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Fama e fortuna critica

Ritr. di Jean Bodin (XVI sec.)

La fama di Machiavelli fu immensa già negli ultimi anni della sua vita soprattutto grazie al ​Principe
e presto i suoi scritti furono oggetto di critica ad opera dell'amico e collaboratore F. Guicciardini,
che polemizzò con lui in alcuni dei ​Ricordi ​e specialmente nelle ​Considerazioni intorno ai
"Discorsi" di Machiavelli,​ operetta in cui sottoponeva a un severo vaglio critico il trattato dedicato
all'opera di Tito Livio (Guicciardini gli rimproverava in particolare la lettura libresca del testo latino
e il paragone forzato tra la realtà sociale e politica dell'antica Roma con quella della Firenze
moderna. In seguito fu soprattutto il ​Principe ​a suscitare grave scandalo per le tesi moderne e ardite
che proponeva e, in particolare, per la separazione tra politica e morale che costituiva l'idea centrale
del libro, così l'opera fu messa all'Indice dalla Chiesa già nel 1559 e per tutto il periodo della
Controriforma (seconda metà del XVI sec.) si diffuse un atteggiamento culturale definito
"antimachiavellismo", proprio di intellettuali cattolici o ecclesiastici che criticavano le teorie di
Machiavelli in quanto immorali e tendenti all'anti-clericalismo, tra cui val la pena citare soprattutto
Jean Bodin, autore dei ​Sei libri della repubblica​. Nello stesso periodo si colloca anche l'opera di
Giovanni Botero, che nel suo trattato ​Della ragion di Stato p​ ropone numerosi riferimenti alle
affermazioni dello scrittore fiorentino, tuttavia critica fortemente la sua concezione laica dello Stato
e la separazione della politica dalla sfera dell'etica (la posizione di Botero, ex-gesuita e operante nel
clima pesante della Controriforma, è del tutto coerente con lo spirito dei suoi tempi, anche se non
manca una tacita approvazione del principio per cui chi governa è legittimato a compiere atti
estremi per il bene e la sopravvivenza dello Stato). Interessante il fatto che il principio della
religione quale ​instrumentum regni​, fortemente criticato da molti intellettuali nel Cinquecento,
venga ripreso e in parte accettato dallo stesso Botero, il quale accetta implicitamente che questo
principio machiavelliano possa essere alla base della prassi politica controriformistica. In questo
periodo si diffonde il concetto di "machiavellismo" inteso come l'uso spregiudicato dei mezzi
politici per mantenere il potere, secondo la massima (attribuita a Machiavelli ma da lui mai scritta)
che "il fine giustifica i mezzi", mentre il termine "machiavellico" è tuttora usato in senso spregiativo
per caratterizzare l'opera di politici contemporanei, cui si rimprovera la mancanza di senso morale o
l'attenzione all'immagine pubblica per dissimulare la loro autentica indole.
Federico II di Prussia (ritr. 1739)

