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TRA STORIA E DIRITTO:

DALL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO
AL NATION BUILDING
DEL PRIMO DOPOGUERRA
La parabola della Repubblica cecoslovacca
(1918-2018)
a cura di
Romano Orrù - Francesca F. Gallo - Lucia G. Sciannella
Il presente volume è stato pubblicato con il contributo dei fondi «FAR-
DIB» (2019) dell’Università di Teramo.

Orrù, R.; Gallo, F.F.; Sciannella, L.G. (a cura di)


Tra storia e diritto: dall’impero austro-ungarico al Nation Building del primo dopoguerra
La parabola della Repubblica cecoslovacca (1918-2018)
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2020
pp. 348; 24 cm
ISBN 978-88-495-4334-6

© 2020 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a.


80121 Napoli, via Chiatamone 7
Internet: www.edizioniesi.it
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l’art. 68, comma 4 della legge 22 aprile 1941, n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra siae,
aie, sns e cna, confartigianato, casa, claai, confcommercio, confesercenti il 18 di-
cembre 2000.
INDICE

Introduzione 7

Relazioni
Francesco Caccamo
Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 13

Oliver Panichi
Genesi culturale e politica di uno scisma religioso: la Chiesa
nazionale cecoslovacca (1918-1920) 35

Fabrizio Politi
La nascita della Corte costituzionale austriaca e la tutela delle
libertà nella Costituzione austriaca del 1920 63

Mauro Mazza
La dissoluzione dell’impero austro-ungarico e la questione delle
nazionalità 81

Angela Ferrari Zumbini


Il diritto di essere sentiti nell’Impero austro-ungarico 101

Andrea Gratteri
Il principio proporzionale nelle Costituzioni del primo dopo-
guerra 115

Francesco Duranti
Il processo di Nation Building del primo dopoguerra nel con-
testo nordico: la Costituzione finlandese del 1919 137

© Edizioni Scientifiche Italiane ISBN 978-88-495-4334-6


6 Indice

Comunicazioni
Giulio M. Salzano
Immaginare la Nazione. Rappresentazioni dell’identità mu-
sulmana nella Jugoslavia socialista 151

Lorenzo Venuti
Le associazioni calcistiche ebree come fenomeno transnazionale
dopo la disgregazione dell’impero austro-ungarico: i casi
del Makkabi Brünn e dell’Hakoah Vienna 195

Alessandro Volpato
La Legione Cecoslovacca in Italia contro l’Austria-Ungheria:
genesi, sviluppo e contraddizioni 211

Fabrizio Rudi
La fine della Grande Guerra, l’Italia, il processo di edifica-
zione nazionale di Cecoslovacchi e Jugoslavi 225

Alessandro Tedde
Dentro e contro Weimar: corporativismo e privatizzazione del
conflitto sociale 259

Marco Rizzuti
Diritto di famiglia e Costituzione nella vicenda Fiume 283

Mattia Gambilonghi
Diritto del lavoro, consigli aziendali e democrazia economica
nell’opera di Hugo Sinzheimer 299

Fiore Fontanarosa
Il ruolo dei poteri statali nell’equilibrio costituzionale della Re-
pubblica Ceca 315

Elenco degli Autori 347

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


INTRODUZIONE

Il volume raccoglie gli atti del convegno “Tra storia e diritto: dal-
l’Impero austro-ungarico al Nation Building del primo dopoguerra.
La parabola della Repubblica cecoslovacca (1918-2018)”, organizzato
presso l’Università degli Studi di Teramo, il 26/27 novembre 2018, in
occasione della ricorrenza del centenario della nascita dello Stato ce-
coslovacco.
Ambizione degli organizzatori e curatori del volume è stata quella
di far dialogare storia e diritto sulle complesse questioni emerse dalla
dissoluzione dell’Impero austro-ungarico e dall’articolato ed esteso
processo di Nation Building, che ne è conseguito. Ne è risultato un
quadro di riflessioni e spunti assai ricco e stimolante: se la dimen-
sione storica ha consentito di contestualizzare, all’interno dei tor-
mentati decenni di primo Novecento e, in particolare, tra le due guerre
mondiali, le vicende che portano allo sfaldamento dell’Impero asbur-
gico e alla nuova configurazione geopolitica europea, le analisi gius-
comparatistiche focalizzano la comparsa delle così dette “Costituzioni
democratiche razionalizzate” cui si lega in prevalenza il riconosci-
mento dei diritti sociali nel più ampio orizzonte del pluralismo di
matrice democratica.
Il contributo di Francesco Caccamo, che apre il volume, rico-
struisce puntualmente la “parabola” della Cecoslovacchia durante la
sua esistenza – breve (poco più di otto decenni), ma significativa –,
che incarna uno dei più interessanti modelli di Nation Building del
primo Novecento, una sorta di «paradigma dei destini del vecchio
continente» e uno stimolo per i contemporanei.
Oliver Panichi analizza, invece, l’intricato rapporto, politico e di-
plomatico, della nascente nazione con la Santa Sede, sottolineando
l’incidenza della “religione nazionale” nella fase di costruzione del
nuovo Stato e le aspirazioni riformatrici di una parte non irrilevante
del clero cattolico secolare e regolare cecoslovacco, che lega a dop-
pio filo le proprie rivendicazioni al risveglio nazionale boemo fino a
sostenere l’istituzione, nel 1920, della Chiesa Nazionale Cecoslovacca.

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8 Introduzione

L’intreccio tra visione storica e lettura giuridica caratterizza i suc-


cessivi contributi, che mettono sotto la lente d’osservazione le tra-
sformazioni giuridiche e istituzionali connesse al disfacimento del-
l’impero austro-ungarico con ricadute tanto all’interno dello stesso
Stato austriaco, che deve rimodellarsi, quanto nelle nuove compagini
statuali che danno vita a nuove architetture costituzionali: con finezza,
Fabrizio Politi analizza il processo costituente austriaco e l’istituzione
della Corte costituzionale; Andrea Gratteri si sofferma sull’analisi delle
innovazioni intercorse sul piano dell’introduzione del principio pro-
porzionale nei sistemi elettorali; Mauro Mazza esamina l’importante
questione delle nazionalità, aspetto cruciale della compagine imperiale
ed elemento centrale del suo processo di disgregazione.
Al di là degli evidenti elementi di discontinuità tra l’Impero e gli
Stati nati dalla sua dissoluzione, è altresì interessante l’accento che la
relazione di Angela Ferrari Zumbini pone sugli effetti che continuano
a persistere in ragione del forte influsso che il primo ha esercitato sui
secondi, a partire dalla «formulazione di principi generali del diritto
che si pongono come fondamenta dell’ordinamento giuridico da co-
struire».
Francesco Duranti analizza, poi, i contenuti di un articolato pro-
cesso costituente di una nascente realtà statuale posta ai margini del-
l’Impero, come la Finlandia, capaci di influenzare l’evoluzione costi-
tuzionale successiva nel continente europeo, soprattutto sotto il pro-
filo della forma di governo.
Le comunicazioni che chiudono il volume restituiscono una va-
rietà di aspetti – giuridici, sociali, culturali, politici, religiosi – delle
composite realtà territoriali che, dopo il disfacimento dell’Impero, cui
appartenevano, provano ad accreditarsi come entità statuali indipen-
denti, a costruire le proprie identità, ad elaborare un’autonoma poli-
tica estera.
Pur nella diversità di approcci e di metodologie di indagine, de-
nominatore comune dei vari autori è l’intento di cogliere le diverse
dimensioni del processo che porta alla nascita delle nuove Nazioni
europee nel primo dopoguerra, e come lo stesso venga percepito e
declinato dagli attori storici.
L’insieme dei contributi mostra come le vicende in analisi giochino
un ruolo decisivo nella storia europea del primo Novecento, di-
schiudendo, al contempo, ampi spazi d’indagine per nuovi studi e
nuove letture.
Il quadro che ne emerge è quello di un continente europeo profon-

