Caro lettore,
sono stata per la prima volta a Carcassonne quindici anni fa. Fin dal
principio ho avuto la sensazione di conoscere quel posto, di capirlo. La
qualità della luce, le montagne in lontananza, il modo in cui le testimo-
nianze della storia sanguinosa e traumatica di quella regione erano dis-
seminate ovunque, quasi fossero cicatrici del paesaggio. Un luogo fami-
liare, sebbene non vi fossi mai stata prima: ne rimasi incantata. Ho cam-
minato, ho esplorato e ho appreso dei catari, cristiani del tredicesimo se-
colo condannati come eretici, i cui fantasmi sopravvivono nel tempo. Ho
letto tanto e di tutto, soprattutto per passione. Avevo già altri impegni e
progetti. Mi era venuta l'idea di scrivere un romanzo sui miti e le leggen-
de, sui segreti delle civiltà antiche, una storia su come questi segreti si
conservano, vengono plasmati e tramandati di generazione in generazio-
ne: una storia sul Graal che rimettesse in discussione tutte le teorie ormai
universalmente riconosciute, la storia di un Graal precristiano. Lo scena-
rio che avevo inizialmente immaginato era l'Egitto, non la Francia.
Tuttavia i miti, le leggende e le storie della Linguadoca continuavano a
ronzarmi nella testa. Poco alla volta le due cose cominciarono a fondersi
finché i contorni del romanzo non furono chiari: il destino, l'ombra della
storia, il presente radicato nel passato. Tre libri smarriti, due donne, un
segreto racchiuso in un labirinto, una storia sul Graal ambientata in ma-
niera insolita fra i paesaggi senza tempo della Francia sud-occidentale.
Fare ricerche, studiare, indagare su epoche, persone, luoghi, imparare
dagli errori, tornare indietro e ricominciare daccapo: tutto ciò ha costitui-
to un'esperienza meravigliosa, sempre stimolante, a volte sorprendente,
impegnativa, molto divertente tanto che mi spiace (quasi) che sia termina-
ta.
Ora è tutto in mano tua, caro lettore, e mi auguro che la lettura di que-
sto libro sia piacevole quanto è stato piacevole per me scriverlo.
NOTA DELL'AUTRICE
Nota storica
Nel marzo dell'anno 1208, il pontefice Innocenzo III bandì una crociata
contro una setta di cristiani che abitava la Linguadoca. Oggi essi sono ge-
neralmente noti come catari. Allora si definivano bons chrétiens; Bernardo
di Chiaravalle vi si riferiva con l'appellativo di albigesi, mentre per il tri-
bunale dell'Inquisizione essi erano soltanto "eretici". Papa Innocenzo III
intendeva cacciare i catari dal Mezzogiorno per restaurarvi l'autorità reli-
giosa della chiesa cattolica. I baroni francesi del nord che presero parte alla
crociata vedevano in essa un'occasione per annettersi nuovi territori, per
accrescere la propria ricchezza e per trarre vantaggio dall'assoggettamento
della nobiltà, oltremodo indipendente, del meridione.
Sebbene già dalla fine dell'undicesimo secolo il principio che era alla
base delle crociate fosse un concetto fondamentale per la vita cristiana del
Medioevo, e sebbene durante la quarta crociata, in occasione dell'assedio
di Zara del 1204, i crociati avessero colpito altri cristiani, quella era la
prima volta che veniva predicata la guerra santa contro gli stessi cristiani e
su suolo europeo, per giunta.
La persecuzione dei catari portò direttamente alla nascita del-
l'Inquisizione nel 1233 sotto gli auspici dei frati domenicani, i cosiddetti
frati predicatori.
Quali che fossero le motivazioni religiose della chiesa cattolica e quelle
politiche dei condottieri degli eserciti crociati, come Simon de Montfort, la
crociata contro gli albigesi fu essenzialmente una guerra di occupazione e
segnò un punto di svolta nella storia di quella che è oggi la Francia. Rap-
presentò la fine dell'indipendenza del sud e la distruzione di molte tradi-
zioni, ideali e stili di vita.
Come il termine "cataro", la parola "crociata" non veniva usata nei do-
cumenti medievali. L'armata cristiana veniva chiamata "l'esercito", "l'ost"
in occitanico. In ogni modo, dal momento che oggi entrambi i termini sono
di uso comune, li ho presi in prestito più di una volta per comodità.
PROLOGO
PIC DE SOULARAC
MONTI DEL SABARTHÈS
FRANCIA SUD-OCCIDENTALE
Lunedì, 4 luglio 2005
Un rivolo di sangue scorre lungo l'interno pallido del braccio, una cuci-
tura purpurea sulla manica bianca.
All'inizio, Alice pensa che si tratti di una mosca e non ci bada. Gli insetti
rientrano nei rischi professionali di una zona archeologica e per qualche
ragione ci sono più mosche nella parte alta della montagna dove lei sta la-
vorando che sotto, nell'area principale di scavo. Poi una goccia di sangue
cade sulla gamba scoperta ed esplode nell'aria come un fuoco d'artificio
nella notte di Guy Fawkes.
Stavolta guarda e vede che il taglio nella parte interna del braccio, all'al-
tezza del gomito, si è riaperto. È una ferita profonda e non vuole rimargi-
narsi. Con un sospiro preme il cerotto e la garza per farli aderire alla pelle.
E dopo, siccome nessuno la vede, lecca la striscia rossa dal polso verso
l'alto.
Alcune ciocche di capelli, scure come zucchero di canna, sono uscite dal
berretto. Le aggiusta dietro le orecchie e si asciuga la fronte con il fazzo-
letto, poi avvolge la coda di cavallo in una crocchia ben stretta sulla nuca.
Perduta la concentrazione, Alice si alza e si sgranchisce le gambe magre
e leggermente abbronzate. Con i calzoncini di jeans sfrangiati, la T-shirt
bianca, aderente e senza maniche, e il berretto, non dimostra più di ven-
t'anni. Una volta le dispiaceva. Ora che l'età avanza, capisce quale fortuna
sia sembrare più giovane. Le uniche concessioni alla moda sono dei minu-
scoli orecchini d'argento a forma di stella che luccicano come lustrini.
Alice svita il tappo della borraccia. L'acqua e calda, ma lei ha molta sete
e ne trangugia a grandi sorsi. Più in basso, la foschia prodotta dal calore
scintilla sull'asfalto deformato della strada. Il cielo sopra di lei è di un az-
zurro senza fine. Le cicale continuano il loro coro incessante, nascoste al-
l'ombra dell'erba secca.
È la prima volta che Alice si trova sui Pirenei, eppure si sente decisa-
mente a casa. Le hanno detto che d'inverno le vette frastagliate dei monti
del Sabarthès si coprono di neve. In primavera, delicati fiori rosa, lilla e
bianchi spuntano dai loro nascondigli nelle grandi distese di rocce. All'ini-
zio dell'estate, i pascoli sono verdi e punteggiati di ranuncoli. Adesso, in-
vece, il sole ha soggiogato la terra, trasformando il verde in marrone. È un
bel posto, pensa, ma in un certo senso inospitale. È un luogo di segreti, un
luogo che ha visto e nascosto troppe cose per poter essere in pace con se
stesso.
All'accampamento principale, sui pendii meno ripidi, Alice vede i suoi
colleghi sotto i grossi tendoni. Riesce a intravedere Shelagh nell'abituale
tenuta nera. Strano che si siano già fermati. È troppo presto per una pausa,
ma in effetti tutta la squadra è alquanto demoralizzata.
Svolgono per lo più un lavoro meticoloso e monotono, scavano e ra-
schiano, catalogano e registrano, e finora non hanno trovato nulla di tanto
importante da giustificare i loro sforzi: alcuni frammenti di vasi e ciotole
dell'alto Medioevo, punte di frecce che risalgono alla fine del dodicesimo
secolo o all'inizio del tredicesimo, ma di sicuro nessuna traccia dell'inse-
diamento paleolitico che stanno cercando.
Alice è tentata di scendere e raggiungere i suoi amici e colleghi, anche
per sistemare la fasciatura. La ferita le brucia e ha i polpacci indolenziti
per essere stata accovacciata a lungo. Ha i muscoli delle spalle contratti.
Ma sa che se si ferma ora, perderà lo slancio.
Se tutto va bene, la fortuna sta per girare dalla sua. Poco fa ha notato
qualcosa che luccicava sotto un grosso masso appoggiato con estrema pre-
cisione contro la parete rocciosa, quasi che una mano gigante avesse volu-
to sistemarlo in quel modo. Sebbene non riesca a capire di cosa si tratti, e
nemmeno quanto sia grande quell'oggetto, è tutta la mattina che scava e
pensa che tra non molto riuscirà a raggiungerlo.
Sa che dovrebbe andare a chiamare qualcuno. O perlomeno dovrebbe
avvertire Shelagh, la sua migliore amica e incaricata degli scavi. Alice non
è un'archeologa professionista, è soltanto una volontaria che vuole trascor-
rere parte delle vacanze estive facendo qualcosa di utile. Ma questo è il suo
ultimo giorno di scavi e vuole dimostrare quanto vale. Se tornasse ora al-
l'accampamento principale e confessasse di aver trovato qualcosa, tutti
vorrebbero partecipare e non sarebbe più la sua scoperta.
Nei giorni e nelle settimane a venire Alice ripenserà a questo momento.
Si ricorderà della qualità della luce, del sapore metallico di sangue e polve-
re che sente in bocca, e penserà a quanto le cose sarebbero state diverse se
avesse deciso di andarsene anziché restare. Se avesse deciso di giocare se-
condo le regole.
Beve l'ultimo goccio d'acqua dalla borraccia e la butta nello zaino. Per
un'ora, o poco più, mentre il sole si alza sempre più in cielo e la temperatu-
ra aumenta, Alice continua a lavorare. Gli unici rumori sono lo stridore del
metallo contro la roccia, il ronzio degli insetti e di tanto in tanto il brusio di
un velivolo leggero in lontananza. Sente le gocce di sudore sul labbro su-
periore e fra i seni, ma continua a scavare finché, finalmente, lo spazio sot-
to il masso è abbastanza grande da infilarci la mano.
In ginocchio per terra, Alice appoggia la guancia e la spalla alla roccia
per sorreggersi. Poi, tutta eccitata, affonda le dita nella terra scura e umida.
In un attimo, capisce che il suo istinto non si sbagliava e che ha trovato
qualcosa di importante. Al tatto è liscio e scivoloso: metallo, non pietra.
Lo afferra saldamente, dicendo a se stessa di non aspettarsi troppo, poi e-
strae molto lentamente l'oggetto. La terra sembra tremare, restia a cedere il
suo tesoro.
L'odore forte e nauseante della terra bagnata le penetra nel naso e nella
gola, ma non le importa. È già immersa nel passato, ammaliata da quel
pezzo di storia che custodisce fra le mani. È una fibbia tonda e pesante, ri-
coperta di macchioline nere e verdi dovute all'età e al lungo periodo tra-
scorso sottoterra. Alice la strofina con le dita e sorride quando vede un par-
ticolare in argento e rame comparire da sotto lo sporco. A prima vista,
sembra che appartenga anch'essa all'epoca medievale, una di quelle fibbie
che si usavano per chiudere i mantelli o le tuniche. Ha già visto qualcosa
di simile in passato.
Sa quanto sia rischioso saltare alle conclusioni o lasciarsi ingannare dal-
la prima impressione, eppure non può fare a meno di figurarsi il proprieta-
rio di quell'oggetto, morto da lungo tempo oramai, che potrebbe aver per-
corso quei sentieri. Uno straniero con una storia che lei ben presto dovrà
conoscere.
Il legame le sembra fortissimo e Alice è così assorta da non accorgersi
del masso che si sposta. Poi qualcosa, una sorta di sesto senso, le dice di
alzare lo sguardo. Per una frazione di secondo, il mondo sembra sospeso,
fuori dallo spazio e dal tempo. Alice guarda incantata l'antica lastra di pie-
tra che oscilla, si inclina e poi comincia lentamente a cadere verso di lei.
Alla fine, la luce si oscura. L'incanto si rompe. Alice si sposta di lato,
ruzzola qualche istante e si allontana strisciando, giusto in tempo per evita-
re di essere schiacciata. Il masso cade a terra con un tonfo, sollevando una
nuvola di polvere marroncina, quindi comincia a rotolare come al rallenta-
tore fino a fermarsi ai piedi della montagna.
Alice si aggrappa disperatamente ai cespugli e alla sterpaglia per non
scivolare più in basso. Per un momento rimane sdraiata a terra, stordita e
disorientata. Quando realizza che per pochissimo non è stata schiacciata, si
sente gelare. C'è mancato poco. Un respiro profondo. Aspetta che il mon-
do smetta di vorticare.
A poco a poco il martellio nella testa cessa. Il senso di nausea si placa e
tutto torna normale, quanto basta perché si sieda e faccia il punto della si-
tuazione. Ha le ginocchia sbucciate e striate di sangue e ha battuto il polso
durante l'atterraggio di fortuna; ha ancora la fibbia stretta nel pugno, ma in
fondo se l'è cavata con qualche graffio. Non sono ferita.
Si rialza e si toglie la polvere di dosso, si sente un'idiota. Non può crede-
re di aver commesso un'errore tanto banale, quello di non bloccare il mas-
so. Ora Alice guarda in direzione dell'accampamento principale della zona
di scavo. È stupita, e sollevata, che nessuno laggiù abbia visto o sentito
nulla. Alza la mano, è sul punto di gridare per attirare l'attenzione di qual-
cuno, quando vede una stretta apertura sul fianco della montagna, nel pun-
to in cui si trovava il masso. Come una porta scavata nella roccia.
Si dice che questi monti siano pieni di caverne e passaggi segreti, perciò
Alice non si stupisce. Eppure, pensa, in un certo senso sapeva che c'era
quel varco, anche se dall'esterno non c'era modo di capirlo. Se lo sentiva,
più che altro.
È indecisa. Sa che dovrebbe andare a chiamare qualcuno. È stupido, for-
se anche pericoloso, entrare da sola senza nessuno che le copra le spalle.
Sa bene quante cose possono andare storte. Ma in ogni caso non dovrebbe
trovarsi lassù a lavorare per conto suo. Shelagh non ne è al corrente.
Oltretutto, c'è qualcosa che la attira là dentro. Qualcosa di personale. Si
tratta della sua scoperta.
Alice dice a se stessa che non c'è motivo di disturbare gli altri, di ali-
mentare speranze inutili. Se c'è qualcosa di interessante, allora chiamerà
qualcuno. Non farà nulla. Darà soltanto un'occhiata.
Soltanto un minuto.
Risale a fatica. C'è un profondo avvallamento nel terreno all'entrata della
caverna, nel punto in cui era posizionato il masso. La terra umida brulica
di vermi e coleotteri che, esposti alla luce improvvisa dopo tanto tempo, si
dimenano in modo frenetico. Il berretto è ancora per terra dov'è caduto.
Anche la cazzuola è esattamente dove l'ha lasciata.
Alice scruta nell'oscurità. L'apertura è alta circa un metro e mezzo e lar-
ga poco meno di un metro, i bordi sono irregolari, scabri. Sembra naturale,
più che creata dall'uomo, anche se, strofinando con le dita la superficie
rocciosa, Alice scopre dei punti stranamente lisci là dove giaceva il masso.
A poco a poco gli occhi si abituano al buio. Il nero pece diventa grigio
fumo e lei capisce che sta guardando in un tunnel lungo e stretto. Sente la
peluria sulla nuca irrigidirsi, quasi volesse avvertirla che c'è qualcosa in
agguato nell'oscurità, che sarebbe meglio non disturbare. Ma è soltanto
sciocca superstizione e scaccia via quel presentimento. Alice non crede ai
fantasmi e nemmeno alle premonizioni.
Con la fibbia stretta nel pugno come un talismano, tira un respiro pro-
fondo e si addentra nel tunnel. Subito, l'odore di chiuso di quel luogo sot-
terraneo la avvolge riempiendole bocca, gola e polmoni. L'ambiente è
freddo e umido, niente a che vedere con l'aria secca e asfissiante della ca-
verna sigillata da cui l'hanno messa in guardia, perciò pensa che debba es-
serci una sorgente di aria fresca. Fruga nelle tasche dei calzoncini finché
non trova l'accendino, non si sa mai. Lo apre con uno scatto, lo solleva nel
buio e controlla due volte che ci sia ossigeno. La fiamma si indebolisce a
causa di un soffio di vento, ma non si spegne.
Alice è nervosa e si sente un po' in colpa, avvolge la fibbia nel fazzoletto
e se l'infila in tasca, quindi avanza con cautela. La luce dell'accendino è
fioca, ma illumina il cammino davanti a lei lasciando in ombra le pareti
grigie e appuntite.
Mentre avanza, sente l'aria fredda avvolgersi come un gatto intorno alle
gambe e le braccia nude. Sta camminando in discesa. Avverte il terreno in-
clinarsi sotto i piedi, ciottoloso e irregolare. Lo scricchiolio delle pietre e
della ghiaia si sente più forte in quello spazio angusto e silenzioso. Alice si
rende conto che la luce del giorno alle sue spalle si affievolisce a mano a
mano che si inoltra nella caverna.
A un tratto non vuole più proseguire. Non vuole più neanche trovarsi lì.
Ma c'è qualcosa di ineluttabile che la spinge ad addentrarsi nel ventre della
montagna.
Dopo una decina di metri il tunnel giunge alla fine. Alice si ritrova sulla
soglia di una stanza a sé, un'altra caverna. Si trova su una piattaforma di
pietra naturale. Un paio di gradini bassi e larghi davanti a lei conducono al
centro della stanza, dove il terreno è stato spianato e levigato. La caverna è
lunga circa dieci metri e larga cinque, e pare modellata dalla mano del-
l'uomo piuttosto che dalla natura. Il soffitto a volta è basso, come quello di
una cripta.
Alice sgrana gli occhi, alza un po' la fiamma tremolante dell'accendino,
turbata da un qualcosa di familiare che non riesce a spiegarsi. È sul punto
di scendere i gradini quando vede che ci sono delle lettere incise nella pie-
tra. Si abbassa e cerca di leggere cosa c'è scritto. Solo le prime tre parole e
l'ultima lettera - una N o forse una H - sono leggibili. Le altre sono state
erose o cancellate. Alice strofina lo sporco con le dita e scandisce le parole
a voce alta. La sua voce echeggia stranamente ostile e minacciosa nel si-
lenzio.
«P-a-s a p-a-s... Pas a pas.»
Passo passo? Passo passo cosa? Un vago ricordo affiora dall'inconscio,
come una canzone dimenticata da tempo. Poi svanisce.
«Pas a pas» sussurra stavolta, ma non significa nulla. Una preghiera?
Un avvertimento? Non ha senso se non si conosce il seguito.
Agitata, si rialza e scende i gradini uno alla volta. La curiosità lotta con-
tro il presagio e sente che sulle braccia esili e scoperte sta spuntando la
pelle d'oca, non sa dire se per l'ansia o per il freddo della caverna.
Alice tiene alta la fiamma per illuminare il cammino, facendo attenzione
a non scivolare e a non spostare nulla. Arrivata nel punto più basso, si fer-
ma. Respira profondamente e fa un passo nel buio fittissimo. Riesce sol-
tanto a intravedere la parete sul fondo della stanza.
A questa distanza è difficile stabilire se si tratti di un gioco di luce o di
un'ombra provocata dalla fiamma, ma le sembra di vedere una grande figu-
ra circolare, fatta di linee e semicerchi, dipinta o scolpita nella roccia. Per
terra, di fronte alla parete, c'è un tavolo di pietra, alto poco più di un metro,
simile a un altare.
Alice tiene gli occhi incollati al simbolo sulla parete, per non perdere l'o-
rientamento, e intanto avanza lentamente. Ora riesce a vedere meglio il di-
segno. È una specie di labirinto, anche se la memoria le dice che qualcosa
non quadra. Non è un labirinto vero e proprio. Le linee non conducono
come dovrebbero verso il centro. Il disegno è sbagliato. Alice non sa spie-
gare come fa a esserne tanto sicura, sa soltanto che è così.
Senza distogliere lo sguardo dal labirinto, si avvicina sempre di più. Con
il piede urta qualcosa di duro. C'è un lieve rumore sordo, qualcosa che ro-
tola, come un oggetto che si sposta.
Alice guarda in basso.
Le gambe cominciano a tremare. La pallida fiamma dell'accendino ha un
guizzo. Lo shock le toglie il respiro. Si trova sull'orlo di una fossa poco
profonda, un leggero avvallamento del terreno, nient'altro. All'interno ci
sono due scheletri, una volta due esseri umani, le ossa ripulite dal tempo.
Le orbite vuote di uno dei due teschi sono rivolte verso di lei. L'altro te-
schio, quello che ha inavvertitamente spostato con il piede, è di profilo,
quasi rifiutasse di guardarla.
I corpi sono stati sistemati fianco a fianco e rivolti all'altare, simili a
sculture scolpite in una pietra tombale. Sono disposti in modo simmetrico
e allineati alla perfezione, ma non c'è nulla in quel sepolcro che ispiri tran-
quillità. Non c'è alcun senso di pace. Gli zigomi di un teschio sono frantu-
mati, piegati all'interno come in una maschera di cartapesta. L'altro schele-
tro ha diverse costole rotte che sporgono come i fragili rami di un albero
secco.
Non possono farti alcun male. Decisa a non cedere alla paura, Alice si
sforza di chinarsi, prestando attenzione a non spostare nient'altro. Dà u-
n'occhiata alla fossa. C'è un pugnale appoggiato fra i due corpi, la lama
smussata dagli anni, e qualche brandello di stoffa. Accanto al pugnale, una
sacca di pelle con un cordoncino, grande abbastanza da contenere una sca-
tolina o un libro. Alice aggrotta la fronte. È sicura di aver già visto qualco-
sa del genere prima d'ora, ma la memoria si rifiuta di collaborare.
L'oggetto bianco e tondo incastrato fra le dita ad artiglio dello scheletro
più minuto è talmente piccolo che quasi le sfugge. Senza fermarsi a pensa-
re se sta facendo la cosa giusta, recupera rapidamente le pinzette dalla ta-
sca. Si abbassa ed estrae l'oggetto con cautela, lo porta vicino alla fiamma
e soffia delicatamente per togliere la polvere ed esaminarlo con attenzione.
È un piccolo anello di pietra, semplice e di scarso valore, dalla superficie
liscia e bombata. Anche questo è stranamente familiare. Alice lo guarda
con attenzione. Nella parte interna vi è inciso un disegno. Dapprima pensa
che si tratti di uno stemma. D'un tratto, con un sobbalzo, capisce. Alza gli
occhi, guarda i segni sulla parete in fondo alla stanza, poi di nuovo l'anello.
Il disegno è identico.
Alice non è religiosa. Non crede all'inferno né al paradiso, né in Dio né
nel demonio, e nemmeno alle creature che si crede infestino questi monti.
Eppure, per la prima volta in vita sua, è sopraffatta dalla sensazione di tro-
varsi davanti a qualcosa di soprannaturale, qualcosa di inspiegabile, qual-
cosa che va al di là della sua esperienza e della sua capacità di compren-
sione, Sente la malvagità strisciarle sulla pelle, sulla testa, sulle piante dei
piedi.
Il coraggio vacilla. La caverna all'improvviso è gelida. La paura la affer-
ra alla gola, congela il respiro nei polmoni. Si alza in fretta. Non dovrebbe
trovarsi in questo luogo antico. Ora vuole disperatamente uscire dalla stan-
za, fuggire da quelle tracce di violenza, da quell'odore di morte, tornare al
sicuro, nella luce splendente del sole.
Ma è troppo tardi.
Sopra o dietro di lei, non sa di preciso dove, si sentono alcuni passi.
Il rumore rimbomba nello spazio angusto, rimbalza sulle rocce. Sta arri-
vando qualcuno.
Alice si volta allarmata e fa cadere l'accendino. La caverna precipita nel
buio. Cerca di scappare, ma è disorientata dall'oscurità e non riesce a tro-
vare l'uscita. Inciampa. Le gambe cedono.
Cade. L'anello vola in aria e atterra di nuovo sul cumulo di ossa a cui
appartiene.
II
CARCASSONNE
FRANCIA SUD-OCCIDENTALE
Pochi chilometri più a est in linea d'aria, in un paesino sperduto sui mon-
ti del Sabarthès, un uomo alto, magro, con un completo chiaro è seduto da
solo a un tavolo di legno scuro, lucidato a specchio.
Il soffitto basso e il pavimento rivestito di grosse mattonelle quadrate,
rosse come la terra di montagna, tengono fresca la stanza malgrado il caldo
di fuori. La persiana dell'unica finestra è chiusa, per cui è buio, tranne l'a-
lone di luce gialla prodotto da una piccola lampada a olio sul tavolo. Ac-
canto alla lampada c'è un bicchiere ricolmo di liquido rosso quasi fino al-
l'orlo.
Sparsi sul tavolo ci sono diversi fogli di pesante carta filigranata, ognuno
ricoperto di righe e righe scritte in bella grafia con inchiostro nero. La
stanza è silenziosa, si sentono solo la penna che graffia e striscia sul foglio
e i cubetti di ghiaccio che tintinnano contro il bordo del bicchiere ogni vol-
ta che l'uomo beve. C'è un lieve odore di alcol e ciliegie. Il ticchettio del-
l'orologio scandisce il passare del tempo mentre l'uomo si ferma, riflette e
riprende a scrivere.
III
CHARTRES
FRANCIA SETTENTRIONALE
Più tardi, quello stesso giorno, quasi mille chilometri più a nord, un altro
uomo si trova in un cunicolo sotto le strade di Chartres, la luce fioca, in at-
tesa che la cerimonia abbia inizio.
Ha le mani che sudano, la bocca secca e percepisce ogni nervo e ogni
muscolo del corpo, perfino il pulsare del sangue nelle tempie. È impaccia-
to e stordito, ma non sa dire se per via dell'agitazione e dell'attesa o sem-
plicemente per effetto del vino. Le insolite vesti di cotone bianco cadono
pesanti dalle spalle e le corde di canapa intrecciata poggiano in maniera
goffa sulle anche sporgenti. L'uomo lancia uno sguardo fugace ai due indi-
vidui che sono accanto a lui, uno a destra e uno a sinistra, senza proferire
parola, ma il loro volto è nascosto dal cappuccio.
Chissà se sono nervosi quanto lui o se hanno preso parte al rituale molte
volte prima d'ora.
Sono vestiti allo stesso modo, solo che indossano una tunica dorata, non
bianca, e hanno le scarpe. Lui invece è scalzo e i lastroni di pietra sono
freddi.
Sopra quella rete segreta di cunicoli, le campane della grande cattedrale
gotica cominciano a suonare. L'uomo sente i due al suo fianco irrigidirsi. È
il segnale che aspettavano. Immediatamente china il capo e cerca di con-
centrarsi su quell'istante.
«Je suis prêt» mormora, più per convincere se stesso che per comunicare
il suo stato agli altri. Nessuno dei due compagni reagisce in alcun modo.
Quando l'ultima eco delle campane cessa di risuonare, l'accolito alla sua
sinistra fa un passo avanti e con una pietra seminascosta nel palmo della
mano batte cinque colpi sulla porta massiccia. Dall'interno qualcuno ri-
sponde. «Dintrar.» Entrate.
All'uomo sembra quasi di riconoscere quella voce di donna, ma non ha il
tempo di pensare a dove o a quando può averla sentita, perché la porta già
si apre e mostra la stanza che aspettava di vedere da così tanto tempo.
Camminando di pari passo, i tre avanzano adagio. L'uomo ha ripassato
mentalmente la scena e sa cosa aspettarsi, sa quello che deve fare, anche se
barcolla un po'. In confronto al freddo del corridoio, nella stanza fa caldo
ed è buio. Le uniche luci provengono dalle candele disposte nelle alcove e
sull'altare, che creano delle ombre danzanti sul pavimento.
L'uomo sente l'adrenalina che attraversa il corpo, ma rimane ec-
cezionalmente impassibile di fronte ai preparativi. Quando sente la porta
che sbatte alle sue spalle, ha un sussulto.
I quattro partecipanti più anziani prendono posto a nord, sud, est e ovest
della stanza. Lui vorrebbe a tutti i costi alzare lo sguardo per vedere me-
glio, ma si sforza di tenere la testa bassa e il volto nascosto, come gli è sta-
to ordinato. Riconosce le due file di iniziati che fiancheggiano le lunghe
pareti della stanza rettangolare, sei per ogni lato. Riesce a percepire il calo-
re dei corpi e l'alternarsi del loro respiro, anche se nessuno si muove e nes-
suno parla.
Ha memorizzato la disposizione sulle carte che gli hanno consegnato e,
mentre cammina verso il sepolcro al centro della stanza, sente i loro occhi
puntati addosso. Chissà se fra costoro c'è qualcuno che conosce. Un colle-
ga di lavoro, la moglie di qualcuno, chiunque potrebbe essere un membro.
Non riesce a trattenere un lieve sorriso, e intanto fantastica per un istante
su come cambieranno le cose dopo che l'avranno ammesso nel gruppo.
Viene riportato bruscamente alla realtà quando inciampa e per poco non
cade sull'inginocchiatoio di pietra ai piedi del sepolcro. La stanza è più
piccola di come sembrava dalla pianta, più angusta e claustrofobica. Si a-
spettava che la distanza fra la porta e la pietra fosse maggiore.
Mentre si inginocchia sulla pietra, qualcuno accanto a lui inspira pro-
fondamente e lui se ne domanda il motivo. Il cuore comincia a battere più
veloce quando guarda in basso e vede che ha le nocche bianche. Imbaraz-
zato, congiunge le mani e intreccia le dita, poi si ricorda e lascia cadere le
braccia sui fianchi, è lì che devono stare.
La pietra è lievemente avvallata nel mezzo, fredda e dura sulle ginocchia
protette soltanto dalla stoffa leggera della tunica. Si sposta un po' in cerca
di una posizione più comoda. Quel disagio gli procura una piacevole di-
strazione. Si sente ancora stordito e trova difficile concentrarsi o ricordare
l'ordine in cui le cose devono accadere, sebbene l'abbia ripassato nella
mente infinite volte.
Nella stanza si sente il suono acuto e sottile di un campanello; è accom-
pagnato dal sottofondo di un canto, dapprima sommesso, poi sempre più
alto a mano a mano che si aggiungono altre voci. Frammenti di parole e di
frasi risuonano nella sua testa: montanhas, Noblesa, libres, Graal...
La sacerdotessa scende dall'altare sopraelevato e attraversa la stanza. Lui
può solo intravedere i piedi della donna che strisciano delicatamente a terra
e la tunica dorata che luccica e ondeggia nella luce tremolante delle cande-
le. Questo è il momento che aspettava.
«Je suis prêt» ripete sottovoce. Stavolta ne è convinto.
La sacerdotessa si ferma davanti a lui. Sente il suo profumo, impalpabile
e delicato, sotto l'odore forte dell'incenso. L'uomo trattiene il fiato quando
lei si abbassa e gli prende la mano. Le dita sono fredde e curate; una scari-
ca di elettricità, quasi di desiderio, attraversa il braccio di lui quando la sa-
cerdotessa gli mette un oggetto piccolo e tondo nel palmo della mano e gli
richiude le dita. Ora lui vuole vederla in viso, lo vuole più di ogni altra co-
sa al mondo. Ma tiene gli occhi bassi, come gli è stato detto.
I quattro anziani lasciano la loro posizione e raggiungono la sa-
cerdotessa. Con delicatezza piegano all'indietro la testa dell'uomo e lui
sente un liquido denso e dolce scivolargli fra le labbra. È quello che si a-
spettava, perciò non oppone resistenza. Mentre il calore si propaga nel
corpo, l'uomo alza le braccia e lascia che i compagni gli facciano scivolare
un mantello dorato sulle spalle. È un rituale già noto agli spettatori, eppure
lui avverte il loro disagio.
A un tratto, è come se avesse una fascia di ferro attorno al collo che gli
comprime la trachea. Si porta le mani alla gola e intanto cerca disperata-
mente di respirare. Vorrebbe gridare, ma non gli escono le parole. Il suono
acuto e sottile del campanello torna a farsi sentire, ancora più costante e
insistente, coprendo ogni suo sforzo. Viene assalito da un'ondata di nausea.
Pensa che sia arrivata la sua ora e per avere un po' di conforto stringe l'og-
getto che ha in mano, così forte che le unghie gli si conficcano nella carne.
Il dolore acuto lo aiuta a non cadere. Adesso si rende conto che le mani
sulle sue spalle non sono lì per consolarlo. Non sono lì per sorreggerlo, ma
per tenerlo fermo. Un'altra ondata di nausea lo travolge e gli sembra che la
pietra si sposti e scivoli sotto di lui.
Ora ha gli occhi inondati di lacrime e non riesce a mettere a fuoco del
tutto, ma riesce a vedere che la sacerdotessa ha un coltello, anche se non sa
spiegarsi come faccia quella lama d'argento a trovarsi nella sua mano. Ten-
ta di alzarsi, ma la droga è troppo forte e gli ha già rubato le forze. Ha per-
so il controllo delle gambe e delle braccia.
«Non!» cerca di gridare, ma è troppo tardi.
Dapprima, pensa si tratti di un pugno fra le scapole, nient'altro. Poi un
dolore sordo si diffonde nel corpo. Qualcosa di caldo e liscio gli cola lungo
la schiena.
Senza preavviso, le mani mollano la presa e cade in avanti come una
bambola di pezza per poi incontrare il suolo. Non prova alcun dolore
quando la sua testa tocca la terra, fredda e in un certo senso piacevole sulla
pelle. Adesso tutti i rumori, la confusione e le paure stanno svanendo. Le
palpebre sbattono e si chiudono. Non si rende più conto di nulla, soltanto
della voce della sacerdotessa che sembra arrivare da molto lontano.
«Une leçon. Pour tous» pare che dica, sebbene la cosa non abbia alcun
senso.
Negli ultimi sprazzi di lucidità, l'uomo, accusato di aver rivelato segreti
e condannato per aver parlato quando invece avrebbe dovuto tacere, strin-
ge nella mano l'oggetto ardentemente desiderato fino a che la vita non lo
abbandona e il piccolo disco grigio, non più grande di una moneta, rotola
sul pavimento.
Su una delle due facce ci sono le lettere NV. Sull'altra vi è inciso un labi-
rinto.
IV
PIC DE SOULARAC
MONTI DEL SABARTHÈS
CAPITOLO 1
CARCASSONA
Julhet 1209
Alaïs si svegliò di soprassalto, dritta come un fuso e con gli occhi sbar-
rati. La paura le martellava in petto come un uccellino in gabbia che si di-
mena per liberarsi. Si premette una mano contro il torace per fermare il
battito del cuore.
Per un istante, restò a metà fra il sonno e la veglia, come se avesse la-
sciato una parte di sé nel sogno. Era sospesa in aria e osservava se stessa
da una notevole altezza, come le gargouilles di pietra che facevano le
smorfie ai passanti dal tetto della cattedrale di Sant-Nasari.
Era al sicuro nel suo letto, nello Château Comtal. A poco a poco, i suoi
occhi si abituarono al buio. Riuscì a mettere a fuoco la stanza. Era al sicuro
da quegli individui emaciati e con gli occhi scuri che la perseguitavano di
notte, che la ghermivano e la tiravano con le loro dita aguzze. Non possono
prendermi ormai. La lingua incisa nelle pietre, disegni più che parole, che
per lei non avevano alcun senso, tutto era sparito come fili di fumo nell'a-
ria autunnale. Anche il fuoco si era estinto, lasciando soltanto un ricordo
dentro di lei.
Una premonizione? O soltanto un incubo?
Non aveva modo di scoprirlo. Aveva paura di scoprirlo.
Alaïs afferrò la tenda che circondava il letto a baldacchino, come se toc-
care qualcosa di concreto potesse farla sentire meno trasparente ed eterea.
La stoffa logora, intrisa di polvere e degli odori familiari del castello, era
ruvida e rassicurante al contatto con la pelle.
Ogni notte lo stesso incubo. Per tutta l'infanzia, quando si svegliava al
buio in preda al terrore, il viso pallido e coperto di lacrime, suo padre era
stato al suo fianco a vegliare su di lei come se fosse un figlio maschio.
Mentre le candele si consumavano una dopo l'altra, lui le raccontava sotto-
voce le sue avventure in Terra Santa. Le parlava delle distese infinite di
sabbia, delle curve e degli archi delle moschee e della vocazione alla pre-
ghiera dei fedeli saraceni. Le descriveva le spezie aromatiche, i colori ac-
cesi e il sapore pepato del cibo. E il magnifico splendore del sole rosso
sangue che tramontava su Gerusalemme.
Per tanti anni, nelle ore vuote fra il crepuscolo e l'alba, mentre sua sorel-
la dormiva beata accanto a lei, suo padre le aveva parlato ininterrottamente
e aveva messo in fuga i suoi fantasmi. Non aveva permesso né ai frati né ai
preti cattolici di avvicinarsi a lei con le loro superstizioni e i loro falsi sim-
boli.
Le sue parole l'avevano salvata.
«Guilhem?» sussurrò.
Suo marito dormiva profondamente, le braccia allargate come per ribadi-
re la sua supremazia nel letto. I lunghi capelli scuri, che odoravano di fu-
mo, di vino e di stalla, erano sparsi sul cuscino. Il chiaro di luna filtrava at-
traverso la finestra aperta, la persiana era bloccata in modo da fare entrare
nella stanza l'aria fresca della notte. Nella luce che si addensava, Alaïs po-
teva vedere l'ombra della barba incolta sul mento. La catena che Guilhem
portava al collo brillava intensamente ogni volta che cambiava posizione
nel sonno.
Alaïs voleva che lui si svegliasse e le dicesse che andava tutto bene, che
non doveva più avere paura. Ma lui non si voltò e a lei non venne in mente
di svegliarlo. Coraggiosa in tutto il resto, era ancora inesperta di consuetu-
dini matrimoniali e cauta nei confronti del marito, sicché si limitò a passa-
re le dita sulle braccia lisce e abbronzate e sulle spalle, larghe e forti per le
molte ore passate a esercitarsi con la spada e la quintana per la giostra. A-
laïs sentiva la vita scorrere sotto la pelle persino nel sonno. E quando ri-
pensò a come avevano trascorso la prima parte di quella serata, arrossì, an-
che se non c'era nessuno che potesse vederla.
Alaïs era sopraffatta dalle sensazioni che Guilhem le faceva provare. La
divertiva il modo in cui il cuore le balzava in petto ogni volta che lo vede-
va per caso e il modo in cui si sentiva mancare la terra sotto i piedi ogni
volta che lui le sorrideva. Nello stesso tempo, però, non le piaceva la sen-
sazione di impotenza. Temeva che l'amore la rendesse debole e frivola.
Senza dubbio amava Guilhem, eppure sapeva che c'era una piccola parte di
sé che non gli aveva ancora concesso.
Alaïs sospirò. Poteva solo sperare che con il tempo le cose sarebbero di-
ventate più facili.
C'era una luce particolare, il nero sfumava nel grigio e il canto degli uc-
celli, che di tanto in tanto proveniva dagli alberi della corte, annunciava
che l'alba non era lontana. Ormai sapeva che non si sarebbe più riaddor-
mentata.
Alaïs scivolò fra le tende e raggiunse in punta di piedi il baule nell'ango-
lo opposto della stanza. Le lastre di pietra erano fredde sotto i piedi e le
stuoie di vimini graffiavano le dita. Alzò il coperchio, tolse il sacchetto di
lavanda in cima alla pila di biancheria e prese una veste verde scuro poco
appariscente. Rabbrividì nell'indossarla dai piedi e mentre infilava le brac-
cia nelle maniche strette. Tirò su la veste ancora umida, poi allacciò ben
stretto il busto.
Alaïs aveva diciassette anni ed era sposata da sei mesi, ma non aveva
ancora acquisito le curve morbide di una donna. Il vestito cadeva senza
forma sul corpo minuto, come se non fosse suo. Appoggiandosi al tavolo
per non perdere l'equilibrio, calzò delle morbide pianelle di cuoio e prese
la mantella rossa, la sua preferita, dallo schienale della sedia. Sui bordi e
sull'orlo aveva ricamato un complicato motivo di quadrati e rombi blu e
verdi, disseminato di minuscoli fiori gialli; lo aveva disegnato lei stessa
per il giorno delle nozze. Le ci erano volute settimane per cucirlo. Ci aveva
lavorato per tutti i mesi di novembre e dicembre, con le dita doloranti e in-
tirizzite si era affrettata per finirlo in tempo.
Alaïs rivolse la sua attenzione al panièr, per terra accanto al baule. Con-
trollò che all'interno vi fossero tutti i sacchetti di erbe, insieme alle strisce
di stoffa in cui avvolgeva piante e radici, e gli attrezzi per scavare e taglia-
re. Infine, fissò bene la mantella all'altezza del collo con un nastro, infilò il
coltello nel fodero appeso alla vita, si coprì il capo con il cappuccio per ce-
lare i capelli lunghi e sciolti, quindi sgattaiolò senza far rumore fuori dalla
stanza nel corridoio deserto. La porta si chiuse con un colpo sordo alle sue
spalle.
Non era ancora l'ora prima, perciò non c'era nessuno nell'area diurna del
castello. Alaïs attraversò veloce il corridoio, accompagnata dal delicato
fruscio della mantella che sfregava contro il pavimento di pietra, diretta
verso le scale strette e ripide. Scavalcò un giovane servitore che dormiva
accasciato contro il muro, vicino alla porta della camera di sua sorella O-
riane e del marito.
Mentre scendeva, le voci che provenivano dalle cucine nel seminterrato
le si facevano incontro per le scale. La servitù era già al lavoro. Alaïs sentì
il suono di uno schiaffo, seguito da un urlo, di sicuro era qualche malcapi-
tato che cominciava la giornata assaggiando la grossa mano del cuoco sul-
la nuca.
Uno sguattero si dirigeva verso di lei barcollante, portava a fatica mezzo
barile d'acqua appena cavata dal pozzo.
Alaïs sorrise.
«Bonjorn.»
«Bonjorn, signora» rispose guardingo il ragazzo.
«Ecco» fece lei e scese gli ultimi gradini per andare ad aprirgli la porta.
«Mercé, signora» disse lui, adesso un po' meno timido. «Grand mercé.»
In cucina c'era un gran trambusto. Grosse nuvole di vapore già si solle-
vavano dall'enorme payrola, il calderone, appeso a un gancio sul fuoco vi-
vo, Un domestico più anziano prese l'acqua dallo sguattero, svuotò il barile
nella pentola e poi glielo rimise in mano senza dire una parola. Il ragazzo
volse lo sguardo verso Alaïs mentre si incamminava di nuovo verso il poz-
zo.
Capponi, lenticchie e cavoli in vasi di terracotta ben chiusi aspettavano
di essere cucinati sul grande tavolo al centro della stanza, vicino alle pen-
tole con triglie sotto sale, anguille e lucci. Da un lato c'erano fogaça, fo-
caccine racchiuse in sacchetti di stoffa, paté d'oca e tranci di maiale salato.
Dall'altro, vassoi di uva passa, mele cotogne e ciliegie. Un bambino di no-
ve o dieci anni se ne stava con i gomiti appoggiati sul tavolo, lo sguardo
torvo era eloquente su quanto fosse contento di passare un'altra giornata a
grondare sudore davanti al girarrosto per controllare la carne che arrostiva.
Accanto al focolare la ramaglia ardeva intensamente nel forno per il pane a
forma di cupola. La prima infornata di pan de blat, pane integrale, era già
stata messa sul tavolo a raffreddare. L'odore fece venire l'acquolina ad Ala-
ïs.
«Posso averne una pagnotta?»
Il cuoco alzò lo sguardo, furioso per l'intrusione di una donna nella cuci-
na. Quando vide di chi si trattava la sua faccia collerica si contorse in un
sorriso strampalato che rivelava una fila di denti marci.
«Dama Alaïs» disse con gioia, e intanto si asciugava le mani sul grem-
biule. «Benvenguda. Quale onore. Era un pezzo che non venivate a trovar-
ci. Ci siete mancata.»
«Jacques» disse lei con affetto. «Non volevo essere d'intralcio.»
«D'intralcio? Voi?» rise. «E come potreste mai essere d'intralcio?» Da
bambina, Alaïs passava un mucchio di tempo in cucina, a osservare e a
imparare, era l'unica donna a cui Jacques avesse mai consentito di varcare
la soglia del suo regno per soli uomini. «Allora, dama Alaïs, cosa posso of-
frirvi?»
«Solo un po' di pane, Jacques, e un goccio di vino, se ti avanza.»
Un'aria corrucciata comparve sul volto del cuoco. Alaïs sorrise con fare
innocente.
«Perdonatemi, ma non avrete intenzione di andarvene giù al fiume? A
quest'ora e senza un accompagnatore? Una signora del vostro rango... ed è
ancora buio, oltretutto. Si sentono tante cose, tante storie di...»
Alaïs gli mise una mano sul braccio. «Sei gentile a preoccuparti, Jac-
ques, e so che i miei interessi ti stanno a cuore, ma me la caverò. Ti dò la
mia parola. È quasi l'alba. So esattamente dove vado. Sarò di ritorno prima
che chiunque possa accorgersi della mia assenza, davvero.»
«Vostro padre lo sa?»
Si portò il dito alle labbra e gli fece cenno di tacere. «Lui non sa quello
che sai tu, ma ti prego, fai che sia un segreto tra me e te. Starò molto atten-
ta.»
Jacques non sembrava per nulla convinto, ma siccome gli sembrava di
aver già detto più di quanto gli fosse consentito, non protestò. Raggiunse
lentamente il tavolo e avvolse una pagnotta tonda in un panno di lino, poi
ordinò a uno sguattero di recuperare un fiasco di vino. Alaïs lo osservò e
provò un tuffo al cuore. Negli ultimi tempi era diventato più lento nei mo-
vimenti e zoppicava in modo preoccupante dal lato sinistro.
«La gamba ti dà ancora problemi?»
«Non molto» mentì lui.
«Posso medicartela io più tardi, se vuoi. Pare che la ferita non si stia ri-
marginando come dovrebbe.»
«Non è poi tanto grave.»
«Hai usato l'unguento che ti ho preparato?» chiese lei, già sapendo dal-
l'espressione sul suo viso che non lo aveva fatto.
Jacques aprì le mani tozze in segno di resa. «C'è così tanto da fare, si-
gnora... tutti questi ospiti in più, centinaia se si contano pure domestici,
écuyers, stallieri, dame di compagnia, per non parlare dei consoli e delle
loro famiglie. E ci sono talmente tante cose difficili da trovare oggigior-
no... Che diamine, proprio ieri ho mandato...»
