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Roberto Albanesi - Daniele Lucarelli

Guida agli integratori


alimentari
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte del libro può essere riprodotta o
diffusa con un mezzo qualsiasi, fotocopie, microfilm o altro, senza il permesso
di Thea s.r.l.

Copyright 2013 by Thea s.r.l.


Via Rotta 24 - 27020 Travacò Siccomario (PV)
Tel. 349/2689058
Sito Internet: http://www.albanesi.it

ISBN 978-88-89017-51-7

Revisione editoriale: Claudia Rastelli


Realizzazione eBook: Luca Lazzari
Sommario
Introduzione
Parte I - Principi dell’integrazione alimentare
Il buon stile di vita
Cosa sono gli integratori
Integratori e ricerca
Quando gli integratori funzionano
Quando gli integratori non funzionano
Il mercato degli integratori
Integratori e sport
Esempi di integrazione
Parte II - Le schede
ACAI
N-ACETILCISTEINA
ACETO DI MELE
ACIDI GRASSI ESSENZIALI
ACIDO CAPRILICO
ACIDO DOCOSAESAENOICO (DHA)
ACIDO EICOSAPENTAENOICO (EPA)
ACIDO FOLICO (vitamina B9)
ACIDO GAMMA-LINOLENICO (GLA)
ACIDO GLUTAMMICO
ACIDO IALURONICO
ACIDO IDROSSICITRICO (HCA)
ACIDO LINOLEICO
ACIDO LINOLENICO (acido alfa-linolenico)
ACIDO OLEICO
ACQUA KANGEN
AGLIO
AGNOCASTO
AKG (alfa-chetoglutarato)
ALA (acido alfa-lipoico)
ALANINA
ALFA-ALFA
ALGA DUNALIELLA SALINA
ALGHE KELP
ALGHE KLAMATH
ALOE VERA
ALFA-AMILASI
AMINOACIDI
AMINOACIDI RAMIFICATI
ANABOLIZZANTI
ANDROSTENEDIONE E MOLECOLE AFFINI
ANFETAMINE
ANTIOSSIDANTI E ANTIRADICALI LIBERI
ARGENTO COLLOIDALE
L-ARGININA
ARNICA
ARTIGLIO DEL DIAVOLO
L-ASPARTATO (acido aspartico)
ASTAXANTINA
ASTRAGALO
BARDANA
BETACAROTENE
BETAGLUCANI
BIANCOSPINO
BICARBONATO
BIFIDOBATTERI
BIOFLAVONOIDI
BIOTINA (vitamina B8, vitamina H)
BORO
BOSWELLIA SERRATA
BRASSICA OLERACEA
BROMELAINA (bromelina)
BUCCO
CAFFEINA
CALCIO
CANNELLA
L-CARNITINA
CARNOSINA
CAROTENOIDI
CARTILAGINE DI SQUALO
CENTELLA
CHITOSANO
CILIEGIA ACEROLA
CIMICIFUGA
L-CISTEINA
CLA (acido linoleico coniugato)
CLORELLA
CLORO (cloruro)
CLORURO DI MAGNESIO
COENZIMA Q10
COLEUS FORSKOHLII
COLINA
COLOSTRO
COMPLESSO VITAMINICO GRUPPO B
CONDROITIN SOLFATO
CORTISONICI
CREATINA
CRESPINO
CRISINA
CROMO
CURCUMA
DHEA
DIMAGRANTI DA BANCO
DOLCIFICANTI
DONG QUAI
ECHINACEA
EFEDRA (efedrina)
ELEUTEROCOCCO (ginseng siberiano)
EQUISETO
ERITROPOIETINA (EPO)
EUFRASIA
FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei)
FEGATO ESSICCATO
FENILALANINA (DL-fenilalanina e L-fenilalanina)
FENTERMINA
FERRO
FIBRE
FIENO GRECO
FITOSTEROLI
FOSFATIDILCOLINA
FOSFATIDILSERINA
FOSFOLIPIDI
FOSFORO
FRUTTO-OLIGOSACCARIDI (FOS)
FRUTTOSIO
FUNGHI SHIITAKE
GABA E MOLECOLE AFFINI
GARCINIA CAMBOGIA
GINKGO BILOBA
GINSENG
GLICEROLO
GLICINA
GLUCOMANNANO
GLUCOSAMINA
L-GLUTAMMINA
GLUTATIONE
GRIFFONIA
GUARANÀ
GUGGULSTERONE
HMB (beta-idrossi-beta-metilbutirrato)
HOODIA
IGF-1 (fattore di crescita insulino-simile 1)
INOSINA
INOSITOLO (IPS, esasolfato di inositolo)
INTEGRATORI PER IL REINTEGRO IDROSALINO E GLICIDICO
INULINA
IODIO
IPRIFLAVONE
L-ISTIDINA
LACTOBACILLI
LECITINA
LICOPENE
LIEVITO DI BIRRA
LIPASI
LIQUIRIZIA
L-LISINA
LUTEINA
MAGNESIO
MAIS ROSSO
MALTODESTRINE
MANGANESE
MANNITOLO
MCT (trigliceridi a catena media)
MELATONINA
L-METIONINA
MIRTILLO AMERICANO
MIRTILLO NERO
MSM (metilsulfonilmetano)
NADH
NANDROLONE
NESP
NOCI DI COLA
NONI
OKG (ornitina alfachetoglutarato)
OLI DI PESCE
OLIO DI BORRAGINE
OLIO DI ENOTERA
OLIO DI FEGATO DI MERLUZZO
OLIO DI SEMI DI CANAPA
OLIO DI SEMI DI LINO
ORMONE DELLA CRESCITA (GH)
L-ORNITINA
ORTICA
OSSIDO NITRICO
P.A.B.A.
PALMETTO SEGHETTATO
PAPAYA
PAPPA REALE
PARTENIO
PEPERONCINO
PICNOGENOLO
D-PINITOLO
PIRUVATO
POLIALCOLI
POLICOSANOLI
POLIFENOLI
POTASSIO
PREBIOTICI
PREGNENOLONE
PROBIOTICI
PROPOLI
PROTEINE
PSILLIO
QUERCETINA
RAME
RESVERATROLO
D-RIBOSIO
RODIOLA
ROSA CANINA
RSR-13
RUTINA
SALBUTAMOLO
SALICE BIANCO
SCHISANDRA
SCUTELLARIA
SELENIO
SERINA
SILIMARINA
SINEFRINA
SODIO
SPIRULINA
SUPEROSSIDODISMUTASI (SOD)
TAGATOSIO
TAURINA
TÈ VERDE
TESTOSTERONE
L-TIROSINA
TREONINA
TRIBULUS TERRESTRIS
TRIFOGLIO ROSSO
TRIPTOFANO
UNCARIA
VALERIANA
VANADIO
VITAMINA A
VITAMINA B1 (tiamina)
VITAMINA B2 (riboflavina)
VITAMINA B3 (niacina, niacinamide, nicotinamide)
VITAMINA B5 (acido pantotenico)
VITAMINA B6 (piridossina, piridossale, piridossamina)
VITAMINA B12 (cianocobalamina)
VITAMINA C (acido ascorbico)
VITAMINA D (ergocalciferolo, colecalciferolo)
VITAMINA E
VITAMINA K
ZEAXANTINA
ZENZERO
ZINCO
ZMA
Parte III - Appendici
Appendice A - Il metabolismo degli androgeni
Appendice B - Gli anabolizzanti e la resistenza
Appendice C - L’integrazione vitaminica
Appendice D - La soluzione nutraceutica
Appendice E - I limiti della fitoterapia
Catalogo - I best-seller di www.albanesi.it
Introduzione
I migliori libri sugli integratori provengono dal mondo medico e si orientano
alla cura e alla prevenzione di patologie; in ambito salutistico molte
informazioni sono distorte da interessi commerciali o da atteggiamenti
psicologici (lo sportivo tende a ricercare ogni mezzo che possa migliorare la
performance), cosi che è difficile trovare fonti attendibili perché oggettive.
La Guida agli integratori alimentari vuole colmare questa lacuna, fornendo
una visione attuale e concreta del mondo dell’integrazione. Il quadro che ne
deriva è sostanzialmente una limitazione notevole all’impiego di integratori
alimentari, molti dei quali sono assolutamente inutili in presenza di
un’alimentazione corretta e un buon stile di vita.
Gli Autori pensano di aver reso un buon servizio, controbilanciando
informazioni spesso troppo ottimistiche che hanno l’unico effetto di
trasformare l’attenzione per la propria salute in un atteggiamento maniacale
dove il soggetto diventa un laboratorio chimico.

Organizzazione del testo


Gli integratori sono elencati in ordine alfabetico; non vengono considerati i
prefissi che indicano la forma chimica (per esempio L-Carnitina) o le lettere
greche (tranne usi comuni, come betacarotene, in cui il prefisso si è ormai fuso
con il termine rimanente).
Non vengono trattate sostanze che hanno rilevanza nel solo campo medico,
cioè che non possono interessare la persona sana come prevenzione o come
miglioramento delle caratteristiche dell’organismo. Per approfondire l’aspetto
medico, si consiglia: PDR INTEGRATORI NUTRIZIONALI – Physician’s
Desk Reference; per approfondire l’aspetto alimentare, si consiglia: Il
manuale completo dell’alimentazione, R. Albanesi. Ed. THEA
(http://www.albanesi.it/dietaitaliana.htm).
Ricordiamo che è possibile consultare via Internet la banca mondiale delle
pubblicazioni mediche Pubmed all’indirizzo:

•• http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/
NOTA IMPORTANTE – Nelle Avvertenze che accompagnano l’uso di un
integratore è sempre implicito il consiglio che per le donne in gravidanza,
durante l’allattamento e per i bambini, l’impiego di integratori debba avvenire
sotto rigoroso controllo medico. Fra le controindicazioni occorre sempre
tenere in considerazione il fatto che ci possa essere una ipersensibilità
individuale verso la sostanza esaminata. La presente nota deve essere quindi
considerata presente in ogni scheda e nel testo viene omessa solo per motivi di
praticità.

Poiché vi sono integratori che, nell’uso comune, possono essere indicati con
più di un nome, per facilitare il lettore riportiamo nell’elenco seguente i
rimandi da utilizzare.

Acerola (vedi Ciliegia acerola)


Acesulfame (vedi Dolcificanti)
Acetil-L-carnitina (vedi L-carnitina)
Acido ascorbico (vedi Vitamina C)
Acido aspartico (vedi L-aspartato)
Acido linoleico coniugato (vedi CLA)
Acido alfa-lipoico (vedi ALA)
Acido pantotenico (vedi Vitamina B5)
Amfetamine (vedi Anfetamine)
Angelica (vedi Dong quai)
Antinfiammatori (vedi FANS)
Aspartame (vedi Dolcificanti)
Borragine (vedi Olio di borragine)
Canapa (vedi Olio di semi di canapa)
Cardo mariano (vedi Silimarina)
Cianocobalamina (vedi Vitamina B12)
Ciclamato (vedi Dolcificanti)
Citrus aurantium (vedi Dimagranti da banco, Sinefrina)
Ciwuja (vedi Eleuterococco)
Colecalciferolo (vedi vitamina D)
DHA (vedi Acido docosaesaenoico)
Enotera (vedi Olio di enotera)
EPA (vedi Acido eicosapentaenoico)
EPO (vedi Eritropoietina)
Ergocalciferolo (vedi Vitamina D)
Fillochinone (vedi Vitamina K)
Fucus (vedi. Dimagranti da banco)
GH (vedi Ormone della crescita)
GHB (vedi GABA e molecole affini)
Ginseng siberiano (vedi Eleuterococco)
GLA (vedi Acido gamma-linolenico)
Glucocorticoidi (vedi Corticosteroidi)
Gotu Kola (vedi Centella)
Guar (vedi Dimagranti da banco)
Isoleucina (vedi Aminoacidi ramificati)
Leucina (vedi Aminoacidi ramificati)
Lino (vedi Olio di semi di lino)
Menachinone (vedi Vitamina K)
Menadione (vedi Vitamina K)
Naftochinoni (vedi Vitamina K)
Niacina (vedi Vitamina B3)
Niacinamide (vedi Vitamina B3)
Omega 3 (vedi Acidi grassi essenziali)
Omega 6 (vedi Acidi grassi essenziali)
Omega 9 (vedi Acidi grassi essenziali)
Palma nana (vedi Palmetto seghettato)
Piridossale (vedi Vitamina B6)
Piridossamina (vedi Vitamina B6)
Piridossina (vedi Vitamina B6)
Quercia marina (vedi Dimagranti da banco)
Retinolo (vedi Vitamina A)
Riboflavina (vedi Vitamina B2)
Saccarina (vedi Dolcificanti)
Sali (vedi Integratori per il reintegro idrosalino e glicidico)
Serenoa (vedi Palmetto seghettato)
Shiitake (vedi Funghi shiitake)
Somatomedina C (vedi IGF-1)
Somatotropina (vedi Ormone della crescita)
Sucralosio (vedi Dolcificanti)
Sutherlandia frutescens (vedi D-pinitolo)
Tanacetum (vedi Partenio)
Tiamina (vedi Vitamina B1)
Alfa-tocoferolo (vedi Vitamina E)
Trigliceridi a catena media (vedi MCT)
Ubichinone (vedi Coenzima Q10)
Unghia di gatto (vedi Uncaria)
Valina (vedi Aminoacidi ramificati)
Vitamina B8 (vedi Biotina)
Vitamina B9 (vedi Acido folico)
Vitamina H (vedi Biotina)
Parte I - Principi dell’integrazione alimentare
Il buon stile di vita
Un buon stile di vita allunga la vita e la fa vivere meglio. L’ottimismo insito
in questa certezza si smorza non appena si tenta di definire cosa si intende per
“buono”. A parte punti su cui tutti ormai concordano (del tipo “non fumare
troppo”), appena si scende nel dettaglio, ci sono subito irrigidimenti personali
che vanificano ogni sforzo. Non a caso due italiani su tre pensano di avere un
buon stile di vita, salvo poi ritenere che almeno due su tre lo abbiano cattivo:
in altri termini, il “buon stile di vita è il mio”!
Per arrivare a qualcosa di concreto, R. Albanesi nel 2006 propose un
decalogo basato sul giudizio globale del comportamento del soggetto, sia per
quanto riguarda il corpo sia per ciò che concerne la mente. I primi punti del
decalogo riguardano l’ovvia condanna di atteggiamenti che moltissime persone
a loro volta condannano, senza la necessità di possedere una cultura medica
approfondita. Seguono i punti che evidenziano ciò che moltissime ricerche
dicono su più fronti: senza attività fisica e senza un’alimentazione corretta che
eviti il sovrappeso, diminuisce la speranza di vita, in particolar modo la
speranza di vita in buona salute. Gli ultimi punti toccano un altro concetto
che la medicina ha ormai consolidato: la psiche gioca un ruolo determinante
per la nostra salute. Appare quindi illusorio parlare di buon stile di vita se si è
ansiosi, stressati o depressi. Ecco il decalogo.
Il soggetto ha un buon stile di vita se:

1. non fuma;
2. non beve abitualmente alcolici;
3. non fa uso di droghe e/o di sostanze illecite;
4. non è in sovrappeso;
5. non è sedentario;
6. ha un’alimentazione varia ed equilibrata;
7. esegue controlli periodici di prevenzione;
8. non si sente stressato;
9. non si sente depresso;
10. non si sente ansioso.

Integrazione alimentare e stile di vita


Poiché gli integratori interagiscono con la nostra alimentazione e con la
nostra attività fisica (in alcuni casi si parla anche di interazione con la psiche,
ma è veramente ottimistico sperare che un integratore possa veramente aiutare
chi soffre di disturbi emotivi, anche di lieve natura, a meno di non credere
ancora nella “camomilla della nonna” per calmare i nervi) interagiscono anche
con lo stile di vita. Da qui la necessità di capire se, come e quando assumerli.
Cinque sono i campi di azione nei quali è lecito parlare positivamente di
integrazione alimentare:

•• sport
•• antinvecchiamento
•• regimi dietetici
•• patologie
•• prevenzione.

Nel capitolo Quando gli integratori funzionano vedremo in dettaglio queste


applicazioni.
Cosa sono gli integratori
La definizione di integratore alimentare non è certo semplice. Infatti si
sovrappone parzialmente con quella di farmaco (un errore comune è quello di
ritenere che gli integratori siano sostanze destinate soltanto ai soggetti sani) e
tende a distinguersi da quella di sostanza dopante o doping (con l’altro
comune errore di ritenere che il doping faccia male, mentre gli integratori
sarebbero privi di effetti collaterali).

Un integratore alimentare è un prodotto che vuole integrare la dieta


fornendo nutrienti di cui si può essere carenti o che è impossibile assumere
dall’alimentazione in quantità sufficienti.

Molti si troveranno d’accordo con questa definizione che però ha una


difficoltà pratica: attualmente vengono considerate come integratori anche
molte sostanze che nulla c’entrano con la normale alimentazione, per esempio
molte sostanze di origine naturale (come l’ultimo sensazionale integratore
ottenuto da una pianta africana fino a ieri totalmente sconosciuta) o di origine
sintetica (si pensi a molti prodotti usati nel mondo del body building) che
dovrebbero migliorare la nostra salute oppure le nostre prestazioni sportive.
Sono queste estensioni che vanno guardate con sospetto e che devono essere
valutate correttamente, attribuendole all’ultima bufala relativa al mondo
dell’integrazione, a quello della farmacologia o a quello pericolosissimo del
doping.
Una definizione estesa può essere quella che definisce integratore

ogni sostanza che, assunta da una persona sana, ne migliora lo stato di


salute senza il pericolo di pesanti effetti collaterali.

Alcune precisazioni:

1. Nello stato di salute è ovviamente compresa anche la prestazione


sportiva.
2. La definizione non esclude che un integratore possa essere usato anche
nella cura di una patologia, ma evidenzia la differenza fondamentale con i
farmaci che di per sé curano stati patologici. Così, un presunto integratore che
viene usato solo per curare patologie minori, non è un integratore, è un
farmaco.
3. La definizione vuole evidenziare che una sostanza che sembra funzionare
(con i trucchi che vedremo più avanti) in una percentuale limitata di soggetti
sani, non è un integratore, probabilmente è solo l’ultima trovata commerciale.
4. Infine, con il riferimento agli effetti collaterali, la definizione esclude ogni
sostanza dopante.

Per potere valutare con cognizione di causa una sostanza definita come
integratore, è opportuno riferirsi a tre semplici leggi il cui scopo è quello di
essere il punto di partenza più corretto per arrivare alla destinazione di un
impiego ottimale degli integratori.

Le tre leggi dell’integrazione

Attualmente il mondo dell’integrazione alimentare assomiglia a una foresta


dove si muovono fate o streghe incantatrici che promettono prodigi e miracoli
(le aziende che producono gli integratori), tanti Cappuccetto Rosso pronti a
seguirle (tutti coloro che credono a ogni cosa che viene loro detta), saggi dalla
barba bianca (gli scienziati che sfornano articoli in un senso o nell’altro,
confondendo ancor di più i Cappuccetto Rosso). Lo scopo delle leggi che
enunceremo vuole fissare una linea di condotta applicabile a qualsiasi
problema di integrazione. Le regole potranno sembrare banali, ma occorre
considerarle in profondità e applicarle congiuntamente per poterne capire la
forza e la concretezza.

Prima legge dell’integrazione - Ogni sostanza utile al nostro corpo ha un


intervallo di assunzione al di sotto del quale si produce carenza, al di sopra
surplus.

Questa legge è strettamente correlata all’errore di dosaggio (vedi il capitolo


Quando gli integratori non funzionano). La novità di questa legge è il
concetto di intervallo. Quando si fa un esame del sangue, vicino ai nostri
valori troviamo un intervallo di normalità. L’errore che molti commettono
quando parlano di integrazione è che per una data sostanza danno un valore
fisso, come se tutti noi fossimo uguali. La glicemia può variare di quasi il
100% in un individuo giudicato normale (da 65 a 110 mg/dl). Perché la RDA
di vitamina E deve essere 30 mg? A prescindere dal valore, è sbagliato il
concetto: a causa delle differenze fra gli individui (e fra il loro metabolismo)
non è scientifico fissare un valore consigliato. Cosa cambia invece fissando un
intervallo? Se il valore di normalità della glicemia fosse 80, praticamente tutti
dovrebbero ricorrere al medico, o perché sotto tale valore o perché sopra.
Fissando un intervallo, viene meno la necessità di intervenire.

Seconda legge dell’integrazione alimentare - Ogni carenza accertata deve


essere corretta, prima con l’alimentazione e poi con l’integrazione.

Questa legge è correlata all’errore di falso bisogno. In essa sono due le


parti importanti. La carenza deve essere verificata! È un errore madornale
assumere una sostanza perché forse ci può essere carenza: se non c’è, si
finisce in surplus con i danni enunciati dalla successiva terza legge. L’esempio
classico è quello dei body builder che assumono vagonate di proteine
terrorizzati dal fatto che l’esercizio fisico provochi un catabolismo proteico
che potrebbe distruggere i loro muscoli. È vero che l’esercizio produce un
catabolismo muscolare, ma la sua entità è talmente ridotta che con una normale
alimentazione (o con una piccola integrazione) le proteine distrutte vengono
reintegrate: non c’è nessuno studio scientifico che convalidi le quantità di
proteine (anche quattro o cinque volte superiori al normale) assunte da body
builder. L’unica giustificazione per tali dosi riguarda quei body builder che
usano sostanze anabolizzanti che permettono che quelle proteine vengano
metabolizzate come crescita muscolare. Purtroppo, l’errore di non verificare
la carenza si sta diffondendo con decine di altre sostanze, vitamine e
micronutrienti.
L’altro punto importante della legge è il privilegio dato all’alimentazione
rispetto all’integrazione. Oggi si tende troppo facilmente a reintegrare con
l’integrazione ciò di cui si è carenti, salvo poi andare in surplus quando
l’alimentazione aggiunge la giusta quantità. È il caso dei sali minerali persi
con la sudorazione durante una corsa con un clima caldo: basterebbe un po’ di
frutta e verdura (e ovviamente l’acqua) per reintegrare la dose persa (invero
piccola). E invece, non appena ha finito di correre, ecco che il nostro runner
beve avidamente l’ultimo integratore salino reclamizzato.

Terza legge dell’integrazione alimentare - Ogni surplus è negativo per


l’organismo poiché produce un sovraccarico da eliminazione o effetti
collaterali da assunzione eccessiva.

Questa legge è strettamente correlata all’errore di dosaggio (sovradosaggio)


e a quello di saturazione.
Due esempi banali. Se l’organismo è carente d’acqua, sicuramente la
performance fisica ne risente. Seguendo questo semplice ragionamento, un
centometrista potrebbe bersi due litri d’acqua mezz’ora prima della gara. Ciò
non creerebbe nessun problema per la sua salute, ma al momento del via
sarebbe probabilmente in bagno a eliminare il surplus di liquidi. La stessa
cosa succede (anche se spesso non ce ne rendiamo conto) con tutte quelle
sostanze che assumiamo in surplus e che, pur non essendo dannose,
l’organismo deve eliminare. L’altro esempio è altrettanto schiacciante: i
carboidrati forniscono energia, ma una loro assunzione eccessiva porta
all’obesità. Informatevi bene sugli effetti collaterali da surplus.
Integratori e ricerca
La ricerca scientifica sforna migliaia di documenti che trattano di
integrazione alimentare. Purtroppo, moltissimi di coloro che ricevono il
messaggio (non solo i potenziali acquirenti, ma anche molti operatori del
settore) non sono preparati per valutare correttamente queste ricerche. Nel
testo Migliora la tua intelligenza di R. Albanesi, il mondo della ricerca è
utilizzato per mostrare come spesso si possa alterare l’informazione a danno
del ricevente il messaggio. In questa sede riassumiamo i punti principali di
questa analisi.

La ricerca non è scienza

La ricerca scientifica è spesso decisamente sovrastimata; frasi del tipo “test


clinici hanno dimostrato che”, “scientificamente provato”, “risultati nel
77% dei casi” non fanno altro che ingenerare nella popolazione le seguenti
uguaglianze: ricerca = scienza = verità.
Anche solo fermandosi alla prima parte dell’espressione, si può
tranquillamente affermare che si è in errore. Infatti:

è spesso facile trovare una ricerca che dimostra che X è vero e una che
dimostra che X è falso. Le ricerche non sono ancora scienza...

Quanto appena affermato è percepito dal pubblico, a cui le ricerche sono


rivolte, come una “grande confusione”.
Nel 2005, uno studio pubblicato su Jama (Journal of the American Medical
Association), la rivista dell’Associazione dei medici americani, dimostra che
almeno un terzo delle ricerche, su terapie farmacologiche e no, vengono
successivamente smentite o ridimensionate.
Lo studio fa capire una cosa importante: la pubblicazione di una ricerca su
una rivista anche prestigiosa non significa che la ricerca sia “vera”. La
situazione è però ancora più grave di quanto affermato nello studio.
Sembrerebbe infatti che i due terzi diventino scienza, cosa che assolutamente
non è. La situazione è pressappoco questa, partendo da 100 ricerche:
1. Il 50% è talmente insulso che nessun altro ricercatore spende tempo e
denaro per cercare di replicare risultati che comunque sono sempre espressi in
termini di probabilità. È il caso, per esempio, della famosa proteina G ,
“scoperta” (2001) dal gruppo di A. Bartolini (università di Firenze) il cui
cattivo metabolismo sarebbe stato responsabile del mal di testa. Da allora più
nulla, le ricerche sono state interrotte per “motivi vari”.
2. Del 50% rimanente, un 80% (cioè il 40% del totale) è contraddittorio.
Nel senso che smentisce ciò che prima si affermava o viceversa. Siamo in una
situazione in cui la ricerca non è ancora scienza.
3. Resta quindi un 10% di ricerche serie.

Il 40% del totale di cui al punto 2 riguarda argomenti molto gettonati che
vengono pompati (in un senso o nell’altro) da interessi commerciali o di
carriera. Gli esempi fatti nell’articolo sono illuminanti. Si parla per esempio
anche della delusione della vitamina E nella cura delle malattie
cardiovascolari. Come si sa, la vitamina E è una sostanza molto importante,
ma che non va esageratamente santificata. Se è indubbiamente uno dei 3-4
antiossidanti più efficaci (in quanto a rapporto prezzo/prestazione) non può
certo salvarci da malattie come l’infarto o i tumori che hanno solo una debole
correlazione con i radicali liberi.
Quindi:

la ricerca è un punto di partenza, non un punto d’arrivo.

La confusione fra correlazione e causa

Le ricerche che stabiliscono nessi di causa-effetto entrano a far parte della


scienza. Per capire la portata di questa affermazione è necessario capire la
differenza fra correlazione e causa.
La confusione fra correlazione e nesso causale è spesso amplificata dai
ricercatori stessi che dimenticano la natura statistica di ciò che hanno
individuato e si proclamano “sicuri” di aver trovato la causa!

Una correlazione indica cosa è meritevole di ulteriore indagine per


spingersi sempre più vicino a trovare la vera causa, ricordiamoci che non
definisce nessuna implicazione di causa ed effetto.
La statistica è entrata pesantemente nella medicina grazie all’epidemiologia:
originariamente si studiava statisticamente una popolazione per capire le
correlazioni fra malattia e determinati fattori, risalendo poi alle cause. In
genere si trattava di malattie infettive (non a caso uno dei pionieri
dell’epidemiologia è John Snow che nel 1854 indagò statisticamente
l’epidemia di colera a Soho).
Purtroppo però oggi l’epidemiologia ha esteso il suo campo d’azione a
praticamente ogni concetto riguardante il benessere: si fa una campagna di
rilevazione statistica, si buttano i dati nella macchina (ricordiamolo, “incerta”)
della statistica e poi si fa una bella pubblicazione. Non c’è nessun rischio di
fallimento perché tanto qualche dato esce, al più il problema è interpretarlo,
anche se, lo si deve riconoscere, la fantasia dei ricercatori consente loro di
farlo brillantemente.
Il punto è che l’ambiguità di moltissime ricerche epidemiologiche è
altissima. Per esempio, se voglio indagare la relazione fra ricchezza e
mortalità, posso ottenere dei risultati che il solo buon senso sarebbe
sufficiente per determinare. Si sa infatti che la ricchezza non ha nessuna
relazione diretta con le cause della morte, ma può averne molte indirette: per
esempio, chi è ricco si cura mediamente meglio; chi è povero (non ricco) può
effettuare mediamente meno prevenzione ecc. Tutte cose che sono note. Che
senso avrebbe spendere milioni di euro per scoprire per esempio che chi ha un
reddito fra i 50.000 e i 100.000 euro annui vive in media un anno in più di chi
lo ha fra 25.000 e 50.000? Se si considera poi che la ricchezza influenza le
cause di morte sia positivamente (alza la vita media) sia negativamente (la
abbassa, per esempio favorendo un maggiore stress) è evidente che i dati
ottenuti sono del tutto inutili ai fini pratici, anzi possono essere fuorvianti se
applicati al singolo individuo. Infatti una correlazione non causale può
generare decisioni negative quando viene applicata al singolo. Nel nostro
esempio pensiamo a chi, leggendo i risultati della ricerca, si ammazza di
lavoro per anni per arrivare a 50.000 euro annui e vivere di più, schiattando
poi poco più che cinquantenne al suo tavolo di lavoro.
Probabilmente tutti riconoscono che la ricerca di correlazione fra ricchezza
e mortalità non ha molto senso dal punto di vista pratico. Se si consultano le
prestigiose riviste di medicina, si scopre che di ricerche simili ce ne sono
moltissime. Si prende un parametro e si cerca di correlarlo a questo o a quello
senza capire se lo studio è ambiguo perché, di fatto, non si considerano tante
altre cause che il semplice buon senso suggerirebbe.
Un esempio significativo
Nel 2005 fece molto scalpore una ricerca americana che avrebbe dimostrato
che avere qualche chilo in più favorirebbe la longevità. Williamson e Flegal,
del Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta (Cdc), e Graubard
e Gail, del National Cancer Institute, hanno preso in esame le morti di 55.000
soggetti dai 25 anni in su avvenute nell’anno 2000. I ricercatori avrebbero
scoperto che l’aumento del rischio di morte riguarda soltanto gli “obesi
estremi”: cioè solo l’8% dell’intera popolazione americana. La sorpresa è che
le persone normopeso avrebbero un rischio maggiore dei sovrappeso. Quindi
“converrebbe essere in sovrappeso”!
Secondo il New York Times lo studio sarebbe stato condotto nel modo più
rigoroso possibile da scienziati indipendenti. Vediamo come i geniali
ricercatori hanno diviso le categorie.
Come spiega la professoressa Flegal, le categorie “sono create secondo un
body mass index (BMI, o IMC all’italiana) che mette in rapporto il peso
corporeo con l’altezza, senza prendere in considerazione il sesso della
persona. Chi è alto 1 metro e 76 centimetri e pesa meno di 55 chili è
considerato sottopeso, se raggiunge una media di 55-74 chili è normale e se
ingrassa fino a pesare tra i 75 e gli 89 chili viene catalogato come
sovrappeso. Quando lo stesso individuo arriva a 90-103 chili è obeso, per
diventare gravemente obeso quando l’ago della bilancia oltrepassa i 104
chili”.
Anche ammesso che i ricercatori non abbiano commesso gravi errori
statistici, a una qualunque persona dotata di spirito critico dovrebbero balzare
subito all’occhio i grossolani errori che rendono i dati privi di qualsivoglia
valore.
L’obiezione più comune è che nella classe normale erano compresi anche
individui che devono definirsi sovrappeso secondo una visione moderna
(quelli con indice fra 22 e 25; vedasi le tabelle di magrezza di R. Albanesi:
http://www.albanesi.it/VMS/magrezza.htm), quindi alla classe normopeso
verrebbero attribuite anche le morti di molti sovrappeso.
Sono però più gravi due dei trucchi usati per arrivare a una conclusione
completamente errata. Parliamo di trucchi perché è evidente l’intento di
“arrivare a una conclusione scioccante”.
Il metodo – 55.000 soggetti è un numero significativo e la morte è un dato
certo. Il primo trucco però è usare il peso alla morte! Infatti, se chi muore
d’infarto ha lo stesso peso di quando “stava bene”, chi muore di cancro o di
altre patologie croniche presumibilmente avrà avuto un periodo debilitante in
cui ha perso molti chili. Dalla classe dei sovrappeso è finito in quella dei
normopeso!
Il campione – Usare l’IMC è un errore stratosferico, perché non è vero che
il BMI (o IMC all’italiana) permette di prescindere dal sesso della persona.
Tutti sanno che una donna alta 170 cm pesa mediamente meno di un uomo
della stessa altezza. La differenza è di due unità circa nell’IMC. Cioè, se
l’uomo di 170 cm pesa per esempio 70 kg (IMC=24,2), una donna ugualmente
alta, deve pesare 64,2 kg (IMC=22,2) per essere giudicata della stessa
magrezza.
Dov’è il trucco? Un individuo maschile alto 176 cm e pesante 55 kg non è
magro, è malato! Ha un IMC di 17,7 quando un soggetto sano dovrebbe avere
un IMC superiore a 19. Quindi la fascia di normalità deve partire da 59 kg.
Praticamente si considerano come sani tutti gli uomini malati fra 55 e 59 kg.
La divulgazione di ricerche come questa è devastante perché fornisce alibi a
stili di vita sbagliati con costi sociali altissimi.

Le correlazioni indirette
Non è difficile scoprire che molte correlazioni trovate dalla ricerca sono
correlazioni indirette. Cioè che:

(1) in genere correlazioni, fra A e B, trovate dalla ricerca sono prive di


nesso causale quando A e B dipendono entrambi da un terzo fattore C.

Ecco un banale esempio. Una ricerca prende in esame un campione di


giocatori di pallacanestro di un’università americana e una tribù di pigmei. Si
studia la percentuale di chi ha un QI (quoziente d’intelligenza) sopra il valore
soglia di X in relazione all’altezza. Esiste una correlazione fra altezza e QI
positivo (cioè sopra X). Quindi, sostituendo il concetto di correlazione con il
concetto di causa, potrei assurdamente concludere che l’altezza favorisce
l’intelligenza!
È evidente l’assurdità della cosa, ma molti non saprebbero spiegare
chiaramente dove sta il trucco. Come enunciato dalla proposizione (1)
soprariportata, il trucco è che sia l’altezza sia il maggiore quoziente
d’intelligenza dipendono dall’appartenenza al primo campione; infatti la
correlazione fra appartenenza all’università e QI positivo appare a tutti più
logica e causale.

