutat. E...»
Sajhë si interruppe. Malgrado la penombra, Alaïs vide che era arrossito.
«Cosa c'è?»
«Dicono che dama Oriane e lo chevalier du Mas fossero con il vi-
sconte.» Esitò. «Neanche loro hanno fatto ritorno.»
Alaïs balzò in piedi. Diede un'occhiata a Esclarmonde, che dormiva pla-
cidamente. «Sta riposando. Potrà fare a meno di noi per un po'. Andiamo.
Dobbiamo scoprire che sta succedendo.»
Percorsero svelti la galleria e salirono per la scala. Alaïs aprì la botola e
tirò su Sajhë.
All'esterno, le strade erano affollate, piene di persone impaurite che cor-
revano avanti e indietro senza meta.
«Potete dirmi cosa succede?» gridò a un uomo che passava di lì. Quello
scosse il capo e tirò dritto. Sajhë la prese per mano e la trascinò in una ca-
setta sull'altro lato della strada.
«Gaston lo saprà.»
Alaïs lo seguì dentro. Gaston e il fratello Pons si alzarono non appena la
videro.
«Signora.»
«È vero che il visconte è stato catturato?» chiese.
Gaston annuì. «Ieri mattina il conte di Auxerre è venuto a proporre un
incontro tra il visconte Trencavel e il conte di Nevers, da tenersi in presen-
za dell'abate. Il visconte è andato con un piccolo seguito, di cui faceva par-
te anche vostra sorella, Quello che è accaduto dopo, dama Alaïs, nessuno
lo sa. O il visconte si è arreso di sua spontanea volontà per ottenere la li-
bertà del suo popolo oppure è stato ingannato.»
«Non è tornato nessuno» aggiunse Pons.
«In ogni caso, non ci saranno combattimenti» riprese Gaston in tono pa-
cato. «La guarnigione si è arresa. I francesi hanno già preso possesso delle
entrate e delle torri principali.»
«Cosa?» esclamò Alaïs, guardando esterrefatta prima uno poi l'altro fra-
tello. «Quali sono le condizioni della resa?»
«Tutti i cittadini, siano essi catari, ebrei o cattolici, potranno lasciare
Carcassona senza temere per la propria incolumità, portandosi via soltanto
gli abiti che hanno indosso.»
«Niente interrogatori? Niente roghi?»
«Pare di no. L'intera popolazione verrà esiliata, ma senza subire alcun
danno.»
Alaïs si lasciò cadere su una sedia.
«E dama Agnès?»
«Lei e il figlioletto verranno affidati alla tutela del conte di Foix senza
subire alcun danno, a patto che la signora rinunci a rivendicare i diritti del
figlio.» Gaston si schiarì la voce. «Mi dispiace per la scomparsa di vostro
marito e di vostra sorella, dama Alaïs.»
«Qualcuno sa quale sarà la sorte del nostro popolo?»
Pons scosse il capo.
«È un imbroglio, non credete?» chiese furiosa.
«Non c'è modo di saperlo, signora. Soltanto quando l'esodo sarà comin-
ciato, scopriremo se i francesi manterranno la parola.»
«Dobbiamo uscire tutti da un'unica porta, la Porte d'Aude, nella zona
ovest della Cité, quando le campane suoneranno al tramonto.»
«È finita, dunque» disse Alaïs, quasi fra sé e sé. «La Ciutat si è arresa.»
Per fortuna, mio padre non è vissuto abbastanza a lungo da vedere il vi-
sconte finire in mano francese.
«Esclarmonde migliora di giorno in giorno, ma è ancora debole. Posso
approfittare un'altra volta di voi e chiedervi di accompagnarla fuori dalla
Ciutat?» Esitò. «Per ragioni di cui non posso parlare, per il bene vostro e
di Esclarmonde, sarebbe più saggio se viaggiassimo separati.»
Gaston annuì. «Temete che chi le ha inflitto quelle orribili torture la stia
ancora cercando?»
Alaïs lo guardò stupita. «Proprio così» ammise.
«Sarà un onore servirvi, dama Alaïs.» Gaston avvampò. «Vostro padre...
lui era un uomo onesto.»
Alaïs annuì. «Già.»