«Va benissimo, Jacques,» lo interruppe Alaïs «ma la tua gamba non gua-
rirà da sola. La ferita è troppo profonda.»
All'improvviso si accorse che il livello del rumore si era abbassato. Vol-
se lo sguardo intorno e notò che tutti nella cucina ascoltavano la conversa-
zione. I ragazzi più giovani erano appoggiati con i gomiti sul tavolo e fis-
savano a bocca aperta il loro irascibile padrone che si faceva bacchettare. E
da una donna, per giunta.
Alaïs finse di non essersene accorta, ma abbassò il tono di voce.
«Potrei sempre tornare a medicarla più tardi, per sdebitarmi di questa.»
Diede qualche colpetto alla pagnotta. «Sarà il nostro secondo segreto, oc?
Uno scambio equo, non ti pare?»
Per un istante temette di essere stata troppo invadente e di aver osato
troppo, ma dopo un momento di esitazione, Jacques sogghignò.
«Ben» fece lei. Bene. «Tornerò quando il sole sarà alto e le darò un'oc-
chiata. Dins d'abord.» Presto.
Quando Alaïs uscì dalla cucina e iniziò a salire le scale, sentì Jacques ur-
lare a tutti di smetterla di stare lì impalati e di tornare al lavoro, come se
quell'interruzione non ci fosse mai stata.
Sorrise.
Era tutto nella norma.
Alaïs aprì il pesante portone che conduceva alla corte e andò incontro al
nuovo giorno.
Le foglie dell'olmo, che si innalzava al centro, e sotto il quale il visconte
Trencavel amministrava la giustizia, sembravano nere nell'oscurità che
svaniva. I rami pullulavano di allodole e scriccioli, il trillo si udiva forte e
chiaro nell'aurora.
Il nonno di Raymond-Roger Trencavel aveva fatto costruire lo Château
Comtal più di cento anni prima come residenza da cui controllare i territori
in espansione. Le sue terre si estendevano a nord fino ad Albi e a sud fino
a Narbonne, a est fino a Béziers e a ovest fino a Carcassonne.
Lo Château era stato costruito intorno a un'ampia corte rettangolare e sul
lato ovest comprendeva le rovine di un castello più antico. Faceva da rin-
forzo alla parte occidentale delle mura fortificate che circondavano la Cité,
un anello di solida roccia che torreggiava sul fiume Aude e sui terreni pa-
ludosi più a nord.
Il donjon, dove si riunivano i consoli e si firmavano importanti docu-
menti, si trovava all'angolo sud-ovest della corte ed era ben sorvegliato.
Nella luce fioca, Alaïs vide qualcosa appoggiato contro il muro esterno.
Guardò meglio e vide che era un cane che dormiva raggomitolato a terra.
Un paio di ragazzi, appollaiati come due corvi al margine del recinto per le
oche, cercavano di svegliare l'animale lanciandogli delle pietre. Nel silen-
zio, Alaïs sentiva il regolare rumore sordo dei tacchi che battevano contro
le sbarre di legno.
C'erano due passaggi per entrare e uscire dallo Château Comtal. La Porta
Ovest, ampia e ad arco, dava direttamente sui pendii erbosi che conduce-
vano alle mura ed era quasi sempre chiusa. La Porta Est, piccola e stretta,
era nascosta fra due alti torrioni e portava dritto alle strade della Ciutat, la
Cité vera e propria.
La comunicazione fra la parte superiore e la parte inferiore dei torrioni
di difesa avveniva tramite un sistema di scalette di legno e botole. Da
bambina, uno dei giochi preferiti di Alaïs era arrampicarsi su e giù per i
piani insieme ai bambini delle cucine e cercare di sfuggire alle sentinelle.
Alaïs era veloce. Vinceva sempre.
Si avvolse stretta nella mantella e attraversò il cortile a passo svelto.
Dopo che la campana della sera aveva annunciato il coprifuoco, le porte
erano state chiuse per la notte e le sentinelle erano montate di guardia, a
nessuno era permesso passare senza l'autorizzazione di suo padre. Sebbene
non fosse un console, Bertrand Pelletier si trovava in una posizione unica e
privilegiata all'interno del castello. In pochi osavano disubbidirgli.
A lui non era mai andata a genio l'abitudine della figlia di sgattaiolare
fuori dalla Cité di primo mattino. Negli ultimi tempi, poi, era ancora più
convinto che lei dovesse restare fra le mura dello Château di notte. Alaïs
temeva che suo marito la pensasse allo stesso modo, anche se non le aveva
mai detto nulla. Ma era solo nella tranquillità e nell'anonimato dell'alba, li-
bera da tutti i limiti e le restrizioni di quella casa, che Alaïs si sentiva re-
almente se stessa. Non era la figlia di nessuno, la sorella di nessuno, la
moglie di nessuno. Nel suo intimo, aveva sempre pensato che suo padre
potesse capirla. Per quanto le dispiacesse disubbidirgli, non era disposta a
rinunciare a quei momenti di libertà.
Quasi tutti i guardiani notturni chiudevano un occhio davanti ai suoi an-
dirivieni. O perlomeno lo avevano fatto. Da quando avevano iniziato a cir-
colare voci sull'eventualità di una guerra, le guardie erano diventate più
prudenti. A prima vista, la vita procedeva come al solito e, malgrado ogni
tanto giungesse alla Cité qualche profugo che raccontava di attacchi e di
persecuzioni religiose, ad Alaïs sembrava che non ci fosse niente di ecce-
zionale. I predoni che spuntavano dal nulla e colpivano come fulmini a ciel
sereno per poi passare altrove erano piuttosto comuni per chiunque abitas-
se fuori dalle mura fortificate di una città o di un villaggio. I racconti non
parevano tanto diversi dal solito.
Guilhem non sembrava particolarmente preoccupato da un conflitto im-
minente, almeno per quanto ne sapesse lei. Non le parlava mai di certe co-
se. Oriane, d'altra parte, affermava che un esercito francese di crociati e
uomini di chiesa si stava preparando ad attaccare le terre del Pays d'Oc.
Diceva inoltre che la campagna era appoggiata dal papa e dal re di Francia.
Alaïs sapeva per esperienza che qualunque cosa Oriane dicesse era solo
per turbarla. Ciononostante, sembrava che sua sorella sapesse spesso le co-
se prima di chiunque altro nel castello e non si poteva negare il fatto che il
numero di messaggeri che entravano e uscivano dallo Château aumentava
di giorno in giorno. Era anche innegabile che le rughe sul volto di suo pa-
dre erano diventate più scure e più profonde e le sue guance più scavate.
Le sirjans d'arms di guardia alla Porta Est erano in stato d'allerta, anche
se avevano gli occhi cerchiati di rosso dopo la lunga notte appena trascor-
sa. Gli elmi argentei e squadrati erano ben calcati sulla testa e le cotte
d'arme erano opache nella luce fioca dell'alba. Con gli scudi appoggiati
stancamente sulle spalle e le spade rinfoderate, sembravano pronti per an-
dare a letto più che per la battaglia.
Quando fu più vicina, Alaïs fu sollevata nel vedere che c'era Bérenger.
Quando lui la riconobbe, chinò il capo con un sogghigno.
«Bonjorn, dama Alaïs. Siete già alzata a quest'ora?»
Lei sorrise. «Non riuscivo a dormire.»
«Vostro marito non sa trovarvi un passatempo la notte?» chiese l'altro
ammiccando in modo lascivo. Aveva la faccia butterata e le unghie mor-
dicchiate e sanguinanti. Aveva l'alito che sapeva di cibo stantio e di birra.
Alaïs lo ignorò. «Come sta tua moglie, Bérenger?»
«Bene, signora. È quasi tornata quella di una volta.»
«E tuo figlio?»
«Cresce a vista d'occhio. Mangia tanto che tra un po' ci manderà in rovi-
na se non stiamo attenti!»
«Segue le orme del padre a quanto pare» esclamò lei, dandogli un col-
petto sulla pancia prominente.
«È proprio quello che dice mia moglie.»
«Portale i miei migliori saluti, Bérenger, d'accordo?»
«Le farà piacere che vi siate ricordata di lei, signora.» Esitò. «Suppongo
che ora debba farvi passare.»
«Vado solo verso la Ciutat, forse mi fermerò al fiume. Non starò via tan-
to.»
«Non dobbiamo far passare nessuno» ringhiò il suo compagno. «Ordini
dell'intendente Pelletier.»
«Nessuno ti ha interpellato» scattò Bérenger. «Non è questo, signora»
continuò, abbassando la voce. «Ma sapete qual è la situazione al momento.
Se dovesse succedervi qualcosa e si venisse a sapere che sono stato io a
farvi uscire, vostro padre mi...»
Alaïs gli mise una mano sul braccio. «Lo so, lo so» disse con dolcezza.
«Ma non c'è ragione di preoccuparsi. So badare a me stessa. Inoltre...» A-
laïs lanciò uno sguardo torvo alla seconda guardia, che ora si metteva le di-
ta nel naso per poi ripulirsele sulla manica «qualunque impiccio io possa
incontrare giù al fiume non sarà mai fastidioso quanto i tuoi qui.»
Bérenger rise. «Mi promettete di essere prudente?»
Alaïs annuì e si aprì un istante la mantella per mostrargli il coltello da
caccia che portava in vita. «Lo sarò. Ti dò la mia parola.»
Bisognava superare due porte. Bérenger tolse il catenaccio prima a una
poi all'altra, dopodiché sollevò la pesante trave di quercia che teneva chiu-
so il portone esterno e lo aprì quanto bastava perché Alaïs l'oltrepassasse
inosservata. Lei ringraziò con un sorriso, si chinò e, passando sotto il suo
braccio, se ne andò per la sua strada.
CAPITOLO 2
Appena uscita dall'ombra delle due torri di guardia, Alaïs si sentì più
leggera. Era libera. Almeno per un po'.
Una passerella mobile congiungeva i torrioni della Porta Est al ponte di
pietra levigata che portava dallo Château Comtal alle strade di Carcasson-
ne. L'erba nel fossato asciutto sotto il ponte brillava di rugiada nel chiarore
violaceo. Si vedeva ancora la luna, anche se stava per scomparire e lasciare
il posto alla luce densa del primo mattino.
Sollevando mulinelli di polvere con la mantella, Alaïs camminava svelta
per evitare che le sentinelle di guardia dalla parte opposta le rivolgessero
domande. Ebbe fortuna. Stavano sonnecchiando ai loro posti e non la vide-
ro passare. Dato che la via era libera, accelerò e si infilò nella rete di viuz-
ze, diretta alla posteria vicino alla Tour du Moulin d'Avar, la parte più an-
tica delle mura. Questa porta dava accesso diretto agli orti e ai faratjals, i
pascoli che occupavano la zona circostante la Cité e più a nord il sobborgo
di Sant-Vicens. A quell'ora era la via più breve per arrivare al fiume senza
essere vista.
Tenendosi la gonna, Alaïs si fece strada con prudenza fra i resti di un'al-
tra serata turbolenta alla taberna Sant Joan dels Evangèlis. Mele ammacca-
te, pere mangiate a metà, ossi rosicchiati e brocche di birra frantumate era-
no abbandonati per terra. Poco più avanti, un mendicante dormiva rannic-
chiato sulla soglia di una porta, il braccio appoggiato sul dorso di un e-
norme cane, vecchio e malandato. Tre uomini erano accasciati sul pozzo,
grugnivano e russavano tanto forte da coprire il canto degli uccelli.
Il soldato di guardia alla posteria faceva compassione, tossiva e borbot-
tava tutto avvolto nel suo mantello, gli si vedevano solo la punta del naso e
le sopracciglia. Non voleva essere disturbato. Dapprima fece finta che lei
non ci fosse. Alaïs frugò nel borsellino e prese una moneta. Senza neppure
guardarla in faccia, la sentinella l'afferrò con la mano sudicia, la strinse fra
i denti per verificare che non fosse falsa, poi tolse i chiavistelli e apri la
posteria quel poco che bastava perché Alaïs vi si infilasse.
Il calore ferì Alaïs nel momento in cui uscì dal bosco nella zona aperta e
paludosa. Il sole picchiava sulle guance e sul collo, dandole il tormento. Il
caldo aveva portato allo scoperto insetti che pungevano e sciami di zanzare
che ronzavano sopra le pozzanghere ai lati del sentiero, mentre Alaïs avan-
zava a stento in quel paesaggio inospitale.
Le gambe esauste si ribellavano e il fiato bruciava aspro nella gola e nel
petto, ma lei continuava a correre senza fermarsi. Sapeva solo che doveva
allontanarsi il più possibile dal cadavere e raccontare tutto a suo padre.
Invece di ripercorrere la strada dalla quale era venuta, e che poteva esse-
re chiusa, Alaïs si diresse istintivamente a Sant-Vicens e alla Porte de Ro-
dez, quella che collegava il sobborgo a Carcassonne.
Le strade erano affollate e Alaïs dovette aprirsi un varco a forza. Il ron-
zio e il brusio del mondo che cominciava a vivere diventava sempre più
forte e fastidioso a mano a mano che si avvicinava all'entrata della Cité.
Alaïs cercò di non ascoltarlo e di pensare solo ad arrivare alla porta. Pre-
gando perché le gambe non cedessero, si fece strada verso l'entrata.
Una donna le diede un colpetto sulla spalla.
«La vostra testa, signora» disse in tono pacato. La voce era gentile, ma
sembrava giungere da molto lontano.
Alaïs si rese conto di avere i capelli sciolti e arruffati, sicché si mise su-
bito la mantella e si coprì col cappuccio, le mani che le tremavano per la
stanchezza e lo spavento. Avanzò a rilento, coprendosi il vestito con la
mantella nella speranza di nascondere le macchie di fango, di vomito e di
alghe del fiume.
Tutti si spingevano, si muovevano lenti e pesanti, gridavano. Alaïs era
sul punto di svenire. Allungò una mano e si appoggiò al muro. Le sentinel-
le di guardia alla Porte de Rodez facevano passare quasi tutti gli abitanti
del luogo con un cenno del capo senza rivolgere domande, ma fermavano
vagabondi, mendicanti, zingari, saraceni ed ebrei; esigevano di sapere per
quale motivo si recassero a Carcassonne e perquisivano i bagagli più sgar-
batamente del necessario finché non ottenevano brocche di birra o denari,
quindi passavano alle vittime successive.
Fecero passare Alaïs senza neppure guardarla.
Le viuzze della Cité ora straripavano di venditori ambulanti, mercanti,
bestiame, soldati, maniscalchi, jongleurs, mogli di consoli con i domestici,
predicatori. Per non farsi riconoscere, Alaïs teneva il capo chino come se
camminasse contro un pungente vento del nord.
Finalmente, intravide la familiare sagoma della Tour du Major, seguita
dalla Tour des Casernes e dalle torri gemelle della Porta Est, mentre lo
Château Comtal appariva ora nella sua interezza.
Il sollievo le sciolse il nodo alla gola. Lacrime infuocate sgorgarono da-
gli occhi. Infuriata per la sua debolezza, Alaïs si morse il labbro tanto forte
da farlo sanguinare. Si vergognava di essere tanto sconvolta ed era decisa a
non umiliarsi ulteriormente piangendo lì, dove qualcuno poteva essere te-
stimone della sua vigliaccheria.
Voleva solamente suo padre.
CAPITOLO 3
Alaïs arrivò sfrecciando per le scale come se avesse un branco di cani al-
le calcagna, seguita di corsa da François.
Quando vide la grigia sagoma del padre fra le botti di vino e birra, scop-
piò a piangere. Si buttò fra le sue braccia e nascose il viso rigato di lacrime
nel petto. Quell'odore familiare e rassicurante accrebbe il suo desiderio di
piangere.
«Per Sant Foy, cosa c'è? Che ti è successo? Ti sei fatta male? Dimmi.»
Alaïs avvertì la preoccupazione nella voce del padre. Si scostò un poco e
cercò di parlare, ma le parole erano rinchiuse in gola e si rifiutavano di u-
scire.
«Padre, io...»
Non appena notò il suo aspetto scompigliato gli vennero in mente un
mucchio di domande. Spostò lo sguardo oltre la figlia e attese spiegazioni
da parte di François.
«Ho trovato dama Alaïs in questo stato, messire.»
«E non ti ha accennato la causa di questo... la ragione del suo affanno?»
«No, messire. Mi ha solo detto di portarla da voi senza alcun indugio.»
«Molto bene. Lasciaci soli ora. Ti chiamerò quando avrò bisogno di te.»
Alaïs udì sbattere la porta. Poi sentì il pesante braccio del padre sulla
spalla. La condusse alla panca che occupava un'intera parete della cantina
e la fece sedere.
«Vieni, filha» disse con voce sommessa. Allungò una mano e le scostò
una ciocca di capelli dal viso. «Questo comportamento non è da te. Dimmi
cosa è successo.»
Alaïs tentò un'ultima volta di controllarsi, non sopportava l'idea di met-
terlo in agitazione, di preoccuparlo a quel modo. Si strofinò le guance im-
brattate e si sfiorò gli occhi con il fazzoletto che lui le aveva porto.
«Bevi» fece lui, mettendole in mano una coppa di vino prima di sedersi
accanto a lei. Il legno vecchio si inarcò e scricchiolò sotto il suo peso.
«François è andato via. Siamo soli. Devi smetterla di piangere e dirmi co-
s'è che ti affligge tanto. È colpa di Guilhem? Ha fatto qualcosa che ti ha in-
fastidita? Perché se è così io...»
«Guilhem non c'entra nulla, paire» disse prontamente Alaïs. «Non è col-
pa di nessuno...»
Alzò lo sguardo verso di lui, poi lo riabbassò con imbarazzo, umiliata di
trovarsi al suo cospetto in quello stato.
«E allora?» insistette lui. «Come posso aiutarti se non mi dici cosa è
successo?»
Lei deglutì a fatica, si sentiva in colpa e sconvolta. Non sapeva da che
parte cominciare.
Pelletier le prese la mano fra le sue. «Tu tremi, Alaïs.» Lei sentiva che
c'era preoccupazione e affetto nella voce del padre, avvertiva che si stava
sforzando di tenere a freno le sue paure. «E guarda i tuoi vestiti» disse, sol-
levando con due dita l'orlo del vestito. «Bagnati. Coperti di fango.»
Alaïs capiva quanto fosse stanco, quanto fosse preoccupato. Vederla tan-
to scossa lo sconcertava, per quanto cercasse di nasconderlo. Le rughe sul-
la fronte erano dei solchi. Come aveva fatto a non accorgersi che i capelli
erano screziati di grigio?
«Le parole non ti sono mai mancate» disse lui per convincerla a rompere
quel silenzio. «Devi dirmi di cosa si tratta, è.»
La sua espressione così piena di amore e di fiducia fece breccia nel cuo-
re della figlia. «Ho paura di farvi arrabbiare, paire. In effetti, ne avreste
tutto il diritto.»
Il suo volto si inasprì, ma il sorriso rimase inalterato. «Prometto che non
ti rimprovererò, Alaïs. Coraggio, ora. Parla.»
«Nemmeno se vi dicessi che sono stata al fiume?»
Lui tentennò, ma con voce ferma rispose: «Nemmeno in quel caso».
Prima parli, meglio è.
Alaïs intrecciò le mani sul ventre. «Stamattina, poco prima dell'alba, so-
no andata giù al fiume, in un punto dove vado spesso a raccogliere piante.»
«Da sola?»
«Sì, da sola» ammise, incrociando il suo sguardo. «So che vi avevo dato
la mia parola, paire, e vi chiedo perdono per avervi disobbedito.»
«A piedi?» Lei annuì e aspettò che il padre le facesse cenno di continua-
re.
«Sono rimasta lì per un po'. Non ho visto nessuno. Mentre raccoglievo le
mie cose per andarmene, ho notato qualcosa che sembrava un mucchio di
vestiti nell'acqua, vestiti di buona qualità. E difatti...» Alaïs si interruppe di
nuovo, poiché sentì che stava sbiancando in viso. «In realtà si trattava di
un cadavere. Un uomo, piuttosto vecchio. Con i capelli ricci e scuri. All'i-
nizio, ho pensato che fosse annegato. Non riuscivo a vedere granché. Poi
ho capito che gli avevano tagliato la gola.»
Pelletier si irrigidì. «Non hai toccato il corpo, vero?»
Alaïs scosse il capo. «No, ma...» Abbassò gli occhi imbarazzata. «Inor-
ridita da quella scoperta, credo di aver perso la testa e così ho iniziato a
correre, lasciandomi tutto alle spalle. Il mio unico pensiero era arrivare da
voi e raccontarvi cosa avevo visto.»
Pelletier aveva di nuovo l'aria corrucciata. «E non hai visto nessuno?»
«Neanche un'anima. Era tutto deserto. Ma dopo che ho visto il corpo di
quell'uomo, ho avuto paura che le persone che lo avevano ucciso potessero
trovarsi ancora nei paraggi.» La voce le tremò. «Mi sentivo i loro occhi
addosso, come se mi stessero sorvegliando. Almeno così mi sembrava.»
«Quindi stai bene» disse con circospezione, scegliendo con cura le paro-
le. «Nessuno ti ha importunato? Nessuno ti ha fatto del male?»
Era evidente che lei capiva il senso di quelle parole, perché il viso ripre-
se rapidamente colore.
«Non mi è stato arrecato alcun danno, soltanto il mio orgoglio è stato fe-
rito e... ho perso la vostra benevolenza.»
Vide un'espressione sollevata diffondersi sul volto del padre. Lui sorrise
e, per la prima volta da quando quella conversazione aveva avuto inizio, il
sollievo affiorò anche attraverso lo sguardo.
«Bene» fece lui, espirando lentamente. «Sorvolando, date le circostanze,
sul fatto che mi hai disobbedito, Alaïs... non tenendo conto della tua scon-
sideratezza, hai fatto la cosa giusta raccontandomi tutto.» Le afferrò le ma-
ni, la sua enorme presa avvolgeva le dita piccole e sottili della figlia. La
sua pelle sembrava di cuoio.
Alaïs sorrise, grata al padre per aver rinviato la punizione. «Mi dispiace,
paire. Volevo mantenere la promessa, è solo che...»
Pelletier le fece cenno di smetterla. «Non parliamone più. Quanto a quel-
lo sventurato, non c'è niente da fare. I ladri saranno ormai lontani. È del
tutto improbabile che rimangano nei dintorni col rischio di essere scoper-
ti.»
Alaïs aggrottò la fronte. Le considerazioni del padre avevano risvegliato
qualcosa che si nascondeva nel suo inconscio. Chiuse gli occhi. Rivide se
stessa nell'acqua fredda, paralizzata dalla visione del corpo.
«È questa la cosa strana, padre» disse riflettendoci. «Non credo che sia-
no stati dei banditi. Non gli hanno preso la sopravveste, bella e di valore, a
quanto sembrava. E poi l'uomo aveva ancora indosso i gioielli. Catene d'o-
ro ai polsi, anelli. Se fossero stati dei ladri, lo avrebbero ripulito.»
«Mi hai detto di non aver toccato il corpo» ribatté in tono aspro.
«Non l'ho fatto. Ma gli ho visto le mani sotto l'acqua, ecco tutto. Orna-
menti preziosi. Tantissimi anelli, padre. Un bracciale d'oro fatto di più ca-
tene intrecciate. Un'altra catena intorno al collo. Perché mai avrebbero do-
vuto lasciare quegli oggetti?»
Alaïs si interruppe quando si ricordò le mani gonfie e spettrali dell'uomo
tese verso di lei, il sangue e i bianchi frammenti di osso laddove doveva
trovarsi il pollice. La testa cominciò a girarle. Alaïs si appoggiò contro il
muro umido e freddo, e si concentrò sulla dura panca di legno su cui sede-
va, sull'odore acre delle botti che invadeva le narici, finché il capogiro non
passò.
«Non c'era sangue» aggiunse. «Una ferita aperta, rossa come una fetta di
carne.» Deglutì con fatica. «Mancava il pollice, era...»
«Come, mancava?» chiese bruscamente il padre. «Cosa significa?»
Alaïs alzò lo sguardo stupita dal repentino cambiamento di tono. «Gli
avevano mozzato il pollice. Tagliato fino all'osso.»
«Di quale mano, Alaïs?» chiese. Ora nulla nascondeva la premura nella
sua voce. «Pensaci bene. È importante.»
«Non sono...»
Era come se non l'avesse sentita. «Quale mano?» insistette.
«La sinistra, sì la mano sinistra, ne sono sicura. Era il lato più vicino a
me. Era rivolto a monte.»
Pelletier attraversò la stanza a grandi passi, chiamando François a squar-
ciagola, e spalancò la porta. Anche Alaïs balzò in piedi, scossa dalla furia
del padre e sorpresa da quanto stava accadendo.
«Che cosa c'è? Ditemelo, vi supplico. Perché è tanto importante sapere
se era la destra o la sinistra?»
«Fai subito sellare i cavalli, François. Il mio castrone baio, la giumenta
grigia di dama Alaïs e un cavallo per te.»
L'espressione di François era più impassibile che mai. «Benissimo, mes-
sire. Andremo lontano?»
«Soltanto al fiume.» Gli fece cenno di andare. «Sbrigati. E vai a prende-
re la mia spada e una mantella pulita per dama Alaïs. Ci vediamo al poz-
zo.»
Appena François si fu allontanato, Alaïs corse dal padre. Lui evitò lo
sguardo della figlia. Tornò alle botti e con mano tremante si versò un po' di
vino. Il liquido rosso e denso traboccò dalla coppa di terracotta e cadde sul
tavolo, macchiando il legno.
«Paire» lo implorò. «Ditemi di cosa si tratta. Perché dovete recarvi al
fiume? Di sicuro non è compito vostro. Mandate François. Posso spiegar-
gli dove.»
«Non capisci.»
«Allora spiegatemi, così capirò. Potete fidarvi di me.»
«Devo vedere il corpo con i miei occhi. Devo scoprire se...»
«Scoprire cosa?» chiese subito Alaïs.
«No, no» fece lui, scuotendo il capo brizzolato da una parte e dall'altra.
«Non è cosa per te...» La voce di Pelletier si affievolì.
«Ma...»
Pelletier alzò la mano, tornato di colpo padrone delle sue emozioni.
«Basta, Alaïs. Devi fare come ti dico. Vorrei poterti risparmiare tale sacri-
ficio, ma non mi è possibile. Purtroppo non ho altra scelta.» Le porse la
coppa. «Bevi. Ti renderà più forte, ti darà coraggio.»
«Non ho paura» obiettò lei, offesa che la sua riluttanza fosse stata scam-
biata per vigliaccheria. «Non ho paura dei morti. È stato il ribrezzo ad as-
salirmi poco fa.» Fece una pausa. «Ma vi supplico, messire, di dirmi per
quale ragione...»
Pelletier si voltò verso di lei. «Basta, non voglio sentire una sola parola
di più» gridò.
Alaïs indietreggiò come se l'avesse percossa.
«Perdonami» fece subito lui. «Sono fuori di me.» Allungò la mano per
sfiorarle la guancia. «Non si potrebbe desiderare una figlia più leale e riso-
luta.»
«Allora perché non avete fiducia in me?»
Lui esitò e per un attimo Alaïs credette di averlo convinto a parlare. Ma
poi vide di nuovo quello sguardo impenetrabile sul suo volto.
«L'unica cosa che devi fare è mostrarmi il posto» disse lui con voce cu-
pa. «Tutto il resto è nelle mie mani.»
CAPITOLO 4
Gironzolò per la piazza diretto alla taberna Sant Joan dels Evangèlis.
Dato che non aveva denaro con sé, gli venne in mente di chiedere se pote-
va sbrigare qualche commissione in cambio di una scodella di brout. A un
tratto sentì che qualcuno lo chiamava.
Sajhë si voltò e vide un amica di sua nonna, na Marti, seduta col marito
alla solita bancarella, che gli faceva cenno con la mano. Era una tessitrice e
il marito un cardatore. Quasi tutte le settimane li si trovava nello stesso po-
sto, a filare e a cardare, intenti a disporre lana e fili.
Sajhë ricambiò il saluto. Come Esclarmonde, na Marti era una seguace
della nuova chiesa. Il marito, sénher Marti non era credente, anche se era
andato a casa di Esclarmonde insieme alla moglie il giorno della Penteco-
ste a sentire la predica dei bons homes.
Na Marti gli scompigliò i capelli.
«Come stai, giovanotto? Ti sei fatto così alto ultimamente, che a mo-
menti non ti riconoscevo.»
«Bene, grazie» rispose lui con un sorriso, quindi si rivolse al marito che
preparava le matasse di lana da vendere. «Bonjorn, sénher.»
«Ed Esclarmonde?» continuò na Marti. «Anche lei sta bene? E si prende
cura di tutti come al solito?»
Lui ridacchiò. «È sempre la solita.»
«Ben, ben.» Bene.
Sajhë si sedette ai suoi piedi con le gambe incrociate e osservò il filatoio
che girava e girava.
«Na Marti?» fece dopo un po'. «Perché non venite più a pregare con
noi?»
Sénher Marti lasciò quello che stava facendo e scambiò uno sguardo
preoccupato con la moglie.
«Oh, sai com'è» rispose na Marti evitando di guardarlo. «Siamo molto
impegnati negli ultimi tempi. È difficile venire a Carcassonne ogni volta
che vogliamo.»
Sistemò il rocchetto e riprese a filare, il rollio del pedale riempiva il si-
lenzio che era piombato fra loro.
«Menina sente la vostra mancanza.»
«Anch'io, ma gli amici non sempre possono stare insieme.»
Sajhë si accigliò. «Ma allora perché...»
Sénher Marti gli diede un colpo piuttosto forte sulla spalla.
«Parla più piano» disse a bassa voce. «Questo genere di cose è meglio
tenerselo per sé.»
«Cosa è meglio tenersi per sé?» chiese Sajhë perplesso. «Ho solo...»
«Abbiamo sentito Sajhë» fece sénher Marti, guardandosi alle spalle. «Ti
ha sentito tutto il mercato. Ora basta a parlare di preghiere, è?»
Non capendo cosa avesse fatto per irritare tanto sénher Marti, Sajhë si
affrettò ad alzarsi. Na Marti si girò verso il marito. Sembrava che si fosse-
ro dimenticati di lui.
«Sei stato troppo duro con lui, Rogier» sibilò. «È soltanto un ragazzo.»
«Basta una sola persona con la lingua lunga e finiamo insieme a tutti gli
altri. Non possiamo correre rischi. Se la gente pensa che frequentiamo gli
eretici...»
«Eretico, certo» ribatté acida. «È soltanto un ragazzino.»
«Non lui. Esclarmonde. Si sa che è una di loro. E se si viene a sapere
che andiamo a pregare a casa sua, ci accuseranno di essere seguaci dei
bons homes e ci perseguiteranno.»
«Dobbiamo abbandonare gli amici, allora? Solo per via di qualche voce
allarmistica che ti è giunta all'orecchio?»
Sénher Marti abbassò il tono. «Dico solo che dobbiamo stare attenti. Sai
quello che dice la gente. Che un esercito sta arrivando per cacciare gli ere-
tici.»
«Lo dicono da anni. Stai esagerando. Quanto ai legati, questi "uomini di
Dio" se ne vanno in giro per le campagne da anni ormai, si ubriacano a
morte e non concludono niente. Lasciamo che i vescovi se la vedano fra di
loro e continuiamo a vivere la nostra vita.»
Si scostò dal marito. «Non ci fare caso» disse, mettendo una mano sulla
spalla di Sajhë. «Non hai fatto niente di male.»
Sajhë teneva lo sguardo basso, non voleva che lo vedessero piangere.
Na Marti continuò con voce squillante ma innaturale. «Allora, l'altro
giorno non dicevi che volevi comprare un regalo per Alaïs? Vediamo un
po' cosa riusciamo a trovare.»
Sajhë annuì. Sapeva che stava cercando di rassicurarlo, ma si sentiva
confuso e imbarazzato.
«Non ho soldi per pagare» la informò.
«Be', non ti preoccupare per questo. Per stavolta sono sicura che potre-
mo chiudere un occhio. Adesso perché non dai un'occhiata?» Na Marti
passò le dita fra le matasse di fili colorati. Che ne dici di questo? Pensi che
le piacerà? Si intona perfettamente con i suoi occhi.»
Sajhë toccò l'elegante filo color rame.
«Non lo so.»
«Beh, io credo di sì. Ti preparo un pacchetto?»
Si voltò in cerca di un pezzo di stoffa per avvolgere il filo e non sciupar-
lo. Non volendo apparire ingrato, Sajhë pensò a qualcosa di opportuno da
dire.
«L'ho vista poco fa.»
«Chi, Alaïs? E come stava? Era con quella strega di sua sorella?»
Lui fece una smorfia. «No. Ma non sembrava tanto felice lo stesso.»
«Be',» fece na Marti «se prima era giù di morale, allora è il momento
giusto per darle un regalo. La tirerà su. Alaïs viene al mercato tutte le mat-
tine, vero? Se tieni gli occhi ben aperti e stai all'erta, sono sicuro che la
troverai.»
Lieto di poter abbandonare quella sgradevole compagnia, Sajhë si infilò
il pacchetto sotto la tunica e si congedò. Fece qualche passo e si voltò per
salutare con la mano. I Marti erano uno accanto all'altra e lo seguivano con
lo sguardo, ma senza dire una parola.
Il sole era ormai alto. Sajhë vagò ancora chiedendo in giro di Alaïs. Nes-
suno l'aveva vista.
Aveva fame e aveva deciso che poteva anche tornarsene a casa, quando
all'improvviso intravide Alaïs ferma a una bancarella dove vendevano
formaggio di capra. Si mise a correre, poi si avvicinò a lei furtivamente e
le mise le braccia attorno alla vita.
«Bonjorn.»
Alaïs si voltò e, quando vide di chi si trattava, lo ricompensò con un lar-
go sorriso.
«Sajhë» esclamò, e gli scompigliò i capelli. «Mi hai fatto una sorpresa.»
«Vi ho cercata dappertutto» ridacchiò lui. «State bene? Vi ho visto pri-
ma. Sembravate sconvolta.»
«Prima?»
«Entravate a cavallo nello Château Comtal insieme a vostro padre. Subi-
to dopo il messaggero.»
«Ah, prima» fece lei. «Non preoccuparti, sto bene. Ho solo avuto una
mattinata stancante. Che bello rivedere il tuo faccino vispo.» Gli diede un
bacio sulla testa e Sajhë diventò paonazzo. Si fissò i piedi infuriato, non
voleva che lei se ne accorgesse. «A ogni modo, già che sei qui, aiutami a
scegliere un buon formaggio.»
Le forme tonde e lisce di formaggio di capra fresco erano disposte alla
perfezione su un letto di paglia ben pressata dentro le cassette di legno. Al-
cune parevano più asciutte e avevano una patina giallastra. Avevano un
odore penetrante ed erano forse di due settimane prima. Altre, più recenti,
erano lucide, bagnate e morbide. Alaïs domandò il prezzo, indicando ora
una forma ora l'altra, chiese il parere di Sajhë, finché alla fine scelsero il
pezzo che le piaceva di più. Prese dalla borsa una moneta per il commer-
ciante e la diede a Sajhë, mentre lei tirava fuori una lucida tavoletta di le-
gno su cui trasportare il formaggio.
Appena vide il disegno sul rovescio della tavoletta Sajhë sgranò gli oc-
chi per la sorpresa. Perché ce lo aveva Alaïs? Per quale motivo? Nella con-
fusione, fece cadere la moneta a terra. Imbarazzato si tuffò sotto il ban-
chetto, per guadagnare tempo. Quando si rialzò, vide con sollievo che Ala-
ïs non se l'era affatto presa a male e così non ci pensò più. Invece, quando
l'affare fu concluso, trovò il coraggio di dare il regalo ad Alaïs.
«Ho qualcosa per voi» annunciò timido, mettendole bruscamente il pac-
co fra le mani.
«Che gentile» fece lei. «È da parte di Esclarmonde?»
«No, da parte mia.»
«Che bella sorpresa. Lo apro ora?»
Lui annuì, con un'espressione seria in viso, ma con gli occhi che brilla-
vano per l'eccitazione; poi Alaïs aprì il pacchetto con cura.
«Oh, Sajhë, è stupendo» esclamò sollevando il lucido filo marrone. «È
davvero stupendo.»
«Non l'ho rubato» affermò subito lui. «Me lo ha dato na Marti. Credo
che volesse farsi perdonare.»
Appena quelle parole gli uscirono di bocca, Sajhë si pentì di averle pro-
nunciate.
«Farsi perdonare per cosa?» chiese prontamente Alaïs.
Proprio in quel momento si udì un grido. Un uomo lì accanto puntava il
dito al cielo. Uno stormo di uccelli neri volava basso sopra la Cité, da o-
vest a est, formando una freccia nell'aria. Il sole sembrava rimbalzare sulle
penne scure e lucenti, come scintille che sprizzano da un'incudine. Qual-
cuno lì vicino disse che si trattava di un presagio, ma nessuno era in grado
di dire se buono o cattivo.
Sajhë non credeva alle superstizioni, ma quel giorno rabbrividì. Anche
Alaïs sembrava aver captato qualcosa, perché gli mise un braccio sulle
spalle e lo attirò a sé.
«Cosa succede?» chiese lui.
«Res» fece lei, troppo veloce. Niente.
Alti sopra di loro, noncuranti del mondo degli umani, gli uccelli conti-
nuarono il loro volo, finché non divennero solo un puntino remoto nel cie-
lo.
CAPITOLO 5
CAPITOLO 6
CAPITOLO 7
CAPITOLO 8
Pelletier tornò dentro con la lettera stretta al petto. Non vide nessuno
mentre percorreva a grandi passi il corridoio che conduceva alla sua stan-
za.
La porta era chiusa a chiave. Pelletier inveì contro la propria eccessiva
prudenza e armeggiò con le chiavi, ma la fretta lo rendeva maldestro. Fra-
nçois aveva acceso le calèlhs, le lampade a olio, e aveva sistemato il vas-
soio con una brocca di vino e due calici di terracotta sul tavolo al centro
della stanza, come ogni sera. La superficie di ottone del vassoio, lucidata a
specchio, brillava alla luce dorata e tremolante.
Pelletier si versò da bere per distendere i nervi, aveva la testa invasa da
immagini sbiadite, ricordi della Terra Santa e delle lunghe ombre rosse del
deserto. Dei tre libri e dell'antico segreto che custodivano fra le pagine.
Quel vino scadente era acido al palato e gli bruciò la gola col suo sapore
pungente. Lo inghiottì tutto d'un fiato, quindi riempì di nuovo il calice.
Quante volte aveva cercato di figurarsi come si sarebbe sentito in quel
momento. Eppure, ora che era arrivato, si sentiva indifferente.
Si sedette e posò la lettera sul tavolo, in mezzo alle mani distese. Sapeva
cosa c'era scritto. Era un messaggio che attendeva e allo stesso tempo te-
meva di ricevere da molti anni, sin da quando era giunto a Carcassonne. A
quei tempi, le prospere e tolleranti terre del Midi erano sembrate un na-
scondiglio sicuro.
Mentre le stagioni si susseguivano, col passare degli anni la speranza di
Pelletier di essere chiamato era scemata. La vita quotidiana lo aveva so-
praffatto. Il pensiero dei libri aveva abbandonato la sua mente. Alla fine, si
era persino dimenticato che stava aspettando.
Erano passati più di vent'anni dall'ultima volta che aveva visto l'autore
della lettera. Si rese conto che, fino a quel momento, non sapeva nemmeno
se il suo maestro e mentore fosse ancora vivo. Era stato Harif a insegnargli
a leggere, all'ombra degli oliveti, sulle colline ai margini di Gerusalemme.
Era stato Harif ad aprire i suoi sensi a un mondo più glorioso, più magnifi-
co di quanto si potesse mai immaginare. Era stato Harif a insegnargli che
saraceni, ebrei e cristiani non facevano altro che seguire sentieri diversi
che conducevano tutti a un unico Dio. Ed era stato Harif a rivelargli che
dietro a tutto ciò che era noto si celava una verità molto più antica, più as-
soluta, di qualunque altra il mondo moderno avesse da offrire.
La notte dell'iniziazione alla Noublesso de los Seres era nitida e chiara
nella mente di Pelletier, quasi si fosse trattato del giorno prima. Le vesti
dorate e scintillanti, la candida tovaglia sull'altare abbagliavano come i for-
ti che luccicavano dalle alte colline sopra Aleppo, fra i cipressi e gli aran-
ceti. L'odore di incenso, l'alternarsi di voci e di sussurri nell'oscurità. L'il-
luminazione.
Quella notte, che sembrava ormai appartenere a un'altra vita, Pelletier
aveva guardato il cuore del labirinto e aveva fatto voto di custodire il se-
greto a costo della vita.
Avvicinò la candela. Sebbene il sigillo non fosse autentico, non c'era
dubbio che la lettera fosse di Harif. Avrebbe riconosciuto la sua calligrafia
ovunque, la caratteristica eleganza delle lettere e le esatte proporzioni del
corsivo.
Pelletier scosse il capo, nel tentativo di scacciare i ricordi che mi-
nacciavano di sopraffarlo. Tirò un respiro profondo, quindi infilò il coltello
sotto il sigillo. La ceralacca si aprì con una lieve incrinatura. Lisciò la per-
gamena.
Il messaggio era breve. In cima al foglio vi erano i simboli che Pelletier
ricordava di aver visto sulle pareti giallastre nella caverna del labirinto, fra
le colline nei pressi della Città Santa. Scritti nell'antica lingua degli antena-
ti di Harif, non significavano nulla per chi non faceva parte della Noubles-
so.
Fraire,
è giunta l'ora. Le tenebre stanno per abbattersi su questo pae-
se. C'è malvagità nell'aria, un male che distruggerà e corromperà
tutto ciò che è buono. I testi non sono più al sicuro nelle pianure
del Pays d'Oc. È tempo che i Codici vengano riuniti. Tuo fratello
ti attende a Besièrs, tua sorella a Carcassona. A te spetta il com-
pito di portare i libri in un luogo più protetto.
Affrettati. I valichi estivi della Navarra saranno già chiusi il
giorno di Toussaint, forse anche prima se la neve cadrà in antici-
po. Ti aspetto per la festa di Sant-Miquel.
Pas a pas, se va luènh.
CAPITOLO 9
Alaïs era alla finestra ad aspettare che Guilhem tornasse. Il cielo sopra
Carcassonne era di un intenso indaco vellutato, gettava un morbido manto
sulla città. Il vento secco della sera che spirava da nord, il cers, scendeva
dolcemente dalle montagne, faceva stormire le foglie sugli alberi e muove-
va le canne lungo le rive dell'Aude, portando con sé la promessa di aria più
fresca.
Puntini luminosi si vedevano brillare da Sant-Miquel e da Sant-Vicens.
Le vie ciottolose della Cité brulicavano di gente che mangiava e beveva,
raccontava storie e cantava canzoni d'amore, di prodezza e di morte. A po-
chi passi dalla piazza principale, le fiamme nella fornace del maniscalco
ardevano ancora.
Aspettare. Sempre aspettare.
Alaïs si era strofinata le erbe sui denti per renderli più bianchi e aveva
imbastito un sacchettino di nontiscordardimé nel collo del vestito per pro-
fumarlo. La stanza era pervasa dal dolce aroma di lavanda arsa.
L'assemblea era terminata qualche ora prima e Alaïs si aspettava che
Guilhem tornasse o quanto meno mandasse qualcuno ad avvertirla. Stralci
di conversazioni si levavano dalla corte come fili di fumo. Intravide il ma-
rito di sua sorella Oriane, Jehan Congost, che attraversava di fretta la corte.
Contò sette o otto chevaliers del castello, che si recavano di buona lena al-
la fornace con i loro écuyers. Poco prima, aveva visto suo padre rampo-
gnare un ragazzo che bighellonava nei pressi della cappella.
Di Guilhem nemmeno l'ombra.
Alaïs sospirò, frustrata per essersi rinchiusa in camera senza motivo. Si
voltò e diede uno sguardo alla stanza, vagò senza un perché dal tavolo alla
sedia e viceversa, le mani irrequiete cercavano qualcosa da fare. Si fermò
davanti al telaio e fissò l'arazzo che stava realizzando per dama Agnès, un
complesso bestiario ricco di creature selvagge e uccelli dalle ampie code
che strisciavano e si arrampicavano sulle mura di un castello. Di solito,
quando il cattivo tempo o i suoi oneri all'interno del castello la tenevano
confinata in casa, Alaïs trovava conforto in quel raffinato lavoro.
Quella sera non riusciva a concentrarsi su nulla. Gli aghi erano intatti vi-
cino al telaio, il filo che Sajhë le aveva regalato ancora intonso lì accanto.
Le pozioni che aveva preparato prima con l'angelica e la consolida mag-
giore erano state etichettate con cura e conservate in fila su uno scaffale di
legno nella parte più fresca e buia della stanza. Sollevò la tavoletta e la i-
spezionò ancora, fin quando non fu stanca di guardarla e non ebbe le dita
doloranti per aver seguito mille volte il disegno del labirinto. Aspettare,
aspettare.
«Es totjorn lo meteis» mormorò. Sempre la stessa storia.
Alaïs raggiunse lo specchio e scrutò la sua immagine riflessa. Un viso
piccolo e a cuore, con occhi castani e arguti e guance candide, né scialbo
né bello, la fissava con espressione seria dallo specchio. Alaïs sistemò la
scollatura del vestito, come aveva visto fare dalle altre ragazze, per cercare
di renderlo più alla moda. Magari se avesse cucito un pezzo di merletto
su...
Un colpo secco alla porta interruppe i suoi pensieri.
Perfin. Finalmente. «Avanti» gridò.
La porta si aprì. Il sorriso svanì dal suo viso.
«François. Cosa c'è?»
«L'intendente Pelletier richiede la vostra presenza, signora.»
«A quest'ora?»
François spostò il peso da un piede all'altro, imbarazzato.
«Vi aspetta nelle sue stanze. Temo che vi sia una certa premura, Alaïs.»
Lei sgranò gli occhi, stupita dal fatto che l'avesse chiamata con il nome
di battesimo. Non aveva mai commesso un errore simile prima di allora.
«È successo qualcosa?» chiese prontamente. «Mio padre non si sente be-
ne?»
François esitò. «È molto... preoccupato, signora. Gradirebbe la vostra
compagnia al più presto.»
Alaïs sospirò. «A quanto pare oggi non è proprio giornata.»
François aveva l'aria confusa. «Signora?»
«Non importa, François. È solo che sono un po' di malumore stasera.
Certo che verrò, se mio padre lo desidera. Andiamo?»
Nella sua stanza, dalla parte opposta dell'ala abitativa del castello, Oria-
ne era seduta al centro del letto con le lunghe gambe formose piegate sotto
di sé.
Gli occhi verdi semichiusi, come quelli di un gatto. Aveva un sorriso
compiaciuto sul viso mentre si lasciava pettinare i riccioli neri in disordine.