Il campione

Continuano a essere pubblicate ricerche su campioni veramente molto


ristretti. Nonostante esistano metodi statistici per ovviare al problema e
interpretare correttamente i risultati, l’attendibilità del risultato si perde in
genere per strada. In termini poco formali, ma molto chiari, una ricerca su 58
soggetti che mostra una correlazione con una probabilità di errore non minima,
diventa comunque una correlazione certa perché chi trasmette l’informazione
dimentica, volutamente o meno, di trasmettere i dati sulla significatività dei
risultati ottenuti.
Anche ricerche su grandi numeri di soggetti possono presentare gravi
problemi sul campione. Dal punto di vista statistico, un campione di 50.000
soggetti italiani dovrebbe essere scelto completamente a caso sulla
popolazione (per esempio con un sorteggio); qualunque altro criterio di scelta
può inficiare grandemente i risultati. Se, per esempio, i 50.000 soggetti
provengono tutti da una grande città della Lombardia, può essere
potenzialmente fuorviante attribuire a tutta l’Italia i dati ottenuti; infatti tutti
sanno che, salutisticamente parlando, possono esistere grandi differenze fra le
regioni italiane. Eppure, tutte le ricerche non specificano mai esattamente
come è stato scelto il campione: se ciò venisse fatto, in molti casi si capirebbe
immediatamente che il campione può essere fuorviante.

L’effetto placebo

Se si vuole promuovere l’uso di un integratore inutile è abbastanza facile


farlo usando l’effetto placebo, effetto grazie al quale una sostanza
assolutamente inerte viene recepita dal malato come un farmaco in grado di
guarirlo e ciò ingenera una situazione psicologicamente favorevole al
miglioramento del paziente. In termini meno prosaici, se il malato crede che
l’acqua fresca sia un medicinale potentissimo, l’acqua fresca qualcosa farà.
Questo almeno in tutte le patologie che non hanno un andamento acutissimo e
molto grave. Per esempio, nello sportivo l’effetto placebo consiste in una
sostanza del tutto inutile che però fa volare l’atleta perché quest’ultimo ci
crede!
Se a un soggetto si fa provare una crema antirughe, lo si spinge
psicologicamente a credere che faccia qualcosa e, se anche è del tutto
inefficace, una percentuale di soggetti del campione risponderà che ha ottenuto
un miglioramento.
Chi pertanto vuole stabilire una correlazione significativa deve controllare
l’effetto placebo. Uno dei metodi utilizzati è la sperimentazione in doppio
cieco.
Supponiamo di voler provare l’efficacia di un integratore X.
1) Somministro X a 20 atleti; se gli atleti sanno che X è un integratore che
dovrebbe farli volare, saranno molto più motivati a sopportare la fatica e la
prestazione potrebbe migliorare solo perché sono convinti che con X “devono
andare forte”.
2) Allora somministro X a 10 di loro, mentre agli altri 10 somministro un
placebo, cioè una sostanza “simile” a quella da testare (al limite come placebo
posso usare acqua zuccherata e colorata purché l’atleta non riesca a
distinguere al gusto fra integratore X e placebo). I 20 atleti non sanno se
assumono placebo o integratore X. Valuto poi se esistono differenze di
comportamento fra il gruppo che ha assunto l’integratore e quello che ha
assunto il placebo.
3) Ma questo non basta ancora perché potrebbe darsi che nella mia
valutazione io non sia obbiettivo, conoscendo gli atleti che hanno preso
l’integratore (queste considerazioni sono importanti soprattutto quando non mi
confronto con un dato numerico, ma piuttosto con concetti sfumati, come
“recupera meglio”, “si sente meno stanco” ecc.). Se anch’io non so distinguere
i campioni di integratore X e quelli di placebo (per esempio perché mi
vengono forniti da un mio collega), la mia analisi è per forza imparziale.
Ecco che doppio cieco significa che sia l’atleta sia il medico sono ciechi,
non conoscono se il campione che viene studiato è l’integratore o il placebo
del tutto ininfluente. In tal modo si dovrebbe avere un giudizio oggettivo.
In realtà non è proprio così, infatti uno degli esempi di come si possano
stiracchiare i dati di una ricerca è proprio offerto dall’uso del concetto di
placebo. Nel capitolo 5 di Migliora la tua intelligenza sono spiegati in
dettaglio due problemi legati all’analisi statistica dei dati di una ricerca in cui
si impiega un placebo. Sinteticamente, sono:

•• la dimensione del campione (quanto meno numeroso è il campione scelto,


quanto più ci si può aspettare che sia grande la deviazione dal comportamento
della popolazione);
•• l’incoerenza sperimentale (un campione è fra gli N possibili; ripetendo
l’esperimento con un campione diverso si possono trovare risultati diversi!).

Si supponga di studiare l’effetto di un farmaco X su una patologia. Molti


medici sostengono che in un numero non trascurabile di patologie non si può
escludere l’effetto placebo. Questa posizione va censurata: in effetti, un
esperimento dove esiste un effetto placebo non è condotto in modo ottimale.
Supponiamo per esempio di provare l’efficacia di una pistola Smith &
Wesson 44 Magnum nel suicidio effettuato sparandosi alla tempia. Ammesso
di trovarlo, come gruppo di controllo, usiamo un campione dotato di una
pistola finta. Nessuno può credere che esista un effetto placebo per cui
premendo il grilletto della pistola finta si spappoli la testa del soggetto!
Non è necessario ricorrere a un esempio così estremo; basta pensare a un
veleno mortale e al suo antidoto: nessuno del gruppo di controllo cui è stato
dato un placebo si salverebbe!
Morale: l’effetto placebo esiste solo per fare un grosso favore a chi deve
arrivare a una conclusione avendo fra le mani una soluzione non ottimale.
Infatti, servendosi del placebo, è possibile non partire proprio da zero.
Il mascheramento – Anziché limitarsi a valutare la differenza con il
placebo,

una ricerca seria dovrebbe preoccuparsi di annullare il placebo,


mascherandolo completamente.

Se per esempio voglio sapere se i figli aumentano la felicità della coppia,


non posso fare questa domanda direttamente, ma faccio riempire alle coppie
un questionario con tante domande, la domanda “quanti figli avete?” la metto
“normalmente” nell’anagrafica in modo che passi inosservata, poi per
esempio, arrivati alla domanda 123, chiedo di giudicare il grado di felicità
della propria vita. A questo punto il soggetto non pensa nemmeno lontanamente
che io voglia correlare numero di figli e felicità e non c’è nessun
condizionamento.
Purtroppo nella ricerca medica le tecniche di mascheramento spesso non
vengono nemmeno considerate, anzi! Non c’è tempo e aumenterebbero i costi
delle ricerche.
Non si maschera certo il placebo chiedendo al paziente “sta meglio?”, “ha
avuto più o meno giornate negative da quando prende il farmaco?” ecc.; è
invece per esempio “mascherante” la misurazione di un parametro clinico di
cui il paziente non conosce nemmeno il significato (ammesso che questo
parametro clinico non fluttui normalmente nella popolazione!). Dovrebbe
essere chiaro che l’importanza del placebo varia in relazione al modo di
condurre l’esperimento; nella ricerca medica sono state inventate modalità
come il doppio cieco che vorrebbero far credere che è possibile arrivare
all’effettiva realtà delle cose (per esempio il funzionamento di una terapia).
L’esistenza di placebo anche in presenza di esperimenti condotti in doppio
cieco rivela invece che si è ancora ben lontani dal valutare correttamente i
risultati di un esperimento.
Vediamo prima un caso doloso.
Sono un ricercatore che deve assolutamente pubblicare qualcosa.

1. Esamino il farmaco A che so dare una buona positività su placebo (a


causa per esempio del tipo di patologia che tratta).
2. Faccio un bell’esperimento su due gruppi “randomizzati” opportunamente;
gruppo A: 22 positivi, gruppo B (placebo): 18 positivi; il farmaco batte il
placebo con p=0,21 (in altri termini, la statistica mi dice che c’è ben il 21% di
probabilità che il farmaco risulti migliore del placebo per puro caso). Non ci
siamo, troppo incerto.
3. Ripeto l’esperimento: gruppo A: 24 positivi, gruppo B: 15 positivi; il
farmaco batte il placebo con p=0,05. Pubblico la ricerca.
4. Il medico Mario Rossi legge la ricerca e si convince che “sicuramente” il
farmaco funziona.

Occorre capire che, riguardo all’efficacia, sia il placebo che il farmaco


hanno una loro curva di distribuzione, basta trovare l’esperimento in cui le due
curve danno risultati in controtendenza e il gioco è fatto: il farmaco sembra
funzionare. In ogni caso, questa scelta ha amplificato il reale funzionamento
del farmaco. Senza questa consapevolezza è del tutto ingenuo pensare che

se il farmaco fa qualcosa più del placebo, funziona!

Lasciando perdere il dolo, è ovvio che la situazione soprariportata avviene


normalmente anche solo “per colpa” del ricercatore che esegue UN solo
esperimento (di solito per ovvi motivi di costi e di tempi), non valutando
minimamente quali possano essere le distribuzioni del placebo e del farmaco
(per esempio nel caso soprariportato eseguendo 10 volte l’esperimento si può
scoprire che l’efficacia del placebo varia da un minimo di 8 a un massimo di
24).
Ovviamente il trucco del placebo è tanto più efficace quanto più il campione
è piccolo perché all’incoerenza sperimentale si somma il problema della
dimensione del campione (ammesso e non concesso che sia veramente
randomizzato: se studio la popolazione “italiani”, statisticamente sarebbe
necessario un sorteggio su tutta la popolazione, senza accontentarsi di
volontari che “sembrano” rappresentativi della popolazione!).

Il trucco delle percentuali relative

Riportando i risultati delle proprietà di determinati cibi in ricerche


scientifiche che riguardano la nostra salute, spesso si usa il trucco di utilizzare
le percentuali relative anziché quelle assolute. Lo stesso trucco è anche usato
per spingere l’uso di integratori, farmaci, sostanze varie: il farmaco X ha
ridotto del 50% il rischio di metastasi al polmone; analizzando il dato
assoluto, si scopre che il rischio è sceso dal 3 all’1,5% (quindi era comunque
piccolo), non granché se il farmaco in questione (stiamo parlando di un
chemioterapico) ha grossi effetti collaterali. Però parlare di una riduzione del
50% (relativa) è molto più d’impatto rispetto a dire che la riduzione è stata
dell’1,5% (assoluta).
Vediamo un altro esempio. Una ricerca studia un programma dimagrante su
un campione di 12 soggetti con sovrappeso medio di 8 kg; il programma non
funziona granché, ma non si può buttar via tutto il lavoro svolto. Allora la
trovata geniale: ricorriamo alle percentuali relative!
Il dimagrimento in sei mesi è stato di soli 0,8 kg. Detto così nessuno
investirebbe nell’idea. Ma proviamo a metterla in questo modo: il programma
in sei mesi ha ridotto il sovrappeso del 10%. Chi ha letto le righe precedenti
può ritenere che il dato sia comunque deludente. Se però riflettiamo un attimo,
capiamo che chi ha ricevuto solo l’informazione del 10% rischia di “capirla
male” (mentre il dimagrimento di soli 800 g lo capiscono tutti!); c’è chi
penserà che si dimagrisce del 10% (peso 90 kg, in sei mesi arrivo a 81) e
aderirà entusiasticamente al programma!
Supponiamo di leggere il risultato di una ricerca che afferma che il consumo
regolare di una certa verdura diminuisce la percentuale di cancro alla vescica
del 29%. 29% è un dato numericamente molto bello, che resta impresso nelle
nostre menti e promuove la ricerca e l’alimento. Purtroppo di ricerche come
queste ce ne sono a centinaia, tant’è che dovremmo mangiare ogni giorno
centinaia di alimenti con il rischio di andare in netto sovrappeso e di morire
prima!
Analizziamo la nostra ricerca fittizia e cerchiamo di capire il trucco. I
ricercatori hanno seguito, magari per diversi anni, due gruppi, il gruppo A che
non assumeva l’alimento X e il gruppo B che invece lo assumeva
regolarmente. Al termine della ricerca scoprono che nel gruppo B la frequenza
del cancro alla vescica è inferiore del 27%. Ammesso che non ci siano altri
trucchi statistici, la trasmissione psicologica del messaggio ne risulta
esageratamente amplificata. Infatti, andiamo un po’ più in dettaglio e
chiediamo altri numeri. Scopriamo per esempio che entrambi i campioni erano
composti da 5.000 soggetti (un numero invero significativo per una ricerca, i
cui numeri di solito sono decisamente minori); nel campione A si sono
verificati nel periodo della ricerca (ripeto, anni) 24 casi di tumore alla
vescica, mentre nel secondo 17. È vero che 17 è il 27% in meno di 24, ma è
anche vero che il rischio assoluto è passato dallo 0,48% allo 0,34%. I
ricercatori avrebbero potuto usare anche le percentuali assolute, dicendo che
l’alimento X diminuisce il rischio assoluto di cancro alla vescica dello
0,14%. Converrete che è una percentuale irrisoria. Sul trucco delle percentuali
relative si basano gli studi sulla demonizzazione del colesterolo che hanno
posto le basi per un gigantesco abbaglio salutistico.
Ma c’è di peggio. Se voglio seguire gli effetti di un alimento X sulla
popolazione e mi accingo a studiare due campioni di 200 persone per diversi
anni, è ovvio che ottimizzerò le mie energie se mi muovo su più fronti (cancro
alla vescica, allo stomaco, all’intestino ecc.), tanto i dati li ho tutti. Volete che
non trovi una patologia che nel campione di controllo è diminuita almeno del
25%? Il gioco è fatto: pubblico la ricerca dicendo che l’alimento X abbassa il
rischio della patologia Y del 25%.
Con questo trucco è nato il mito degli omega 3 (sicuramente utili, ma
sopravvalutati) che ha sostituito quello delle vitamine: gli eschimesi muoiono
meno per patologie cardiache perché gli omega 3 ne proteggono il cuore.
Peccato che si sia persa l’informazione che gli eschimesi hanno una più alta
mortalità per emorragia cerebrale perché gli omega 3 rendono il loro sangue
troppo fluido…
Alcuni studi comparsi nel 1994 su Lancet dimostrano che anche i medici
sono più inclini a prescrivere un farmaco i cui risultati sono mostrati in termini
di percentuali relative piuttosto che assolute.
Con un’analogia, nessuno di noi si limiterebbe a giudicare buono un affare in
base al risparmio relativo perché potrebbe essere minore in assoluto dei
fastidi e delle spese che devo sostenere per usufruire del risparmio. Dire che è
un ottimo affare il risparmio del 10% su un capo comprato all’ingrosso a
Milano piuttosto che in negozio a Pavia è scorretto. Infatti se il costo del capo
è di 50 euro, “guadagno” solo 5 euro, decisamente meno del costo della
benzina e del mio tempo per spostarmi nel “centro di risparmio”.
Purtroppo molte fonti riportano solo le percentuali relative (continuando
nella nostra analogia è come se una persona vi dicesse: “compra un paio di
scarpe da me, risparmi il 10%”, ma non vi dicesse il prezzo assoluto!):
imparate a diffidare di chi non vi fornisce dati assoluti.

L’effetto risultato

L’effetto risultato è un esempio classico di errore di positività. Si parla di


effetto risultato quando si ha la propagazione di un’informazione in base al
risultato che porta con sé. In un certo senso, l’espressione effetto risultato è
la formalizzazione del passaparola.
L’esempio più eclatante è offerto dalla cieca fiducia nei maghi. Basta che un
mago azzecchi una previsione casualmente (o usando la sua abilità
psicologica) il dieci per cento delle volte; l’evento positivo (il fatto che ha
azzeccato) viene diffuso dai clienti con grande rapidità, mentre gli eventi
negativi (quando non ci azzecca) non vengono di solito diffusi (anzi spesso
vengono tenuti nascosti per non fare la figura dei creduloni). Poiché il più
delle volte il mago, grazie alla sua abilità psicologica, gioca con circa il
cinquanta per cento delle possibilità, ecco come può diventare un grande
veggente: ciò che indovina diventa noto, ciò che sbaglia resta nell’oblio.
Esempi di effetto risultato si incontrano nelle medicine alternative: chi (a
ragione o per caso) ha avuto giovamento da una terapia non convenzionale (a
dire il vero l’effetto risultato è presente anche nella medicina convenzionale,
ma gli organismi di controllo e la comunità scientifica internazionale si
impegnano per arginare il fenomeno) diffonde la notizia, mentre chi non ha
ottenuto nulla se ne sta zitto, vergognandosi anche un poco per aver sprecato
tempo e denaro in qualcosa di inutile. Per fare un esempio tragico possiamo
citare molte terapie anticancro che pretendevano di curare la malattia. Alcune
di esse assursero agli onori della cronaca in seguito al miglioramento
temporaneo di alcuni pazienti. Grazie all’effetto risultato si propagò la notizia
non del loro miglioramento, ma della validità totale della terapia, ingenerando
molte false speranze. Ora, se la terapia funzionasse veramente, ci sarebbero
state migliaia di persone guarite pronte a giurare in televisione sul miracolo:
purtroppo si sono sempre visti soltanto i parenti di nuovi malati che
chiedevano di provare la terapia alternativa!
Rimanendo nel campo della medicina, si può parlare di effetto risultato
anche in un senso leggermente diverso, riferendosi a quel terapeuta che si
convince della bontà della sua terapia per il semplice fatto che il paziente non
torna più (effetto fuga).
Sfruttando l’effetto risultato, lanciare un integratore che non fa assolutamente
niente (la classica acqua fresca) è facilissimo. Bella confezione, bei paroloni
pseudoscientifici, un bel banco alla partenza di una maratona in cui si offre
gratuitamente il nuovo integratore. Su 1.000 atleti che aderiscono alla prova
gratuita, molti faranno il proprio record personale (se il campione fosse
costituito da professionisti sarebbe molto più dura, ma fra gli amatori i
miglioramenti sono praticamente costanti nelle prime 4 o 5 maratone), diciamo
200. Di questi 200 alcuni avranno abbastanza spirito critico da capire che
l’aver fatto il record non necessariamente è dovuto all’integratore. Purtroppo
molti si convinceranno che l’integratore “qualcosa fa”: ecco che diventeranno
degli ottimi testimonial presso i loro colleghi. Ovviamente se l’integratore non
è che acqua fresca, prima o poi la gente si accorgerà che non fa assolutamente
nulla, ma presumibilmente ci vorranno anni. A questo punto lo si getterà alle
ortiche e si “confezionerà” un altro prodotto.

Il principio delle multinazionali

Periodicamente si “scoprono” sostanze dagli effetti miracolosi sulla nostra


salute. Vengono proposte in modo scientificamente dubbio al mercato, ma,
prima di essere sostituite dall’ultima novità, ottengono un certo credito,
soprattutto verso chi cerca nell’integratore una sostanza che sia la panacea di
tutti i mali.
Perché queste sostanze (di solito naturali, per non spaventare il cliente: si sa,
il naturale non fa male; un concetto completamente errato, ma ancora molto
gettonato nella popolazione) non funzionano? Per capirlo, basta riferirsi a
quello che si può chiamare “principio delle multinazionali”.
Vediamo di cosa si tratta.
•• Tutti sanno che le multinazionali del farmaco sono orientate al business.
•• Tutti sanno che le multinazionali del farmaco sono potentissime.
•• Ma se il rimedio X funziona perché lo lascerebbero nelle mani di un
insieme di piccole aziende?

Perché non possono giocarsi la reputazione (ogni multinazionale ha una o più


concorrenti pronte a distruggerne la credibilità davanti alla comunità
scientifica internazionale, con danni incalcolabili) proponendo farmaci che
non funzionano.
Alcuni danno la seguente spiegazione: perché non venderebbero più i
farmaci tradizionali che funzionicchiano.
Anche qui basta ragionare: ma se il rimedio X funziona, nel giro di pochi
mesi il passaparola fra i pazienti distruggerebbe ogni farmaco precedente.
Pensate forse che se qualcuno soffrisse di cancro, di depressione o di
semplice sovrappeso e guarisse grazie al rimedio X non diffonderebbe la
notizia ad almeno 10 malati? Non occorre essere geni della matematica per
capire che la diffusione a macchia d’olio interesserebbe milioni di persone in
pochi mesi.
Altri non s’arrendono e sostengono che le multinazionali non possono
brevettare sostanze naturali da cui non ricaverebbero profitti. La
multinazionale non brevetta una sostanza naturale: la usa e brevetta il nome!
Vedasi l’esempio dell’acido acetilsalicilico grazie al quale la Bayer ha fatto
una fortuna con il marchio Aspirina.
Da notare che molte multinazionali controllano aziende minori che
promuovono le sostanze dubbie: in tal modo prendono il mercato dei
creduloni, ma non sporcano il loro nome!
Quando gli integratori funzionano
Esistono alcuni campi di applicazione in cui gli integratori sono sicuramente
utili a migliorare la nostra vita. Come vedremo, anche all’interno di uno stesso
ambito di applicazione esistono situazioni in cui l’integratore funziona e altre
in cui non produce particolari effetti positivi.

Lo sport

Praticamente ogni sportivo ha assunto integratori per supportare al meglio la


propria passione; con lo sviluppo dello sport amatoriale il fenomeno è
diventato di massa. Purtroppo la mancanza di cultura fa sì che si commettano
molti errori, spesso sopravvalutando il ruolo degli integratori nella
prestazione (un integratore non trasformerà mai un ronzino in un purosangue);
l’ignoranza su concetti fondamentali come dosaggio, biodisponibilità, effetti
collaterali ecc. porta a commettere molti errori che potrebbero essere
facilmente evitati con un minimo di studio o comunque rivolgendosi a
professionisti seri e qualificati, il cui giudizio non è alterato dall’enorme
business che si è creato attorno all’integrazione alimentare.
Relativamente allo sport, è importante capire che

non esiste nessun integratore in grado di migliorare significativamente la


prestazione.

Spesso l’esaltazione di questo o quell’integratore serve semplicemente per


coprire pratiche dopanti: attribuisco il merito all’integratore perché non posso
diffondere la notizia che uso una sostanza illecita. In altri casi si usa il trucco
della seminformazione (ved. Quando gli integratori non funzionano, L’errore
di seminformazione): per esempio, l’integratore X consente di prolungare lo
sforzo del 10% (test a esaurimento); il ricevente il messaggio interpreta la
frase come un miglioramento della prestazione quando il caso è analogo a
quello di un’automobile che non migliora la sua velocità, ma ha semplicemente
più benzina: dire che l’atleta riesce a correre a una velocità intermedia per 4
ore e mezzo anziché 4 ore e 15 minuti non vuole affatto dire che migliorerà il
suo record di 2h30’ sulla maratona!
Ovviamente l’affermazione soprastante non fa riferimento a quei prodotti che
sostituiscono l’alimentazione nelle prove di lunga durata (come acqua, barrette
ecc.); il “significativamente” è proprio il confine con il doping: una qualunque
sostanza in grado di far migliorare nettamente i risultati dell’atleta ne sposta
gli equilibri fisiologici a tal punto che è veramente ingenuo pensare che non
abbia effetti collaterali.
Nel capitolo dedicato alla ricerca (Integratori e ricerca) abbiamo visto
come sia possibile far credere che un integratore consenta miglioramenti
incredibili e non ci dilungheremo su questo punto.
Nello sport però gli integratori non vengono usati soltanto per tentare di
migliorare la prestazione, ma anche per migliorare il recupero dell’atleta (per
esempio gli aminoacidi ramificati). Ogni allenatore sa che un buon
allenamento per recuperare velocemente è fondamentale per sopportare
carichi di lavoro corretti per il proprio corpo ed è una strategia assolutamente
perdente cercare di recuperare con integratori quando il proprio recupero
naturale è pessimo: prima o poi si incapperà in una serie di infortuni più o
meno bloccanti o si entrerà nella spirale del sovrallenamento.
Poiché il recupero è fondamentale nell’ottica della seduta successiva,
l’atleta dovrebbe aver recuperato a sufficienza prima di un nuovo impegnativo
allenamento. Ai fini del recupero è quindi completamente diversa la situazione
fra il professionista che esegue un bigiornaliero correndo per 40 km e
l’amatore che si allena tre volte alla settimana percorrendo al massimo 20 km
nella seduta più lunga. Il concetto che deve essere tenuto a mente è che
se la frequenza e la lunghezza degli allenamenti non sono elevate, ogni
integrazione finalizzata al recupero è inutile, basta una sana e corretta
alimentazione.

Poiché esistono profonde differenze fra uno sport e l’altro, è difficile dare
un’indicazione generale su quando siano utili gli integratori nel recupero e
quindi nell’allenamento. In linea di massima si può affermare che gli
integratori servono per recuperare meglio se:

•• lo sforzo è superiore ai 90’


•• il numero di ore settimanali di attività fisica effettiva è superiore alle sei
ore.

L’antinvecchiamento
L’impiego di integratori per rallentare gli effetti del tempo si basa
principalmente su sostanze antiossidanti. Purtroppo però le proprietà degli
antiossidanti sono spesso sopravvalutate (oggi tutto è antiossidante!) e per
godere di un reale beneficio è prima necessario comprendere i limiti della
lotta ai radicali liberi, prodotti di rifiuto delle reazioni metaboliche del nostro
organismo.
In particolare:

•• la capacità di combattere i radicali liberi diminuisce con l’età (si parla di


stress ossidativo);
•• lo sportivo ha un fabbisogno di micronutrienti che può arrivare anche a
essere doppio rispetto a quello di un sedentario;
•• il rallentamento dell’invecchiamento da parte di antiossidanti non è
purtroppo sensibile; le ricerche più ottimistiche parlano di un terzo a partire
dai 35-40 anni.

Il primo punto indica che è inutile per un giovane di 20 anni assumere


antiossidanti, a meno che non sia un atleta professionista; il terzo punto
significa che dieci anni possono essere ridotti a meno di sette dal punto di
vista dello scorrere del tempo. Chi inizia ad assumere integratori antietà a 35
anni, a 65 ne dimostrerà 55, a parità di altre condizioni.

Non esistono sostanze che fermano il tempo, solo alcune che lo rallentano.

Da questo punto di vista, nella popolazione si fa ancora pochissimo per


spingere i soggetti verso un’integrazione che può essere veramente utile.
L’ottimistica santificazione di frutta e verdura appare in contrasto con
moltissime ricerche perché risulta evidente che l’alimentazione non è in grado
di fornire tutte le quantità di micronutrienti necessarie per combattere al
meglio la battaglia contro il tempo. Anche se è possibile ampliare il peso
nutraceutico di molti importanti alimenti nella nostra alimentazione (si veda
per esempio: http://www.albanesi.it/Arearossa/Articoli/ 053multivit.htm), per
alcune sostanze (come la vitamina E) non è possibile avere quantità
interessanti se non ricorrendo all’integrazione.
Pensiamo per esempio al business che ruota attorno alle creme antirughe;
dovrebbe essere del tutto immediato capire che se assumo un prodotto per non
invecchiare esternamente (che il più delle volte funziona molto
marginalmente), a maggior ragione dovrei assumerne uno che non mi faccia
invecchiare internamente: se ci si limita al solo aspetto esteriore, anche
ammesso che l’uso continuo e prolungato di prodotti antirughe possa far
apparire una donna di 60 anni più giovane di dieci, la sua età apparirà del tutto
evidente non appena si muoverà in modo goffo e impacciato.
Si noti la sostanziale differenza del ruolo dell’integratore nella pratica
sportiva e nella lotta all’invecchiamento: erroneamente, nello sport si tende a
ritenere troppo spesso l’alimentazione insufficiente, mentre nella lotta
all’invecchiamento si tende a ritenerla del tutto adeguata, se sana e basata su
prodotti genuini. In realtà sarebbe opportuno invertire tale tendenza per
ristabilire, a seconda dei casi, un corretto equilibrio fra alimentazione e
integrazione.

Regimi dietetici

Anche se il business dei dimagranti da banco è enorme, si può


tranquillamente affermare che sono un esempio di integratori del tutto inutili,
se non a fini psicologici. Il fatto che su tutti si precisi che l’integratore
funziona se abbinato a una dieta ipocalorica e a esercizio fisico è la
dimostrazione più lampante della loro inefficacia: con la dieta e lo sport si
dimagrisce comunque, senza alcun bisogno dell’integratore. Mentre i
dimagranti con prescrizione, a parte gli effetti collaterali, sono di qualche
aiuto nella lotta all’obesità, quelli da banco non fanno altro che convincere il
soggetto in sovrappeso che per lui non c’è speranza: “se non ha funzionato il
dimagrante, vuol proprio dire che sono destinato a rimanere grasso”.
Nonostante le ricerche (per le quali valgono le perplessità esposte nel
capitolo Integratori e ricerca) a supporto dei dimagranti da banco, per
smontarli basta la banale considerazione che un risparmio di 100 calorie al
giorno porta a un dimagrimento di almeno 6 kg annui (4 kg di grasso più
l’acqua legata a esso). Quindi se funzionassero e ci facessero risparmiare
anche solo 100 calorie al giorno, il sovrappeso sarebbe definitivamente
sconfitto. Si veda la scheda dei dimagranti da banco per ulteriori informazioni.
Dopo questa premessa sembrerebbe un errore aver inserito il campo
d’applicazione dei regimi dietetici nel capitolo dedicato agli integratori che
funzionano. In realtà, scientificamente parlando, se una persona vuole
dimagrire ha due strade davanti a sé:
•• la strada sbagliata (inutile): pillole dimagranti
•• la strada corretta (utile): dieta + sport + multivitaminico.

Compito del dietologo, del farmacista e del medico di base sarebbe proprio
quello di indirizzare il soggetto verso la strada corretta, illustrandogli gli
abbagli della prima. Anche se in un primo momento si potrebbe avere un
rifiuto della tesi proposta (è più facile credere in scorciatoie che offrono
risultati senza fare fatica), quando il semplice dimagrante fallirà, la figura
professionale che l’ha bocciato sarà rivalutata e diventerà un punto di
riferimento.
Come si vede, nella seconda strada è previsto l’impiego di un integratore.
Infatti con il dilagare del sovrappeso e il conseguente ricorso a diete a volte
troppo drastiche dovrebbe essere immediato concludere che chiunque segue
una dieta per il controllo del peso dovrebbe seguire un piano di integrazione
alimentare che fornisca i micronutrienti che un’alimentazione troppo stretta
non è in grado di offrire. Del tutto immediato quindi consigliare un
multivitaminico a basso dosaggio in abbinamento al nuovo regime alimentare.

Patologie

Gli integratori alimentari sono un supporto validissimo in molte patologie;


anche se da un lato a volte si tende a sovrastimarli, dall’altro la ricerca è
ormai concorde nel sottolinearne la validità dell’impiego (per esempio il
palmetto seghettato nell’ipertrofia prostatica, i fitosteroli nella
ipercolesterolemia o gli antiossidanti nella maculopatia senile).
In genere l’integrazione è utile quando affianca una cura efficace,
potenziandola e riducendo i tempi di guarigione; non lo è quando è l’unica
soluzione proposta, come nel caso delle miodesopsie, una patologia che
attualmente non ha praticamente cura e per la quale lo specialista impotente
tende a offrire come soluzione un’improbabile cura a base di integratori
alimentari.
Il caso classico a metà strada fra le due sopradescritte è quello
dell’influenza. Praticamente non esiste una cura che ne riduca
significativamente la durata, tanto che si tende a usare sintomatici. Se quindi
da un lato è ottimistico pensare che l’assunzione di vitamina C faccia guarire
prima, dall’altro, l’impiego di un multivitaminico che supporti
un’alimentazione spesso carente durante la malattia è sicuramente auspicabile.

Prevenzione

Esiste una nutrita categoria di integratori che dovrebbero servire alla


prevenzione di situazioni particolari, spesso vere e proprie patologie. Si
dovrebbe analizzare caso per caso la bontà dell’integratore; in alcuni casi le
promesse sono molto ottimistiche, in altri gli integratori possono essere
realmente utili, come la glucosamina per chi soffre di artrosi, i fitosteroli per
chi vuole abbassare il proprio colesterolo LDL oppure il semplice calcio per
le donne predisposte all’osteoporosi che non ne assumono abbastanza dalla
dieta.
In ogni caso vale il principio che

prima di assumere un integratore, è necessario accertarne la necessità.


Quando gli integratori non funzionano
Quando si parla di cattiva integrazione si è soliti pensare agli effetti
collaterali, spesso anche pesantemente nocivi, che un’integrazione sbagliata
può creare. In realtà sarebbe corretto parlare di cattiva integrazione anche
quando non c’è alcun effetto positivo, cioè anche in quei molti casi in cui non
ci sono svantaggi, ma neppure vantaggi.
Gli errori che esamineremo in questo capitolo si riferiscono pertanto a
questa definizione estesa di integrazione cattiva; come vedremo, alcuni errori
si possono applicare a ogni integratore, mentre altri sono specifici di
determinate sostanze.