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Introduzione 9

damente inciso e trasformato dalla guerra, il cui paradigma esempli-


ficativo è proprio il processo di nascita dello Stato cecoslovacco. Com-
presso tra necessità autonomiste, spinte verso il centralismo e, al con-
tempo, esigenze di superare il disfacimento istituzionale seguito agli
eventi bellici; tra squilibri economici e arretratezze sociali; tra mo-
delli di democrazia diretta e rappresentativa, il processo di Nation
Building del primo dopoguerra – conformemente alle direttrici d’a-
nalisi delle comunicazioni – segna una netta cesura con il passato e
consente di fornire i nascenti Stati di solide fondamenta democrati-
che. Pur in un contesto cui non fa difetto la presenza di peculiarità,
gli ordinamenti nazionali che vedono la luce in tale periodo (in ma-
niera nient’affatto distante dalla grande e coeva esperienza weima-
riana) presentano tendenzialmente un comune denominatore in ter-
mini di adozione di genuini sistemi parlamentari, di cataloghi di di-
ritti e di formule elettorali basate su un ampio suffragio: elementi
tutti destinati a caratterizzare in maniera profonda la maturazione del
costituzionalismo liberal-democratico in epoca successiva.
Le vicende storiche, immediatamente seguenti, com’è noto, se-
gnano però una drammatica battuta d’arresto, che interrompe bru-
scamente quello straordinario “laboratorio costituzionale” rappresen-
tato dagli Stati nati dalla fine dei grandi Imperi e precipita il conti-
nente europeo nella tragedia di una nuova guerra. Un insieme di vi-
cende e fattori da cui vengono fondamentali punti di riferimento per
la cultura liberaldemocratica.

Teramo, giugno 2020 R.O. - F.F.G. - L.G.S.

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RELAZIONI
Francesco Caccamo
LE PARABOLE DELLA CECOSLOVACCHIA
ATTRAVERSO IL SECOLO BREVE*

1. A titolo di introduzione: le oscillanti fortune di un paese oggi


scomparso. – Nel corso di un’esistenza di soli otto decenni o poco
più, perfettamente coincidente con i limiti cronologici del «secolo
breve», la Cecoslovacchia si assicurò un posto di rilievo sulla scena
internazionale. Per quanto a primo impatto possa apparire esagerato,
risulta difficile comprendere le tormentate evoluzioni della storia no-
vecentesca prescindendo da questo paese relativamente piccolo collo-
cato nel cuore dell’Europa: basti pensare al suo coinvolgimento nelle
congiunture critiche del 1918, 1938, 1948 e 1968 (gli «otto magici» o
«fatali», con i quali si tende a sintetizzare ma anche a banalizzare il
suo percorso), e poi di nuovo nel rivolgimento del 1989. A conferma
di quanto detto, le vicende della Cecoslovacchia sono state spesso di
stimolo per i contemporanei, finendo quasi per essere elevate a pa-
radigma dei destini del vecchio continente. Per limitarci al mondo
anglo-americano, tre casi risultano emblematici: lo scozzese Robert
William Seton-Watson, che già durante la prima guerra mondiale, ispi-
rato dai contatti con l’emigrazione ceca e slovacca e da essa soste-
nuto materialmente, propagò la concezione di una radicale ristruttu-
razione dell’Europa centro-orientale facente perno sull’abbattimento
dei vecchi imperi multinazionali e dinastici e sulla loro sostituzione
con una serie di nuovi stati, Cecoslovacchia in primis1; il canadese

* Il presente intervento è stato realizzato nell’ambito del progetto di ricerca della


Grantova agentura České Republiky 16 - 15083 S.
1
R.W. Seton-Watson, A History of the Czechs and Slovaks, Hutchinson, Lon-
don-New York, 1943; J. Rychlík, T.D. Marzik, M. Bielik, Ú.T.G. Masaryka, Matica
Slovenska (eds.), Robert William Seton-Watson and His Relations with the Czechs
and Slovaks. Documents 1906-1951, 2 vols., Praha-Martin, 1995; H. and C. Seton-
Watson, The Making of a New Europe: R.W. Seton-Watson and the Last Years of
Austria-Hungary, Methuen, London, 1981.

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14 Francesco Caccamo

H. Gordon Skilling, che con un’analisi per certi versi ancora insupe-
rata raffigurò la Primavera di Praga come il culmine dei tentativi di
riforma concepiti dai settori non conformisti interni al mondo socia-
lista2; l’inglese Timothy Garton Ash, testimone d’eccezione delle «ri-
voluzioni democratiche» del 1989, che negli avvenimenti cecoslovac-
chi individuava la manifestazione forse più emblematica del dramma
a lieto fine che aveva portato alla rimozione della cortina di ferro3.
Nonostante ciò, la dissoluzione pacifica della Cecoslovacchia a fine
1992 ha segnato una netta inversione di tendenza. La scomparsa del
paese è stata in effetti accompagnata da una sensibile diminuzione di
interesse nei confronti della sua esperienza storica, se non dalla sua
svalutazione. In maniera sintomatica in anni recenti se non l’unica,
quanto meno la principale studiosa che sul piano internazionale ab-
bia avuto l’ambizione di affrontare l’argomento nel suo complesso è
stata Mary Heimann, con una monografia sin dal titolo dai toni esa-
speratamente critici (Lo stato che ha fallito)4. Per conto loro, gli au-
tori cechi e slovacchi hanno manifestato la tendenza a privilegiare
narrazioni incentrate sulle rispettive vicende nazionali, nelle quali il
comune passato cecoslovacco, senza essere negato, viene ridimensio-
nato in maniera più o meno consapevole in conformità con le esi-
genze del presente5. Solo in occasione del centesimo anniversario della