Di tanto in tanto sentiva i denti del pettine d'osso sfiorarle la cute, un tocco
delicato e sensuale.
«È molto... rilassante» disse.
Accanto a lei c'era un uomo. Era completamente nudo e aveva un imper-
cettibile velo di sudore fra le spalle larghe e possenti. «Rilassante, signo-
ra?» ribatté in tono scherzoso. «Non era certo questa la mia intenzione.»
Oriane sentì il respiro caldo sul collo, quando lui si sporse in avanti e le
tolse i capelli dal viso per poi intrecciarli dietro la schiena.
«Sei bellissima» sussurrò.
Cominciò a massaggiarle le spalle e la nuca, dapprima con delicatezza,
quindi con più energia. Oriane piegò il capo, mentre lui seguiva con le
mani esperte il profilo delle guance, del naso, del mento, quasi volesse im-
primere i suoi lineamenti nella memoria. Ogni tanto, le faceva scivolare
più in basso sulla pelle candida e delicata del collo.
Oriane gli prese una mano, la portò alla bocca e leccò la punta delle dita.
Lui l'attirò a sé. Oriane sentiva il calore e il peso del suo corpo, sentiva
premere contro la schiena la prova del suo desiderio. Lui la fece voltare e
le dischiuse le labbra con le dita, poi prese a baciarla lentamente.
Oriane non fece caso al rumore dei passi lungo il corridoio, finché qual-
cuno non cominciò a bussare alla porta.
«Oriane!» sentì gridare con voce stridula e stizzita. «Sei lì?»
«È Jehan!» mormorò lei a fior di labbra, seccata più che allarmata da
quella interruzione. Sgranò gli occhi. «Credevo avessi detto che non sa-
rebbe tornato.»
L'uomo lanciò uno sguardo alla porta. «Così pensavo. Quando li ho la-
sciati, sembrava che avrebbe avuto da fare con il visconte ancora per un
bel pezzo. È chiusa a chiave?»
«Certo» replicò lei.
«Non lo troverà strano?»
Oriane scrollò le spalle. «Non è tanto sciocco da entrare senza essere sta-
to invitato. Tuttavia, faresti meglio a nasconderti.» Indicò un'alcova nasco-
sta dietro un arazzo che si trovava appeso dall'altro lato del letto. «Non
preoccuparti» sorrise, vedendo l'espressione sul suo volto. «Me ne sbaraz-
zerò in un baleno.»
«E come pensi di fare?»
Gli mise le mani intorno al collo e lo attirò a sé, tanto vicino da sfiorargli
la pelle con le ciglia. Lui si strusciò contro di lei.
«Oriane!» piagnucolò Congost, il tono di voce si faceva più acuto ogni
volta che parlava. «Apri subito la porta!»
«Aspetta e vedrai» mormorò e si chinò per baciarlo sul petto, sul ventre
piatto e più in basso ancora. «Ora sparisci. Nemmeno lui rimarrà fuori in
eterno.»
Quando fu sicura che l'amante fosse ben nascosto, Oriane raggiunse la
porta in punta di piedi, girò la chiave nella serratura senza far rumore,
quindi tornò di corsa a letto e tirò le tende del baldacchino. Era pronta per
divertirsi.
«Oriane!»
«Marito» replicò con voce petulante. «Non c'è bisogno di fare tutto que-
sto chiasso. È aperto.»
Oriane lo sentì armeggiare, poi la porta si aprì e si richiuse di nuovo
sbattendo. Il marito entrò di fretta nella stanza. Lei sentì il rumore del me-
tallo contro il legno quando lui appoggiò la candela sul tavolo.
«Dove sei?» chiese irritato. «E perché è così buio qui dentro? Non sono
in vena di scherzi.»
Oriane sorrise. Si distese sui cuscini, con le gambe leggermente divari-
cate, le braccia lisce e nude piegate sopra la testa. Non voleva lasciare
niente all'immaginazione.
«Sono qui, marito.»
«La porta non era aperta quando ho provato la prima volta» si lamentò
lui, ma quando scostò le tende ammutolì.
«Be', forse non hai... spinto... abbastanza forte» ribatté.
Oriane vide il marito diventare prima pallido, subito dopo paonazzo.
Con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata, guardava allibito i
seni alti e sodi della moglie, i capelli sciolti e sparsi sul cuscino come una
massa di serpenti che si contorcevano, le curve della vita snella e la lieve
protuberanza del ventre, il triangolo di ispidi peli neri fra le cosce.
«Cosa credi di fare?» chiese lui con voce stridula. «Copriti im-
mediatamente.»
«Dormivo, caro» replicò. «Mi hai svegliata.»
«Svegliata? Io ti ho svegliata?» farfugliò, «E dormivi in... in questo mo-
do?»
«Fa molto caldo stasera, Jehan. Non sono libera di dormire come più mi
piace, nell'intimità della mia camera?»
«Poteva entrare chiunque e vederti in questo stato. Tua sorella, la tua
serva, Guirande. Chiunque!»
Oriane si mise a sedere lentamente e lo guardò con aria di sfida, mentre
si attorcigliava una ciocca di capelli attorno al dito. «Chiunque?» ripeté
sarcastica. «Ho licenziato Guirande» disse fredda. «Non ho più bisogno
dei suoi servigi.»
Notò che il marito si sforzava di guardare altrove, ma senza successo.
Desiderio e disgusto scorrevano in ugual misura nelle sue vene rinsecchite.
«Poteva entrare chiunque» ribadì, meno convinto stavolta.
«Sì, suppongo di sì. Ma non è entrato nessuno. A parte te, marito mio,
naturalmente.» Sorrise. Aveva lo sguardo di un animale pronto ad attacca-
re. «E adesso, giacché sei qui, forse puoi dirmi dove sei stato.»
«Sai dove sono stato» scattò lui. «In Consiglio.»
Lei sorrise. «In Consiglio? Tutto questo tempo? L'assemblea si è sciolta
molto prima che facesse buio.»
Congost arrossì. «Non hai alcun diritto di mettere in dubbio la mia paro-
la,»
Oriane strinse gli occhi. «Per Sant Foy, che uomo pomposo sei, Jehan.
"Non hai alcun diritto...".» L'imitazione era perfetta ed entrambi gli uomini
trasalirono per la sua crudeltà. «Coraggio, Jehan, dimmi dove sei stato. A
discutere affari di stato, forse? O eri forse in compagnia della tua amante,
è, Jehan? Hai un'amante nascosta da qualche parte nello Château Comtal?»
«Come osi parlarmi in questo modo? Io...»
«Gli altri mariti dicono alle mogli dove sono stati. Perché tu no? A meno
che non vi sia una ragione valida per non farlo.»
Congost ora urlava. «Gli altri mariti dovrebbero imparare a tenere la
bocca chiusa. Non sono cose da donne.»
Oriane strisciò sul letto verso di lui.
«Non sono cose da donne» ripeté. «È così?»
Il tono di voce era basso e sprezzante. Congost sapeva che si stava pren-
dendo gioco di lui, ma non capiva le regole del combattimento. Non le a-
veva mai capite.
Oriane tese la mano e premette l'eloquente protuberanza che sporgeva
dalla sua tunica. Fu soddisfatta nel vedere la sorpresa e il panico sul volto
del marito, quando cominciò a muovere la mano su e giù.
«Allora, caro» riprese sdegnata. «Dimmi, quali sono le cose da donna?
L'amore?» Strinse più forte. «Questo? Come lo definiresti, sesso?»
Congost sentiva puzza di tranello, ma era talmente ammaliato da quella
donna che non sapeva cosa dire né cosa fare. Non riuscì a trattenersi e si
chinò su di lei. Muoveva le labbra umide come un pesce, teneva gli occhi
serrati. Per quanto la disprezzasse, non poteva fare a meno di desiderarla;
malgrado fosse tanto erudito, in questo era come tutti gli altri uomini, ob-
bediva a ciò che gli pendeva fra le gambe. Lei invece lo disprezzava e ba-
sta.
D'improvviso, Oriane ritirò la mano, poiché aveva ottenuto la reazione
sperata. «Bene, Jehan» disse gelida. «Se non hai niente da dirmi, puoi an-
che andartene. Non ho bisogno di te in questo momento.»
Oriane vide scattare qualcosa in lui, come se tutte le delusioni e le fru-
strazioni che aveva sopportato in vita sua gli fossero balenate nella mente.
Prima che se ne rendesse conto, il marito l'aveva già colpita, abbastanza
forte da buttarla sul letto.
Restò a bocca aperta per lo stupore.
Congost era immobile, si fissava la mano come se fosse estranea al resto
del corpo.
«Oriane, io...»
«Sei patetico» urlò. Sentiva il sapore del sangue in bocca. «Ti ho detto
di andare. Vai dunque. Sparisci dalla mia vista!»
Per un istante a Oriane sembrò che stesse tentando di scusarsi. Invece,
quando lui rialzò lo sguardo, vide odio nei suoi occhi piuttosto che vergo-
gna. Tirò un respiro di sollievo. La recita sarebbe continuata come aveva
architettato.
«Mi dai la nausea» gridò lui, scostandosi dal letto. «Sei simile a una be-
stia. No, sei peggio, perché tu sai quello che fai.» Afferrò il mantello blu
che giaceva a terra in modo lascivo e glielo gettò in faccia. «E copriti. Non
voglio trovarti in queste condizioni quando torno, a ostentare le tue grazie
come una sgualdrina.»
Quando fu sicura che se ne fosse andato, Oriane si sdraiò di nuovo sul
letto e si coprì con il mantello, un po' scossa ma euforica. Per la prima vol-
ta in quattro anni di matrimonio, quello stupido e debole vecchio che il pa-
dre l'aveva costretta a prendere come marito, era riuscito davvero a sor-
prenderla. Lo aveva provocato di proposito, era vero, ma non si aspettava
certo che la picchiasse. E con tale violenza, per giunta. Si sfiorò la pelle
con le dita, le bruciava ancora per la percossa. Le aveva fatto male inten-
zionalmente. Le avrebbe forse lasciato il segno? Le sarebbe potuto tornare
utile. In quel modo avrebbe mostrato al padre a cosa aveva portato la sua
decisione.
Oriane si tirò su di colpo, con una risata amara. Lei non era certo Alaïs.
Soltanto Alaïs contava per suo padre, sebbene egli si sforzasse di non darlo
a vedere. Oriane somigliava troppo alla madre, nell'aspetto e nella persona-
lità, per i suoi gusti. Anche se Jehan l'avesse picchiata a morte, al padre
non sarebbe importato minimamente. Voleva dire che se lo meritava.
Per un attimo, lasciò che la gelosia che teneva nascosta, a tutti tranne che
ad Alaïs, trapelasse dal volto bello e impassibile. Il risentimento per la
mancanza di potere, di influenza, il disappunto. A cosa le serviva essere
giovane e bella se era legata a un uomo senza ambizioni né prospettive, un
uomo che non aveva mai brandito una spada? Non era giusto che Alaïs, la
sorella più giovane, avesse tutte le cose che lei desiderava e che le erano
state negate. Cose che le spettavano di diritto.
Oriane strinse la stoffa fra le dita, come se stesse strizzando il pallido
braccio scarno di Alaïs. La sciatta, insignificante e viziata Alaïs. Stritolò
più forte, immaginando un livido viola che si formava sulla pelle della so-
rella.
«Non avresti dovuto provocarlo.»
La voce dell'amante fendette il silenzio. Si era quasi dimenticata di lui.
«Perché no?» ribatté la donna. «È l'unico piacere che riesce a darmi.»
L'uomo sgusciò da dietro la tenda e le sfiorò la guancia con le dita. «Ti
ha fatto male? Ha lasciato il segno.»
Oriane sorrise sentendo la preoccupazione nella sua voce. Era evidente
che non la conosceva. Vedeva solo quello che voleva vedere, l'immagine
della donna che pensava che fosse.
«Non è niente» lo rassicurò.
La catena d'argento che l'uomo portava al collo le sfiorò la pelle quando
si chinò per baciarla. Oriane sentiva l'odore del suo desiderio. Si spostò,
facendo scivolare sul corpo il mantello blu come se fosse acqua. Passò le
mani sulle cosce dell'amante, la pelle era bianca e morbida in confronto a
quella dorata della schiena, delle braccia e del petto, quindi rivolse lo
sguardo più in alto. Sorrise. Lo aveva fatto aspettare abbastanza.
Oriane si avvicinò con la bocca, ma lui la spinse sul letto e si in-
ginocchiò accanto a lei.
«E quale tipo di piacere desiderate avere da me, mia signora?» chiese lui
mentre le allargava le gambe con delicatezza. «Questo?»
Lei mormorò, quando lui si chinò e la baciò. «Oppure questo?»
Le labbra scivolarono giù, nel punto più intimo e nascosto. Oriane trat-
tenne il respiro mentre la lingua correva sulla pelle, e lui mordeva, leccava,
stuzzicava.
«O forse, questo?» Sentì le mani possenti stringerla alla vita e tirarla
verso di lui. Oriane si aggrappò con le gambe alla sua schiena. «O magari
è questo quello che volete?» disse, la voce vibrante di desiderio mentre la
penetrava a fondo. Lei gemeva di piacere e gli affondava le unghie nella
schiena per la foga.
«Dunque tuo marito ti ritiene una sgualdrina, non è così?» fece lui. «Ve-
diamo un po' se ha ragione.»
CAPITOLO 10
Alaïs corse lungo il corridoio buio e uscì nella corte senza riprendere fia-
to, vedeva demoni e fantasmi dappertutto. Le girava la testa. Tutto il suo
mondo sembrava all'improvviso un'immagine riflessa, riconoscibile eppure
totalmente diversa. Il pacchetto che nascondeva sotto il vestito sembrava
perforarle la pelle.
Fuori l'aria era fresca. Quasi tutti si erano ritirati per la notte, sebbene ci
fosse ancora qualche luce accesa nelle stanze che si affacciavano sulla
Cour d'Honneur. Lo scoppio di risa delle sentinelle, di guardia alla porta
della città, la fece trasalire. Per un istante le parve di vedere qualcuno in
una delle stanze al piano superiore. Subito dopo un pipistrello le si avventò
contro attirando la sua attenzione e, quando alzò di nuovo lo sguardo, la
finestra era buia. Accelerò l'andatura. Le parole di suo padre le giravano
vorticosamente in testa, assieme a tutte le domande che avrebbe voluto
fargli e non gli aveva fatto.
Dopo pochi passi cominciò a sentire un formicolio sulla nuca. Guardò
indietro.
«Chi va là?»
Nessuna risposta. Chiese di nuovo. C'era un che di maligno nell'oscurità,
lo sentiva, lo percepiva. Camminò più veloce, sicura che qualcuno la stesse
seguendo. Sentiva un lieve fruscio di passi e il rumore di un respiro pesan-
te.
«Chi va là?» fece di nuovo.
A un tratto, una mano ruvida e callosa, che puzzava di birra, le tappò la
bocca. Alaïs urlò, quando avvertì un colpo secco, improvviso, sulla nuca, e
cadde a terra.
Le sembrò di impiegare un secolo a raggiungere il suolo. Alla fine sentì
delle mani strisciare su di lei come ratti in una cantina, finché non trovaro-
no quello che cercavano.
«Aqui es.» Eccolo.
Quella fu l'ultima cosa di cui Alaïs si rese conto prima che il buio totale
scendesse su di lei.
CAPITOLO 11
PIC DE SOULARAC
MONTI DEL SABARTHÈS
FRANCIA SUD-OCCIDENTALE
Lunedì, 4 luglio 2005
CAPITOLO 12
CAPITOLO 13
Noubel non entrò dentro la caverna. Aspettò fuori con il volto paonazzo,
nell'ombra grigia del promontorio roccioso.
Sa che qualcosa non va. Di tanto in tanto scambiava qualche parola con
l'agente in servizio e fumava una sigaretta dopo l'altra, accendendole con i
mozziconi. Alice ascoltava la musica per passare il tempo. I Nickelback le
martellavano nella testa, annullando qualsiasi altro rumore.
Dopo quindici minuti, l'uomo in giacca e cravatta riapparve. Noubel e
l'agente sembravano aver guadagnato qualche centimetro di altezza. Alice
si tolse gli auricolari e rimise a posto la sedia, quindi si fermò all'entrata
della tenda.
Vide i due uomini scendere insieme lungo il pendio.
«Cominciavo a credere che si fosse dimenticato di me, ispettore» disse
quando furono arrivati abbastanza vicini da sentirla.
Noubel biascicò delle scuse, ma evitò il suo sguardo.
«Dottoressa Tanner, je vous présente monsieur Authié.»
Averlo di fronte, la aiutò a confermare l'impressione che fosse un uomo
carismatico e di bella presenza. Ma gli occhi grigi erano gelidi e distaccati.
Alice si mise subito sulla difensiva. A dispetto dell'antipatia che provava,
gli porse la mano. Dopo un attimo di esitazione, Authié la strinse. Le dita
erano fredde e il contatto quasi impercettibile. Le fece accapponare la pel-
le.
Lasciò la mano più in fretta che poté.
«Entriamo?» fece lui.
«Fa parte anche lei della Police Judiciaire, monsieur Authié?»
Lui rispose con un lieve guizzo degli occhi, ma non disse nulla. Alice
aspettò, chiedendosi se fosse possibile che non l'avesse sentita. Noubel in-
tervenne, imbarazzato dal silenzio. «Monsieur Authié è della mairie, il
municipio. Di Carcassonne.»
«Davvero?» Fu sorpresa dal fatto che Carcassonne fosse sotto la stessa
giurisdizione di Foix.
Authié si impadronì della sedia di Alice, non lasciandole altra scelta che
sedersi con le spalle rivolte all'entrata. Alice era diffidente, guardinga nei
suoi confronti.
Aveva un sorriso perfetto, da politico: opportunistico, studiato e ambi-
guo. Lo sguardo era impassibile.
«Ho un paio di domande da farle, dottoressa Tanner.»
«Non so cos'altro possa dirle. Ho già raccontato all'ispettore tutto quello
che ricordo.»
«L'ispettore Noubel mi ha fornito un fedele resoconto della sua dichiara-
zione, tuttavia avrei bisogno che mi ripetesse tutto. Ci sono alcune discre-
panze, alcuni punti del suo racconto che andrebbero chiariti. Potrebbe es-
serci qualche dettaglio che prima le è sfuggito, un particolare che al mo-
mento può esserle sembrato insignificante.»
Alice si morse la lingua. «Ho detto tutto quanto all'ispettore» ripeté in-
flessibile.
Authié unì i polpastrelli e fece pressione sulla punta delle dita, ignoran-
do quell'obiezione. Non accennò un sorriso. «Riprendiamo da quando è en-
trata nella stanza interna alla grotta, dottoressa Tanner. Passo passo.»
Alice trasalì alla scelta di quelle parole. Passo passo? La stava mettendo
alla prova? Il suo volto era impenetrabile. Lo sguardo le cadde sul crocifis-
so d'oro che Authié portava al collo, poi tornò agli occhi grigi, che la fissa-
vano ancora.
Dato che non aveva scampo, cominciò a raccontare di nuovo. Dapprima,
Authié la ascoltò in silenzio, con intensa concentrazione. Poi iniziò l'inter-
rogatorio. Sta cercando di incastrarmi.
«Le parole incise sui gradini erano leggibili, dottoressa Tanner? Ha avu-
to tempo di decifrarle?»
«Quasi tutte le lettere erano cancellate» rispose spavalda, come se voles-
se sfidarlo a contraddirla. Dato che non lo fece, Alice provò grande soddi-
sfazione. «Ho sceso i gradini e sono andata verso l'altare. Quindi ho visto i
corpi.»
«Li ha toccati?»
«No.»
Lui emise uno strano verso, come per dire che non le credeva, poi affer-
rò la giacca. «Questo è suo?» chiese e le mostrò l'accendino di plastica blu
che aveva in mano.
Alice fece per prenderlo, ma lui ritirò il braccio.
«Posso averlo indietro, per favore?»
«È suo, dottoressa Tanner?»
«Sì.»
Authié annuì e lo infilò di nuovo in tasca. «Ha dichiarato di non aver
toccato i corpi, tuttavia, poco fa ha detto all'ispettore Noubel di averlo fat-
to.»
Alice arrossì. «È stato un incidente. Ho urtato uno dei teschi con il pie-
de, ma non li ho propriamente toccati.»
«Dottoressa Tanner, sarebbe tutto più semplice se si limitasse a rispon-
dere alle mie domande.» Sempre lo stesso tono freddo e aspro.
«Non vedo cosa...»
«Che aspetto avevano?» domandò bruscamente.
Alice vide Noubel sussultare per il tono vessatorio, sebbene non facesse
nulla per tenerlo a freno. Aveva l'addome contratto per il nervoso, ma fece
del suo meglio per descrivere la scena.
«E cosa ha visto fra i due scheletri?»
«Un pugnale, un coltello. Anche una piccola borsa, di cuoio suppongo.»
Non lasciarti intimidire. «Non lo so, dato che non l'ho toccata.»
Authié strinse gli occhi. «Ha guardato dentro la borsa?»
«Come le ho detto, non ho toccato nulla...»
«Tranne l'anello, ovviamente» si avventò contro di lei come un serpente
pronto ad attaccare. «È questo che non mi spiego, dottoressa Tanner. Mi
chiedo quale interesse l'abbia spinta a raccogliere l'anello e a lasciare inve-
ce tutto il resto così com'era. Capisce la mia perplessità?»
Alice lo guardò dritto negli occhi. «Mi ha colpito. Tutto qua.»
Lui mostrò un sorriso beffardo. «Nel buio pesto della caverna lei ha no-
tato un oggetto tanto piccolo? Quanto sarà grande? Quanto una moneta da
un franco, direi. Un po' più grande, o un po' più piccolo forse?»
Non dirgli una parola.
«Pensavo che fosse in grado di stabilire da solo le dimensioni» ribatté
fredda.
Authié sorrise. Alice avvertì un vuoto allo stomaco e capì che stava fa-
cendo il suo gioco.
«Magari potessi, dottoressa Tanner» disse in modo pacato. «Ma ora arri-
viamo al nocciolo della questione. L'anello non c'è.»
Alice si sentì gelare. «Che intende?»
«Esattamente quello che ho detto. L'anello non c'è. Tutto il resto è più o
meno come lo descrive lei. Ma non c'è nessun anello.»
Alice si tirò indietro quando Authié posò le mani sulla sedia e si avvici-
nò con il viso scarno e pallido. «Che cosa ne ha fatto, Alice?» sussurrò.
Non farti intimorire. Non hai fatto niente di male.
«Le ho raccontato con esattezza quello che è successo» replicò, sforzan-
dosi di non sembrare impaurita. «L'anello mi è scivolato di mano quando
mi è caduto l'accendino. Se adesso non c'è, vuol dire che lo ha preso qual-
cun altro. Non io.» Lanciò uno sguardo a Noubel. «Se così fosse, perché
mai avrei dovuto parlargliene?»
«Nessuno a parte lei afferma di aver visto questo misterioso anello,»
continuò Authié ignorando il suo commento «il che ci lascia soltanto due
spiegazioni. O si è sbagliata e non ha visto nessun anello. Oppure lo ha ru-
bato.»
Alla fine l'ispettore Noubel intervenne. «Monsieur Authié, non penso
proprio che...»
«Lei non è pagato per pensare» scattò, senza nemmeno guardare l'ispet-
tore. Noubel avvampò. Authié continuò a fissare Alice. «Sto soltanto fa-
cendo una constatazione.»
Alice sapeva di trovarsi in un combattimento, ma nessuno le aveva spie-
gato le regole. Stava dicendo la verità, eppure non trovava il modo di con-
vincerlo.
«Diverse persone sono entrate nella caverna dopo di me» affermò osti-
nata. «La scientifica, gli agenti di polizia, l'ispettore Noubel, lei.» Lo fissò
con fare provocatorio. «Lei è rimasto dentro un bel po'.» Noubel inspirò.
«Shelagh O'Donnell può confermare quanto ho detto dell'anello. Perché
non chiede a lei?»
Abbozzò il solito sorriso a mezza bocca. «È quello che ho fatto. Dice
che non sa niente dell'anello.»
«Ma le ho raccontato tutto» urlò Alice. «Lo ha visto con i suoi occhi.»
«Sta dicendo che la dottoressa O'Donnell ha esaminato il sepolcro?»
domandò in tono severo.
La paura le impediva di ragionare. Il cervello era scollegato. Non riusci-
va più a ricordare cosa aveva detto a Noubel e cosa aveva taciuto.
«Innanzitutto, è stata la dottoressa O'Donnell a darle il permesso di lavo-
rare lassù?»
«Non proprio» rispose, mentre l'ansia cresceva.
«Bene, ha fatto qualcosa per impedirle di lavorare in quella zona della
montagna?»
«Non è così semplice.»
Tornò a sedersi sulla sua sedia. «In tal caso, temo di non avere scelta.»
«Che significa non avere scelta?»
Lanciò un'occhiata allo zaino. Alice si tuffò per prenderlo, ma fu troppo
lenta. Authié lo afferrò per primo e lo consegnò all'ispettore Noubel.
«Non ha alcun diritto» gridò Alice. Si rivolse all'ispettore. «Non può far-
lo, vero? Faccia qualcosa.»
«Perché protesta tanto se non ha nulla da nascondere?»
«È una questione di principio! Non può mettersi a frugare fra le mie co-
se.»
«Monsieur Authié, je ne suis pas certain...»
«Faccia come le dico, Noubel.»
Alice tentò di afferrare lo zaino. Authié alzò il braccio di colpo e la prese
per un polso. Alice restò talmente scioccata dal contatto fisico, che si bloc-
cò. Le gambe cominciarono a tremarle, non sapeva se per rabbia o per pau-
ra.
Con uno scatto si liberò dalla presa di Authié e si rimise a sedere con il
respiro affannoso, mentre Noubel frugava nelle tasche dello zaino.
«Continuez. Dépêchez-vous.»
Alice lo osservava mentre si accingeva a ispezionare la parte più grande
dello zaino, sapeva che avrebbe trovato il suo blocco da disegno, era solo
questione di secondi. L'ispettore incontrò il suo sguardo. Persino lui dete-
sta farlo. Purtroppo, anche Authié aveva colto la lieve esitazione di Nou-
bel.
«Che cosa c'è, ispettore?»
«Pas de bague.»
«Che cosa ha trovato?» chiese Authié, tendendo la mano. Noubel gli
passò il blocco con riluttanza. Authié sfogliò le pagine con aria condiscen-
dente. A un tratto strinse gli occhi e Alice scorse un'espressione di autenti-
ca sorpresa sul suo volto, prima che abbassasse di nuovo gli occhi semia-
perti.
Richiuse il blocco di colpo.
«Merci de votre... collaboration, dottoressa Tanner» disse.
Anche Alice si alzò. «I miei disegni, per favore» affermò, cercando di
parlare con voce ferma.
«Le verranno restituiti a tempo debito» la informò e si infilò il blocchet-
to in tasca. «E anche lo zaino. L'ispettore Noubel le darà una ricevuta e fa-
rà mettere per iscritto la sua dichiarazione, che lei dovrà firmare.»
Alice fu colta di sorpresa dalla repentina e brusca interruzione dell'inter-
rogatorio. Quando ritrovò la prontezza di spirito, Authié era già uscito dal-
la tenda, portandole via gli oggetti personali.
«Perché non lo ferma?» domandò a Noubel. «Non creda che lo lascerò
andare via con la mia roba.»
L'espressione di Noubel si inasprì. «Le riporterò io la borsa, dottoressa
Tanner. Le consiglio di proseguire la sua vacanza. Dimentichi tutta la fac-
cenda.»
«Neanche per sogno» gridò lei, ma Noubel se ne era già andato e l'aveva
lasciata sola al centro della tenda a domandarsi cosa diavolo stesse succe-
dendo.
Per un istante non seppe cosa fare. Era furibonda, non solo con Authié
ma anche con se stessa, per essersi lasciata intimidire in quel modo.
Ma lui è diverso. Non si era mai ribellata in maniera tanto aggressiva in
vita sua. Lo shock svanì a poco a poco. Fu tentata di raccontare tutto a
Brayling, o anche a Shelagh, voleva fare qualcosa. Accantonò l'idea. Data
la sua attuale condizione di persona non grata, nessuno si sarebbe mostra-
to solidale.
Alice dovette accontentarsi di scrivere a mente una lettera di reclamo, e
di riflettere su quello che era appena accaduto, cercando di attribuirgli un
senso. Poco più tardi, un altro agente di polizia le portò la dichiarazione
per fargliela firmare. Alice la lesse con attenzione, ma a quanto pareva si
trattava di una trascrizione fedele, così scarabocchiò una firma in fondo al-
la pagina senza esitare.
CAPITOLO 14
CHARTRES
Quando Marie-Cécile uscì dalla doccia, fu lieta di scoprire che Will era
andato via. Non si sarebbe meravigliata se lo avesse trovato ancora stra-
vaccato sul letto con quell'espressione da bambino smarrito sul viso.
Le pretese di quell'uomo cominciavano a darle sui nervi. Le chiedeva
sempre più tempo e attenzioni, più di quelle che lei era disposta a conce-
dergli. Sembrava fraintendere la natura del loro rapporto. Doveva assolu-
tamente chiarire la situazione.
Marie-Cécile smise di pensare a Will. Si guardò intorno. La cameriera
era andata a rassettare la stanza. I vestiti erano pronti sul letto, Le ciabatti-
ne dorate fatte a mano erano per terra, lì accanto.
Accese un'altra sigaretta. Stava fumando troppo, ma quella sera era par-
ticolarmente nervosa. Batté il filtro sul pacchetto prima di accenderla. Era
una delle tante manie che aveva ereditato da suo nonno.
Marie-Cécile andò davanti allo specchio e fece scivolare dalle spalle la
vestaglia di seta bianca, che restò ammassata ai suoi piedi. Picgò la testa
da un lato e fissò con occhio critico la sua immagine riflessa. Il corpo lun-
go e sottile, pallido a dispetto della moda; i seni alti e sodi, la pelle priva di
imperfezioni. Passò la mano sui capezzoli scuri, poi la fece scendere, se-
guendo il profilo dei fianchi, sul ventre piatto. Forse aveva qualche segno
in più intorno agli occhi e alla bocca, ma a parte ciò sembrava che il tempo
non fosse passato per lei.
L'orologio di bronzo dorato sulla mensola del caminetto cominciò a bat-
tere l'ora, ricordandole che doveva iniziare a prepararsi. Prese la lunga e
diafana veste dalla gruccia. Accollata dietro, ma con una profonda scolla-
tura a V sul davanti, era fatta su misura per lei.
Marie-Cécile agganciò le bretelline, due nastrini dorati, sulle spalle spi-
golose, quindi si sedette alla toletta. Si spazzolò i capelli e arrotolò i riccio-
li con le dita, finché non furono lucidi come l'ambra nera. Adorava quel
momento di metamorfosi, in cui cessava di essere se stessa e si trasforma-
va in Navigatairé. Era un rituale che stringeva un legame nel tempo con
tutti coloro che avevano ricoperto quel ruolo prima di lei.
Sorrise. Soltanto il nonno avrebbe potuto capire come si sentiva in quel
momento. Euforica, eccitata, invincibile. Non quella sera, ma molto presto,
tutto si sarebbe svolto nel luogo in cui una volta si erano trovati i suoi pre-
decessori. Tranne il nonno. Era penoso sapere quanto la caverna fosse vi-
cina alla zona in cui aveva condotto gli scavi cinquanta anni prima. Aveva
ragione. Soltanto pochi chilometri a est e sarebbe stato lui a cambiare la
storia.
Alla morte del nonno, cinque anni prima, Marie-Cécile aveva ereditato
l'azienda della famiglia de l'Oradore. Era il ruolo a cui lui l'aveva destinata
praticamente da sempre. Il padre di Marie-Cécile, unico figlio maschio, lo
aveva deluso. Lei, al contrario, lo aveva capito fin da quando era in tenera
età. Quando Marie-Cécile aveva compiuto sei anni, il nonno aveva preso
in mano la sua istruzione sociale, accademica e filosofica. Aveva la pas-
sione per le cose più raffinate e un grande occhio per il colore e per l'arte.
Mobili, arazzi, abiti, dipinti, libri, il suo gusto era impeccabile. Tutto ciò
che Marie-Cécile sapeva e di cui poteva vantarsi, lo aveva imparato da lui.
Le aveva anche insegnato cosa fosse il potere, come usarlo e come man-
tenerlo. Quando la nipote aveva raggiunto la maggiore età e la necessaria
preparazione, il nonno aveva ufficialmente diseredato il figlio e nominato
lei sua unica erede.
C'era stato un unico neo nel loro rapporto: l'inaspettata e indesiderata
gravidanza di Marie-Cécile. Malgrado la sua devozione alla ricerca dell'an-
tico segreto del Graal, la fede cattolica del nonno era forte e ortodossa e
pertanto non gli consentiva di approvare che lei avesse un figlio senza es-
sere sposata. L'aborto era fuori discussione. L'adozione anche. Fu solo
quando vide che la maternità non aveva in alcun modo scalfito la determi-
nazione di Marie-Cécile, anzi l'aveva resa addirittura più ambiziosa e riso-
luta, che accolse di nuovo la nipote fra le sue braccia.
Marie-Cécile tirò una boccata profonda dalla sigaretta, accogliendo vo-
lentieri il fumo nella gola e nei polmoni, irritata dalla vivezza di quei ri-
cordi. Dopo più di vent'anni, ripensare all'esilio la colmava ancora di rag-
gelante disperazione. Alla scomunica, come la chiamava il nonno.
Era una definizione perfetta. Era stato come morire.
Marie-Cécile scrollò il capo per scacciare quei pensieri patetici. Non vo-
leva che nulla turbasse il suo stato d'animo quella sera. Non poteva per-
mettere a niente di rovinarle la serata. Non ammetteva errori.
Si voltò di nuovo verso lo specchio. Per prima cosa applicò sul viso un
fondotinta chiaro e una cipria dorata. Quindi, disegnò le palpebre e le so-
pracciglia con una matita scura, che metteva in risalto le ciglia e gli occhi
neri; poi applicò un ombretto verde, iridescente come la coda di un pavo-
ne. Per le labbra scelse un lucido color rame scintillante di pagliuzze dora-
te e le tamponò con una velina per fissare il colore. Alla fine spruzzò una
nuvola di profumo nell'aria e lasciò che cadesse, come nebbia, sulla pelle.
Sulla toletta erano allineate tre scatole di pelle rossa, con fermagli di ot-
tone lucidi e splendenti. Ognuno di quei gioielli da cerimonia aveva parec-
chi secoli, ma era modellato su pezzi più antichi di millenni. La prima sca-
tola conteneva un ornamento per il capo, una sorta di diadema con una
punta al centro; la seconda due amuleti d'oro a forma di serpente, con scin-
tillanti occhi di smeraldo; la terza invece conteneva una collana, una gros-
sa fascia d'oro con un ciondolo appeso. La superficie luccicante dei gioielli
faceva venire in mente la polvere e il caldo dell'antico Egitto.
Una volta pronta, Marie-Cécile andò alla finestra. Laggiù le strade di
Chartres si snodavano come in una cartolina, i negozi, le auto e i ristoranti
erano annidati come sempre all'ombra della grande cattedrale gotica. Ben
presto, da quelle case sarebbero usciti gli uomini e le donne scelti per
prendere parte al rituale di quella sera.
Chiuse gli occhi davanti al profilo familiare della città e all'orizzonte che
imbruniva. Adesso, non vedeva più le guglie e i grigi porticati. No, nella
sua mente vedeva il mondo intero estendersi davanti agli occhi come una
mappa luminosa.
Finalmente a portata di mano.
CAPITOLO 15
FOIX
Con l'adrenalina che scorreva nelle vene, Yves Biau smise finalmente di
correre. Si piegò in avanti, con le mani sulle ginocchia, per riprendere fia-
to.
Sopra di lui, il grande Château di Foix dominava la città, come faceva
ormai da più di mille anni. Era il simbolo dell'indipendenza di quella re-
gione, l'unica fortezza di una certa importanza a non essere stata coinvolta
nella crociata contro la Linguadoca. Un rifugio per i catari e per i ribelli ar-
rivati dalle città e dalle pianure.
Biau sapeva che qualcuno lo inseguiva. Chiunque fosse non si era pre-
occupato di nascondersi. Portò la mano alla pistola che aveva sotto la giac-
ca. Perlomeno aveva fatto quello che gli aveva chiesto Shelagh. Se solo
fosse riuscito a passare il confine con Andorra, prima che se ne accorges-
sero, sarebbe stato salvo. In quel momento, Biau capì che era troppo tardi
per arrestare gli eventi che egli stesso aveva contribuito a mettere in moto.
Aveva fatto tutto quello che gli avevano ordinato, ma lei tornava sempre
alla carica. Qualunque cosa facesse, non era mai abbastanza.
Il pacco era stato spedito a sua nonna con l'ultimo corriere postale del
giorno. Lei avrebbe saputo cosa farne. Era l'unica cosa che gli era venuta
in mente di fare per porre rimedio a quello che aveva combinato.
Biau guardò da un capo all'altro della strada. Nessuno,
Si incamminò verso casa, facendo un giro assurdo e tortuoso, nel caso in
cui lo stessero aspettando lì. Se fosse arrivato da quella direzione, avrebbe
avuto modo di avvistarli prima che loro vedessero lui.
Mentre attraversava il mercato coperto, inconsciamente notò la Merce-
des color argento nella place Saint-Volusien, ma non le prestò troppa at-
tenzione. Non udì il lieve borbottio del motore che girava al minimo e
nemmeno la marcia che veniva inserita, mentre l'auto cominciava ad avan-
zare inosservata, sobbalzando leggermente sui ciottoli della vecchia città
medievale.
Quando scese dal marciapiede per attraversare la strada, l'auto accelerò
di colpo, catapultandosi come un aereo sulla pista di decollo. Biau si voltò,
impietrito dalla paura. Con un rumore sordo, l'auto gli falciò le gambe e il
corpo, improvvisamente senza peso, fu scaraventato sopra il parabrezza e
al di là della vettura. Biau fluttuò in aria per una frazione di secondo, per
poi precipitare con violenza contro uno dei pali di ghisa che sostenevano il
tetto spiovente del mercato.
Restò là un istante, sospeso a mezz'aria, sembrava un bambino su una
giostra del luna park. A un tratto la forza di gravità lo attirò verso il basso
e Biau cadde al suolo, lasciando una scia rossa di sangue sul metallo scuro.
La Mercedes non si fermò.
Il rumore richiamò la gente fuori dai bar lì attorno. Alcune donne si af-
facciarono alle finestre che davano sulla piazza. Il proprietario del bar per
le scommesse diede un'occhiata e corse dentro a chiamare la polizia. Una
donna cominciò a gridare, ma fu immediatamente zittita dalla folla che si
era radunata intorno al corpo.
«S'il vous plaît» gridò Noubel, aprendosi un varco fra i curiosi. «Police.
S'il vous plaît.»
Yves Biau era disteso a gambe e braccia divaricate sul selciato. Le brac-
cia aperte ad angolo retto. Una gamba era piegata in due, di sicuro rotta,
poiché l'osso bianco della caviglia sporgeva dai pantaloni. L'altra era diste-
sa in modo innaturale, rivolta da un lato. Uno dei mocassini beige si era
sfilato.
Noubel si chinò e provò a sentire il polso. Il ragazzo respirava ancora,
respiri brevi e poco profondi, ma aveva la pelle viscida al tatto e gli occhi
chiusi. L'ispettore fu lieto di sentire da lontano la sirena dell'ambulanza.
«S'il vous plaît» gridò ancora, mentre si rialzava. «Poussez vous.» Resta-
te indietro.
Arrivarono altre due auto della polizia. Era girata via radio la notizia che
un agente era stato ferito, perciò c'erano più poliziotti che spettatori. Bloc-
carono la strada e separarono i testimoni dai curiosi. Furono efficienti e
metodici, ma i volti rivelavano tensione.
«Non è stato un incidente, ispettore» affermò l'americana. «La macchina
ha puntato dritto verso di lui, velocissima.»
Noubel la guardò con attenzione. «Ha visto cosa è successo, madame?»
«Certo che l'ho visto.»
«Ha visto anche che modello di auto era? La marca?»
La donna scosse il capo. «Grigio argento, è l'unica cosa che posso dirle.»
Si voltò verso il marito.
«Mercedes» fece lui pronto. «Non ho visto tutta la scena. Mi sono girato
soltanto quando ho sentito il rumore.»
«Numero di targa?»
«Mi pare che terminasse con undici. È accaduto troppo in fretta.»
«La strada era quasi deserta, agente» ripeté la moglie, quasi temesse di
non essere stata presa sul serio.
«Ha visto quante persone c'erano nell'auto?»
«Di sicuro una sul sedile anteriore. Non saprei dire se c'era qualcuno an-
che su quello posteriore.»
Noubel affidò la donna a un agente perché annotasse i dettagli, dopodi-
ché raggiunse il retro dell'ambulanza, sulla quale stavano caricando Biau
con la barella. La testa e il collo erano retti da un sostegno, ma un rivolo di
sangue scorreva da sotto la fasciatura che avvolgeva la ferita, macchiando
di rosso la camicia.
Era bianco da far paura, come un lenzuolo. Aveva una cannula a un an-
golo della bocca e una flebo portatile attaccata alla mano. «Il pourra s'en
tirer?» Se la caverà?
Il paramedico fece una smorfia. «Se fossi in lei» disse, sbattendo la por-
tiera, «avviserei la famiglia.»
Noubel batté un colpo sul fianco dell'ambulanza che si allontanava,
quindi, compiaciuto del lavoro che i suoi uomini stavano svolgendo, tornò
alla sua auto imprecando contro se stesso. Si lasciò cadere sul sedile ante-
riore: sentiva il peso dei suoi cinquant'anni, e rifletté su tutte le decisioni
sbagliate che aveva preso quel giorno e che avevano causato tutto ciò. Infi-
lò un dito nel colletto della camicia e allentò la cravatta.
Sapeva che avrebbe dovuto parlare prima con il ragazzo. Da quando era
arrivato al Pic de Soularac, Biau non era più stato lo stesso. Di solito era
entusiasta, sempre il primo a farsi avanti. Quel giorno invece era nervoso,
irascibile, ed era sparito per metà del pomeriggio.
Agitato, l'ispettore tamburellò nervosamente con le dita sul volante.
Authié sosteneva che Biau non gli avesse riferito nessuna informazione
sull'anello. Ma perché mai avrebbe dovuto mentire su una cosa simile?
Al pensiero di Paul Authié, Noubel accusò un improvviso dolore all'ad-
dome. Si cacciò in bocca una mentina, in cerca di un po' di sollievo. Aveva
commesso un altro errore. Non avrebbe dovuto lasciare che Authié avvici-
nasse la dottoressa Tanner, anche se a pensarci bene non avrebbe potuto
fare granché per evitarlo. La denuncia del ritrovamento dei due scheletri a
Soularac era stata accompagnata dall'ordine di dare a Paul Authié libero
accesso a tutta l'area e l'assistenza necessaria. Noubel non era ancora riu-
scito a capire come Authié fosse venuto a conoscenza della scoperta così
in fretta, né tanto meno come avesse fatto a infiltrarsi nelle indagini.
Prima di allora non lo aveva mai incontrato personalmente, ma lo cono-
sceva di fama. Come la maggior parte dei poliziotti. Si diceva che Authié,
avvocato assai noto per i saldi principi religiosi, avesse in pugno metà del-
la magistratura e della gendarmeria del Midi. Nello specifico, un collega di
Noubel era stato convocato per fornire delle prove riguardo a un caso in
cui Authié era alla difesa. Due membri di un gruppo di estrema destra era-
no stati accusati dell'omicidio di un tassista algerino commesso a Carcas-
sonne. Stando alle voci di corridoio, c'era stato un tentativo di intimidazio-
ne. Alla fine, entrambi gli imputati erano stati assolti e diversi agenti di po-
lizia erano stati costretti a dimettersi.
Noubel guardò gli occhiali da sole di Biau, che aveva raccolto da terra.
Già prima non era contento. Adesso la situazione gli piaceva ancora meno.
La radio cominciò a crepitare e a trasmettere le informazioni, che Nou-
bel aveva chiesto, sui parenti prossimi di Biau. Restò seduto ancora un i-
stante, rimandando un altro po' quel momento. Quindi iniziò a fare le tele-
fonate.
CAPITOLO 16
CAPITOLO 17
CARCASSONA
Julhet 1209
CAPITOLO 18
Dopo essersi guardato indietro con ansia un'ultima volta, Bertrand Pelle-
tier uscì a cavallo dalla Porta Est al fianco del visconte Trencavel. Non riu-
sciva a spiegarsi come mai Alaïs non fosse andata a salutarli.
Pelletier cavalcava in silenzio, perso nei suoi pensieri, ascoltava a mala-
pena le chiacchiere inutili che si susseguivano intorno a lui. Era turbato
perché al momento della partenza la figlia non era nella Cour d'Honneur ad
augurargli che la spedizione avesse successo. Era stupito, e anche deluso,
se proprio doveva ammetterlo. Si pentì di non aver mandato François a
svegliarla.
Nonostante fosse molto presto, ai lati delle strade c'erano molte persone
a salutarli e ad acclamarli. Erano stati scelti soltanto i cavalli migliori. Pa-
lafreni con una ripresa e un'elasticità su cui si poteva contare, insieme a
puledri e giumente provenienti dalle scuderie dello Château Comtal, scelti
per la velocità e per la resistenza. Raymond-Roger Trencavel era in sella al
suo stallone baio prediletto, un cavallo che aveva addestrato egli stesso da
quando era puledro. Aveva il manto fulvo come una volpe in inverno e una
caratteristica stella bianca sul muso, dalla forma identica a quella dei terri-
tori del visconte, o almeno così dicevano.
Ogni scudo riportava l'emblema dei Trencavel. Lo stemma era ricamato
su tutte le bandiere e le casacche che gli chevaliers indossavano sull'arma-
tura da viaggio. Il sole che sorgeva si rifletteva sugli elmi scintillanti, sulle
spade e sulle briglie. Persino le bisacce dei cavalli da soma erano state lu-
cidate, tanto che gli stallieri potevano specchiarsi sul cuoio.
Ci era voluto un po' per decidere quanto dovesse essere grande l'envoi.
Troppo piccolo e Trencavel sarebbe apparso come un alleato indegno e in-
significante e loro sarebbero diventati facile bersaglio per i banditi lungo il
tragitto. Troppo grande e la missione sarebbe stata scambiata per una di-
chiarazione di guerra.