Errore di dosaggio

Tutti conoscono il significato della parola sovradosaggio: l’ingestione di


una sostanza in quantità maggiori rispetto a quelle raccomandate o
generalmente prescritte.
Qualunque sostanza può causare effetti collaterali negativi, se assunta in
quantità eccessive. Tali effetti possono essere semplicemente fastidiosi oppure
gravissimi, arrivando anche alla morte. Si pensi all’acqua. Se durante una
maratona l’atleta beve in maniera esagerata (magari per la paura di bere
troppo poco!), l’eccessiva diluizione del sodio nel sangue (inferiore a 130
mmol/l) porta alla iponatriemia, condizione che può condurre alla morte del
soggetto.
Purtroppo è abbastanza comune ritenere che il sovradosaggio riguardi solo i
farmaci e che gli integratori ne siano immuni; scorrendo le schede contenute
nel testo, si vedrà invece che molti sono gli integratori il cui sovradosaggio
può dare gravi effetti collaterali.
A mo’ di esempio, in questo paragrafo riportiamo solo due casi riguardanti
sostanze molto comuni, la vitamina A e il ferro.
I primi casi di ipervitaminosi A citati in letteratura riguardano le popolazioni
dell’Artico (e i primi esploratori) che andavano incontro a sovradosaggio per
il consumo di fegato di orso polare o di foca, ricchissimi di vitamina A,
15.000 UI per grammo. Il sovradosaggio provoca problemi al fegato, fenomeni
depressivi fino al suicidio e altri problemi nervosi, danni alle ossa e alle
articolazioni e al feto, in gravidanza); l’intossicazione acuta di vitamina A si
ha solo con dosi enormi (2 milioni di UI), mentre più subdola è
l’intossicazione cronica, sicuramente presente in soggetti che assumono 20.000
UI al giorno per periodi che vanno da 6 a 8 anni (Geubel, 1991), una quantità
che per esempio è presente in farmaci per la cura dell’acne e che è avvicinata
in multivitaminici non troppo attenti al problema.
Nel caso del ferro, molti sono gli esempi di atleti che per scongiurare il
pericolo di un’anemia (peraltro l’anemia non necessariamente è sideropenica,
cioè da carenza di ferro) hanno assunto per anni un’integrazione di ferro; il
risultato è stato l’accumulo di ferro nel fegato (emocromatosi) con gravi danni
epatici.
L’errore di dosaggio non riguarda solo l’assunzione eccessiva di un
integratore, ma anche quella non sufficiente a ottenere qualche effetto positivo
(sottodosaggio). Il sottodosaggio non è quasi mai una conseguenza di una
scelta errata del soggetto, ma è piuttosto una conseguenza della politica del
fornitore. Tre sono le strade che portano al sottodosaggio.
La prima è l’esagerazione del risultato. Si ha quando i risultati delle
ricerche scientifiche vengono trasmessi solo qualitativamente; per uno
scienziato prolungare la vita di un malato terminale di cancro in media di 15
giorni può essere un grande successo, per tutti noi non è che cambi granché.
Con gli integratori il passaparola dal lavoro scientifico alla vita di tutti i
giorni porta a dimenticare il risultato quantitativo e ciò che migliora di
pochissimo (un risultato scientificamente comunque interessante) diventa la
soluzione per diventare campioni o per avere una salute di ferro. Un esempio
classico sono tutti gli integratori che dovrebbero migliorare la circolazione
per risolvere il problema delle “gambe pesanti”.
Per cui chiedersi sempre: sì fa bene, ma quanto fa bene e che dose devo
prenderne perché sia veramente efficace? L’errore di quantità è spesso
utilizzato per promuovere integratori del tutto inutili perché in dosi bassissime.
D’altro canto dosi accettabili costerebbero troppo o sarebbero ingestibili
perché magari con effetti collaterali importanti. C’è chi prende integratori
“naturali” a base di vitamina C per 50 mg al giorno, il contenuto di un’arancia,
illudendosi di conquistarsi la salute perenne. Stessa situazione per molti
integratori poco conosciuti, in cui le “dosi consigliate” sono comunque inutili.
La seconda è l’integrazione non sostenibile. Quando un integratore è molto
costoso, la sua assunzione può essere economicamente al di fuori della portata
dei più. Il produttore tende quindi a “consigliare” dosi inferiori per rendere
economicamente fattibile l’impiego del suo prodotto; ovviamente dosi
inferiori significano benefici inferiori, se non nulli.
La terza strada è il timore del sovradosaggio. Il produttore offre un
integratore che sicuramente non fa male perché è molto lontano dalla soglia di
sovradosaggio; anche in questo caso, il sottodosaggio rende inutile
l’integrazione.
Il consiglio finale è:

se assumete un integratore, informatevi sul dosaggio corretto, sia per


evitare il sovradosaggio sia per avere benefici reali.

Errore di saturazione

L’errore di saturazione si ha quando l’organismo reagisce alla sostanza


introdotta

•• o espellendola
•• o assuefacendosi.

Il nostro corpo sa badare a sé stesso e attua tutta una serie di meccanismi per
cui una sostanza produce benefici fino a un certo punto, poi la quantità in
eccesso viene eliminata senza ricavarne alcun beneficio oppure è necessario
assumerne quantità sempre maggiori.
Il primo caso si ha per esempio nel caso di molte vitamine idrosolubili:
quante più ne vengono assunte tanto più vengono eliminate per via renale.
Il secondo caso è tipico delle droghe, ma anche di sostanze molto comuni: un
forte bevitore di caffè può probabilmente berne una tazzina prima di andare a
letto senza avere inconvenienti; una persona che non beve caffè probabilmente
non dormirà o avrà grosse difficoltà ad addormentarsi.
Un esempio dell’effetto saturazione è la carnitina. In ragione di qualche
grammo al giorno (anche 10) può essere utile ai cardiopatici, ma è stato ormai
provato che in individui normali non migliora assolutamente la prestazione
perché di fatto un soggetto sano non “sa” usare il surplus che gli viene fornito.
Un’integrazione corretta dovrebbe avere alla base la dose (più) efficiente.
Per capire questo concetto si pensi al lavoro. Se ha senso lavorare un’ora al
giorno per 1.000 euro al mese, potrebbe aver senso lavorare due ore per 1.500
euro o tre ore per 2.000 euro, ma nessuno lavorerebbe quattro ore per 2.005
euro: meglio lavorare solo tre ore! Analogamente, la dose efficiente di un
integratore è quella oltre la quale i benefici sono talmente minimi che non ha
senso andare.
Si pensi per esempio alla vitamina C che ha un assorbimento dell’80% con
100 mg e di solo il 55,5% con 1 g.
Il consiglio finale è:

non crediate che i benefici di un integratore vadano di pari passo con la


quantità assunta; anche se non si cade nel sovradosaggio, oltre certe dosi
non è detto che aumentino gli effetti positivi; assumete la quantità più
efficiente.

Errore di falso bisogno

È figlio del precedente. Chi propone l’integratore riconosce l’errore di


saturazione, ma insinua il dubbio: potresti essere carente della sostanza X,
perché non prenderla? Molte pubblicità si basano su questo errore: ti senti
stanco, potresti essere carente di magnesio, prendi...
La risposta alla subdola domanda è duplice: in teoria si può essere carenti di
tutto e la nostra vita dovrebbe scorrere trangugiando farmaci e integratori (con
il nostro conto in banca che crolla); inoltre ogni sostanza ha effetti collaterali
che possono essere lievi, ma a volte sono anche gravi o comunque spiacevoli
se si eccede. Si veda quanto detto sopra sul sovradosaggio.
Il consiglio finale è:

prima di prendere un integratore che dovrebbe ovviare a una carenza,


accertatevi di quest’ultima!

Errore di biodisponibilità

Questo errore riguarda tutte le sostanze, ma è molto grave per alcune in


particolare. Per biodisponibilità si intende la percentuale della quantità
dell’integratore assunto che raggiunge la circolazione sistemica senza subire
alcuna modificazione di tipo chimico.
Supponiamo che una persona sia carente di ferro. Una forma rudimentale di
integrazione potrebbe essere quella di assumere piccoli pallini di ferro. Non è
difficile immaginare che solo una piccolissima porzione di ferro verrebbe
assorbita e che i pallini sarebbero eliminati per via intestinale. Questa forma
di integrazione avrebbe una bassissima biodisponibilità. Un miglioramento
potrebbe essere rappresentato assumendo sali ferrosi di un certo tipo, per
esempio solfato ferroso. Un ulteriore miglioramento potrebbe essere
l’assunzione dell’integratore insieme a una sostanza (in questo caso vitamina
C) che aumenti la sua biodisponibilità.
Questo semplice esempio dimostra come l’errore di biodisponibilità possa
essere evitato solo con una conoscenza molto buona della farmacocinetica del
farmaco, cosa non alla portata di tutti. Per questo motivo l’errore di
biodisponibilità è molto grave. Due esempi piuttosto eclatanti.
Il primo riguarda il glutatione. Provate a eseguire una ricerca in Internet
della parola glutatione (in lingua italiana): troverete molti articoli che ne
dicono mirabilie (spesso si tratta dello stesso articolo riciclato). Peccato che
chi fa simili affermazioni non conosca la ricerca di Witschy, Reddy, Stofer,
Lauterburg (Eur. J. Clin. Pharmacol.1992; 43(6):667-9) che ha dimostrato che,
a causa dell’idrolisi del glutatione da parte della gamma-glutamiltransferasi
intestinale ed epatica, l’assunzione di glutatione per bocca (anche fino a 3
grammi al giorno) non aumenta significativamente i livelli di glutatione
dell’organismo. E c’è chi suggerisce una dose di 25-30 mg… In altri termini, o
ve lo fate per iniezione (infatti i farmaci che lo usano come disintossicante
contro le intossicazioni acute si usano per via endovenosa o intramuscolo) o le
pastiglie servono solo a farvi buttare i vostri soldi.
Il secondo esempio riguarda il licopene, uno dei carotenoidi che meglio
combattono i radicali liberi. Poiché è una sostanza lipofila, il suo
assorbimento è legato alla presenza di grassi nella dieta; inoltre la cottura ne
aumenta la biodisponibilità sia per la dissociazione dei complessi proteici in
cui è incorporato sia per la dispersione degli aggregati cristallini di
carotenoidi. Attualmente si pensa che venga trasportato dalle lipoproteine, in
particolare quelle a bassa densità (LDL), i cui valori sono tendenzialmente
bassi in chi segue modelli alimentari salutisticamente troppo rigidi. Ciò spiega
perché in soggetti crudisti con un’alimentazione molto ricca di frutta e verdura,
ma povera di grassi, un’integrazione di licopene abbia una biodisponibilità
molto bassa.
Il consiglio finale è:

se assumete un integratore, informatevi sulla sua biodisponibilità, senza


fermarvi alla semplice quantità assunta.
Errore di seminformazione

La seminformazione è la diffusione di una informazione vera, ma fuorviante.


Lo scopo è quello di ingigantire l’effetto di un messaggio, ovviamente a
proprio vantaggio. Il trucco consiste nel dire la verità, ma di farlo in modo che
l’ascoltatore arrivi a conclusioni errate e favorevoli a chi lancia il messaggio.
La seminformazione si basa sempre su un’insufficiente cultura o su uno scarso
spirito critico del soggetto.
In questo paragrafo facciamo solo due esempi: gli integratori salini e la
creatina. Come è dimostrato da una serie impressionante di studi, il reintegro
salino è essenziale in attività fisiche della durata superiore alle quattro ore.
Considerando anche una sensibilità individuale alla disidratazione, si può
comunque affermare che tutti gli integratori salini sono completamente
ingiustificati per sforzi inferiori alle due ore; basta reidratarsi con acqua per
non avere alcun problema (la quantità dipende dallo sforzo e dalle condizioni
atmosferiche). L’equivoco su cui gioca la pubblicità nasce dal fatto che alcuni
problemi (crampi) sono erroneamente attribuiti alla mancanza di sali: se tale
motivo fosse vero, perché calciatori perfettamente allenati sono colti da
crampi nei supplementari di una partita in una serata primaverile? Sicuramente
durante gli intervalli hanno avuto tutto il tempo di assumere sali.
Il secondo esempio riguarda la pubblicità di prodotti contenenti creatina
anche per i non sportivi, con la motivazione che darebbe forza e vigore.
Poiché la creatina è coinvolta nella produzione di energia solo per attività
esplosive (salti, sprint ecc.) una persona anziana cosa se ne fa della creatina,
forse per prendere l’autobus al volo dopo averlo inseguito per una cinquantina
di metri? Si noti in questo caso come il “dare energia” sia stato generalizzato
da situazioni tutto sommato occasionali per chi non fa sport a situazioni che
sembrano quotidiane. Da notare inoltre che la creatina è ampiamente proposta
anche negli sport di resistenza dove non offre nessun vantaggio (in tali sport il
meccanismo anaerobico alattacido in cui è coinvolta la creatina gioca un ruolo
marginale), anzi, favorendo la ritenzione idrica, aumenta il peso del soggetto
con un effetto globalmente negativo.
Il consiglio finale è:

se non siete sufficientemente acculturati sulle mirabilie promesse da un


integratore, ascoltate anche la campana contraria (qualcuno che la pensa in
modo opposto c’è sempre!).
Il mercato degli integratori
Secondo un’indagine AC-Nielsen (FederSalus, 2009 su dati 2008), il
mercato degli integratori è in continua crescita (+11,2%).
In genere circa un terzo degli italiani fa ricorso a integratori, ma solo il 18%
lo fa regolarmente durante l’anno.
La motivazione per l’uso abituale di integratori è per il 46% dei soggetti la
ricerca di benessere psico-fisico e per il 43% quella di risposte a specifiche
esigenze di salute; un ulteriore 7% li usa abitualmente a fini sportivi e un altro
3,3% a scopo dimagrante. L’ultimo dato è particolarmente curioso, visto il
proliferare di prodotti per il dimagrimento e getta un’ombra sulla credibilità
dei dati raccolti.
In testa ci sarebbero con il 52,5% i complessi vitaminici e minerali, seguiti
dal 36% di integratori energetici o fermenti lattici e dal 14,4% di integratori
per lo sport con netta predominanza di acquirenti maschili.
Circa la fonte di riferimento, il 51,7%, si affida al medico, mentre un terzo
(soprattutto maschi) preferisce il fai da te, anche se nel 7,5% dei casi dice di
rivolgersi sempre al farmacista e nel 2,5% all’erborista di fiducia. Ben sei
milioni di italiani si informano via Internet.
Circa il luogo dell’acquisto la farmacia è in competizione con le erboristerie
e la grande distribuzione; se il prezzo è un punto che fa pendere la bilancia
dalla parte dei supermercati, la fiducia nel fornitore è un punto a favore di
farmacie o erboristerie.
Purtroppo però in queste strutture (soprattutto nelle erboristerie) manca
ancora un supporto scientificamente valido e sufficientemente pratico per
orientare il cliente al meglio.
Ecco quindi che il cliente si rivolge all’offerta Internet, spesso aggirando le
leggi sulla distribuzione degli integratori, acquistando prodotti dubbi sia per
qualità che per sicurezza. Certo è che, se si è preparati, è possibile comprare
via Internet prodotti sicuri e di qualità a prezzi molto bassi, cosa che porterà
sicuramente i punti vendita tradizionali ad adeguarsi.

Un mercato etico?

Se si analizzano le offerte di grandi case produttrici di integratori non si può


non notare che tendono a fornire un’offerta a 360 gradi, ovvero sia di
integratori validi sia di integratori che sono solo mode passeggere. La
concorrenza è enorme e il filtro verso prodotti veramente utili dovrebbe essere
svolto dalla struttura che vende al cliente finale.
Se si considera che quasi tutte le farmacie vendono prodotti omeopatici che
basano il loro successo su effetti scientificamente bocciabili (effetto placebo,
effetto tempo, effetto risultato, effetto coincidenza ecc.), ben si comprende che
difficilmente si implementerà un mercato etico negli integratori.
I capitoli precedenti hanno anche lo scopo di mostrare come sia possibile
fare business vendendo quantità molto interessanti di prodotti che funzionano,
evitando di promuovere quelli che hanno un impatto bassissimo o nullo sulla
nostra salute.
Integratori e sport
Molti sportivi si avvicinano al mondo degli integratori per avere le idee
chiare su qual è il percorso che porta alla scelta dell’integratore ottimale. Se
dovrebbe essere a tutti chiaro che l’integrazione per un praticante il body
building è differente da quella per un ciclista, per un maratoneta, per un
tennista ecc., pochi sanno su cosa si basa questa differenza.
La differenza nasce dai diversi meccanismi energetici che sono alla base
del gesto atletico. Il corpo umano utilizza diversi processi per produrre
energia e i vari sport si distinguono anche in base al meccanismo di
produzione di energia privilegiato. Il tipo di “benzina” impiegato caratterizza
la durata e l’intensità dello sforzo sostenibili e quindi determina quali fattori
di prevenzione vengono attivati.
Contrariamente a quanto avviene in una casa, dove per il riscaldamento è
possibile usare energia elettrica o termica, il nostro corpo impiega una forma
meno visibile di energia, quella chimica. Nell’organismo avvengono centinaia
di reazioni, alcune delle quali possono cedere energia mentre altre
l’assorbono. L’energia introdotta con gli alimenti non viene usata direttamente,
ma impiegata per sintetizzare una sostanza immagazzinatrice di energia, l’ATP
(o adenosintrifosfato). Tale energia viene poi ceduta quando l’ATP si lega con
l’acqua e viene trasferita per l’utilizzo biologico (per esempio la contrazione
di un muscolo). I processi energetici possono essere aerobici o anaerobici. Un
processo è aerobico quando la presenza dell’ossigeno è indispensabile perché
esso abbia luogo, è anaerobico quando può avvenire in assenza di ossigeno.
Per esempio la scissione dell’ATP può avvenire anche in presenza di
ossigeno, ma tale presenza non è indispensabile: si parla pertanto di reazione
anaerobica. Un processo energetico è inoltre caratterizzato dalla velocità con
cui avviene.
I processi che portano alla produzione di ATP derivano dalla conversione
dei macronutrienti (carboidrati, lipidi, proteine) e ogni processo arriva al suo
scopo (la produzione di ATP) con una sua velocità, parametro di estrema
importanza nella fisiologia dello sport.
Esiste un altro meccanismo energetico molto rapido, quello del
creatinfosfato (CP). Il CP può produrre energia in assenza di ossigeno quando
il gruppo fosfato si stacca dalla creatina. Il processo è molto rapido e
tipicamente viene usato dalle cellule quando si passa da una bassa a
un’elevata richiesta energetica; esempio classico sono le gare di sprint o gli
scatti dei calciatori. Per ogni sport e, come nel caso della corsa, per ogni
disciplina, cambia la percentuale del processo privilegiato di produzione
dell’energia. Per esempio, nel calcio circa il 10% dell’energia spesa in una
partita deriva dal meccanismo CP. Nella corsa invece, per distanze superiori
ai 1500 m, il meccanismo CP è praticamente nullo.
Per mostrare come lo sportivo sia carente di informazioni riguardo ai
processi energetici, provate a chiedere a un body builder quale tipo di
meccanismo è prevalente nel suo allenamento. Correttamente risponderà
“quello anaerobico”, ma solo uno su dieci darà la risposta esatta: “anaerobico
alattacido”, mostrando come 9 body builder su 10 non conoscano la differenza
fra anaerobico lattacido, dove si producono grandi quantità di acido lattico, e
anaerobico alattacido, basato sui creatinfosfati. Confonderli è come mettere
gasolio in una macchina a benzina!
Un altro concetto che è bene ricordare subito è che le varie fonti energetiche
lavorano in parallelo, non in serie. Ciò significa che quando diciamo che sono
coinvolti carboidrati, grassi e proteine nella produzione di energia per una
corsa a una certa velocità, i meccanismi sono contemporanei, non successivi:
nella maratona il 20% di consumo di lipidi non inizia quando termina il
contributo dei carboidrati, infatti nell’atleta allenato alla distanza già dai primi
chilometri un 20% dell’energia proviene dai grassi. È per questo che un
soggetto che corre i 10000 m che vuole correre una maratona deve allenarsi a
bruciare i grassi; con il suo allenamento da specialista dei 10000 m brucerà
probabilmente il 5% di grassi e il 95% di carboidrati, con il risultato che
arrivato a 30-35 km finirà le scorte di glicogeno e si bloccherà vittima di una
paurosa crisi.
Schematicamente sono cinque i principali meccanismi energetici; vediamoli
qui di seguito.

A. Meccanismo anaerobico alattacido (del creatinfosfato) in cui si produce


energia in assenza di ossigeno, utilizzando processi molto rapidi, ma che non
possono durare a lungo (tipicamente una decina di secondi). Viene usato per
scatti, salti, attività di potenza come il sollevamento pesi.
B. Meccanismo anaerobico lattacido in cui si produce energia in assenza di
ossigeno. Viene usato negli sforzi brevi, ma sufficientemente lunghi da
produrre un affanno nella respirazione, per esempio una corsa di un
chilometro. Si arriva a una situazione di crisi (dovuta all’accumulo di lattato
nel sangue) che costringe il soggetto a diminuire la velocità per ritornare in
equilibrio.
C. Meccanismo aerobico glicidico in cui in presenza di ossigeno si
bruciano prevalentemente carboidrati. È usato negli sforzi intensi in cui
comunque si raggiunge un certo equilibrio, per esempio la corsa di una decina
di chilometri.
D. Meccanismo aerobico lipidico in cui in presenza di ossigeno si bruciano
prevalentemente lipidi (grassi). È usato in sforzi di modesta intensità (come il
jogging parlando tranquillamente) o in sforzi prolungati, dove affianca il
meccanismo precedente (come nella maratona). La biochimica insegna che i
lipidi non possono essere praticamente utilizzati se finiscono le scorte dei
carboidrati (il classico “muro” del maratoneta).
E. Meccanismo proteico in cui si bruciano le proteine per ottenere energia.
Come il precedente è un meccanismo che viene usato per ottenere energia
quando i carboidrati scarseggiano e diventa tanto più importante quanto lo
sforzo è prolungato (per esempio diverse ore). In questo caso si può dire che i
muscoli vengono “smontati” per produrre energia.

Ognuno di noi può sfruttare i cinque meccanismi in maniera diversa, a


seconda dell’allenamento e delle caratteristiche individuali congenite o
acquisite. È importante però notare che ogni meccanismo comporta un’azione
diversa nelle varie aree di intervento. Per esempio, se è prevalente il
meccanismo CP (come nel saltatore in lungo) sarà massima l’azione
dell’efficienza muscolo-scheletrica, ma sarà pressoché nulla la protezione
cardiovascolare perché le durate sono troppo brevi per innescare i processi. Il
meccanismo anaerobico lattacido può esplicare un’utile azione ormonale, ma
una modesta azione sul controllo del peso: gli sforzi e gli allenamenti sono tali
da bruciare una quantità tutto sommato modesta di calorie (non sono certo
paragonabili a quelli di un triathleta). Per fortuna ogni soggetto, nel suo gesto
atletico o negli allenamenti che sono finalizzati al miglioramento, non usa un
solo meccanismo energetico; ne consegue un beneficio globale che, pur
essendo differente da sport a sport, dal punto di vista salutistico fa preferire
chi fa sport al sedentario.
Esempi di integrazione
Tralasciando il caso di integrazione di aiuto nella cura di particolari
patologie, è opportuno suddividere i nostri esempi in funzione dello scopo
dell’integrazione.

Età

Con il passare degli anni diminuisce la capacità del nostro corpo di


difendersi dagli attacchi esterni e dalla produzione di radicali liberi. Come
integrazione antinvecchiamento esistono sostanzialmente due scuole che
competono fra loro nella quantità: quella europea, che spinge per bassi
dosaggi, e quella americana, che spinge per alti dosaggi. Entrambi i partiti
hanno le loro ragioni, ma sembra che esista una certa prevalenza della scuola
americana, tanto che alcuni multivitaminici da banco seguono le dosi
americane, eccezion fatta per la vitamina C e la vitamina E. Se si considera
che ormai assumiamo dosi massicce di vitamina C dai cibi (l’acido ascorbico
è comunemente usato come antiossidante), l’unica differenza sostanziale è
nella dose di vitamina E che nei multivitaminici americani è mediamente di
200 UI, mentre in quelli europei è di sole 30 UI.
Per costruire un ottimo piano antinvecchiamento si deve sempre partire dalla
propria alimentazione e capire fino a che punto sopperisca le quantità volute.
Per esempio, seguendo la scuola americana, ci si può basare su un
multivitaminico ad alto dosaggio (come il Supradyn), integrando la vitamina
E fino a 200 UI. Tale integrazione è consigliata dai 35 anni in su.
Altre soluzioni antiossidanti come l’acido alfa-lipoico rischiano di non
essere sostenibili per gli attuali alti costi dell’integrazione.
Particolare importanza riveste anche l’integrazione di omega 3. La dose
attualmente consigliata è di 3 g al giorno; il dato globale di 3 g è stato
suddiviso in 2 g per l’acido alfa-linolenico e 0,5-1 g per EPA+DHA. In genere
è possibile coprire tale fabbisogno con determinati cibi (per esempio pesci
grassi come sgombri, salmone, sardine e frutta secca): 75 g di salmone al
naturale e 15 g di noci danno circa, dipende dalle varietà, 1 g di EPA+DHA e
1 g di ALA. Chi non ama questi alimenti deve ricorrere all’integrazione,
facendo però attenzione a non incorrere nell’errore di sottodosaggio perché
molti integratori vengono proposti con quantità molto basse di omega 3.

Dieta

Qualunque soggetto che segue un regime alimentare ipocalorico rischia di


non avere il corretto fabbisogno giornaliero di micronutrienti. È pertanto
fondamentale l’associazione con un multivitaminico a basso dosaggio.

Forza massima

Tipico obiettivo di chi fa pesi in palestra (non tratteremo lo scopo di


volumizzazione, tipico del body builder, perché basato su ragioni estetiche,
anziché salutistiche). Purtroppo si pensa che molte sostanze (integratori o
doping mascherato da integratori) possano agire sui meccanismi ormonali che
stimolano l’anabolismo. A tal proposito non si può che rilevare che

qualunque sostanza che modifichi la produzione ormonale è un farmaco,


non un integratore!

Per fortuna, molti integratori chiacchierati di alzare i livelli di questo o di


quell’ormone non fanno proprio nulla, ma è sempre bene tener presente che
un’eventuale modifica non si può relazionare al solo anabolismo, perché porta
sicuramente con sé altri effetti, non sempre positivi.
Il secondo punto che il mondo della palestra snobba è che è impossibile far
crescere a piacere i muscoli senza portare con sé anche del grasso. Infatti:

1. Perché si abbia crescita muscolare si deve fornire il dovuto quantitativo


di proteine in presenza di ormoni anabolizzanti (naturali o sintetici).
2. Nei giovani il quadro ormonale porta abbastanza naturalmente alla
magrezza; già un adulto che assume troppe proteine si ritrova invece con
muscoli, ma anche con grasso. Questo perché la produzione di ormoni
anabolici decresce con l’età.
3. Non esistono sostanze naturali per incrementare significativamente la
produzione di ormoni anabolici.
4. L’allenamento è in grado di produrre un aumento dei livelli di ormoni
anabolici, aumento che comunque ha un chiaro limite individuale.
5. Perché si abbia diminuzione della massa grassa occorre bruciare il grasso
tramite esercizio fisico, tramite un quadro ormonale opportuno o tramite
sostanze bruciagrasso.
6. Chi non vuole modificare il quadro ormonale con pratiche dopanti, usa
sostanze (lecite e no) per bruciare il grasso in quei settori dove è necessario
essere magri (body building).
7. Attualmente non esistono dimagranti leciti che consentano di bruciare il
grasso in maniera significativa.
8. L’altra alternativa per essere magri è fare attività aerobica (l’attività di
potenza non permette di bruciare granché).
9. L’attività aerobica si oppone alla crescita muscolare, infatti nessun
maratoneta, per quanto faccia potenziamento muscolare, riesce ad avere
muscoli da sollevatore di pesi.

Sintetizzando (ulteriori approfondimenti si possono trovare su


http://www.albanesi.it/Dietologia/grassomuscoli.htm):

1. Ognuno di noi ha un massimo di massa magra senza grasso fissato dalla


genetica individuale.
2. Oltre tale limite non è possibile incrementare naturalmente la massa magra
senza portare con sé del grasso.
3. Il massimo della definizione (muscoli senza grasso) nella maggior parte
delle persone è associato a uno sviluppo muscolare piuttosto modesto.

Chi ha compreso le premesse sopraesposte, comprenderà anche che l’unica


integrazione sensata è la fornitura al corpo dei mattoni per costruire i muscoli,
senza esagerare per evitare che il surplus venga stoccato come grasso.
Un’integrazione ragionevole sarà quella che porterà il contributo totale di
proteine (cioè comprensivo di quello proveniente dall’alimentazione) a 1,5 g
al giorno per kg di peso.

Forza esplosiva

Tipica di sport come calcio, tennis o di attività come i salti e il sollevamento


pesi, nelle quali cioè sono importanti sia la forza sia la velocità con cui essa
viene espressa. Poiché il meccanismo di base è quello CP, l’integratore per
eccellenza è la creatina.
La dose di creatina monoidrato consigliata dovrebbe essere pari al turnover
giornaliero, cioè circa 2 g. Su indicazione del Ministero della Salute, in atleti
sani impegnati in allenamenti giornalieri di alta intensità, la massima quantità
di creatina assunta deve essere pari a circa due volte il turnover giornaliero,
cioè meno di 6 g/die, per un periodo inferiore a una settimana e il tutto deve
avvenire sotto controllo medico. Dovrebbe essere usata con i dosaggi previsti
dai protocolli (fase di carico: 0,3 g/kg in 3-4 somministrazioni giornaliere)
perché solo a questi dosaggi è ergogenica.
Purtroppo esistono ancora dubbi sulla qualità e sulla sicurezza dei prodotti.
Poiché la creatina viene industrialmente estratta da due molecole di
derivazione bovina (sarcosina e cianamide) può esserci il potenziale rischio
di contaminazione con sostanze chimiche considerate tossiche. Più concreti
sono i dubbi sulla sicurezza. Secondo l’Agenzia francese di sicurezza
sanitaria per gli alimenti, la creatina può avere un effetto mutageno e
cancerogeno, mentre la Food and Drug Administration nel suo bollettino
Special nutritionals Adverse Event Monitoring System elenca i vari effetti
collaterali indesiderati che derivano dall’assunzione orale di creatina: diarrea,
crampi muscolari, infortuni muscolo-tendinei, disidratazione con alterazioni
dell’omeostasi elettrolitica, attenuazione o soppressione della sintesi
endogena.

Resistenza

Negli sport di resistenza l’importanza degli integratori è notevole e


decisamente diversificata.
Quanto detto circa l’età, diventa a maggior ragione vero per un soggetto che
pratica uno sport di resistenza (ciclismo, corsa, sci di fondo ecc.). Si
aggiungono però altre fonti di integrazione.

1) Per le donne che praticano la corsa o altri sport di resistenza che


sollecitano molto l’apparato locomotore è fondamentale integrare il calcio
alla dose giornaliera consigliata di 1,5 g al giorno (in genere bastano 500 mg).
2) Per coloro che eseguono allenamenti di lunga durata (per esempio 20 km
per la corsa o 60 km in bicicletta) è necessario avere il necessario apporto di
aminoacidi ramificati. Se il ciclista può alimentarsi durante la sua prova, ciò
non è possibile per il runner o lo sciatore di fondo. Poiché normalmente dopo
lo sforzo c’è una certa inappetenza, risulta corretto integrare in BCAA. Non
bisogna però esagerare i benefici di queste sostanze. Basta considerare il fatto
che 10 g di aminoacidi ramificati sono contenuti in 250 g di carne di pollo per
capire che l’alimentazione ne fornisce una quantità sufficiente per tutti quei
runner che mangiano bene (con una percentuale sufficiente di proteine) e non
sono maratoneti. Per chi si allena 5 o più volte alla settimana, nelle sedute in
cui si superano i 18-20 km si possono assumere aminoacidi ramificati. In
genere si consiglia di prendere 1 g di ramificati ogni 10 kg di peso corporeo.
Alcuni autori arrivano anche a 3 g/10 kg di peso, con la giustificazione di
aggiungere 1 g per ogni 10 km sopra i 20 km (40 km -> 3 g per ogni 10 g di
peso corporeo).
3) Durante una competizione che si svolge a temperature elevate l’organismo
può perdere qualche litro d’acqua e una quantità di sodio pari a 2 g per litro
(Noakes). Come detto in precedenza, il reintegro salino è essenziale in attività
fisiche della durata superiore alle quattro ore.
Considerando anche una sensibilità individuale alla disidratazione, si può
comunque affermare che tutti gli integratori salini sono completamente
ingiustificati per corse di durata inferiore alle due ore: basta reidratarsi con
acqua (ed eventualmente carboidrati) per non avere alcun problema. Quindi
assumere i liquidi necessari, ma l’acqua è sufficiente (senza esagerare in senso
inverso, per evitare il fenomeno della iponatriemia).
4) Gli integratori glicidici possono essere assunti quando lo sforzo tende a
svuotare le nostre riserve di glicogeno; queste ultime sono dipendenti
dall’allenamento e dalla genetica del soggetto, ma sono sicuramente superiori
a quelle occorrenti per una corsa di 20 km o per un percorso di 60 km in
bicicletta. Questi sono i valori sopra i quali gli integratori glicidici appaiono
giustificati. Particolare attenzione devono porre i ciclisti per evitare durante la
prova di assumere più calorie di quante ne consumano!

La prevenzione

Molti integratori aiutano a prevenire patologie largamente diffuse e come tali


andrebbero assunti quando esistono buone probabilità di sviluppare la
patologia sotto esame. Eccone alcuni.
L’acido folico previene molte patologie (come l’ipoacusia nell’anziano) ed
è usuale fare 3-4 cicli annui di 30 giorni di tale sostanza che, essendo molto
ben tollerata, può essere assunta anche in dosaggi elevati (5 mg/die).
Per tutti coloro che hanno un cattivo indice di rischio cardiovascolare
(l’indice di rischio è dato da colesterolo totale/colesterolo buono e dovrebbe
essere inferiore a 5 nell’uomo e a 4,5 nella donna; ovviamente è preistorico il
medico che nella valutazione del rischio si riferisce ancora solo e unicamente
al colesterolo totale) sono indicati i fitosteroli.
Per tutte le donne sopra i 45 anni (anche se sedentarie) è consigliata
l’integrazione di calcio per coprire la quota consigliata di 1,5 g al giorno (in
genere bastano 500 mg), associando vitamina D, se non già assunta con un
multivitaminico.
Per tutti coloro che hanno più di 45 anni sono consigliabili 3-4 cicli di 30
giorni di glucosamina per la prevenzione dell’artrosi (1,5 g/die); nel caso
esista una predisposizione individuale del soggetto all’artrosi la frequenza di
assunzione può essere aumentata.
Per tutti quegli uomini sopra i 50 anni che manifestano un incremento del
PSA può essere utile l’integrazione con palmetto seghettato per combattere
l’ipertrofia prostatica.
Parte II - Le schede
ACAI
L’Acai (Euterpe oleracea) è una pianta appartenente alla famiglia delle
Arecacee (piante comunemente note come palme). La palma acai, pianta di
origine brasiliana, può arrivare a circa 25 m di altezza; i suoi frutti, che
maturano tra il mese di luglio e quello di dicembre, sono delle bacche sferiche
color rosso scuro, senza buccia e con un grosso nocciolo. Queste bacche
contengono alcuni minerali in traccia, acido oleico, acido linoleico, beta-
sitosteroli e alcune vitamine.
Questa varietà di costituenti ha fatto sì che il sempre attento mondo
dell’integrazione le proponesse come una specie di superfrutto utile in varie
situazioni (secondo alcuni avrebbe numerose e positive proprietà;
funzionerebbe infatti come antiossidante, energizzante, coadiuvante per il
dimagrimento, ipocolesterolemizzante ecc.); le forme sono varie: barrette,
perle, bevande ecc.
L’impiego di queste forme di integrazione molto spesso è solo una perdita di
denaro; i dosaggi di vitamine e minerali in questi prodotti sono talmente
irrisori che ha veramente poco senso ricorrervi.
N-ACETILCISTEINA
L’N-acetilcisteina (o più semplicemente acetilcisteina) è un derivato N-
acetilato dell’aminoacido L-cisteina. È uno dei precursori del glutatione, un
tripeptide con notevoli proprietà antiossidanti formato da cisteina, glicina e
acido glutammico.
L’N-acetilcisteina viene sintetizzata dal nostro organismo, ma può venire
introdotta anche attraverso la normale alimentazione.
L’N-acetilcisteina viene utilizzata come principio attivo di diversi farmaci
che vengono commercializzati come mucolitici nella terapia di quelle
patologie respiratorie che sono caratterizzati da ipersecrezioni dense e
vischiose come per esempio le bronchiti acuta e cronica, l’enfisema
polmonare e la mucoviscidosi; l’N-acetilcisteina infatti ha la capacità di
ridurre l’attrazione tra le molecole di mucopolisaccaridi; ciò fa sì che il
catarro diventi più fluido facilitando la sua espettorazione. L’N-acetilcisteina
viene inoltre utilizzata quale antidoto nei casi di intossicazione da
paracetamolo.