Mentre gli ultimi raggi del sole che tramontava tingevano i muri esterni
dello Château Comtal di una vivace luce color arancio, la corte, i passaggi
pedonali e la Sala Grande erano avvolti dal silenzio. Era tutto abbandona-
to, deserto.
Alla Porte d'Aude, si era radunata una massa di gente spaventata e smar-
rita, tutti cercavano disperati di non perdere di vista i propri cari, disto-
gliendo lo sguardo dai volti sprezzanti dei soldati francesi che li fissavano
come se fossero bestie. Questi tenevano le mani poggiate sull'impugnatura
delle spade, quasi non aspettassero altro che una scusa.
Alaïs sperava che il travestimento fosse efficace. Avanzava attaccata al-
l'uomo che aveva davanti strusciando i piedi, ai quali portava stivali ma-
schili di diverse misure in più. Aveva delle cinghie che le appiattivano il
seno e nascondevano i libri e le pergamene. Con i calzoni, la camicia e un
comunissimo cappello di paglia, aveva l'aspetto di un ragazzo qualunque.
In bocca aveva dei sassolini che le deformavano il viso, si era tagliata i ca-
pelli e li aveva cosparsi di fango per scurirli.
La folla avanzava. Alaïs teneva gli occhi bassi, per timore di incrociare
lo sguardo di qualcuno che poteva riconoscerla e smascherarla. A mano a
mano che si avvicinava al cancello, la fiumana si stringeva in fila indiana.
Di guardia c'erano quattro crociati dall'aria annoiata e stizzita. Fermavano
la gente e la costringevano a spogliarsi per dimostrare che non portassero
nulla nascosto sotto i vestiti.
Alaïs vide che le guardie avevano fermato la lettiga di Esclarmonde. Ga-
ston, con un fazzoletto attaccato alla bocca, spiegava che la madre era mol-
to malata. Il soldato scostò la tenda e indietreggiò subito. Alaïs sorrise sot-
to i baffi. Aveva cucito della carne putrida in un budello di maiale e lo a-
veva legato al piede di Esclarmonde con delle bende sporche e insanguina-
te.
La guardia fece cenno di passare.
Diverse famiglie la separavano da Sajhë, che viaggiava insieme a Sénher
e Na Couza e i loro sei figli, che avevano il loro stesso colorito. Anche lui
si era scurito i capelli con il fango. L'unica cosa su cui non poteva barare
erano gli occhi, perciò gli era stato ordinato di non alzare mai lo sguardo a
meno che non potesse farne a meno.
La fila avanzò ancora.
Tocca a me.
Erano d'accordo che se qualcuno le parlava lei avrebbe fatto finta di non
capire.
«Toi! Paysan. Qu'est-ce que tu portes là?»
Tenne la testa bassa e resistette alla tentazione di toccare le cinghie che
aveva intorno al busto.
«Eh, toi!»
La lancia squarciò l'aria e Alaïs si preparò a ricevere un colpo che non
arrivò. Invece, la ragazza davanti a lei cadde a terra. Annaspò nel terreno
per recuperare il cappello. Alzò il viso impaurita verso il suo accusatore.
«Canhòt.»
«Che dice?» borbottò la guardia. «Non capisco un accidente di quello
che dicono.»
«Chien. Ha un cucciolo.»
Prima che qualcuno potesse rendersene conto, il soldato le aveva strap-
pato il cane dalle mani e lo aveva infilzato con la lancia. Il sangue schizzò
sul vestito della ragazza.
«Allez! Vite.»
La poverina era troppo sconvolta per muoversi. Alaïs la aiutò a rialzarsi
e la incoraggiò a camminare, la condusse fuori dal cancello, sforzandosi di
non cedere all'istinto di voltarsi per controllare Sajhë.