2
H. Gordon Skilling, Czechoslovakia’s Interrupted Revolution, Princeton Uni-
versity Press, Princeton, 1976; Id., Charter 77 and Human Rights in Czechoslovakia,
George Allen & Unwin, London, 1981. Dello stesso si vedano anche le memorie,
The Education of a Canadian: My Life as a Scholar and Activist, McGill-Queen’s
University Press, Montreal, 2000 (pubblicate nell’edizione ceca col significativo ti-
tolo di Československo - můj druhý domov. Pamětí Kanad’ana, Prostor, Praha, 2001,
ossia Cecoslovacchia - la mia seconda patria. I ricordi di un canadese).
3
T.G. Ash, The Magic Lantern: The Revolution of 89 witnessed in Warsaw, Bu-
dapest, Berlin, and Prague, Random, New York, 1990.
4
M. Heimann, Czechoslovakia: The State that Failed, Yale University Press,
New Haven-London, 2009; inoltre, M. Clementi, Cecoslovacchia, Unicopli, Milano,
2007, e A. Marès (ed.), La Tchécoslovaquie sismographe de l’Europe au XXe siècle,
Institut d’études slaves, Paris, 2009.
5
Questa tendenza è ben rappresentata dalla monumentale e peraltro validissima
collana sulla storia dei Paesi della corona boema che ha visto la luce nella Repub-
blica Ceca dopo lo spartiacque del 1989-1992: Velké dějiny zemí Koruny české, Pa-
seka, Praha-Litomyšl, 1999-2014, 15 voll. in 19 tomi (cui sono da aggiungere alcuni
volumi tematici attualmente in corso di pubblicazione); inoltre J. Pánek, O. Tůma
et alii, Dějiny českých zemí, Karolinum, Praha, 2008; J. Klápště, I. Šedivý (eds.),
Dějiny Česka, Nakladatelství Lidové noviny, Praha, 2019. In ambito slovacco si rin-
via in primo luogo a Slovenské dejiny, Literarné informačné centrum, Bratislava,

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Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 15

nascita della Repubblica si è registrato un segnale di tipo diverso, con


la pubblicazione da parte di un collettivo di autori guidato dallo spe-
cialista di storia delle relazioni internazionali Jindřich Dejmek di
un’ampia monografia che ha il sapore di una rivalutazione, Cecoslo-
vacchia. Storia dello stato6.

2. Le origini della Cecoslovacchia e l’esperienza della prima re-


pubblica. – Nelle poche pagine che seguono non si intende ovvia-
mente riaprire il discorso sul significato della storia cecoslovacca né
individuare elementi innovativi, ma solo offrire una sintesi rapida e
per quanto possibile aggiornata. Come premessa bisogna ricordare
che lo stato sorto in coincidenza con le battute conclusive del primo
conflitto mondiale non aveva precedenti storici cui richiamarsi, a meno
di non evocare il regno altomedioevale della Grande Moravia; in ma-
niera analoga, esso presentava evidenti elementi di discontinuità ri-
spetto alle concezioni politiche fino ad allora prevalenti in ambito sia
ceco che slovacco. Sulla base di un vigoroso processo di affermazione
culturale, sociale ed economica, i cechi tendevano a sposare la tesi del
«diritto storico» e a sostenere la creazione nel quadro dell’impero
asburgico di un’entità comprendente le regioni in passato parte della
Corona di San Venceslao o i cosiddetti «paesi cechi», la Boemia, la
Moravia e la Slesia meridionale; con maggiori incertezze e difficoltà
nel frattempo tra gli slovacchi di quella che fino ad allora era nota
semplicemente come l’Alta Ungheria o Felvidék si faceva largo l’a-
spirazione a una qualche autonomia in seno alla Transleitania. In que-
sto contesto l’idea cecoslovacca non era assente, ma manteneva una
valenza soprattutto culturale; essa era utilizzata per sottolineare gli
elementi di affinità linguistica ed etnica che accomunavano i due po-
poli, ma era generalmente priva di implicazioni politiche7.

2008, di cui sono stati pubblicati finora 5 volumi; inoltre D. Kováč, Dejiny Sloven-
ska, Nakladatelství Lidové noviny, Praha, 1998; D. Čaplovič, V. Čičaj, D. Kováč, L’.
Lipták, J. Lukačka, Dejiny Slovenska, Academic Electronic Press, Bratislava, 2000;
M.S. Ďuric, Dejiny Slovenska a slovákov, Lúč, Bratislava, 2007.
6
J. Dejmek a kolektiv, Československo. Dějiny státu, Libri, Praha, 2018. Per in-
ciso, proprio Dejmek è stato autore di una severissima recensione del citato volume
della Heimann, Modern History of the Czechoslovak State from a Revisionist Point
of View, in Český časopis historický, 2011, pp. 347-358.
7
O. Urban, Česká společnost 1848-1918, 2 voll., Svoboda, Praha, 1992; J. Kořalka,
Češi v Habsburské řiši a v Evropě, 1815-1914, Argo, Praha, 1996. Per quanto ri-
guarda gli slovacchi, si rinvia a P. Brock, The Slovak National Awakening, Univer-

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16 Francesco Caccamo

Sostenere su questa base che la Cecoslovacchia sia stata una crea-


tura artificiosa o un semplice incidente storico, come tende a fare da
ultima la già citata Mary Heimann, risulta tuttavia una forzatura. In
effetti il conseguimento della completa indipendenza nella nuova ve-
ste cecoslovacca non può essere considerato semplicemente il risul-
tato delle manovre intessute da un gruppo di intraprendenti emigrati
riuniti intorno al professore Tomáš Garrigue Masaryk e ai suoi di-
scepoli Edvard Beneš e Milan Rastislav Štefánik, né la conseguenza
della conversione in extremis dei leader alleati e associati alla causa
dell’abbattimento dell’impero asburgico. Il nuovo stato aveva in realtà
radici più profonde, scaturenti dalla sistematica frustrazione dei ten-
tativi posti in essere dai cechi a cavallo tra Otto e Novecento per ot-
tenere l’autogoverno e per emanciparsi dal predominio germanico,
come anche dalla coscienza dei patrioti slovacchi del pericolo rap-
presentato dalla magiarizzazione per la loro ancor debole identità na-
zionale. Considerate queste premesse, sembra corretto affermare che
con la prima guerra mondiale la nascita della Cecoslovacchia entrò
nel novero delle possibilità concrete; anzi, agli occhi dei diretti inte-
ressati, i cechi e gli slovacchi, essa divenne l’unica soluzione in grado
di assicurare ulteriori margini di sviluppo, se non addirittura di ga-
rantire la sopravvivenza nazionale8.

sity of Toronto Press, Toronto-Buffalo, 1976; I. Halász, Uhorsko a podoby sloven-


skej identity v dlhom 19. storočí, Kalligram, Bratislava, 2011; circa l’idea cecoslovacca,
a M. Stehlík, Češí a slováci 1882-1914. Nezřetelnost společné cesty, Togga, Praha,
2009. Si vedano inoltre i numerosi riferimenti presenti in A. Wandruszka, P. Urba-
nitsch (eds.), Die Habsburgermonarchie 1848-1918, 12 voll., Verlag der Österreichi-
schen Akademie der Wissenschaften, Wien 1973 –, Per una sintesi in italiano, F. Cac-
camo, I cechi dalla rinascita nazionale alla lotta per l’emancipazione, in Rita Tolo-
meo (cur.), Vecchie e nuove élites nell’area danubiano-balcanica del XIX secolo, Rub-
bettino, Soveria Mannelli, 2011, pp. 11-28; Id., Gli slovacchi all’epoca del dualismo,
in R. Ruspanti (cur.), Storia, letteratura, cultura dei popoli del Regno d’Ungheria al-
l’epoca della monarchia austro-ungarica (1867-1918), Edizioni dell’Orso, Alessandria,
2013, pp. 87-105.
8
K. Pichlík, Zahraniční odboj 1914-1918 bez legend, Svoboda, Praha, 1968; I.
Šedivý, Češi, české země a Velká válka 1914-1918, NLN, Praha 2001; Etienne Bois-
serie, Les Tchèques dans l’Autriche-Hongrie en guerre. «Nous ne croyons plus au-
cune promesse», Eur’ORBEM Éditions, Paris, 2017; F. Caccamo, I cechi, la Prima
guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero asburgico, in Paolo Pombeni (cur.), La
Grande guerra e la dissoluzione di un impero multinazionale, FBK Press, Trento,
2017, pp. 187-199. Sulle figure dei padri della patria, S. Polák, T.G. Masaryk: za
ideálem a pravdou, 7 voll., Masarykův ústav, Praha, 2000-2014; H. Gordon Skilling,
T.G. Masaryk: Against the Current 1882-1914, Pennsylvania State University Press,