Effetti dimostrati
Incrementa la fluidità del muco nell’albero respiratorio e nei polmoni.
Protegge l’organo epatico mantenendo i livelli di glutatione e incrementando
il metabolismo ossidativo.

Avvertenze
L’assunzione di N-acetilcisteina non è scevra da diversi effetti collaterali tra
i quali i più comuni sono i disturbi a carico degli apparati gastrointestinale e
cutaneo. Altri effetti collaterali degni di nota sono le reazioni allergiche quali
orticaria, rash, prurito e broncospasmo.

Dose efficace
La dose efficace (supplementazione orale) raccomandata è di 250-1.500 mg.

A chi serve
L’assunzione di N-acetilcisteina viene consigliata nel trattamento di diverse
patologie a carico dell’apparato respiratorio. È considerato un farmaco
salvavita in caso di intossicazione da paracetamolo.
ACETO DI MELE
L’aceto di mele è un prodotto che può essere ricavato dall’affinamento del
sidro o del mosto di mele attraverso un processo di acidificazione.
L’aceto di mele è il tipico esempio di come spesso gli interessi commerciali
spingano a esagerare le caratteristiche di un prodotto basandosi sul fascino che
spesso ispira ciò che è “naturale”.
Oltre agli utilizzi in campo alimentare come insaporitore di cibi, l’aceto di
mele è proposto come integratore dalle eccezionali caratteristiche. L’aceto di
mele viene infatti descritto come un prodotto che contiene numerose sostanze
nutrienti (più di novanta).
Che la composizione di un prodotto veda la partecipazione di numerose
sostanze, vuol dire tutto e non vuole dire niente. In primis sarebbe necessario
quantificare; esistono molte sostanze in natura la cui composizione è
estremamente variegata; quello che ci si scorda di dire è che moltissimi
costituenti sono presenti in quantità infinitesimali.
L’aceto di mele, per esempio, viene propagandato come notevole fonte di
sali minerali (potassio, fosforo, calcio, magnesio, cloro, rame, ferro sodio,
zolfo manganese ecc.), vitamine (A, B1, B2, B6 ed E), chetoni, acidi amminici
ecc. Viene quindi consigliato in numerose occasioni: problemi oculari (occhi
stanchi e fotosensibilità), problemi orofaringei e respiratori (laringite,
raucedine, tosse e asma), problemi digestivi (digestione difficile, senso di
pesantezza e nausea); viene anche raccomandato in caso di problemi di
memoria, come disintossicante epatico e come rinforzante di capelli e unghie;
un’altra indicazione è quella di utilizzare l’aceto di mele nella prevenzione di
avvelenamenti alimentari; quelle riportate finora non sono le uniche
indicazioni all’uso di aceto di mele come integratore alimentare, ma appare
inutile proseguire nell’elenco. Far passare l’aceto di mele come toccasana
generale appare molto forzato e poco scientifico. È lo stesso approccio usato
nella propaganda di prodotti quali la propoli (vedasi scheda corrispondente) o
le cosiddette sostanze adattogene (eleuterococco, ginseng ecc., vedasi schede
corrispondenti).
ACIDI GRASSI ESSENZIALI
Attorno ai termini acidi grassi essenziali (EFA, essential fatty acids) c’è
molta confusione. Infatti l’aggettivo essenziale può essere interpretato in due
modi diversi:

•• esteso - ciò che è essenziale per la vita del soggetto;


•• ristretto - ciò che si deve necessariamente assumere dall’alimentazione
perché il nostro corpo non è in grado di produrlo.

Se si considerano due classi di acidi grassi polinsaturi, gli omega 3 e gli


omega 6 (otto in tutto) ci si può riferire a loro come acidi grassi essenziali, nel
senso esteso del termine. Il numero dopo la parola omega indica quanti atomi
di carbonio ci sono a partire dall’ultimo atomo di carbonio (che è per questo
denominato carbonio omega, l’ultima lettera dell’alfabeto greco) fino ad
arrivare al primo doppio legame.
In senso ristretto (che è anche quello più corretto, tant’è che gli EFA vengono
anche chiamati vitamina F), sono soltanto due gli acidi omega essenziali, cioè
non sintetizzabili dal corpo umano: l’acido alfalinolenico (omega 3) e l’acido
linoleico (omega 6).
Gli omega 3 sono contenuti soprattutto nei grassi del pesce (salmone,
sgombri, acciughe ecc.) e nell’olio di pesce (vedasi scheda Oli di pesce). Da
ricordare fra gli essenziali l’acido alfa-linolenico (contenuto nelle noci e negli
oli di soia, di mais); l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido
docosaesaenoico (DHA, fondamentale per la composizione dei lipidi del
cervello e dei fosfolipidi delle membrane sinaptiche implicate nella
trasmissione dell’impulso nervoso) sono invece non essenziali perché
sintetizzati da altri acidi grassi.
Gli omega 6 sono contenuti soprattutto negli oli vegetali (oli di girasole e di
mais che però non devono essere cotti), ma anche in cibi proteici, nelle
verdure e nei cereali. Da ricordare l’acido linoleico (è contenuto in noci,
cereali, olio di mais e di girasole, legumi); da esso deriva l’acido gamma-
linolenico, GLA, utile nella riduzione del colesterolo, contro l’artrite
reumatoide, la neuropatia diabetica e l’eczema).
Fra gli acidi grassi omega 6 si deve ricordare l’acido arachidonico, visto
come il peggior nemico dell’organismo da Sears e dalla sua dieta a zona.
Acidi grassi essenziali e salute - Lo studio degli eicosanoidi (che valse il
Nobel nel 1982 a Bergstrom, Samuelson e Vane) è importante per capire
l’importanza degli acidi grassi essenziali. Gli eicosanoidi sono sostanze
(superormoni) che controllano i sistemi ormonali. Sono rappresentati da
diverse famiglie di sostanze (prostaglandine, tromboxani, leucotrieni,
lipossine ecc.).
Alla fine degli anni novanta si diffuse la speranza che una classificazione fra
eicosanoidi buoni ed eicosanoidi cattivi (idem per altre famiglie: esistono
prostaglandine cattive, come la PGH2, o buone, come la PGE1 o la PGI2) e
un’alimentazione che potesse favorire la produzione di eicosanoidi buoni
potessero portare a una migliore salute.
Il cammino teorico - Vediamo come dagli acidi grassi essenziali si arriva
agli eicosanoidi.
1) L’acido linoleico grazie all’enzima delta-6-desaturasi si trasforma in
acido gamma-linolenico (GLA). L’enzima è inibito dall’acido alfalinolenico
che lo utilizza per la trasformazione in EPA e DHA.
2) L’acido gamma-linolenico si trasforma in acido diomogamma-linolenico
(DGLA).
3a) Il DGLA si trasforma direttamente in eicosanoidi buoni (come la
prostaglandina PGE1).
3b) Il DGLA si trasforma in acido arachidonico grazie all’enzima delta-5-
desaturasi; l’enzima è inibito dall’EPA e attivato da un eccesso di carboidrati.
4) L’acido arachidonico si trasforma in eicosanoidi cattivi (come la PGE2 e
il TxA2) e in eicosanoidi buoni (come la prostaciclina, la prostaglandina
PGI2).
Il cammino pratico - Questa visione biochimica dell’alimentazione ha
portato moltissime persone verso l’ortoressia nella speranza di “stare meglio”.
In realtà anche in chi ha seguito per un decennio (i primi cultori della teoria
degli eicosanoidi buoni) l’alimentazione “teorica” non sono stati riscontrati
significativi miglioramenti (che si scostassero cioè dalla media di chi avesse
un buon stile di vita, ma non tenesse conto della teoria degli eicosanoidi).

Effetti dimostrati
I grassi omega sono coinvolti in numerosi processi fra i quali ricordiamo la
crescita, la produzione di energia, la funzione sessuale e la riproduzione
(alcune patologie mammarie e alterazioni del ciclo mestruale derivano da
un’eccessiva assunzione di acidi saturi in rapporto agli omega 3/omega 6).
Favoriscono la salute della membrana cellulare e di quella mitocondriale
(per esempio aumento della sintesi proteica dei mitocondri epatici e
rigenerazione del parenchima epatico).
Favoriscono la sintesi dell’emoglobina, la coagulazione e diminuiscono la
fragilità capillare; consentono inoltre, nei diabetici, una migliore tolleranza ai
carboidrati.
Gli omega 3 permettono inoltre una riduzione del colesterolo totale, del
colesterolo cattivo (LDL) e dei trigliceridi.

Avvertenze
Dal momento che gli acidi grassi essenziali esplicano un’azione fluidificante
il sangue, l’integrazione di tali sostanze necessita di alcune precauzioni nel
caso di soggetti affetti da emofilia e in tutti coloro che si sottopongono a
terapie con farmaci anticoagulanti.
La somministrazione di acidi grassi essenziali deve inoltre essere effettuata
sotto stretto controllo medico in caso di patologie epatiche e pancreatiche.
In alcuni casi l’integrazione con acidi grassi essenziali può dar luogo a
disturbi di tipo gastrointestinale.
Il fabbisogno di vitamina E risulta aumentato.

Dose efficace
Allo stato attuale delle conoscenze non appare affatto facile definire con
certezza la dose efficace; la soluzione più ragionevole sembra quella di
assicurare al corpo le dosi minime di EFA. Tali fabbisogni giornalieri (fra
l’altro consigliati anche dalla FAO) sono:

•• omega 6: 6% del fabbisogno calorico giornaliero (circa 12-13 grammi)


•• omega 3: 1,5% del fabbisogno calorico giornaliero (circa 3 grammi).

Per avere almeno 12 g di omega 6 e 3 g di omega 3 basta una di queste


soluzioni:

•• 35 g di noci
•• 100 g di salmone al naturale + 20 g di olio di girasole crudo
•• 100 g di sardine + 60 g di arachidi + 30 g di olio di oliva.
A chi serve
Considerando quanto riportato nel paragrafo precedente, dovrebbe ricorrere
all’integrazione chi non si assicura l’apporto di omega 3 e 6 con la normale
alimentazione.
ACIDO CAPRILICO
L’acido caprilico (anche acido ottanoico) è un acido grasso non essenziale.
Viene estratto dalle noci di cocco e dall’olio di semi di palma. Se ne trovano
piccole quantità anche nel latte materno; è una sostanza poco solubile in acqua
e ha un gusto piuttosto sgradevole. Viene utilizzato in diversi settori; a livello
industriale viene usato per la produzione di coloranti e di sostanze destinate al
settore cosmetico, mentre in ambito sportivo e in ambito salutistico viene
proposto sotto forma di integratore alimentare. Come integratore destinato agli
sportivi viene usato come fonte energetica, mentre per gli usi di tipo salutistico
viene consigliato per la cura della candidosi spesso in associazione a
probiotici, aglio e curcuma (vedasi schede corrispondenti). Le forme
farmaceutiche sono generalmente capsule o compresse. Per il trattamento della
candidosi alcuni autori consigliano l’associazione di acido caprilico e psillio
(vedasi scheda corrispondente).
Cibi contenenti l’acido caprilico sono la noce di cocco, l’olio di semi di
palma, il latte e i latticini.

Effetti dimostrati
L’acido caprilico ha mostrato una certa efficacia nel trattamento della
candidiasi (dissolve la membrana cellulare della Candida albicans).

Avvertenze
Non esistono particolari precauzioni relativamente all’assunzione di acido
caprilico se non quella di non superare le dosi massime giornaliere
consigliate.

Dose efficace
I dosaggi ritenuti efficaci variano dai 300 ai 1.200 mg giornalieri.

A chi serve
L’utilizzo di integratori di acido caprilico può essere utile a coloro che sono
affetti da candidiasi.
ACIDO DOCOSAESAENOICO (DHA)
L’acido docosaesaenoico (DHA) è un acido grasso polinsaturo appartenente
alla famiglia degli omega 3. Da alcuni autori è considerato un acido grasso
essenziale (come per esempio l’acido alfa-linolenico), mentre altri
preferiscono considerarlo semiessenziale; in effetti il DHA viene sintetizzato
dall’organismo umano tramite conversione dell’acido alfa-linolenico, ma le
reazioni enzimatiche alla base di tale conversione non sono facilmente
attivabili.
Lo si ritrova in buone quantità nel pesce (salmone in primis, ma anche nel
pesce azzurro) e negli oli che dai pesci vengono ricavati; la sua presenza in
altre fonti alimentari è piuttosto scarsa: in piccole quantità lo si ritrova nella
carne, ma è assente nel latte vaccino e nei suoi derivati; è però presente nel
latte materno tant’è che alcuni produttori di latte artificiale lo aggiungono ai
loro prodotti.
Dal punto di vista nutrizionale gli viene riconosciuta una certa importanza
per il fatto che è in grado di ridurre i livelli ematici dei trigliceridi,
contribuendo in tal modo alla riduzione del rischio di patologie di tipo
cardiovascolare. Alcuni autori mettono i bassi livelli di questo acido in
relazione con alcune patologie di tipo neurologico.
Il DHA è un componente importante dei lipidi di membrana delle cellule del
cervello e della retina (viene utilizzato nel trattamento di patologie come la
retinite pigmentosa) e si ritiene che esso svolga un ruolo importante come
modulatore positivo della sintesi degli eicosanoidi buoni.
Ulteriori informazioni riguardanti la biochimica degli acidi grassi essenziali
sono disponibili nella scheda corrispondente.

Effetti dimostrati
La somministrazione di DHA aumenta la sua concentrazione nel latte
materno.
Riduce il livello ematico dei trigliceridi.

Avvertenze
La somministrazione di DHA in soggetti sottoposti a terapia anticoagulante o
affetti da emofilia deve essere effettuata soltanto dietro stretto controllo
medico.

Dose efficace
Gli integratori che lo contengono (spesso in associazione a vitamina E)
prevedono generalmente dosaggi che variano dai 50 ai 150 mg giornalieri.
La dose per soggetti con ipertrigliceridemia o ipercolesterolemia è di 1-4 g
al giorno.

A chi serve
L’integrazione di omega 3 può essere consigliata a soggetti adulti,
specialmente se vegetariani, per la prevenzione delle patologie di tipo
cardiovascolare. Chi segue un regime alimentare in cui è prevista la presenza
frequente di pesce non necessita di integrazione.
ACIDO EICOSAPENTAENOICO (EPA)
L’acido eicosapentaenoico (EPA), conosciuto anche come acido
timnodonico o acido icosapentaenoico, è un acido grasso polinsaturo facente
parte della famiglia degli omega 3.
L’acido eicosapentaenoico, diversamente da altri acidi grassi della stessa
famiglia, non è un acido grasso essenziale, ma svolge funzioni ritenute molto
importanti: oltre a essere il principale precursore delle prostaglandine della
serie 3 (prostaglandine caratterizzate da una spiccata attività antiaggregante
piastrinica), del trombossano 3 e dei leucotrieni 5, l’acido eicosapentaenoico
è un inibitore dell’enzima delta-5-desaturasi, responsabile della
trasformazione del DGLA (acido diomogamma-linolenico) in acido
arachidonico, precursore di eicosanoidi cattivi come la PPGE e il TxA2.
L’acido eicosapentaenoico è presente in discrete quantità nel grasso dei
pesci, in particolar modo in salmone, trota, sardine, sgombro, aringhe e tonno.

Effetti dimostrati
Ha funzioni inibitorie nei confronti dell’enzima delta-5-desaturasi.
Agisce come precursore di diversi eicosanoidi (prostaglandine, trombossani
e leucotrieni).
Riduce il livello ematico dei trigliceridi.

Avvertenze
La somministrazione di EPA in soggetti sottoposti a terapie di tipo
anticoagulante deve essere effettuata previa indicazione medica.

Dose efficace
Gli integratori che lo contengono (spesso sotto forma di olio di pesce) sono
generalmente combinazioni di EPA; la somma delle dosi dei due componenti
va generalmente dai 250 mg a 3 g giornalieri.

A chi serve
L’integrazione di omega 3 può essere consigliata a soggetti adulti,
specialmente se vegetariani, per la prevenzione delle patologie di tipo
cardiovascolare. Chi segue un regime alimentare in cui è prevista la presenza
frequente di pesce non necessita di integrazione.
ACIDO FOLICO (vitamina B9)
L’acido folico (o vitamina B9; il nome deriva dal latino folium che indicava i
vegetali a foglia larga come gli spinaci, ricchi di acido folico) è un acido di
complessa struttura, scoperto nelle foglie degli spinaci. La struttura comprende
nuclei benzenici ed eterociclici con azoto. È presente nel fegato, nella carne,
nel lievito di birra e in molti alimenti vegetali (asparagi, carciofi, verdure,
arance e agrumi). La cottura degli alimenti ne riduce notevolmente il contenuto
(circa 80%). Avrebbe effetti positivi nella prevenzione delle malattie
cardiovascolari, dei tumori, dell’Alzheimer, ma, a parte la spina bifida, il suo
ruolo non è ancora stato completamente chiarito. Secondo alcuni studi, una
carenza di folati può essere strettamente connessa all’ipoacusia (perdita di
udito) tipica della terza età (circa un adulto su tre al di sopra dei 60 anni e la
metà degli over 85).
La posizione AHA – L’American Heart Association (un organismo molto
conservatore) stranamente non ritiene necessaria (anzi “non raccomanda”)
l’integrazione con acido folico nonostante ammetta il ruolo dell’omocisteina
nella patologia cardiovascolare. Incredibilmente, visto che l’assunzione di
acido folico non ha controindicazioni, si limita a sostenere che
un’alimentazione corretta può risolvere il problema e che la RDA consigliata
(400 mcg) è più che sufficiente.
Visto che molti alimenti sono arricchiti di acido folico e che praticamente
tutti raggiungono la RDA, se bastasse questa quantità, perché si rilevano
comunemente livelli di omocisteina alti in chi ha uno stile di vita errato
(sovrappeso, fumo ecc.)? Secondo alcuni, è fondamentale per l’AHA
mantenere un buon rapporto con le multinazionali del farmaco, continuando a
promuovere la lotta al colesterolo e la conseguente vendita di statine. Infatti il
costo dell’acido folico è veramente minimo e non darebbe adito a un grosso
business.
La motivazione ufficiale sarebbe che “non si è ancora capito il meccanismo
con cui l’omocisteina promuove l’aterosclerosi”, pur sapendo che ciò
avviene! Inoltre si sa per certo che bassi livelli di acido folico nel sangue
sono correlati a un maggior rischio cardiovascolare.

Effetti dimostrati
Ha funzione importante nella moltiplicazione delle cellule, cioè nella sintesi
degli acidi nucleici, nonché di aminoacidi; come vitamina del gruppo B
interviene nella formazione dei globuli rossi (fattore antianemico) ed è
importante per l’equilibrio del sistema nervoso.
Favorisce la fertilità, aiuta sia prima sia durante la gravidanza ed è
consigliato durante il periodo dell’allattamento.
L’acido folico è inoltre in grado di ridurre l’omocisteina, un aminoacido
presente nel sangue e i cui alti livelli sono associati a un maggior rischio
cardiovascolare.

Avvertenze
La somministrazione di acido folico va fatta con una certa cautela in soggetti
affetti da anemia megaloblastica di origine non nota. La motivazione di tale
cautela risiede nel fatto che l’acido folico può rendere difficoltosa la diagnosi
di anemia perniciosa dal momento che può ridurre le manifestazioni
ematologiche della patologia facendo progredire le complicazioni di tipo
neurologico; in altre parole: mascherando la diagnosi si potrebbe arrivare a un
grado elevato di danni neurologici prima di diagnosticare con certezza la vera
causa dello stato anemico.
Nei soggetti trattati con farmaci antagonisti dell’acido folico è più opportuna
la somministrazione di acido folinico piuttosto che quella di acido folico a
elevati dosaggi.
Non è raccomandata la co-somministrazione di acido folico con
fenobarbitale, fenitoina o piramidone.
È necessario controllare la risposta ematologica in caso di co-
somministrazione di acido folico e cloramfenicolo.

Dose efficace
La RDA (Recommended Daily Allowance, la dose giornaliera consigliata) è
di circa 400 microgrammi, anche se i più recenti studi consigliano
un’assunzione di 1 mg al giorno. Se preso da solo, l’acido folico viene
assorbito al 100% (da qui l’efficacia dei prodotti d’integrazione alimentare);
la percentuale scende all’85% se preso con gli alimenti e al 50% se assunto
come folati dai cibi. Anche se assunto in eccesso, non ha effetti collaterali.
Esistono vere e proprie anemie da mancato assorbimento dei folati, curabili
con l’assunzione di acido folico in quantità molto alte (15 mg al giorno). Si
tratta di un esempio in controtendenza con il naturale: ciò che viene assunto
naturalmente è decisamente meno efficace dell’assunzione “sintetica”.
La standardizzazione dell’azione dell’acido folico passa attraverso la
definizione del DFE (dietary folate equivalent) dove 1 DFE = 1
microgrammo di folato alimentare = 0,5 microgrammi di integratore (sintetico)
assunto a stomaco vuoto.

A chi serve
Una carenza relativa di acido folico nel sangue materno prima del
concepimento e durante le prime settimane di gravidanza aumenta le
probabilità di avere un figlio con un difetto di chiusura del tubo neurale. È
consigliabile integrare l’alimentazione della donna con 0,5-0,8 mg al giorno
almeno tre mesi prima dell’inizio di una gravidanza e nei successivi tre mesi;
con tale integrazione, si riduce il rischio del 70%.
Molte fonti consigliano l’integrazione di acido folico non solo per le donne
che decidono di dare inizio a una gravidanza. Il consiglio prevalente è quello
di effettuare un’integrazione, per lo meno a cicli (tre all’anno), per il
mantenimento generale della salute.
ACIDO GAMMA-LINOLENICO (GLA)
L’acido gamma-linolenico, (anche GLA, acido gamolenico o
octadecatrienoico) è un acido grasso polinsaturo omega 6; fonti relativamente
ricche di questo acido grasso sono alcuni oli di origine vegetale; lo si può
trovare infatti nell’ambito delle famiglie delle Onogracee (enotera), delle
Grossulariacee (ribes nigrum L.) e nelle Boraginacee (borragine).
Il corpo umano lo produce quale metabolita dell’acido linolenico.

Effetti dimostrati
L’acido gamma-linolenico ha effetti antidiarroici e antitussigeni.

Avvertenze
L’acido gamma-linolenico va somministrato con una certa cautela ai soggetti
sottoposti a terapia anticoagulante e agli emofiliaci.

Dose efficace
Clinicamente vengono impiegate dosi che vanno da 360 mg a 2,8 g al giorno.

A chi serve
Alcuni autori lo ritengono essenziale nei soggetti portatori di un deficit di 6-
delta-desaturasi.
ACIDO GLUTAMMICO
L’acido glutammico è un aminoacido che fa parte della struttura di diverse
proteine, sia vegetali che animali. È presente in buone quantità in diverse
tipologie di alimenti (carne, pesce, uova, prodotti lattiero-caseari, vegetali
ecc.).
Per l’uomo è un aminoacido non essenziale dal momento che il nostro
organismo può operarne la sintesi metabolica. La sua formazione può derivare
dall’acido piruvico o dall’acido alfa-chetoglutarico (prodotti intermedi del
catabolismo glicidico) o anche da altri aminoacidi quali l’istidina e la prolina.
L’acido glutammico è coinvolto in numerose funzioni di tipo biologico;
interviene infatti nella sintesi delle proteine, dell’acido folico,
dell’acetilcolina e del glutatione. È un precursore di glutammina, prolina,
arginina e GABA; reagendo con la citrullina forma arginina e, insieme alla
glutammina, entra nel meccanismo di inattivazione dell’ammoniaca che viene
prodotta dal catabolismo proteico e da quello aminoacidico. L’acido
glutammico è anche uno dei cosiddetti aminoacidi glucogenetici (o
glucogenici) ovvero aminoacidi dai quali, attraverso particolari processi, è
possibile la formazione di glucosio. Un’altra sua importante funzione è quella
di intervenire nei meccanismi che regolano la permeabilità di membrana nelle
cellule nervose.
Un sale dell’acido glutammico, il glutammato di sodio, è uno dei più comuni
additivi dell’industria alimentare (è usato come esaltatore di sapidità e viene
identificato con il codice E621). Anche l’acido glutammico viene utilizzato
come additivo (codice E620). Entrambi si possono trovare principalmente in
dadi da brodo, prodotti da gastronomia, primi, secondi e contorni surgelati,
salse, prodotti in scatola, salumi e liofilizzati.
In campo medico l’acido glutammico viene utilizzato per il trattamento delle
insufficienze epatiche e dell’epilessia oltre che come farmaco psicotropo.
Negli integratori alimentari è spesso abbinato ad altri aminoacidi e a
vitamine del complesso B. Generalmente tali integratori vengono consigliati in
caso di surmenage fisico e mentale.
ACIDO IALURONICO
L’acido ialuronico è, insieme a proteoglicani e fibre collagene, uno dei
principali componenti della matrice extracellulare (una sostanza fondamentale
a livello di scambi metabolici cellulari). L’acido ialuronico è costituito da
unità alternate di acido glicuronico e di acetilglicosamina che si ripetono in
una lunga catena lineare flessibile di alto peso molecolare (500-8.000
kdalton). La scoperta dell’acido ialuronico si deve a Karl Meyer e a un suo
assistente, John Palmer, che nel 1934 lo isolarono dal corpo vitreo dell’occhio
di un bovino; il nome della sostanza, hyaluronic acid, fu scelto dai due
ricercatori e deriva da hyaloid (vitreo) e uronic acid (acido uronico, una delle
frazioni saccaridiche che compongono l’acido ialuronico). In seguito si è
scoperto che l’acido ialuronico, oltre che nell’umor vitreo, si trova anche nel
liquido sinoviale, nella cute, nella cartilagine, nei tendini, nelle pareti aortiche
e nel cordone ombelicale. Nel corpo umano la concentrazione media di acido
ialuronico è di circa 200 mg per kg di peso.
Acido ialuronico e artrologia - L’artrosi è, come noto, una delle patologie
più comuni; è una malattia a carico delle articolazioni, soprattutto della
colonna vertebrale e delle ginocchia, che colpisce la cartilagine, provocando
lesioni degenerative della stessa. Nei pazienti soggetti ad artrosi esiste una
marcata riduzione delle capacità viscoelastiche del liquido sinoviale. Le
terapie per questo tipo di patologia sono di vario tipo; la terapia intra-
articolare con acido ialuronico (viscosupplementazione), nata inizialmente
con il solo scopo di diminuire la sintomatologia dolorosa, si è dimostrata
efficace sia a livello curativo che preventivo e trova giustificazione nel fatto
che le spiccate proprietà viscoelastiche dell’acido ialuronico sono alla base
delle capacità di lubrificazione e ammortizzazione del liquido sinoviale;
inoltre l’acido ialuronico ha un ruolo protettivo nei confronti dei tessuti
limitando la penetrazione di cellule infiammatorie o di enzimi proteolitici. La
terapia intra-articolare è giudicata positivamente da un gran numero di autori e
questo tipo di trattamento è stato inserito nelle linee guida di ACR (American
College of Rheumatology) e EULAR (European League Against
Rheumatism) relativamente al trattamento dell’artrosi dell’anca e della
gonartrosi.
Acido ialuronico e chirurgia estetica - Sono due i tipi di acido ialuronico
che vengono impiegati in chirurgia estetica: acido ialuronico di origine aviaria
e acido ialuronico di origine batterica (NASHA, Non-Animal Stabilized
Hyaluronic Acid).
L’acido ialuronico viene impiegato generalmente per restituire pienezza e
turgore alle labbra, per la riduzione delle pieghe nasolabiali, per il trattamento
delle rughe glabellari e perioculari, per ridurre gli inestetismi gravi dovuti
all’acne o post-traumatici, per ridurre gli inestetismi dei tessuti molli, per il
rimodellamento di guance e mento ecc.
I trattamenti effettuati con l’acido ialuronico sono di norma ambulatoriali e
hanno una durata che varia dai 15 ai 30 minuti. Non è generalmente necessario
il ricorso all’anestesia locale, al più si fa ricorso a pomate anestetiche quando
si devono trattare punti piuttosto delicati come, per esempio, le labbra. I
prodotti presenti in commercio (i cosiddetti fillers) sono di diverso tipo e
vengono generalmente classificati in base al loro tempo di riassorbimento:
prodotti a lento riassorbimento (12 mesi), a medio riassorbimento (da 5 a 6
mesi) e a rapido riassorbimento (da 2 a 3 mesi).
Generalmente non vi sono postumi significativi dopo il trattamento con acido
ialuronico; in alcuni casi, durante le prime 24-48 ore è possibile che la zona
trattata sia leggermente infiammata e più gonfia di quanto non sia stato
preventivato; in alcuni casi, invero rari, può esserci la comparsa di un livido
nel punto in cui è stata effettuata l’iniezione.
Il trattamento non è permanente e, a seconda del tipo di terapia utilizzata, la
durata varia dai 2 ai 12 mesi; trascorsi tali periodi è possibile ripetere
nuovamente il trattamento.
Acido ialuronico e chirurgia otologica - L’uso dell’acido ialuronico nel
campo della chirurgia otologica è soprattutto diretto alla riparazione delle
perforazioni a carico della membrana timpanica; i primi studi effettuati
avevano evidenziato che l’applicazione di acido ialuronico aveva un effetto
accelerativo sui tempi di guarigione e, cosa ancor più importante, stimolava la
formazione di tessuto cicatriziale. Altri usi in otochirurgia sono la costruzione
di membrane utilizzate come copertura temporanea del nervo facciale e
l’utilizzo di piccoli tubi che hanno lo scopo di tenere aperta la tuba di
Eustachio.
Acido ialuronico e oculistica - L’uso principale dell’acido ialuronico in
campo oculistico è relativo al trattamento della sindrome dell’occhio secco,
ma viene anche utilizzato come soluzione viscoelastica nella chirurgia della
cataratta (viene iniettato nell’occhio allo scopo di prevenire la perdita
corneale).
Grazie alle capacità viscoelastiche e igroscopiche dell’acido ialuronico, si
sono studiati colliri che hanno dimostrato di aumentare significativamente la
stabilità del film lacrimale.
Acido ialuronico e ingegneria tissutale - L’acido ialuronico può venire
utilizzato, sotto forma di apposite membrane, su ustioni di II e III grado; grazie
alle sue capacità cicatrizzanti e di ricostruzione tissutale può, quando la
lesione non è troppo grave ed estesa, venire impiegato come unico trattamento;
nel caso invece che le lesioni siano più gravi ed estese può essere utilizzato
come primo trattamento in attesa che si possa procedere con l’autoinnesto
della cute. Le membrane a base di acido ialuronico sembrano infatti garantire,
oltre all’accelerazione del processo riparativo, un’efficace barriera contro le
contaminazioni esterne; queste membrane hanno inoltre lo scopo di ridurre al
minimo la perdita di liquidi.

Effetti dimostrati
L’acido ialuronico è dotato di proprietà igroscopiche, reologiche e
viscoelastiche e sono molte le funzioni svolte da questa sostanza
nell’organismo umano. Man mano che venivano approfondite le conoscenze
sul ruolo dell’acido ialuronico si è sempre fatta più strada l’idea di utilizzarlo
come agente terapeutico.

Avvertenze
Alcuni preparati contengono tracce di proteine aviarie; l’uso di questi
preparati è pertanto controindicato in chi presenta allergia a queste sostanze.
In alcuni casi è stato registrato un incremento della sintomatologia dolorosa.

Dose efficace
Ha senso parlare di dose efficace soprattutto in rapporto agli effetti
dell’acido ialuronico in campo artrologico.
Si suppone che i meccanismi di azione dell’acido ialuronico dipendano dal
suo peso molecolare; è stato provato che quest’ultimo parametro influenza la
quantità di acido ialuronico esogeno capace di passare attraverso la membrana
sinoviale; tale quantità è inversamente proporzionale al peso molecolare
stesso. La ricerca si è pertanto concentrata sulla preparazione di molecole che
avessero un peso molecolare adeguato allo scopo che ci si prefiggeva di
raggiungere. Il criterio che guida la scelta del prodotto da utilizzare è la
gravità radiologica del processo artrosico; nei casi più gravi si tende a
preferire preparazioni dal peso molecolare più elevato che, sfruttando l’effetto
reologico, possono contribuire a diminuire significativamente la
sintomatologia dolorosa. Attualmente sono in commercio preparati che
possono essere iniettati annualmente oppure ogni 8 o 9 mesi, a differenza di
quanto accadeva in passato quando, nel corso di un anno, era necessario
ripetere il trattamento anche cinque o sei volte.

A chi serve
Attualmente l’acido ialuronico viene utilizzato in vari campi medici fra cui
l’artrologia, la chirurgia estetica, la chirurgia otologica, l’oftalmologia,
l’ingegneria tissutale.
ACIDO IDROSSICITRICO (HCA)
L’acido idrossicitrico (HCA) è un derivato dell’acido citrico; è un estratto
della buccia del frutto della Garcinia Cambogia, pianta originaria del sud-est
asiatico utilizzata in erboristeria in prodotti dimagranti (vedasi scheda
Dimagranti da banco); si trova anche in una pianta del genere Hibiscus,
l’Hibiscus sabdariffa, una pianta perenne diffusa sia in Africa che in Asia.
Viene utilizzato nei dimagranti in quanto sembra agire sull’enzima
citratoliasi (enzima coinvolto nella trasformazione dei carboidrati in grassi) o
direttamente sull’acetilcoenzima A, bloccando la sintesi degli acidi grassi ed
evitando che si formi tessuto adiposo.