Adesso li vedo.
Sulla collina di fronte al cancello c'erano i baroni francesi. Non erano i
condottieri, che secondo Alaïs avrebbero aspettato che l'evacuazione fosse
terminata prima di fare il loro ingresso a Carcassonne, ma cavalieri che
portavano i vessilli di Borgogna, Nevers e Chartres.
Alla fine della fila, più vicino al sentiero, un uomo alto e smilzo era in
sella a un possente stallone grigio. Nonostante la lunga estate del sud, ave-
va ancora la pelle bianca come il latte. Accanto a lui vide François. Al suo
fianco, Alaïs riconobbe il familiare vestito carminio di Oriane.
Ma non scorse Guilhem.
Continua a camminare, tieni lo sguardo a terra.
Era così vicina ormai che sentiva l'odore di cuoio delle selle e delle bri-
glie. Sembrava che lo sguardo di Oriane si imprimesse a fuoco su di lei.
Un uomo anziano, dall'aria triste e tormentata, le diede un colpetto sul
braccio. Aveva bisogno di aiuto per salire il ripido pendio. Alaïs gli offrì la
spalla. Era il colpo di fortuna che le serviva. Agli occhi di tutti apparivano
come nonno e nipote e in quel modo riuscì a passare sotto il naso di Oriane
senza essere riconosciuta.
Il tragitto sembrò eterno. Alla fine, raggiunsero la zona erbosa dall'altra
parte della collina, dove il terreno era piano e iniziavano i boschi e le palu-
di. Dopo che il suo compagno si fu riunito al figlio e alla nuora, Alaïs si
separò dalla massa e si intrufolò fra gli alberi.
Non appena fu al riparo, sputò i sassolini che aveva in bocca. Aveva l'in-
terno delle guance escoriato e secco. Si strofinò la mascella, cercando di
alleviare il fastidio. Si tolse il cappello e passò le dita fra i capelli a spazzo-
la. Sembravano paglia umida, erano ispidi e fastidiosi sulla nuca.
Un urlo nei pressi del cancello attirò la sua attenzione.
No, ti prego. Dimmi di no.
Un soldato aveva afferrato Sajhë per la collottola. Lo vide scalciare nel
tentativo di liberarsi. Teneva in mano qualcosa. Una piccola scatola.
Alaïs ebbe un tuffo al cuore. Non poteva rischiare di tornare indietro,
non era in grado di fare nulla. Na Couza discuteva con il soldato, che la
picchiò sulla testa e la fece cadere. Sajhë colse l'occasione. Si divincolò
dalla presa dell'uomo e si precipitò giù per la collina. Sénher Couza aiutò
la moglie a rialzarsi.
Alaïs trattenne il respiro. Per un attimo sembrò che tutto fosse a posto. Il
soldato aveva perso interesse. Ma a un tratto Alaïs sentì gridare una donna.
Oriane urlava e indicava Sajhë, ordinando alle guardie di acciuffarlo. Lo
ha riconosciuto.
Sajhë non era certo Alaïs, ma era sempre qualcosa. Ci fu un improvviso
fermento. Due soldati si avviarono giù per la collina alle calcagna di Sajhë,
ma lui era più veloce, scattante ed esperto di loro. Appesantiti dalle armi e
dalle armature, non potevano competere con un ragazzino di undici anni.
Alaïs lo incitò in silenzio, lo osservò sfrecciare di qua e di là, saltare ed e-
vitare i fossi finché non trovò riparo nel bosco.
Quando capì che stavano per perdere le sue tracce, Oriane lo fece inse-
guire da François. Il cavallo si precipitò giù per la discesa; scivolava e
sbandava sul terreno scosceso e arido, ma guadagnava velocemente terre-
no. Sajhë si tuffò nel sottobosco, con François alle costole.