Nel Settecento e nel periodo dell'Illuminismo l'atteggiamento degli intellettuali verso Machiavelli fu
ambivalente, poiché alcuni lo criticarono per ragioni analoghe a quelle sopra esposte, mentre altri ne
elogiarono il pensiero non senza operare alcune profonde distorsioni: tra i primi ci fu certamente
Federico II di Prussia, che nel trattato ​Anti-Machiavel (​ 1739) criticò il ​Principe i​ n nome dei principi
del dispotismo illuminato, considerando l'opera del fiorentino come un "breviario per tiranni"
(posizione analoga verrà in seguito espressa da Voltaire, che recensì in modo positivo lo scritto del
sovrano tedesco); tali tesi saranno ulteriormente riprese alla fine del secolo anche da Immanuel
Kant, che nel trattato ​Per la pace perpetua ​(1795) critica Machiavelli in quanto per lui la politica
deve essere sottomessa alla morale. Non mancò tuttavia chi vide nello scrittore italiano un esempio
positivo, dal momento che le sue opere potevano apparire un modo per svelare ai popoli i
meccanismi della tirannide e denunciare le malefatte dei potenti: tale interpretazione "obliqua", che
di fatto distorceva il pensiero di Machiavelli, aveva già esempi nel XVI-XVII sec., tra cui ad es.
Traiano Boccalini che nei ​Ragguagli di Parnaso (​ I, 89) sosteneva ironicamente che le pecore,
grazie agli insegnamenti del Principe, avevano imparato a mettere i denti da cane, creando non poca
preoccupazione tra i pastori (ovvero i governanti; tale lettura era simile a quella proposta per un
altro grande storico del passato, Tacito, molto in voga nel periodo della Controriforma). Una
posizione del tutto analoga verrà abbracciata anche da alcuni intellettuali illuministi, tra cui Diderot
(probabile autore della voce "Machiavelli" nell'​Encyclopédie​) e Rousseau, che elogiano l'autore del
Cinquecento proprio perché svelava i meccanismi del dispotismo e metteva in guardia i popoli, il
tutto in un orizzonte politico repubblicano e critico nei confronti dell'assolutismo dei sovrani. Un
ulteriore esempio di questa interpretazione "obliqua" si ha nei Sepolcri di Ugo Foscolo, che nei vv.
154-158, descrivendo la tomba dello scrittore fiorentino a S. Croce, dirà che Machiavelli
"temprando lo scettro a’ regnatori, / Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / Di che lagrime grondi
e di che sangue", rilanciando dunque la medesima lettura falsata che già si aveva in Boccalini
(Machiavelli fingerebbe di dare consigli al principe, in realtà per metterne in luce le malefatte e
istruire i popoli).
A. Gramsci

La rivalutazione del pensiero di Machiavelli e la sua giusta collocazione nel suo contesto storico
iniziò nel XIX sec, specie in età romantica e risorgimentale in cui, ancora con qualche distorsione,
l'opera del grande scrittore si prestava ad essere letta come auspicio del riscatto politico dei popoli
italiani oppressi dallo straniero, specie (ovviamente) alla luce del profetico cap. conclusivo del
Principe.​ A questo proposito è significativo il contributo di F. De Sanctis nella sua ​Storia della
letteratura italiana ​(1869-71), in cui Machiavelli veniva esaltato in quanto scrittore capace di
descrivere la "realtà effettuale" in modo crudo e immediato, con passione civile e senza l'egoismo di
cui invece darebbe prova il Guicciardini, per cui se l’Accademia della Crusca con il suo regolismo
fu "il Concilio di Trento della nostra lingua", Machiavelli fu invece per l’Italia "il suo Lutero", in
grado di offrire "un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi". Una lettura meno viziata
dall'entusiasmo risorgimentale è poi quella del filosofo Benedetto Croce, che in vari articoli dei suoi
Quaderni della critica ​(1945-51) riconosceva in Machiavelli il fondatore della scienza politica
moderna e l'assertore dell'autonomia di questa dalla sfera morale, nell'ottica di uno Stato laico e
improntato al più rigoroso liberalismo. Notevole anche il contributo di Antonio Gramsci all'analisi
dell'opera di Machiavelli, in cui l'intellettuale comunista (specie nel Principe) vedeva un utile
prontuario politico per l'azione del Partito nella realtà sociale dell'inizio del secolo, quasi
identificandolo con una sorta di moderno "sovrano" (l'idea di fondo era ancora una volta quella
della separazione tra politica e morale, la concezione dello Stato come organismo laico, la storia
come espressione della volontà dei popoli). Gli studi critici e i saggi su Machiavelli scrittore, non
solo di politica e storia ma a tutto campo, non si contano nella seconda metà del XX sec. e fra i
principali commentatori che si sono occupati di lui è sufficiente citare nomi del calibro di A.
Momigliano, R. De Mattei, L. Russo, C. Dionisotti, senza contare i numerosi contributi ad opera di
studiosi stranieri, specie del mondo anglosassone.

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