Effetti dimostrati
Agisce sull’enzima citratoliasi bloccando la sintesi degli acidi grassi.

Avvertenze
Non sono segnalate avvertenze particolari, se non il rallentamento del
metabolismo dell’AcetilCoa, fondamentale per la produzione di energia.

Dose efficace
Il dosaggio raccomandato per la riduzione del senso di fame e del peso
corporeo è di 400-750 mg di acido idrossicitrico suddiviso in 2-3 dosi, 30-60
minuti prima dei pasti principali.
L’assunzione di acido idrossicitrico tramite Garcinia Cambogia va fatta
riferendosi alla quantità di acido idrossicitrico presente; in questi casi, la dose
consigliata è quella di Garcinia Cambogia standardizzata almeno al 50% di
acido idrossicitrico.

A chi serve
Non esistono solide evidenze scientifiche riguardo all’efficacia dell’acido
relativamente alla perdita e al successivo mantenimento del peso corporeo.
Non ne viene pertanto consigliata l’assunzione.
ACIDO LINOLEICO
L’acido linoleico (anche acido allcis-9,12-ottadecadienoico) è un acido
grasso essenziale costituito da 18 atomi di carbonio e appartenente alla
famiglia degli omega 6.
L’acido linoleico è presente in tutti gli oli di origine vegetale, ma è
particolarmente abbondante nell’olio di cartamo e in quello di girasole. Altri
alimenti ricchi di acido linoleico sono le noci, i cereali e alcuni legumi.
L’organismo umano non è in grado di sintetizzare questo acido grasso per cui
esso deve essere introdotto attraverso l’alimentazione.
L’acido linoleico, una volta introdotto nell’organismo, viene convertito, per
via enzimatica, in altri acidi grassi appartenenti alla stessa famiglia (in questo
caso omega 6); nella fattispecie, grazie all’azione degli enzimi elongasi
(deputato all’allungamento della catena carboniosa) e desaturasi (deputato
all’aumento del numero dei doppi legami), l’acido linoleico viene trasformato
in acido gamma-linolenico (GLA), in acido diomogamma-linolenico (DGLA)
e in acido arachidonico.
Nel mondo dell’integrazione viene utilizzato generalmente un isomero
dell’acido linoleico, il CLA, ovvero l’acido linoleico coniugato (vedasi
scheda corrispondente).
Per quanto riguarda il ruolo generale degli acidi grassi essenziali della serie
omega 6, rimandiamo invece alla scheda Acidi grassi essenziali che tratta
l’argomento nel dettaglio.
ACIDO LINOLENICO (acido alfa-linolenico)
L’acido linolenico (acido alfa-linolenico, ALA o acido octadecatrienoico) è
un acido grasso polinsaturo la cui catena carboniosa contiene 18 atomi di
carbonio e 3 doppi legami, il primo dei quali a livello del terzo atomo di
carbonio della catena; appartiene pertanto alla famiglia degli omega 3. L’acido
linolenico è presente in alcuni tipi di alghe, in determinati legumi verdi ed è
particolarmente abbondante nell’olio di semi di lino (vedasi scheda
corrispondente) e nell’olio di perilla (il termine perilla indica un genere di
piante aromatiche appartenenti alla famiglia delle Lamiaceae); minori, ma
comunque interessanti, le percentuali di presenza nell’olio di semi di soia, di
mais, nelle noci ecc.
Dal momento che l’acido linolenico è un acido grasso essenziale (ovvero
non sintetizzabile dal nostro organismo) deve essere assunto con gli alimenti;
alcuni autori ritengono che, in linea generale, i modelli dietetici contemporanei
non siano in grado di assicurare un’assunzione ideale di questa sostanza, per
cui spesso viene consigliata una sua integrazione.

Effetti dimostrati
L’acido linolenico è in grado di ridurre, seppure in modo modesto, il livello
ematico del colesterolo LDL. È stata osservata inoltre una riduzione
dell’assorbimento post-prandiale di glucosio.
L’acido linolenico ha mostrato una lieve azione antiinfiammatoria e
antitrombotica.

Avvertenze
Le considerazioni da fare per l’acido linolenico sono pressoché le stesse
riportate nel paragrafo Avvertenze della scheda Acidi grassi essenziali; va
quindi osservata una certa cautela nella somministrazione di integratori di
acido linolenico nel caso si assumano farmaci anticoagulanti o si sia affetti da
emofilia.

Dose efficace
3-4 g di ALA equivalgono a 0,3 g di EPA; possono essere assunti con facilità
dal pesce (100 g salmone al naturale, trota, sardine, sgombro, aringhe o tonno
contengono 1,5-3 grammi di omega 3) oppure tramite integratori, in
associazione o in alternativa alla supplementazione di 400-1.000 mg di
EPA/DHA.

A chi serve
L’integrazione di acido linolenico può essere indicata per soggetti adulti,
specialmente se vegetariani, per la prevenzione delle patologie di tipo
cardiovascolare. Chi segue un regime alimentare in cui è prevista la presenza
frequente di pesce non necessita di integrazione.
ACIDO OLEICO
L’acido oleico (anche acido cis-9-ottadecenoico) è un acido grasso
monoinsaturo costituito da 18 atomi di carbonio e appartenente alla famiglia
degli omega 9.
Nella sua forma esterificata, ovvero come trigliceride, è una componente
decisamente importante degli oli di tipo vegetale e rappresenta il costituente di
maggiore importanza negli oli di origine vegetale; nell’olio d’oliva per
esempio è presente in percentuali che variano dal 60 all’80%.
La quota di acido oleico libero che si ritrova nell’olio di oliva è quella che
stabilisce la sua acidità. Per la legislazione vigente nel nostro Paese, un olio
vergine di oliva per essere definito tale deve avere una quota libera di acido
oleico inferiore al 2%; nell’olio extravergine tale quota deve essere inferiore
allo 0,8%. Minore è la quota di acido oleico libero tanto più l’olio è pregiato.
Più un olio è ricco di acido oleico, tanto più risulta stabile alle alte
temperature; l’olio di oliva, ricco di acido oleico, ha un punto di fumo
decisamente elevato (190-240 °C) e risulta quindi molto adatto per la frittura
degli alimenti.
Dall’acido oleico vengono ottenuti diversi derivati che vengono impiegati in
vari settori industriali (nell’industria tessile, nell’industria cosmetica,
nell’industria saponiera, nella preparazione di lubrificanti ecc.).
Nel settore dell’integrazione alimentare, l’acido oleico viene generalmente
abbinato ad altri acidi grassi in supplementi destinati alla protezione
dell’apparato cardiovascolare e al trattamento delle alterazioni
dell’idratazione e della compattezza della cute.
ACQUA KANGEN
L’acqua Kangen è un’acqua ottenuta con una macchina ionizzatrice; si tratta
di un’acqua alcalina (pH da 8,5 a 9,5) con proprietà antiossidanti.
Diverse sono le proprietà che le vengono attribuite; per esempio, alcuni
sostengono che il fattore responsabile dell’ottima salute e longevità di
determinate popolazioni fosse questa particolare acqua. A onor del vero,
esistono popolazioni con un maggior numero di centenari, ma la vita media
della popolazione presa in esame dai produttori di acqua Kangen è solo di un
anno o due superiore a quella delle popolazioni vicine. Inoltre il fatto che la
longevità sia attribuibile all’acqua è tutto da dimostrare.
Altre proprietà attribuite all’acqua (e riportate nei depliant pubblicitari)
sono le seguenti:

Scioglie i residui acidi depositati nei tessuti, idrata velocemente il corpo,


neutralizza i radicali liberi, ossigena il sangue, aumenta l’energia, pulisce
il colon, migliora la resistenza allo stress, favorisce il mantenimento del
peso ideale e la riduzione del grasso e della cellulite, regolarizza le funzioni
intestinali, aumenta l’assorbimento delle vitamine e dei minerali.

Non basta bere un’acqua alcalina per diminuire l’acidità del corpo. Se così
fosse, un atleta durante una competizione di resistenza (in cui si produce acido
lattico), bevendo acqua Kangen batterebbe tutti i record. Esistono già molti
esempi in letteratura di come si sia cercato, tramite soluzioni alcaline, di
tamponare l’acidità lattica da fatica: a tutt’oggi non esistono prodotti validi.
Si deve anche dimostrare che questa’acqua sia efficace per mantenere il
peso, ridurre la cellulite e aumentare l’assorbimento di micronutrienti.
Lascia inoltre molto perplessi un’altra affermazione fatta a favore dell’acqua
Kangen ovvero che negli atleti sarebbero stati notati dei miglioramenti
notevoli della perfomance e della capacità di recupero dopo lo sforzo. Come
detto sopra, se fosse vero, i record mondiali crollerebbero e tutti i
professionisti la userebbero.
I produttori sostengono infine che, se bevuta regolarmente, l’acqua Kangen
può aumentare la concentrazione di ossigeno del 64% migliorando l’energia e
la resistenza allo stress.
Ignorando le basi della fisiologia, si può ritenere la frase ragionevole, ma un
po’ di cultura medica ci direbbe che, se la concentrazione dell’ossigeno
aumentasse del 64%, il soggetto volerebbe. Ritorniamo al caso in cui un
grande atleta, bevendo acqua Kangen, polverizzerebbe i record mondiali.
Concludendo, le reclamizzate proprietà dell’acqua Kangen lasciano molto
perplessi. Inoltre si consideri che chi promuove l’acqua Kangen è il primo a
sostenere che il pH naturale del sangue e delle cellule è compreso fra 7,30 e
7,45. Come si può pensare che alcalinizzandolo oltre misura (con acqua con un
pH di circa 9) non si rompano delicati equilibri e si abbiano solo benefici
anziché danni?
AGLIO
L’aglio (Allium sativum) è una pianta bulbosa perenne di altezza molto
variabile (dai 20 ai 70 cm circa); quando i bulbi della pianta vengono rotti, o
comunque contusi, emanano un caratteristico aroma, molto forte e pungente.
Il bulbo della pianta consiste di numerosi strati di foglie molto sottili che
circondano una lamina centrale che a sua volta racchiude i cosiddetti spicchi.
Il periodo di raccolta dei bulbi va da settembre a ottobre.
Probabilmente originario di zone situate nell’Asia centrale, l’aglio è ormai
coltivato in tutto il mondo sia per scopi alimentari sia per scopi di tipo
fitoterapico. L’aglio cresce nella stragrande maggioranza dei terreni, ma
predilige quelli umidi e drenati. È una pianta molto resistente al freddo, tollera
infatti temperature fino a -10 °C. Cresce bene con quasi tutte le piante, ma
inibisce la crescita dei legumi; non dovrebbe essere piantato vicino alla
Medicago sativa (nota anche come erba medica o alfa-alfa) perché queste
due piante si inibiscono a vicenda.
I costituenti principali dell’aglio sono l’olio essenziale e diversi composti
sulfurei (alliina, S-allilcisteina sulfossido, ecc.). Quando il bulbo viene rotto o
contuso, vi è un rilascio di alliina che, interagendo con l’enzima alliinase,
forma per idrolisi alcune sostanze intermedie che si autocondensano molto
rapidamente e formano vari tiosolfunati, principalmente allicina (70% circa).
In fitoterapia l’aglio viene consigliato per il trattamento di moltissimi
disturbi. Viene per esempio raccomandato in caso di raffreddore, sindrome
influenzale, otite, pertosse, faringite e bronchite. L’aglio viene ritenuto un
ottimo immunostimolante e si pensa possa ridurre i tempi di recupero dopo le
infezioni di tipo gastrointestinale. Tradizionalmente viene utilizzato contro i
parassiti intestinali e per la candida vaginale. Gli vengono attribuite anche
virtù antisettiche e conseguentemente viene consigliato sia per trattare le ferite
che per curare calli, porri e infezioni virali cutanee.
L’aglio viene consigliato anche come trattamento preventivo per i disturbi di
tipo cardiocircolatorio (aterosclerosi, ipertensione arteriosa,
ipercolesterolemia, ictus ecc.); per tale scopo ne viene consigliato un uso
quotidiano a lungo termine. Viene indicato anche come chelante nei casi di
intossicazione da piombo. Il suo utilizzo è però controindicato in caso di
gastriti acute o croniche, gravidanza (ad alte dosi) e infiammazione delle
mucose; dovrebbero astenersi dal consumo di aglio (a dosi terapeutiche) i
soggetti che hanno in programma un intervento di tipo chirurgico.
In alcuni casi l’esposizione cronica a succo di aglio puro ha provocato
allergie da contatto con allicina e asma allergico.
È decisamente sconsigliato il consumo prolungato di notevoli quantità di
aglio fresco o di dosaggi elevati di integratori a base di allicina a coloro che
utilizzano farmaci anticoagulanti e/o antipiastrinici. Occorre una certa cautela
nell’uso di aglio o di integratori a rilascio di allicina sia se si assumono
farmaci inibitori delle proteasi, sia se si utilizzano farmaci inibitori non
nucleosidici della trascrittasi inversa, sia se si assume insulina.
Da molti l’aglio è considerato una vera e propria panacea per numerosi
disturbi; in realtà non si deve esagerare quando si parla dei benefici indotti;
come moltissimi cibi è ovvio che anche l’aglio possa agire positivamente sul
benessere dell’organismo, ma utilizzarlo come vero e proprio medicinale è
veramente ottimistico. Ricordiamo che le case farmaceutiche sono molto
attente ai successi della fitoterapia: se qualcosa funziona veramente (vedasi
aspirina, l’acido acetilsalicilico), parte subito (nel bene e nel male) la
produzione “sintetica” del prodotto sotto forma di farmaco (cioè non sotto
forma di integratore). Quando questa partenza è assente spesso significa che la
sostanza non è sufficientemente interessante o che comunque la sua utilità è
limitata a patologie decisamente banali.
Per approfondimenti su quest’ultimo punto rimandiamo all’Appendice E, I
limiti della fitoterapia.
AGNOCASTO
L’agnocasto (Vitex agnus castus) è una pianta arbustiva che appartiene alla
famiglia delle Verbenacee. È una pianta originaria delle aree mediterranee e
dell’Asia occidentale. È noto anche come Albero del pepe, Pepe falso, Pepe
dei monaci e Albero della castità; quest’ultima curiosa definizione è dovuta al
fatto che l’agnocasto ha un certo potere inibente la libido (nell’antichità era
usato dalle sacerdotesse greche che facevano voto di castità, mentre nel
Medioevo veniva utilizzato dai monaci).
La parte utilizzata per scopi fitoterapici è il frutto. I componenti principali
sono oli essenziali, alcaloidi, flavonoidi e iridoidi.
Attualmente l’agnocasto viene consigliato per armonizzare il bilancio
ormonale femminile (regolazione del sistema ovulatorio in caso di amenorrea
e dismenorrea e miglioramento dei disturbi della menopausa).
Allo stato delle conoscenze attuali, l’agnocasto è l’unica pianta ad azione
progestogenica; che l’agnocasto espleti un’azione ormono-simile è certo; ciò
che non è ancora perfettamente noto è l’esatto meccanismo di azione della
pianta; attualmente si ritiene che tale azione sia imputabile al fitocomplesso
piuttosto che a un particolare principio attivo.
L’utilizzo di agnocasto per il miglioramento dei disturbi legati alla
menopausa (tensione, palpitazioni, vampate ecc.) prevede una terapia protratta
(circa 2 o 3 mesi); una terapia di alcuni mesi è indicata anche nel caso di
alcuni tipi di sindrome premestruale caratterizzati da estrogeni alti (la terapia
a base di agnocasto è invece controindicata se la sindrome premestruale è
caratterizzata da progesterone alto ed estrogeni bassi).
L’utilità dell’agnocasto per trattare la sintomatologia dolorosa delle
mestruazioni non trova tutti concordi, anche se in linea generale l’utilizzo di
agnocasto sembra avere un certo effetto regolatore sul ciclo (allunga i cicli
corti e accorcia quelli più lunghi).
Altri utilizzi della pianta sono la regolarizzazione del ciclo ovulatorio, la
stimolazione della lattazione e il trattamento di costipazione ed emicrania
quando queste sono legate al ciclo mestruale; per il trattamento di questi ultimi
disturbi viene spesso consigliata l’associazione dell’agnocasto con il partenio
e la bardana (vedasi schede corrispondenti).
Rispetto ad altri prodotti fitoterapici, l’agnocasto ha effettivamente
dimostrato una certa efficacia nel trattamento dei disturbi per i quali è
consigliato; comunque, vista la sua azione ormono-stimolante è consigliabile
assumere l’agnocasto soltanto dietro autorizzazione del proprio medico
curante.
L’agnocasto non dovrebbe essere utilizzato se si assumono farmaci ad azione
progestinica, antagonisti dopaminici o se si fa uso di pillola anticoncezionale;
l’agnocasto è altresì controindicato nei soggetti che si sottopongono a terapia
ormonale sostitutiva. Occorre cautela nell’utilizzo di agnocasto durante la
gravidanza; nel periodo dell’allattamento i dosaggi devono essere ridotti.
L’agnocasto è una droga generalmente ben tollerata; in alcuni casi possono
registrarsi reazioni allergiche, nausea, disturbi gastrointestinali o mestruali,
prurito, orticaria ecc.
AKG (alfa-chetoglutarato)
Attualmente, l’integrazione di alfa-chetoglutarato come molecola singola non
è in pratica utilizzata; è invece presente in abbinamento all’ornitina, con la
quale forma un sale denominato ornitina alfa-chetoglutarato (anche OKG). Si
rimanda pertanto alla scheda OKG per le caratteristiche della sostanza.
ALA (acido alfa-lipoico)
L’acido alfa-lipoico (anche acido lipoico o acido tioctico) è un solfuro
esistente in natura sotto due forme, una ossidata e una ridotta.
L’acido alfa-lipoico fu isolato per la prima volta nel 1951 da due scienziati
statunitensi, L. J. Reed e I. C. Gunsalus, che lo ricavarono da estratti di fegato.
Alcuni autori lo indicano con la dizione di vitamina N; in effetti, l’acido
lipoico può essere classificato come vitamina liposolubile. Non è una sostanza
essenziale perché il nostro organismo è in grado di sintetizzarlo, anche se i
meccanismi che portano alla sua sintesi non sono del tutto noti.
Tra i numerosi ruoli svolti dall’acido alfa-lipoico, il più importante è quello
di cofattore (nella forma di lipoato) presente nel gruppo enzimatico
Complesso Piruvato Deidrogenasi (CPD), che si trova nella membrana
interna dei mitocondri. Il ruolo del CPD è quello di permettere l’ingresso del
piruvato (che deriva dal catabolismo del glucosio) nel mitocondrio
trasformandolo in acetil-CoA rendendolo quindi un substrato del ciclo di
Krebs per proseguirne l’ossidazione al fine di produrre energia (ATP). È
cofattore di altri gruppi enzimatici ad azione catabolica (vie metaboliche che
portano alla produzione di energia dall’ossidazione dei substrati energetici).
Interessante l’attività antiossidante dell’acido alfa-lipoico; a differenza di
quanto accade con la vitamina C (che esplica la sua azione antiossidante in
ambienti idrofili come il citoplasma cellulare) o con la vitamina E (che
esplica la sua azione in ambienti idrofobi, come la membrana cellulare),
l’acido alfa-lipoico è attivo sia in compartimenti acquosi sia in compartimenti
lipidici. Altra caratteristica interessante dell’acido alfa-lipoico è quella di
incrementare la disponibilità di glutatione (vedasi scheda corrispondente).
L’acido alfa-lipoico ha mostrato una certa efficacia nel facilitare l’ingresso
di glucosio nelle cellule, innalzando così il reclutamento del GLUT-4, il
trasportatore intracellulare di questo carboidrato; questa sua caratteristica ha
fatto sì che l’Associazione Diabetici degli Stati Uniti ne abbia suggerito una
supplementazione in associazione alla vitamina E.

Effetti dimostrati
L’acido alfa-lipoico ha mostrato una certa efficacia antiossidante sia in
ambienti idrofobi che in ambienti idrofili.
In associazione alla vitamina E è in grado di prevenire determinate
complicazioni del diabete.
Incrementa la disponibilità di glutatione.

Avvertenze
L’integrazione di acido alfa-lipoico dovrebbe avvenire in combinazione con
la vitamina E.

Dose efficace
La dose suggerita per ottenere effetti antiossidanti va da 50 a 100 mg.
Nel trattamento delle complicazioni causate dal diabete il dosaggio deve
essere stabilito dal medico.

A chi serve
La supplementazione di acido alfa-lipoico può essere interessante per tutti
coloro che sono affetti da diabete; lo scopo di tale supplementazione è quello
di prevenire eventuali complicazioni della patologia.
Può essere impiegato anche nella strategia antinvecchiamento come valido
antiossidante, anche se il costo, per ora elevato, gli fa preferire l’integrazione
con vitamine classiche.
ALANINA
L’alanina è uno dei cosiddetti aminoacidi non essenziali (ricordiamo che gli
aminoacidi non essenziali sono quelli sintetizzabili dal nostro organismo);
nella sua molecola è presente un atomo di carbonio asimmetrico; l’alanina
pertanto può esistere in due forme: quella destrogira e quella levogira; la
forma levogira è particolarmente importante.
Durante l’attività fisica, il ruolo dell’alanina è quello di entrare a far parte
di una via metabolica denominata ciclo alanina-glucosio. Intensi e prolungati
sforzi fisici causano una deplezione dei livelli ematici di glucosio e un
aumento della concentrazione ematica di acido lattico. Conseguentemente i
muscoli sono costretti, per scopi energetici, ad accrescere l’ossidazione degli
acidi grassi e degli aminoacidi, in particolar modo di quelli ramificati; a
partire da questi ultimi e dal piruvato, si forma l’alanina per transaminazione
(cioè un processo per cui il gruppo amminico proprio degli aminoacidi passa
da un aminoacido a un’altra sostanza costituendo un nuovo aminoacido); a
questo punto l’alanina viene rilasciata nel circolo ematico per poi passare al
fegato dove le viene tolto il gruppo amminico (deaminazione), ottenendo
ammoniaca e uno scheletro carbonioso da cui si ottiene glucosio, rimesso in
circolo e finalmente utilizzato come energia.
Dopo un esercizio fisico leggero, ma che si protrae per almeno quattro ore,
il ciclo alanina-glucosio rappresenta quasi la metà del glucosio messo in
circolazione dal fegato. Il rilascio di alanina da parte dei muscoli cresce con
l’aumentare dell’intensità del lavoro e si stima che per lavori piuttosto intensi,
il 10-15% delle richieste energetiche muscolari derivi dal ciclo alanina-
glucosio. I dati soprastanti si trovano in letteratura, anche se gli autori non
sono concordi nelle percentuali (mentre lo sono nel fabbisogno proteico di un
sedentario).
Da un’analisi empirica, si scopre che esistono soggetti che utilizzano le
proteine meglio di altri. Per tali soggetti, a parità di sforzo (il catabolismo
proteico è comunque presente quando lo sforzo diventa estremo, spesso per
scarso allenamento del soggetto), è maggiore la percentuale di proteine
impiegata a fini energetici.

Effetti dimostrati
Può ridurre il colesterolo nel sangue e in condizioni di ipoglicemia può
servire per produrre glucosio.

Avvertenze
L’assunzione è controindicata in quei soggetti che soffrono di allergia agli
alimenti proteici. L’abuso di integratori proteici può provocare un notevole
rialzo dell’azotemia con conseguente sovraccarico renale.

Dose efficace
Integrazioni isolate di alanina non sono comuni; generalmente viene
associata ad altre sostanze, tipicamente altri aminoacidi.

A chi serve
Dal momento che sono moltissimi gli alimenti ricchi di alanina (ceci, fagioli,
fave, lenticchie, mais, riso ecc), chiunque segua un regime alimentare
equilibrato non necessita di alcuna supplementazione di alanina. Eventuali
integrazioni possono essere prese in considerazione dagli atleti di sport di
endurance.
ALFA-ALFA
L’alfa-alfa (Medicago sativa), nota anche come erba medica, è una pianta
erbacea nativa dell’Asia sud-occidentale, ma molto diffusa in tutta l’area
mediterranea e coltivata in tutto il mondo; l’alfa-alfa appartiene alla famiglia
delle Leguminose. Il termine “medica” non fa riferimento a sue eventuali
proprietà terapeutiche, ma alla zona di cui si riteneva fosse originaria, la
Media (l’attuale Iran).
Le parti utilizzate a scopo fitoterapico sono le foglie e i fiori. I suoi
costituenti principali sono isoflavoni (fra cui biocanina A, daidzeina,
formononetina e genisteina), cumarine (tra cui cumestrolo, dafnoretina,
lucernolo, medicagolo, sativolo e trifoliolo), alcaloidi (tra cui omostachidrina,
stachidrina e trogonellina), vitamine (provitamina A, vitamine del gruppo B,
vitamina C, vitamina D, vitamina E, vitamina K, folati ecc.), saponine e
porfirine. Le indicazioni all’uso di alfa-alfa sono molteplici nonostante le
evidenze scientifiche che supportano l’impiego di alfa-alfa a scopo terapeutico
siano veramente molto scarse. Viene spesso consigliata per il trattamento
dell’arteriosclerosi, del diabete e dell’ipercolesterolemia, ma anche in caso di
artrite, avitaminosi, porpora, problemi di malassorbimento, reumatismi, ulcera
peptica ecc.
Anche se blandi, gli effetti ipoglicemizzante e ipocolesterolemizzante
dell’erba medica esistono; ciò ne sconsiglia l’uso a coloro che utilizzano già
farmaci antidiabetici o altri rimedi naturali con effetti ipoglicemizzanti oppure
farmaci o altri rimedi di tipo fitoterapico a effetto ipocolesterolemizzante
(statine, fibrati, aglio ecc.). La presenza di vitamina K ne sconsiglia l’uso a
coloro che assumono farmaci anticoagulanti (ne antagonizza l’effetto); occorre
infine una notevole cautela nel caso di trattamento con tiroxina, estrogeni o
farmaci immunosoppressori.
ALGA DUNALIELLA SALINA
L’alga Dunaliella salina è un’alga rossa monocellulare appartenente alla
famiglia delle Laminarie che cresce spontanea nei laghi salati australiani.
La Dunaliella è particolarmente ricca di betacarotene e carotenoidi (vedasi
schede corrispondenti) ed è soprattutto per la presenza di queste sostanze che
l’alga viene suggerita come integratore alimentare. In realtà, come per molti
altri prodotti fitoterapici, occorre distinguere fra la quantità di alga (per
esempio 37 mg) e quella di betacarotene (7 mg); considerando tali rapporti
appare decisamente più sensato rivolgersi a classici prodotti orientati
direttamente al principio attivo.
ALGHE KELP
Alghe Kelp è una terminologia alquanto generica; il termine Kelp infatti può
essere riferito ad alghe brune appartenenti a generi diversi (Fucus e
Laminaria per esempio).
Il caratteristico colore bruno di queste alghe è dovuto a un pigmento
denominato feocroma.
Le alghe Kelp sono utilizzate sia in ambito alimentare sia in ambito
salutistico. In Asia, per esempio, sono utilizzate per insaporire diverse ricette
(contengono infatti discrete quantità di acido glutammico, un aminoacido usato
come esaltatore di sapidità); si trovano però anche in alcuni prodotti a scopo
lassativo.
Le alghe Kelp contengono circa lo 0,05% di iodio inorganico e lo 0,07% di
iodio proteico. Altri costituenti sono i mucopolisaccaridi (65%); di questi una
buona parte sono alginati (dal 12 al 45%); si trovano poi, in percentuali
minori, polifenoli, fitosteroli, vitamine (A, B1, B2, C, D, E), proteine, lipidi e
carotenoidi.
Sotto forma di integratore alimentare, le alghe Kelp vengono consigliate in
particolar modo per la loro ricchezza in iodio (vedasi scheda corrispondente)
e quindi per stimolare l’attività della tiroide. Un utilizzo del genere non è
consigliabile; in primo luogo i casi di ipotiroidismo da carenza alimentare di
iodio sono molto rari, per non dire rarissimi (nelle zone in cui esisteva tale
problema è bastata l’introduzione di sale iodato), in secondo luogo si deve
tener conto che l’utilizzo di integratori di iodio richiede una certa cautela dal
momento che potrebbero verificarsi problemi di sovradosaggio con
conseguente ipertiroidismo; non a caso l’utilizzo di tali integratori è
decisamente sconsigliato in gravidanza, durante il periodo dell’allattamento,
nei soggetti di età inferiore ai 12 anni e in coloro che sono affetti da problemi
di tipo cardiocircolatorio.
Si deve inoltre considerare che assunzioni di prodotti contenenti alginati
(sostanze contenute in moltissime alghe), specialmente se protratte nel tempo,
possono ridurre l’assorbimento intestinale di ferro e di altri minerali.
Oltre all’uso come integratore di iodio, altri impieghi suggeriti per le alghe
Kelp sono quello lassativo e quello chelante dei metalli pesanti.
Considerando ciò che è stato sopra esposto, il suggerimento più sensato
sembra essere quello di assumere saltuariamente queste alghe, se gradite,
come cibo e non in qualità di integratori.
ALGHE KLAMATH
Le alghe Klamath (anche microalghe del lago Klamath o Aphanizomenon
flos aquae) sono alghe commestibili di colore verde-azzurro che crescono nel
lago Upper Klamath, nell’Oregon (USA).
Questi microorganismi hanno suscitato un certo interesse nel variegato
mondo dell’integrazione alimentare; sembra infatti che tale integratore sia
dotato di numerose virtù tra le quali quelle di avere effetti immunitari,
antitumorali, antiossidanti, antinfiammatori e antivirali. Le alghe Klamath
sarebbero inoltre dotate di proprietà terapeutiche a livello metabolico,
neurologico ecc.
Nelle molte monografie reperibili in Internet relative alle alghe Klamath,
sono poche le patologie o le condizioni contro cui questi microorganismi non
sembrano essere efficaci. Si citano ricerche e “autorevoli” studi, tutti concordi
sul fatto che questi microrganismi di antichissima origine (sembra siano il cibo
più antico del nostro pianeta), che crescono in uno dei luoghi più incontaminati
del globo, grazie al loro impressionante profilo nutrizionale, siano in grado di
operare efficacemente contro innumerevoli e gravi stati patologici (vedasi i
citati effetti antitumorali).
Per chi è dotato di un benché minimo spirito critico dovrebbe essere
sufficiente leggere il termine “antitumorale” per bollare come risibile lo
spessore scientifico di tali affermazioni. Sfortunatamente, il fatto che le alghe
Klamath siano facilmente reperibili in commercio ci fa capire che una buona
parte della popolazione accetta acriticamente determinate affermazioni.
Un certo aiuto per smontare tesi che appaiono eccessivamente ottimistiche
può venirci dalla ricerca sulle banche dati più note a livello internazionale.
Com’è noto, gli articoli pubblicati sulle riviste mediche internazionali,
quelle che danno il carattere di “ufficialità” alle ricerche, vengono raccolti in
banche dati; una delle più conosciute è la celeberrima PUBMED. Digitando
“klamath algae” si ottiene un risultato decisamente modesto: 5 results.
Certamente ben diverso da quello ottenuto digitando “creatine” (43.090
results).
Appare pertanto inutile continuare a citare altri effetti positivi che vengono
attributi alle alghe Klamath (efficace agente chelante e potente acceleratore
dei processi di guarigione nonché stimolatore di specifiche aree cerebrali
ecc.).
ALOE VERA
L’aloe vera è una pianta perenne della famiglia delle Liliacee a cui
appartengono oltre 200 specie soprattutto africane (è anche la denominazione
dell’agave americana che ha foglie molto simili a quelle delle piante di aloe).
I riferimenti terapeutici risalgono a 5.000 anni fa (nel 1862 George Ebers ne
scoprì traccia in un papiro egiziano).
Alcuni la chiamano “pianta del miracolo” e questo deve insospettire tutti
coloro che sono dotati di un certo spirito critico. In realtà il campo dove l’aloe
vera ha dimostrato un’efficacia reale e notevole è solo quello dermatologico.
Il suo impiego risale al 1942 quando un ingegnere chimico americano,
Rodney Stockton, curò una grave ustione dovuta al sole della Florida con una
polpa gelatinosa estratta dall’aloe vera. Proseguì le ricerche e riuscì a
stabilizzare il gel (per evitarne l’ossidazione). Dagli anni ’50 sono moltissime
le ricerche sull’impiego dell’aloe in dermatologia, in particolare nella cura
delle ustioni, dove i risultati sono eccellenti (da citare nel 1995 la cura delle
vittime dell’attentato di Oklahoma City da parte del dott. T. Moore che aveva
all’attivo già 4.000 casi di ustioni trattati in tal modo).
Molti prodotti con nomi commerciali blasonati si basano su Aloe vera.
Purtroppo ne contengono percentuali minime. Per la massima efficacia occorre
usare aloe concentrata in gel.
Aloe e psoriasi – Alcune (pochissime) guarigioni di psoriasi di pazienti che
hanno usato l’aloe hanno inserito la patologia fra quelle curabili con l’aloe. In
realtà ciò è del tutto arbitrario. Purtroppo sono casi isolati in cui (vista anche
la componente psicosomatica della patologia) non si sa fino a che punto il
trattamento con l’aloe non sia giunto casualmente in un momento in cui la
malattia sarebbe comunque regredita. Purtroppo l’applicazione dell’aloe su
vasta scala non ha dato risultati soddisfacenti.
Aloe e tumori – Esistono alcune ricerche che avrebbero rilevato l’utilità
dell’aloe vera (o meglio, di alcuni derivati, l’aloe-emodina) in alcuni tipi di
tumori (per esempio quelli infantili). In realtà si tratta di studi su animali (e nei
decenni di sostanze anticancro su animali ne sono state studiate centinaia!) e
gli stessi ricercatori mettono in guardia dai facili entusiasmi. Dire che l’aloe
ha proprietà antitumorali (se una sostanza ha accertate proprietà antitumorali
la si impiega nella cura, non nella ricerca) è quindi ottimistico e
scientificamente falso: è corretto dire che esistono linee di ricerca che stanno
studiando la pianta.
Molte proprietà attribuite all’aloe vera (antisettica, antivirale, antimicotica e
purgante) sono desunte dal fatto che l’aloe contiene la barbaloina, la
isobarbaloina, l’acido aloetico, l’emodina, l’acido cinnamico, l’acido
crisofanico. In realtà il contenuto di queste sostanze è percentualmente non
significativo, se si usano preparati naturali e non farmacologici.