Alaïs intuì che Sajhë era diretto alla zona paludosa, dove l'Aude si dira-
mava in numerosi affluenti. Il terreno era verde e somigliava a un prato in
primavera, ma lo strato inferiore era infido. La gente del luogo ne stava al-
la larga.
Alaïs si arrampicò su un albero per vedere meglio, O François non aveva
capito dove fosse diretto Sajhë oppure non gli importava, perché continua-
va a spronare il cavallo.
Lo ha quasi raggiunto.
Sajhë inciampò e per poco non perse l'appiglio, ma continuò a correre
serpeggiando fra gli alberi e attirando il suo inseguitore fra rovi e cardi.
All'improvviso François cacciò un urlò di rabbia, che fu sostituita ben
presto dalla paura. La melma si era avvinghiata alle zampe posteriori del
cavallo e lo tirava verso il basso. L'animale nitriva e agitava le zampe di-
sperato. Ogni suo sforzo non faceva altro che accelerare la discesa nelle
sabbie mobili.
François si buttò giù dalla sella e tentò di nuotare fino al bordo del pan-
tano, ma sprofondò sempre di più, inghiottito dal fango, finché si poterono
vedere soltanto le punte delle dita.
Poi, calò il silenzio. Ad Alaïs sembrò che persino gli uccelli avessero
smesso di cantare. Preoccupata per Sajhë, si precipitò giù dall'albero e lo
vide apparire proprio in quell'istante. Aveva il viso cereo, il labbro supe-
riore che tremolava per la fatica e la scatola di legno ancora stretta fra le
mani.
«L'ho attirato nella palude» disse.
Alaïs gli mise una mano sulla spalla. «Ho visto. Sei stato molto furbo.»
«Anche lui era un traditore?»
Alaïs annuì. «Credo che fosse questo che Esclarmonde cercava di dirci.»
Torse le labbra, era contenta che il padre non avesse vissuto tanto a lungo
da scoprire che François lo aveva tradito. Scacciò quel pensiero dalla men-
te. «Ma che ti è venuto in mente, Sajhë? Perché diavolo hai portato questa
scatola? Per poco non ti uccidevano.»
«Menina mi ha detto di tenerla al sicuro.»
Sajhë distese le dita sul fondo della scatola e premette da entrambi i lati
contemporaneamente. Ci fu uno scatto secco, a quel punto Sajhë rovesciò
la scatola e mostrò un cassettino segreto. Ci infilò il dito ed estrasse un
pezzo di stoffa.
«È una mappa. Menima ha detto che ci sarebbe servita.»
Alaïs capì in un baleno. «Non ha intenzione di venire con noi» disse con
voce cupa, sforzandosi di ricacciare le lacrime che le spuntavano negli oc-
chi.
Sajhë scosse il capo.
«Ma perché non me lo ha detto?» chiese con la voce che le tremava.
«Non si fidava di me?»
«Non l'avreste lasciata andare.»
Alaïs piegò la testa all'indietro e l'appoggiò contro l'albero. Era sopraf-
fatta dall'importanza del suo compito. Senza Esclarmonde non sapeva dove
avrebbe trovato la forza di fare ciò che doveva.
Quasi le avesse letto nel pensiero, Sajhë disse: «Mi occuperò io di voi. E
non sarà per sempre. Quando avremo consegnato il Libro delle Parole ad
Harif, torneremo indietro a prenderla. Si es atal es atal». Sia quel che sia.
«Dovremmo essere tutti saggi come te.»
Sajhë arrossì. «È qui che dobbiamo andare» disse e le indicò un punto
sulla carta geografica. «Non compare su nessuna mappa, ma menina lo
chiama il villaggio di Los Seres.»
Ma certo.
Non era solo il nome dei custodi, era un posto.
«Avete capito?» fece Sajhë. «Sui monti del Sabarthès.»
Alaïs annuì. «Sì, sì» rispose. «A questo punto, credo proprio di aver ca-
pito.»