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Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 17

Passando ora alle caratteristiche del nuovo stato, bisogna rilevare


innanzitutto come esso sorgesse all’insegna di valori laici, democra-
tici, entro certi limiti «progressisti». Indicativi in tal senso erano la
scelta repubblicana – tanto dirimente da rendere la definizione di
«prima repubblica» sinonimo dell’intero periodo interbellico –, l’a-
dozione del parlamentarismo, il ricorso a libere elezioni, il rispetto
del multipartitismo, la tutela dei diritti individuali: tutti elementi che
tra il 1918 e il 1938 avrebbero differenziato il paese dai suoi vicini e
lo avrebbero reso quasi una anomalia nel panorama centro- ed est-
europeo. Era un orientamento che senza dubbio risentiva dell’in-
fluenza dei padri fondatori, delle loro inclinazioni personali, come
anche della convinzione che l’identificazione con le potenze occi-
dentali e con i loro sistemi politici costituisse la migliore garanzia per
la realizzazione del programma cecoslovacco. Tale orientamento ri-
spondeva però anche alla struttura di fondo della società ceca, ai suc-
cessi da essa conseguiti già in epoca asburgica sul piano economico
e culturale, ai progressi segnati dai fenomeni di urbanizzazione e in-
dustrializzazione. Si trattava insomma di una società relativamente
matura e modernizzata, caratterizzata dalla presenza di una solida
borghesia e di una significativa componente operaia, dal raggiungi-
mento di un alto livello di scolarizzazione (con il più elevato tasso
di alfabetizzazione in Europa dopo quello degli svedesi), dall’avan-
zare quasi impetuoso della secolarizzazione, con una forte tendenza
perfino all’agnosticismo e all’anticlericalismo9.
Questo sostrato democratico non era comunque disgiunto da im-
pulsi nazionalisti o quanto meno da tensioni nazionali. Al contrario:
all’indomani della guerra Masaryk e Beneš, divenuti rispettivamente
presidente della repubblica e ministro degli esteri (mentre lo slovacco
Štefánik usciva tragicamente di scena per effetto di un incidente ae-

University Park, 1994; A. Soubigou, Thomas Masaryk, Fayard, Paris, 2002; J. Dej-
mek, Edvard Beneš: politická biografie českého demokrata, 2 voll., Academia, Praha,
2006-2008; Z. Zeman, A. Klimek, The Life of Edvard Beneš 1884-1948: Czechoslo-
vakia in Peace and War, Clarendon Press, Oxford, 1997; A. Marès, Edvard Beneš:
un drame entre Hitler et Staline, Perrin, Paris, 2015; M. Kšiňan, L’homme qui par-
lait avec les étoiles. Milan Rastislav Štefánik, héros franco-slovaque de la Grande
Guerre, Eur’ORBEM Éditions, Paris, 2019.
9
A. Klimek, Boj o Hrad, 2 voll., Panevropa, Praha, 1996-1998; Z. Karník, Če-
ské země v éře první republice, 3 voll., Libri, Praha, 2000-2003; J. Kovtun, Repu-
blika v nebezpečném světě: éra prezidenta Masaryka, Torst, Praha, 2005; Id., Repu-
blika v obležení: první éra prezidenta Beneše, Torst, Praha, 2008.

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18 Francesco Caccamo

reo), riportarono uno straordinario successo ottenendo la soddisfa-


zione di tutte le principali domande territoriali del nuovo stato, ma
in questo modo ne complicarono considerevolmente la composizione
etnica. Affermatasi rivendicando una legittimità sulla base del princi-
pio di nazionalità e del diritto all’autodeterminazione, la Cecoslo-
vacchia si trovò a comprendere al suo interno una grande varietà di
elementi: accanto a sei milioni e mezzo di cechi e a meno di due mi-
lioni di slovacchi vi erano infatti tre milioni di tedeschi collocati nelle
regioni ai margini del quadrilatero boemo e nei principali centri ur-
bani, ottocentomila magiari concentrati nella Slovacchia meridionale,
cinquecentomila ucraini nell’appendice orientale della Rutenia sub-
carpatica, quasi un centinaio di migliaia di polacchi nella regione di
Teschen, e inoltre consistenti nuclei ebraici e rom. Era un quadro tal-
mente frazionato da indurre molti a criticare la Cecoslovacchia come
una riproduzione in piccola scala dell’impero asburgico, con i suoi
difetti e le sue contraddizioni ma senza i suoi pregi. In un simile con-
testo sarebbe stato opportuno prevedere specifiche garanzie a tutela
delle diverse componenti nazionali o quanto meno introdurre so-
stanziose misure in senso decentralizzatore. Le assicurazioni fornite
da Beneš alla conferenza della pace, secondo le quali la Cecoslovac-
chia sarebbe stata una nuova Svizzera, rimasero tuttavia prive di se-
guito; stessa sorte spettò ai più concreti impegni assunti circa la con-
cessione dell’autonomia alla Rutenia subcarpatica10.
A rendere il tutto ancora più precario si aggiungevano le difficoltà
che contraddistinguevano lo stesso condominio tra cechi e slovacchi,
chiaramente sbilanciato a favore dei primi sul piano non solo demo-
grafico ma anche economico e culturale. Nonostante un iniziale en-
tusiasmo gli slovacchi furono delusi dall’orientamento centralista pre-
valente nel nuovo stato e interpretarono l’adozione sul piano ufficiale
della dottrina del cecoslovacchismo, ossia della sostanziale identità dei
due popoli, come la dimostrazione dell’esistenza di una volontà as-
similatrice da parte ceca. Il malcontento si coagulò nei settori catto-
lici della popolazione riuniti intorno al partito popolare e al suo lea-
der, l’abate Andrej Hlinka. Irritati per la diffusione di tendenze an-
ticlericali, «ussite» e massoniche tra i cechi, essi reagirono rilanciando