Effetti dimostrati
L’aloe vera ha dimostrato una notevole efficacia nel trattamento di ustioni,
escoriazioni, cicatrici, ragadi, scottature ed eritemi solari, pelli secche,
arrossate e screpolate (come idratante).

Avvertenze
È controindicata l’assunzione di aloe vera nei soggetti affetti da ulcera,
colite ulcerosa, sindrome emorroidaria, proctite ed enteriti periferiche.
In alcuni soggetti le somministrazioni orali di aloe vera hanno provocato
disturbi gastrointestinali, ematuria, pollachiuria e minzione dolorosa.
Somministrata per via topica, se applicata in dosi eccessive, l’aloe vera può
dar luogo a lievi irritazioni cutanee.

Dose efficace
Per ottenere il massimo beneficio nel caso di somministrazioni per via
topica, è necessario utilizzare aloe concentrata in gel.
Per quanto riguarda la somministrazione per via orale, non è stata tuttora
stabilita alcuna posologia sicura; viene comunque raccomandato di non
protrarre la somministrazione per più di 15 giorni.

A chi serve
L’aloe vera è utile in tutte quelle situazioni che sono state riportate nel
paragrafo Effetti dimostrati.
ALFA-AMILASI
L’alfa-amilasi (o, più semplicemente, amilasi) è un enzima che appartiene
alla categoria delle idrolasi (enzimi che catalizzano l’idrolisi di un legame
chimico); in particolare l’amilasi catalizza la degradazione di legami
complessi, come quelli oligosaccaridici e polisaccaridici, in legami più
semplici come, per esempio, quelli disaccaridici.
L’amilasi è l’enzima responsabile della digestione dell’amido.
Nell’organismo umano sono diversi gli organi che producono amilasi, in
particolare le ghiandole parotidee e il pancreas. L’amilasi salivare (ptialina) e
l’amilasi pancreatica (amilopsina) intervengono in fasi diverse del processo
digestivo, quella orale e quella intestinale. In caso di patologie a carico di
ghiandole parotidee o pancreas può verificarsi un passaggio eccessivo di
amilasi a livello ematico; è per questo motivo che quando si sospettano
affezioni a carico di pancreas e ghiandole parotidee viene richiesto il
dosaggio sierico di amilasi (i valori normali sono compresi tra 60 e 170 U,
dove la U indica le unità amilasiche secondo Somogyi).
Gli enzimi vengono utilizzati sia come farmaci che come integratori
alimentari; sotto quest’ultima forma vengono generalmente commercializzati in
qualità di digestivi; è il caso, oltre che dell’amilasi, anche di chimotripsina e
di bromelaina.
L’utilizzo di amilasi può essere controindicato in chi assume Acarbose, un
farmaco utilizzato per il trattamento del diabete di tipo 2, dal momento che
l’enzima può ridurne l’efficacia.
Tra gli effetti collaterali dell’utilizzo di amilasi sono stati segnalati prurito
ed eruzioni cutanee.
AMINOACIDI
Gli aminoacidi (o amminoacidi) sono composti organici che contengono
contemporaneamente uno o più gruppi amminici -NH2 e uno o più gruppi
carbossilici -COOH. Sono i componenti essenziali delle proteine; hanno
grande importanza nella costituzione biochimica dei tessuti dell’organismo
umano e, di conseguenza, nell’alimentazione. Un aminoacido può esistere in
due forme, levogira o destrogira.
Le due forme contengono chimicamente gli stessi elementi, nella stessa
quantità e sequenza, ma una forma è speculare rispetto all’altra. Gli
aminoacidi si formano alla fine del processo di digestione delle proteine
grazie ai fermenti pepsina, tripsina ed erepsina. Gli otto aminoacidi essenziali
che l’organismo non può sintetizzare, e che deve ricevere dalla digestione,
sono triptofano, fenilalanina, lisina, treonina, valina, leucina, isoleucina e
metionina. Per i bambini risultano essenziali anche arginina e istidina.
L’organismo sintetizza anche altri aminoacidi che si dicono non essenziali. Gli
aminoacidi non servono solo nell’anabolismo muscolare; alcuni di essi
vengono anche utilizzati a fini energetici. La gluconeogenesi, ovvero il
processo per il quale alcuni aminoacidi vengono trasformati in glucosio, usato
poi come fonte energetica, dipende dall’intensità del lavoro e dalla durata: in
un lavoro leggero di circa 40’ solo il 4% dell’energia proviene dalle proteine,
mentre in un lavoro intenso della stessa durata si arriva a un contributo del
15%; dopo 4 ore di lavoro leggero ben il 45% del glucosio liberato dal fegato
proviene dalle proteine. Particolare importanza per il processo che ottiene
energia dalle proteine rivestono i tre aminoacidi ramificati (isoleucina,
leucina, valina), così chiamati per la loro struttura. Di seguito un elenco dei
principali aminoacidi.

•• Acido aspartico
•• Acido glutammico
•• Alanina
•• Arginina
•• Carnitina
•• Cisteina
•• Cistina – È un disintossicante dai metalli pesanti, utilizzato nel trattamento
delle lesioni cutanee.
•• Fenilalanina
•• Glicina
•• Prolina – È un aminoacido importante per la rigenerazione dei muscoli e
delle strutture tendinee. È consigliabile l’assunzione con vitamina C.
•• Glutammina
•• Istidina
•• Leucina e isoleucina – Devono essere somministrate insieme e in un
rapporto che secondo la letteratura deve essere 2:1. L’isoleucina entra nel
meccanismo di formazione dell’emoglobina.
•• Lisina
•• Metionina
•• Ornitina
•• Taurina
•• Tirosina
•• Treonina
•• Triptofano
•• Valina – Importante per le funzioni mentali, il coordinamento muscolare e
le funzioni nervose.

Tranne cistina, prolina, leucina, isoleucina e valina, tutti gli altri aminoacidi
sopra riportati sono trattati singolarmente; per approfondimenti si consultino
quindi le singole schede.
AMINOACIDI RAMIFICATI
Sono tre aminoacidi (leucina, isoleucina, valina) che per la struttura della
loro catena carboniosa vengono detti a catena ramificata (BCAA, Branched
chain aminoacids); hanno una particolare importanza nella sintesi proteica e
sono coinvolti nel processo grazie al quale si ottiene energia dalle proteine.
La pratica di usare aminoacidi e integrazione proteica per spingere al
massimo le capacità anaboliche dell’organismo deriva dai body builder
secondo il banale principio: più proteine diamo più muscoli avremo.
Esistono tre fattori limitanti questa idea:
a) l’anabolismo si crea in seguito a uno stimolo, sia esso uno sforzo
massimale oppure la presenza di sostanze che favoriscono l’anabolismo e che
impiegano le proteine assunte (testosterone, insulina, ormone della crescita).
Tralasciando quest’ultima possibilità (l’assunzione ormonale è doping), la
prima non può riguardare atleti di sport non di potenza. Infatti in molti sport un
potenziamento da body builder sarebbe del tutto controindicato.
b) Anche per i body builder l’assunzione proteica non consente di andare
oltre un certo livello di massa muscolare: l’anabolismo ha un limite ben
definito. Una volta raggiunto il massimo, non è necessaria nessuna integrazione
proteica addizionale. Il risultato più eclatante fu rivelato dalla ricerca di
Tarnopolski del 1988 (vedasi scheda Proteine) che mostrò come
l’integrazione corretta per un body builder fosse di 1,2 g per kg mentre quella
per un fondista di 1,6 g. Il motivo per cui un body builder in condizioni
normali (senza agenti anabolizzanti) ha un fabbisogno proteico inferiore a un
runner di livello elevato si spiega ricordando che il catabolismo proteico
entra in gioco solo quando lo sforzo è sufficientemente prolungato. Se il
gesto atletico è limitato nel tempo (gli allenamenti di molti body builder non
vanno al di là della mezz’ora effettiva di sforzo attivo, causa gli ampi recuperi
fra un esercizio e l’altro) può essere anche intenso, ma la quantità di proteine
catabolizzate resta bassa.
c) L’assunzione di aminoacidi (arginina, lisina, ornitina, glutammina, tirosina
e altri) non aumenta i livelli di ormone della crescita, né la potenza aerobica,
né la prestazione in attività massimali. Non variano neppure le concentrazioni
di testosterone o cortisolo. È vero che esistono studi che asseriscono che
aminoacidi come l’arginina, la lisina, la glutammina, la glicina e l’ornitina
incrementano i livelli ormone della crescita. La presenza in letteratura di dati
discordanti può spiegarsi col fatto che gli studi positivi sono stati tutti svolti
non su campioni della popolazione, ma su ristretti gruppi di soggetti in clinica,
cioè su soggetti malati e/o anziani. I risultati positivi riguardavano la
somministrazione di un aminoacido e in genere il livello di HGH aumentava di
un fattore da tre a dieci.
A prescindere dal fatto che alcuni aminoacidi sono antagonisti (come la
coppia arginina e lisina), se questi risultati fossero veri, somministrando 5 g di
arginina, 2 g di lisina, 5 g di ornitina, 2 di glutammina e 6 g di glicina, il
livello di HGH dovrebbe aumentare di oltre 100 volte! Ovviamente non è così
e la spiegazione è semplice: certi risultati clinici si raggiungono in condizioni
di estrema carenza (per esempio operando su pazienti sedentari e anziani);
l’organismo ha sempre livelli di controllo: finché questi livelli non vengono
raggiunti, l’integrazione funziona, poi viene annullata (per esempio
semplicemente ignorando il messaggio che arriva dalla sostanza).
Queste ricerche sono state riprese dai produttori di integratori con il solito
trucco: si promuove una verità spacciandola valida per tutti, mentre vale solo
per persone malate.

Effetti dimostrati
In determinate circostanze, gli aminoacidi ramificati facilitano il recupero
muscolare post-esercizio.

Avvertenze
L’assunzione di aminoacidi ramificati è controindicata in quei soggetti che
soffrono di allergia agli alimenti proteici e anche nel caso di alimentazione
povera.
L’abuso di aminoacidi ramificati può provocare un notevole rialzo
dell’azotemia con conseguente sovraccarico renale.

Dose efficace
Nei casi in cui è necessaria un’integrazione di aminoacidi ramificati, la dose
generalmente consigliata è un grammo ogni 10 kg di peso corporeo.

A chi serve
Un soggetto sedentario, in salute e che segue un’alimentazione equilibrata
non necessita di un’integrazione di aminoacidi ramificati.
Le cose cambiano se il soggetto è una persona che pratica attività fisica.
Rispetto al sedentario, l’atleta ha però, non solo un fabbisogno proteico
accresciuto, ma anche diversificato. In particolare ha bisogno di aminoacidi a
catena ramificata; la maggior necessità si avrà nei casi di catabolismo elevato
(vedasi per esempio gli sport di endurance) e quando viene stimolata la
crescita muscolare (vedasi per esempio il lavoro con i pesi).
Sintetizzando molte ricerche si può affermare che se l’attività non è continua
e sufficientemente prolungata nel tempo (almeno 50 minuti) non c’è nessun
bisogno di un’integrazione con aminoacidi ramificati per recuperare lo sforzo.
Altra condizione essenziale è quella che gli allenamenti vengano svolti
quotidianamente o quasi; il tutto poi va riferito ovviamente a molti altri fattori
come la percentuale proteica della propria alimentazione, l’intensità
dell’esercizio, il grado di allenamento, lo stato di forma ecc.
Per esempio, per un podista che segue un regime alimentare equilibrato nel
quale almeno il 20% della quota calorica è coperto dalle proteine,

l’integrazione con aminoacidi ramificati non è giustificata per


chilometraggi inferiori ai 20 km.

Basta considerare il fatto che 10 g di ramificati sono contenuti in 250 g di


carne di pollo per capire che l’alimentazione ne fornisce una quantità
sufficiente per tutti quei runner che mangiano bene (con una percentuale
sufficiente di proteine) e non sono maratoneti. Se possono essere importanti
nella fase di recupero, gli aminoacidi (ramificati o meno) non hanno nessuna
particolare importanza nel miglioramento della prestazione.
ANABOLIZZANTI
Gli steroidi anabolizzanti (spesso indicati con il solo termine anabolizzanti)
sono steroidi che operano in maniera analoga al testosterone, un ormone
sessuale maschile. Gli steroidi sono sostanze organiche assai diffuse in natura,
dove svolgono un ruolo fondamentale in molti processi fisiologici. Sono molte
le sostanze che fanno parte della categoria degli steroidi: gli steroli, gli
alcaloidi steroidei, gli acidi biliari, gli ormoni sessuali. Nell’organismo
umano la sintesi degli steroidi avviene nel modo seguente:

colesterolo -> pregnenolone -> DHEA -> androstenedione -> testosterone.

Per approfondimenti si consulti l’Appendice A, Il metabolismo degli


androgeni.
Gli steroidi anabolizzanti derivano dal testosterone; il termine anabolizzanti
è dovuto al fatto che tali sostanze sono in grado di accelerare l’anabolismo,
una delle due fasi in cui viene distinto il metabolismo (l’altra fase è il
catabolismo). Durante la fase anabolica si verificano le reazioni di sintesi
delle sostanze necessarie all’organismo, a scapito dell’energia che viene
liberata nella fase catabolica.
Gli steroidi anabolizzanti rivestono un notevole interesse a livello
farmacologico; da moltissimo tempo infatti le industrie farmaceutiche cercano
di ottenere prodotti che siano in grado di potenziare le caratteristiche
anaboliche degli ormoni naturali minimizzando il più possibile gli effetti
collaterali legati alla loro assunzione. Tali effetti collaterali sono dovuti
soprattutto a una delle caratteristiche principali degli steroidi anabolizzanti: la
loro androgenicità.
Ovviamente l’androgenicità è solo uno degli effetti collaterali degli steroidi
anabolizzanti, effetti che, detto per inciso, non sono affatto trascurabili:
riguardano danni al fegato, al sistema cardiovascolare e all’apparato genitale,
disturbi dell’umore e aumento dell’aggressività. Assumere steroidi
anabolizzanti equivale cioè a introdurre nell’organismo una “bomba” che non
si sa quando e come scoppierà: solo un inguaribile ottimista può essere così
irresponsabile da pensare che “nel suo caso la bomba non scoppierà mai”!
Steroidi anabolizzanti e attività sportiva - In campo sportivo gli steroidi
anabolizzanti vengono soprattutto utilizzati nel body building e negli sport di
potenza (lotta, sollevamento pesi, sprint ecc.) e, anche se meno
frequentemente, in quelle discipline che abbinano la forza alla resistenza
(calcio, rugby, tennis). Per quanto riguarda il loro utilizzo relativamente agli
sport di resistenza invitiamo ad approfondire l’argomento consultando
l’Appendice B, Gli anabolizzanti e la resistenza; qui ci limitiamo a osservare
che il minor uso di steroidi anabolizzanti in discipline aerobiche, come la
corsa e (in parte) il ciclismo, è legato al fatto che un eccessivo aumento della
massa muscolare è da considerarsi controproducente per la prestazione. Già
questo fatto dovrebbe sconsigliare l’uso degli steroidi da parte di un atleta
impegnato in sport di resistenza; l’aumento della massa muscolare, che può
essere utile in discipline di scatto e/o potenza, nella corsa di resistenza è
penalizzante: basta osservare le esili gambette degli atleti keniani per capire
che il collo di bottiglia delle prestazioni in uno sport di fondo non è la potenza
muscolare. Forse atleti di fondo assumono gli steroidi per analogia con gli
effetti prodotti dall’ormone della crescita (vedasi scheda Ormone della
crescita), anch’esso responsabile di un aumento della massa muscolare. La
differenza (fondamentale per un fondista) è che l’ormone della crescita
diminuisce anche la massa grassa e questo è un indubbio vantaggio. Diverso
può essere invece il discorso per le donne, per le quali avere una muscolatura
“maschile” è comunque un indubbio vantaggio.
Le modalità di assunzione degli steroidi anabolizzanti - Le modalità di
assunzione degli steroidi anabolizzanti più utilizzate sono l’assunzione per via
orale o tramite iniezione intramuscolare. L’assunzione viene effettuata
seguendo modalità cicliche perché si ritiene che queste garantiscano una
massimizzazione dei benefici e, al contempo, una riduzione degli effetti
collaterali. Le dosi vengono progressivamente aumentate per poi essere
gradualmente ridotte. Alla fine del ciclo di assunzione degli steroidi
anabolizzanti si ricorre all’uso di gonadotropina corionica umana, il
cosiddetto ormone della gravidanza; l’assunzione di gonadotropina corionica
umana permette la riattivazione della produzione endogena di testosterone,
inibita dall’assunzione esogena di steroidi anabolizzanti.
Gli effetti collaterali degli steroidi anabolizzanti - L’utilizzo degli steroidi
anabolizzanti comporta una lunga serie di effetti collaterali. Ricordiamo i più
importanti.

•• Accrescimento dei tessuti sessuali; in età puberale si osserva un effetto


anabolizzante sugli organi genitali esterni; in seguito, l’effetto più importante è
quello relativo all’accrescimento prostatico con conseguenti disturbi urinari
ed eiaculatori; si registra inoltre un aumento percentuale del rischio di tumori.
•• Atrofia dei testicoli; questo effetto collaterale è dovuto al fatto che,
fornendo testosterone per via esogena, si ha un’inibizione della normale
produzione endogena di tale ormone. Generalmente, con l’interruzione di
assunzione di steroidi anabolizzanti, il meccanismo di produzione endogena
del testosterone torna a essere attivo, ma nel caso le assunzioni siano state
massicce e prolungate potrebbe non essere più possibile tornare allo stato di
normalità.
•• Anomalo sviluppo dimensionale delle mammelle maschili
(ginecomastia); tale effetto collaterale è dovuto a una reazione compensatoria
dell’organismo che reagisce all’eccesso di ormoni androgeni convertendoli in
estrogeni (ormoni tipicamente femminili) con conseguente ipertrofia del
tessuto mammario. La ginecomastia può essere prevenuta farmacologicamente
con l’assunzione di testolattone e tamoxifene.
•• Ipertrofia del muscolo cardiaco e IMA; l’effetto anabolizzante provocato
dall’assunzione degli steroidi riguarda, fra gli altri, anche il muscolo cardiaco.
L’ipertrofia cardiaca indotta dagli steroidi anabolizzanti aumenta notevolmente
il rischio di morte improvvisa dovuta a infarto miocardico acuto.

Altri effetti collaterali che vengono registrati sono acne, crescita eccessiva
di peluria, calvizie, aumento dell’aggressività con tendenze omicide,
aggressività sessuale e aumento dell’ira. In caso di astinenza, si registrano
ansia, depressione e tendenze suicidarie.
Nei soggetti di sesso femminile si riscontrano disturbi del ciclo mestruale,
atrofizzazione delle ghiandole mammarie, ipertrofia del clitoride,
abbassamento del tono vocale.
Una delle maggiori problematiche dell’assunzione di steroidi anabolizzanti è
legata al fatto che la reversibilità degli effetti è decisamente lenta (in alcuni
casi, come accennato in precedenza, è addirittura impossibile) e, in caso di
sospensione dell’assunzione, i livelli di produzione endogena di testosterone
restano sottodimensionati per un lungo periodo di tempo. Ne conseguono
perdita di massa muscolare, aumento della massa grassa e problematiche di
tipo sessuale e psichico. È questo il motivo principale per cui le aziende
produttrici di steroidi sono alla ricerca di sostanze con elevato effetto
anabolizzante e minimo effetto androgeno. Se consideriamo che il testosterone
presenta un rapporto effetto anabolizzante/effetto androgeno di 1:1, altre
sostanze hanno rapporti molto più elevati (vedasi per esempio il nandrolone,
uno degli steroidi anabolizzanti più usati in ambito sportivo) che però tendono
a decrescere quanto più sono elevate le dosi assunte; raggiunto infatti il picco
degli effetti anabolizzanti, questi si stabilizzano, ma si ha comunque un
aumento degli effetti androgeni con tutte le conseguenze del caso.
ANDROSTENEDIONE E MOLECOLE AFFINI
L’androstenedione (noto anche come delta-4-androstenedione o come 4-
Androstene-3,17-dione, formula C19H26O2 ) è un ormone steroideo prodotto
dalla ghiandola surrenale e dalle ovaie. È un precursore immediato del
testosterone e dell’estrone.
Secondo alcuni, la somministrazione di androstenedione permetterebbe un
innalzamento della concentrazione di testosterone libero; lo scopo sarebbe
quindi quello di ottenere un aumento della massa muscolare e della forza. In
realtà, l’impiego di androstenedione per ottenere effetti anabolizzanti ed
ergogenici appare molto ottimistico dal momento che, anche se aumentano i
livelli sierici di testosterone, il contemporaneo innalzamento della
conversione in estrogeni ha la tendenza ad annullare gli effetti che vengono
ricercati.
Molecole analoghe all’androstenedione, che vengono utilizzate per ottenere
gli stessi scopi, sono l’androstenediolo, il norastenedione e norastenediolo.
Androstenedione, androstenediolo, norastenedione e norastenediolo sono
considerate sostanze dopanti.

Effetti dimostrati
La supplementazione di 300 mg di androstenedione 3 volte al giorno
provoca (nei soggetti di sesso maschile) un incremento significativo di
estradiolo e di estrone, un innalzamento del livello ematico di colesterolo LDL
e una riduzione significativa della concentrazione di colesterolo HDL.

Avvertenze
Si ritiene che il rischio legato all’assunzione di androstenedione e molecole
affini sia una maggiore probabilità di incorrere in patologie cardiovascolari,
neoplastiche (tumore al seno, alla prostata e al pancreas) ed epatiche. Ciò
dipenderebbe dalla variazione dei parametri ematici degli estrogeni e delle
lipoproteine plasmatiche.

Dose efficace
I dosaggi consigliati per la supplementazione vanno dai 50 ai 200 mg.
Esperimenti effettuati con supplementazioni di 300 mg di androstenedione
concorrenti ad allenamento di sollevamento pesi non evidenziano differenze
(né a livello di concentrazione sierica di testosterone né a livello di crescita
muscolare né a livello di crescita di forza) rispetto ai gruppi di controllo che
effettuano solo l’allenamento.

A chi serve
Considerando quanto riportato sopra, appaiono decisamente evidenti sia
l’inutilità che la pericolosità legate alla supplementazione di androstenedione.
ANFETAMINE
Le anfetamine (anche amfetamine) sono sostanze di origine sintetica ad
azione simpatico-mimetica cioè sostanze stimolanti il sistema nervoso
simpatico. Sia l’anfetamina che i suoi derivati appartengono alla classe delle
fenetilamine.
Il capostipite delle anfetamine è l’anfetamina, una sostanza sintetizzata nel
1887 presso l’università di Berlino dal chimico rumeno Lazar Edeleanu
(conosciuto anche come Edeleano). La sostanza non fu però utilizzata per
scopi clinici fino al 1920, anno in cui Gordon A. Alles sintetizzò il farmaco
per l’utilizzo in campo medico (trattamento di asma, febbre da fieno e rinite).
Nel 1932 alcuni laboratori farmaceutici iniziarono la commercializzazione di
un prodotto a base di anfetamine (la benzedrina).
L’impiego delle anfetamine iniziò a diffondersi durante il secondo conflitto
mondiale; venivano infatti somministrate ai soldati per diminuire la loro paura
e aumentare il loro grado di concentrazione. Alcuni anni più tardi divennero
popolari fra la popolazione studentesca, che utilizzava le anfetamine per la
loro capacità di aumentare il livello di concentrazione.
La FDA, nel 1959, visto il crescente abuso delle sostanze a base di
anfetamine, decise di regolamentare la commercializzazione del prodotto.

Effetti dimostrati
Gli effetti delle anfetamine sono numerosi, sia a livello di sistema nervoso
centrale che a livello dei sistemi cardiocircolatorio e respiratorio. Si
registrano inoltre effetti a livello di metabolismo corporeo.
A livello del sistema nervoso centrale, l’assunzione di anfetamine permette
di ridurre la percezione della fatica, si registra un incremento delle capacità
intellettive (aumentano sia l’attenzione che la concentrazione), il soggetto
avverte un notevole senso di benessere, è euforico e sprezzante del pericolo.
A livello dei sistemi cardiocircolatorio e respiratorio si registrano
tachicardia, aumento della pressione arteriosa e incremento del ritmo della
respirazione.
Altri effetti sono l’aumento del metabolismo basale, la variazione dei
meccanismi di termoregolazione, l’ipertermia, la perdita dell’appetito ecc.
Per alcuni dei loro effetti “benefici” (riduzione del senso di fatica e
diminuzione del senso di fame), le anfetamine vengono utilizzate (illegalmente)
sia in ambito sportivo che in ambito dietetico; tali benefici sono però
temporanei a causa di una rapida dipendenza. Occorre pertanto aumentare le
dosi; così facendo aumenta però anche il senso d’eccitazione per bloccare il
quale si deve ricorrere all’utilizzo di barbiturici, che a loro volta danno
dipendenza. Basta aver presente questo quadro perché un soggetto normale si
astenga da questa forma di doping.
Sono frequenti disordini cardiaci molto gravi, a volte mortali, causati da
dosi eccessive o dalla soppressione del senso di fatica che spinge il soggetto
(in particolar modo chi pratica sport) oltre i propri limiti. Fra le vittime più
famose delle anfetamine si deve ricordare Tom Simpson, il ciclista inglese,
campione mondiale su strada nel 1965, morto il 13 luglio 1967 durante la
tappa del Tour de France che arrivava al Mont Ventoux; l’autopsia rivelò che
concause della morte furono il caldo e le anfetamine assunte per migliorare la
prestazione.
La lista degli effetti negativi dell’abuso di anfetamine non si ferma certo agli
effetti sopra riportati; in caso di intossicazione da anfetamine si possono
registrare numerosi altri disturbi, alcuni dei quali anche molto gravi:

•• allucinazioni
•• bruxismo
•• cefalea
•• delirio
•• diarrea
•• disturbi del sonno
•• ipersudorazione
•• irrequietezza
•• loquacità
•• midriasi
•• nausea
•• secchezza delle fauci
•• tremori
•• vomito.

Avvertenze
Le anfetamine possono essere assunte sotto forma di pastiglie, di polvere, di
fumo o di soluzione iniettabile.
Oltre ai già citati utilizzi negli ambiti sportivo e dietetico, le anfetamine sono
usate anche come sostanza stupefacente. La sostanza attiva si concentra in
particolar modo nel cervello, nel fegato, nei reni e nei polmoni. Vengono
eliminate dall’organismo in un lasso di tempo che può variare dalle sei alle
trentadue ore, un periodo nel quale difficilmente il soggetto riesce a prendere
sonno. L’overdose di anfetamine può essere letale. Gli abusi di anfetamine a
lungo termine provocano un graduale deperimento psicofisico che può portare
fino alla morte.

Dose efficace
Attualmente le anfetamine vengono utilizzate quali sostanze dimagranti; la
loro efficienza è innegabile, dal momento che hanno considerevoli effetti
anoressizzanti e incrementano notevolmente il metabolismo basale;
sfortunatamente, come abbiamo visto, gli effetti collaterali che le
caratterizzano sono numerosi e importanti. La Food and Drug Administration
statunitense ne proibisce l’uso quali sostanze stupefacenti ormai da più di
cinquanta anni e il loro utilizzo è consentito solo dietro prescrizione medica.
Nel nostro Paese, le anfetamine non sono più in commercio da tempo.

A chi serve
L’uso delle anfetamine è limitato all’utilizzo in medicina per la cura del
morbo di Parkinson e della narcolessia (un disturbo caratterizzato da un
eccesso di sonnolenza, con brevi crisi di sonno irresistibile e improvviso).
Dal punto di vista sportivo, l’uso di anfetamine è considerato doping;
l’utilizzo di anfetamine da parte di un atleta, anche a prescindere da
considerazioni prettamente etiche, è da ritenersi del tutto irresponsabile visti i
temibili effetti collaterali.
ANTIOSSIDANTI E ANTIRADICALI LIBERI
Antiossidanti è un termine veramente abusato nel mondo degli integratori da
quando si scoprì l’azione dei radicali liberi nel corpo umano.
Il loro impiego tende a rispondere alla domanda:

come possiamo eliminare l’eccesso di radicali liberi che il nostro corpo


non riesce a smaltire?

Ormai migliaia sono le sostanze che vengono definite antiradicali liberi. In


realtà, molte di esse non funzionano e qui vogliamo analizzarne i principali
meccanismi di fallimento.
Fallimento quantitativo – È il caso dell’assunzione di frutta e verdura,
perorato da molti nutrizionisti. È decisamente ottimistico sperare che sia una
mossa valida (certo la frutta non fa male, anzi! Ma non basta.). Per i dettagli si
consulti l’Appendice C, L’integrazione vitaminica. Il fallimento quantitativo
riguarda anche moltissime sostanze vendute come integratori. Il meccanismo è
questo: la sostanza X interviene nella lotta ai radicali liberi, assumi la
sostanza X e sei protetto!
Il problema è che la sostanza X costa parecchio e per poterla
commercializzare con buon business viene venduta in quantità assolutamente
insignificanti. Un esempio è l’acido lipoico (acido alfalipoico o tioctico): le
ricerche più moderne (Saengsirisuwan et al., 2004; Malarkodi et al., 2004)
suggeriscono un dosaggio di 35 mg/kg di peso. Cioè, un soggetto di 70 kg
dovrebbe assumerne circa 2,5 g; in realtà per motivi commerciali si
consigliano dosi di 600 mg. Considerando che 10 g di acido lipoico costano
circa 50-60 euro, un’integrazione mirata (diciamo 2 g al giorno) costerebbe
circa 300 euro al mese. Con un’integrazione più soft (0,66 g, un terzo) si
avrebbero comunque dei risultati o si butterebbero via 30 euro al mese?
Un altro esempio di fallimento quantitativo è rappresentato dai polifenoli,
dai bioflavonoidi e dalle antocianine. È noto, per esempio, il fallimento del tè
verde come antitumorale. Un caso classico è il resveratrolo, contenuto
nell’uva nera e osannato dai produttori di vino come grande antitumorale
perché nemico dei radicali liberi. Perché il resveratrolo possa avere effetto,
deve avere una concentrazione nel sangue consigliata di almeno 10 mg/l (Yu et
al., 2003). In altri termini, devono circolarne nel nostro corpo circa 50 mg. La
buccia dell’acino di uva rossa contiene circa 50-100 microgrammi di
resveratrolo/grammo di peso secco e la sua concentrazione nel vino rosso è
dell’ordine di 0,3-0,5 mg/l. In altri termini, dobbiamo bere circa 20 litri di
vino al giorno (ammesso che il resveratrolo abbia una vita media di ben 24
ore!) per avere una protezione pari a quella che si ha nelle ricerche che lo
hanno promosso. Si capisce come una dose di 1,5 l (già disastrosa per i danni
epatici che provoca) sia dieci volte inferiore a una dose terapeutica. Che cosa
può fare? Chi ridurrebbe a 1/10 la quantità ottimale di un farmaco, sperando
che faccia comunque effetto?
Notate che tali numeri giustificano certe statistiche datate che promuovevano
il vino rosso come antiossidante. Infatti prima si beveva molto di più: ciò
consentiva da un lato un maggior effetto del resveratrolo e dall’altro una
scarsa incidenza delle patologie cardiovascolari perché i danni epatici e
nervosi dell’alcol erano una causa di morte che “preveniva” la morte per
infarto.
Fallimento biologico – Se è vero che il resveratrolo non è assumibile in
quantità apprezzabili dal vino, è pur vero che gli integratori che lo contengono
sono correttamente dosati con posologia di 30-50 mg al giorno (non c’è cioè il
problema del costo del prodotto come per l’acido lipoico). Purtroppo occorre
considerare che quando assumiamo oralmente (per bocca) un integratore non è
detto che l’intera quantità sia assorbita. Infatti, nelle ricerche su animali e/o su
umani, le sostanze vengono iniettate, sia per maggior precisione nella
posologia sia per evitare appunto problemi di assorbimento. L’esempio
classico è quello del ferro, dove per avere una dose biodisponibile di 25 mg è
spesso necessario somministrare per via orale quantità dieci volte superiori. È
anche il caso del resveratrolo, la cui dose orale “efficace” è stabilita in 500
mg, circa 8-10 volte superiore a quella che poi effettivamente circolerà nel
sangue dell’individuo. Ciò fa salire ulteriormente il costo dell’integrazione.
Bisogna sottolineare come la biodisponibilità di una sostanza spesso
dipenda dalla forma chimica attraverso la quale essa viene assunta: alcuni
composti del magnesio sono nettamente più assorbibili di altri, come per
esempio la vitamina E sintetica, che ha i 2/3 di attività rispetto a quella
assunta naturalmente. Diverso e curioso è il comportamento dell’acido folico,
la cui assunzione sintetica è migliore di quella naturale.
Il problema dell’assorbimento non è certo l’unico legato al fallimento
biologico dell’integrazione con antiossidanti. Un altro problema è quello della
vita media della sostanza all’interno del nostro corpo. In alcuni casi è
necessario abbondare con la somministrazione perché l’emivita della sostanza
(cioè il tempo in cui la concentrazione della stessa si dimezza) è talmente
breve da portare quantità scarse a essere praticamente inefficaci.
Fallimento terapeutico – Altri antiossidanti sono sostanze molto semplici
(selenio, rame, zinco) oppure non particolarmente complesse (come il
betacarotene). Sono spesso proposti in maniera ottimistica, visto che in genere
sono molto economici e si possono avere le dosi realmente efficaci a costi
accettabili. Il vero problema è che tanto più una sostanza è semplice tanto più
il nostro organismo la gestisce in modo diversificato e tende a utilizzarla in
molti processi (si pensi all’acqua!). Ciò comporta che “esagerando” si vanno
a toccare molti equilibri e la sostanza da utile diventa tossica.
Per esempio l’utilissimo rame ha una dose consigliata di 1,5-3 mg al giorno.
Ebbene, in molti individui un’assunzione prolungata di 3 mg al giorno produce
un sovraffaticamento epatico e una dose di 10 mg (qualche settimana) produce
stanchezza e nausea. Lo stesso vale per il selenio (che entra a far parte della
glutation-perossidasi) per il quale la dose ritenuta tossica è di sole 5 volte
superiore (350 contro 50 microgrammi per un soggetto di 70 kg). In sostanza
per queste sostanze esistono tre tipi di problemi:

•• controindicazioni evidenti se si supera una soglia di assunzione, che non è


poi molto lontana dalla dose giornaliera consigliata che si raggiunge
facilmente con l’alimentazione.
•• Posizione ottimistica di chi pensa che fornendo un solo elemento (per
esempio il selenio) si possa attivare un meccanismo che coinvolge decine di
sostanze.
•• Competizione fra le stesse sostanze antiossidanti (per esempio rame, ferro
e zinco competono a livello intestinale con la stessa molecola trasportatrice
che ne realizza l’assorbimento: si integra con zinco e si diventa carenti di ferro
e di rame).