Alla fine, erano stati scelti sedici chevaliers, tra i quali c'era anche Guil-
hem du Mas, malgrado le obiezioni di Pelletier. Considerando gli écuyers,
un gruppetto di servitori e uomini di chiesa, Jehan Congost e un fabbro per
i lavori di riparazione agli zoccoli dei cavalli, la compagnia contava in tut-
to una trentina di persone.
La destinazione era Montpellier, città principale dei territori del visconte
di Nìmes e luogo di nascita della moglie di Raymond-Roger, dama Agnès.
Come Trencavel, Nîmes era vassallo del re d'Aragona, Pietro II; pertanto,
sebbene Montpellier fosse una città cattolica e il re in persona fosse un fi-
do ed energico persecutore dell'eresia, c'era motivo di credere che l'avreb-
bero attraversata senza pericoli.
Avevano calcolato tre giorni di viaggio da Carcassonne. Impossibile dire
chi sarebbe arrivato per primo, se Trencavel o il conte di Toulouse.
CAPITOLO 19
Al suo risveglio, Alaïs si ritrovò distesa fra lenzuola di lino anziché sul-
l'erba. Aveva nelle orecchie un fischio lieve e continuo, simile al riecheg-
giare del vento d'autunno fra gli alberi. Si sentiva pesante e intorpidita,
come se il corpo non le appartenesse. Stava sognando che Esclarmonde era
lì con lei e le metteva la mano fredda sulla fronte per far scendere la feb-
bre.
Aprì gli occhi e sbatté le palpebre. Sopra di lei c'era il familiare baldac-
chino di legno del letto, le tende blu scuro erano aperte. La stanza era per-
vasa dalla delicata luce dorata del tramonto. L'aria, sebbene ancora calda e
afosa, prometteva un po' di fresco per la notte. Annusò il leggero aroma di
erbe appena bruciate. Rosmarino e una nota di lavanda.
Sentiva anche voci di donna, sguaiate e basse, nelle vicinanze. Sembrava
che bisbigliassero per non disturbarla. Le parole uscivano sibilando, come
il grasso che cola dallo spiedo sul fuoco. Piano piano, Alaïs voltò la testa
sul cuscino in direzione del rumore. Alziette, l'insopportabile moglie dello
stalliere capo, e Ranier, una pettegola maliziosa e antipatica con un marito
rozzo e maleducato, accomunate dalla passione per seminare zizzania, era-
no sedute accanto al focolare spento come due vecchie cornacchie. Oriane,
sua sorella, le utilizzava spesso per fare le commissioni, ma Alaïs non si
fidava di loro e non riusciva a spiegarsi come mai si trovassero nella sua
stanza. Suo padre non lo avrebbe mai permesso.
A un tratto le tornò alla mente. Lui non c'era. Era andato a Saint-Gilles,
o a Montpellier, non ricordava con esattezza. E anche Guilhem.
«Allora, dove stavano?» sibilò Ranier, avida di pettegolezzi.
«Nel frutteto, proprio vicino al ruscello sotto i salici» rispose Alziette.
«La figlia più grande di Mazelle li ha visti andare laggiù. Quella megera è
corsa subito dalla madre. Quindi Mazelle si è precipitata nel cortile, tor-
cendosi le mani per la vergogna e dicendo che avrebbe preferito non do-
vermelo dire.»
«È sempre stata gelosa della tua figliola, è? Le sue sono tutte butterate e
grasse come maiali. Brutte come lucci, non se ne salva una.» Ranier si av-
vicinò col capo. «E a quel punto cosa hai fatto?»
«Che altro potevo fare, se non andare a guardare con i miei occhi? Li ho
visti non appena sono arrivata. Non è che si fossero sforzati tanto di na-
scondersi. Ho acchiappato Raoul per i capelli, quei capellacci sudici che si
ritrova, e gli ho dato un bel ceffone. Nel frattempo si teneva la cintura, ros-
so come un peperone per la vergogna di essere stato beccato. Quando sono
passata a Jeanette, si è divincolata dalla mia presa ed è scappata via senza
neanche voltarsi indietro.»
Ranier era sdegnata.
«Non ha fatto altro che piagnucolare tutto il tempo, continuava a dire
che Raoul l'amava e che voleva sposarla. A sentirla, pareva che mai nessu-
na prima di lei si fosse fatta infinocchiare con parole sdolcinate.»
«Forse il ragazzo ha davvero buone intenzioni.»
Alziette sbuffò. «Non è in condizione di sposarsi» si lagnò. «Cinque fra-
telli più grandi e soltanto due già ammogliati. Il padre all'osteria mattina e
sera. Quei pochi sol che hanno vanno a finire dritti nelle tasche di Gaston.»
Alaïs si sforzò di non ascoltare i pettegolezzi di quelle donne. Due av-
voltoi che ripulivano una carogna, ecco cosa erano.
«Alla fine, però,» riprese Ranier con fare allusivo «è stata una fortuna
che sia andata così: Se le circostanze non ti avessero spinta laggiù non la
avresti mai trovata.»
Alaïs si irrigidì, avvertendo che le due si erano voltate in direzione del
letto.
«Hai ragione» concordò Alziette. «E scommetto che quando il padre
tornerà sarò ben ricompensata.»
CAPITOLO 20
CAPITOLO 21
Alaïs avrebbe preferito non dover tornare in camera, ma non aveva scel-
ta. Scavalcò François prestando attenzione a non svegliarlo, attraversò la
corte e si diresse verso le sue stanze. Non c'era nessuno nei paraggi.
La fedele serva di Oriane, Guirande, dormiva per terra davanti alla porta
della camera di sua sorella; quando Alaïs la oltrepassò in punta di piedi, il
suo bel viso imbronciato era immerso nel sonno.
Dal silenzio che l'accolse appena entrata nella stanza intuì che la balia
era andata via. Era probabile che non l'avesse trovata al proprio risveglio e
avesse tagliato la corda.
Alaïs si mise all'opera, senza perdere tempo. Il successo del piano di-
pendeva dalla sua abilità nel far credere a tutti che era troppo debole per
allontanarsi dal castello. Nessuno doveva sapere che era diretta a Montpel-
lier.
Prese dal guardaroba il vestito da caccia più leggero che aveva, fulvo
come la pelliccia di scoiattolo, con maniche grigio chiaro, attillate ma am-
pie sotto le braccia, che terminavano a punta di diamante. Legò una sottile
cintura di cuoio alla vita, alla quale attaccò della frutta fresca e la borsa da
caccia invernale.
Infilò gli stivali, che arrivavano sotto il ginocchio, strinse i lacci di cuoio
nella parte più alta, in modo che reggessero un secondo coltello, quindi si-
stemò la fibbia e indossò una semplice mantella marrone con il cappuccio,
senza rifiniture sul bordo.
Quando fu vestita, prese qualche pietra preziosa e dei gioielli dallo scri-
gno, tra cui la collana di eliolite, l'anello e il girocollo di turchesi. Avrebbe
potuto barattarli o usarli per comprare un passaggio sicuro o un riparo, so-
prattutto una volta varcato il confine delle terre del visconte Trencavel.
Alla fine, quando fu certa di non aver dimenticato nulla, recuperò la
spada che teneva nascosta sotto il letto e che non toccava dal giorno delle
nozze. Afferrò saldamente l'arma con la destra e la sollevò dinanzi a sé,
posò la lama sul palmo della mano e la esaminò attentamente. Era ancora
dritta e in buone condizioni, nonostante il disuso. Disegnò un otto nell'aria,
ricordandosi quanto fosse pesante e tagliente. Sorrise. Tenerla in mano le
dava una bella sensazione.
CAPITOLO 22
TOULOUSE
Martedì, 5 luglio 2005
CAPITOLO 23
CARCASSONNE
Pochi minuti dopo le dieci, un uomo di nome Audric Baillard uscì dalla
stazione ferroviaria di Carcassonne e si avviò verso il centro. Era esile e il
vestito chiaro gli conferiva un'aria distinta, seppur antiquata. Camminava
di buon passo, fra le dita sottili teneva, come un'asta, un lungo bastone da
passeggio. Il cappello panama gli riparava gli occhi dal sole.
Baillard attraversò il Canal du Midi e oltrepassò il sontuoso Hotel du
Terminus, con i pomposi specchi art déco e le porte di metallo girevoli.
Carcassonne era cambiata parecchio. Poteva vederlo tutto intorno a sé,
mentre percorreva la strada pedonale che tagliava il cuore della Basse Vil-
le. Nuovi negozi di abbigliamento, pâtisseries, librerie e gioiellerie. Si re-
spirava un'atmosfera di benessere. Era di nuovo una meta. Una città al cen-
tro del mondo.
Il lastricato bianco di place Carnot brillava alla luce del sole. Era tutto
diverso. La magnifica fontana del diciannovesimo secolo era stata restau-
rata, l'acqua zampillava limpida. La piazza era punteggiata di sedie e tavo-
lini colorati dei caffè. Baillard guardò in direzione del Bar Félix e sorrise
alle solite, malconce tende da sole spiegate sotto i tigli. Almeno qualcosa
era rimasto invariato.
Infilò una stradina secondaria stretta e affollata che conduceva al Pont
Vieux. I segnali marroni che indicavano la fortificata Cité medievale erano
un'ulteriore testimonianza del fatto che la città, un tempo inserita fra i
"vaut le détour" della guida Michelin, fosse diventata una località turistica
internazionale, riconosciuta come patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.
Uscito dal vicolo, se la trovò di fronte. Baillard provò come sempre la
forte sensazione di essere tornato a casa, anche se il posto non era più lo
stesso.
Una balaustra ornamentale era stata posta all'entrata del Pont Vieux per
bloccare il traffico. Una volta bisognava schiacciarsi lungo il parapetto per
evitare la fiumana di camper, roulotte, camion e motociclette che percorre-
vano scoppiettando lo stretto ponte. Allora, le lastre di pietra portavano le
cicatrici dell'inquinamento decennale. Adesso, invece, la balaustra era pu-
lita. Forse anche troppo. Ma la malconcia statua di Gesù era ancora appesa
alla croce come una bambola di pezza; situata a metà del ponte, segnava il
confine tra la Bastide Sant-Louis e la vecchia città fortificata.
Tirò fuori dal taschino un fazzoletto giallo e si asciugò con cura la faccia
e la fronte, sotto il bordo del cappello. Gli argini del fiume erano ordinati e
ricchi di vegetazione, sentieri marroncini serpeggiavano fra alberi e cespu-
gli. Sulla riva nord, in mezzo agli ampi prati, c'erano aiuole curate, piene
di enormi fiori esotici. Signore ben vestite erano sedute sulle panchine di
metallo all'ombra degli alberi, a guardare l'acqua e a chiacchierare, con i
cagnetti che ansimavano pazienti accanto a loro o azzannavano alle cavi-
glie qualche sporadico passante che faceva jogging.
Il Pont Vieux portava dritto al Quartier de la Trivalle, che da grigio sob-
borgo si era trasformato nell'ingresso della Cité medievale. Nere balaustre
di ferro battuto erano state disposte a intervalli lungo i marciapiedi per im-
pedire alle macchine di parcheggiare. Pansé dai vivaci colori arancio, por-
pora e cremisi straripavano dai vasi come i capelli che cadono sulla schie-
na di una ragazza. Tavolini e sedie cromati scintillavano fuori dai caffè e
lampioni a spirale con la punta di rame avevano rimpiazzato le vecchie e
ordinarie illuminazioni stradali. Persino gli attempati tombini di scarico in
ferro e plastica, che gocciolavano e si deformavano sotto la pioggia batten-
te o il caldo asfissiante, erano stati sostituiti da eleganti canali di scolo in
metallo satinato con i bordi dentellati.
La boulangerie e l'alimentation générale erano sopravvissute, così come
l'Hotel du Pont Vieux, mentre la boucherie ora vendeva pezzi di antiqua-
riato e la merceria era diventata un emporio New Age, che dispensava cri-
stalli, tarocchi e libri sull'illuminazione spirituale.
Quanti anni erano passati dall'ultima volta che era stato lì? Aveva perso
il conto.
Baillard svoltò a destra in rue de la Gaffe e notò come anche questa a-
vesse preso le sembianze di una strada residenziale. Larga abbastanza da
consentire il passaggio a una sola macchina per volta, era più un vicolo che
una strada. All'angolo c'era una galleria d'arte, La Maison du Chevalier,
con due ampie finestre arcuate protette dalle inferriate, che ricordavano le
cancellate di Hollywood. Sulla parete c'erano sei scudi di legno dipinto e
vicino alla porta un anello di metallo che una volta serviva a legare i caval-
li e che ora la gente usava per i cani.
Diverse porte erano verniciate di fresco. I numeri civici erano in cerami-
ca bianca con bordi blu e gialli, circondati da ghirigori di minuscoli fiorel-
lini. Il turista di turno con lo zaino in spalla, la cartina e la borraccia in
mano, era fermo a chiedere indicazioni per la Cité in un francese zoppican-
te, ma in generale c'era poco movimento.
Jeanne Giraud abitava in una casetta il cui retro si affacciava sugli erti
pendii erbosi che conducevano fino ai bastioni medievali. Sullo stesso lato
della strada, solo alcune abitazioni erano state rimodernate. Altre erano
abbandonate o avevano porte e finestre chiuse con assi di legno. Una cop-
pia di anziani stava seduta fuori, sulle sedie della cucina. Quando passò,
Baillard sollevò il cappello e augurò loro buona giornata. Conosceva di vi-
sta alcuni dei vicini di Jeanne, aveva stabilito con loro una conoscenza su-
perficiale nel corso degli anni.
Jeanne era seduta all'ombra davanti alla porta d'ingresso, in attesa del
suo arrivo. Aveva un aspetto ordinato e dinamico come al solito, indossava
una sobria camicetta a maniche lunghe e una gonna nera dritta. Portava i
capelli legati in una crocchia sulla nuca. Aveva la consueta aria da profes-
soressa, quale era stata fino alla pensione, vent'anni prima. Da quando la
conosceva non l'aveva mai vista abbigliata in modo meno perfetto e forma-
le di quello.
Audric sorrise, al ricordo di quanto Jeanne fosse curiosa i primi tempi,
sempre a fare domande. Dove abitava? Cosa faceva nei lunghi mesi in cui
non si vedevano? Dove andava?
In viaggio, le rispondeva. A svolgere ricerche e a raccogliere materiale
per i suoi libri, a far visita agli amici.
Quali amici, chiedeva lei.
Compagni, quelli con i quali aveva studiato e condiviso tante esperienze.
Le aveva parlato della sua amicizia con Grace.
Qualche tempo dopo, le aveva rivelato che viveva in un paesino sui Pi-
renei, non lontano da Montségur. Ma le aveva raccontato poco altro della
sua vita, e con il passare degli anni lei aveva smesso di fare domande.
Jeanne era una ricercatrice intuitiva e metodica, diligente, scrupolosa e
distaccata, tutte qualità inestimabili. Negli ultimi trent'anni, aveva collabo-
rato con Baillard a ogni singolo libro, in special modo all'ultima opera in-
compiuta, la biografia di una famiglia catara vissuta a Carcassonne nel tre-
dicesimo secolo.
Per Jeanne era stata una sorta di indagine investigativa. Per Audric, un
lavoro appassionato.
Jeanne alzò la mano quando lo vide arrivare. «Audric» disse con un sor-
riso. «Da quanto tempo.»
Baillard le prese le mani fra le sue. «Bonjorn.»
L'amica arretrò di un passo per guardarlo da capo a piedi. «Sei in for-
ma.»
«Tè tanben» rispose. Anche tu.
«Alla buon'ora.»
Annuì. «Il treno è arrivato puntuale.»
Jeanne sembrò scandalizzata. «Sei venuto a piedi dalla stazione?»
«Non è tanto lontano» replicò con un sorriso. «Lo ammetto, volevo ve-
dere come era cambiata Carcassona dall'ultima volta che sono stato qui.»
Baillard la seguì nel fresco della casa. Le piastrelle marroni e beige sul
pavimento e sulle pareti davano all'ambiente un'aria cupa e antiquata. Al
centro della stanza c'era un tavolino ovale, le cui gambe malridotte spunta-
vano da sotto una tovaglia di tela cerata gialla e blu. Nell'angolo c'era uno
scrittoio, con sopra appoggiata una vecchia macchina da scrivere, accanto
alle portefinestre che si affacciavano su un terrazzino.
Jeanne arrivò dalla dispensa portando su un vassoio una brocca d'acqua,
una vaschetta con il ghiaccio, un piatto di patatine, rustici piccanti e una
ciotola di aspre olive verdi con tanto di piattino per sputare i noccioli. Pre-
stando attenzione, appoggiò il vassoio sul tavolo e raggiunse la stretta
mensola di legno che occupava l'intera parete all'altezza delle spalle. Prese
una bottiglia di Guignolet, un liquore amarognolo al gusto di ciliegia che,
come Baillard sapeva bene, conservava per le occasioni speciali.
Il ghiaccio sbatteva contro il bicchiere tintinnando, mentre il liquido ros-
so vivo colava sui cubetti. Per un attimo rimasero in piacevole silenzio,
come avevano fatto molte volte in passato. Dall'altoparlante di una navetta
per turisti, che effettuava l'abituale giro intorno alle mura, arrivò lo stralcio
della spiegazione di una guida, formulata in diverse lingue.
Audric appoggiò con cura il bicchiere sul tavolo. «Allora» esordì. «Rac-
contami cosa è successo.»
Jeanne si avvicinò al tavolo con la sedia. «Come sai, mio nipote Yves
lavora nella Police Judiciaire, département de l'Ariège, con base a Foix.
Ieri, è stato chiamato in una zona di scavi archeologici sui monti del Sabar-
thès, nei pressi del Pic de Soularac, dove erano stati rinvenuti due schele-
tri. Yves era sorpreso che i suoi superiori la considerassero una potenziale
scena di un crimine, perché era palese, secondo lui, che gli scheletri si tro-
vavano lì da un periodo di tempo considerevole.» Fece una pausa. «Ov-
viamente, non è stato Yves a interrogare la donna che aveva trovato i cor-
pi, ma era presente. Yves sa qualcosa riguardo al lavoro che svolgo per te,
di sicuro abbastanza da capire che la scoperta di quella caverna può avere
un certo interesse.»
Audric trattenne il fiato. Per tanti anni aveva provato a immaginare co-
me si sarebbe sentito in quel momento. Non aveva mai perso la speranza di
sapere un giorno, finalmente, cosa fosse accaduto davvero in quelle ultime
ore.
Erano trascorsi decenni. Aveva guardato le stagioni susseguirsi in un ci-
clo infinito; il verde della primavera trasformarsi nell'oro dell'estate; i colo-
ri bruniti dell'autunno scomparire sotto il candore austero dell'inverno; il
primo disgelarsi dei torrenti di montagna in primavera.
Ma non aveva ancora ricevuto un segno. E ara? E ora?
«Yves è entrato nella caverna?» domandò.
Jeanne annuì.
«Cosa ha visto?»
«Un altare. Dietro di esso, scolpito nella roccia, il disegno del labirinto.»
«E i corpi? Dove si trovavano?»
«In un sepolcro, nient'altro che un avvallamento del terreno, in realtà, di
fronte all'altare. C'erano alcuni oggetti fra gli scheletri, ma aveva troppa
gente davanti a sé per riuscire a vederli come si deve.»
«Quanti erano?»
«Due. Due scheletri.»
«Ma allora...» Si fermò. «Non importa, Jeanne. Ti prego, continua.»
«Sotto i... sotto di essi, ha trovato questo.»
Jeanne fece scorrere un piccolo oggetto sul tavolo.
Audric restò di sasso. Dopo tutto quel tempo, aveva paura di toccarlo.
«Ieri, nel tardo pomeriggio, Yves ha telefonato dall'ufficio postale di
Foix. La linea era disturbata e non si sentiva molto bene, ma sono riuscita
a capire che aveva preso l'anello perché non si fidava delle persone che lo
stavano cercando. Sembrava preoccupato.» Jeanne esitò. «O meglio, spa-
ventato, Audric. Le cose non stavano andando secondo la prassi. Le proce-
dure abituali non venivano rispettate, nel sito c'era un sacco di gente che
non avrebbe dovuto trovarsi lì. Sussurrava, come per timore che qualcuno
lo sentisse.»
«Chi altro è entrato nella caverna?»
«Non ne ho idea. Gli agenti in servizio? Il suo superiore? Qualcun altro
forse.»
Baillard guardò l'anello sul tavolo, poi allungò la mano e lo prese. Te-
nendolo fra il pollice e l'indice, lo inclinò verso la luce. Il fine disegno del
labirinto inciso nella parte interna era chiaramente visibile.
«È il suo anello?» chiese Jeanne.
Audric non se la sentiva di rispondere. Si meravigliò della casualità che
aveva portato l'anello nelle sue mani. Si domandò se fosse una casualità.
«Yves ti ha detto dove avrebbero portato i corpi?»
Scosse il capo.
«Puoi chiederglielo? E puoi chiedergli anche se può stilare un elenco di
tutte le persone che si trovavano lì ieri, quando la caverna è stata aperta?»
«Glielo chiederò. Sono certa che farà il possibile per aiutarci.»
Baillard infilò l'anello al pollice. «Mi raccomando, di' a Yves che gli so-
no davvero grato. Gli sarà costato caro impossessarsi di questo. Non ha i-
dea di quanto la sua prontezza possa essere stata importante.» Sorrise.
«Cos'altro hanno rinvenuto insieme ai corpi?»
«Un pugnale, una piccola borsa di cuoio senza niente dentro, una lampa-
da sul...»
«Vuèg?» esclamò incredulo. «Vuota? Ma non può essere.»
«A quanto pare l'ispettore Noubel, il suo diretto superiore, ha insistito
molto su questo punto quando ha interrogato quella donna. Yves ha detto
che è stata inflessibile. Ha affermato di non aver toccato nulla, a parte l'a-
nello.»
«E tuo nipote pensa che sia la verità?»
«Non me lo ha detto.»
«Allora... deve averlo preso qualcun altro» mormorò fra sé e sé, la fronte
corrugata per la concentrazione. «Cosa ti ha raccontato Yves di questa
donna?»
«Pochissimo. Che è inglese, sulla ventina, una volontaria, non un'ar-
cheologa. Era venuta a Foix su invito di un'amica, la seconda responsabile
degli scavi.»
«Come si chiama?»
«Taylor, mi pare.» Aggrottò le sopracciglia. «No, non Taylor. Forse era
Tanner. Sì, esatto. Alice Tanner.»
Il tempo si bloccò. «Es vertat?» Davvero? Quel nome riecheggiò nella
testa di Audric. «Es vertat?» ripeté con un sussurro.
Era stata lei a prendere il libro? Lo aveva riconosciuto. No, no. Si fermò.
Non aveva senso. Se aveva preso il libro, perché non anche l'anello?
Baillard poggiò le mani aperte sul tavolo per farle smettere di tremare,
poi guardò fisso l'amica.
«Credi di poter chiedere a Yves se ha il suo indirizzo? Se sa dove ma-
domaisèla...» Troncò la frase, incapace di continuare.
«Posso chiederglielo» rispose Jeanne, quindi aggiunse: «Ti senti bene,
Audric?».
«È la stanchezza.» Abbozzò un sorriso. «Nient'altro. Non ti preoccupa-
re.»
«Mi aspettavo che fossi più... contento. Per te questa scoperta è, o alme-
no dovrebbe essere, il culmine di tutti gli anni di lavoro.»
«È un'emozione forte.»
«Più che emozionato, sembri sconvolto.»
Baillard immaginò l'aspetto che doveva avere: occhi troppo lucidi, volto
pallidissimo, mani tremanti.
«Sono emozionato» ribatté. «E molto grato a Yves e anche a te, natu-
ralmente, ma...» Tirò un respiro profondo. «Non potresti per caso telefona-
re subito a Yves? Potrei parlargli direttamente io, o magari incontrarlo di
persona.»
Jeanne si alzò e andò nell'ingresso, dove c'era il telefono appoggiato su
un tavolino in fondo alle scale.
Baillard guardò dalla finestra i pendii che portavano alle mura della Cité,
Gli venne in mente un'immagine di lei che cantava mentre lavorava, dei
fasci luminosi che filtravano attraverso i rami degli alberi e creavano
chiazze di luce sull'acqua. Tutto intorno, i suoni e gli odori della primave-
ra; puntini colorati nel sottobosco, blu, rosa e gialli, la terra umida e il pro-
fumo inebriante dei bossi su entrambi i lati del sentiero roccioso. La pro-
messa di caldi giorni estivi in arrivo.
Sussultò quando udì Jeanne richiamarlo dai dolci colori del passato.
«Non risponde» lo informò.
CAPITOLO 24
CHARTRES
A Chartres, nella cucina della casa in rue du Cheval Blanc, Will Franklin
trangugiava il latte direttamente dalla bottiglia di plastica, nel tentativo di
togliere il sapore stantio di brandy dalla bocca.
La governante aveva apparecchiato la tavola per la colazione quella mat-
tina presto prima di smontare. La moka era sul fornello. Will pensò che il
caffè fosse per François-Baptiste, dato che la governante non era solita
prendersi un simile disturbo per lui quando Marie-Cécile non c'era. Ipotiz-
zò che François-Baptiste stesse ancora dormendo, malgrado l'ora, poiché
tutto era immacolato, nemmeno un cucchiaio o un coltello fuori posto. Due
scodelle, due piatti, due tazze con tanto di piattino. Accanto a una grossa
ciotola c'erano quattro diversi tipi di marmellata e un vasetto di miele. Will
sollevò il tovagliolo bianco. Scoprì pesche, pesche noci, melone e mele.
Non aveva appetito. La sera precedente, per ammazzare il tempo in atte-
sa che Marie-Cécile tornasse, si era preparato un drink, al quale ne erano
seguiti un altro e un altro ancora. A mezzanotte passata, finalmente Marie-
Cécile si era fatta viva, ma a quel punto lui era già ubriaco. Marie-Cécile
invece era al culmine dell'eccitazione, smaniosa di rimediare alla discus-
sione che avevano avuto. Non si erano addormentati prima dell'alba.
Accartocciò il pezzo di carta. Non si era nemmeno degnata di scrivere il
biglietto di suo pugno. Ancora una volta, era toccato alla governante in-
formarlo che la padrona era andata fuori città per affari e che sperava di
tornare per il weekend.
Will e Marie-Cécile si erano conosciuti all'inaugurazione di una galleria
d'arte a Chartres quella primavera, tramite amici di amici dei genitori di
Will. Lui si era preso un semestre di vacanza da passare in giro per l'Euro-
pa; lei era uno dei finanziatori della mostra. Era stata Marie-Cécile a fargli
delle avances, in realtà. Attratto e lusingato da quelle attenzioni, Will si era
ritrovato a raccontare la storia della sua vita davanti a una bottiglia di
champagne. Avevano lasciato la galleria e da allora erano rimasti insieme.
Almeno in teoria, pensò con amarezza. Aprì il rubinetto e si spruzzò
l'acqua fredda sulla faccia. Quella mattina l'aveva chiamata, per dirle cosa
non lo sapeva con esattezza, ma il suo cellulare era spento. Era stufo di
quei continui alti e bassi, di non sapere mai che ruolo avesse nella vita del-
la sua compagna.
Si affacciò alla finestra e fissò il cortiletto sul retro della casa. Come tut-
to il resto, era stato studiato alla perfezione, in modo molto accurato. Nien-
te era secondo natura. Ciottoli grigio chiaro, grossi vasi di terracotta con
alberi di limoni e aranci lungo la parete rivolta a sud. Le cassette sui da-
vanzali erano piene di alti gerani rossi, i petali già aperti per il sole. L'edera
ricopriva il cancelletto di ferro battuto, vecchio di secoli. Tutto esprimeva
durevolezza. Tutto sarebbe rimasto uguale anche se Will fosse andato via.
Era come se si fosse appena svegliato e avesse scoperto che il mondo re-
ale non era come credeva. La cosa più intelligente da fare era ridurre le
perdite, senza rancori, e passare ad altro. Per quanto fosse deluso dalla loro
relazione, Marie-Cécile era stata in ogni caso cortese e generosa con lui e,
a dirla tutta, anche coerente. Erano state le sue sciocche illusioni a ridurlo
così. Lei non aveva colpa. Non aveva infranto nessuna promessa.
Soltanto allora Will colse l'ironia della situazione: aveva trascorso gli ul-
timi tre mesi nello stesso genere di casa in cui era cresciuto e dalla quale
era fuggito con la scusa del viaggio in Europa. Malgrado le differenze cul-
turali, l'atmosfera di casa de l'Oradore gli ricordava quella della casa dei
suoi genitori, elegante e raffinata, un luogo creato più per intrattenere e o-
stentare che per abitarci. Proprio come in casa dei genitori, Will si ritrova-
va a passare un mucchio di tempo da solo, trascinandosi da una stanza
immacolata all'altra.
Quel viaggio era l'occasione per decidere cosa voleva fare nella vita.
Dapprincipio aveva programmato di andare in Spagna, passando per la
Francia, a raccogliere le idee e a trovare l'ispirazione, ma da quando aveva
messo piede a Chartres non aveva scritto neanche una riga. I suoi argo-
menti erano protesta, rabbia e inquietudine, l'empia triade della vita ameri-
cana. In patria, trovava un mucchio di cose contro le quali inveire. Lì, era
rimasto a corto di parole. L'unico argomento che occupava la sua mente
era Marie-Cécile ed era anche l'unico argomento tabù.
Finì il latte e gettò la bottiglia nel cestino dell'immondizia. Lanciò un ul-
timo sguardo alla tavola e decise di uscire per colazione. Il pensiero di do-
ver fare una chiacchierata di cortesia con François-Baptiste gli dava il vol-
tastomaco.
Will attraversò il corridoio, L'ingresso dalle alte volte era immerso nel
silenzio, a parte il costante ticchettio dello sfarzoso orologio della nonna.
A destra delle scale, una piccola porta conduceva alle immense cantine
che si trovavano nel seminterrato. Will prese il giubbotto di jeans dal pila-
strino della balaustra ed era sul punto di uscire, quando notò che uno degli
arazzi era storto. Era spostato solo di pochi millimetri, ma nella perfetta
simmetria che dominava il resto dell'ingresso rivestito di pannelli, saltava
all'occhio.
Allungò una mano per raddrizzarlo, poi esitò. Vide un sottile fascio di
luce filtrare dal legno lucido, alla base del muro. Guardò la finestra sopra
la porta d'ingresso e le scale, nonostante sapesse che a quell'ora nell'atrio
non entrava il sole.
Sembrava che la luce arrivasse da dietro i pannelli. Perplesso, sollevò
l'arazzo dalla parete. Ben mimetizzata con il legno, c'era una porticina ta-
gliata a filo del rivestimento. Era chiusa da un piccolo chiavistello di otto-
ne incassato nel legno scuro ed era dotata di una maniglia circolare piatta,
simile a quella della porta di un campo da squash. Era tutto molto discreto.
Will provò a togliere il chiavistello. Era ben oliato, perciò scivolò con
facilità. Un lieve cigolio e la porta si aprì, scoprendo un odore penetrante
di luoghi sotterranei e scantinati nascosti. Con la mano sullo stipite, diede
una sbirciata e trovò subito la fonte di luce, una lampadina smerigliata in
cima a una ripida rampa di scale che scendeva nell'oscurità.
Trovò due interruttori proprio accanto all'entrata. Uno azionava la lam-
padina sopra la porta e l'altro una fila di fioche lampadine gialle a forma di
candele, agganciate a chiodi di metallo conficcati nel muro di pietra, sul la-
to sinistro delle scale. Da entrambi i lati, una corda blu, intrecciata e fatta
passare attraverso anelli metallici neri, fungeva da corrimano.
Scese il primo gradino. Il soffitto era basso, un misto di vecchi mattoni,
selce e pietra, a pochi centimetri dalla sua testa. Era un luogo angusto, ma
l'aria era fresca e pulita. Non aveva l'aspetto di un posto abbandonato.
Più andava giù e più faceva freddo. Aveva già fatto venti gradini, e ce
n'erano ancora. Non era umido, però, e sebbene non vedesse ventole o altri
mezzi di aerazione sembrava che da qualche parte arrivasse un flusso di a-
ria fresca.
Giunto in fondo alle scale, Will si ritrovò in un piccolo vestibolo. Sulle
pareti non c'era nulla, nessuna indicazione, soltanto le scale alle sue spalle
e una porta davanti a sé, che occupava tutto il passaggio in altezza e lar-
ghezza. Le lampadine proiettavano una luce gialla e malaticcia.
Avvertì una forte scarica di adrenalina quando si avvicinò alla porta.
La chiave ingombrante e antiquata girò senza resistenza nella serratura.
Una volta varcata la soglia, l'atmosfera cambiò del tutto. Niente più ce-
mento a terra. Al suo posto, un tappeto rosso bordeaux tanto spesso da in-
ghiottire il rumore dei suoi passi. L'illuminazione di tipo funzionale aveva
lasciato il posto a pomposi candelabri di metallo. Le pareti erano dello
stesso miscuglio di mattoni e pietra che c'era di sopra, ma qui erano ornate
da arazzi, immagini di cavalieri medievali, donne dal viso di porcellana e
preti incappucciati in tonache bianche, con il capo chino e le braccia tese.
C'era traccia di qualcos'altro nell'aria, adesso. Incenso, un odore dolce e
forte che gli fece tornare in mente, dopo tanto tempo, il Natale e la Pasqua
della sua infanzia.
Will si guardò alle spalle. La vista, al di là della porta aperta, delle scale
che riportavano in casa, lo rassicurò. Il breve corridoio era cieco, termina-
va con una pesante tenda di velluto appesa a una sbarra di ferro nero. Era
ricoperta di simboli ricamati in oro, un misto di geroglifici egiziani, dise-
gni astrologici e segni zodiacali.
Tese la mano e scostò la tenda.
Dietro di essa c'era un'altra porta, decisamente più vecchia. Fatta con lo
stesso legno scuro usato per il rivestimento dell'ingresso al piano superio-
re, i bordi decorati con ghirigori e motivi in legno. I pannelli centrali erano
del tutto disadorni, costellati solo dai buchi dei tarli, non più grandi di una
capocchia di spillo. Non vedeva maniglie né serrature, non c'era alcun mo-
do di aprirla.
L'architrave era coronato da sculture ornamentali di pietra, non di legno.
Will le tastò in cerca di qualche fermo. Doveva esserci una maniera per en-
trare. Ripeté la stessa operazione su entrambi gli stipiti: partendo dal basso
salì fino all'architrave per poi scendere dall'altro lato, e alla fine trovò
qualcosa. Un leggero infossamento poco sopra il pavimento.
Si accovacciò e premette con forza. Ci fu un rumore, secco e sordo, co-
me quello prodotto da una biglia che rimbalza su un pavimento piastrella-
to. Il meccanismo si mise in funzione e la porta si aprì.
Will si alzò, il respiro un po' affannato e le mani sudaticce. I peli dritti
sulla nuca e sulle braccia. Ancora un paio di minuti, si disse, e sarebbe u-
scito di lì. Voleva solo dare un'occhiata veloce. Niente di più. Con fermez-
za, mise la mano sulla porta e la spinse.
Era buio pesto, ma subito intuì di trovarsi in uno spazio vasto, forse una
cantina. L'odore di incenso bruciato era diventato più forte. Cercò a tastoni
qualche interruttore sulla parete, ma non ne trovò.
Pensò che se avesse tirato indietro la tenda sarebbe arrivata un po' di lu-
ce dal corridoio, così strinse l'ingombrante velluto in un nodo a otto e si
voltò, pronto ad affrontare qualunque cosa si fosse trovato di fronte.
La prima cosa che vide fu la sua ombra, lunga e sottile, proiettata oltre la
soglia. A un tratto, quando gli occhi si abituarono alla grigia oscurità, vide
finalmente quello che si nascondeva nel buio.
Si trovava all'ingresso di una lunga stanza rettangolare. Il soffitto a volta
era basso. Panche di legno in stile ecclesiastico, come quelle di un refetto-
rio, costeggiavano le pareti più lunghe a perdita d'occhio. Tutto intorno,
nel punto in cui il soffitto incontrava le pareti, c'era un fregio, un ripetersi
concatenato di simboli e parole. Somigliavano ai geroglifici che aveva vi-
sto sulla tenda di fuori.
Will si asciugò le mani sui jeans. Dritto davanti a sé, al centro della
stanza, vide un imponente blocco di pietra, simile a una tomba. Ci girò in-
torno, facendo scorrere la mano sulla superficie. Sembrava liscia, tranne
che per un grande motivo circolare nel mezzo. Si sporse in avanti per ve-
derlo meglio e seguì le linee con il dito. Un disegno fatto di cerchi via via
più piccoli, come gli anelli di Saturno.
Quando riuscì a mettere meglio a fuoco, notò che c'erano quattro lettere
incise nella pietra, una per ogni lato del rettangolo: una E in cima, una N e
una S una di fronte all'altra sui lati più lunghi e una O ai piedi. I quattro
punti cardinali?
Subito dopo, notò un piccolo blocco di pietra alto circa trenta centimetri,
posizionato alla base del blocco più grande, in corrispondenza della lettera
E. Era lievemente infossato nel mezzo, faceva pensare a un inginocchia-
toio per le esecuzioni.
Il pavimento intorno era più scuro che nel resto della stanza. Sembrava
umido, come se fosse stato strofinato da poco. Will si accucciò e sfregò la
macchia con il dito. Disinfettante o qualcosa di simile, un odore acre, co-
me di ruggine. C'era qualcosa incastrato sotto l'angolo del blocco di pietra.
Lo grattò con le unghie.
Era un brandello di stoffa, cotone o lino, dai bordi sfilacciati, come se si
fosse impigliato a un chiodo e si fosse strappato. In un angolo c'erano delle
macchioline marroni. Sembravano di sangue secco.
Will lasciò cadere la stoffa e corse via, sbatté la porta e sganciò la tenda
prima ancora che potesse rendersene conto. Si precipitò per il corridoio,
varcò la seconda porta e sfrecciò su per le scale finché non fu di nuovo nel-
l'ingresso.
Si piegò in due, con le mani sulle ginocchia, e cercò di riprendere fiato.
A un tratto pensò che qualunque cosa fosse successa lì dentro, non poteva
rischiare che qualcuno entrasse e capisse che era stato laggiù, perciò infilò
un braccio e spense le luci. Con le mani che tremavano rimise il chiavistel-
lo alla porta e l'arazzo al suo posto, in modo che non si vedesse niente dal-
l'esterno.
Per un istante, rimase lì impalato. L'orologio della nonna gli comunicò
che non erano trascorsi più di venti minuti.
Si guardò le mani, le girò sopra e sotto, come se non gli appartenessero.
Sfregò la punta del pollice e dell'indice, poi annusò. Odore di sangue.
CAPITOLO 25
TOULOUSE
Alice si svegliò con un forte mal di testa. Per un istante, non riuscì a ca-
pire dove si trovasse. Intravide con la coda dell'occhio la bottiglia vuota
sul comodino. Ben ti sta.
Si girò su un fianco e afferrò l'orologio.
Dieci e quarantacinque.
Emise un lamento e ricadde sul cuscino. Aveva la bocca maleodorante
come il portacenere di un pub e una patina acida di whisky sulla lingua.
Aspirina. Acqua.
Barcollò fino al bagno e fissò la sua immagine nello specchio. Non ave-
va una bella cera. La fronte era chiazzata da un caleidoscopio di lividi ver-
dastri, viola e gialli. Gli occhi erano cerchiati di nero. Aveva un vago ri-
cordo di quello che aveva sognato: un bosco, rami spogli ricoperti di
ghiaccio. Il labirinto disegnato su un pezzo di stoffa gialla? Non riusciva a
ricordare.
Anche il viaggio da Foix che aveva intrapreso la sera prima era confuso
nella sua mente. Non sapeva neanche perché si fosse recata a Toulouse an-
ziché a Carcassonne, che avrebbe dovuto essere la scelta più logica. Sbadi-
gliò. Foix, Carcassonne, Toulouse. Non sarebbe andata da nessuna parte se
non si fosse prima rimessa un po' in sesto. Si distese di nuovo sul letto e
aspettò che gli antidolorifici facessero effetto.
Dopo una ventina di minuti, si sentiva ancora frastornata, ma il martellio
agli occhi si era ridotto a un dolore sordo. Restò sotto il getto della doccia
fumante finché l'acqua non divenne fredda. Ripensò a Shelagh e al resto
della squadra. Si domandò cosa stessero facendo in quel momento. Di soli-
to si recavano al sito alle otto e ci rimanevano finché non faceva buio. Gli
scavi erano la loro vita. Non riusciva a immaginare come avrebbe fatto o-
gnuno di loro senza il solito tran tran.
Avvolta nel minuscolo asciugamano logoro dell'albergo, Alice controllò
il telefono per vedere se ci fossero messaggi. Ancora niente. La sera pre-
cedente era depressa per questo, adesso invece era seccata. Più di una vol-
ta, in dieci anni che si conoscevano, era capitato che Shelagh si chiudesse
per settimane in silenzi carichi di risentimento. Toccava sempre ad Alice
mettere a posto le cose, ma adesso era stufa.
Lascia che sia lei a fare il primo passo, per una volta.
Frugò nel beauty-case fin quando non trovò un vecchio tubetto di corret-
tore, usato pochissimo, con cui coprì i lividi più evidenti. Subito dopo ap-
plicò l'eye-liner e un velo di rossetto. Si asciugò i capelli con le mani. Infi-
ne scelse la gonna più comoda che aveva e un top blu nuovo, rimise tutto il
resto in valigia, quindi scese alla reception e lasciò la stanza, prima di an-
dare a esplorare la città.
Si sentiva ancora un po' acciaccata, ma una boccata d'aria fresca e una
buona dose di caffeina l'avrebbero rimessa in forma.
Appena ebbe riacquistato un po' di forza nelle gambe, tornò verso il cen-
tro della città. Era decisa ad allontanarsi il più possibile da Saint-Etienne.
Non sapeva cosa le stesse succedendo, ma non aveva intenzione di arren-
dersi.
Rassicurata dal normale svolgimento della vita quotidiana intorno a sé,
si ritrovò in una piazzetta riservata ai pedoni. A un angolo della piazza, in
fondo a destra, c'era una brasserie con tende color ciclamino, file di sedie
scintillanti e tavolini tondi sistemati sul marciapiede.
Alice occupò l'ultimo tavolo disponibile e ordinò subito, sforzandosi di
rilassarsi. Trangugiò due bicchieri d'acqua, quindi si appoggiò allo schie-
nale e provò a godersi il sole sulla faccia. Si versò un bicchiere di rosé, ag-
giunse qualche cubetto di ghiaccio e ne bevve una sorsata. Non era da lei
lasciarsi spaventare così facilmente.
Ma non ti sei mai trovata in queste condizioni psicologiche.
Nell'ultimo anno non si era fermata un secondo. Aveva rotto con il pro-
prio ragazzo dopo parecchio tempo. Il rapporto era già morto da anni e da
una parte era stato un sollievo starsene per conto suo, ma non per questo
era stato meno doloroso. Aveva l'orgoglio ferito e il cuore a pezzi. Per evi-
tare di pensare a lui aveva lavorato come una pazza e aveva tirato troppo la
corda, e tutto per evitare di rimuginare sulle possibili cause di quella rottu-
ra. Due settimane nella Francia sud-occidentale avrebbero dovuto aiutarla
a ricaricarsi. A rimettersi in carreggiata.
Alice fece una smorfia. Che vacanza.
L'arrivo del cameriere pose fine a quel tentativo di autoanalisi. L'omelet-
te era squisita, gialla e morbida all'interno, con una generosa quantità di
funghi e un bel po' di prezzemolo. Alice la mangiò con estrema concentra-
zione. Soltanto mentre raccoglieva con il pane le ultime gocce di olio d'o-
liva, cominciò a considerare come poteva trascorrere il resto del pomerig-
gio. Quando arrivò il caffè, aveva già deciso.
CAPITOLO 26
BESIÈRS
Julhet 1209
Il sole stava tramontando quando Alaïs raggiunse le pianure fuori dalla
città di Coursan.
Fin lì il viaggio era andato bene, aveva seguito la strada romana che at-
traverso il Minervois portava a Capestang, passando per sconfinati campi
di canapa, i canabières, e smeraldine distese di orzo.
Da quando aveva lasciato Carcassonne, cavalcava ogni giorno finché il
sole non iniziava a scottare troppo. Quindi cercava un riparo e si riposava
insieme a Tatou, prima di rimettersi in marcia fino al tramonto, quando l'a-
ria si riempiva di insetti che pungevano e del verso stridulo di ghiandaie,
gufi e pipistrelli.
La prima notte aveva trovato asilo nella città fortificata di Azille, presso
alcuni amici di Esclarmonde. Più si spingeva a est e meno gente trovava
nei campi e nei villaggi, e le poche persone che incontrava sembravano so-
spettose, i loro occhi scuri rivelavano diffidenza. Le raccontarono delle a-
trocità commesse da bande di disertori francesi o da routiers, mercenari,
banditi. I racconti diventavano sempre più sanguinosi e crudeli a mano a
mano che andava avanti.
Alaïs portò Tatou al trotto, era indecisa se proseguire per Coursan o cer-
care riparo nei paraggi. Le nubi marciavano veloci nel cielo sempre più
grigio e minaccioso, l'aria era terribilmente afosa. Da lontano si sentiva di
tanto in tanto il rombo dei tuoni, simile al verso di un orso appena risve-
gliatosi dal letargo. Alaïs non voleva essere sorpresa da un temporale.
Tatou iniziava a innervosirsi. Aveva i tendini contratti sotto la gualdrap-
pa e per due volte si era impennata al rumore improvviso di una lepre o di
una volpe fra gli arbusti sul ciglio della strada.
Davanti a sé, Alaïs scorse un boschetto di querce e frassini. Non era ab-
bastanza fitto per essere abituale residenza estiva di grossi animali, come
cinghiali o linci. Ma gli alberi erano alti e folti e le estremità dei rami sem-
bravano saldamente intrecciate fra loro, come tante dita: l'avrebbero ripara-
ta a sufficienza. Il fatto che ci fosse un sentiero ben marcato, un tortuoso
lembo di terra arida, consumato da un'infinità di piedi, lasciava credere che
il bosco costituisse una scorciatoia per la città, molto usata dagli abitanti
del luogo.
Tatou sussultò quando un fulmine guizzò per un istante nel cielo che
imbruniva. Il che la aiutò a prendere una decisione. Avrebbe aspettato che
il temporale fosse passato.
Spronò la cavalla con un sussurro e la convinse a dirigersi fra le verdi
braccia del bosco.
CAPITOLO 27
CAPITOLO 28
Quando Alaïs ebbe finito il proprio racconto, il padre aveva il volto pao-
nazzo. Alaïs temeva che sarebbe andato su tutte le furie. Né lei né Simeon
sarebbero riusciti a placare la sua ira.