IL RITORNO SULLE MONTAGNE

CAPITOLO 63

MONTI DEL SABARTHÈS


Venerdì, 8 luglio 2005

Audric Baillard era seduto a un tavolo di legno scuro e lucidato a spec-


chio, nella sua casa ai piedi della montagna.
Il soffitto era basso e il pavimento rivestito con grandi piastrelle quadra-
te, rosse come la terra di montagna. Aveva apportato poche modifiche.
Lontano da qualunque forma di progresso, non aveva energia elettrica né
acqua corrente, niente automobili, nessun telefono. L'unico rumore era il
ticchettio dell'orologio che scandiva i secondi.
Sul tavolo c'era una lampada a olio, ormai spenta. Accanto a essa, un
bicchiere di guignolet colmo quasi fino all'orlo, che riempiva la stanza del
profumo delicato di alcol e ciliegie. All'altro capo del tavolo, c'era un vas-
soio di ottone con sopra due bicchieri e una bottiglia di vino ancora chiusa,
insieme a un piattino di stuzzichini coperti da un tovagliolo bianco.
Baillard aveva aperto le persiane per poter vedere sorgere il sole. In pri-
mavera, gli alberi ai confini del villaggio erano punteggiati di minuscoli
boccioli argentei e bianchi, mentre fiori gialli e rosa facevano capolino ti-
midi dagli arbusti e dalle scarpate. Ma in quel periodo dell'anno, ormai, di
colore ne restava ben poco, soltanto il grigio e il verde dei monti alla cui
eterna presenza era vissuto per così tanto tempo.
Una tenda separava la zona notte dall'ambiente principale. L'intera pare-
te in fondo era rivestita di strette mensole, adesso quasi vuote. Un vecchio
mortaio, un paio di ciotole e di mestoli, qualche barattolo. C'erano anche
dei libri, non solo quelli scritti da lui, ma anche volumi di autorevoli stu-
diosi di storia catara: Delteil, Duvernoy, Nelli, Marti, Brenon, Rouquette.
Opere di filosofia araba si trovavano accanto a traduzioni di testi ebraici, a
monografie di autori antichi e moderni. Le file di tascabili, che stonavano
in quel contesto, occupavano quello che una volta era il posto di pozioni ed
erbe.
Baillard era pronto ad aspettare.
Portò il bicchiere alle labbra e bevve un lungo sorso.
E se lei non fosse venuta? Se non fosse riuscito a conoscere la verità su
quelle ultime ore?
Sospirò. Se non fosse arrivata, allora sarebbe stato costretto a compiere
da solo gli ultimi passi di quel lungo viaggio. Come aveva sempre temuto.

CAPITOLO 64

Quando il sole spuntò, Alice si trovava pochi chilometri a nord di Tou-


louse. Entrò in un'area di servizio e bevve due tazze di caffè zuccherato e
bollente, per rinsaldare i nervi.
Lesse di nuovo la lettera. Era stata imbucata a Foix mercoledì mattina.
Una lettera di Audric Baillard, in cui si trovavano le indicazioni per rag-
giungere casa sua. Sapeva che era autentica. Aveva riconosciuto la grafia
nera e filiforme.
Capì che non poteva fare a meno di andare.
Allargò la cartina sul bancone, nel tentativo di individuare il punto esatto
verso il quale dirigersi. L'hameau dove abitava Baillard non compariva
sulla cartina, anche se lui aveva menzionato diversi punti di riferimento e
nomi di paesi vicini per farle capire a grandi linee quale fosse la zona.
Era convinto, diceva, che Alice avrebbe riconosciuto il posto una volta
arrivata.