La soluzione – Chi vuole preparare un piano antiossidazione deve aver


presente che:

•• funziona solo sul lungo periodo.


•• Deve essere economicamente sostenibile.
•• Deve essere continuo.
Infatti non ha senso fare cicli di 2-3 mesi all’anno perché i radicali liberi
vengono prodotti di continuo. In pratica è necessario che esistano sostanze di
base che vengono sempre assunte e sostanze che possono essere aggiunte in
particolari periodi dell’anno (per esempio di surplus sportivo). Tali sostanze
di solito sono le più costose, mentre quelle di base sono le più economiche.
La proposta più sensata è di considerare come antiossidanti base la vitamina
E e la vitamina C. I motivi sono i seguenti:

•• sono economiche.
•• Sono assumibili in dosi efficaci.
•• A tali dosi non hanno controindicazioni.

Nonostante i tentativi di screditare l’integrazione vitaminica, non esistono


ricerche significative in tal senso.
ARGENTO COLLOIDALE
L’argento colloidale è da molti ritenuto una panacea per moltissime
patologie. In Internet si trovano molti contributi (spesso copiati l’uno
dall’altro) che elencano decine di malattie trattabili con questa sostanza.
Scientificamente questi articoli sono di scarso spessore perché non fanno che
ingenerare false speranze in malati anche gravi.
Premesso che non si osserva la legge di guarigione totale (una terapia è
valida quando la patologia è guarita completamente nella quasi totalità dei
casi in un tempo breve), qualunque persona dotata di spirito critico capirebbe
l’assurda enfasi data alla sostanza. Se funzionasse veramente, come mai tutte
queste malattie sono ancora presenti nella popolazione? Se fosse più potente
dei normali antibiotici, come mai si è dovuto aspettare la scoperta degli
antibiotici per debellare molte gravi malattie infettive? E che dire dell’assurda
pretesa di trattare il cancro con argento colloidale? Anche in questo caso chi
avesse veramente ottenuto risultati avrebbe avuto il passaparola dei pazienti
guariti e il cancro sarebbe stato debellato a livello planetario.
Vediamo comunque cosa c’è di vero (e di positivo) nella favola dell’argento
colloidale.
Già nell’antichità l’argento era usato nel trattamento di molte patologie,
sopratutto di carattere infettivo. Ai giorni nostri, la Nasa lo utilizza a scopi
disinfettanti nelle navette Shuttle poiché una soluzione di argento con una parte
su 100 milioni ha già un effetto antimicrobico. Sembra che gli ioni argento
blocchino il sistema respiratorio enzimatico dell’agente patogeno e che ne
alterino la parete cellulare, mentre non hanno effetti tossici sulle cellule
umane.
Poiché l’argento cristallino è insolubile in acqua è necessario utilizzare una
forma colloidale. L’argento colloidale fu ottenuto per la prima volta attorno al
1920, facendo passare una carica elettrica attraverso l’acqua e i cristalli
d’argento. Fu subito impiegato come antimicrobico locale e in dermatologia
per la cura di determinati tipi di lesione.
Fra gli effetti collaterali dell’uso di argento colloidale si deve ricordare
l’argirosi, una colorazione grigio-bluastra della pelle dovuta alla
precipitazione dei sali d’argento. Per evitare questo effetto (e permanendo il
dubbio che alte concentrazioni di argento nei tessuti potessero essere
dannose), nel 1965 C. Moyer introdusse la pomata al nitrato d’argento allo
0,5%, molto più stabile dell’argento colloidale. Parallelamente C. Fox
formulò un nuovo composto di argento, la sulfadiazina d’argento, una crema
idrosolubile. La sulfadiazina è diventata negli ultimi decenni il più apprezzato
sistema di emissione dell’argento antimicrobico.
E l’argento colloidale? Le più moderne nanotecnologie hanno permesso di
realizzare argento nanocristallino che è sotto esame per evidenziare eventuali
pregi rispetto alla sulfadiazina (Demling, Harvard Medical School).
Ricapitolando, l’argento colloidale deve ritenersi una forma di argento
superata (il classico rimedio della nonna), le cui proprietà possono esplicarsi
comunque solo in sede topica, cioè locale. Il principale impiego è pertanto in
dermatologia per la cura di infezioni della pelle, ustioni, rigenerazione cutanea
ecc.
L-ARGININA
L’arginina è un aminoacido condizionatamente essenziale (come la glicina, la
glutammina, la prolina e la taurina), ricopre cioè un ruolo indispensabile per il
mantenimento dell’omeostasi ovvero la condizione di stabilità interna
dell’organismo.
L’arginina fu isolata nel 1886 da Schultz e Steiger dai semi del lupino;
successivamente, nel 1895, Heiden la identificò come componente proteico.
L’arginina è contenuta in svariati alimenti. Dosi interessanti (il riferimento è
relativo a 100 g di prodotto) di tale aminoacido sono contenute per esempio
nelle proteine isolate della soia (6,07 g), nella polvere di albume (4,4 g), nel
merluzzo sotto sale (3,75 g), nelle noci secche (3,62 g), nelle arachidi (3 g),
nella farina di soia (2,67 g), nella pancetta di maiale cotta (2,5 g), nelle
mandorle secche (2,46 g), nelle nocciole secche (2,22 g), nelle lenticchie
(2,17 g), nel tacchino arrosto (1,98 g), nel gambero cotto (1,83 g), nei ceci
(1,82 g), nell’aragosta cotta (1,8 g), nelle alici sott’olio (1,73 g), nell’aragosta
(1,64 g), nei gamberetti (1,63 g), nel caviale (1,59 g), nella spalla di maiale
(1,57 g) ecc.
L’arginina è un aminoacido essenziale solo nella prima fase della vita, fin
verso i 13-14 anni, mentre non lo è più successivamente. Ricordiamo che gli
aminoacidi essenziali sono quegli aminoacidi che l’organismo non è in grado
di sintetizzare a sufficienza relativamente ai propri bisogni e che quindi
devono essere integrati per mezzo della dieta (vedasi per esempio i cosiddetti
aminoacidi ramificati). Il fatto che i bambini non sintetizzino una quantità di
arginina sufficiente alle richieste organiche può dipendere dal fatto che nella
fase dell’accrescimento c’è una notevole produzione di ormone della crescita
la cui sintesi sembra richiedere, oltre ad altre sostanze, anche la presenza di
arginina. Questo punto è controverso perché, accanto alle ricerche in cui si
afferma il suo ruolo favorente la produzione di ormone della crescita, ve ne
sono molte altre che non sono riuscite a confermarne i risultati. La presenza in
letteratura di dati discordanti può spiegarsi con il fatto che gli studi positivi
sono stati tutti svolti non su campioni della popolazione, ma su ristretti gruppi
di soggetti in clinica.
Per le persone adulte, che non hanno l’esigenza di sintetizzare notevoli
quantità di arginina, è sufficiente quella che viene sintetizzata a livello del
ciclo dell’urea. Esistono alcune condizioni, patologiche o meno, in cui la
velocità di sintesi dell’arginina è insufficiente per quelle che sono le richieste
del corpo umano; tali situazioni di deficit si verificano, per esempio, in coloro
che seguono un regime alimentare vegano, in soggetti sottoposti a forti stress di
tipo psicofisico, in coloro che hanno subito forti traumi, come per esempio
notevoli ustioni, o sono colpiti da particolari patologie.
L’arginina è un precursore della creatina: essa condiziona infatti,
aumentandola, la velocità di sintesi di tale aminoacido.
Tra i presunti effetti dell’arginina, uno dei più considerati è quello relativo
alla sua capacità di aumentare la produzione di spermatozoi; l’assunzione di
arginina viene infatti suggerita come cura nelle dispermie seminali.

Effetti dimostrati
È stato dimostrato che l’arginina svolge un ruolo detossicante l’organismo:
essa infatti lo ripulisce dall’accumulo di ammoniaca, derivante dal processo
di deaminazione dell’adenosinmonofosfato, che si verifica in seguito a intensi
lavori di tipo muscolare e che è responsabile dell’insorgenza del senso di
fatica; è questo il motivo per cui alcuni autori consigliano l’assunzione di
arginina a coloro che svolgono attività fisica di una certa intensità (corsa di
resistenza, ciclismo, sci di fondo, triathlon ecc.).
Di un certo interesse è la capacità dell’arginina di stimolare la produzione di
linfociti T, le cellule natural killer di quelle cancerogene.
Come si vede, l’arginina ricopre numerose funzioni ed è proprio questo il
motivo per il quale le ricerche sul metabolismo di tale aminoacido sono
sempre state particolarmente numerose; la stragrande maggioranza di esse
sono state effettuate in riferimento all’effetto vasodilatatorio nei confronti
delle arterie in soggetti sofferenti di problemi a tali vasi dal momento che
l’arginina stimola la produzione di ossido nitrico, vasodilatatore dei vasi
coronarici. In linea teorica, grazie alle proprietà di tipo vasodilatatorio indotte
dalla sintesi dell’ossido nitrico, l’arginina svolgerebbe un ruolo importante
per quanto riguarda la diminuzione della pressione arteriosa sia per quanto
riguarda l’aumentato apporto di sangue ai vari tessuti, tra cui l’apparato
genitale. Per questi motivi, si è presa in considerazione l’arginina come
possibile cura di patologie a carico dell’apparato cardiovascolare quali
aterosclerosi, angina pectoris, ipercolesterolemia, ipertensione ecc. e a carico
dell’apparato genitale come per esempio la disfunzione erettile.
L’arginina partecipa anche al processo di sintesi di altri aminoacidi e a
quello del glucosio: viene infatti considerata un aminoacido gluconeogenetico,
dal momento che, dopo l’attività fisica, quando le scorte glicidiche sono al
limite, essa può essere catabolizzata al fine di produrre energia.

Avvertenze
L’assunzione di arginina è sconsigliata in caso di allergia ad alimenti
proteici o alimentazione povera, a soggetti affetti da patologie ossee o da
herpesvirus (si ritiene infatti che l’arginina favorisca la riattivazione dei ceppi
virali herpetici), a soggetti colpiti da turbe schizofreniche e a coloro che
soffrono di argininemia (una rara patologia genetica del ciclo dell’urea che, a
causa di un deficit dell’enzima arginasi, è responsabile di un accumulo di
ammoniaca e arginina).
L’arginina può interagire con alcuni farmaci potenziandone l’effetto e/o
aumentando il loro assorbimento (ibuprofene, nitrati organici, sildenafil)
mentre controbilancia l’effetto della ciclosporina.
L’assunzione di elevati dosaggi di arginina non è scevra da effetti collaterali
(crampi addominali, diarrea, ipotensione, mal di testa, nausea, nefrotossicità
ecc.).

Dose efficace
Per il potenziamento del sistema immunitario è consigliabile una dose di 0,5
g per ogni 10 kg di peso; gli effetti (incremento dei linfociti T) in tal caso son
visibili dopo pochi giorni. L’assunzione dovrebbe avvenire durante i pasti
principali o entro un’ora e mezza, eccetto diversa prescrizione. Per l’azione
sulle varie patologie, in genere la dose è maggiore (dai 5 g/giorno per la
disfunzione erettile ai 20 g per i problemi cardiovascolari).
Vi sono studi in cui si è osservato che la somministrazione per via
endovenosa di arginina in alte dosi (circa 30 g pro die) ha innalzato
considerevolmente la concentrazione sierica di ormone della crescita; nel
contempo si è osservato che il raggiungimento degli stessi risultati nel caso di
assunzione per via orale richiederebbe un dosaggio di arginina estremamente
elevato (circa 250 mg per kg di peso pro die).

A chi serve
Deficit di arginina sono, nella stragrande maggioranza dei casi, da attribuirsi
a una carenza proteica generale; sembrerebbe quindi opportuno, prima di
ricorrere all’integrazione, rivedere il proprio stile alimentare. In effetti, i
soggetti che si alimentano poco (o male) sembrano essere maggiormente
esposti agli effetti collaterali che derivano dall’assunzione di integratori di
aminoacidi.
In soggetti sani che seguono uno stile alimentare equilibrato, l’integrazione
di arginina allo scopo di aumentare la produzione di ormone della crescita e
potenziare gli effetti vasodilatatori sembra non sortire effetti particolarmente
interessanti. I maggiori risultati sono stati ottenuti infatti nelle sperimentazioni
di laboratorio su animali oppure in quelle su soggetti colpiti da determinate
condizioni patologiche. Facendo invece riferimento al già citato positivo
effetto a livello di potenziamento del sistema immunitario, l’arginina può
essere un integratore alimentare utile sia per lo sportivo sia per il sedentario,
in alcuni periodi dell’anno, per esempio per prevenire i classici malanni da
raffreddamento tipici della stagione fredda.
ARNICA
L’arnica (nota anche come veleno di lupo, tabacco di montagna, tabacco
dei Vosgi, panacea dei traumi, panacea dei caduti ecc.) è una sostanza che
viene ricavata da numerose specie di piante erbacee perenni che fanno parte
della famiglia delle Asteracee, note anche come Composite (Arnica montana,
Arnica chamissonis, Arnica fulgens Pursh, Arnica soraria Greene, Arnica
cordifolia Hook e Arnica latifolia Bong). Le specie conosciute sono circa una
ventina; l’unica di queste che nasce spontaneamente nel nostro Paese è
l’Arnica montana.
L’arnica montana predilige i climi freschi e soleggiati; cresce sui terreni e
sui pascoli delle Alpi e dell’Appennino settentrionale.
I fiori, di colore giallo-arancione, ricordano l’aspetto delle margherite. Sia i
fiori che le radici emanano un forte profumo aromatico che in alcuni soggetti
può scatenare lo starnuto.
Le parti che vengono utilizzate a scopo medicamentoso sono in particolar
modo i fiori e il rizoma: i primi vengono raccolti nel pieno della fioritura e
successivamente seccati in luoghi freschi e aerati; il rizoma viene estratto nei
mesi di settembre od ottobre ed essiccato mediante esposizione al sole.
All’arnica montana vengono attribuite numerose proprietà sia di tipo
analgesico sia di tipo antiecchimotico sia di tipo antinfiammatorio. In
erboristeria e in omeopatia viene tradizionalmente consigliata (sotto forma di
olio, granuli, ovuli, compresse, pomata, fiale per iniezione, gocce ecc.) come
rimedio per i tipici traumi degli sportivi (contusioni, distorsioni, dolenzia
muscolare, ecchimosi, gonfiore da trauma, vesciche ecc.) e altre condizioni
quali dolori reumatici, flebiti superficiali, punture di insetti ecc.; viene anche
proposta come antidolorifico nella terapia del torcicollo. Alcune volte se ne
consiglia la combinazione con altri preparati erboristici a base di calendula e
iperico. In omeopatia viene consigliata in tutti quei disturbi che si aggravano
tramite il contatto e l’immobilità e che invece trovano giovamento con il
riposo in posizione sdraiata.
Comunque, secondo i propugnatori dei rimedi erboristici e omeopatici, le
indicazioni non si limitano a quelle che abbiamo riportato poco sopra; l’arnica
infatti viene caldamente consigliata nei periodi di sovrallenamento atletico e
di particolare surmenage fisico, per i crampi, dopo un’influenza, dopo il parto,
dopo incidenti di qualsiasi genere (in special modo se accompagnati da
sensazioni di spavento…), dopo interventi chirurgici ecc.

Effetti dimostrati
Nessun effetto degno di nota. Per quanto ci si sforzi di dire o scrivere
mirabilie relative all’uso di arnica montana, a tutt’oggi non sono note ricerche
scientifiche di una certa serietà che provino che l’utilizzo dell’arnica montana
dia risultati concreti nella terapia dei numerosi disturbi per i quali viene
consigliata.

Avvertenze
L’assunzione di arnica non è scevra da effetti collaterali; un iperdosaggio
può provocare numerosi disturbi quali diarrea, ipotensione, irregolarità del
battito cardiaco, miastenia, nausea, reazioni di tipo allergico e vomito. Si deve
inoltre valutare con attenzione l’uso di arnica nel caso di utilizzo
contemporaneo di altre sostanze quali, per esempio, l’acido acetilsalicilico,
farmaci antinfluenzali, farmaci lassativi ecc.
ARTIGLIO DEL DIAVOLO
L’artiglio del diavolo è una pianta erbacea delle Pedaliacee, conosciuta in
due varietà (di cui solo la prima è usata a scopi medicinali),
l’Harpagophytum Procumbens DC e la Harpagophytum Zeyheri DECNE.
Agli inizi del ’900 il tedesco Mehnert notò che gli indigeni dell’Africa sud-
occidentale usavano la radice dell’artiglio del diavolo per curare diverse
patologie. Fu però solo nel 1953 che Volk importò la radice in Europa e
successivamente iniziarono gli studi nelle università tedesche (Würzburg,
Jena, Monaco).
Furono isolati tre glicosidi (harpagosid, harpagid e procumbid), ritenuti
responsabili delle proprietà curative della pianta (che andrebbero dall’artrosi
ai disturbi gastro-intestinali).
Solo le radici laterali sottostanti hanno valore medicinale, mentre le
primarie vengono scartate. Poiché le radici arrivano fino a 1,5 m di
profondità, la raccolta è difficoltosa e la resa non supera il 15% (da 100 kg di
radici fresche si ottengono 15 kg di medicinale).
Esistono pochissime ricerche mondiali sull’artiglio del diavolo (dal 1958!),
molte delle quali ancora in corso. È stato realizzato un solo farmaco
(Doloteffin, non disponibile in Italia) che dovrebbe agire inibendo la
cicloossigenasi-2.
Significativa la metaricerca di Chrubasik, Conradt e Black (2003) che hanno
esaminato le ricerche precedenti dal punto di vista statistico, arrivando a
concludere che “non è possibile separare gli effetti dell’Harpagophytum da
quelli dei placebo utilizzati”. Inoltre “anche gli studi che sembrano
dimostrare una qualche efficacia, utilizzano dosaggi di almeno 50 mg di
glicoside”.

Avvertenze
Il supposto effetto inibente nei confronti della cicloossigenasi-2 rende
sconsigliabile l’assunzione di questa sostanza da parte di soggetti affetti da
problematiche di tipo gastrointestinale.

Dose efficace
Rifacendosi alla metaricerca di Chrubasik, Conradt e Black, poiché la
polvere contiene solo il 2% di principio attivo, è facile rendersi conto che per
ottenere una comunque modesta efficacia ci vogliono dosi giornaliere di circa
2,5 grammi di polvere!

A chi serve
La somministrazione di artiglio del diavolo viene consigliata per il
trattamento delle situazioni flogistiche all’apparato locomotore (artrosi, mal di
schiena ecc.) per quanto, come accennato nel paragrafo iniziale, non esistano
evidenze scientifiche che supportino l’efficacia della sostanza in questione.
L-ASPARTATO (acido aspartico)
L’L-aspartato (o acido aspartico) è un aminoacido non essenziale. Deve il
suo nome all’ortaggio dal quale fu isolato la prima volta insieme
all’asparagina, l’asparago. È coinvolto nel ciclo dell’urea e nel ciclo di
Krebs. È un aminoacido gluconeogenetico: quando l’organismo necessita di
glucosio, l’aspartato viene trasformato in ossalacetato che è in grado di entrare
nel ciclo Krebs oppure può trasformarsi in glucosio per mezzo della via
gluconeogenetica.
Oltre alle funzioni sopracitate, l’acido aspartico è coinvolto nella
formazione di anticorpi, DNA e RNA.
L’utilizzo di integratori a base di aspartati (generalmente aspartati di
magnesio e potassio) è frequente in particolar modo in ambito sportivo dal
momento che tali sostanze sono da alcuni ritenute efficaci nella prevenzione
dei crampi.
L’integrazione nelle forme di aspartati di potassio e di magnesio è tutt’oggi
utilizzata in ambito sportivo per la prevenzione dei crampi e per il reintegro
salino.

Avvertenze
L’uso di aspartati può essere controindicato nel caso esistano problemi
relativi alle sostanze a essi legate come per esempio il potassio o il magnesio
(vedasi schede corrispondenti).
La somministrazione di aspartati lontana dai pasti può dare sensazione di
nausea.
È possibile che l’utilizzo protratto di notevoli dosi di aspartato induca delle
modificazioni della concentrazione plasmatica dello spettro aminoacidico.

Dose efficace
Generalmente vengono consigliati 0,8-0,9 g di aspartato per il reintegro di
potassio e magnesio alla fine della sessione di allenamento o della gara.
Se l’utilizzo degli aspartati è destinato alla prevenzione dei crampi viene
consigliata la loro assunzione prima di iniziare l’attività fisica.

A chi serve
Non è dimostrato scientificamente che la supplementazione di aspartati
possa migliorare le performance o prevenire l’iperammoniemia, considerata la
causa dei crampi e degli spasmi muscolari dovuti ad attività fisica prolungata.
Non è quindi provata l’utilità di un tale tipo di supplementazione.
ASTAXANTINA
L’astaxantina è una xantofilla (le xantofille sono sostanze appartenenti alla
famiglia dei carotenoidi) particolarmente diffusa in ambiente marino; è
presente in alcuni lieviti (Phaffia rhodozyma) e in diverse microalghe; la
fonte più ricca di astaxantina sembra essere l’Haematococcus pluvialis,
un’alga monocellulare verde appartenente alla famiglia delle Ematococcacee.
L’astaxantina è il pigmento responsabile del colore di crostacei, salmoni e
trote (le microalghe sono alla base della loro alimentazione).
L’interesse del mondo dell’integrazione nei confronti della astaxantina è
dovuto alle sue supposte proprietà antiossidanti e fotoprotettive che, secondo
alcune ricerche, sarebbero superiori rispetto a quelle attribuite a sostanze
quali il betacarotene e la luteina (vedasi schede corrispondenti).
Gli integratori a base di astaxantina vengono generalmente indicati come
antiossidanti e nella profilassi dei problemi cutanei che potrebbero derivare
dalla prolungata fotoesposizione. Dal momento che alcuni carotenoidi (luteina
e zeaxantina) dalla struttura simile a quella dell’astaxantina vengono utilizzati
nel trattamento della maculopatia senile, si è supposto che anche quest’ultimo
carotenoide potesse avere una certa efficacia in tal senso; l’astaxantina
tuttavia, a differenza di luteina e zeaxantina, non è stata isolata nell’occhio
umano; quindi, nonostante alcuni studi abbiamo mostrato che l’astaxantina
riesce a superare la barriera ematoencefalica e a depositarsi sulla retina dei
mammiferi, è prematuro indicarla come integratore efficace nella cura della
maculopatia.
I supplementi in commercio consigliano dosaggi giornalieri di astaxantina di
circa 4 mg.
A tutt’oggi non esiste una mole sufficiente di studi che giustifichi il ricorso a
un’integrazione di astaxantina; appare più sensato il ricorso a un
multivitaminico con dosaggi di scuola americana.
ASTRAGALO
L’astragalo (Astragalus membranaceus) è una pianta erbacea della famiglia
delle Leguminose originaria della Cina, del Tibet e della Mongolia. Esistono
moltissime specie di astragalo, ma quelle presenti in commercio sono
generalmente quelle delle specie membranaceus e mongholicus; della pianta
vengono utilizzate le radici disseccate. L’astragalo è presente da tempo
immemorabile nella medicina tradizionale cinese in virtù delle sue (presunte)
proprietà immunostimolanti. I composti biologicamente attivi presenti nelle
radici dell’astragalo sono saponine, flavonoidi, polisaccaridi e amine piogene.
Spesso l’astragalo viene commercializzato in combinazione con altri
prodotti con proprietà adattogene (ginseng, echinacea ecc.).
Viene consigliato come epatoprotettore, cardiotonico e immunostimolante e
come tonico generale, ma nell’ambito della medicina convenzionale le
proprietà dell’astragalo non sono attualmente dimostrate. Se assunto in grandi
dosi può dar luogo a problemi di tipo gastrointestinale.
I dosaggi consigliati arrivano fino a 500 mg al giorno se assunto
singolarmente; se invece viene combinato con altre sostanze dall’attività
simile le dosi consigliate sono inferiori (100-200 mg giornalieri).
BARDANA
La bardana (Arctium lappa) è una pianta erbacea biennale che appartiene
alla famiglia delle Asteracee; diffusa in tutta Italia, è nota anche come Lappa
major, Lappa vulgaris, Lappa officinalis e Arctium majus.
Le proprietà depurative e diuretiche della bardana sono conosciute da
moltissimo tempo; tradizionalmente viene utilizzata per trattare le dermopatie,
l’acne e le problematiche del cuoio capelluto. Alcuni erboristi la consigliano
anche per la cura dell’insufficienza epatica.
La parte più utilizzata in erboristeria è la radice, che viene raccolta prima
della fioritura, tagliata e successivamente essiccata. Anche le foglie e i semi
però vengono utilizzati; con questi ultimi vengono preparati decotti consigliati
per combattere la gotta.
La bardana contiene diversi componenti tra i quali ricordiamo lignani,
vitamine, aminoacidi, minerali, acidi fenolici, inulina, tannini, resine e
principi amari; fra questi ultimi troviamo l’arctiopicrina che è, con tutta
probabilità, il responsabile delle proprietà fitoterapiche attribuite alla
bardana.
Per la bardana valgono le stesse considerazioni che si possono fare per
molti rimedi di tipo fitoterapico; le proprietà che le vengono attribuite sono
reali ma utili soltanto in caso di disturbi di modesta entità; pretendere, tanto
per fare un esempio, di curare gravi casi di acne ricorrendo al solo aiuto della
bardana è decisamente ottimistico e poco sensato.
L’utilizzo di bardana è controindicato in gravidanza per una sua possibile
azione sulla muscolatura uterina.
BETACAROTENE
Il betacarotene è un precursore della vitamina A appartenente alla famiglia
dei carotenoidi (una classe di pigmenti organici che si trovano nelle piante,
nelle alghe e in alcune specie di batteri).
Il betacarotene fu isolato nel 1931 dallo svizzero Karrer che ne determinò la
sua formula chimica.
Il betacarotene si trova in molti prodotti vegetali fra cui la carota, da cui
prende il nome.
Dal momento che l’assorbimento dei carotenoidi è molto variabile, non è
agevole definire un fattore di trasformazione in vitamina A. Attualmente si
hanno le seguenti conversioni:
1 UI=0,3 mcg di retinolo oppure 1,8 mcg di betacarotene oppure 3,6 mcg di
altri carotenoidi.
Pertanto 18 mg di betacarotene equivalgono a 10.000 UI.

Effetti dimostrati
Il betacarotene è una sostanza molto attiva contro i radicali liberi, nella
crescita e nella riparazione dei tessuti, nella protezione delle mucose, nella
protezione dagli agenti inquinanti ed è fondamentale per una buona vista.
Si trasforma in vitamina A solo in caso di effettivo bisogno.

Avvertenze
Il corpo trasforma il betacarotene in vitamina A solo in caso di effettivo
bisogno. Ciò pone al sicuro da eventuali sovradosaggi come ha dimostrato una
ricerca del 1995 (Garewal e Diplock). Il betacarotene in eccesso si accumula
nella pelle, che diventa di un colore giallo arancio; l’effetto è reversibile,
basta infatti ridurre le dosi perché la pelle ritorni al suo colore naturale. Ciò
spiega perché teoricamente una persona può assumere oltre 20.000 UI di
vitamina A al giorno senza incorrere in un’intossicazione cronica: se la dose
teorica deriva da carotenoidi, non si trasforma in dose pratica se l’organismo
non ne ha bisogno. Diverso sarebbe se si parlasse di retinolo, cioè di vitamina
A immediatamente attiva, come nel fegato bovino (30.000-50.000 UI per 100 g
a seconda della cottura), margarina e burro (3.000 UI per 100 g), uova (1.800
UI per 100 g), formaggio grasso (1.000 UI per 100 g).
Dose efficace
La RDA della vitamina A è di 5.000 UI al giorno, anche se la dose ottimale è
di 8.000 UI. Negli Stati Uniti, diverse ricerche hanno portato la dose di
assunzione giornaliera a 10.000 U.I.

A chi serve
Premesso che in ogni multivitaminico a formulazione americana ne è
comunque contenuta una quantità significativa, non appare necessario usare il
betacarotene come antiossidante se già si assumono vitamina C e vitamina E. È
invece indicato nei fumatori, in chi si espone al sole o agli agenti atmosferici,
negli over 60 per la prevenzione della maculopatia senile, nei diabetici (per
migliorare la cicatrizzazione) e nei bevitori (l’alcol distrugge le riserve
epatiche di vitamina A).
BETAGLUCANI
I betaglucani sono polimeri costituiti da molecole di glucosio e sono
considerati fibre vegetali solubili. Gli enzimi intestinali non riescono a
scindere i legami molecolari, cosa che invece riesce ai batteri della flora
intestinale. Poiché sono fibre non è difficile intuire che possono ridurre
l’assorbimento del colesterolo; sembra però che gli acidi a catena corta che si
formano dalla loro fermentazione possano inibire la sintesi epatica di
colesterolo.
Diverse aziende si sono buttate sul possibile business dei betaglucani (è
geniale riciclare ogni parte dei cereali, anche quelle che una volta erano meno
pregiate).
Le difficoltà di gestire informazioni come la proprietà anticolesterolo dei
betaglucani si basa su alcuni punti che devono essere ben compresi.

•• Ciò che conta è l’indice di rischio cardiovascolare, definito come


rapporto fra colesterolo totale e colesterolo buono (HDL). Se una sostanza li
riduce entrambi non è detto che sia utile. Per esempio, una ricerca pubblicata
su Nutrition Metabolism and Cardiovascular Diseases sostiene che una
porzione al giorno fra gli 80 e i 140 g di legumi riduce il colesterolo totale di
11,8 mg/dl e quello cattivo (LDL) di 8,1 mg/dl, concludendo che i legumi sono
un ottimo anticolesterolo. Forse (8 mg/dl di riduzione non sono poi molti), ma
sicuramente non sono interessanti per la protezione cardiovascolare.
Prendiamo per esempio in considerazione un soggetto con un cattivo stile di
vita che abbia un colesterolo cattivo di 250 mg/dl e uno buono di 35 mg/dl. Il
suo indice di rischio è 7,14: pessimo! Con i legumi arriva a 238 e 31; il suo
indice di rischio sale addirittura a 7,67!
•• Se non si tratta la materia quantitativamente, dire “aiuta a ridurre il
colesterolo” non significa nulla. Se, per esempio, il prodotto X abbassa il
colesterolo di 1 mg/dl, la frase soprariportata è vera, ma la sua azione è del
tutto ininfluente. È una forma di seminformazione perché dico il vero, ma lo
faccio in modo che l’ascoltatore speri in qualcosa di diverso.
•• La quantità necessaria affinché la sostanza X esplichi la sua funzione può
essere talmente elevata che diventa impossibile assumerla con
l’alimentazione. Premesso che non è stato stabilito un fabbisogno di
betaglucani, 75 g di pasta arricchita di betaglucani (1,7 g derivati dalla fibra
d’orzo) apportano solo il 25% di tale quantità, quindi l’effetto sarebbe
globalmente modesto.
•• Se si assume la quantità prevista, è possibile avere altri effetti collaterali
non propriamente positivi. Supponiamo di assumere 300 g di pasta arricchita
per arrivare al presunto fabbisogno giornaliero. Vuol dire assumere la bellezza
di 1.050 kcal solo di pasta! L’anticamera per l’obesità, il che non è molto
salutare.

L’EFSA (Autorità per la sicurezza alimentare europea) afferma che “il


consumo regolare di betaglucani contribuisce al mantenimento delle
concentrazioni normali di colesterolo nel sangue”. Mantenere non vuol dire
ridurre significativamente né tantomeno ridurre. Per la riduzione del
colesterolo (senza fare miracoli!) gli unici alimenti funzionali sono quelli
contenenti i fitosteroli.
BIANCOSPINO
Il biancospino (Crataegus oxiacantha o Crataegus monogyna) è una pianta
appartenente alla famiglia Rosacee; è diffuso in tutta Europa e in tutto il bacino
del Mediterraneo. Tradizionalmente, in campo fitoterapico, viene utilizzato
come ricostituente, antidiarroico, cardiotonico, ipotensivo e ansiolitico.
La droga utilizzata viene estratta dai fiori, dalle foglie e dai frutti; fra i
principali componenti della droga ricordiamo i flavonoidi, amine biogene,
tannini, glicosidi cianogenetici e saponine.
Il suo uso principale è quello di cardiotonico e ipotensivo. Il biancospino
sembra possedere azioni coronariodilatatrice, vasodilatatrice e inotropa
positiva (l’inotropismo è la capacità del cuore di variare la forza di
contrazione); viene spesso consigliato nei casi di angina pectoris, aritmia e
ipertensione arteriosa; si impone quindi una doverosa riflessione: demandare
la cura di problemi di tipo cardiovascolare al biancospino non sembra essere
una scelta particolarmente sensata e, dal momento che la sua assunzione
potrebbe potenziare in modo indesiderato l’azione di farmaci di sintesi ad
azione antiipertensiva, antianginosa e antiaritmica, è assolutamente
sconsigliato il suo utilizzo a chi assume questa tipologia di medicinali. Per
quanto riguarda le altre indicazioni terapeutiche ci limitiamo a ricordare che
l’efficacia dei prodotti fitoterapici è molto limitata.
BICARBONATO
I bicarbonati presenti nell’organismo umano svolgono, insieme ad altre
sostanze, un ruolo determinante nel mantenimento dell’equilibrio acido-base,
espressione che in medicina indica quei processi fisiologici che consentono
all’organismo di mantenere al suo interno un livello di acidità che sia
compatibile con lo svolgimento delle normali funzioni di tipo metabolico. In
virtù di tali processi il pH del sangue viene mantenuto entro valori compresi
di norma tra 7,35 e 7,45. Quando il pH scende sotto i livelli fisiologici ritenuti
come normali si parla di acidosi, mentre quando tali livelli vengono superati
si parla di alcalosi.
I bicarbonati entrano in azione in modo particolare quando si verifica un
fenomeno di acidosi indotto dall’esercizio fisico (accumulo di acido lattico e
scissione di ATP); tale fenomeno si verifica quando viene superata una
determinata soglia di potenza (energia prodotta nell’unità di tempo) con
conseguente intervento del meccanismo anaerobico e produzione di lattato;
l’acidosi rende difficoltoso il mantenere la potenza voluta e, entro certi limiti,
entrano in gioco i meccanismi di tamponamento dell’acidosi, che vedono il
coinvolgimento dei bicarbonati.
L’integrazione di bicarbonati (generalmente bicarbonato di sodio) negli
sportivi ha come scopo principale quello di incrementare la riserva di
bicarbonati per tentare di ritardare la fatica provocata dall’acidosi.
Per molti anni le ricerche si sono limitate a prendere in considerazione gli
eventuali effetti dell’assunzione di bicarbonati qualche decina di minuti prima
dello svolgimento dell’esercizio fisico (integrazione acuta); oggi si cerca di
capire quali potrebbero essere gli effetti a seguito di integrazione cronica di
bicarbonati, che dovrebbe essere effettuata tramite l’assunzione quotidiana di
acque minerali contenenti alte concentrazioni di bicarbonati.
Nonostante i molti studi svolti, a tutt’oggi, per quanto riguarda l’integrazione
cronica di bicarbonati, non si è ancora giunti a conclusioni in grado di
evidenziare l’efficacia o meno di tale tipo di integrazione. Anche per quanto
riguarda l’assunzione cronica di bicarbonati tramite acque minerali contenenti
alte concentrazioni di tali sostanze non esistono evidenze scientifiche che ne
certifichino l’efficacia. Il ricorso a tale tipo di integrazione può dare perciò
risultati incerti.
A chi volesse comunque provare l’integrazione cronica di bicarbonato si
consiglia di:

•• non superare le dosi consigliate;


•• effettuarla in modo saltuario;
•• utilizzarla prima delle gare soltanto nel caso in cui non si siano riscontrati
problemi durante gli allenamenti;
•• considerare che può avere una certa utilità soltanto in quelle discipline
sportive in cui si verifica un intervento notevole del meccanismo lattacido.