«I Codici sono stati scoperti» sbraitò. «Non c'è ombra di dubbio.»
«Stai calmo, Bertrand» disse Simeon con fermezza. «La rabbia servirà
soltanto a offuscare la ragione.»
Alaïs si voltò in direzione delle finestre, poiché aveva notato che il ru-
more per le strade aumentava. Anche Pelletier, dopo un istante di esitazio-
ne, alzò il capo.
«Le campane hanno smesso di suonare» osservò rapidamente. «Devo
tornare a palazzo. Il visconte Trencavel mi aspetta.» Si alzò in piedi. «De-
vo riflettere su quanto mi hai raccontato, Alaïs, e decidere il da farsi. Per
adesso, dobbiamo concentrare i nostri sforzi sulla partenza.» Si voltò verso
l'amico. «Simeon, tu verrai con noi.»
Mentre Pelletier parlava, Simeon aveva aperto un baule di legno intarsia-
to che si trovava dalla parte opposta della stanza. Alaïs si avvicinò piano
piano. Il coperchio era bordato di velluto dall'intenso color cremisi, incre-
spato a formare grandi pieghe, simili alle tende di un baldacchino.
Simeon scosse il capo. «Non partirò insieme a voi. Seguirò il mio popo-
lo. Quindi, per il bene di tutti, devi prendere questo.»
Alaïs vide Simeon far scivolare la mano sul fondo del baule. Ci fu uno
scatto e si aprì un cassettino alla base. Quando Simeon si drizzò, Alaïs vi-
de che aveva in mano un oggetto racchiuso in un involucro di pelle di
montone.
I due uomini si scambiarono uno sguardo, quindi Pelletier prese il libro
dalle mani tese di Simeon e lo nascose sotto il mantello.
«Nella lettera Harif parlava di una sorella, a Carcassona» disse Simeon.
Pelletier annuì. «Un'amica della Noublesso, così ho interpretato quelle
parole. Non credo che significhino altro.»
«Fu una donna che venne a prendere il secondo libro, Bertrand» ribatté
Simeon in tono pacato. «Ti confesso che anch'io all'inizio ho pensato che
si trattasse soltanto di un corriere, ma alla luce di quanto mi hai detto...»
Pelletier scartò l'ipotesi con un cenno della mano. «Non credo proprio
che Harif abbia nominato una donna custode di uno dei libri, a prescindere
dalle circostanze. Non avrebbe corso un tale rischio.»
Alaïs era sul punto di parlare, ma si morse la lingua.
Simeon scrollò le spalle. «Dovremmo considerare questa ipotesi.»
«Ebbene, che genere di donna era?» chiese impaziente Pelletier, «Ti è
sembrata davvero il tipo di persona in grado di custodire un oggetto tanto
prezioso?»
Simeon scosse il capo. «A dire la verità, no. Non era di nobili natali, né
di origini troppo umili. Aveva superato da un pezzo l'età fertile, anche se
aveva un bambino con sé. Era diretta a Carcassona, passando per Servian,
la sua città natale.»
Alaïs drizzò le orecchie.
«È un numero esiguo di informazioni» si lamentò Bertrand. «Non ti ha
detto come si chiamava?»
«No, e non glie'ho chiesto, dal momento che portava una lettera di Harif.
Le ho dato pane, formaggio e frutta, poi è ripartita.»
Erano ormai arrivati all'uscio.
«Mi dispiace dovervi lasciare» disse Alaïs in modo brusco: all'im-
provviso era preoccupata per lui.
Simeon sorrise. «Andrà tutto bene, figliola. Esther preparerà le poche
cose che ho intenzione di portare a Carcassona. Viaggerò in incognito, na-
scosto fra la folla. Sarà meglio per tutti.»
Pelletier annuì. «Il quartiere ebraico si trova lungo il fiume, a est di Car-
cassona, non lontano dal sobborgo di Sant-Vicens. Manda qualcuno ad av-
visarci del tuo arrivo.»
«Lo farò.»
I due uomini si abbracciarono, quindi Pelletier uscì nella strada affollata.
Alaïs lo seguì, ma Simeon le poggiò una mano sulla spalla per trattenerla.
«Sei molto coraggiosa, Alaïs, Sei stata determinata nel servire tuo padre.
E anche la Noublesso. Ma abbi cura di lui. Il suo temperamento potrebbe
fargli perdere la retta via e ci aspettano tempi duri e scelte difficili.»
Alaïs guardò indietro e parlò sottovoce affinché il padre non la sentisse.
«Qual era il libro che quella donna ha portato a Carcassona? Il libro che è
andato smarrito?»
«Il Libro delle Pozioni» rispose. «Un elenco di piante e di erbe. A tuo
padre fu affidato il Libro delle Parole, a me invece il Libro dei Numeri.»
A ciascuno la propria arte.
«Credo di averti detto quello che volevi sapere» concluse Simeon, guar-
dandola da sotto le sopracciglia folte con l'aria di chi la sapeva lunga. «O
forse ho solo confermato una congettura?»
Sorrise. «Benlèu.» Può darsi.
Alaïs lo baciò e corse per raggiungere il padre.
Provviste per il viaggio. E forse anche una tavoletta di legno.
Alaïs era determinata a tenere per sé la sua intuizione, almeno finché
non fosse sfata sicura, anche se era già convinta di sapere dove si trovava il
libro. La miriade di legami che avvolgeva le loro vite come una tela di ra-
gno improvvisamente le apparve chiara. Se qualche piccolo indizio man-
cava, era perché non era stato cercato.
CAPITOLO 29
CAPITOLO 30
CARCASSONNE
Martedì, 5 luglio 2005
CAPITOLO 31
Squillò il telefono. Baillard aprì gli occhi. Sentì Jeanne che andava a ri-
spondere, subito dopo un grido straziante. Dapprima pensò che provenisse
dalla strada. Poi il rumore del ricevitore che sbatteva sulle piastrelle del
pavimento.
Si alzò senza sapere perché, avvertiva nell'aria che era successo qualco-
sa. Si voltò al rumore dei passi di Jeanne che saliva le scale.
«Qu'es?» domandò subito. Che c'è? «Jeanne» fece, con più insistenza.
«Cos'è successo? Chi era al telefono?»
Lei aveva lo sguardo assente. «Yves. È stato ferito.»
Audric la guardò inorridito. «Quora?» Quando?
«Stanotte. L'hanno investito e sono scappati. Hanno appena avvisato
Claudette. Era lei al telefono.»
«È molto grave?»
Sembrava che Jeanne non lo avesse sentito. «Verrà a prendermi qualcu-
no per portarmi all'ospedale di Foix.»
«Qualcuno chi? Lo ha mandato Claudette?»
Jeanne scosse il capo.
«La polizia.»
«Vuoi che venga con te?»
«Sì» rispose dopo un attimo di esitazione, quindi come una sonnambula
uscì dalla stanza e attraversò il ballatoio. Un istante più tardi, Baillard sentì
chiudersi la porta della sua camera.
Impotente e spaventato da quella notizia, si voltò verso la camera. Non
si era trattato di un incidente dovuto al caso. Posò lo sguardo sulla lettera
che aveva scritto. Fece un passo avanti, pensò che forse era ancora in tem-
po per fermare l'inesorabile concatenarsi degli eventi.
Poi, lasciò cadere la mano sul fianco. Bruciare la lettera avrebbe reso
vano tutto ciò per cui aveva lottato, tutto quello che aveva sopportato.
Doveva andare fino in fondo.
Si inginocchiò e cominciò a pregare. All'inizio le antiche parole uscirono
a fatica dalla bocca, dopo un po' invece vennero fuori con la stessa facilità
di un tempo e lo fecero sentire vicino a tutti coloro che le avevano pronun-
ciate prima di allora.
Fu distratto da un clacson che strombazzava nella strada. Stanco e intor-
pidito, si sforzò di alzarsi. Infilò la lettera nel taschino, prese la giacca ap-
pesa dietro la porta e andò a chiamare Jeanne.
Authié lasciò l'auto in uno dei tanti parcheggi pubblici che si trovavano
di fronte alla Porte Narbonnaise. Orde di turisti stranieri armati di guide e
videocamere si accalcavano dappertutto. Detestava quello sfruttamento
della propria storia e quell'insensata commercializzazione del proprio pas-
sato allo scopo di intrattenere giapponesi, americani e inglesi. Odiava le
mura restaurate e le false torri grigio ardesia, simboli di un passato imma-
ginario confezionato per gli stolti e i miscredenti.
Braissart lo stava aspettando come stabilito, per fargli un breve resocon-
to. La casa era vuota e vi si poteva accedere facilmente attraverso il giardi-
no sul retro. Stando ai vicini, un'auto della polizia era andata a prendere
madame Giraud quindici minuti prima. Con lei c'era un uomo anziano.
«Chi?»
«Lo hanno già visto nei paraggi, ma nessuno sa come si chiama.»
Dopo aver congedato Braissart, Authié si avviò per la discesa. La casa si
trovava quasi ai piedi della collina, sulla sinistra. La porta era chiusa a
chiave e le finestre sbarrate, ma si vedeva che non era disabitata.
Proseguì fino alla fine della strada, girò a sinistra in rue Barbacane e si
diresse a place Saint-Gimer. Alcuni abitanti della zona erano seduti fuori a
osservare le macchine parcheggiate nella piazza. Un gruppo di ragazzi in
bicicletta, a torso nudo e con la pelle abbronzata, si trastullavano sulla sca-
linata della chiesa. Authié li ignorò. Camminò di buon passo lungo la stra-
da asfaltata che costeggiava il retro e i giardini delle case in rue de la Gaf-
fe. Poi svoltò a destra e imboccò un vialetto sterrato che si snodava tortuo-
so sui pendii erbosi ai piedi della Cité.
Ben presto raggiunse il retro di casa Giraud. I muri erano verniciati dello
stesso giallo pastello della facciata. Un cancelletto di legno aperto portava
in un giardino lastricato. Fichi neri e dolci pendevano da un munifico albe-
ro, che riparava quasi tutto il terrazzo dagli sguardi dei vicini. Le piastrelle
di cotto erano macchiate di viola nei punti in cui i fichi troppo maturi era-
no caduti e si erano spaccati.
Le porte a vetri erano sovrastate da un pergolato di legno ricoperto di
piante rampicanti. Authié diede una sbirciata e vide che, sebbene ci fosse
la chiave nella toppa, le porte erano chiuse col chiavistello sopra e sotto.
Dato che non voleva lasciare tracce, andò a cercare un'altra entrata.
Accanto alle portefinestre, vide che la finestrella della cucina era rimasta
un po' aperta. Infilò i guanti di lattice, introdusse un braccio nell'apertura e
manovrò il vecchio fermo finché non si sganciò. Era duro e i cardini cigo-
larono in segno di protesta quando la finestrella si aprì. A quel punto, fece
scivolare giù le dita e sbloccò la finestra più grande, che si trovava sotto.
Un odore di olive e pane raffermo lo accolse quando entrò nel fresco cu-
cinotto. Una reticella metallica copriva un vassoio di formaggi. Sugli scaf-
fali c'erano bottiglie, barattoli di sottaceti, marmellata e mostarda. Sul ta-
volo c'erano un tagliere di legno e un tovagliolo bianco che copriva le bri-
ciole di una vecchia baguette. Albicocche quasi sfatte in un colino nel la-
vello aspettavano di essere lavate. Due bicchieri erano stati messi ad a-
sciugare capovolti sullo scolapiatti.
Authié entrò nella stanza principale. In un angolo c'era uno scrittoio con
sopra una vecchia macchina da scrivere elettronica. Premette il pulsante di
accensione e la macchina si mise in funzione con un ronzio. Inserì un fo-
glio di carta e batté su qualche tasto. Una fila di lettere nere comparve ben
marcata sulla pagina.
Authié tirò la macchina da scrivere in avanti e frugò nel casellario che si
trovava dietro. Jeanne Giraud era una persona ordinata e teneva tutto eti-
chettato e archiviato con cura: bollette nel primo scomparto, corrisponden-
za personale nel secondo, documenti relativi alla pensione e all'assicura-
zione nel terzo, volantini e dépliant pubblicitari di ogni tipo nell'ultimo.
Niente destò il suo interesse. Rivolse l'attenzione ai cassetti. I primi due
contenevano i soliti oggetti di cancelleria: penne, graffette, buste, franco-
bolli e una scorta di fogli A4 bianchi. L'ultimo era chiuso a chiave. Authié
prese un tagliacarte, quindi con accortezza e abilità infilò la lama fra il cas-
setto e la struttura del mobile e fece scattare la serratura.
Trovò soltanto una cosa nel cassetto, una piccola busta imbottita. Abba-
stanza grande da contenere l'anello, ma di certo non il libro. Il timbro po-
stale diceva: Ariège, 18.20, 4 luglio 2005.
Authié la aprì. Dentro non c'era nulla a parte la ricevuta che confermava
che madame Giraud aveva ritirato il pacco alle otto e venti. Corrispondeva
a quella che gli aveva dato Domingo.
La mise dentro la tasca interna della giacca.
Non era la prova inconfutabile che Biau avesse preso l'anello e lo avesse
spedito alla nonna, ma era quello che lasciava credere. Authié riprese a
cercare l'oggetto. Dopo aver perquisito il pianoterra, salì di sopra. La porta
della camera da letto che si affacciava sul tetro era proprio di fronte alle
scale. Era evidente che fosse la camera della signora Giraud, luminosa, pu-
lita e femminile. Rovistò nel guardaroba e nella cassettiera, frugò con ma-
no esperta fra i vestiti e i capi di biancheria, pochi, ma di buona qualità.
Tutti ripiegati con cura e precisione, emanavano un delicato profumo di
acqua di rose.
Sulla toletta, davanti allo specchio c'era un portagioie. Un paio di spille,
un filo di perle ingiallito e un braccialetto d'oro erano mischiati a diverse
paia di orecchini e a un crocifisso d'argento. L'anello nuziale e quello di fi-
danzamento riposavano immobili sul logoro feltro scarlatto, come se ve-
nissero tirati fuori solo di rado.
L'altra camera da letto, in confronto, era disadorna e spartana, c'erano
soltanto un letto singolo e uno scrittoio di fronte alla finestra, con sopra
una lampada. Ad Authié piacque. Gli ricordava le celle austere dell'abba-
zia.
Pareva che al momento qualcuno occupasse quella stanza. Sul comodino
c'era un bicchiere d'acqua mezzo vuoto, accanto a un volume delle poesie
occitaniche di René Nelli con i bordi delle pagine macchiati. Authié passò
allo scrittoio, sul quale trovò un antiquato set di penna e calamaio insieme
a diversi fogli di carta pesante. C'era anche un pezzo di carta assorbente,
usata.
Non riusciva a credere ai suoi occhi. Qualcuno si era seduto a quel tavo-
lino e aveva scritto una lettera ad Alice Tanner. Il nome era perfettamente
leggibile.
Girò il tampone di carta assorbente e cercò di decifrare la firma in fondo
alla lettera, visibile solo per metà. La calligrafia era arcaica e alcune lettere
erano sovrapposte ad altre, ma insistette finché non ottenne l'abbozzo di un
nome.
Ripiegò il ruvido pezzo di carta e lo infilò nel taschino. Era sul punto di
uscire dalla stanza, quando notò che c'era un altro pezzo di carta sul pavi-
mento, incastrato fra la porta e lo stipite. Lo raccolse. Era il brandello di un
biglietto ferroviario di sola andata, emesso proprio quel giorno. La desti-
nazione era Carcassonne, quello era evidente, ma mancava la stazione di
partenza.
Il rintocco delle campane di Saint-Gimer gli ricordò che aveva poco
tempo a disposizione. Si guardò rapidamente intorno per controllare che
tutto fosse come lo aveva trovato e uscì da dove era entrato.
Venti minuti dopo era nel suo appartamento sul Quai de Paicherou, se-
duto sul balcone che guardava la Cité medievale al di là del fiume. Sopra il
tavolo che aveva di fronte, c'era una bottiglia di Château Villerambert
Moureau con due bicchieri. Sulle gambe aveva una cartellina con dentro le
informazioni su Jeanne Giraud che la segretaria gli aveva procurato nel
frattempo. Un altro fascicolo conteneva invece il rapporto stilato dall'an-
tropologo della scientifica sui corpi rinvenuti nella caverna.
Rifletté un istante, quindi tolse diversi fogli dal dossier sulla Giraud. In-
fine, posò la cartellina, si versò un bicchiere di vino e aspettò che la sua
ospite arrivasse.
CAPITOLO 32
L'alto argine del Quai de Paicherou era pieno di uomini e donne seduti
sulle panchine metalliche che guardavano l'Aude. I prati vasti e curati dei
giardini pubblici erano delimitati da aiuole variopinte e viottoli ben tenuti.
I colori sgargianti del parco giochi, viola, giallo e arancio, erano in perfetta
armonia con quelli vivaci dei fiori: rosse spighe di tritoma, enormi gigli,
speronelle e gerani.
Marie-Cécile lanciò uno sguardo di approvazione all'edificio di Paul Au-
thié. Era quello che si aspettava, un quartier discreto, sobrio, che non ave-
va bisogno di ostentare, un insieme di villette familiari e appartamenti pri-
vati. Mentre osservava l'edificio, una donna con una sciarpa di seta viola e
una vistosa camicetta rossa Le passò davanti in bicicletta lungo l'alzaia.
Marie-Cécile si accorse che qualcuno la stava osservando. Senza voltar-
si, guardò in alto e vide un uomo che fissava l'auto dal balcone dell'ultimo
piano, con entrambe le mani appoggiate alla ringhiera di ferro battuto. Sor-
rise. Riconobbe Paul Authié grazie alle fotografie che aveva visto. Da
quella distanza, le sembrò che non gli avessero fatto giustizia.
L'autista suonò il campanello. Marie-Cécile vide Authié voltarsi e scom-
parire dietro le portefinestre. Quando lo chauffeur andò ad aprire la portie-
ra, Authié era già ad attenderla sull'uscio di casa.
Marie-Cécile aveva scelto gli indumenti con cura, un vestito di lino bei-
ge senza maniche e una giacca abbinata, formale seppure non in modo ec-
cessivo. Semplice ed elegante.
Quando fu più vicina, le sue prime impressioni furono confermate. Au-
thié era alto e aveva un fisico atletico, indossava una camicia bianca e un
completo sportivo di buona fattura. I capelli, tirati all'indietro, mettevano
in risalto i lineamenti delicati e il pallore del viso. Lo sguardo era inquie-
tante. Ma dietro l'aspetto da gentiluomo, si nascondeva un vero duro.
Dieci minuti più tardi, dopo aver accettato un bicchiere di vino, Marie-
Cécile pensò di aver capito con che sorta di uomo aveva a che fare, Sorri-
se, mentre si sporgeva in avanti per spegnere la sigaretta nel pesante porta-
cenere di vetro.
«Bon, aux affaires. Meglio rientrare, adesso.»
Authié si fece da parte per lasciarla entrare nel soggiorno immacolato e
asettico. Tappeti e paralumi chiari, sedie dallo schienale alto intorno a un
tavolo di vetro.
«Altro vino? O preferisce bere qualcosa di diverso?»
«Del pastis, se ne ha.»
«Ghiaccio? Acqua?»
«Ghiaccio.»
Marie-Cécile si sedette su una delle poltrone di pelle color crema che si
trovavano davanti a un tavolino da caffè di vetro e lo guardò mescolare
drink. La stanza fu pervasa da un leggero aroma di anice.
Authié le porse il bicchiere e prese posto sulla sedia di fronte.
«Grazie» disse Marie-Cécile con un sorriso. «Allora, Paul. Se non le di-
spiace vorrei che mi ripetesse come si sono svolti di preciso gli eventi.»
Se era seccato non lo dava a vedere. Marie-Cécile lo osservò con atten-
zione mentre parlava, ma il suo resoconto fu chiaro e dettagliato, corri-
spondeva sotto ogni aspetto a quanto le aveva già riferito.
«E gli scheletri? Sono stati portati a Toulouse?»
«Sì, al dipartimento universitario di antropologia criminale.»
«Quando prevede che le faranno sapere qualcosa?»
Invece di rispondere, Authié le passò il fascicolo che era sul tavolo. Non
è un grande comunicatore, pensò Marie-Cécile.
«Di già? Ottimo lavoro.»
«Mi dovevano un favore.»
Marie-Cécile lo poggiò sulle gambe. «Grazie. Leggerò il dossier più tar-
di» disse in tono affettato. «Adesso, invece, perché non me ne sintetizza il
contenuto? Lei lo ha già letto, presumo.»
«È soltanto un rapporto preliminare, in attesa di analisi più dettagliate»
la avvisò.
«D'accordo» fece lei, appoggiandosi allo schienale.
«Le ossa appartengono a un uomo e a una donna. Secondo i calcoli, po-
trebbero avere settecento o al massimo novecento anni. Il maschio presenta
segni di fratture non curate sul bacino e nella parte alta del femore, che si
suppone gli siano state procurate subito prima della morte. Sono state tro-
vate tracce di precedenti fratture saldate nel braccio e nella clavicola de-
stri.»
«Età?»
«Adulto, non giovanissimo ma neppure troppo vecchio. Più o meno fra i
venti e i sessanta. Dopo ulteriori analisi, saranno in grado di restringere
l'intervallo. Lo stesso vale per la donna. La cavità cranica presenta un in-
fossamento da un lato, che potrebbe essere stato causato sia da una percos-
sa sia da una caduta. Deve aver dato alla luce almeno un figlio. Ha anche
una frattura sanata al piede destro e una non curata all'ulna sinistra, tra il
gomito e il polso.»
«Causa della morte?»
«L'antropologo non ha ancora gli elementi sufficienti per stabilirla, ma
crede che sarà difficile formulare una diagnosi ben precisa. Visto il perio-
do di cui si parla, è probabile che siano morti entrambi per una combina-
zione di cause: le ferite, la perdita di sangue e, in ultima analisi, la fame.»
«L'antropologo ritiene che i due fossero ancora vivi quando sono stati
rinchiusi nella caverna?»
Authié fece spallucce, anche se gli occhi grigi rivelarono un guizzo di
curiosità. Marie-Cécile prese una sigaretta dall'astuccio e la fece ruotare
fra le dita per un istante, mentre rifletteva.
«Che mi dice degli oggetti trovati fra i corpi?» chiese, sporgendosi in
avanti per farsi accendere la sigaretta.
«Anche qui, bisogna andarci con i piedi di piombo, ma secondo l'antro-
pologo risalgono alla fine del dodicesimo secolo o alla metà del tredicesi-
mo. La lampada sull'altare potrebbe essere un po' più antica, un modello
arabo, proveniente dalla Spagna forse, o addirittura da luoghi più lontani.
Il coltello era un comune coltello da cucina, per tagliare la carne e la frutta.
Sulla lama ci sono tracce di sangue. Le analisi ci diranno se umano o di a-
nimale. La borsa è di cuoio, fabbricata nella zona e molto in voga nella
Linguadoca dell'epoca. Nessun indizio riguardo a cosa potesse contenere,
anche se c'erano alcuni pezzetti di metallo nella fodera e qualche brandello
di pelle di pecora fra le cuciture.»
Marie-Cécile si sforzò di sembrare calma. «Nient'altro?»
«La donna che ha scoperto la caverna, la dottoressa Tanner, ha trovato
una grossa fibbia d'argento e rame. Era incastrata sotto un masso all'in-
gresso della grotta. Si ritiene che risalga anch'essa allo stesso periodo e che
sia tipica della zona o, al massimo, dell'Aragona. C'è una fotografia nel
dossier.»
Marie-Cécile agitò la mano. «Non mi interessano le fibbie, Paul» ribatté.
Espirò il fumo dalla bocca. «Quello che voglio sapere, piuttosto, è perché
non avete trovato il libro.»
Vide le dita di Authié stringersi attorno ai braccioli della sedia.
«Non abbiamo alcuna prova che il libro si trovasse davvero lì» replicò in
modo asciutto. «Anche se la borsa di cuoio è abbastanza grande da poterne
contenere uno delle dimensioni da lei descritte.»
«E l'anello? Pensa che neanche quello si trovasse nella caverna?»
Di nuovo, Authié non reagì alle sue provocazioni. «Al contrario, sono
certo che l'anello fosse lì dentro.»
«E allora?»
«Era lì, ma nell'arco di tempo tra la scoperta della grotta e il mio arrivo e
quello della polizia, qualcuno deve averlo preso.»
«Ma non può dimostrare neanche questo» gli fece notare, in tono aspro
stavolta. «Se non erro, neanche l'anello è in suo possesso.»
Guardò Authié estrarre un pezzo di carta dalla tasca. «La dottoressa
Tanner è talmente convinta di averlo visto che ha disegnato questo» disse,
porgendole il foglio. «È grossolano, lo ammetto, ma corrisponde abbastan-
za alla descrizione che mi ha fatto lei. Non trova?»
Marie-Cécile gli strappò di mano lo schizzo. Non era identico per gran-
dezza, forma e dimensioni, ma somigliava molto al simbolo del labirinto
inciso sull'anello che teneva chiuso in cassaforte a Chartres. Nessuno, a
parte la famiglia de l'Oradore, lo vedeva più da otto secoli. Doveva essere
proprio quello.
«Una vera artista» mormorò. «Questo è l'unico disegno che ha fatto?»
Authié fissò Marie-Cécile con gli occhi grigi privi di esitazione. «Ne ha
fatti altri, ma questo era l'unico che valeva la pena di considerare.»
«Lasci che sia io a giudicare» ribatté secca.
«Madame de l'Oradore, mi rincresce ma questo è l'unico che ho preso.
Gli altri non mi sono sembrati rilevanti.» Alzò le spalle per scusarsi. «Inol-
tre, l'ispettore Noubel, l'incaricato delle indagini, aveva già iniziato a inso-
spettirsi.»
«La prossima volta...» cominciò Marie-Cécile, ma si interruppe. Spense
la sigaretta, schiacciandola così forte che il tabacco uscì da tutte le parti.
«Avrà frugato tra gli oggetti personali della dottoressa Tanner, suppongo.»
Annuì. «L'anello non c'era.»
«È piccolo. Può averlo facilmente nascosto da qualche parte.»
«In teoria, sì,» concordò «ma non credo che lo abbia fatto. Se lo avesse
rubato lei, perché mai ne avrebbe parlato? E poi,» si chinò e picchiettò con
il dito sul foglio di carta «se avesse avuto fra le mani l'originale, perché
farne una riproduzione?»
Marie-Cécile guardò il disegno. «È molto accurato per essere stato fatto
a memoria.»
«Sono d'accordo.»
«Dove si trova adesso la dottoressa Tanner?»
«Qui a Carcassonne. Domani, pare, deve vedere un avvocato.»
«Riguardo a cosa?»
Scrollò le spalle. «Un'eredità, o qualcosa del genere. Tornerà a casa do-
menica.»
Adesso i dubbi che Marie-Cécile aveva iniziato a nutrire da quando i
corpi erano stati scoperti il giorno prima divennero ancora più forti. Qual-
cosa non quadrava.
«Come è entrata a far parte della squadra la dottoressa Tanner?» chiese.
«È stata raccomandata?»
Authié sembrò stupito. «A dire il vero, la Tanner non era un membro
della squadra» rispose in tutta sincerità. «Pensavo di averglielo accenna-
to.»
Marie-Cécile strinse le labbra. «Invece no.»
«Mi perdoni» disse in tono dimesso. «Credevo di averlo fatto. La dotto-
ressa Tanner è una volontaria. Dal momento che molti scavi si basano sul-
la collaborazione non retribuita, quando è stata inoltrata la domanda affin-
ché si unisse al gruppo per una settimana, non c'è stato alcun motivo di re-
spingerla.»
«Chi è stato a fare la domanda?»
«Shelagh O'Donnell, suppongo» rispose in modo disinteressato, «la vice
responsabile degli scavi.»
«La Tanner è amica della dottoressa O'Donnell?» domandò Marie-
Cécile, sforzandosi di mascherare la propria sorpresa.
«Certo, mi è venuto in mente che la Tanner potrebbe aver consegnato a
lei l'anello. Purtroppo, però, non ho avuto modo di interrogarla lunedì e
adesso pare che sia sparita.»
«Cosa?» esclamò bruscamente Marie-Cécile. «Quando? Chi glielo ha
detto?»
«Ieri sera la O'Donnell si trovava in albergo con gli altri. Ha ricevuto
una telefonata ed è uscita subito dopo. Da allora nessuno l'ha più vista.»
Marie-Cécile accese un'altra sigaretta per distendere i nervi. «Perché non
sono stata informata prima?»
«Non credevo che le interessasse un dettaglio del tutto marginale. Le
domando scusa.»
«E la polizia è stata avvisata?»
«Non ancora. Il dottor Brayling, il responsabile degli scavi, ha dato
qualche giorno libero a tutti. Secondo lui è possibile, o meglio probabile,
che la dottoressa sia semplicemente ripartita senza preoccuparsi di avverti-
re nessuno.»
«Non voglio che la polizia sia coinvolta» disse risoluta Marie-Cécile.
«Sarebbe davvero antipatico.»
«Sono pienamente d'accordo, madame de l'Oradore. Il dottor Brayling
non è uno stupido. Se pensasse che la O'Donnell abbia rubato qualcosa
dalla caverna, non farebbe il suo interesse coinvolgendo le autorità.»
«Crede che la O'Donnell abbia rubato l'anello?»
Authié rispose in modo evasivo. «Credo che dovremmo trovarla.»
«Non è quello che le ho chiesto. E il libro? Crede che possa aver preso
anche quello?»
Authié la fissò dritto negli occhi. «Come ho già detto, non credo che il
libro si trovasse nella caverna, anche se non posso scartare del tutto l'ipote-
si.» Esitò. «Se lo avesse rubato, non credo proprio che la dottoressa sareb-
be riuscita a lasciare il posto inosservata. L'anello è un'altra cosa.»
«Be', qualcuno però ci è riuscito» scattò frustrata Marie-Cécile.
«Sempre se c'era.»
Marie-Cécile balzò in piedi, cogliendolo di sorpresa, girò intorno al ta-
volo e si fermò davanti a lui. Per la prima volta colse una espressione al-
larmata negli occhi grigi di quell'uomo. Si chinò e premette la mano contro
il suo petto.
«Sento il cuore che batte» disse con voce soave. «Batte molto forte.
Chissà come mai, Paul.» Senza distogliere lo sguardo, lo spinse indietro
sulla sedia. «Non ammetto errori. E non mi piace essere tenuta all'oscuro
delle cose.» Strinse gli occhi. «Sono stata chiara?»
Authié non disse nulla. La domanda era retorica.
«L'unica cosa che deve fare è consegnarmi gli oggetti che mi aveva
promesso. La pago per questo. Perciò, trovi la ragazza inglese, sistemi
Noubel se necessario. Sono affari suoi, non mi interessa.»
«Se le ho dato l'impressione che...»
Gli mise un dito sulle labbra e lo senti sussultare al contatto fisico.
«Non mi interessa.»
Tolse il dito e si scostò, quindi uscì di nuovo sul balcone. La sera aveva
strappato via il colore a tutto, si vedeva soltanto il profilo di edifici e ponti
contro il cielo che imbruniva.
Un istante più tardi, anche Authié era fuori accanto a lei.
«Sono sicura che sta facendo del suo meglio, Paul» disse in tono pacato.
Authié appoggiò le mani sulla ringhiera accanto alle sue e per un secondo
le sfiorò le dita. «Certo, ci sono altri seguaci della Noublesso Véritable al-
trettanto bravi a Carcassonne. Tuttavia, dato il suo coinvolgimento fino-
ra...»
Lasciò cadere la frase. Capì che l'avvertimento era andato a segno, per-
ché lo vide irrigidirsi nella schiena e nelle spalle. Alzò una mano per
chiamare l'autista, che l'aspettava di sotto.
«Vorrei visitare il Pic de Soularac di persona.»
«Ha intenzione di fermarsi a Carcassonne?» chiese subito.
Marie-Cécile accennò un sorriso. «Sì, per qualche giorno.»
«Avevo capito che non voleva entrare nella caverna fino alla notte della
cerimonia...»
«Ho cambiato idea» replicò, guardandolo in faccia. «Dato che sono qui.»
Sorrise. «Ho delle faccende da sbrigare, perciò se venisse a prendermi al-
l'una, avrei il tempo di leggere il suo dossier. Alloggio all'Hôtel de la Ci-
té.»
Rientrò in casa, prese il fascicolo e lo infilò nella borsa.
«Bien. A demain, Paul. Dorma bene.»
Scese le scale sentendosi gli occhi di Authié puntati addosso e non poté
fare altro che ammirare l'autocontrollo di quell'uomo. Ma quando salì sul-
l'auto, fu soddisfatta di sentire il rumore di un bicchiere che sbatteva con-
tro il muro e andava in frantumi nell'appartamento di Authié.
CAPITOLO 33
L'albergo di Alice era situato proprio di fronte alle porte principali della
Cité medievale; immerso in splendidi giardini, non si vedeva dalla strada.
La accompagnarono in un'accogliente camera al primo piano. Alice spa-
lancò le finestre per far entrare un po' d'aria. La stanza fu subito pervasa
dall'odore di carne che si cuoceva, di aglio, vaniglia e fumo di sigaro.
Sistemò velocemente i bagagli e fece una doccia, quindi riprovò a chia-
mare Shelagh, più per inerzia che per altro ormai. Ancora nessuna risposta.
Scrollò le spalle. Non si poteva certo dire che non ci avesse provato.
Presa la guida turistica che aveva comprato in una stazione di servizio
durante il viaggio da Toulouse, Alice uscì dall'albergo e attraversò la stra-
da diretta alla Cité. Ripidi scalini di cemento conducevano a un piccolo
parco fiancheggiato su entrambi i lati da cespugli, alti sempreverdi e plata-
ni. Un carosello del diciannovesimo secolo, pieno di luci colorate, troneg-
giava nella parte più lontana dei giardini: un elemento decorativo fin-de-
siècle così sgargiante appariva fuori luogo all'ombra delle fortificazioni
medievali di arenaria. Sotto un tendone a strisce bianche e marroni, con il
bordo ornato da disegni di cavalieri, dame e cavalli bianchi, era tutto rosa e
dorato: cavalli al galoppo, tazzine rotanti, carrozze da fiaba. Persino il
chiosco dei biglietti ricordava il baraccone di una fiera. Si udì suonare un
campanello e tutti i bambini gridarono di gioia quando la giostra cominciò
a girare lenta e partì in modo automatico la vecchia canzoncina.
Al di là della giostra, Alice vide spuntare le sommità grigie delle statue e
delle lapidi da dietro le mura del cimitero, una fila di cipressi e tassi ripa-
rava i dormienti dagli occhi indiscreti. A destra dei cancelli, un gruppo di
uomini giocava a pétanque.
Per un attimo, restò immobile a testa alta davanti all'ingresso della Cité,
pronta a entrare. Alla sua destra c'era una colonna di pietra, dalla cui cima
una ripugnante gargouille di pietra con la faccia schiacciata la fissava, in-
transigente e torva. Sembrava restaurata da poco.
SUM CARCAS, Sono Carcas.
Si trattava di dama Carcas, regina saracena e moglie del re Balaack, dal-
la quale si diceva che Carcassonne avesse preso il nome dopo aver resistito
per cinque anni all'assedio di Carlo Magno.
Alice attraversò il ponte levatoio coperto: era corto e stretto, costruito
con pietra, legno e catene. Le assi scricchiolarono sotto i piedi. Nel fossato
non c'era più acqua, solo erba e qualche fiorellino selvatico qua e là.
Portava nel Lices, uno spazio ampio e polveroso fra le due cinte fortifi-
cate. A destra e a sinistra i bambini si arrampicavano sui muri e inscenava-
no finte battaglie con spade di plastica. Proprio davanti a lei si ergeva la
Porte Narbonnaise. Mentre passava sotto l'alto e stretto arco, Alice alzò gli
occhi. Notò con sorpresa una statua di pietra della Vergine Maria.
Non appena varcò la porta, Alice perse la cognizione dello spazio. Rue
Cros-Mayrevieille, la strada principale, ricoperta di ciottoli, era angusta ed
erta. Gli edifici erano talmente vicini l'uno all'altro che se due persone si
affacciavano alla finestra potevano stringersi la mano.
I suoni rimbombavano fra gli alti palazzi. Lingue diverse, grida, risa, in-
dicazioni che aiutavano un'automobile a passare nel vicolo strettissimo. I
negozi attirarono la sua attenzione: avevano cartoline, guide, manichini
che pubblicizzavano il museo delle torture dell'Inquisizione, e ancora sa-
ponette, cuscini, stoviglie, e, per finire, riproduzioni di spade e scudi dap-
pertutto. Tortili bracci di ferro battuto spuntavano dai muri con appesi car-
telli di legno: l'Éperon Médievale, lo sperone medievale, vendeva spade
finte e bambole di porcellana; A Saint Louis vendeva saponi, souvenir e
vasellame.
Alice si avventurò fino alla piazza principale, place Marcou. Era piccola
e piena di ristorantini e platani potati. Gli ampi rami, simili a grandi mani
intrecciate fra loro, riparavano i tavolini e le sedie, facendo concorrenza ai
tendoni variopinti. I nomi dei singoli caffè erano scritti in alto: Le Marcou,
Le Trouvère, Le Menèstrel.
Alice passeggiò sui ciottoli e attraversò la strada, si ritrovò di nuovo al-
l'incrocio di rue Cros-Mayrevieille e place du Château, dove un triangolo
di negozi, crêperies e ristoranti circondava un obelisco di pietra alto circa
due metri e mezzo, che terminava in cima con il busto di Jean-Pierre Cros-
Mayrevieille, storico del diciannovesimo secolo. Intorno alla base c'era un
fregio di bronzo delle fortificazioni.
Andò avanti finché non si trovò davanti a un muro tondeggiante, a semi-
cerchio, che proteggeva lo Château Comtal. Dietro gli imponenti cancelli
sprangati si vedevano le torrette e gli spalti merlati del castello. Una for-
tezza nella fortezza.
Alice si fermò, poiché si rese conto che quella era stata la sua meta fin
dall'inizio. Lo Château Comtal, residenza della famiglia Trencavel.
Sbirciò attraverso le sbarre degli alti cancelli di legno. Quel posto aveva
un che di familiare, era come se fosse tornata in un luogo in cui era già sta-
ta, molto tempo prima, e che aveva dimenticato. A entrambi i lati dell'in-
gresso c'erano due botteghini, dove si potevano comprare i biglietti; le ten-
dine erano tirate e un cartello informava sugli orari di apertura. Al di là del
cancello c'era un'enorme distesa grigia di ghiaia e polvere, non di erba, che
conduceva a un ponte stretto e piano, lungo circa due metri.
Alice si allontanò dall'entrata, con l'intenzione di tornarvi l'indomani
mattina prima di fare qualunque altra cosa. Svoltò a destra e seguì le indi-
cazioni per la Porte de Rodez. Questa era situata in mezzo a due caratteri-
stiche torri a ferro di cavallo. Scese l'ampia scalinata, consumata al centro
da un infinito numero di piedi.
Qui, la differenza di età fra le mura interne e quelle esterne era molto più
evidente. Le fortificazioni esterne, che, come aveva letto, erano state co-
struite alla fine del tredicesimo secolo e restaurate durante il diciannove-
simo, erano grigie e costituite da blocchi più o meno della stessa grandez-
za. I denigratori avrebbero detto che era solo un'ulteriore prova del fatto
che i lavori di restauro erano stati svolti male. Ad Alice non importava.
Quello che la emozionava era l'atmosfera del luogo. Le mura interne, in-
cluso il muro occidentale dello Château Comtal vero e proprio, era costi-
tuito da un misto di tegole rosse, resti di epoca gallo-romana, e di friabile
arenaria del dodicesimo secolo.
Dopo il frastuono della Cité, Alice provò un senso di pace; aveva l'im-
pressione di appartenere a quel luogo, a quelle montagne e a quei cieli.
Con le braccia appoggiate sulle merlature, restò a guardare il fiume, im-
maginando il fresco tocco dell'acqua fra le dita dei piedi.
Soltanto quando il sole cominciò a tramontare, si voltò e si incamminò
di nuovo verso la Cité.
CAPITOLO 34
CARCASSONA
Julhet 1209
«Filha.»
Alaïs trasalì.
«Dove sei stata?» chiese Pelletier, con il fiato corto. «Ti ho cercata dap-
pertutto.»
«Non vi ho sentito, paire» replicò.
«Non appena il visconte Trencavel si sarà riunito con la moglie e il fi-
glio, si comincerà a preparare la Ciutat per l'assedio. Nei giorni a venire,
non ci sarà nemmeno il tempo di respirare.»
«Quando prevedete che arriverà Simeon?»
«Tra un giorno o due.» Si accigliò. «Avrei dovuto convincerlo a partire
con noi. Ma lui è convinto che darà meno nell'occhio in mezzo alla sua
gente. Speriamo che vada tutto bene.»
«E quando sarà qui» insistette Alaïs, «deciderete il da farsi? Ho avuto
un'idea riguardo a...»
Si interruppe, pensando che avrebbe dovuto verificare la sua teoria pri-
ma di rendersi ridicola agli occhi del padre. E di fronte a lui.
«Un'idea?» fece Pelletier.
«No, niente» disse svelta. «Volevo soltanto chiedervi se potrò essere
presente anch'io quando voi e Simeon vi incontrerete per parlare.»
Dal volto segnato di Pelletier trapelava costernazione. Non sapeva cosa
rispondere.
«Visto il compito che hai svolto finora» disse alla fine, «hai il permesso
di ascoltare. Tuttavia» alzò l'indice in segno di avvertimento, «sia ben
chiaro che sarai solamente un'osservatrice. Qualsiasi forma di partecipa-
zione attiva in questa vicenda è fuori discussione. Non mi va di mettere a
rischio la tua incolumità un'altra volta.»
L'eccitazione di Alaïs crebbe. Al momento opportuno gli farò cambiare
idea.
Abbassò lo sguardo e intrecciò le mani sul ventre con atteggiamento re-
missivo. «Ma certo, paire. Come desiderate.»
Pelletier le lanciò un'occhiata, ma non ribatté. «Ho un'ultima cosa da
chiederti, Alaïs. Il visconte Trencavel ha intenzione di dare una festa uffi-
ciale per essere tornato sano e salvo a Carcassona, mentre il fatto che non
siamo riusciti a stipulare un accordo con il conte non è ancora una notizia
di pubblico dominio. Stasera, dama Agnès reciterà i vespri nella cattedrale
di Sant-Nasari anziché nella cappella.» Fece una pausa. «Desidero che par-
tecipi anche tu. Insieme a tua sorella.»
Alaïs era allibita. Anche se ogni tanto prendeva parte ai riti religiosi che
si svolgevano nella cappella dello Château Comtal, il padre non aveva mai
contestato la sua decisione di astenersi dalle funzioni che avevano luogo
nella cattedrale.
«So che sei esausta, ma il visconte ritiene importante che la sua condot-
ta, e quella delle persone a lui più vicine, non dia adito a critiche in questo
momento. Se ci sono delle spie all'interno della Ciutat, e sono sicuro che
ce ne sono, non dobbiamo lasciare che le nostre manchevolezze religiose,
come potrebbero essere interpretate, giungano all'orecchio del nemico.»
«Non è una questione di stanchezza» replicò furiosa. «Il vescovo de Ro-
chefort e i suoi preti sono degli ipocriti. Predicano una cosa e ne fanno u-
n'altra.» Il padre divenne paonazzo, senza sapere se per la rabbia o per
l'imbarazzo. «A ogni modo, voi vi prenderete parte?»
Pelletier evitò il suo sguardo. «Come certo comprenderai, sarò impegna-
to con il visconte.»
Alaïs lo guardò con occhio torvo. «E va bene» disse alla fine. «Farò co-
me volete, paire. Ma non aspettatevi che mi inginocchi davanti all'imma-
gine di un uomo ucciso su una croce di legno e che mi metta a pregare.»
Per un istante temette di essere stata troppo esplicita. Ma, con sua enor-
me sorpresa, il padre si mise a ridere.
«D'accordo» replicò. «Non mi aspetterò altro che la tua presenza. Stai
molto attenta, Alaïs. Sii prudente nell'esprimere le tue opinioni. Potrebbero
sentirti.»
Alaïs immerse le dita nel bénitier e si fece il segno della croce con l'ac-
qua santa, nel caso in cui qualcuno la stesse guardando.
Trovò un posto nel transetto gremito di persone, allontanandosi il più
possibile da Oriane, senza attirare troppo l'attenzione. Le fiamme delle
candele tremolavano alte sui lampadari appesi al soffitto sopra la navata
principale. Dal basso sembravano enormi ruote di ferro che potevano crol-
lare da un momento all'altro addosso ai peccatori.
Sebbene l'arcivescovo fosse lieto di trovare la chiesa così gremita, dopo
che era rimasta vuota tanto a lungo, la sua voce era fioca e impercettibile,
si udiva a malapena nel brusio della folla, che ansimava e si agitava per il
caldo. Com'era diversa dalla semplice chiesa di Esclarmonde.
E anche di suo padre.
Per i bons homes la fede era un fatto interiore più che una mani-
festazione esterna. A loro non servivano edifici consacrati, riti su-
perstiziosi, inchini umilianti atti a distinguere i comuni mortali da Dio.
Non adoravano le immagini sacre né si prostravano davanti agli idoli o agli
strumenti di tortura. Per i bons chrétiens, il potere di Dio risiedeva nella
parola. Avevano bisogno soltanto di libri e preghiere, di parole pronunciate
e lette ad alta voce. La salvezza non aveva nulla a che fare con la carità,
con le reliquie e le preghiere recitate in una lingua che comprendevano so-
lo i preti.
Per loro, tutti erano uguali agli occhi di Dio, ebrei e saraceni, uomini e
donne, animali delle pianure e uccelli dell'aria. Non ci sarebbe stato nessun
inferno, nessun giudizio universale, perché attraverso la grazia di Dio tutti
si sarebbero salvati, anche se alcuni sarebbero stati costretti a rivivere la
propria vita diverse volte prima di entrare nel regno dei cieli.
Sebbene Alaïs non avesse mai assistito a una cerimonia del culto, grazie
a Esclarmonde le parole delle preghiere e dei riti le erano familiari. Quello
che contava era che in quei tempi bui i bons chrétiens erano persone buo-
ne, tolleranti, uomini di pace che veneravano il Dio della luce piuttosto che
temere l'ira del Dio crudele dei cattolici.
Finalmente, Alaïs sentì le parole del Benedictus. Era il momento di svi-
gnarsela. Piano piano, con le mani giunte, attenta a non dare nell'occhio,
indietreggiò lentamente verso la porta.
Qualche attimo dopo, era libera.