Per precauzione, cosa che avrebbe dovuto fare prima, Alice scambiò al-
l'aeroporto l'auto che aveva noleggiato con una di diverso colore e model-
lo, nel caso in cui qualcuno fosse sulle sue tracce, quindi riprese il viaggio
verso sud.
Oltrepassò Foix e proseguì in direzione di Andorra, passando per Tara-
scona, prima di seguire le indicazioni di Baillard. Lasciò la strada principa-
le a Luzenac e attraversò Lordat e Bestiac. Il paesaggio cambiò. Le fece
tornare in mente i pendii delle Alpi. Fiorellini di montagna, erba alta, case
simili a chalet svizzeri.
Superò un'irregolare cava, sembrava una gigantesca cicatrice bianca in-
cisa nel fianco della montagna. Imponenti pali dell'elettricità e grossi cavi
neri delle località turistiche invernali spiccavano nell'azzurro del cielo e-
stivo.
Alice attraversò il fiume Lauze. Fu costretta a inserire la seconda poiché
la strada si faceva più ripida e le curve più strette. Cominciava ad avere la
nausea per via degli infiniti tornanti, quando si ritrovò in un piccolo paesi-
no.
C'erano due negozi e un caffè con un paio di tavolini e sedie all'aperto.
Pensando che fosse meglio accertarsi che stesse seguendo la direzione giu-
sta, Alice entrò nel caffè. L'aria all'interno del locale era impregnata di fu-
mo e alcuni uomini ingobbiti e scontrosi, tutti con le facce distrutte dal
clima e con indosso una tuta blu da lavoro, erano allineati al bancone.
Alice ordinò un caffè e appoggiò di proposito la cartina sul bancone.
L'avversione della gente del luogo per i forestieri, soprattutto se donne, fe-
ce sì che nessuno le rivolgesse la parola per un bel po'. Alla fine però riuscì
ad attaccare bottone. Nessuno aveva mai sentito di un posto chiamato Los
Seres, ma erano pratici della zona e la aiutarono come poterono.
Alice si inerpicò ancora, a poco a poco cominciò a orientarsi. La strada
divenne un sentiero e alla fine scomparve del tutto. Alice parcheggiò e uscì
dall'auto. Soltanto allora, in quel paesaggio familiare con l'odore di monta-
gna nelle narici, capì che in realtà era tornata indietro e che si trovava esat-
tamente sulla punta estrema del Pic de Soularac.
Alice si arrampicò nel punto più alto e si riparò gli occhi con la mano.
Individuò l'étang de Tort, un laghetto dalla forma particolare a cui gli uo-
mini del bar le avevano detto di prestare attenzione. Nelle vicinanze c'era
un secondo specchio d'acqua che nella zona veniva chiamato lago del Dia-
volo.
Alla fine, guardò in direzione del Pic de Saint-Barthélémy, che si trova-
va fra il Pic de Soularac e Montségur.
Dritto davanti a lei un unico sentiero saliva tortuoso in mezzo alla verde
boscaglia, alla terra marrone e alle vivaci ginestre gialle. Le foglie verdi e
scure del bosco erano profumate e appuntite. Le toccò e strofinò la rugiada
sulla punta delle dita.
Alice salì per dieci minuti. A un certo punto, il sentiero si aprì e divenne
uno spiazzo. Era arrivata.
C'era soltanto una casa, su un unico piano, circondata da rovine, la pietra
grigia si mimetizzava con la parete rocciosa sullo sfondo. E sulla soglia
l'attendeva un uomo molto esile e vecchio, con una folta chioma bianca,
che indossava il completo chiaro della fotografia.
Alice sentiva le gambe muoversi per conto loro. Il terreno diventava
pianeggiante mentre percorreva gli ultimi metri che la separavano da lui.
Baillard la guardava in silenzio e del tutto immobile. Non sorrise né la sa-
lutò con un cenno della mano. Persino quando Alice fu a un passo da lui,
non disse e non fece nulla, ma non distolse mai lo sguardo dal suo viso.
Gli occhi erano di un colore davvero straordinario.
Ambra con pagliuzze del colore delle foglie autunnali.
Alice si fermò di fronte all'uomo. Alla fine, lui sorrise. Un sorriso che
spuntò come il sole da dietro le nuvole e trasformò i segni e le rughe sul
suo volto.
«Madomaisèla Tanner» esordì. La voce era profonda e vetusta come il
vento del deserto. «Benvenguda. Sapevo che ce l'avrebbe fatta.» Si fece da
parte per lasciarla entrare. «Prego.»
Nervosa e impacciata, Alice si chinò sotto l'architrave e varcò la soglia,
ancora colpita dall'intensità dello sguardo di quell'uomo. Era come se cer-
casse di imprimere nella memoria ogni particolare.
«Monsieur Baillard» iniziò Alice, poi si interruppe.
Non sapeva proprio cosa dire. La gioia e la meraviglia di Baillard per
averla vista arrivare, unita alla convinzione che Alice avrebbe ritrovato la
strada, rendevano impossibile qualunque normale conversazione.
«Le somiglia» disse lui sottovoce. «Nel suo viso la rivedo.»
«L'ho vista soltanto in fotografia, ma ho pensato la stessa cosa.»
Lui sorrise. «Non intendevo Grace» spiegò con dolcezza, quindi si voltò
come se avesse detto troppo. «Prego, si accomodi.»
Alice lanciò un'occhiata furtiva alla stanza e notò la mancanza di ritrova-
ti moderni. Niente luce, niente riscaldamento, nessun elettrodomestico. Si
domandò se ci fosse una cucina.
«Monsieur Baillard» riprese. «È un piacere conoscerla. Mi chiedevo...
come ha fatto a trovarmi?»
Lui sorrise di nuovo. «Che importanza ha?»
Alice ci pensò e capì che non ne aveva affatto.
«Madomaisèla Tanner, so del Pic de Soularac. Ho una domanda da farle,
prima di proseguire. Ha trovato un libro?»
Alice avrebbe voluto rispondere di sì, più di qualunque altra cosa al
mondo. «Mi dispiace» rispose e scosse il capo. «Me lo ha chiesto anche
lui, ma io