10
D. Perman, The Shaping of the Czechoslovak State: Diplomatic History of the
Boundaries of Czechoslovakia, 1914-1920, Brill, Leiden, 1962; A. Toth, L. Novotný,
M. Štehlík, Národnostní menšiny v Československo 1918-1938, FF UK, Praha, 2012.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 19

le tradizionali domande per l’autonomia e per la parificazione – solo


adesso non più nei confronti di Budapest, ma di Praga11.
In maniera caratteristica, l’interazione tra tendenze democratiche
e nazionaliste fu gestita attraverso il ricorso a meccanismi ibridi e
tutt’altro che conformi al dettato costituzionale. Di fronte alle incer-
tezze sollevate dalla presenza di una moltitudine di formazioni poli-
tiche strutturate su base etnica oltre che di un sostanzioso partito co-
munista transnazionale e sbilanciato a sinistra, a partire dall’inizio de-
gli anni Venti i cinque principali partiti cechi diedero vita a un si-
stema di consultazioni informali capace di condizionare l’intera atti-
vità del legislativo e dell’esecutivo. Sotto la guida del partito agrario
e del suo leader Antonín Švehla, la cosiddetta pětka o cinquina assi-
curò ai cechi la preminenza rispetto alle altre componenti nazionali,
ma introdusse un significativo elemento di disturbo nel libero gioco
democratico. Un discorso per certi versi analogo valeva per l’ecce-
zionale influenza esercitata sulla vita politica da Masaryk e dai suoi
collaboratori, nonostante che la Costituzione cecoslovacca fosse di
tipo parlamentare e non presidenziale. In particolare il gruppo dello
Hrad o del Castello, appunto dal nome della residenza praghese del
presidente, fu in grado di mantenere sotto il suo controllo il campo
della politica estera, affidandone la guida praticamente per l’intero pe-
riodo interbellico a un uomo a esso organico come Beneš12.
Sorta su queste fondamenta, la prima Repubblica cecoslovacca visse
la sua stagione d’oro negli anni Venti. Approfittando di un favore-
vole clima internazionale e avvalendosi delle doti diplomatiche di Be-

11
J. Rychlík, Češi a Slováci ve 20. století. Česko-slovenské vztahy 1914-1945,
Academic Electronic Press-Ústav T.G. Masaryka, Bratislava-Praha, 1997; C. Skalnik
Leff, National Conflict in Czechoslovakia. The Making and Remaking of a State,
Princeton University Press, Princeton, 1987; M. Zemko, V. Bystrickš (eds.), Sloven-
sko v Československo, Veda, Bratislava, 2004; M. Stehlík, Slovensko. Země probužená,
Academia, Praha, 2015; A. Bartlová, Andrej Hlinka, Obzor, Bratislava, 1991.
12
In tal senso da ultimo A. Orzoff, Battle for the Castle: The Myth of Cze-
choslovakia in Europe, Oxford University Press, New York, 2009. Una prospettiva
interessante, anche se inevitabilmente di parte, per esaminare gli sviluppi interni alla
Cecoslovacchia è offerta dalla diplomazia vaticana; la Santa Sede era infatti incline
ad assumere una posizione critica verso il nuovo stato non solo per la consistenza
delle tendenze laiciste e addirittura anticlericali della componente ceca, ma anche per
i legami che manteneva con i cattolici di altre nazionalità. Si vedano, in tal senso,
E. Hrabovec, Slovensko a Svätá Stolica 1918-1927 vo svetle vatikánskych prameňov,
Univerzita Komenského, Bratislava, 2012, e i primi tre volumi della raccolta Če-
skoslovensko a Svatý stolec, MÚ AV ČR, Praha, 2012-2015.

© Edizioni Scientifiche Italiane ISBN 978-88-495-4334-6


20 Francesco Caccamo

neš, essa si impose come la potenza di riferimento nell’Europa cen-


tro-orientale. Fondamentali in tal senso erano sul piano locale la lea-
dership nella Piccola Intesa, lo schieramento antirevisionista e anti-
magiaro comprendente anche Jugoslavia e Romania; sul piano conti-
nentale l’alleanza con la Francia, la grande potenza vincitrice mag-
giormente interessata al mantenimento dello status quo post-bellico
e al contenimento della Germania; su un piano più generale, globale,
l’attivo coinvolgimento nella Società delle Nazioni e nei vari progetti
finalizzati al rafforzamento della sicurezza collettiva. Altrettanto po-
sitivi erano i risultati conseguiti in campo economico, che permisero
alla Cecoslovacchia di raggiungere l’invidiabile traguardo di decimo
paese più industrializzato sul piano mondiale, come anche l’esistenza
di un’effervescente scena culturale e artistica. A rafforzare la sua cre-
dibilità si aggiungeva l’apparente attenuazione dei contrasti di natura
interna, con l’occasionale coinvolgimento nell’azione di governo di
ministri di nazionalità slovacca o tedesca13.
Con l’inizio degli anni Trenta le nubi cominciarono tuttavia ad
addensarsi sulla Cecoslovacchia. Un primo elemento destabilizzante
fu la crisi del 1929, che colpì duramente l’economia del paese, au-
mentò le differenze tra il nucleo ceco e le regioni periferiche dalla
forte presenza minoritaria ed esasperò le tensioni nell’intero spazio
centro- ed est-europeo. Ancora più gravi furono le ripercussioni de-
terminate dall’avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania.
A differenza della tradizionale classe dirigente tedesca, che si muo-
veva nella prospettiva di un revisionismo finalizzato al recupero dei
territori persi col trattato di Versailles e in primis alla rimozione del
corridoio di Danzica, Hitler perseguiva un disegno pangermanista
dalle implicazioni molto più eversive, che chiamava in causa le varie
comunità tedesche dell’ex impero asburgico. Il messaggio hitleriano
si rivelò particolarmente attraente per gli oltre tre milioni di tedeschi
di Cecoslovacchia, come denotavano il rapido indebolimento delle
correnti attiviste disposte a collaborare con le autorità praghesi a tutto
vantaggio di una nuova formazione come la Sudetendeutsche Partei,
dal carattere radicalmente autonomista se non criptoseparatista. In
maniera significativa, già alle elezioni parlamentari del 1935 la SdP si

13
Oltre ai principali riferimenti sulla prima repubblica di cui alla nota 9, sulla
dimensione internazionale si rinvia alla citata biografia di Beneš opera di Dejmek;
inoltre A. Gajanová, ČSR a středoevropská politika velmoci (1918-1938), Academia,
Praha, 1967.