CAPITOLO 35
CAPITOLO 36
Poco più tardi, Pelletier scrutava la Cour d'Honneur con le mani sui
fianchi, soddisfatto della rapidità con cui si svolgevano i lavori. La corte
era già piena di suoni: il rumore di seghe e martelli, il fracasso di carretti
che trasportavano legno, chiodi e catrame, lo scoppiettio del fuoco nella
fucina.
Con la coda dell'occhio, vide Alaïs correre per la corte e andargli incon-
tro. Aggrottò la fronte.
«Perché avete mandato Oriane a prendermi?» gli chiese appena lo ebbe
raggiunto.
Apparve costernato. «Oriane? A prenderti dove?»
«Ero in visita da un'amica, Esclarmonde de Servian, nella zona sud della
Ciutat, quando all'improvviso è arrivata Oriane, accompagnata da due sol-
dati, dicendo che voi le avevate chiesto di riportarmi allo Château.» Aspet-
tò che il padre reagisse, ma sul suo volto leggeva solo sconcerto. «Era la
verità?»
«Non ho visto Oriane.»
«Avevate promesso di parlare con lei di come si è comportata in vostra
assenza, lo avete fatto?»
«Non ne ho ancora avuto l'occasione.»
«Vi supplico, non sottovalutatela. Lei sa qualcosa, qualcosa che può
nuocervi, ne sono sicura.»
Pelletier divenne paonazzo. «Non accusare tua sorella. Questo non ha
niente a...»
«La tavoletta con il labirinto appartiene a Esclarmonde» sbottò Alaïs.
Lui restò immobile, quasi fosse stato fulminato. «Cosa? Che vuoi dire?»
«Simeon ha dato il libro a una donna, ricordate?»
«Non può essere» disse, con tale forza che la figlia indietreggiò.
«Esclarmonde è l'altra custode» insistette Alaïs, parlando più veloce per
paura che lui la interrompesse. «È la sorella di Carcassona a cui si riferiva
Harif. Sapeva anche del merel.»
«Ti ha detto lei di essere una custode?» chiese. «Perché se è così, allo-
ra...»
«Non in modo esplicito» replicò Alaïs con fermezza, quindi aggiunse.
«È logico, paire. È esattamente il tipo di persona che Harif sceglierebbe.»
Riprese fiato, «Che cosa sapete sul conto di Esclarmonde?»
«Ha la fama di essere una donna saggia. E le sono grato per l'amore e le
attenzioni che ti rivolge continuamente. Ha un nipote, hai detto?»
«Un pronipote, sì. Il suo nome è Sajhë. Ha undici anni. Esclarmonde
viene da Servian, messire. È arrivata a Carcassona quando lui era appena
nato. I tempi combaciano alla perfezione con quanto ci ha raccontato Si-
meon.»
«Intendente Pelletier.»
Si voltarono entrambi, mentre un servo si affrettava a raggiungerli.
«Messire, il visconte Trencavel richiede immediatamente la vostra pre-
senza nelle sue stanze. Pierre-Roger de Cabaret è arrivato.»
«Dov'è François?»
«Non lo so, messire.»
Frustrato, Pelletier lo fissò con occhi torvi, quindi lanciò uno sguardo ad
Alaïs.
«Riferisci al mio signore che sarò subito da lui» disse in tono aspro.
«Poi, trova François e mandalo da me. Quell'uomo non c'è mai quando
serve.»
«Parlate almeno con Esclarmonde. Ascoltate cosa ha da dire. L'avviserò
io.»
Pelletier tentennò, alla fine si arrese. «Quando arriverà Simeon, ascolte-
rò quello che la tua saggia amica ha da dire.»
Salì le scale a grandi passi. Arrivato in cima si fermò.
«Una cosa sola, Alaïs. Come faceva Oriane a sapere dove trovarti?»
«Deve avermi seguita da Sant-Nasari, anche se...» si interruppe, quando
capì che Oriane non poteva aver avuto il tempo di procurarsi l'appoggio
dei soldati e ritornare così presto. «Non lo so» ammise. «Ma sono sicura
che...»
Pelletier era già andato via. Mentre attraversava la corte, Alaïs si sentiva
sollevata per il fatto che Oriane non fosse più nei paraggi. All'improvviso
si fermò.
E se fosse tornata indietro?
Si tirò su la gonna e cominciò a correre.
Non appena ebbe voltato l'angolo della strada in cui abitava Esclarmon-
de, Alaïs capì che le sue paure erano giustificate. Le persiane erano penzo-
loni e la porta era stata divelta dal telaio.
«Esclarmonde!» gridò. «Ci sei?»
Entrò in casa. I mobili erano sottosopra, i braccioli delle sedie spezzati
come ossa rotte. Il contenuto della cassapanca era buttato per terra alla rin-
fusa e i resti del fuoco erano stati presi a calci, sollevando nuvole di soffice
e grigia cenere che imbrattava il pavimento.
Salì qualche piolo della scala. Paglia, biancheria e piume ricoprivano le
assi di legno del soppalco: tutto era strappato. I segni delle lance e delle
spade che avevano squarciato il letto erano evidenti.
Il disastro nel consultorio di Esclarmonde era ancora più grande. La ten-
da era stata sradicata dal soffitto. Barattoli di terracotta frantumati e vasi
spaccati erano disseminati dappertutto fra pozze di liquidi e bende marroni,
bianche e rosso scuro. Sul pavimento c'erano mazzetti di erbe, fiori e foglie
calpestati.
Chissà se Esclarmonde si trovava lì quando erano arrivati i soldati... Ala-
ïs corse di nuovo fuori, sperando di trovare qualcuno che le raccontasse
come si erano svolti i fatti. Tutto intorno le porte erano sprangate e le fine-
stre chiuse.
«Dama Alaïs.»
All'inizio pensò che fosse la sua immaginazione. «Dama Alaïs.»
«Sajhë?» mormorò. «Sajhë, dove sei?»
«Quassù.»
Alaïs si allontanò dall'ingresso della casa e guardò in alto. Nella luce del
tramonto, intravide una massa informe di capelli castano chiaro e due oc-
chi d'ambra che la fissavano dal tetto spiovente della casa.
«Sajhë» disse sollevata. «Ti ucciderai!»
«No» ridacchiò. «L'ho fatto un sacco di volte. So anche entrare e uscire
dallo Château Comtal passando per i tetti!»
«Be', mi fai venire le vertigini. Scendi.»
Alaïs restò con il fiato sospeso quando Sajhë si dondolò dal cornicione e
saltò giù.
«Che cosa è successo? Dov'è Esclarmonde?»
«Menina è al sicuro. Mi ha detto di aspettarvi. Sapeva che sareste torna-
ta.»
Alaïs si guardò indietro e lo portò al riparo sulla soglia di casa. «Che co-
sa è successo?» ripeté con impazienza.
Sajhë abbassò lo sguardo rattristato. «Sono venuti di nuovo i soldati. Ho
sentito tutto dalla finestra. Menina temeva che lo avrebbero fatto, non ap-
pena vostra sorella vi avesse riaccompagnata allo Château, così, dopo che
ve ne siete andati, abbiamo raccattato le cose fondamentali e ci siamo na-
scosti in cantina.» Tirò un respiro profondo, «Sono stati velocissimi. Li
abbiamo sentiti andare di porta in porta a chiedere di noi, a interrogare i
nostri vicini. Sentivo i loro piedi battere sul pavimento sopra di noi, lo
hanno fatto tremare, ma non hanno trovato la botola. Ho avuto paura.» Si
interruppe, poi con aria indifesa aggiunse: «Hanno distrutto tutti i barattoli
di menina. Tutte le medicine».
«Lo so» disse lei con dolcezza. «Ho visto.»
«Non la smettevano di gridare. Dicevano che cercavano gli eretici, ma
sono sicuro che era una bugia. Non hanno fatto le solite domande.»
Alaïs gli sollevò il mento e lo guardò negli occhi.
«È molto importante, Sajhë. Erano gli stessi soldati di prima? Li hai vi-
sti?»
«No, non li ho visti.»
«Non fa niente» disse subito, notando che il ragazzo stava per scoppiare
in lacrime. «A quanto pare sei stato molto coraggioso. Devi essere stato di
grande aiuto per Esclarmonde.» Esitò. «C'era qualcun altro con loro?»
«Non credo» rispose mesto. «Non ho potuto fare niente per fermarli.»
Alaïs lo abbracciò e la prima lacrima gli rigò la guancia. «Andrà tutto
bene. Non disperare. Hai fatto del tuo meglio, Sajhë. È l'unica cosa che
possiamo fare.»
Il ragazzo annuì.
«Dov'è adesso Esclarmonde?»
«C'è una casa a Sant-Miquel» singhiozzò. «Dice che vi aspetteremo lì
finché voi non ci direte che l'intendente Pelletier è in arrivo.»
Alaïs si irrigidì. «È questo che ha detto Esclarmonde, Sajhë?» chiese
senza esitare. «Che aspetta un messaggio da mio padre?»
Sajhë sembrava perplesso. «Allora si sbagliava?»
«No, no, è solo che non capisco come...» Alaïs si interruppe. «Non im-
porta. Non fa niente.» Gli asciugò il viso con il fazzoletto. «Ecco. Così va
meglio. Mio padre desidera parlare con Esclarmonde, ma deve aspettare
che arrivi un altro... un amico, che viene da Besièrs.»
Sajhë annuì. «Simeon.»
Alaïs lo guardò sbalordita. «Esatto» confermò, sorridendo. «Simeon.
Dimmi, Sajhë, c'è qualcosa che non sai?»
Lui fece un sorrisetto. «Non molto.»
«Devi dire a Esclarmonde che riferirò tutto a mio padre, ma che lei, anzi
voi, fareste meglio a rimanere a Sant-Miquel, per il momento.»
Sajhë la colse di sorpresa prendendole la mano. «Diteglielo di persona»
suggerì. «Le farebbe piacere vedervi. Così potrete continuare a parlare.
Menina ha detto che la vostra conversazione è stata interrotta.»
Alaïs lo guardò negli occhi, sfavillanti per l'entusiasmo. «Verrete?»
Rise. «Per te, Sajhë? Certo. Non adesso però. È troppo pericoloso. Può
darsi che stiano sorvegliando la casa. Mi farò viva.»
Sajhë annuì, quindi si dileguò in fretta così come era venuto.
«Deman al vèspre» lo sentì gridare.
CAPITOLO 37
L'aria era calda e satura di umidità quando Guilhem uscì dai bagni e tro-
vò Guirande ad aspettarlo, con un sorriso smagliante stampato sulla faccia.
Si rabbuiò. «Cosa c'è?»
La serva ridacchiò e sbatté le ciglia nere.
«Allora?» fece in tono aspro. «Se hai qualche cosa da dire dilla, altri-
menti lasciami in pace.»
Guirande si sporse in avanti e gli sussurrò nell'orecchio.
Lui si drizzò. «Cosa vuole?»
«Non saprei, messire. La mia signora non mi confida i propri desideri.»
«Sei una pessima bugiarda, Guirande.»
«Quale messaggio devo portarle?»
Guilhem esitò. «Dì alla tua padrona che verrò fra poco.» Le infilò una
moneta nella mano. «E tieni la bocca chiusa.»
La guardò allontanarsi, poi andò in mezzo alla corte e si sedette all'om-
bra dell'olmo. Non doveva andarci. Perché farsi tentare? Era troppo perico-
loso. Lei era pericolosa.
Non avrebbe mai voluto arrivare a quel punto. Era successo in una notte
d'inverno, la pelle nuda sotto le pellicce, il sangue infiammato dal vino cot-
to e dall'eccitazione della caccia. Era come impazzito. Stregato.
La mattina dopo si era svegliato in preda ai sensi di colpa e aveva giura-
to che non sarebbe accaduto mai più. Per i primi mesi di matrimonio, ave-
va prestato fede alla promessa. Poi però c'era stata un'altra notte come
quella, un'altra e un'altra ancora. Era sopraffatto da quella donna che do-
minava i suoi sensi.
Adesso, date le circostanze, sperava come mai che non scoppiasse uno
scandalo. Ma doveva stare attento. Era importante che la relazione finisse
bene. Sarebbe andato all'appuntamento solo per dirle che non potevano più
vedersi.
Si alzò e si diresse verso il frutteto, prima che il coraggio l'abban-
donasse. Arrivato al cancello, si fermò con la mano sul chiavistello, rilut-
tante ad andare avanti. A un tratto la vide sotto un salice, una sagoma scura
nella luce che svaniva. Il cuore gli balzò in gola. Sembrava un angelo nero,
i capelli scintillavano come ambra nera nel sole del tramonto, i boccoli ca-
devano sciolti sulle spalle.
Guilhem respirò profondamente. Doveva tornare indietro. Ma in quel
preciso istante, come se avesse avvertito la sua indecisione, Oriane si voltò
e lo attirò a sé con il suo sguardo magnetico. Guilhem ordinò all'écuyer di
sorvegliare il cancello, quindi si incamminò sull'erba soffice per raggiun-
gerla.
«Temevo che non venissi» disse, appena Guilhem fu vicino.
«Non posso restare.»
Sentì le dita calde di Oriane sfiorare le sue e subito dopo le sue mani
cingergli il polso.
«Allora ti chiedo scusa per averti disturbato» mormorò, premendosi con-
tro di lui.
«Qualcuno potrebbe vederci» sibilò Guilhem, cercando di scostarsi.
Oriane piegò il collo e lui sentì il suo profumo. Cercò di ignorare il desi-
derio che cresceva. «Perché mi parli con tanta durezza?» si lagnò. «Non
può vederci nessuno. Ho messo una sentinella di guardia al cancello. E
poi, stasera sono tutti troppo indaffarati per badare a noi.»
«La gente non è tanto affaccendata da non fare caso a noi» ribatté lui.
«Sono tutti con occhi e orecchie ben aperti. Aspettano solo che accada
qualcosa da poter usare a proprio vantaggio.»
«Che pensieri maligni» sussurrò, ravviandogli i capelli. «Dimentica il
resto del mondo. Pensa soltanto a me, adesso.» Oriane era talmente vicina
ora, che Guilhem sentiva batterle il cuore sotto la stoffa sottile del vestito.
«Perché sei così freddo, messire? Ti ho offeso in qualche modo?»
La risolutezza andava scemando, mentre il sangue si faceva più caldo.
«Oriane, stiamo commettendo un peccato. Lo sai. È scorretto nei confronti
di tuo marito e di mia moglie, questo empio...»
«Amore?» suggerì e scoppiò a ridere, un suono bello e melodioso che gli
fece stringere il cuore. «"L'amore non è un peccato, è una virtù che rende
onesto il malvagio e ancor più giusto chi già lo è." Non hai sentito i trova-
tori?»
Guilhem prese quello splendido viso fra le mani.
«È soltanto una poesia. La realtà delle nostre promesse è ben altra cosa.
Vuoi forse negarlo?» Tirò un respiro profondo. «Quello che sto cercando
di dire è che non dobbiamo più vederci.»
La sentì irrigidirsi fra le sue braccia. «Non mi vuoi più, messire?» sus-
surrò. I capelli folti e slegati le nascondevano il viso.
«Non è così» replicò, mentre la sua fermezza vacillava.
«Cosa posso fare per darti prova del mio amore?» chiese, con voce spez-
zata, così fioca che a malapena si udì. «Se ti ho offeso, dimmelo.»
Intrecciò le dita alle sue. «Non hai fatto niente di sbagliato. Sei bella, O-
riane, sei...» si interruppe, non gli venivano le parole giuste. Il fermaglio
della mantella si sganciò. La stoffa blu lucida e frusciante cadde a terra e si
ammucchiò ai suoi piedi come uno specchio d'acqua. Sembrava così vul-
nerabile, indifesa, che non poté fare a meno di prenderla fra le braccia.
«No» mormorò. «Non posso...»
Guilhem cercò di figurasi il volto di Alaïs, immaginò che lo stesse fis-
sando con il suo sorriso fiducioso. Sebbene fosse anomalo per un uomo del
suo rango e della sua posizione, credeva nelle promesse matrimoniali. Non
voleva tradirla. Quante notti, all'inizio del loro matrimonio, aveva passato
a guardarla dormire nell'intimità della loro camera e aveva capito che gra-
zie all'amore di quella creatura era, o meglio poteva essere, un uomo mi-
gliore!
Cercò di divincolarsi. Ma tutto quello che riusciva a sentire era la voce
di Oriane, mescolata alle maldicenze del castello che gli ricordavano come
Alaïs l'avesse reso ridicolo andando a Béziers. Il fragore nella testa diven-
ne sempre più forte, fino a coprire la voce fioca di Alaïs. La sua immagine
cominciò a svanire, si fece sbiadita. Si stava allontanando da lui, lascian-
dolo a combattere la tentazione da solo.
«Ti adoro» sussurrò Oriane, infilandogli una mano fra le gambe. Mal-
grado la sua decisione, Guilhem chiuse gli occhi, incapace di resistere al
soave mormorio di quella voce. Era come il vento fra gli alberi. «Da quan-
do sei tornato da Besièrs, non ti ho visto quasi mai.» Guilhem tentò di dire
qualcosa, ma aveva la gola secca. «Dicono che il visconte Trencavel ti pre-
ferisce a tutti gli altri chevaliers.»
Guilhem non era più in grado di distinguere le parole. Il sangue gli pul-
sava troppo forte nella testa, sovrastava qualsiasi altro rumore o sensazio-
ne.
La sdraiò a terra.
«Dimmi come è andata fra il visconte e suo zio» gli mormorò Oriane
nell'orecchio. «Dimmi cosa è accaduto a Besièrs.» Guilhem ansimò, quan-
do lei gli si avvinghiò con le gambe e lo attirò a sé. «Raccontami la tua av-
ventura.»
«Sono cose di cui non posso parlare» sospirò: l'unica cosa che sapeva
era di avere il corpo di Oriane sotto di sé.
Oriane gli morse il labbro. «A me puoi dirlo.»
Lui gridò il suo nome, non gli importava ormai che qualcuno potesse
sentirli o vederli. Non notò neanche lo sguardo compiaciuto negli occhi
verdi o le macchie del suo sangue sulle labbra di lei.
Alaïs fu svegliata dal violento fragore di un'imposta che sbatteva sul mu-
ro. Si alzò di soprassalto, il cuore in gola. Aveva sognato di essere ancora
nel bosco di Coursan: aveva le mani legate e cercava disperatamente di to-
gliersi il ruvido cappuccio.
Prese un cuscino, ancora caldo, e lo portò al petto. Il letto era ancora
pervaso dall'odore di Guilhem, sebbene fosse passata più di una settimana
dall'ultima volta che aveva poggiato il capo accanto al suo.
Un altro colpo e la persiana si frantumò contro il muro. Il forte vento fi-
schiava fra le torri e sfiorava il tetto. L'ultima cosa che ricordava era di a-
ver chiesto a Rixende di portarle qualcosa da mangiare.
La serva bussò alla porta ed entrò timida nella stanza.
«Perdonatemi, signora. Non volevo svegliarvi, ma lui ha insistito.»
«Guilhem?» chiese lesta.
Rixende scosse il capo. «Vostro padre. Vuole che lo raggiungiate alla
Porta Est.»
«Adesso? Ma sarà mezzanotte passata!»
«Non è ancora scoccata la mezzanotte, signora.»
«Come mai ha mandato te anziché François?»
«Non lo so, signora.»
Alaïs lasciò Rixende a sorvegliare la stanza, si mise addosso la mantella
e si affrettò a scendere al piano di sotto. Il temporale infuriava ancora sulle
montagne, quando attraversò la corte a passo spedito e lo raggiunse.
«Dove andiamo?» gli chiese urlando contro il vento, mentre uscivano
dalla Porta Est.
«A Sant-Nasari» rispose. «Dove è nascosto il Libro delle Parole,»
Oriane era raggomitolata sul letto come una gatta ad ascoltare il vento.
Guirande aveva fatto un ottimo lavoro, sia nel rassettare la stanza sia nel
descrivere i danni causati dal marito. Cosa lo avesse mandato tanto in col-
lera, Oriane non lo sapeva. E nemmeno le interessava.
Gli uomini erano tutti uguali nel profondo: cortigiani, scrivani, cheva-
liers o preti che fossero. La loro fermezza si spezzava come un ramoscello
secco nonostante i loro discorsi sull'onore. Il primo tradimento era il più
difficile. Dopo, però, era incredibile quanti segreti fuoriuscissero dalle loro
infide labbra e come le loro azioni andassero contro tutto ciò che avevano
professato di avere a cuore.
Aveva saputo più di quanto si aspettasse. La cosa buffa era che Guilhem
non si rendeva neanche conto di quanto fosse importante quello che le a-
veva detto quella sera. Lei aveva solo sospettato che Alaïs avesse seguito il
padre a Béziers. Ora lo sapeva con certezza. Sapeva anche qualcosa su
quello che era accaduto fra loro la sera prima della partenza.
L'unico motivo per cui Oriane si era preoccupata che Alaïs si rimettesse
era la speranza di indurla a tradire la fiducia del padre, ma non ci era riu-
scita. La sola cosa degna di nota era stata la disperazione di Alaïs per aver
perso una tavoletta di legno che aveva in camera. Ne aveva parlato nel
sonno, mentre si girava da un lato e dall'altro. Fino a quel momento, mal-
grado gli sforzi, tutti i tentativi di recuperare la tavoletta erano falliti.
Oriane allungò le braccia sopra la testa. Nemmeno nei sogni più folli a-
veva immaginato che il padre possedesse qualcosa di una forza e di una
potenza tale che la gente avrebbe pagato una fortuna per ottenerlo. Doveva
soltanto avere pazienza.
Dopo quello che le aveva raccontato Guilhem, aveva capito che la tavo-
letta era di importanza secondaria. Se solo avesse avuto più tempo, gli a-
vrebbe fatto spifferare il nome dell'uomo che il padre aveva incontrato a
Béziers. Sempre se lo sapeva.
Si mise a sedere. François doveva saperlo. Batté le mani.
«Porta questo a François» ordinò a Guirande. «Non farti vedere da nes-
suno.»
CAPITOLO 38
CAPITOLO 39
CARCASSONNE
Mercoledì, 6 luglio 2005
Le strade della Cité erano ancora più affollate, quando Alice uscì dallo
Château Comtal.
Aveva ancora un po'di tempo da ammazzare prima di recarsi dal-
l'avvocato, così andò nella direzione opposta a quella della sera precedente
e arrivò a Place St Nazaire, che era dominata dalla basilica. Fu la facciata
fin-de-siècle dell'Hôtel de la Cité, sobria ma al contempo grandiosa, ad at-
tirare la sua attenzione. Ricoperto di edera, con cancelli di ferro battuto, fi-
nestre ad arco istoriate e tende rosse come le ciliegie mature, l'albergo tra-
sudava ricchezza.
Mentre lo osservava, le porte scorrevoli si aprirono rivelando le pareti
rivestite di pannelli e arazzi, e apparve una donna. Era alta, con gli zigomi
prominenti e i capelli neri tagliati alla perfezione e tirati indietro da un paio
di occhiali da sole con la montatura dorata. La camicetta beige senza ma-
niche e i pantaloni abbinati sembravano scintillare e riflettere la luce men-
tre camminava. Con un braccialetto d'oro al polso e un girocollo somiglia-
va a una principessa egiziana.
Alice era sicura di aver già visto quella donna. Su una rivista oppure in
un film, o forse in televisione?
La donna salì in macchina. Alice la guardò finché non scomparve dalla
sua visuale, quindi si diresse verso l'entrata della basilica. C'era una men-
dicante all'ingresso, con il braccio teso. Alice frugò in tasca e mise una
moneta in mano alla donna, dopodiché entrò.
Si sentì gelare e restò con la mano sulla porta. Era come se si trovasse in
un condotto di aria fredda.
Non essere sciocca.
Cercò un'altra volta di entrare, decisa a non cedere a quelle sensazioni
così irrazionali. Fu assalita dallo stesso senso di terrore che aveva provato
nella chiesa di Saint-Etienne a Toulouse.
Dopo aver chiesto scusa alle persone dietro di lei, Alice lasciò la fila e si
lasciò cadere su una sporgenza di pietra all'ombra, accanto al portale nord.
Che diavolo mi prende?
I genitori le avevano insegnato a pregare. Quando aveva iniziato a inter-
rogarsi sull'esistenza del male nel mondo e aveva visto che la chiesa non
sapeva fornire risposte adeguate, aveva smesso. Ma ricordava bene quanto
la religione riuscisse a dare senso alla vita. La sicurezza, la promessa di
salvezza da qualche parte al di là delle nuvole non l'aveva mai abbandona-
ta del tutto. Proprio come Larkin, si fermava in una chiesa ogni volta che
ne aveva tempo. Si sentiva a casa. Le chiese evocavano una storia e un
passato comune che le parlavano attraverso gli elementi architettonici, le
finestre, i sedili del coro.
Ma qui no.
In quelle chiese cattoliche del Midi, non provava un senso di pace, bensì
di minaccia. Dai mattoni sembrava sprigionarsi il tanfo del male e dell'o-
dio. Lanciò un'occhiata alle orribili gargouilles che la guardavano maligne
con le bocche contorte in un ghigno.
Si alzò di scatto e lasciò la piazza. Continuò a guardarsi alle spalle, di-
cendo a se stessa che era soltanto suggestione, ma non riusciva a scrollarsi
di dosso l'impressione di avere qualcuno alle calcagna.
È solo la tua immaginazione.
Era ancora agitata quando, dopo aver lasciato la Cité, percorse rue Tri-
valle diretta verso il centro della città. Malgrado si sforzasse di convincersi
del contrario, era sicura che qualcuno la stesse seguendo.
CAPITOLO 40
ABIÈGE
CAPITOLO 41
Shelagh si era abituata al buio.
Era stata rinchiusa in una stalla o in qualche altro ricovero per animali.
C'era l'odore acre e pungente di escrementi, urina, paglia e un lieve ma ri-
voltante puzzo di carne andata a male. Da sotto la porta filtrava un fascio
di luce, ma Shelagh non era in grado di dire se fosse tardo pomeriggio o
primo mattino. Non sapeva nemmeno che giorno fosse.
La corda che aveva intorno alle gambe graffiava e irritava la pelle esco-
riata e lacera delle caviglie. Aveva i polsi legati insieme ed era attaccata a
uno dei numerosi anelli metallici fissati al muro.
Cambiò posizione, cercando di mettersi comoda. Gli insetti le striscia-
vano sul viso e sulle mani. Era coperta di punture. I polsi le facevano male
nei punti in cui sfregava la corda e aveva le spalle indolenzite per aver te-
nuto le braccia tirate indietro tanto a lungo. I topi scorrazzavano nella pa-
glia agli angoli della capanna, ma Shelagh non ci faceva più caso, proprio
come con il dolore.
Se solo avesse telefonato ad Alice. Aveva commesso l'ennesimo errore.
Si domandò se Alice stesse continuando a cercarla o se si fosse arresa. Se
avesse telefonato all'alloggio vicino agli scavi e avesse scoperto che era
sparita, avrebbe capito che qualcosa non andava, no? E Yves? Brayling
aveva chiamato la polizia...
Shelagh sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Era più probabile che nes-
suno si fosse accorto della sua assenza. Molti dei colleghi avevano annun-
ciato di voler partire per qualche giorno, finché le acque non si fossero
calmate. Forse avevano pensato che lei avesse fatto lo stesso.
La fame l'aveva persa già da un pezzo, ma aveva sete. Era come se aves-
se ingoiato un blocco di carta vetrata. L'esigua scorta d'acqua che le ave-
vano lasciato era finita e aveva le labbra spaccate per averle leccate in con-
tinuazione. Si sforzò di ricordare quanto un essere umano medio e in salute
potesse sopravvivere senz'acqua. Un giorno? Una settimana?
Udì scricchiolare la ghiaia. Sentì un tuffo al cuore e una scarica di adre-
nalina attraversarle il corpo, come ogni volta che arrivava un rumore dal-
l'esterno. Fino a quel momento, non era entrato nessuno.
Si mise a sedere, mentre il lucchetto veniva aperto. La catena cadde con
un forte rumore sordo e si arrotolò su se stessa formando spirali di metallo,
poi sentì il cigolio della porta che girava sui cardini. Shelagh si voltò
quando la luce accecante del sole inondò la capanna immersa nel buio e un
uomo scuro e tarchiato si chinò per passare sotto l'architrave. Indossava la
giacca, nonostante il caldo, e aveva lo sguardo nascosto dagli occhiali da
sole. Istintivamente, Shelagh si schiacciò contro la parete, paralizzata dalla
paura che l'aveva stretta allo stomaco come una morsa.
Con due passi, l'uomo aveva percorso tutta la capanna. Afferrò la corda
e la costrinse a mettersi in piedi. Estrasse un coltello dalla tasca.
Shelagh sussultò e cercò di tirasi indietro. «Non» sussurrò. «Per favore.»
Detestava parlare con quel tono supplichevole, ma non riusciva a farne a
meno. Il terrore le aveva strappato via l'orgoglio.
L'uomo le avvicinò la lama alla gola con un sorriso, rivelando denti
marci e ingialliti dal fumo. Allungò una mano dietro di lei e tagliò la corda
che la legava al muro, quindi la strattonò in avanti. Debole e disorientata,
Shelagh perse l'equilibrio e cadde in ginocchio a peso morto.
«Non riesco a camminare. Devi slegarmi.» Indicò i piedi con lo sguardo.
«Mes pieds.»
L'uomo esitò un istante, poi tagliò le grosse funi che aveva alle caviglie,
come se stesse affettando un pezzo di carne.
«Lève-toi. Vite!» Alzò il braccio come se volesse picchiarla, invece strat-
tonò di nuovo la corda attirandola a sé. «Vite.» Shelagh aveva le gambe
anchilosate, ma aveva troppa paura per disobbedire. La pelle intorno alle
caviglie era escoriata e tirava a ogni passo, provocandole fitte di dolore fin
sopra ai polpacci.
Sentì il terreno scosceso e irregolare sotto i piedi, quando uscì in-
ciampando dalla capanna. Il sole scottava. Le perforava le retine. L'aria era
calda e umida. Sembrava avvolgere il cortile e gli edifici come un malefico
Buddha.
Mentre si allontanava dalla sua improvvisata prigione, uno dei tanti ri-
coveri per animali in disuso, Shelagh si sforzò di guardarsi intorno, poiché
sapeva che quella poteva essere l'unica occasione per scoprire dove si tro-
vasse. E soprattutto chi ce l'avesse portata. Malgrado tutto, non poteva es-
serne sicura.
Era cominciato tutto a marzo, Lui era attraente, ammaliante e quasi di-
spiaciuto di averla disturbata. Lavorava per qualcun altro, le aveva spiega-
to, qualcuno che voleva restare anonimo. Tutto quello che le chiedeva di
fare era una telefonata. Informazioni, nient'altro. Era disposto a pagarla
profumatamente. Qualche tempo dopo, gli accordi erano cambiati: metà
per le informazioni, il resto alla consegna. A ripensarci adesso, Shelagh
non sapeva dire con esattezza quando avesse iniziato a nutrire i primi so-
spetti.
Il cliente non sembrava il classico collezionista ingenuo, disposto a pa-
gare più del valore effettivo senza fare domande. Innanzitutto sembrava
giovane. In genere si trattava di cacciatori di reliquie medievali, supersti-
ziosi, suscettibili, stupidi e ossessionati. Lui non era niente di tutto ciò. Già
solo questo avrebbe dovuto far suonare nella sua testa un campanello d'al-
larme.
Guardandosi indietro, trovava assurdo non essersi fermata a chiedersi
per quale motivo, se l'anello e il libro avevano soltanto un valore affettivo,
quell'uomo fosse disposto a tutto pur di averli.
Qualunque remora Shelagh avesse sul piano etico, quanto al sottrarre e a
rivendere manufatti, era scomparsa diversi anni prima. Aveva sofferto ab-
bastanza, per colpa di antichi musei e istituzioni accademiche d'élite, da
convincersi che in fondo non erano più adatti dei collezionisti privati a cu-
stodire quei tesori dell'antichità. Lei prendeva i soldi; loro ottenevano ciò
che volevano. Tutti erano contenti. Quello che succedeva dopo non era af-
far suo.
Col senno di poi, capì che aveva cominciato ad avere paura molto prima
della seconda telefonata, di certo diverse settimane prima di invitare Alice
al Pic de Soularac. Poi, quando Yves Biau l'aveva contattata e avevano
confrontato le storie... La morsa allo stomaco era diventata più stretta.
Se fosse successo qualcosa ad Alice, sarebbe stata colpa sua.
Raggiunsero la fattoria, un edificio di medie dimensioni, circondato da
altre costruzioni disabitate, un garage e una cantina. La vernice sulle per-
siane e sulla porta d'ingresso era screpolata e le finestre erano senza vetri.
C'erano due auto parcheggiate sul davanti, per il resto la fattoria era com-
pletamente deserta.
Tutto intorno si vedevano ininterrotte montagne e vallate. Se non altro,
si trovava ancora sui Pirenei. Il che, in un certo senso, le dava un motivo
per sperare.
La porta era aperta, come se qualcuno li stesse aspettando. L'interno era
fresco, anche se a prima vista sembrava deserto. Tutto era coperto da uno
strato di polvere. Quel posto poteva essere stato un albergo o un'auberge
una volta. Proprio di fronte all'ingresso c'era il banco della reception, so-
vrastato da una fila di ganci ormai vuoti, sui quali un tempo dovevano es-
sere appese le chiavi.
L'uomo tirò la fune con uno strattone per farla muovere. Da vicino, puz-
zava di sudore, dopobarba da quattro soldi e fumo stantio. Shelagh sentì
alcune voci giungere da una stanza alla sua sinistra. La porta era accostata.
Ruotò lo sguardo per cercare di vedere qualcosa e scorse un uomo di spalle
davanti alla finestra. Scarpe di cuoio e gambe avvolte da leggeri pantaloni
estivi.
Fu costretta a salire al secondo piano, quindi a percorrere un corridoio e
a inerpicarsi su una scala stretta e ripida che conduceva a una soffitta dal-
l'aria viziata, la quale occupava quasi tutto l'ultimo piano della casa. Si
fermarono davanti alla porta del sottotetto.
L'uomo tolse i chiavistelli e le diede a uno spintone sulle reni, facendola
volare in avanti. Shelagh atterrò con violenza, battendo il gomito a terra,
mentre l'uomo richiudeva la porta dietro di sé. Malgrado il dolore, si lanciò
contro la porta e la prese a pugni urlando, ma questa era stata blindata per
precauzione.
Alla fine, si arrese e si voltò per ispezionare il nuovo alloggio. C'era un
materasso appoggiato contro la parete opposta. Una coperta era ripiegata
con cura sopra di esso. Di fronte alla porta c'era una finestrella. Era spran-
gata dall'interno. Shelagh camminò a stento per la stanza e capì di trovarsi
sul retro della casa. Le sbarre di metallo erano robuste e quando le tirò non
accennarono a spostarsi. C'era uno strapiombo, comunque.
In un angolo vide un piccolo lavandino, con accanto un secchio. Dopo
aver fatto i propri bisogni, aprì il rubinetto a fatica. I tubi borbottarono e
tossirono come un fumatore incallito ma, dopo un paio di false partenze,
cominciò a uscire un sottile filo d'acqua. Unì le mani sudice e bevve fino a
farsi gonfiare la pancia. Quindi si lavò alla meno peggio, sfregando le cor-
de sui i polsi e le caviglie incrostate di sangue.
Un attimo dopo, l'uomo le portò da mangiare. Più del solito.
«Perché mi trovo qui?»
Lui appoggiò il vassoio per terra, al centro della stanza.
«Perché mi avete portata qui? Pourquoi je suis là?»
«Il te le dira.»
«Chi vuole parlarmi?
Indicò il cibo. «Mange.»
«Dovrai slegarmi.» Poi domandò di nuovo. «Chi? Dimmelo.»
L'uomo le avvicinò il vassoio con il piede. «Mangia.»
Quando se ne fu andato, Shelagh si tuffò sul cibo. Mangiò fino all'ultima
briciola, persino il torsolo e i semi della mela, e subito dopo tornò alla fi-
nestra. I primi raggi di sole spuntavano dalla vetta della montagna, tra-
sformando tutto da grigio in bianco.
In lontananza, udì il rumore di un'auto, che si dirigeva lenta verso la fat-
toria.
CAPITOLO 42
CAPITOLO 43
CAPITOLO 44
CARCASSONA
Julhet 1209
Alaïs si alzò molto presto, svegliata dal rumore di seghe e martelli che si
levava dalla corte. Guardò dalla finestra le gallerie e i tramezzi di legno
che venivano costruiti sopra le mura dello Château Comtal.
L'imponente struttura lignea prendeva forma con rapidità. Come un
camminamento coperto nel cielo, forniva la posizione strategica ideale dal-
la quale gli arcieri avrebbero scoccato una pioggia di frecce sul nemico,
nella remota eventualità che fosse riuscito ad aprire una breccia nelle mura
della Cité.
Si vestì in fretta e corse giù in cortile. Nella fucina il fuoco scoppiettava.
Martelli e incudini risuonavano mentre le armi venivano forgiate e affilate;
gli zappatori comunicavano fra loro urlando a intervalli rapidi e netti men-
tre venivano preparati assi, funi e contrappesi per le pèireras, le baliste.
Alaïs scorse Guilhem fuori dalla scuderia. Le si strinse il cuore. Guar-
dami. Lui non si voltò, né alzò lo sguardo. Alaïs sollevò la mano per chia-
marlo, ma poi fu sopraffatta dalla vigliaccheria e lasciò ricadere il braccio
lungo il fianco. Non aveva intenzione di umiliarsi implorando il suo affet-
to, se lui non era disposto a concederglielo.
Le stesse scene di operosità dello Château Comtal si svolgevano anche
nella Cité. Nella piazza principale venivano ammucchiate le pietre delle
Corbières, da usare per le balestre e le catapulte. Un acre tanfo di urina ve-
niva dalla conceria, dove venivano preparate le pelli di animale per difen-
dere le gallerie dal fuoco. Un'incessante processione di carri entrava dalla
Porte Narbonnaise, portando provviste per la Cité: carne salata da La Piège
e dal Lauragais, vino dalla zona di Carcassès, orzo e grano dalle pianure,
fagioli e lenticchie dagli orti di Sant-Miquel e Sant-Vicens.
Dietro tutta quell'attività c'era un sentimento di orgoglio e di risolutezza.
Solo le nuvole di soffocante fumo nero che si levavano a nord, dal fiume e
dalle paludi, dove il visconte Trencavel aveva ordinato di bruciare i mulini
e di distruggere i raccolti, ricordavano quanto fosse imminente e reale la
minaccia della guerra.
Alaïs aspettò Sajhë nel posto stabilito. Aveva in testa un milione di do-
mande che avrebbe voluto fare a Esclarmonde, le frullavano nella mente
come uccelli lungo un fiume. Quando Sajhë arrivò, era senza parole a cau-
sa dell'ansia.
Lo seguì attraverso strade prive di nome nel sobborgo di Sant-Miquel,
finché arrivarono a un porticina situata proprio accanto alle mura esterne.
Il rumore di uomini che scavavano trincee per impedire al nemico di avvi-
cinarsi abbastanza da attaccare le mura, era assordante. Sajhë dovette gri-
dare per farsi sentire.
«Menina vi sta aspettando dentro» disse, con aria improvvisamente se-
ria.
«Tu non entri?»
«Mi ha detto di accompagnarvi e di tornare allo Château per cercare l'in-
tendente Pelletier.»
«Lo troverai alla Cour d'Honneur» lo informò.
«Va bene» fece, con il sorriso di sempre. «A dopo.»
Alaïs aprì la porta e chiamò Esclarmonde, impaziente di vederla, poi si
fermò. Nell'oscurità, scorse la sagoma di un'altra persona sulla sedia al-
l'angolo della stanza.
«Entra, entra» fece Esclarmonde, dalla voce si capiva che sorrideva.
«Credo che tu conosca già Simeon.»
Alaïs era sbalordita. «Simeon? Di già?» esclamò con gioia, quindi gli
corse incontro e gli strinse le mani. «Quali nuove? Quando siete arrivato a
Carcassona? Dove alloggiate?»
Simeon scoppiò in una risata grassa e forte. «Una cosa alla volta! Che
fretta di sapere! Bertrand mi ha detto che da bambina non la smettevi mai
di fare domande!»
Alaïs riconobbe che era vero, con un sorriso. Si sedette al tavolo scivo-
lando sulla panca e accettò la coppa di vino offertale da Esclarmonde,
mentre ascoltava Simeon che parlava con l'amica. Sembrava che ci fosse
già un legame fra i due, un'intesa.
Lui era un abile oratore, intesseva racconti della sua vita a Chartres e a
Béziers insieme a ricordi delle sue esperienze in Terra Santa. Il tempo pas-
sò presto, mentre parlava delle colline della Giudea in primavera e delle
piane di Sephal coperte di gigli, di iris gialli e viola, di mandorli rosa che
si estendevano a tappeto fino ai confini del mondo. Alaïs era incantata.
Le ombre si allungarono. Nel frattempo l'atmosfera era cambiata senza
che Alaïs se ne accorgesse. Dai movimenti del suo stomaco, capiva di es-
sere nervosa per ciò che stava per accadere. Si domandò se fosse quella la
sensazione che il padre e Guilhem provavano alla vigilia di una battaglia.
La sensazione che il tempo fosse appeso a un filo.
Lanciò un'occhiata a Esclarmonde, aveva le mani intrecciate sul ventre e
un'aria serena. Sembrava calma e padrona di sé.
«Sono certa che mio padre sarà qui a momenti» disse, sentendo di dover
rendere conto per quell'assenza prolungata. «Mi ha dato la sua parola.»
«Lo sappiamo» replicò Simeon, accarezzandole la mano. Aveva la pelle
come la pergamena.
«Non possiamo aspettare ancora per molto» confessò Esclarmonde e
guardò la porta che non accennava ad aprirsi. «I proprietari di questa casa
saranno presto di ritorno.»
Alaïs notò lo scambio di sguardi fra i due. Incapace di tollerare ancora la
tensione, si sporse in avanti.
«Ieri non hai risposto alla mia domanda, Esclarmonde.» Si stupì di quan-
to sembrò risoluta. «Anche tu sei una custode? Il libro che mio padre cerca
è al sicuro nelle tue mani?»
Per un attimo fu come se quelle parole fossero rimaste sospese nell'aria,
non richieste da nessuno. A un certo punto, con grande sorpresa di Alaïs,
Simeon ridacchiò.
«Cosa ti ha detto tuo padre della Noublesso?» chiese, con gli occhi neri
che sfavillavano.
«Che ci sono sempre stati cinque custodi a proteggere i Codici del Labi-
rinto» rispose lei baldanzosa.
«E ti ha spiegato perché erano cinque?»
Alaïs fece di no con la testa.
«Di solito, il Navigatairé, la guida, è aiutato da quattro iniziati. Insieme
rappresentano i cinque punti del corpo umano e il potere del numero cin-
que. Ogni custode viene scelto in base al coraggio, alla determinazione, al-
la lealtà. Cristiani, saraceni, ebrei... è la nostra anima, il nostro valore che
conta, non il sangue, il rango o la razza. Ciò rispecchia anche la natura del
segreto che dobbiamo custodire, che appartiene a tutte le religioni e a nes-
suna.» Sorrise. «La Noublesso de los Seres esiste da più di duemila anni,
per custodire e difendere il segreto, sebbene non abbia sempre avuto que-
sto nome. A volte siamo stati costretti a nasconderci, altre volte abbiamo
potuto agire alla luce del sole.»
Alaïs si rivolse a Esclarmonde. «Mio padre non vuole accettare la tua
vera identità. Non riesce a capacitarsi.»
«È una cosa che va contro ogni sua aspettativa.»
«Bertrand è sempre stato così» ridacchiò Simeon.
«Non si sarebbe mai aspettato che il quinto custode fosse una donna»
disse Alaïs, prendendo le difese del padre.
«Nei tempi passati un fatto del genere avrebbe stupito di meno» ribatté
Simeon. «Egiziani, assiri, romani, babilonesi... tutte queste civiltà antiche
di cui avrai certo sentito parlare, nutrivano maggior rispetto per il sesso
femminile in confronto ai tempi bui in cui viviamo noi.»
Alaïs rifletté. «Credete che Harif abbia ragione a pensare che i libri sa-
ranno più al sicuro fra le montagne?» domandò.
Simeon alzò le mani. «Non spetta a noi ricercare la verità, né in-
terrogarci su quello che sarà o non sarà. Il nostro unico dovere è quello di
custodire i libri e far sì che non vengano danneggiati. Per assicurarci che
siano integri al momento del bisogno.»
«Che è lo stesso motivo per il quale Harif ha affidato il compito di tra-
sportare i libri a tuo padre, piuttosto che a noi» aggiunse Esclarmonde. «La
sua posizione faceva di lui l'envoyé più indicato. Ha a disposizione uomini
e cavalli, può viaggiare più liberamente di noi.»
Alaïs esitò, non voleva tradire il padre. «È restio ad abbandonare il vi-
sconte. È combattuto, non sa scegliere se prestare fede ai vecchi o ai nuovi
impegni.»
«Tutti siamo attanagliati da tali dubbi» replicò Simeon. «Tutti ci trovia-
mo a dover scegliere tra due strade. Bertrand è fortunato perché finora non
si era mai trovato davanti a un bivio.» Prese le mani di Alaïs fra le sue.
«Bertrand non può più temporeggiare, Alaïs. Devi incoraggiarlo a compie-
re il suo dovere. Il fatto che Carcassona non sia ancora caduta non vuol di-
re che non cadrà.»
Alaïs sentì i loro occhi puntati su di sé. Si alzò e andò verso il focolare.
Il cuore le batteva forte mentre un'idea si insinuava nella sua mente.
«È permesso a un'altra persona agire in sua vece?» chiese con voce fer-
ma.
Esclarmonde capì al volo. «Non credo che tuo padre acconsentirebbe. Ti
ama troppo.»
Alaïs si voltò di nuovo verso di loro. «Prima di partire per Montpellier,
mi ha giudicata all'altezza del compito. In teoria, mi ha già dato il permes-
so.»
Simeon annuì. «È vero, ma la situazione cambia continuamente. A mano
a mano che i francesi si avvicinano ai confini dei territori di Trencavel, le
strade diventano sempre più pericolose, come ho constatato io stesso. Tra
non molto, mettersi in viaggio sarà troppo rischioso.»
Alaïs non si diede per vinta. «Ma andrò nella direzione opposta» ribatté,
guardando ora l'uno ora l'altra. «E non avete risposto alla mia domanda. Se
le consuetudini della Noublesso non mi proibiscono di alleggerire di tale
fardello le spalle di mio padre, allora mi offro di svolgere la missione al
suo posto. Sono capacissima di badare a me stessa. Sono un'ottima cavalle-
rizza, abile con la spada e con l'arco. Nessuno sospetterebbe mai che...»