Effetti dimostrati
A seguito di integrazione si è osservato un decremento delle concentrazioni
di lattato dopo esercizio fisico di tipo massimale.
È stato osservato un leggero incremento del pH a riposo (alcalosi).
Maggior attivazione della glicogeno fosforilasi durante l’attività fisica.
Minor produzione di lattato ematico a pari potenza prodotta in test
aerobico/anaerobico alternati (assunzione cronica).

Avvertenze
L’integrazione acuta di bicarbonato di sodio può dar luogo a problemi di
tipo gastrointestinale e ad alcalosi pregara che potrebbe essere limitante per la
prestazione, oltre che pericolosa.
L’integrazione acuta può indurre ritenzione idrica; inoltre l’acido carbonico
libera ioni idrogeno e produce anidride carbonica che deve essere espulsa,
causando l’uso dell’emoglobina come tampone per gli ioni idrogeno in
eccesso.
L’utilizzo giornaliero di acqua minerale ricca di bicarbonati di calcio fatto
durante i pasti potrebbe interferire con l’assorbimento di alcune vitamine.

Dose efficace
Generalmente vengono consigliati 0,3 grammi di bicarbonato di sodio per kg
di peso corporeo una o due ore prima della competizione. Si deve però
ricordare che i risultati ottenuti con le ricerche sono decisamente contrastanti.

A chi serve
La somministrazione di bicarbonato di sodio prima della gara o
dell’allenamento non sembra dare i risultati voluti; si deve inoltre considerare
la possibile insorgenza di effetti collaterali che potrebbero compromettere la
prestazione.
Per quanto riguarda l’assunzione cronica di acqua minerale ricca di
bicarbonati di calcio, niente si può dire relativamente a una sua possibile
efficacia.
BIFIDOBATTERI
I bifidobatteri (Bifidobacterium) sono batteri anaerobi Gram-positivi
abbondantemente presenti in natura. Si ritrovano per esempio nelle feci umane,
in quelle animali e nel rumine. Negli esseri umani sono presenti in notevoli
quantità nel tratto gastrointestinale (costituiscono una parte della flora
intestinale), nel cavo orofaringeo e nella donna anche nella vagina.
Alcune specie di bifidobatteri sono caratteristiche dell’intestino dei neonati
(per esempio Bifidobacterium bifidum, Bifidobacterium breve,
Bifidobacterium infantis e Bifidobacterium pseudocatenulatum) mentre altre
sono caratteristiche dell’intestino delle persone adulte (Bifidobacterium
adolescentis, Bifidobacterium angulatum, Bifidobacterium catenulatum,
Bifidobacterium gallicum e Bifidobacterium Longum).
I bifidobatteri svolgono diverse azioni di tipo probiotico; fra le più
importanti ricordiamo:

•• produzione di acido lattico, acido acetico, acido propionico e acido iso-


butirrico ovvero dei principali nutrienti degli enterociti
•• inibizione dell’azione di alcuni enzimi come l’azoreduttasi e la
nitroreduttasi favorendo la riduzione dell’ammonio intestinale
•• contrasto della putrefazione intestinale attraverso la riduzione delle
ptomaine (sostanze irritanti per gli enterociti)
•• contenimento della proliferazione dei batteri patogeni a livello intestinale.

L’integrazione di bifidobatteri è generalmente consigliata per il


miglioramento delle funzionalità epatica e intestinale.
Per approfondimenti si consulti la scheda Probiotici.
BIOFLAVONOIDI
I bioflavonoidi (anche flavonoidi o, secondo la definizione di alcuni autori,
vitamina P) sono composti chimici presenti in particolar modo nelle specie
vegetali (ne sono per esempio ricchi gli agrumi, il tè verde, i pomodori, i frutti
di bosco, il finocchio, il grano saraceno, la vite rossa ecc.).
Quella dei flavonoidi è una classe molto ampia (esistono circa 5.000
composti diversi) e l’efficacia terapeutica dei diversi bioflavonoidi varia al
variare della loro particolare composizione. Molto spesso la tipologia di
bioflavonoidi ha una stretta correlazione con il colore delle sostanze vegetali
perciò un consiglio che viene dato a coloro che sono interessati a beneficiare
dei loro effetti è quello di consumare frutta e verdura di colore diverso.
Tra le loro caratteristiche ritenute più interessanti c’è quella di svolgere
un’azione antiradicali liberi.

Effetti dimostrati
I bioflavonoidi hanno mostrato attività antiradicali liberi.

Avvertenze
L’assunzione di integratori di bioflavonoidi può essere controindicata nel
caso si assumano farmaci che influenzano la coagulazione sanguigna.

Dose efficace
Si ritiene che un regime vario ed equilibrato apporti una quantità di
bioflavonoidi oscillante tra i 150 e 300 mg giornalieri. Chi volesse ricorrere a
un’integrazione di tali sostanze dovrebbe pertanto rimanere entro questo range
quantitativo.

A chi serve
I bioflavonoidi sono sostanze antiossidanti, ma la loro integrazione è
ampiamente coperta dall’alimentazione; per un’integrazione di sostanze a
effetto antiossidante sono da preferire altre soluzioni come le classiche
vitamine C, E e A.
BIOTINA (vitamina B8, vitamina H)
La biotina è una vitamina idrosolubile appartenente al gruppo vitaminico B
(è nota infatti anche come vitamina B8 o vitamina H). Il termine biotina è,
secondo la IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry,
Unione Internazionale di Chimica Pura ed Applicata), l’unica denominazione
corretta. In passato la biotina era anche nota come vitamina H o I secondo la
nomenclatura tedesca; secondo la nomenclatura anglosassone era nota come
vitamina B7, mentre secondo quella francese era nota come vitamina B8. Il
nome deriva dal termine greco bios (vita). La sua scoperta è relativamente
recente (1936). In realtà la biotina è un coenzima (coenzima R) senza il quale
determinati enzimi carbossilasi non svolgerebbero adeguatamente le loro
funzioni; tali enzimi infatti sono coinvolti nella via biosintetica degli acidi
grassi, nella gluconeogenesi, nel catabolismo degli aminoacidi e in quello
degli acidi grassi che hanno un numero dispari di atomi di carbonio e nel
catabolismo della leucina. Alcuni studi recenti indicano che la biotina è una
sostanza necessaria per alcuni processi cellulari come per esempio la
replicazione del DNA.
Secondo alcuni autori, in linea puramente teorica (dal momento che non sono
stati riportati casi in letteratura), la mancanza di biotina può essere causa di
morte. La carenza di biotina però è un evento rarissimo dal momento che, oltre
al fatto che le richieste di tale sostanza sono decisamente basse, essa si trova
in numerosi alimenti.
Come accennato all’inizio, la biotina è una sostanza solubile in acqua e, in
tale condizione, può resistere al calore, agli acidi e alle basi; può però essere
distrutta dalla luce ultravioletta e da forti agenti ossidanti.
L’organismo umano non è grado di sintetizzare la biotina e la sua assunzione
avviene principalmente per via alimentare e, in minima parte, grazie alla
sintesi effettuata dalla flora batterica intestinale. La biotina che viene
introdotta per via alimentare non è in forma libera ma legata alle proteine per
mezzo della lisina; la biotinidasi, un enzima presente nel succo pancreatico,
opera una scissione del legame biotina-lisina e, in tal modo, la biotina viene
liberata nel lume intestinale. Attualmente, i meccanismi dell’assorbimento
della biotina a livello intestinale non sono perfettamente noti.
Si sa che la vitamina circola a livello plasmatico sia in forma libera che
legata alle proteine, ma non è noto se esista una specifica proteina di trasporto.
La biotina assorbita in eccesso viene successivamente escreta per via renale,
mentre quella non assorbita nell’intestino tenue o quella sintetizzata dalla flora
batterica intestinale viene escreta per via fecale.
Le fonti migliori di biotina sono le verdure, la carne, i legumi e il lievito di
birra.
Le indicazioni sul fabbisogno giornaliero variano a seconda degli autori;
molte fonti indicano un fabbisogno giornaliero variabile, a seconda dei casi,
dai 20 ai 150 mcg (nei bambini si va dai 20 ai 30 mcg giornalieri).
L’integrazione di biotina viene effettuata generalmente con lo scopo di
rinforzare unghie e capelli.
Come detto, la carenza di biotina è un evento estremamente raro; le sue
manifestazioni principali avvengono a carico della cute che tende a
desquamarsi. Carenze di tipo primario sono descritte in letteratura solamente
in soggetti che venivano alimentati in modo esclusivo per via parenterale;
carenze di tipo secondario possono essere invece dovute a problemi di tipo
funzionale oppure a difetti a livello dei meccanismi di assorbimento. Carenze
di tipo secondario sono state poi osservate nei consumatori di notevoli
quantità di uova crude; questo perché l’albume contiene una glicoproteina
(avidina) che inibisce l’assorbimento della biotina. Non sono noti effetti
tossici da sovradosaggio.
BORO
Il boro è un elemento chimico (simbolo B), numero atomico 5, peso atomico
10,811, punto di fusione 2.076 °C. Appartiene alla serie dei metalloidi.
Il suo ruolo all’interno dell’organismo umano non è stato ancora del tutto
chiarito; come anione borato influenza il metabolismo di calcio (ne migliora
l’assorbimento) e di magnesio (ne riduce la perdita); intervenendo su questi
due metabolismi, il boro innalza i livelli di estrogeni e di vitamina D; resta da
capire come funzioni tale meccanismo. In linea teorica il boro potrebbe essere
un integratore interessante per la prevenzione dell’osteoporosi e per la
correzione degli squilibri elettrolitici; sono però necessari ulteriori studi che
facciano chiarezza sul ruolo di questo elemento nel nostro organismo. Secondo
alcuni autori, un’integrazione di boro potrebbe rivelarsi utile in soggetti che
soffrono di patologie artritiche.
Nel corpo umano il boro è presente nella milza, nelle ossa e nella tiroide.
Non viene sintetizzato dall’organismo umano e deve quindi essere assunto
tramite la dieta; gli alimenti più ricchi di boro sono i cavolfiori, i datteri, i
fagioli, i funghi, i legumi verdi, le mandorle, le pere, le prugne e l’uva.
È contenuto in alcuni integratori per lo sviluppo di massa e forza muscolare.

Effetti dimostrati
All’interno dell’organismo umano influenza il metabolismo di calcio e di
magnesio.

Avvertenze
Un’assunzione eccessiva di boro può provocare la riduzione del senso di
fame, nausea, vomito, diarrea, problemi cutanei e letargia.

Dose efficace
Secondo quanto affermato dall’Istituto Superiore della Salute americano, la
dose raccomandata di boro oscilla tra 1,5 e 3,9 mg giornalieri.

A chi serve
Potrebbe essere un integratore interessante per tutti quei soggetti che
soffrono di osteoporosi o di squilibri elettrolitici, ma, allo stato attuale,
considerando la scarsità di studi relativi a questo elemento, un’integrazione di
boro non è consigliata.
BOSWELLIA SERRATA
La Boswellia (Boswellia serrata Roxb) è una pianta appartenente alla
famiglia delle Burseracee, originarie del Pakistan. Il nome della pianta deriva
da quello del suo scopritore occidentale, Boswell.
Dalla Boswellia viene estratta una resina il cui profumo ricorda quello
dell’incenso (viene infatti chiamata anche pianta dell’incenso); la resina della
Boswellia è in parte formata da un olio essenziale che contiene acidi
boswellici, polisaccaridi e terpeni. È stato osservato che gli acidi boswellici
fungono da inibitori selettivi della 5-lipossigenasi, un enzima che appartiene
alla classe delle cosiddette ossidoreduttasi e coinvolto nei processi di
infiammazione cronica tipici delle reazioni immunologiche e allergiche.
La medicina tradizionale indiana utilizza la Boswellia per il trattamento
delle artriti e dei fenomeni infiammatori.

Effetti dimostrati
Gli studi presenti in letteratura sono troppo pochi per poter stabilire il vero
potenziale di questa sostanza; allo stato attuale quindi è praticamente
impossibile parlare di effetti dimostrati.

Avvertenze
La somministrazione di Boswellia serrata può dar luogo a disturbi di tipo
gastrointestinale.
L’assunzione del prodotto da parte di soggetti sottoposti a terapie
anticoagulanti deve essere fatta sotto stretto controllo medico dal momento che
esiste il sospetto che tale rimedio erboristico provochi un innalzamento del
tempo di protrombina.

Dose efficace
Il dosaggio giornaliero raccomandato è di 450-1.200 mg di estratto
standardizzato contenente il 30-65% di acido boswellico, diviso in 3
somministrazioni per non più di 2-3 mesi.

A chi serve
Le indicazioni principali all’uso di Boswellia sono relative alle patologie
artro-reumatiche e a lievi traumi sportivi.
BRASSICA OLERACEA
La Brassica oleracea è una pianta appartenente alla famiglia della
Brassicacee (anche Crucifere). Ne esistono numerose varietà; quelle utilizzate
negli integratori alimentari sono generalmente due, la Brassica oleracea L.
var. acephala e la Brassica oleracea L. var. italica.
La Brassica oleracea L. var. acephala è comunemente nota come cavolo
nero, mentre la Brassica oleracea L. var. italica è conosciuta come cavolo
broccolo.
In molti casi gli integratori contenenti gli estratti standardizzati di queste
Crucifere vengono consigliati in caso di problemi a carico di fegato e bronchi;
questo perché alcune sostanze presenti in queste piante sembrano in grado di
facilitare l’eliminazione di tossine e di stimolare la fluidificazione del muco.
Recentemente si sono studiate le potenzialità preventive delle Brassicacee
nei confronti del carcinoma polmonare, potenzialità che deriverebbero dalla
presenza di isotiocianati, composti derivanti dalla degradazione di
glucosinolati, sostanze di cui le Brassicacee sono particolarmente ricche. Al
momento attuale gli studi effettuati sono troppo pochi per esprimersi con
certezza sull’eventuale efficacia antineoplastica di queste sostanze. Quello che
è certo è che gli isotiocianati possono provocare una diminuzione della
funzionalità tiroidea vista la loro capacità di captare lo iodio ostacolando la
sua fissazione nel tessuto tiroideo; appare quindi ovvio che i soggetti
sofferenti di ipotiroidismo dovrebbero astenersi dal consumare grandi quantità
di cavoli e soprattutto dall’assumere integratori a base di estratti
standardizzati di queste Crucifere.
BROMELAINA (bromelina)
Bromelaina (o bromelina) è un termine generico col quale ci si riferisce a
due enzimi proteolitici che vengono estratti dall’ananas, una pianta della
famiglia delle Bromeliacee, originaria dell’America meridionale. Oltre
all’attività proteolitica, a tali enzimi sono stati attribuiti diversi altri effetti
(antiedemigeni, antinfiammatori e antitrombotici). La prima forma di
bromelaina è stata individuata nel frutto dell’ananas, mentre la seconda è stata
individuata nel gambo; dal momento che nel gambo la bromelaina risulta
essere presente in concentrazioni maggiori, la bromelaina presente in
commercio viene generalmente ricavata da quest’ultima fonte.
Grazie alla sua attività proteolitica, la bromelaina viene utilizzata anche
nell’industria alimentare allo scopo di intenerire le carni in scatola.
Per la sua blanda attività anoressizzante viene anche inserita in dimagranti
da banco.
Negli integratori, la bromelaina viene spesso associata ad altri enzimi
proteolitici (tripsina, papaina ecc.); nel loro insieme queste sostanze agiscono
direttamente nel tubo gastroenterico e vengono anche assorbite nel sangue
grazie a sistemi di trasporto presenti nelle cellule dell’apparato digerente,
esplicando così attività biochimica in tutto l’organismo. Tali integratori
possono rivelarsi di una certa utilità nel favorire la digestione di quegli
alimenti che risultano essere ricchi di proteine.

Effetti dimostrati
La bromelaina ha mostrato effetti proteolitici, antiedemigeni,
antinfiammatori, antitrombotici e una blanda azione anoressizzante.

Avvertenze
L’utilizzo di bromelaina è controindicato in tutti i soggetti che sono affetti da
ulcera duodenale o gastrica.
La bromelaina incrementa l’attività degli anticoagulanti; per tale motivo, i
soggetti sottoposti a terapie con farmaci anticoagulanti (per esempio eparina e
warfarin) devono informare il proprio medico prima di assumere prodotti che
la contengono.
Dal momento che la bromelaina può innalzare le concentrazioni sieriche di
tetracicline e amoxicillina, la sua assunzione deve avvenire sotto stretta
sorveglianza medica.
L’utilizzo di bromelaina è controindicato nei soggetti allergici all’ananas.

Dose efficace
Il dosaggio riportato sugli integratori viene spesso espresso in unità attive
ed è riferito alla capacità dell’enzima di digerire una determinata quantità di
proteine. Molto dipende dalla forma dei preparati che vengono assunti, dal
cibo associato e dalla secrezione gastrointestinale. Non è quindi
particolarmente agevole stabilire a priori quale possa essere il dosaggio
efficace. I dosaggi tipici oscillano da 500 a 2.000 GDU (GDU = unità di
digestione della gelatina) fino a tre volte al giorno.

A chi serve
Per i suoi effetti proteolitici, la bromelaina può essere utile nelle dispepsie.
Ha mostrato una discreta efficacia nel trattare blandi stati infiammatori dei
tessuti molli e nel trattamento di condizioni infiammatorie localizzate, in
particolar modo in presenza di edema.
Topicamente viene utilizzata per trattare ulcere e ustioni.
L’utilizzo come prodotto dimagrante è da evitare in quanto l’effetto
anoressizzante, dovuto all’attività proteolitica sui tessuti, è esplicabile solo a
dosaggi in cui sono presenti pesanti effetti collaterali.
BUCCO
Il bucco (Agathosma betulina o Barosma betulina) è una pianta arbustiva
perenne di piccole dimensioni (può raggiungere al massimo il metro di
altezza) con fiori bianchi o rosacei di circa 1 cm; appartiene alla famiglia
delle Rutacee. Il bucco è una pianta di origine sudafricana ma viene coltivato
anche in alcune zone del Sud America.
Le parti usate per scopi fitoterapici sono le foglie, che vengono raccolte
durante i periodi della fioritura e della fruttificazione.
I componenti principali del bucco sono oli essenziali, flavonoidi,
mucillagini, tannini e vitamine del gruppo B.
Oltre alla Agathosma betulina esistono altre piante che vengono denominate
bucco; è importante verificare che la pianta cui si fa riferimento con questo
termine non sia la Agathosma crenulata; in quest’ultima pianta infatti è
presente un composto tossico, il pulegone.
Nel XIX secolo il bucco fu ufficializzato come farmaco per il trattamento di
cistite, uretrite, nefrite e catarro vescicale. Ancora oggi, in linea generale, è
questo l’uso cui è destinato il bucco; viene inoltre consigliato per trattare la
prostatite e la sindrome della vescica irritabile; come doccia vaginale il bucco
viene consigliato nel trattamento di leucorrea e candidiasi.
I dosaggi consigliati variano a seconda delle forme farmaceutiche.
Sotto forma di infuso (30 g di sostanza in 600 ml di acqua per mezz’ora)
vengono consigliati dai due ai quattro cucchiai da tavola per tre volte al
giorno. Sotto forma di polvere il dosaggio è di 1-2 g di droga per tre volte al
giorno; sotto forma di estratto secco in capsule vengono consigliati circa 150-
200 mg di sostanza due volte al giorno.
Gli studi farmacologici attualmente disponibili indicano il bucco come una
pianta sicura; le avvertenze principali sono quelle di non superare i dosaggi
consigliati e di non somministrare il prodotto in gravidanza e durante
l’allattamento.
CAFFEINA
La caffeina (anche 1,3,7-trimetilxantina) è un alcaloide presente in diverse
piante (caffè, cacao, tè, cola, guaranà ecc.) e anche nelle bevande che da
queste piante vengono ottenute.
La caffeina ha parecchi effetti sull’organismo umano. Alcuni di essi sono
molto conosciuti: leggero aumento della pressione arteriosa, eccitabilità,
insonnia, tachicardia, aumentata secrezione gastrica (la caffeina è quindi da
evitare in caso di ulcera o gastrite), aumento della diuresi, aumento del
metabolismo basale (500 mg di caffeina possono aumentare il metabolismo
basale del 10 e talora del 25% con un massimo fra la prima e la terza ora
dall’assunzione).
Da segnalare lo studio di Thelle (1983) e collaboratori che studiò 7.213
donne e 7.368 uomini fra i 20 ed i 58 anni e dal quale risultò una stretta
connessione tra il consumo di caffè e l’aumento del tasso di colesterolo totale.
Lo studio fu confermato anche da una ricerca di Arsen (1984). Nel 1990 Bak
quantificò l’aumento medio di colesterolo totale in 0,08 mmol/l per ogni tazza
di caffè (100 mg di caffeina). Non esistono prove concrete di correlazione fra
caffeina e cancro (molte ricerche che affermavano la correlazione per tipi di
tumore sono state poi smentite da altre successive).
Dal momento che la caffeina viene trasmessa con il latte materno, durante
l’allattamento è consigliabile evitare di consumarla.
Interazioni farmacologiche della caffeina - Per quanto concerne il ferro
presente nell’organismo, alcune sostanze contenute nel tè e nel caffè possono
interferire con l’assorbimento di questo elemento, specialmente se si
assumono bevande con caffeina durante i pasti. Caffè e caffeina non provocano
osteoporosi, ma le donne che consumano forti quantità di caffè, tè e bevande
con caffeina invece del latte possono avere un livello di rischio più elevato
nei riguardi di questa patologia. Perciò ci si deve accertare di consumare la
quantità quotidiana consigliata di calcio senza preoccuparsi se si beve un paio
di caffè al giorno.
La caffeina rilassa la valvola che si trova fra la parte bassa dell’esofago e la
parte alta dello stomaco (cardias). Quando questa valvola si apre i liquidi
contenuti nello stomaco possono passare nella gola, provocando bruciori.
Inoltre, caffè, tè e bevande con caffeina possono aggravare eventuali ulcere
provocando un aumento delle secrezioni acide nello stomaco (benché sia stato
dimostrato che anche il caffè decaffeinato causa lo stesso problema). Chi
soffre di bruciori di stomaco o ulcere dovrebbe evitare di associare tè e caffè
in associazione ad altri alimenti che possono aggravare la situazione, come gli
alcolici, la menta, le arance, i pomodori ecc. (aggiungere latte al caffè non
migliora la situazione; anche i derivati del latte stimolano la secrezione degli
acidi).
Poiché la caffeina incrementa il flusso sanguigno nei reni, agisce anche come
un diuretico, favorendo la minzione. In ogni caso diversi studi hanno
dimostrato che il consumo di caffeina prima dell’attività sportiva non provoca
un eccesso di minzione né disidratazione, anche se i ricercatori non sono certi
delle cause; può darsi che l’adrenalina o altre sostanze prodotte con lo sforzo
agonistico precludano l’effetto abituale della caffeina sui reni.
Inoltre la caffeina può anche stimolare la defecazione.
Effetti positivi della caffeina - Fra gli effetti positivi, il ruolo protettivo nel
morbo di Parkinson (Neurology, 2002 58:1154-1160, una tazza di caffè
americano al giorno).
In realtà gli effetti negativi del caffè vengono amplificati da altri fattori
contemporanei come lo stress, il fumo e gli alcolici, in sostanza dallo stile di
vita sbagliato. Si potrebbe cioè sostenere che negli individui in cui il caffè fa
male si deve correggere lo stile di vita non smettere di bere caffè!
Lo Scottish Health Study di Brown e collaboratori ha preso in esame
10.359 bevitori di caffè di ambo i sessi fra i 40 e i 59 anni, concludendo che
non esiste relazione fra assunzione di caffè e patologie coronariche. Non ha
influito nemmeno il consumo di quattro o più tazze di caffè americano al
giorno.
Caffeina e dimagramento - Chi si rivolge ai dimagranti da banco per
dimagrire in genere ottiene ben poco. Uno degli effetti che i dimagranti
propongono è l’innalzamento del metabolismo basale. In realtà non c’è nulla di
meglio che la caffeina per innalzare il metabolismo basale senza avere forti
controindicazioni. Non a caso il tè verde è spesso citato come dimagrante. Il
problema sono le dosi corrette per avere questo effetto. Non è sperabile avere
risultati bevendo uno o due caffè al giorno. La ricerca dimostra che una dose
di 500 mg di caffeina innalza il metabolismo basale dal 10 al 25%. Come dire
che una persona sovrappeso con metabolismo basale di 1.900 kcal (per
esempio un quarantenne di 85 kg con il 20% di massa grassa) può risparmiare
da 190 a 475 kcal al giorno, una quantità superiore a quella risparmiata con i
comuni costosi dimagranti. L’importante è come assumere questa quantità (o
una inferiore, ma comunque significativa; una dose ragionevole può essere 400
mg al giorno).
Caffeina e sport - La caffeina può essere usata realmente per migliorare la
prestazione, ma non con le finalità con cui è usata dalla maggior parte degli
atleti. Molti, infatti, ritengono che la caffeina possa migliorare le prestazioni
perché sveglia o perché sostiene il cuore. In realtà non esistono prove che la
caffeina sia valida per aumentare la potenza o la reattività dell’atleta.
La caffeina assunta in pillole ha effetti nettamente superiori a quella assunta
con il caffè, forse a causa di altre sostanze contenute nella bevanda che
ostacolano l’effetto della caffeina.
Il Comitato Olimpico Internazionale ha bandito la caffeina in dosi che
portano alla presenza di oltre 12 microgrammi per litro di urina.
CALCIO
Il calcio è un elemento chimico (simbolo Ca), numero atomico 20, peso
atomico 40,08, punto di fusione 839 °C e peso specifico 1,54g/cm3.
Appartiene al II sottogruppo A del sistema periodico. Fu isolato nel 1808 da
H. Davy. È elettropositivo e brucia dando ossido di calcio, CaO.
Il calcio è un elemento indispensabile alla vita degli animali e dei vegetali
ed è presente nell’organismo umano in una percentuale del 2,5%. Nel tessuto
osseo si trova il 99% del calcio contenuto nell’organismo (sotto forma di
idrossiapatite), ma l’1% restante svolge comunque importanti funzioni. Nei
Vertebrati lo ione calcio agevola la coagulazione del sangue (in cui è presente
nella concentrazione di 9-11,5 mg/dl, in due frazioni, diffusibile e non
diffusibile; la frazione diffusibile è sua volta costituita da calcio ionizzato, che
esercita un’azione fisiologica, e non ionizzato). Il calcio è fondamentale per la
contrazione muscolare e nella conduzione dell’impulso nervoso nel sistema
nervoso centrale, attiva molti enzimi, entra nella composizione della forma
attiva della vitamina D ed è importante nel trasporto di sostanze attraverso le
membrane cellulari. Poiché ha un effetto ricalcificante, viene utilizzato in casi
di rachitismo, nella tubercolosi polmonare e nelle malattie delle ossa. Il suo
metabolismo è regolato dalla vitamina D, dal paratormone e dalla calcitonina.
Il calcio nella salute e nell’alimentazione – Il calcio è uno dei
micronutrienti per cui è giustificata un’integrazione. I cibi più ricchi di calcio
sono latte, formaggi, tuorlo d’uovo e verdure. L’assorbimento avviene
nell’intestino tenue sotto forma di sali solubili; se il calcio transita
nell’intestino sotto forma di sale insolubile viene eliminato. L’importanza
della prevenzione dell’osteoporosi (malattia che causa una fragilità ossea
responsabile di molte fratture nell’età avanzata; il 90% delle persone colpite è
di sesso femminile) è fondamentale se si tiene conto che circa per il 75% della
popolazione la dose giornaliera di calcio è inferiore a quella consigliata (1 g
nell’adulto). Si è dimostrato che l’attività fisica aiuta nella prevenzione
dell’invecchiamento dell’apparato scheletrico, ma anche che nelle donne
un’attività fisica intensa che riduce notevolmente la massa corporea e produce
amenorrea secondaria predispone all’osteoporosi in tarda età. Ciò si spiega
con la sospensione della produzione di estrogeni che agiscono come
protezione nei confronti della demineralizzazione ossea. Non è infrequente che
le atlete siano più vulnerabili agli stimoli meccanici. Sembra pertanto
giustificata un’integrazione di calcio (per esempio citrato di calcio) con la
dieta anche perché basta portare la razione giornaliera a 1,5 g per ridurre
significativamente i rischi di osteoporosi. L’integrazione di 0,5 g corrisponde
a circa tre bicchieri di latte (circa 200 calorie) ed è di difficile sostituzione
visto l’elevato apporto calorico degli alimenti contenenti calcio.
L’integrazione è anche consigliata per tutti atleti di resistenza (runner e
marciatori) maschi che superano gli 80 km settimanali.
Come integrare - Molti integratori di calcio contengono anche vitamina D.
In realtà l’assunzione di questa vitamina dovrebbe essere motivata da una
reale carenza e non semplicemente dal desiderio che migliori l’assorbimento
di calcio (questo è sicuramente il caso dei fondisti in cui è il calcio che viene
a mancare per usura e non la vitamina D). Infatti la vitamina D è liposolubile e
un suo accumulo può provocare sgradevoli effetti collaterali (diarrea, nausea,
perdita di peso, danni renali). In genere la dose di vitamina D contenuta in un
multivitaminico e quella assunta con l’alimentazione sono più che sufficienti
per garantire che l’assunzione del solo calcio sia efficace.

Effetti dimostrati
Il calcio è fondamentale nella prevenzione dell’osteoporosi, cura la
deplezione di calcio in soggetti affetti da ipoparatiroidismo, osteomalacia,
rachitismo, disordini alimentari e/o malnutrizione e in soggetti che assumono
farmaci anti-convulsivanti.
Promuove il corretto sviluppo e la salute di ossa e denti e di altri sistemi
fisiologici e metabolici.
Agisce come antidoto nell’intossicazione da magnesio.
Agisce contro l’acidità gastrica e diminuisce le concentrazioni di fosfato in
soggetti con malattie renali croniche.

Avvertenze
La somministrazione di calcio è controindicata nei casi di allergia al calcio
o agli anti-acidi, nei soggetti affetti da calcoli renali, da iperparatiroidismo, da
ipervitaminosi D e da ipercalcemia.
Devono prestare particolare attenzione all’integrazione di calcio coloro che
accusano problemi renali, disturbi gastrointestinali, aritmie cardiache e
costipazione.
Fra gli effetti collaterali più comuni della somministrazione di calcio vi
sono problemi di tipo gastrointestinale.
Il sovradosaggio può dare diversi problemi. In caso di ipercalcemia iniziale
possono verificarsi casi di cefalea, costipazione, secchezza delle fauci,
inappetenza, gusto metallico, sonnolenza o stanchezza. In caso di ipercalcemia
conclamata possono verificarsi irregolarità del battito cardiaco, aumento della
sensazione di sete, confusione, depressione, dolori osteoarticolari, eruzioni
cutanee, ipertensione, nausea, vomito e poliuria.
Il calcio può interagire con alcune categorie di farmaci come levotiroxina,
bifosfonati, H2-bloccanti, inibitori della pompa protonica, chinolonici,
tetracicline ecc.
Il calcio può ridurre l’assorbimento di ferro nel caso questo non venga
assunto insieme a vitamina C e può inoltre aumentare la possibilità di battito
cardiaco irregolare se viene assunto insieme al potassio.
Devono prestare attenzione alle integrazioni di calcio coloro che assumono
megadosi delle vitamine D e A.
Il tè, il caffè, l’alcol e il fumo riducono l’assorbimento di calcio. Fra gli
alimenti che possono provocare una limitazione dell’assorbimento di calcio
ricordiamo gli spinaci, il rabarbaro, la crusca, i cereali integrali, la frutta e gli
ortaggi freschi ricchi di acido ossalico o di acido fitico.

A chi serve
Un soggetto sano necessita di integrazione di calcio se il suo regime
alimentare non fornisce un sufficiente introito di questo micronutriente. Ciò
può verificarsi per esempio in coloro che sono intolleranti al latte e ai suoi
derivati.
Determinati soggetti hanno necessità particolari che possono non essere
soddisfatte anche se il loro regime alimentare è equilibrato; è il caso di:

•• soggetti che hanno superato i 55 anni di età, in particolare le donne (nel


periodo della menopausa il calo di estrogeni comporta un minor assorbimento
osseo di calcio);
•• donne nel corso della vita adulta, in particolar modo durante la
gravidanza, l’allattamento e se fanno attività sportive logoranti per l’apparato
osseo;
•• soggetti sottoposti a stress prolungati, con malattie croniche, che hanno
subito un intervento chirurgico (in particolar modo all’apparato
gastrointestinale), con gravi ustioni o lesioni;
•• soggetti che abusano di