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Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 21

assicurò i voti dei due terzi dei tedeschi dei Sudeti e si impose come
la forza politica dotata del maggior consenso nell’intera Cecoslovac-
chia14. Nel contempo anche gli slovacchi mostravano segni di in-
quietudine, come indicavano i disordini verificatisi nell’ottobre 1933
durante le celebrazioni per il millecentesimo anniversario dell’erezione
della prima chiesa cristiana nella Grande Moravia e l’esplicita riven-
dicazione al loro indomani dell’autonomia da parte di Hlinka15.
Confrontata con la minaccia hitleriana, la Cecoslovacchia vide dra-
sticamente diminuire i suoi spazi di manovra. Alla fine del 1935 l’an-
ziano Masaryk rassegnò le dimissioni dalla Presidenza della repub-
blica per ragioni di salute, per spegnersi a due anni di distanza. Con
lui veniva meno il padre della patria, colui che aveva incarnato l’idea
cecoslovacca ed era riuscito a promuoverne la diffusione non solo tra
i cechi ma, entro certi limiti, anche tra gli slovacchi e le altre nazio-
nalità. Per quanto Masaryk si assicurasse una successione all’insegna
della continuità favorendo la candidatura del fido Beneš, questi era
dotato di minore carisma e di una minore carica empatica. Soprat-
tutto, il nuovo capo dello stato non riuscì a trovare formule in grado
di risolvere le sempre più gravi questioni di natura interna e inter-
nazionale all’ordine del giorno. Così il conferimento per la prima
volta della Presidenza del consiglio a uno slovacco, l’agrario Milan
Hodža, non fu accompagnata da serie misure in favore del decen-
tramento. Per altro verso, i tentativi di allargare il tradizionale sistema
di alleanze facente capo alla Francia e alla Piccola Intesa non pro-
dussero risultati, come indicava il fallimento dei progetti per la rea-
lizzazione di un patto danubiano o di un patto orientale; l’unica no-

14
R. Kvaček, Nad Evropou zataženo. Československo a Evropa 1933-1937, SNPL,
Praha, 1966. Tra i tanti lavori comparsi negli ultimi trent’anni sui rapporti ceco-te-
deschi e sulla questione dei Sudeti si segnalano V. Kural, Konflikt místo společen-
ství? Češí a němci v československém státě (1918-1938), ÚMV, Praha, 1993; J.W. Brü-
gel, Češí a němci 1918-1938, Academia, Praha, 2006; P.S. Majewski, Sudetští Němci
1848-1948. Dějiny jednoho nacionalismu, Conditio humana, Brno, 2014; si ricorda
inoltre il pionieristico lavoro di F. Leoncini, La questione dei Sudeti, 1918-1938, Li-
viana, Padova, 1976.
15
La vicenda risulta in grande evidenza nella documentazione della Santa Sede:
il nunzio a Praga, mons. Pietro Ciriaci, non si trattenne infatti dall’esprimere la sua
comprensione nei confronti di Hlinka e di conseguenza fu costretto a rinunciare al
suo incarico. Per maggiori dettagli si rinvia a E. Hajdinová, D. Hájková, P. Helan,
F. Caccamo, J. Jonová (eds.), Československo a Svatý stolec (vol. 4). Diplomatická
korespondence a další dokumenty 1928-1934. Výběrová edice, Ústav T.G. Masaryka
a Archiv Akademie věd ČR, Praha, 2020.

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22 Francesco Caccamo

vità fu la conclusione di un trattato di alleanza con l’URSS, la cui


applicazione per volontà di entrambi i contraenti rimaneva tuttavia
subordinata a quella con la Francia16.
La situazione precipitò con la realizzazione dell’Anschluss all’ini-
zio del 1938. Con l’incorporazione dell’Austria la Germania si trovò
a circondare i confini boemo-moravi e aumentò ulteriormente la sua
capacità di attrazione sui tedeschi dei Sudeti. Stimolata da Berlino, la
SdP si affrettò a innalzare le sue richieste, formulando un programma
radicalmente autonomista e invocando in caso di mancata soddisfa-
zione il diritto all’autodeterminazione – in altre parole, l’unione alla
Germania. La riluttanza di Praga a impegnarsi con un interlocutore
così poco affidabile offrì a Hitler l’opportunità per intervenire in ma-
niera sempre più esplicita nella contesa. Pur di scongiurare il peri-
colo di uno scontro militare, alla fine di settembre i leader delle grandi
potenze europee vincitrici della prima guerra mondiale, Chamberlain,
Daladier e Mussolini, accettarono di riunirsi con Hitler a Monaco.
Per conto loro i rappresentanti cecoslovacchi non furono ammessi
alla conferenza, ma furono lasciati in maniera umiliante in anticamera
in attesa delle altrui deliberazioni. Il risultato fu l’attribuzione alla
Germania dei territori abitati in prevalenza da tedeschi dei Sudeti, ma
comprendenti anche una tutt’altro che trascurabile componente ceca.
Constatando il loro isolamento le autorità praghesi rinunciarono a
ogni velleità di resistenza e si rassegnarono alla perdita di più di tre
milioni e mezzo di abitanti, di considerevolissime risorse economi-
che e praticamente dell’intero sistema difensivo di cui disponevano
fino ad allora. Come se non bastasse, l’Ungheria e la Polonia ap-
profittarono delle circostanze per soddisfare le loro rivendicazioni ir-
redentiste, assicurandosi l’una la Slovacchia meridionale, l’altra la re-
gione di Teschen17.

3. La prima dissoluzione: il Protettorato di Boemia e Moravia e


l’effimera indipendenza slovacca. – Il cedimento senza colpo ferire

16
Oltre ai citati lavori di Kvaček, Nad Evropou zataženo, e Dejmek, Edvard
Beneš, si veda I. Lukeš, Czechoslovakia between Hitler and Stalin: The Diplomacy
of Edvard Beneš in the 1930s, Oxford University Press, New York-Oxford, 1996.
17
Tra i tanti studi sull’argomento, B. Čelovský, Mnichovská dohoda 1938, Tilia,
Ostrava, 1999; I. Lukeš, E. Goldstein (eds.), The Munich Crisis: Prelude to World
War II, Cass, London, 1999; sul ruolo svolto dall’Italia mussoliniana, F. Caccamo,
Un’occasione mancata. L’Italia, la Cecoslovacchia e la crisi dell’Europa centrale, 1918-
1938, in Nuova Rivista Storica, 2015, n. 1, pp. 111-157.

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Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 23

alle pressioni tedesche e l’abbandono da parte delle potenze occi-


dentali rappresentarono per i cechi e anche per gli slovacchi un colpo
durissimo e dalle ripercussioni durature, definito appunto il trauma
di Monaco. Lo screditamento del regime democratico e il fallimento
del suo sistema di alleanze determinarono uno spostamento a destra
degli equilibri politici, con il passaggio dalla prima alla seconda re-
pubblica e l’adozione di una «democrazia autoritaria». Dopo che Be-
neš si fu recato in esilio la presidenza fu assunta dall’ex presidente
della Corte costituzionale, l’agrario Emil Hacha, il sistema partitico
fu drasticamente semplificato e ricondotto a due sole formazioni, men-
tre in campo internazionale si sperimentava un avvicinamento alle po-
tenze dell’Asse. Anche gli equilibri etnici interni subirono un con-
traccolpo: indebolita da Monaco, la componente ceca si vide costretta
a effettuare sostanziose concessioni a slovacchi e ruteni, mentre il
nome dello stato veniva modificato con l’aggiunta del trattino e di-
ventava Ceco-Slovacchia18.
Neanche questi cambiamenti furono tuttavia in grado di soddi-
sfare Hitler. Progettando ormai di rivolgersi contro la Polonia e pren-
dendo in considerazione la possibilità di un conflitto generale, il Füh-
rer non intendeva lasciare incuneato nei territori del Reich quello che
ai suoi occhi rimaneva un cliente inaffidabile. Nel marzo 1939 sferrò
così il suo colpo finale, prendendo a pretesto lo scoppio di disordini
in Slovacchia. Dopo aver convocato Hacha a Berlino e avergli rivolto
un brutale ultimatum, Hitler procedette all’occupazione di tutta la
parte occidentale della Cecoslovacchia e vi proclamò la costituzione
del Protettorato di Boemia e Moravia. Pur rimanendo subordinata
alla Germania, la Slovacchia divenne invece uno stato indipendente
sotto la guida del Partito popolare, mentre più a oriente la Rutenia
subcarpatica fu annessa dall’Ungheria.
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale la Cecoslovacchia por-
tava così a compimento la sua prima parabola, disgregandosi sotto la
pressione esterna della Germania ma pagando anche il prezzo delle
sue contraddizioni interne. Nella cornice del Protettorato i cechi man-
tennero formalmente un certo livello di autogoverno, con un loro
presidente, un governo e un’amministrazione locale. Di fatto il po-
tere era però saldamente concentrato nelle mani del Reichsprotektor
tedesco: prima l’ex ministro degli esteri Konstantin von Neurath, poi