Simeon alzò la mano. «Hai frainteso la nostra esitazione, ragazza. Non
metto di certo in dubbio il tuo coraggio o la tua determinazione.»
«Allora datemi la vostra benedizione.»
Simeon sospirò e guardò Esclarmonde. «Che ne pensi, sorella? Sempre
se Bertrand è d'accordo, ovviamente.»
«Ti supplico, Esclarmonde,» la pregò Alaïs «accogli la mia richiesta.
Conosco mio padre.»
«Non posso promettere nulla» rispose alla fine l'amica, «ma non ti osta-
colerò.» Un sorriso spuntò sul viso di Alaïs. «Ma dovrai rispettare la deci-
sione di tuo padre» continuò Esclarmonde. «Se non ti darà il permesso,
dovrai rassegnarti.»
Non dirà di no. Non glielo consentirò.
«Sarò ubbidiente, è ovvio» le assicurò.
Sono i volti e i personaggi dei miei sogni. Una alla volta, sfogliò tutte le
pagine. Ciascuna riportava frasi scritte in corsivo nero e aveva il rovescio
vuoto. Riconobbe alcune parole della lingua di Simeon, anche se non ne
capì il senso. Quasi l'intero libro era scritto nella sua lingua. Ogni pagina
aveva la prima lettera miniata in rosso, blu o giallo con bordo dorato, per il
resto era disadorna. Nessuna illustrazione a margine, nessuna lettera evi-
denziata nel corpo del testo, le parole si susseguivano con pochi spazi o
segni di interpunzione fra di loro a indicare dove finiva un concetto e dove
ne iniziava un altro.
Alaïs arrivò alla pergamena che era nascosta a metà del libro. Era più
spessa e più scura delle pagine che la racchiudevano, pelle di capra invece
che di pecora. Oltre a simboli e illustrazioni, c'erano soltanto alcune paro-
le, accompagnate da file di numeri e di misure. Sembrava una specie di
mappa.
Scorse minuscole frecce che puntavano in diverse direzioni. Ce n'era
qualcuna d'oro, ma per lo più erano nere.
Alaïs provò a leggere da sinistra a destra, partendo dall'inizio della pagi-
na, ma non vi trovò alcun senso e capì che non era quello il modo appro-
priato. Pertanto, provò a decifrare la pagina da destra a sinistra partendo
dal basso, quasi fosse la finestra istoriata di una chiesa, ma neanche in quel
modo riuscì a interpretarla. Infine, lesse una riga sì e una no oppure una
parola ogni tre righe, ma neppure stavolta capì.
Guarda oltre le immagini visibili e vedrai i segreti nascosti sotto di esse.
Si sforzò di riflettere. A ogni custode un libro, in base alle sue capacità e
conoscenze. Esclarmonde aveva la capacità di curare e guarire la gente,
perciò a lei Harif aveva affidato il Libro delle Pozioni. Simeon era uno
studioso dell'antico sistema numerico ebraico, per cui aveva ricevuto il Li-
bro dei Numeri.
Questo libro.
Cosa poteva aver spinto Harif a designare suo padre come custode del
Libro delle Parole?
Assorta in tali considerazioni, Alaïs accese il lume e raggiunse il como-
dino, dal quale estrasse carta, penna e calamaio. Pelletier aveva insistito
che le figlie imparassero a leggere e a scrivere, poiché in Terra Santa ave-
va constatato l'importanza di queste abilità. A Oriane interessavano solo le
virtù che si confacevano a una dama del castello: il ballo, il canto, la falco-
neria e il ricamo. Scrivere, come non si stancava mai di ripetere, era roba
da vecchi e da preti. Alaïs invece non si era lasciata sfuggire l'opportunità.
Aveva imparato in fretta e, sebbene avesse poche occasioni di sfruttare tale
capacità, ne faceva tesoro.
Dispose sul tavolo l'occorrente per scrivere. Non capiva il senso della
pergamena, né poteva ambire a riprodurre la squisita fattura, i colori o lo
stile. Ma poteva comunque farne una copia, finché era in tempo.
Ci volle un po', ma quando ebbe finito lasciò la copia della pergamena
sul tavolo ad asciugare. Subito dopo, conscia del fatto che il padre poteva
fare ritorno allo Château Comtal da un momento all'altro con il Libro delle
Parole, Alaïs si preoccupò di nascondere il volume, come il padre le aveva
detto di fare.
La sua prediletta mantella rossa non era adatta. La stoffa era troppo leg-
gera e l'orlo era in rilievo. Scelse piuttosto una pesante mantella marrone.
Era un indumento invernale, più adatto per la caccia in teoria, ma non po-
teva fare altrimenti. Con mano esperta, Alaïs scucì la passementerie sul
davanti fino a formare uno spazio abbastanza grande da infilarci il libro.
Fatto ciò, prese il filo che le aveva regalato Sajhë, esattamente dello stesso
colore della stoffa, e cucì con esse il libro all'interno, in modo che fosse
ben protetto.
Prese la mantella e la appoggiò sopra le spalle. Al momento pendeva da
un lato, ma quando avesse ricevuto l'altro libro dal padre, sarebbe stata
perfettamente bilanciata.
Aveva un ultimo compito da svolgere. Lasciò la mantella sulla sedia e
tornò al tavolo per vedere se l'inchiostro era asciutto. Sapendo che poteva
essere interrotta in ogni momento, ripiegò la pergamena e la infilò in un
sacchetto di lavanda. Cucì l'apertura, così che nessuno la trovasse acciden-
talmente, quindi la ripose sotto il cuscino.
Si guardò intorno soddisfatta della propria opera e cominciò a mettere
via l'occorrente per il cucito.
Bussarono alla porta. Alaïs andò ad aprire di corsa, convinta che fosse il
padre. Invece c'era Guilhem sulla soglia, timoroso di non essere benaccet-
to. Il solito sorriso a mezza bocca e il solito sguardo da bambino smarrito.
«Posso entrare, signora?» chiese con dolcezza.
Il primo istinto sarebbe stato di buttargli le braccia al collo. Ma la pru-
denza la trattenne. Troppe cose dette e poche perdonate.
«Posso?»
«È anche camera tua» rispose lei in tono pacato. «Non ti vieterei mai
l'ingresso.»
«Come sei formale» ribatté il marito chiudendo la porta dietro di sé.
«Vorrei che avessi risposto in questa maniera per piacere e non per dove-
re.»
«Sono...» esitò, disorientata dal profondo desiderio che divampava den-
tro di lei. «Sono contenta di vederti, messire.»
«Hai l'aria stanca» disse, sfiorandole il viso.
Come sarebbe stato facile arrendersi... Abbandonarsi fra le sue braccia..
Chiuse gli occhi, quasi sentisse le sue dita scorrere sulla pelle. Una ca-
rezza, lieve come un sussurro, naturale come un respiro. Immaginò di ap-
poggiarsi al suo petto e di lasciarsi stringere. Averlo davanti le faceva gira-
re la testa, la faceva sentire debole.
Non posso. Non devo.
Alaïs si impose di aprire gli occhi e indietreggiò. «Non farlo» mormorò.
«Ti prego.»
Guilhem le prese la mano e la strinse fra le sue. Alaïs notò quanto fosse
agitato.
«Presto... a meno che non vi sia un intervento divino, saremo costretti ad
affrontarli. Quando sarà il momento, io, Alzeu, Thierry e gli altri partire-
mo. E forse non faremo ritorno.»
«Lo so» replicò lei sottovoce, con la speranza di riportare un po' di colo-
re sul suo volto.
«Da quando siamo rientrati da Besièrs, mi sono comportato male nei
tuoi confronti, Alaïs, senza motivo né giustificazione. Me ne rammarico e
sono venuto a chiederti perdono. Sono troppo geloso e la gelosia mi porta
a dire cose... cose di cui mi pento.»
Alaïs lo fissava ma, non essendo sicura dei propri sentimenti, restò in si-
lenzio.
Guilhem si avvicinò. «Non sei dispiaciuta di vedermi.»
Sorrise. «Sei stato lontano da me per tanto tempo, Guilhem, che non so
dire quello che provo.»
«Vuoi che vada via?»
Alaïs sentì salire le lacrime agli occhi, ma ebbe la forza di non cedere.
Non voleva che la vedesse piangere.
«Credo che sia meglio.» Infilò la mano nella scollatura del vestito, tirò
fuori un fazzoletto e lo mise in mano al marito. «C'è ancora tempo perché
le cose tra noi si sistemino.»
«Il tempo è l'unica cosa che ci manca, Alaïs» le fece notare con delica-
tezza. «Ma, a meno che Dio o i francesi non me lo impediscano, tornerò
domani.»
Alaïs pensò ai libri e alla responsabilità che aveva sulle spalle. Tra non
molto sarebbe partita. Potrei non rivederlo mai più. Le si spezzò il cuore.
Esitò e dopo un attimo lo abbracciò con forza, quasi volesse imprimere il
profilo del marito sul proprio corpo.
Quindi, con la stessa rapidità con cui lo aveva abbracciato, lo lasciò an-
dare.
«Siamo tutti nelle mani di Dio» disse. «Ora va', ti prego, Guilhem.»
«Domani?»
«Vedremo.»
Alaïs restò immobile come una statua, con le mani intrecciate sul grem-
bo per farle smettere di tremare, fino a che la porta non si chiuse e Guil-
hem sparì. Poi, persa nei propri pensieri, tornò piano piano al tavolino,
domandandosi cosa lo avesse spinto ad andare da lei. Amore? Pentimento?
O qualcos'altro?
CAPITOLO 46
Simeon alzò lo sguardo al cielo. Nuvole grigie lottavano fra loro, fa-
cendo a gara per oscurare il sole. Si era già allontanato parecchio dalla Ci-
té, ma voleva tornare al suo alloggio prima che scoppiasse il temporale.
Raggiunto il margine del bosco, che separava le pianure attorno a Car-
cassonne dal fiume, rallentò il passo. Era senza fiato, troppo vecchio per
camminare tanto a lungo. Si appoggiò con forza al bastone e allentò il col-
letto della tunica. C'era quasi ormai. Esther gli aveva di certo preparato
qualcosa da mangiare, forse anche un bicchiere di vino. Quel pensiero lo
ristorò. Magari Bertrand aveva ragione, a primavera sarebbe stato tutto fi-
nito.
Simeon non si accorse che due uomini erano sbucati sul sentiero alle sue
spalle. Non si rese conto del braccio sollevato né della mazza che si abbat-
teva sulla testa, finché non avvertì il colpo e sprofondò nell'oscurità.
Giunti allo Château Comtal, Pelletier ordinò che il musicista fosse ac-
compagnato nelle cucine per farsi medicare le ferite, mentre lui andava di
filato a informare il visconte Trencavel. Poco dopo, ristorato da vino soave
e miele, il musicista fu portato nel donjon.
Era pallido, ma padrone di sé. Nel timore che le gambe del poveretto
non reggessero, Pelletier fece portare uno sgabello, in modo che potesse
rendere la sua testimonianza stando seduto.
«Diteci il vostro nome, amic» esordì.
«Pierre de Murviel, messire.»
Il visconte Trencavel sedeva nel mezzo, gli alleati disposti a semicerchio
intorno a lui.
«Benvenguda, Pierre de Murviel» disse. «Che notizie avete per noi?»
Drizzandosi sullo sgabello, con le mani sulle ginocchia e la faccia bianca
come il latte, il musicista si schiarì la voce e cominciò a raccontare. Era
nato a Béziers, anche se aveva trascorso gli ultimi anni nelle corti della
Navarra e dell'Aragona. Era un musicista, che aveva appreso la propria ar-
te da Raimon de Mirval in persona, il più bravo trovatore del Midi. Era per
questo che aveva ricevuto un invito dal signore di Béziers. Vedendolo co-
me un'occasione di riabbracciare la propria famiglia, aveva accettato ed era
tornato a casa.
La voce era talmente bassa che gli ascoltatori dovettero sforzarsi per ca-
pire quello che diceva. «Diteci di Besièrs» lo esortò Trencavel. «Non trala-
sciate alcun dettaglio.»
«L'esercito francese è arrivato presso le mura cittadine il giorno prima
della festa di Santa Maria Maddalena e si è accampato sulla riva sinistra
del fiume Orb. Nei pressi del fiume c'erano pellegrini e mercenari, mendi-
canti e diseredati, una massa di cenciosi scalzi, con indosso soltanto brache
e camicia. Più in là, i colori dei baroni e degli ecclesiastici sventolavano
sui padiglioni, formando un ammasso verde, dorato e rosso. Hanno innal-
zato aste per le bandiere e abbattuto alberi per costruire recinti per gli ani-
mali.»
«Chi è stato inviato a trattare con il nemico?»
«Il vescovo di Besièrs, Renaud de Montpeyroux.»
«Si dice che sia un traditore, messire» disse Pelletier, sporgendosi per
sussurrare all'orecchio del visconte, «e che abbia già preso la croce.»
«Il vescovo Montpeyroux ha fatto ritorno con una lista di presunti eretici
stilata dai legati pontifici. Non so dirvi con esattezza quanti nomi vi fosse-
ro sulla pergamena, messire, ma di sicuro erano centinaia. Riportava i no-
mi di alcuni fra i più influenti, più ricchi e più nobili cittadini di Besièrs,
così pure i seguaci della nuova chiesa e quanti erano accusati di essere
bons chrétiens. Se i consoli avessero consegnato gli eretici, allora Besièrs
sarebbe stata risparmiata. Altrimenti...» Lasciò in sospeso la frase.
«Qual è stata la riposta dei consoli?» chiese Pelletier. Sarebbe stato un
primo indizio per capire se la coalizione avesse tenuto testa ai francesi op-
pure no.
«Hanno risposto che avrebbero preferito annegate fra le acque salmastre
del mare piuttosto che arrendersi o tradire i propri concittadini.» Trencavel
emise un flebile sospiro.
«Il vescovo si è allontanato dalla città insieme a un gruppetto di preti
cattolici. Il comandante della guarnigione, Bernard de Servian, ha comin-
ciato a organizzare le opere di difesa.»
Si interruppe e deglutì con fatica. Persino Congost, chino sulla pergame-
na, si fermò e alzò lo sguardo.
«La mattina del ventidue luglio il sole è sorto in tranquillità. Faceva cal-
do, malgrado fosse l'alba. Un manipolo di crociati, gente che seguiva l'e-
sercito, nemmeno soldati, è andato al fiume e si è appostato proprio al di
sotto delle fortificazioni a sud della città. Sono stati avvistati dalle mura.
C'è stato uno scambio di insulti. Uno dei routiers si è spinto fino al ponte,
pavoneggiandosi e imprecando. Ha infiammato i nostri giovani uomini
tanto da farli armare di alabarde e clave e persino di un tamburo e di uno
stendardo improvvisati. Decisi a dare una lezione ai francesi, essi hanno
aperto il cancello e si sono precipitati giù per il pendio, prima che qualcu-
no potesse realizzare ciò che stava accadendo, e sono andati all'assalto del
francese urlando con tutto il fiato che avevano. Lo scontro è durato pochi
istanti. Hanno gettato il corpo del routier giù dal ponte, dentro il fiume.»
Pelletier lanciò un'occhiata a Trencavel. Aveva il volto pallido.
«Da sopra le mura, i cittadini hanno urlato ai ragazzi di tornare indietro,
ma loro erano troppo infervorati dalla propria baldanza per ascoltarli. Gli
schiamazzi hanno attirato l'attenzione del capitano dei mercenari, il Roi,
come dicono i francesi. Vedendo il cancello aperto, ha dato subito l'ordine
di attaccare. Finalmente, i ragazzi si sono resi conto del pericolo, ma ormai
era troppo tardi. I routiers li hanno massacrati all'istante. I pochi scampati
hanno tentato di richiudere il cancello, ma i routiers erano troppo veloci e
ben attrezzati. Hanno forzato il cancello e alla fine lo hanno aperto.
Una volta entrati i crociati, ha avuto inizio il massacro. C'erano corpi
dappertutto, morti e mutilati; eravamo nel sangue fino alle ginocchia. I
bambini sono stati strappati dalle braccia delle madri trafitti dalla punta di
lance e spade. Le teste sono state recise dal corpo e issate sulle mura in pa-
sto ai corvi: sembrava che una fila di gargouilles insanguinate, fatte di
carne e sangue anziché di pietra, assistessero a bocca aperta alla nostra
sconfitta. Hanno massacrato chiunque capitasse loro sotto mano, senza di-
stinzione di età o di sesso.»
Il visconte Trencavel non poteva più tacere. «Ma perché i legati o i ba-
roni francesi non hanno fermato una tale carneficina? Non ne erano al cor-
rente?»
De Murviel alzò il capo. «Ne erano a conoscenza, messire.»
«Ma massacrare persone innocenti va contro qualsiasi onore e conven-
zione di guerra» esclamò Pierre-Roger de Cabaret. «Non posso credere che
l'abate di Cîteaux, nonostante il fanatismo e l'avversione per l'eresia, abbia
approvato il massacro di donne e bambini cristiani, macchiandosi di un co-
sì grave peccato.»
«Pare che quando hanno chiesto all'abate come riconoscere i buoni cat-
tolici dagli eretici egli abbia risposto: "Tuez-les tous. Dieu reconnâitra les
siens"» riferì con voce cupa de Murviel. «"Uccideteli tutti. Dio riconoscerà
i suoi." O almeno così si vocifera in giro.»
Trencavel e de Cabaret si scambiarono uno sguardo.
«Andate avanti» disse arcigno Pelletier. «Finite il racconto.»
«Le grandi campane di Besièrs suonavano l'allarme. Donne e bambini si
sono rifugiati nella chiesa di Sant-Jude e quella di Santa Maria Maddalena
nella città alta, migliaia di persone stipate come animali in un recinto. I
preti cattolici hanno indossato i paramenti sacri e hanno iniziato a cantare
il Requiem, ma i crociati hanno sfondato la porta e li hanno trucidati tutti.»
Gli tremò la voce. «Nel giro di pochissime ore, l'intera città si è trasfor-
mata in un ossario. Quindi sono cominciati i saccheggi. Le nostre splendi-
de case sono state spogliate dall'avidità e dalla barbarie. Solo adesso, i ba-
roni francesi, per cupidigia e non certo per coscienza, cercano di arginare i
routiers. Questi, uno alla volta si sono inferociti per essere stati privati del
bottino che si erano meritati, così hanno dato la città alle fiamme in modo
che nessuno potesse beneficiarne. Le abitazioni di legno dei quartieri pove-
ri si sono incendiate come polveriere. Le grosse travi del tetto della catte-
drale hanno preso fuoco e sono crollate, intrappolando tutti quelli che vi
avevano trovato riparo. Le fiamme erano così violente che la cattedrale si è
spezzata nel mezzo.»
«Ditemi una cosa, amic. In quanti sono sopravvissuti?» chiese il viscon-
te.
Il musicista chinò il capo. «Nessuno, messire. Tranne quei pochi che
come me sono riusciti a fuggire dalla città. Per il resto, sono morti tutti.»
«Ventimila persone massacrate in una sola mattinata» Raymond-Roger
mormorò inorridito. «Com'è possibile?»
Nessuno rispose. Non c'erano parole adatte a spiegare un simile orrore.
Trencavel alzò il capo e guardò il musicista.
«Avete visto cose che nessun uomo dovrebbe vedere, Pierre de Murviel.
Avete dimostrato valore e coraggio nel portarci questo messaggio. Carcas-
sona è in debito con voi e farò in modo che veniate ricompensato in modo
equo.» Esitò. «Ma, prima che ve ne andiate, vorrei porvi un'ultima doman-
da. Anche mio zio, il conte di Tolosa, ha preso parte al sacco della città?»
«Credo di no, messire. Corre voce che sia rimasto nell'accampamento
francese.»
Trencavel lanciò uno sguardo a Pelletier. «È già qualcosa.»
«E mentre vi recavate a Carcassona, avete incontrato qualcuno lungo la
strada?» domandò Pelletier. «La notizia del massacro si è diffusa?»
«Non lo so, messire. Mi sono tenuto alla larga dalle strade principali, ho
seguito i vecchi sentieri fra le gole di Lagrasse. Ma non ho visto soldati.»
Trencavel guardò i consoli, nel caso avessero avuto domande da porre,
ma nessuno parlò.
«Benissimo» disse, rivolgendosi di nuovo al musicista. «Potete andare
ora. Ancora una volta, vi ringraziamo.»
Non appena l'uomo fu accompagnato fuori, Trencavel si voltò verso Pel-
letier.
«Perché non siamo stati avvisati? Non riesco a credere che non ci sia ar-
rivata nemmeno una voce. Sono passati quattro giorni dalla strage.»
«Se quello che dice de Murviel è vero, non c'erano molte persone che
potevano portarci la notizia» replicò de Cabaret in tono aspro.
«Non importa» ribatté Trencavel, mentre con la mano faceva l'atto di ac-
cantonare quel commento. «Inviate subito un gruppo di cavalieri, tutti
quelli che riuscite a raggruppare. Dobbiamo scoprire se l'esercito è ancora
a Besièrs o se è già in marcia verso est. La vittoria lo farà avanzare più ve-
locemente.»
Tutti si inchinarono quando il visconte si alzò.
«Ordinate ai consoli di diffondere la triste notizia per tutta la Ciutat. Va-
do nella capèla di Sant-Maria. Dite a mia moglie di raggiungermi lì.»
CAPITOLO 47
BESIÈRS
Per i due giorni successivi alla vittoria di Béziers, i crociati restarono nei
prati della ricca campagna circostante la città. Aver ottenuto un tale tesoro
con così poche perdite era un miracolo. Dio non poteva dare segno più
chiaro di quanto fosse giusta la loro causa.
Sopra di loro il fumo si levava dalle macerie di quella che una volta era
stata una grande città. Frammenti di cenere grigia salivano a spirale nel
cielo estivo di un azzurro straordinario e venivano sparsi dai venti sulla
terra conquistata. Di tanto in tanto, si udiva l'inconfondibile rumore di mat-
toni frantumati e di legname secco che si sgretolava.
La mattina seguente, l'esercito tolse le tende e marciò verso sud, attra-
verso l'aperta campagna, diretto alla città romana di Narbonne. A capo del-
la schiera di uomini c'era l'abate di Cîteaux, circondato dai legati pontifici,
il suo potere temporale rafforzato dalla devastante sconfitta della città che
aveva osato ospitare l'eresia. Ogni croce, bianca o dorata che fosse, sem-
brava scintillare come la più pregiata delle stoffe sulla schiena dei guerrieri
di Dio. Ogni crocifisso sembrava catturare i raggi del sole che splendeva.
L'esercito conquistatore avanzava a zigzag come un serpente, per il pae-
saggio fatto di saline, stagni ed estesi tratti di gialla sterpaglia agitata dai
forti venti che soffiavano dal golf du Lion. Rampicanti crescevano selvag-
gi ai lati della strada, così come olivi e mandorli.
I soldati francesi, inesperti e non abituati agli eccessi climatici del meri-
dione, non avevano mai visto simili terreni. Si fecero il segno della croce,
considerandoli una conferma del fatto che erano davvero entrati in una ter-
ra abbandonata da Dio.
Una delegazione guidata dall'arcivescovo di Narbonne e dal visconte
della città si recò a incontrare i crociati a Capestang il 25 luglio.
Narbonne era un fiorente porto commerciale sulla costa del Me-
diterraneo, anche se il cuore della città si trovava a una certa distanza, nel-
l'entroterra. Con le notizie degli orrori inflitti a Béziers ancora fresche nel-
la mente, e con la speranza di evitare che Narbonne subisse la stessa sorte,
le autorità sia civili che religiose si erano preparate a sacrificare l'indipen-
denza e l'onore. Davanti a testimoni, il vescovo e il visconte di Narbonne
si inginocchiarono ai piedi dell'abate e giurarono totale e assoluta sotto-
missione alla chiesa. Acconsentirono a consegnare tutti gli eretici accertati
dai legati, a confiscare le proprietà di catari ed ebrei, persino a pagare una
tassa sui propri possedimenti per sussidiare la crociata.
In poche ore, le condizioni furono sancite. Narbonne sarebbe stata ri-
sparmiata. Mai un fondo bellico era stato ottenuto con più facilità.
Se l'abate e i legati si sorpresero per la rapidità con cui gli abitanti della
città avevano rinunciato al proprio diritto di nascita, non lo diedero a vede-
re. Se gli uomini che marciavano sotto le vermiglie bandiere del conte di
Toulouse furono imbarazzati dalla mancanza di coraggio mostrata dai pro-
pri compatrioti, non lo espressero a voce.
Fu ordinato un cambio di programma. Avrebbero passato la notte fuori
Narbonne e al mattino si sarebbero diretti a Olonzac. Da lì, sarebbero stati
solo pochi giorni di marcia fino a Carcassonne.
CAPITOLO 48
Quando riprese i sensi, Simeon non si trovava più nel bosco, bensì in
una sorta di stalla per bovini. Ricordava di aver intrapreso un viaggio, un
lungo viaggio. Le costole gli dolevano per via del movimento del cavallo.
L'odore era terribile, un misto di sudore, capra, paglia umida e qualcosa
che non riusciva a identificare. Nauseante, come di fiori che marcivano.
C'erano diversi finimenti appesi al muro e un forcone appoggiato nell'an-
golo più vicino alla porta, che era alta quanto la spalla di un uomo medio.
Sulla parete di fronte alla porta c'erano cinque o sei anelli metallici per le-
gare gli animali.
Simeon guardò in basso. Il cappuccio che gli avevano infilato sulla testa
era per terra accanto a lui. Aveva mani e piedi legati.
Mentre tossiva e cercava di sputare i fili di ruvida stoffa che gli erano
rimasti in bocca, si mise a sedere. Ammaccato e intorpidito, si trascinò
piano piano all'indietro, finché non raggiunse la porta. Ci volle un po' di
tempo, ma il sollievo di avere qualcosa di duro dietro le spalle e la schiena
fu immenso. Con pazienza, riuscì ad alzarsi, la testa toccava quasi il soffit-
to. Picchiò alla porta. Il legno scricchiolò e si piegò, ma la porta era sbarra-
ta dall'esterno e non si aprì.
Simeon non aveva idea di dove si trovasse, se ancora nei pressi di Car-
cassonne oppure molto più lontano. Aveva un vago ricordo di essere stato
trasportato in groppa a un cavallo per il bosco e in seguito nella pianura.
Dal poco che sapeva del territorio, ipotizzò di trovarsi da qualche parte nei
dintorni di Trèbes.
Dalla fessura sotto la porta filtrava un fascio di luce bluastra, non era an-
cora il nero pece della notte. Premette l'orecchio contro il suolo e sentì i
rapitori mormorare nelle vicinanze.
Aspettavano l'arrivo di una persona. Il pensiero lo fece rabbrividire, poi-
ché quello provava, sebbene non ce ne fosse bisogno, che non si trattava di
un agguato casuale.
Simeon strisciò di nuovo in fondo alla stalla. Mentre il tempo passava,
sonnecchiò accasciato su un fianco, svegliandosi di soprassalto ogni tanto
per poi scivolare di nuovo nel sonno.
Fu svegliato da qualcuno che gridava. In pochi secondi aveva già i nervi
a fior di pelle. Sentì il rumore degli uomini che si alzavano in modo sgra-
ziato, poi un tonfo quando la robusta sbarra di legno che bloccava la porta
fu rimossa.
Sulla soglia apparvero tre individui, o meglio tre sagome indistinte con-
tro l'accecante luce del sole. Simeon strizzò gli occhi, non riusciva a vede-
re granché.
«Où est-il? Dov'è?»
Qualcuno parlò con raffinato accento del nord, in modo freddo e peren-
torio. Ci fu un attimo di esitazione. Alzò la torcia e illuminò Simeon, che
aveva gli occhi socchiusi nell'oscurità. «Portatelo qui.»
Simeon non ebbe nemmeno il tempo di riconoscere il capo dei rapitori,
che fu afferrato per le braccia e costretto a inginocchiarsi davanti al france-
se.
Simeon alzò lo sguardo lentamente. L'uomo aveva il volto scarno e cru-
dele, occhi impenetrabili del colore della selce. Indossava giubba e calzoni
di buona qualità, dal tipico taglio settentrionale, che però non svelavano il
ceto o il rango.
«Dove si trova?» domandò.
Simeon alzò il capo. «Non capisco» rispose in yiddish.
Il calcio lo prese alla sprovvista. Sentì una costola incrinarsi e cadde al-
l'indietro, con le gambe ripiegate sotto di sé. Mani raspose lo afferrarono
sotto le ascelle e lo tirarono su.
«So chi sei, ebreo» disse il francese. «Non ti conviene fare questo gioco
con me. Te lo chiedo un'altra volta. Dove si trova il libro?»
Simeon alzò di nuovo il capo e non disse nulla.
Stavolta, l'uomo mirò alla faccia. Simeon sentì il dolore scoppiargli nella
testa, quando la bocca si spaccò e i denti si ruppero nella mascella. Sangue
e saliva gli bruciavano la lingua e la gola.
«Ti ho dato la caccia come a un animale, ebreo» continuò, «da Chartres
a Béziers e ora fin qui. Ti ho stanato come una preda. Mi hai fatto perdere
un mucchio di tempo. La mia pazienza si è quasi esaurita.» Fece un passo
avanti e Simeon poté vedere l'odio negli occhi grigi e imperscrutabili. «Per
l'ennesima volta: dov'è il libro? Lo hai dato a Pelletier? C'est ça?»
Due pensieri balenarono allo stesso tempo nella mente di Simeon. Pri-
mo, che non aveva scampo. Secondo, che doveva proteggere gli amici.
Aveva ancora il potere di farlo. Aveva gli occhi tumefatti e chiazze di san-
gue intorno alle orbite.
«Ho il diritto di sapere il nome di colui che mi accusa» disse con la ma-
scella rotta. «Così potrò pregare per voi.»
L'uomo strinse gli occhi. «Mi dirai dove tieni nascosto il libro, stanne
certo.»
Fece un cenno col capo.
Gli altri due tirarono su Simeon. Gli strapparono i vestiti di dosso e lo
gettarono a faccia in giù sopra un carretto, uno gli reggeva le mani e l'altro
le gambe per tenere la schiena scoperta. Simeon udì lo schiocco del cuoio
nell'aria prima che la fibbia toccasse la pelle nuda. Si dimenò in agonia.
«Dov'è?» Simeon chiuse gli occhi mentre la cintura sferzava di nuovo l'a-
ria. «È già a Carcassonne? O ce l'hai ancora tu, ebreo?» gridava seguendo
il ritmo delle frustate. «Me lo dirai. Se non tu, lo faranno loro.»
Il sangue sgorgava dalle ferite sulla schiena. Simeon cominciò a pregare
secondo ì costumi dei propri antenati, antiche parole sacre pronunciate nel-
l'oscurità che lo distraevano dal dolore.
«Où-est-le-livre?» insistette l'uomo, una frustata per ogni parola.
Fu l'ultima cosa che Simeon udì prima di essere avvolto dalle tenebre.
CAPITOLO 49
CAPITOLO 50
CAPITOLO 51
CARCASSONNE
Giovedì, 7 luglio 2005
CAPITOLO 52
Audric Baillard era sul binario della stazione di Foix insieme a Jeanne,
in attesa del treno per Andorra.
«Dieci minuti» disse Jeanne, dopo aver guardato l'orologio. «Non è
troppo tardi. Puoi sempre cambiare idea e venire con me.»
Audric sorrise alla sua insistenza. «Sai che non posso.»
Jeanne agitò la mano insofferente. «Hai passato trent'anni a raccontare le
loro storie, Audric. Alaïs, la sorella, il padre, il marito... hai trascorso tutta
la vita in compagnia di persone morte.» Addolcì il tono. «E i vivi?»
«La mia vita è la loro vita, Jeanne» replicò con pacata dignità. «Le paro-
le sono l'unica arma che abbiamo contro le menzogne della storia. Dob-
biamo testimoniare la verità. Se non lo facciamo, coloro che amiamo mori-
ranno due volte.» Fece una pausa. «Non avrò pace finché non saprò come
è andata a finire.»
«Dopo ottocento anni? La verità potrebbe essere sepolta troppo in pro-
fondità.» Jeanne esitò. «E forse è meglio così. Alcuni segreti non devono
essere svelati.»
Baillard guardava i monti davanti a sé. «Mi rincresce di aver portato tan-
to dolore nella tua vita, lo sai.»
«Non era quello che intendevo, Audric.»
«Ma scoprire la verità e metterla per iscritto,» continuò come se non la
avesse ascoltata «è la mia ragione di vita, Jeanne.»
«Vero! Ma che mi dici dei tuoi nemici, Audric? Che cosa cercano? La
verità? Ne dubito.»
«No, infatti» ammise alla fine. «Non credo che sia quello il loro scopo.»
«E qual è, allora?» chiese con impazienza. «Sto per partire, come mi hai
consigliato di fare. Che male può esserci se me lo dici adesso?»
Baillard esitò ancora.
Jeanne non si arrese. «La Noublesso Véritable e la Noublesso de los Se-
res sono la stessa organizzazione ma con nomi diversi?»
«No» pronunciò quella parola in modo più brusco di quanto volesse.
«No.»
«E allora?»
Audric sospirò. «Noublesso de los Seres era il nome con cui erano desi-
gnati i custodi dei Codici del Graal. Per quattromila anni essi hanno svolto
tale ruolo. Finché, purtroppo, i testi non furono separati.» Fece una pausa e
scelse le parole con cura. «La Noublesso Véritable, invece, è stata creata
soltanto un secolo e mezzo fa, quando si cominciò di nuovo a capire il lin-
guaggio oscuro dei testi. La parola "Véritable", che significa custodi veri,
ossia reali, era un deliberato tentativo di conferire validità all'organizza-
zione.»
«Quindi la Noublesso de los Seres non esiste più?»
Audric scosse il capo. «Quando i Codici si dispersero, i custodi non eb-
bero più motivo di esistere.»
Jeanne aggrottò la fronte. «Ma non hanno provato a recuperare i testi
perduti?»
«All'inizio, sì» confessò, «ma senza successo. Con il passare del tempo,
diventò sempre più imprudente continuare le ricerche, c'era il rischio di sa-
crificare l'ultimo libro rimasto nel tentativo di recuperare gli altri due. Dal
momento che nessuno era in grado di decifrare i testi, il segreto non sareb-
be stato scoperto. Solo una persona...» Baillard vacillò. Sentiva gli occhi di
Jeanne puntati addosso. «L'unica persona in grado di leggerli decise di non
tramandare il proprio sapere.»
«Che cosa accadde?»
«Per centinaia di anni, nulla. Poi, nel 1798, Napoleone sbarcò in Egitto
portando al seguito eruditi e studiosi, oltre che soldati. Scoprirono i resti
delle civiltà che avevano dominato in quelle terre migliaia di anni prima.
Centinaia di manufatti, tavole sacre, pietre, furono riportate in Francia. A
quel punto, non ci volle molto tempo perché gli antichi sistemi di scrittura
- demotica, cuneiforme, geroglifica - fossero decifrati. Come sai, Jean-
François Champollion fu il primo a capire che i geroglifici andavano letti
non come ideogrammi o come simboli, bensì come segni fonetici. Nel
1822, decifrò il codice, come si dice in parole povere. Per gli antichi egizi
la scrittura era un dono degli dèi, infatti la parola "geroglifico" vuol dire
"sacra incisione".»
«Ma se i libri del Graal sono scritti nella lingua degli antichi egizi, allo-
ra...» sfumò la frase. «Se ho capito bene quello che dici, Audric...» Scrollò
la testa. «Che questa associazione chiamata Noublesso sia esistita, va bene.
Che nei Codici fosse racchiuso un antico segreto, va bene. Ma tutto il re-
sto? È inconcepibile.»
Audric sorrise. «Che c'è di meglio per custodire un segreto del celarlo
sotto un altro? Fare propri o assimilare i potenti simboli e le idee di altri è
il mezzo di sopravvivenza di una civiltà.»
«Che vuoi dire?»
«Le persone cercano la verità. Quando pensano di averla trovata, si fer-
mano, senza immaginare che sotto può celarsi qualcosa di ancora più stra-
ordinario. La storia è piena di esempi di simboli religiosi, rituali, sociali
rubati a una società per costruirne un'altra. Per esempio, il giorno in cui i
cristiani celebrano la nascita di Gesù il Nazareno, ossia il venticinque di-
cembre, in realtà è la festa di Sol Invictus, nonché il momento del solstizio
d'inverno. La croce cristiana, proprio come il Graal, è in realtà un simbolo
dell'antico Egitto, l'ankh, di cui l'imperatore Costantino si appropriò modi-
ficandolo. "In hoc signo vinces... con questo segno vincerai..." sono le pa-
role a lui attribuite, quando vide apparire in cielo un simbolo a forma di
croce. Più di recente, i seguaci del Terzo Reich hanno fatto della svastica
l'emblema del loro partito. Di fatto, essa è un antico simbolo di rinascita
indù.»
«Il labirinto» disse Jeanne, come se avesse capito.
«L'antica simbol del Miègjorn.» L'antico simbolo del Midi.
Jeanne si sedette mentre rifletteva, le mani unite sul ventre, le gambe in-
crociate all'altezza delle caviglie. «E adesso che succederà?»
«Ora che la caverna è stata aperta, è solo questione di tempo, Jeanne» ri-
spose. «Non sono l'unico a sapere queste cose.»
«Ma i monti del Sabarthès sono stati esplorati dai nazisti durante la guer-
ra» ribatté. «I nazisti a caccia del Graal sapevano che secondo la leggenda
il tesoro dei catari era sotterrato da qualche parte fra le montagne. Hanno
trascorso anni a scavare in punti di potenziale interesse esoterico. Se que-
sta caverna è tanto importante, come mai non l'hanno scoperta sessant'anni
fa?»
«Abbiamo fatto in modo che non la trovassero.»
«Tu eri lì?» chiese, la voce carica di stupore.
Baillard sorrise. «Ci sono conflitti interni alla Noublesso Veritàble»
spiegò, per tergiversare. «A capo dell'organizzazione c'è una donna di no-
me Marie-Cécile de l'Oradore. Crede nel Graal ed è decisa a riconquistar-
lo. Crede nella ricerca.» Si fermò. «Però, nell'organizzazione c'è un altro
membro.» Divenne scuro in volto. «E ha motivazioni differenti.»
«Devi parlare con l'ispettore Noubel» disse Jeanne in tono perentorio.
«E se anche lui, come ho ipotizzato, lavorasse per loro? È un rischio
troppo grande.»
Il fischio acuto del treno venne a turbare la quiete della stazione. Si vol-
tarono entrambi in direzione del convoglio che si fermava sul binario con
uno stridio di freni. La conversazione era finita.
«Non mi va di lasciarti qui da solo, Audric.»
«Lo so» fece, dandole la mano per aiutarla a salire in carrozza. «Ma è
così che deve finire.»
«Finire?»
Aprì il finestrino e gli tese la mano. «Mi raccomando, fai attenzione.
Non pretendere troppo da te stesso.»
Lungo tutto il binario le pesanti porte si richiusero sbattendo e il treno
cominciò a muoversi, prima lentamente, poi più velocemente, fino a
scomparire fra i recessi della montagna.
CAPITOLO 53
CAPITOLO 54
La piazza davanti alla cattedrale era zeppa di turisti, tutti accalcati con le
macchine fotografiche in mano, e di guide che portavano bandierine o om-
brelli colorati bene in vista. Tedeschi composti, inglesi riservati, italiani at-
traenti, giapponesi silenziosi, americani entusiasti. I bambini avevano tutti
l'aria annoiata.
A un certo punto, durante il lungo viaggio verso nord, Alice si era chie-
sta se il labirinto di Chartres l'avrebbe aiutata a scoprire qualcosa. Il nesso,
tra la caverna al Pic de Soularac, Grace e Alice stessa, sembrava davvero
ovvio, addirittura troppo. Una parte di lei aveva la sensazione di aver se-
guito una falsa pista.
In ogni caso, acquistò il biglietto e si unì a un gruppo di inglesi, che a-
vrebbe cominciato la visita cinque minuti dopo. La guida era una dinamica
signora di mezza età dai modi altezzosi e dal tono caustico.
«Agli occhi dei contemporanei, le cattedrali appaiono grigi e imponenti
luoghi di devozione e di fede. Tuttavia, in epoca medievale, erano edifici
pieni di colore, molto più simili ai templi indù dell'India o della Thailan-
dia. Le statue e i timpani che ornano i magnifici portali, a Chartres come in
ogni altra città, erano policromi.» La guida indicò l'esterno della chiesa
con l'ombrello. «Se guardate con più attenzione, potrete vedere alcuni resi-
dui di rosa, azzurro e giallo fra le crepe delle statue.»
Intorno ad Alice, tutti annuirono in modo ubbidiente.
«Nel 1194,» riprese la donna «un incendio distrusse gran parte della cit-
tà, compresa la cattedrale. Dapprima si pensò che la reliquia sacra custodi-
ta nella chiesa, la sancta camisia, ossia la veste indossata da Maria al mo-
mento della nascita di Cristo, fosse andata distrutta. Ma dopo tre giorni la
reliquia fu ritrovata, poiché era stata nascosta nella cripta dai monaci. Il
fatto fu visto come un miracolo, come segno che la cattedrale dovesse es-
sere ricostruita. L'attuale edificio fu terminato nel 1223 e consacrato nel
1260 come cattedrale dell'Assunzione di Nostra Signora, la prima in Fran-
cia a essere dedicata alla Vergine Maria.»
Alice ascoltò senza eccessiva attenzione, finché non giunsero alla faccia-
ta nord della chiesa. La guida indicò l'inquietante corteo di statue, re e re-
gine dell'Antico Testamento, scolpite sopra il portale.
Alice si sentì fremere d'impazienza.
«Questa è l'unica raffigurazione significativa dell'Antico Testamento che
possiamo trovare nella cattedrale» spiegò la guida, invitandoli ad avvici-
narsi. «Scolpita su questa colonna c'è quella che secondo molti rappresenta
l'Arca dell'Alleanza, portata via a Gerusalemme da Menelik, figlio di Sa-
lomone e della regina di Saba, nonostante gli storici affermino che la storia
di Menelik non fosse conosciuta in Europa prima del quindicesimo secolo.
E qui,» abbassò leggermente il braccio «c'è un altro mistero. Chi di voi ha
una buona vista riuscirà a intravedere il latino... HIC AMITITUR ARCHA
CEDERIS.» Si guardò intorno con un sorriso compiaciuto. «Se c'è fra voi
qualche latinista, avrà notato che l'iscrizione non ha senso. Alcune guide
interpretano ARCHA CEDERIS come "Tu lavorerai per l'Arca" e traducono
l'intera iscrizione "Qui le cose seguono il proprio corso: tu lavorerai per
l'Arca". Invece, se consideriamo CEDERIS una corruzione della parola
FOEDERIS, come molti esegeti hanno proposto, allora l'iscrizione potreb-
be essere tradotta "Qui è nascosta l'Arca dell'Alleanza".»
Lanciò uno sguardo al gruppo. «Questo portale, fra le altre cose, è uno
dei motivi per cui sono nati tanti miti e leggende intorno alla cattedrale.
Fatto insolito, non si conoscono i nomi di coloro che hanno costruito la
cattedrale di Chartres. È probabile che, per qualche ragione, non siano stati
annotati in nessun documento e che siano semplicemente andati persi. Tut-
tavia, chi è dotato di una immaginazione più fervida, per così dire, ha in-
terpretato in modo differente la mancanza di tale informazione. Secondo i
più accaniti sostenitori di leggende, la cattedrale sarebbe stata costruita dai
discendenti dei Poveri Cavalieri di Salomone, i Templari, concepita come
un libro codificato nella pietra, un gigantesco puzzle che soltanto gli ini-
ziati sono in grado di decifrare. Molti hanno ipotizzato che sepolte sotto il
labirinto un tempo ci fossero le ossa di Maria Maddalena. Altri hanno par-
lato addirittura del Santo Graal.»
«Qualcuno ha controllato?» chiese Alice, pentendosene non appena ebbe
formulato la domanda. Tutti la guardarono con aria di disapprovazione.
La guida inarcò le sopracciglia. «Ma certo. In più di una occasione. Ma
nessuno sarà sorpreso di sapere che non hanno trovato nulla. L'ennesima
leggenda.» Esitò. «Vogliamo entrare?»
A disagio, Alice seguì il gruppo fino al portale ovest e si mise in fila per
entrare nella chiesa. All'improvviso tutti abbassarono il tono di voce, ap-
pena l'inconfondibile odore di pietra e incenso creò il suo incanto. Nelle
cappelle laterali e davanti all'ingresso principale, file di tremolanti candele
votive brillavano nella penombra.
Alice si preparò ad avere qualche strana reazione, qualche visione del
passato, come le era capitato a Toulouse e a Carcassonne. Non provò nulla
e dopo un po', si rilassò e cominciò godersi la visita. Dalle ricerche che a-
veva fatto, sapeva che la cattedrale di Chartres aveva la più preziosa colle-
zione di vetrate istoriate del mondo, ma non era preparata all'abbagliante
splendore delle finestre. Un caleidoscopio di colori scintillanti inondava la
chiesa, raffigurando scene di vita quotidiana e della Bibbia. Il rosone e la
vetrata della Vergine Azzurra, quella di Noè che rappresentava il diluvio
universale e gli animali che a due a due salivano sull'arca. Mentre giron-
zolava, Alice tentava di immaginare che aspetto avesse la chiesa quando le
pareti erano affrescate e ricoperte di arazzi, di stoffe orientali e drappi di
seta ricamati di oro zecchino. A quei tempi, il contrasto fra la sontuosità
del tempio del Signore e il mondo al di là del chiostro doveva essere sor-
prendente. Testimonianza, forse, della gloria di Dio in terra.
«E infine,» fece la guida «arriviamo al famoso labirinto scolpito nel pa-
vimento di pietra e formato da undici passaggi. Terminato nel 1200, è il
più grande d'Europa. La parte centrale originale non c'è più da molto tem-
po, ma il resto è intatto. Per i cristiani del Medioevo, il labirinto rappresen-
tava l'opportunità di intraprendere un pellegrinaggio spirituale in luogo di
un effettivo viaggio a Gerusalemme. Di qui, il fatto che i labirinti incisi nei
pavimenti, al contrario di quelli che si trovano sulle pareti di chiese e cat-
tedrali, erano spesso chiamati "Chemin de Jérusalem", ovvero la strada o il
cammino per Gerusalemme. I pellegrini eseguivano tutto il percorso fino
al centro, anche più volte in alcuni casi, simbolo di una crescente intesa e
vicinanza a Dio. I penitenti spesso facevano tutto il percorso in ginocchio,
a volte impiegandoci giorni.»
Alice si avvicinò piano piano, il cuore batteva all'impazzata, solo allora
si rese conto che inconsciamente aveva rimandato quel momento mille
volte.
Questo è il momento.
Tirò un respiro profondo. La simmetria era guastata dalle file di sedie
disposte su ciascun lato della navata centrale, rivolte all'altare, per le pre-
ghiere della sera. Comunque, nonostante conoscesse le dimensioni del la-
birinto per via delle ricerche fatte, Alice restò sorpresa dalla sua grandezza.
Dominava tutta la cattedrale.
Adagio, come gli altri, Alice cominciò a camminare nel labirinto, per-
corse i cerchi che diventavano via via più piccoli, finché non raggiunse il
centro: sembrava quel gioco in cui i bambini devono ripetere tutte le azioni
del capofila.
Non sentì nulla. Nessun brivido lungo la schiena, nessun attimo di illu-
minazione né di metamorfosi. Niente. Si accovacciò e toccò il pavimento.
La pietra era liscia e fredda, ma non le diceva niente.
Alice sorrise in modo sardonico.
Che ti aspettavi?
Non ebbe nemmeno bisogno di prendere il disegno del labirinto dalla
borsa per capire che non c'era niente di interessante lì. Senza far rumore, si
separò dal gruppo e scappò via.
CAPITOLO 55
Alice si ritrovò in un maestoso atrio, più simile a un museo che a una re-
sidenza privata. Will andò dritto a un arazzo che si trovava di fronte alla
porta d'ingresso e lo scostò dalla parete.
«Che fai?»
Lo raggiunse di corsa e vide un minuscolo pomello di ottone incassato
nel rivestimento. Will lo sbatacchiò e lo spinse, quindi si voltò con aria
frustrata.
«Maledizione. È chiusa dall'interno.»
«È una porta?»
«Esatto.»
«E il labirinto che hai visto si trova lì dentro?»
Will annuì. «Si scende una rampa di scale e si percorre un corridoio, che
porta in una stanza piuttosto misteriosa. Ci sono simboli egizi sul muro e
una tomba con il disegno del labirinto, proprio come quello che hai de-
scritto tu, inciso sulla superficie. Adesso...» si interruppe. «L'articolo sul
giornale, il fatto che la tua amica avesse questo indirizzo...»
«Stai facendo un mucchio di congetture basate sul nulla» osservò Alice.
Will lasciò cadere il lembo dell'arazzo e si avviò in una stanza dalla par-
te opposta dell'ingresso. Dopo un istante di esitazione, Alice lo seguì.
«Cosa fai?» sibilò quando Will aprì la porta.
Entrare nella biblioteca fu come fare un tuffo nel passato. Era una stanza
austera, con l'aspetto di un circolo per soli uomini. Le persiane erano semi-
chiuse e sottili fasci di luce gialla si proiettavano sulla moquette simili a
strisce di stoffa dorata. C'era un'atmosfera di durevolezza, un odore di vec-
chio e di cera per mobili.
Gli scaffali andavano dal soffitto fino a terra lungo tre lati della stanza,
con scalette scorrevoli che consentivano di arrivare ai libri più alti. Will
sapeva esattamente dove dirigersi. C'era una sezione dedicata ai testi su
Chartres, volumi illustrati che erano collocati accanto a più seri saggi di
architettura e storia sociale.
Mentre controllava ansiosa la porta, con il cuore in gola, Alice osservò
Will tirare fuori un libro con uno stemma gentilizio stampato in rilievo sul-
la copertina e portarlo sul tavolo. Alle sue spalle, Alice lo guardò sfogliare
le pagine. Lucide fotografie a colori, vecchie mappe di Chartres, disegni al
tratto e a inchiostro si susseguirono finché Will non raggiunse la parte che
gli interessava.
«Che cos'è?»
«Un libro su casa de l'Oradore. Questa casa» spiegò. «La famiglia vive
qui da quattrocento anni, da quando è stata costruita. Ci sono planimetrie e
prospetti di ogni piano della casa.»
Will diede una scorsa alle pagine fino a quando non arrivò a quella che
cercava, «Ecco» esclamò, girando il libro per farlo vedere meglio ad Alice.
«È questo?»
Alice restò senza fiato. «Oh, Dio» sussurrò.
Era la copia esatta del suo labirinto.
CAPITOLO 56
CARCASSONA
Agost 1209
All'alba di lunedì tre agosto, i francesi attaccarono Sant-Vicens,
Alaïs si arrampicò sulle scale della Tour du Major per raggiungere il pa-
dre e osservare lo scontro dagli spalti merlati. Cercò Guilhem nella mi-
schia, ma non riuscì a vederlo.
In quel momento, sopra al clangore delle spade e alle grida di guerra dei
soldati che assaltavano le basse mura difensive, le sembrò di sentire un
canto venire dalla collina di Gravèta.
Thierry era stato portato nella Sala Grande insieme ai feriti più gravi. Le
file di uomini moribondi o feriti erano tre. Alaïs e le altre donne fecero ciò
che potevano. Con i capelli legati in una treccia sopra la spalla, sembrava
poco più che una bambina.
Mentre le ore passavano, l'aria in quella stanza chiusa diventava sempre
più viziata e le mosche più numerose. Per la maggior parte del tempo, Ala-
ïs e le compagne lavorarono in silenzio e con salda determinazione, poiché
sapevano che la tregua prima dell'attacco successivo sarebbe durata poco. I
preti camminavano fra le file di soldati feriti e morenti, ascoltavano le con-
fessioni, davano l'estrema unzione. Travestiti da preti cattolici, due parfaits
amministravano il consolament ai credenti catari.
Le ferite di Thierry erano profonde. Era stato colpito più volte. La cavi-
glia era rotta e una lancia gli aveva perforato la coscia, frantumando l'osso
all'interno. Alaïs sapeva che aveva perso troppo sangue, ma per amore di
Guilhem, fece tutto il possibile. Riscaldò un decotto di radici e foglie di
consolida nella cera bollente e, quando si fu raffreddato, ne fece un impac-
co.
Lasciò Guilhem a vegliarlo e rivolse l'attenzione a coloro che avevano
maggiori possibilità di sopravvivere. Sciolse radici di angelica in polvere
nell'acqua di cardo e con l'aiuto degli sguatteri della cucina, che portavano
il liquido nei secchi, somministrò la medicina a chiunque fosse in grado di
ingoiarla. Se riusciva a frenare l'infezione e a mantenere puro il sangue, le
ferite forse sarebbero guarite.
Tornava da Thierry ogni volta che poteva, per cambiare le bende, ma era
evidente che non aveva speranze. Aveva perso conoscenza e la pelle aveva
preso il pallore livido della morte. Posò la mano sulla spalla di Guilhem.
«Mi dispiace» sussurrò. «Non resisterà ancora per molto.»
Guilhem si limitò ad annuire.
Alaïs si fece strada verso l'altro capo della sala. Quando la vide passare,
un giovane chevalier, di poco più grande di lei, urlò. Alaïs si fermò e si in-
ginocchiò accanto al ragazzo. Il volto del fanciullo era disfatto dal dolore e
dalla confusione, le labbra erano screpolate e gli occhi, che dovevano esse-
re marroni, erano tormentati dalla paura.
«Sss» mormorò. «Non hai nessuno?»
Il ragazzo scosse il capo con fatica. Alaïs gli posò la mano sulla fronte e
sollevò il telo con cui gli avevano coperto il braccio che teneva lo scudo.
Lo lasciò cadere immediatamente. La spalla del ragazzo era spappolata.
Frammenti bianchi di osso sporgevano dalla pelle lacerata, come relitti
nella bassa marea. Aveva uno squarcio sul fianco. Il sangue sgorgava in-
cessantemente dalla ferita e creava una pozza intorno a lui.
La mano destra era immobile sull'impugnatura della spada. Alaïs cercò
di fargli lasciare la presa, ma le dita rigide non la mollarono. Strappò un
brandello di stoffa dalla gonna e tamponò la profonda ferita. Da una fiala
che aveva nella borsa, prese una tintura di valeriana e ne lasciò cadere due
gocce sulle labbra del ragazzo, per alleviare il dolore del trapasso. Non c'e-
ra altro da fare.
La morte fu crudele. Arrivò a poco a poco. Un po' alla volta, il rantolo
nel petto divenne più forte, a mano a mano che il respiro si faceva più af-
fannoso. Quando gli si scurì la vista, il ragazzo urlò in preda al terrore. A-
laïs restò con lui, cantò e gli accarezzò la fronte finché l'anima non abban-
donò il corpo,
«Possa Dio accogliere la tua anima» sussurrò e chiuse gli occhi al gio-
vane chevalier. Gli coprì il volto e passò altrove.
Alaïs lavorò tutto il giorno, spalmò unguenti e medicò ferite finché non
ebbe gli occhi che bruciavano e le mani striate di sangue. Alla fine della
giornata, la luce della sera filtrò attraverso le alte finestre della Sala Gran-
de. I morti erano stati portati via, I vivi stavano bene, per quanto le ferite lo
permettessero.
Era sfinita, ma il ricordo della notte precedente, trascorsa di nuovo fra le
braccia di Guilhem, le dava forza. Le facevano male le ossa e aveva la
schiena indolenzita per essere stata sempre chinata o accovacciata, ma le
sembrava che ormai non avesse più importanza.
Approfittando della frenetica attività nello Château Comtal, Oriane sgat-
taiolò in camera sua e aspettò il suo informatore.
«Era ora» scattò. «Dimmi cos'hai scoperto.»
«L'ebreo è morto prima che riuscissimo a sapere qualcosa, ma il mio si-
gnore è convinto che abbia già consegnato il libro in custodia a vostro pa-
dre.»
Oriane accennò un sorriso, ma non disse nulla. Non aveva confidato a
nessuno cosa aveva trovato cucito nella mantella di Alaïs.
«Che mi dici di Esclarmonde de Servian?»
«È stata coraggiosa, ma alla fine ha confessato dove potevo trovare il li-
bro.»
Gli occhi verdi di Oriane si illuminarono. «E lo hai portato?»
«Non ancora.»
«Ma si trova dentro la Ciutat? Il signor Evreux lo sa?»
«Confida che voi, signora, gli forniate tale informazione.»
Oriane ci pensò un secondo. «La vecchia è morta? E il ragazzo? Può an-
cora interferire con i nostri piani? Può avvisare mio padre?»
L'informatore fece un sorriso tirato. «La donna è morta. Il marmocchio
ci è sfuggito, ma in ogni caso non credo che potrà fare grossi danni. Appe-
na lo trovo, lo ammazzo.»
Oriane annuì. «E hai detto al signor Evreux del mio... interesse?»
«Sì, Signora. Si è sentito onorato dalla vostra disponibilità.»
«E le mie condizioni? Mi assicurerà un'uscita sicura dalla Ciutat?»
«Sì, a patto che gli consegniate i libri, signora.»
Oriane si alzò e cominciò a camminare. «Bene, molto bene. Puoi occu-
parti tu di mio marito?»
«Senza problemi, signora, basta che mi diciate dove lo troverò all'ora
prestabilita.» Esitò. «Le costerà qualcosa in più rispetto all'altra volta, pe-
rò. I rischi sono molto più alti, persino in questo trambusto. È l'escrivan
del visconte Trencavel. Un uomo di un certo rango.»
«Lo so benissimo» replicò con voce gelida. «Quanto?»
«Tre volte quello che ha pagato per Raoul» rispose,
«È assurdo!» esclamò subito. «Non riuscirò mai a mettere le mani su
una tale somma di denaro.»
«Purtroppo, signora, questo è il prezzo.»
«E il libro?»
Stavolta, l'uomo sorrise sul serio. «Per quello, vi sono delle trattative a
parte, signora» disse.
CAPITOLO 57
CAPITOLO 58
Per volere del visconte Trencavel, erano stati allestiti dei tavoli nella Sa-
la Grande. Il visconte e dama Agnès passavano fra essi per ringraziare gli
uomini del servizio che avevano reso e che avrebbero continuato a presta-
re.
Pelletier iniziava a sentirsi sempre peggio. La stanza era piena degli odo-
ri di cera bruciata, sudore, cibo freddo e birra calda. Non pensava di poter
resistere ancora per molto. I dolori all'addome si erano fatti più acuti e fre-
quenti.
Si sforzò di restare in piedi, ma a un tratto le gambe cedettero. Si appog-
giò al tavolo per sorreggersi e cadde in avanti facendo volare per aria piat-
ti, coppe e ossi. Era come se un animale selvaggio gli stesse rosicchiando
lo stomaco.
Il visconte Trencavel si voltò di scatto. Qualcuno si mise a gridare. Pel-
letier sentì i servi che accorrevano in suo aiuto e qualcuno che chiamava
Alaïs.
Sentì mani che lo afferravano e lo portavano verso la porta. Vide appari-
re e scomparire in un baleno il volto di François. Gli parve di udire la voce
di Alaïs che dava ordini, ma la voce sembrava arrivare da molto lontano e
parlare in una lingua sconosciuta.
«Alaïs» gridò e cercò disperatamente la mano della figlia nell'oscurità.
«Sono qui. Vi portiamo nella vostra camera.»
Sentì possenti braccia sollevarlo e l'aria della sera sulla faccia mentre lo
portavano attraverso la Cour d'Honneur e poi su per le scale. Le cose non
migliorarono molto. Gli spasmi aumentavano, divenivano sempre più vio-
lenti. Sentiva il morbo diffondersi nel corpo, infettare il sangue e il respiro.
«Alaïs...» sussurrò, stavolta preso dalla paura.
Non appena ebbero raggiunto la camera del padre, Alaïs mandò Rixende
a cercare François e a prendere dalla sua stanza le medicine che le occor-
revano. Spedì altri due servitori nelle cucine a prendere acqua preziosa.
Fece sdraiare il padre sul letto. Gli tolse i vestiti macchiati e li ammuc-
chiò per farli bruciare. Il morbo sembrava filtrare attraverso i pori della
pelle. Gli attacchi di diarrea si erano fatti più frequenti e dolorosi, caratte-
rizzati per lo più da sangue e pus. Alaïs ordinò di bruciare erbe e fiori per
mascherare l'odore, ma nessuna quantità di lavanda o di rosmarino avrebbe
potuto nascondere la realtà delle sue condizioni.
Rixende arrivò presto con gli ingredienti e aiutò Alaïs a mischiare rossi
mirtilli secchi con acqua bollente per crearne un impasto fluido. Dopo a-
verlo spogliato degli indumenti infetti e averlo coperto con un sottile len-
zuolo pulito, Alaïs accostò alle labbra pallide del padre un cucchiaio del
liquido ottenuto.
Il moribondo ne ingoiò un primo sorso e lo vomitò un secondo dopo.
Provò di nuovo. Stavolta riuscì a ingerirlo, anche se gli costò molta fatica e
fu scosso dà altri spasmi.
Il tempo non contava più, non passava né veloce né lento, mentre Alaïs
cercava di ritardare il propagarsi dell'infezione. A mezzanotte, il visconte
Trencavel entrò nella stanza.
«Ci sono novità, signora?»
«Sta molto male, messire.»
«Avete bisogno di qualcosa? Dottori, medicine?»
«Un altro po' d'acqua, se si può avere. Ho mandato Rixende a cercare
François già da un pezzo, ma non è ancora arrivato.»
«Sarà fatto.»
Trencavel lanciò uno sguardo al letto stando dietro ad Alaïs. «Come mai
la malattia si è estesa tanto in fretta?»
«È difficile dire perché tale flagello colpisce in modo così grave una
persona e ne risparmia un'altra, messire. La salute di mio padre si è molto
indebolita dopo il periodo trascorso in Tetra Santa. È particolarmente in-
cline ai disturbi di stomaco.» Esitò. «Preghiamo Dio che non si trasmetta
in tutto il corpo.»
«È sicuro che si tratti di una malattia infettiva?» chiese con voce cupa.
Alaïs rispose di sì con un cenno del capo.
«Sono addolorato. Mandatemi a chiamare qualora le sue condizioni do-
vessero cambiare.»
Mentre le ore trascorrevano lente, la vita del padre rimaneva sospesa a
un filo. Aveva momenti di lucidità, in cui pareva rendersi conto di quanto
gli stesse accadendo. In altri momenti sembrava che non sapesse più chi
fosse né dove si trovasse.
Poco prima dell'alba, il respiro di Pelletier si fece più corto. Alaïs, che
sonnecchiava accanto a lui, avvertì il cambiamento e subito si allarmò.
«Filha...»
Gli toccò le mani e la fronte e capì che non ci avrebbe impiegato molto
ad andarsene. La febbre era scesa, la pelle adesso era gelida.
La sua anima lotta per la libertà.
«Aiutami...» disse con fatica «...a sedermi.»
Con l'aiuto di Rixende, Alaïs riuscì a sollevarlo. La malattia lo aveva in-
vecchiato nel giro di una sola notte.
«Non parlate» sussurrò. «Non dovete sforzarvi.»
«Alaïs» la ammonì con dolcezza. «Il mio momento è arrivato.» Il respiro
affannoso produceva un rantolo nel petto. Gli occhi erano vacui e cerchiati
di giallo, chiazze marroni si andavano formando sulla pelle delle mani e
del collo. «Puoi mandare a chiamare un parfait?» Si sforzò di aprire gli
occhi. «Vorrei fare una bella morte.»
«Volete essere consolato, paire?» chiese con cautela.
Pelletier accennò un sorriso e per un istante le sembrò di vedere l'uomo
di sempre.
«Ho ascoltato con attenzione le prediche dei bons chrétiens. Ho impara-
to le parole del melhorer e del consolament...» Si interruppe. «Sono nato
cristiano e morirò come tale, ma non fra le braccia di chi fa guerra in nome
del Signore davanti ai nostri cancelli. Con grazia di Dio, se ho vissuto co-
me si deve, raggiungerò le gloriose anime del paradiso.»
Fu scosso da un attacco di tosse. Alaïs si guardò attorno disperata. Man-
dò un servo ad avvisare il visconte che le condizioni del padre si erano ag-
gravate. Appena questi partì, chiamò Rixende.
«Devi portare qui i parfaits. Prima erano nella corte. Dì loro che una
persona vorrebbe ricevere il consolament.»
Rixende sembrò terrorizzata.
«Non ti cadrà addosso nessuna colpa se recapiterai il messaggio» disse
per rassicurare la ragazza. «Non sei obbligata a venire con loro.»
Un movimento del padre attirò di nuovo la sua attenzione verso il letto.
«Sbrigati, Rixende. Fai presto.»
Alaïs si chinò. «Cosa c'è, paire? Sono qui con voi.»
Cercava di parlare, ma sembrava che le parole si spegnessero in gola
prima che potesse pronunciarle. Gli versò qualche goccia di vino in bocca
e gli passò un panno bagnato sulle labbra secche.
«Il Graal è la parola di Dio, Alaïs. È questo che Harif ha cercato di inse-
gnarmi, anche se io non lo comprendevo.» La voce usciva a tratti. «Ma
senza il merel... la verità del labirinto. È la strada sbagliata.»
«Che volete dire del merel?» sussurrò impaziente, poiché non capiva.
«Avevi ragione tu, Alaïs. Sono stato troppo ostinato. Avrei dovuto la-
sciarti andare quando ce n'era ancora la possibilità.»
Alaïs si sforzava di trovare un senso a quel discorso sconclusionato.
«Quale strada?»
«Io non l'ho mai vista,» mormorò «e mai la vedrò. La caverna... in pochi
l'hanno veduta.»
Alaïs si voltò di colpo verso la porta, in preda alla disperazione.
Che fine ha fatto Rixende?
Sentì qualcuno arrivare di corsa per il corridoio. Era Rixende, seguita da
due parfaits. Alaïs riconobbe uno dei due, un uomo scuro con la barba fol-
ta e l'aria cordiale che aveva incontrato una volta a casa di Esclarmonde.
Indossavano entrambi una tunica blu scuro e una cintura fatta di corda in-
trecciata e fissata da una fibbia a forma di pesce.
Il parfait si inchinò. «Dama Alaïs.» Lanciò uno sguardo al letto. «È vo-
stro padre, l'intendente Pelletier, che ha bisogno della consolazione?»
Alaïs annuì.
«Ce la fa a parlare?»
«Troverà la forza per farlo.»
Ci fu di nuovo scompiglio nel corridoio e subito dopo il visconte Tren-
cavel apparve sulla soglia.
«Messire...» disse Alaïs allarmata. «Mi ha chiesto mio padre di chiamare
i parfaits... desidera fare una buona fine, messire.»
Lo stupore balenò nello sguardo del visconte, che ordinò di chiudere la
porta.
«Non mi interessa» commentò. «Voglio restare.»
Alaïs lo fissò un istante, quindi si voltò verso il padre quando il parfait
officiante la chiamò.
«L'intendente Pelletier soffre molto, ma la mente è ancora lucida e il co-
raggio non lo ha abbandonato.» Alaïs annuì. «Ha fatto qualcosa che abbia
arrecato danno alla nostra chiesa o che lo abbia indebitato verso di noi?»
«È un protettore di tutti i figli di Dio.»
Alaïs e Raymond-Roger si fecero da parte quando il parfait si accostò al
letto e si chinò accanto al moribondo. Gli occhi di Bertrand tremolavano
mentre il prete sussurrava il melhorer, la benedizione.
«Giuri di rispettare la regola della giustizia e della verità e di consegnarti
a Dio e alla chiesa dei bons chrétiens?»
Pelletier si sforzò di pronunciare le parole: «Lo...giuro».
Il parfait gli appoggiò una copia del Nuovo Testamento sulla testa. «Che
Dio ti benedica, faccia di te un buon cristiano e ti conduca alla vita eter-
na.» Recitò il Benedicté e tre volte l'Adoremus.
Alaïs rimase colpita dalla semplicità del rito, Il visconte Trencavel guar-
dava dritto davanti a sé. Sembrava stesse compiendo un enorme sforzo di
volontà per mantenere il controllo.
«Bertrand Pelletier, sei pronto a ricevere la preghiera che il Signore ci ha
donato?»
Il padre assentì con un mormorio.
Con voce chiara e intonata, il parfait recitò sette Paternoster, fer-
mandosi solo per consentire a Pelletier di rispondere.
«Questa è la preghiera che Gesù Cristo ha portato nel mondo e ha inse-
gnato ai bons homes. Non mangiare né bere senza prima averla recitata; se
mancherai al tuo dovere, dovrai fare penitenza di nuovo.»
Pelletier annuì con fatica. Il cupo fischio nel petto era diventato più acu-
to adesso, ricordava il fruscio delle foglie secche.
Il parfait iniziò a leggere il vangelo di Giovanni.
«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio.» Pelletier scuoteva le mani sulle coperte
mentre il parfait continuava a leggere. «Conoscerete la verità e la verità vi
farà liberi.»
Pelletier spalancò gli occhi all'improvviso. «Vertat» sussurrò. «Sì, la ve-
rità.»
Alaïs afferrò preoccupata la mano di suo padre. Stava morendo. Non a-
veva più luce negli occhi. Si accorse che il parfait parlava più veloce ades-
so, quasi temesse di non avere il tempo sufficiente per terminare il rituale.
«Deve pronunciare le parole finali» disse sollecito ad Alaïs. «Aiutatelo.»
«Paire, dovete...» Il dolore le spezzò la voce.
«Per tutti i peccati... che ho commesso... in parole o opere,» disse Pelle-
tier con voce roca «io... io chiedo perdono a Dio e alla chiesa... e a tutti co-
loro qui presenti.»
Con evidente sollievo, il parfait gli mise le mani sul capo e gli diede il
bacio della pace. Alaïs trattenne il respiro. Un'espressione distesa aveva
trasformato il volto del padre mentre la grazia del consolament discendeva
su di lui. Fu un momento di trascendenza, di illuminazione. La sua anima
ormai era pronta a lasciare il corpo malato e la terra che l'avevano ospitata.
«La sua anima è pronta» comunicò il parfait.
Alaïs annuì. Si sedette sul letto e strinse la mano al padre. Il visconte
Trencavel era dall'altro lato del capezzale. Pelletier era quasi del tutto in-
cosciente, ma sembrava che in qualche modo avvertisse la loro presenza.
«Messire?»
«Sono qui Bertrand.»
«Carcassona non deve cadere.»
«Ti dò la mia parola, in nome dell'affetto e della devozione che ci hanno
legato per tutti questi anni, che farò tutto il possibile.»
Pelletier tentò di alzare una mano dalla coperta. «È stato un onore ser-
virvi.»
Alaïs vide che il visconte aveva gli occhi pieni di lacrime. «Sono io che
devo ringraziarti, amico mio.»
Pelletier cercò di sollevare la testa. «Alaïs?»
«Sono qui padre» disse pronta. Il colore ormai aveva abbandonato il vol-
to di Pelletier. La pelle formava grigie pieghe sotto gli occhi. «Nessun uo-
mo ha mai avuto una figlia come te.»
Sembrò trarre un sospiro quando la vita lasciò il suo corpo. A un tratto,
scese il silenzio.
Per un istante Alaïs restò immobile, senza respirare né reagire in alcun
modo. Dopo poco, un feroce impeto di dolore si impossessò di lei fino a
farla scoppiare in un pianto disperato.
CAPITOLO 59
Oriane non provava alcun sentimento. Alla luce fioca delle candele, sta-
va ai piedi del catafalco e osservava la salma del padre.
Dopo aver ordinato ai presenti di ritirarsi, si chinò come per baciare la
testa del defunto. Accostò la mano a quella del padre e sfilò dal pollice l'a-
nello con il labirinto, stentava a credere che Alaïs fosse stata tanto stupida
da lasciarglielo al dito.
Si drizzò e lo fece scivolare in tasca. Risistemò il sudario, si inginocchiò
davanti all'altare e, dopo essersi fatta il segno della croce, uscì in cerca di
François.
CAPITOLO 60
Alaïs mise un piede sulla panca e salì sopra il davanzale, le girava la te-
sta al pensiero di quello che stava per fare.
Cadrai.
Che importava ormai se fosse caduta? Il padre era morto. Guilhem l'ave-
va tradita. In fin dei conti, il giudizio del padre nei confronti del marito si
era dimostrato esatto.
Che altro c'è da perdere?
Tirò un respiro profondo, si calò con cautela dal davanzale finché non
toccò le tegole con il piede destro. Dopo aver mormorato una preghiera, al-
lungò braccia e gambe e si lasciò andare. Atterrò con un lieve tonfo. Le
scivolarono i piedi. Perse l'equilibrio e slittò sulle tegole, mentre cercava
disperatamente un appiglio. Una crepa nel tetto, una fessura nel muro,
qualsiasi cosa le impedisse di precipitare.
Il momento della caduta le sembrò eterno. All'improvviso, dopo un vio-
lento sobbalzo si arrestò in modo brusco. L'orlo della mantella si era impi-
gliato in un chiodo e la teneva sospesa. Restò del tutto ferma, non osava
muoversi. Sentiva la stoffa allungarsi. Era di buona qualità, ma era tesa
come una corda di violino e poteva strapparsi da un momento all'altro.
Alaïs alzò lo sguardo verso il chiodo. Anche se fosse riuscita ad arrivare
tanto in alto, avrebbe dovuto usare entrambe le mani per districare la stoffa
che si era arrotolata più volte intorno allo spuntone di ferro. Non poteva ri-
schiare di cadere. L'unica speranza era lasciare la mantella e cercare di ar-
rampicarsi di nuovo sul tetto, che sul lato ovest era collegato alle mura e-
sterne dello Château Comtal. Pensava di riuscire a infilarsi fra le assicelle
di legno delle bertesche. Le fessure in tali opere di difesa erano strette, ma
lei era esile. Valeva la pena di tentare.
Stando attenta a non compiere movimenti bruschi, Alaïs tese il braccio
verso l'alto e tirò la stoffa finché non cominciò a lacerarsi. Poco alla volta
riuscì a strappare un quadrato di stoffa dalla mantella. Si era lasciata un
brandello di tessuto alle spalle, ma era di nuovo libera.
Alaïs sollevò un ginocchio e si diede una spinta, quindi portò su anche
l'altro. Sentiva le gocce di sudore sulle tempie e fra i seni, dove aveva ripo-
sto le pergamene. Aveva la pelle escoriata per aver strusciato contro le te-
gole ruvide.
Avanzò adagio, finché non arrivò a raggiungere le ambans.
Allungò le mani e afferrò i puntoni di legno, la cui solidità le diede con-
forto. A quel punto unì le ginocchia, in modo da essere quasi accucciata
sul tetto, e si incuneò nello spazio fra le bertesche e il muro. Lo spazio era
più stretto di quanto sperasse, profondo poco più di un palmo e largo tre
volte tanto. Alaïs distese la gamba destra, piegò la sinistra sotto di sé per
agganciarsi in modo saldo, infine passò attraverso la fessura. La borsa con
la copia delle pergamene del labirinto la rendeva impacciata e continuava a
infilarsi fra le gambe, ma lei non si arrese.
Noncurante del dolore agli arti, si mise subito in piedi e procedette con
cautela lungo la barriera. Sebbene sapesse che le sentinelle non l'avrebbero
riconsegnata a Oriane, era meglio che uscisse al più presto dallo Château
Comtal ed entrasse dentro Sant-Nasari.
Scrutò in basso per controllare che non ci fosse nessuno, poi si calò svel-
ta dalla scala fino a terra. Saltò gli ultimi pioli; quando atterrò, le gambe
vacillarono e cadde di schiena, il che le tolse l'ultimo respiro che aveva.
Guardò in direzione della cappella. Non c'era traccia di Oriane, né di
François. Rasentando il muro, Alaïs entrò nella scuderia e si fermò alla po-
sta di Tatou. Aveva bisogno di dissetarsi e di dare da bere alla giumenta
tormentata dall'arsura, ma l'acqua rimasta era destinata ai cavalli da guerra.
CAPITOLO 61
CAPITOLO 62
Mentre gli ultimi raggi del sole che tramontava tingevano i muri esterni
dello Château Comtal di una vivace luce color arancio, la corte, i passaggi
pedonali e la Sala Grande erano avvolti dal silenzio. Era tutto abbandona-
to, deserto.
Alla Porte d'Aude, si era radunata una massa di gente spaventata e smar-
rita, tutti cercavano disperati di non perdere di vista i propri cari, disto-
gliendo lo sguardo dai volti sprezzanti dei soldati francesi che li fissavano
come se fossero bestie. Questi tenevano le mani poggiate sull'impugnatura
delle spade, quasi non aspettassero altro che una scusa.
Alaïs sperava che il travestimento fosse efficace. Avanzava attaccata al-
l'uomo che aveva davanti strusciando i piedi, ai quali portava stivali ma-
schili di diverse misure in più. Aveva delle cinghie che le appiattivano il
seno e nascondevano i libri e le pergamene. Con i calzoni, la camicia e un
comunissimo cappello di paglia, aveva l'aspetto di un ragazzo qualunque.
In bocca aveva dei sassolini che le deformavano il viso, si era tagliata i ca-
pelli e li aveva cosparsi di fango per scurirli.
La folla avanzava. Alaïs teneva gli occhi bassi, per timore di incrociare
lo sguardo di qualcuno che poteva riconoscerla e smascherarla. A mano a
mano che si avvicinava al cancello, la fiumana si stringeva in fila indiana.
Di guardia c'erano quattro crociati dall'aria annoiata e stizzita. Fermavano
la gente e la costringevano a spogliarsi per dimostrare che non portassero
nulla nascosto sotto i vestiti.
Alaïs vide che le guardie avevano fermato la lettiga di Esclarmonde. Ga-
ston, con un fazzoletto attaccato alla bocca, spiegava che la madre era mol-
to malata. Il soldato scostò la tenda e indietreggiò subito. Alaïs sorrise sot-
to i baffi. Aveva cucito della carne putrida in un budello di maiale e lo a-
veva legato al piede di Esclarmonde con delle bende sporche e insanguina-
te.
La guardia fece cenno di passare.
Diverse famiglie la separavano da Sajhë, che viaggiava insieme a Sénher
e Na Couza e i loro sei figli, che avevano il loro stesso colorito. Anche lui
si era scurito i capelli con il fango. L'unica cosa su cui non poteva barare
erano gli occhi, perciò gli era stato ordinato di non alzare mai lo sguardo a
meno che non potesse farne a meno.
La fila avanzò ancora.
Tocca a me.
Erano d'accordo che se qualcuno le parlava lei avrebbe fatto finta di non
capire.
«Toi! Paysan. Qu'est-ce que tu portes là?»
Tenne la testa bassa e resistette alla tentazione di toccare le cinghie che
aveva intorno al busto.
«Eh, toi!»
La lancia squarciò l'aria e Alaïs si preparò a ricevere un colpo che non
arrivò. Invece, la ragazza davanti a lei cadde a terra. Annaspò nel terreno
per recuperare il cappello. Alzò il viso impaurita verso il suo accusatore.
«Canhòt.»
«Che dice?» borbottò la guardia. «Non capisco un accidente di quello
che dicono.»
«Chien. Ha un cucciolo.»
Prima che qualcuno potesse rendersene conto, il soldato le aveva strap-
pato il cane dalle mani e lo aveva infilzato con la lancia. Il sangue schizzò
sul vestito della ragazza.
«Allez! Vite.»
La poverina era troppo sconvolta per muoversi. Alaïs la aiutò a rialzarsi
e la incoraggiò a camminare, la condusse fuori dal cancello, sforzandosi di
non cedere all'istinto di voltarsi per controllare Sajhë.
Adesso li vedo.
Sulla collina di fronte al cancello c'erano i baroni francesi. Non erano i
condottieri, che secondo Alaïs avrebbero aspettato che l'evacuazione fosse
terminata prima di fare il loro ingresso a Carcassonne, ma cavalieri che
portavano i vessilli di Borgogna, Nevers e Chartres.
Alla fine della fila, più vicino al sentiero, un uomo alto e smilzo era in
sella a un possente stallone grigio. Nonostante la lunga estate del sud, ave-
va ancora la pelle bianca come il latte. Accanto a lui vide François. Al suo
fianco, Alaïs riconobbe il familiare vestito carminio di Oriane.
Ma non scorse Guilhem.
Continua a camminare, tieni lo sguardo a terra.
Era così vicina ormai che sentiva l'odore di cuoio delle selle e delle bri-
glie. Sembrava che lo sguardo di Oriane si imprimesse a fuoco su di lei.
Un uomo anziano, dall'aria triste e tormentata, le diede un colpetto sul
braccio. Aveva bisogno di aiuto per salire il ripido pendio. Alaïs gli offrì la
spalla. Era il colpo di fortuna che le serviva. Agli occhi di tutti apparivano
come nonno e nipote e in quel modo riuscì a passare sotto il naso di Oriane
senza essere riconosciuta.
Il tragitto sembrò eterno. Alla fine, raggiunsero la zona erbosa dall'altra
parte della collina, dove il terreno era piano e iniziavano i boschi e le palu-
di. Dopo che il suo compagno si fu riunito al figlio e alla nuora, Alaïs si
separò dalla massa e si intrufolò fra gli alberi.
Non appena fu al riparo, sputò i sassolini che aveva in bocca. Aveva l'in-
terno delle guance escoriato e secco. Si strofinò la mascella, cercando di
alleviare il fastidio. Si tolse il cappello e passò le dita fra i capelli a spazzo-
la. Sembravano paglia umida, erano ispidi e fastidiosi sulla nuca.
Un urlo nei pressi del cancello attirò la sua attenzione.
No, ti prego. Dimmi di no.
Un soldato aveva afferrato Sajhë per la collottola. Lo vide scalciare nel
tentativo di liberarsi. Teneva in mano qualcosa. Una piccola scatola.
Alaïs ebbe un tuffo al cuore. Non poteva rischiare di tornare indietro,
non era in grado di fare nulla. Na Couza discuteva con il soldato, che la
picchiò sulla testa e la fece cadere. Sajhë colse l'occasione. Si divincolò
dalla presa dell'uomo e si precipitò giù per la collina. Sénher Couza aiutò
la moglie a rialzarsi.
Alaïs trattenne il respiro. Per un attimo sembrò che tutto fosse a posto. Il
soldato aveva perso interesse. Ma a un tratto Alaïs sentì gridare una donna.
Oriane urlava e indicava Sajhë, ordinando alle guardie di acciuffarlo. Lo
ha riconosciuto.
Sajhë non era certo Alaïs, ma era sempre qualcosa. Ci fu un improvviso
fermento. Due soldati si avviarono giù per la collina alle calcagna di Sajhë,
ma lui era più veloce, scattante ed esperto di loro. Appesantiti dalle armi e
dalle armature, non potevano competere con un ragazzino di undici anni.
Alaïs lo incitò in silenzio, lo osservò sfrecciare di qua e di là, saltare ed e-
vitare i fossi finché non trovò riparo nel bosco.
Quando capì che stavano per perdere le sue tracce, Oriane lo fece inse-
guire da François. Il cavallo si precipitò giù per la discesa; scivolava e
sbandava sul terreno scosceso e arido, ma guadagnava velocemente terre-
no. Sajhë si tuffò nel sottobosco, con François alle costole.
Alaïs intuì che Sajhë era diretto alla zona paludosa, dove l'Aude si dira-
mava in numerosi affluenti. Il terreno era verde e somigliava a un prato in
primavera, ma lo strato inferiore era infido. La gente del luogo ne stava al-
la larga.
Alaïs si arrampicò su un albero per vedere meglio, O François non aveva
capito dove fosse diretto Sajhë oppure non gli importava, perché continua-
va a spronare il cavallo.
Lo ha quasi raggiunto.
Sajhë inciampò e per poco non perse l'appiglio, ma continuò a correre
serpeggiando fra gli alberi e attirando il suo inseguitore fra rovi e cardi.
All'improvviso François cacciò un urlò di rabbia, che fu sostituita ben
presto dalla paura. La melma si era avvinghiata alle zampe posteriori del
cavallo e lo tirava verso il basso. L'animale nitriva e agitava le zampe di-
sperato. Ogni suo sforzo non faceva altro che accelerare la discesa nelle
sabbie mobili.
François si buttò giù dalla sella e tentò di nuotare fino al bordo del pan-
tano, ma sprofondò sempre di più, inghiottito dal fango, finché si poterono
vedere soltanto le punte delle dita.
Poi, calò il silenzio. Ad Alaïs sembrò che persino gli uccelli avessero
smesso di cantare. Preoccupata per Sajhë, si precipitò giù dall'albero e lo
vide apparire proprio in quell'istante. Aveva il viso cereo, il labbro supe-
riore che tremolava per la fatica e la scatola di legno ancora stretta fra le
mani.
«L'ho attirato nella palude» disse.
Alaïs gli mise una mano sulla spalla. «Ho visto. Sei stato molto furbo.»
«Anche lui era un traditore?»
Alaïs annuì. «Credo che fosse questo che Esclarmonde cercava di dirci.»
Torse le labbra, era contenta che il padre non avesse vissuto tanto a lungo
da scoprire che François lo aveva tradito. Scacciò quel pensiero dalla men-
te. «Ma che ti è venuto in mente, Sajhë? Perché diavolo hai portato questa
scatola? Per poco non ti uccidevano.»
«Menina mi ha detto di tenerla al sicuro.»
Sajhë distese le dita sul fondo della scatola e premette da entrambi i lati
contemporaneamente. Ci fu uno scatto secco, a quel punto Sajhë rovesciò
la scatola e mostrò un cassettino segreto. Ci infilò il dito ed estrasse un
pezzo di stoffa.
«È una mappa. Menima ha detto che ci sarebbe servita.»
Alaïs capì in un baleno. «Non ha intenzione di venire con noi» disse con
voce cupa, sforzandosi di ricacciare le lacrime che le spuntavano negli oc-
chi.
Sajhë scosse il capo.
«Ma perché non me lo ha detto?» chiese con la voce che le tremava.
«Non si fidava di me?»
«Non l'avreste lasciata andare.»
Alaïs piegò la testa all'indietro e l'appoggiò contro l'albero. Era sopraf-
fatta dall'importanza del suo compito. Senza Esclarmonde non sapeva dove
avrebbe trovato la forza di fare ciò che doveva.
Quasi le avesse letto nel pensiero, Sajhë disse: «Mi occuperò io di voi. E
non sarà per sempre. Quando avremo consegnato il Libro delle Parole ad
Harif, torneremo indietro a prenderla. Si es atal es atal». Sia quel che sia.
«Dovremmo essere tutti saggi come te.»
Sajhë arrossì. «È qui che dobbiamo andare» disse e le indicò un punto
sulla carta geografica. «Non compare su nessuna mappa, ma menina lo
chiama il villaggio di Los Seres.»
Ma certo.
Non era solo il nome dei custodi, era un posto.
«Avete capito?» fece Sajhë. «Sui monti del Sabarthès.»
Alaïs annuì. «Sì, sì» rispose. «A questo punto, credo proprio di aver ca-
pito.»
CAPITOLO 63
CAPITOLO 64
Per precauzione, cosa che avrebbe dovuto fare prima, Alice scambiò al-
l'aeroporto l'auto che aveva noleggiato con una di diverso colore e model-
lo, nel caso in cui qualcuno fosse sulle sue tracce, quindi riprese il viaggio
verso sud.
Oltrepassò Foix e proseguì in direzione di Andorra, passando per Tara-
scona, prima di seguire le indicazioni di Baillard. Lasciò la strada principa-
le a Luzenac e attraversò Lordat e Bestiac. Il paesaggio cambiò. Le fece
tornare in mente i pendii delle Alpi. Fiorellini di montagna, erba alta, case
simili a chalet svizzeri.
Superò un'irregolare cava, sembrava una gigantesca cicatrice bianca in-
cisa nel fianco della montagna. Imponenti pali dell'elettricità e grossi cavi
neri delle località turistiche invernali spiccavano nell'azzurro del cielo e-
stivo.
Alice attraversò il fiume Lauze. Fu costretta a inserire la seconda poiché
la strada si faceva più ripida e le curve più strette. Cominciava ad avere la
nausea per via degli infiniti tornanti, quando si ritrovò in un piccolo paesi-
no.
C'erano due negozi e un caffè con un paio di tavolini e sedie all'aperto.
Pensando che fosse meglio accertarsi che stesse seguendo la direzione giu-
sta, Alice entrò nel caffè. L'aria all'interno del locale era impregnata di fu-
mo e alcuni uomini ingobbiti e scontrosi, tutti con le facce distrutte dal
clima e con indosso una tuta blu da lavoro, erano allineati al bancone.
Alice ordinò un caffè e appoggiò di proposito la cartina sul bancone.
L'avversione della gente del luogo per i forestieri, soprattutto se donne, fe-
ce sì che nessuno le rivolgesse la parola per un bel po'. Alla fine però riuscì
ad attaccare bottone. Nessuno aveva mai sentito di un posto chiamato Los
Seres, ma erano pratici della zona e la aiutarono come poterono.
Alice si inerpicò ancora, a poco a poco cominciò a orientarsi. La strada
divenne un sentiero e alla fine scomparve del tutto. Alice parcheggiò e uscì
dall'auto. Soltanto allora, in quel paesaggio familiare con l'odore di monta-
gna nelle narici, capì che in realtà era tornata indietro e che si trovava esat-
tamente sulla punta estrema del Pic de Soularac.
Alice si arrampicò nel punto più alto e si riparò gli occhi con la mano.
Individuò l'étang de Tort, un laghetto dalla forma particolare a cui gli uo-
mini del bar le avevano detto di prestare attenzione. Nelle vicinanze c'era
un secondo specchio d'acqua che nella zona veniva chiamato lago del Dia-
volo.
Alla fine, guardò in direzione del Pic de Saint-Barthélémy, che si trova-
va fra il Pic de Soularac e Montségur.
Dritto davanti a lei un unico sentiero saliva tortuoso in mezzo alla verde
boscaglia, alla terra marrone e alle vivaci ginestre gialle. Le foglie verdi e
scure del bosco erano profumate e appuntite. Le toccò e strofinò la rugiada
sulla punta delle dita.
Alice salì per dieci minuti. A un certo punto, il sentiero si aprì e divenne
uno spiazzo. Era arrivata.
C'era soltanto una casa, su un unico piano, circondata da rovine, la pietra
grigia si mimetizzava con la parete rocciosa sullo sfondo. E sulla soglia
l'attendeva un uomo molto esile e vecchio, con una folta chioma bianca,
che indossava il completo chiaro della fotografia.
Alice sentiva le gambe muoversi per conto loro. Il terreno diventava
pianeggiante mentre percorreva gli ultimi metri che la separavano da lui.
Baillard la guardava in silenzio e del tutto immobile. Non sorrise né la sa-
lutò con un cenno della mano. Persino quando Alice fu a un passo da lui,
non disse e non fece nulla, ma non distolse mai lo sguardo dal suo viso.
Gli occhi erano di un colore davvero straordinario.
Ambra con pagliuzze del colore delle foglie autunnali.
Alice si fermò di fronte all'uomo. Alla fine, lui sorrise. Un sorriso che
spuntò come il sole da dietro le nuvole e trasformò i segni e le rughe sul
suo volto.
«Madomaisèla Tanner» esordì. La voce era profonda e vetusta come il
vento del deserto. «Benvenguda. Sapevo che ce l'avrebbe fatta.» Si fece da
parte per lasciarla entrare. «Prego.»
Nervosa e impacciata, Alice si chinò sotto l'architrave e varcò la soglia,
ancora colpita dall'intensità dello sguardo di quell'uomo. Era come se cer-
casse di imprimere nella memoria ogni particolare.
«Monsieur Baillard» iniziò Alice, poi si interruppe.
Non sapeva proprio cosa dire. La gioia e la meraviglia di Baillard per
averla vista arrivare, unita alla convinzione che Alice avrebbe ritrovato la
strada, rendevano impossibile qualunque normale conversazione.
«Le somiglia» disse lui sottovoce. «Nel suo viso la rivedo.»
«L'ho vista soltanto in fotografia, ma ho pensato la stessa cosa.»
Lui sorrise. «Non intendevo Grace» spiegò con dolcezza, quindi si voltò
come se avesse detto troppo. «Prego, si accomodi.»
Alice lanciò un'occhiata furtiva alla stanza e notò la mancanza di ritrova-
ti moderni. Niente luce, niente riscaldamento, nessun elettrodomestico. Si
domandò se ci fosse una cucina.
«Monsieur Baillard» riprese. «È un piacere conoscerla. Mi chiedevo...
come ha fatto a trovarmi?»
Lui sorrise di nuovo. «Che importanza ha?»
Alice ci pensò e capì che non ne aveva affatto.
«Madomaisèla Tanner, so del Pic de Soularac. Ho una domanda da farle,
prima di proseguire. Ha trovato un libro?»
Alice avrebbe voluto rispondere di sì, più di qualunque altra cosa al
mondo. «Mi dispiace» rispose e scosse il capo. «Me lo ha chiesto anche
lui, ma io