18
J. Gebhart, J. Kuklík, Druhá republika 1938-1939. Svár demokracie a totality
v politickém, společenském a kulturním životě, Paseka, Praha-Litomyšl, 2004.

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24 Francesco Caccamo

uno dei duri del regime nazista come il generale delle SS Reinhard
Heydrich, stretto collaboratore di Himmler e tra gli ideatori della so-
luzione finale. In origine le autorità tedesche coltivavano ambiziosi
progetti di germanizzazione comportanti il trasferimento forzoso o
l’assimilazione di gran parte della popolazione ceca, ma lo scoppio
del secondo conflitto mondiale le indusse a privilegiare lo sfrutta-
mento delle risorse locali a sostegno dello sforzo bellico del Reich.
Per quanto le condizioni di vita fossero nel complesso meno dure ri-
spetto a quelle di altri paesi vittima dell’aggressione nazista, gli epi-
sodi di resistenza o anche di semplice dissenso furono repressi in ma-
niera spietata, mentre l’economia veniva integralmente subordinata
alle esigenze tedesche. Un discorso a parte meritava la minoranza
ebraica, che fu sottoposta a una rigida discriminazione per poi ca-
dere vittima delle pratiche genocidali naziste, con la morte di circa
100.000 persone19.
Come già durante la prima guerra mondiale, anche nella seconda
un ruolo fondamentale fu svolto dall’esilio. A cavallo tra il 1938 e il
1939 un considerevole numero di politici, diplomatici, militari e sem-
plici cittadini si rifugiò in Occidente; a loro volta i principali espo-
nenti comunisti trovavano riparo a Mosca, a partire dal segretario del
partito Klement Gottwald. Unitamente allo scoppio del conflitto mon-
diale, questi sviluppi offrirono a Beneš l’occasione per riprendere in
mano la fiaccola della causa cecoslovacca, rivendicare la carica di pre-
sidente e promuovere la formazione dapprima di un consiglio na-
zionale a Parigi e poi di un governo in esilio a Londra. Nonostante
che lui e le sue idee fossero inizialmente considerati con sufficienza
dagli alleati, Beneš seppe approfittare delle opportunità che gli si pre-
sentavano per proporsi come loro interlocutore e assicurarsi il loro
riconoscimento. In questo contesto determinante si rivelò la realiz-
zazione nel maggio 1942 dell’attentato contro il Reichsprotektor Hey-
drich da parte di alcuni militari cechi e slovacchi paracadutati in pa-
tria col sostegno britannico. Il prezzo pagato fu altissimo: i membri

19
Il testo di riferimento per il periodo del Protettorato è Jan Gebhart, J. Kuklík,
Velké dějiny zemí Koruny české, vol. 15, tomi 1 e 2, Paseka, Praha-Litomyšl, 2006-
2007; inoltre V. Mastny, The Czechs Under Nazi Rule: The Failure of National Re-
sistance, 1939-1942, Columbia University Press, New York-London, 1971; C. Bryant,
Prague in Black: Nazi Rule and Czech Nationalism, Harvard University Press, Cam-
bridge, 2007; P. Crowhurst, Hitler and Czechoslovakia in World War II: Domina-
tion and Retaliation, I.B. Tauris, London-New York, 2013.

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Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 25

del commando furono rintracciati e uccisi, la resistenza ceca fu deci-


mata e perse drasticamente di efficacia, due interi villaggi, Lidice e
Ležáky, furono rasi al suolo e i loro abitanti sterminati. Al tempo
stesso il successo dell’operazione e la grande risonanza da essa ri-
scossa permisero a Beneš e al governo di Londra di ottenere che gli
alleati disconoscessero gli accordi di Monaco e si impegnassero a ri-
costituire la Cecoslovacchia nei confini precedenti il 193820.
Intanto in Slovacchia il conseguimento dell’indipendenza era stato
accolto con entusiasmo da gran parte della popolazione, dando un
solido consenso al partito popolare e al suo leader, monsignor Jozef
Tiso. Le scelte imposte dall’alleanza con la Germania e l’adozione di
una politica razziale comportante la discriminazione dei cechi e la
persecuzione di ebrei e rom determinarono però gradualmente un’in-
versione di tendenza. Particolarmente negativo fu l’impatto dell’ade-
sione alla campagna antisovietica lanciata da Hitler nel giugno 1941
e delle drastiche perdite subite dal corpo di spedizione mandato a
combattere a fianco dei tedeschi. Il malcontento si manifestò nell’a-
gosto 1944 con lo scoppio di un vasto movimento di ribellione al
quale presero parte interi settori dell’esercito, esponenti delle varie
forze politiche locali, partigiani comunisti e anche membri della re-
sistenza ceca. Per quanto quella che sarebbe stato presto ribattezzata
l’insurrezione nazionale slovacca fu alla fine repressa, essa contribuì
a innalzare il prestigio degli slovacchi e fece sperar loro nel conse-
guimento di alcuni vantaggi nell’ipotesi della restaurazione dello stato
comune con i cechi21.

4. Sotto il regime comunista. – Alla fine della seconda guerra mon-


diale la liberazione della Cecoslovacchia da parte dell’Armata Rossa
(e anche degli anglo-americani, perlomeno limitatamente alla Boemia
occidentale) sembrò dare ragione alla politica perseguita da Beneš,
permettendo il ritorno del paese all’indipendenza e il recupero dei
confini prebellici. L’unica eccezione fu rappresentata dalla Rutenia

20
Oltre ai volumi di cui sopra, C. McDonald, The Assassination of Reinhard
Heydrich: The True Story Behind Operation Anthropoid, London, 2007.
21
V. Bystrický, R. Letz, O. Podolec (eds.), Vznik Slovenského štátu. 14. marec
1939, AEPress, Bratislava, 2007; M. Fiamová, J. Hlavinka, M. Schvarc a kol., Slo-
venský štát 1939-1945. Predstavy a realita, Prodama, Bratislava, 2014; M. Syrný a
kol., Slovenské narodné povstanie. Slovensko a Evrópa v roku 1944, Múzeum SNP,
Banská Bystrica, 2014.

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26 Francesco Caccamo

subcarpatica, che fu lasciata a Mosca in omaggio ai desideri di Sta-


lin. Anche a prescindere da questo dettaglio, non si trattava di un
semplice ritorno al passato: troppo forti erano i traumi subiti dai ce-
chi e dagli slovacchi durante il conflitto, troppo grandi i cambiamenti
intervenuti sul piano internazionale. Dalle esperienze di Monaco e
della guerra non solo Beneš, ma la grandissima maggioranza della
classe dirigente e dell’opinione pubblica ceca e slovacca avevano ri-
cavato la convinzione che fosse necessario introdurre radicali tra-
sformazioni rispetto all’epoca della prima repubblica. In questo clima
furono ammessi a partecipare alla vita politica solo i partiti dalle so-
lide credenziali antifasciste riuniti in un Fronte Nazionale, fu pro-
mosso l’intervento dello stato nell’economia, furono adottati provve-
dimenti di vasta portata di nazionalizzazione dell’industria e di redi-
stribuzione della proprietà agraria. Sul piano internazionale si cercò
di praticare una politica di equilibrio tra i vari membri della grande
coalizione antihitleriana, nel tentativo di conciliare l’amicizia con gli
anglo-americani con l’alleanza con l’URSS stipulata sin dal 1943. Die-
tro al tanto sbandierato slogan della «Cecoslovacchia come ponte tra
Est e Ovest» si nascondeva in realtà una crescente dipendenza da
Mosca, ritenuta l’unica seria garanzia di fronte al pericolo germa-
nico22.
Tra i fondamentali cambiamenti verificatisi alla termine della guerra
spiccavano quelli riguardanti la struttura nazionale del paese. Le sof-
ferenze e le umiliazioni patite da Monaco in poi avevano radicato la
convinzione che fosse necessario rimuovere gli elementi considerati
inaffidabili, a partire dai tedeschi. Il tragico risultato fu quello che in
ambito ceco fu chiamato con indulgenza il trasferimento (odsun) di
circa tre milioni di tedeschi, ma che da parte germanica fu inevita-
bilmente percepito come una vera e propria espulsione (Vertreibung,
in ceco vyhnání). L’esodo dei tedeschi lasciò quasi disabitate vaste re-
gioni di frontiera, che sarebbero state ripopolate solo tra grandi dif-
ficoltà e talvolta mai in maniera del tutto completa. Alla fine la pre-
senza tedesca si ridusse a circa 150.000 persone, in gran parte operai

22
K. Kaplan, Československo v letech 1945-1948, SPN, Praha, 1991; B.F. Abrams,
The Struggle for the Soul of the Nation. Czech Culture and the Rise of Commu-
nism, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham, 2004; M. Myant, Socialism and
Democracy in Czechoslovakia 1945-1948, Cambridge University Press, Cambridge,
2008; C. Brenner, “Zwischen Ost und West”. Tschechische politische Diskurse 1945-
1948, Oldenbourg, München, 2009.

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Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 27

specializzati ritenuti essenziali per l’industria cecoslovacca. Una sorte


simile avrebbe dovuto essere riservata alla minoranza magiara della
Slovacchia meridionale; in questo caso l’espulsione non poté però es-
sere portata a termine per la contrarietà di Stalin all’acuirsi dei con-
trasti nazionali tra due paesi che intendeva rientrassero nella sfera
d’influenza sovietica23.
La radicalizzazione dell’opinione pubblica per effetto della guerra,
la diffusione di inclinazioni socialiste o socialisteggianti, la convin-
zione della necessità dell’appoggio sovietico per prevenire la revan-
che germanica avvantaggiarono il partito comunista cecoslovacco o
PCCs rispetto alle altre componenti del Fronte Nazionale e gli per-
misero anzi di avviarsi sulla strada per la conquista del potere asso-
luto. Tre momenti di questo percorso appaiono emblematici. Nel
maggio 1946 il partito riportò un risultato spettacolare nelle prime
elezioni post-belliche, assicurandosi la maggioranza relativa con il 38%
dei voti (la percentuale più alta mai riscossa da una formazione co-
munista in consultazioni libere) e ottenendo la costituzione di un ese-
cutivo a guida Gottwald. A poco più di un anno di distanza non
solo i comunisti, ma anche gli esponenti delle altre forze politiche
cedettero alle pressioni di Stalin e rinunciarono a partecipare ai ne-
goziati con gli occidentali relativi al Piano Marshall, sanzionando di
fatto l’appartenenza della Cecoslovacchia al costituendo blocco so-
vietico. Questa evoluzione culminò nel febbraio 1948, quando le ma-
novre poste in essere dal PCCs per imporre il controllo assoluto sulle
forze di polizia indussero i ministri non comunisti a rassegnare le di-
missioni in segno di protesta. Il tentativo di aprire una crisi di go-
verno e eventualmente di far indire nuove elezioni si rivelò però fal-
limentare. Mentre i ministri socialdemocratici e i due indipendenti (il
responsabile degli esteri Jan Masaryk, figlio del padre della patria
Tomáš, e quello della guerra Ludvík Svoboda, futuro presidente della
Repubblica) non si unirono ai loro colleghi ed evitarono di dimet-
tersi, i comunisti reagirono con spregiudicatezza, impadronendosi delle
piazze con il sostegno della milizia popolare, dei sindacati e di una
serie di organizzazioni fiancheggiatrici. Da parte sua l’ormai malato
Beneš rifiutò di prendere in considerazione soluzioni che minaccia-
vano di scatenare un confronto violento e che potevano oltretutto

23
Oltre ai testi già citati, si veda M. Douglas, Orderly and Humane. The Ex-
pulsion of the Germans after the Second World War, Yale University Press, New
Haven-London, 2012.

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28 Francesco Caccamo

alienare alla Cecoslovacchia l’appoggio sovietico; lasciò dunque che


la crisi fosse risolta attraverso un semplice rimpasto di governo, con
la sostituzione dei ministri dimissionari con volenterosi compagni di
strada dei comunisti24.
Quello che a seconda dei punti di vista divenne noto come il colpo
di Praga o il febbraio vittorioso spalancò le porte all’instaurazione di
un regime destinato a durare quattro decenni. Questo lungo periodo
sarebbe stato segnato da alcune indubbie costanti: l’accentramento di
ogni potere nelle mani del PCCs e delle organizzazioni di massa che
ne erano emanazione; il predominio in campo ideologico del marxi-
smo-leninismo; la presenza di un ramificato apparato repressivo, pro-
pagandistico e di costruzione del consenso; la realizzazione di un’e-
conomia pianificata basata sulla nazionalizzazione dell’industria, sulla
collettivizzazione dell’agricoltura, come anche sulla preminenza ac-
cordata alla produzione di beni strumentali rispetto a quella di beni
di consumo; l’allineamento agli input di Mosca, non solo sul piano
della politica estera ma anche della politica interna. A ciò si aggiunga
il persistere della questione nazionale: per quanto la composizione et-
nica del paese fosse stata drasticamente semplificata per effetto delle
tragiche vicende del secondo conflitto mondiale e dell’immediato do-
poguerra, anche sotto il nuovo regime la dialettica tra cechi e slo-
vacchi e le loro differenze di vedute intorno allo stato comune con-
tinuarono a svolgere un ruolo difficile da sovrastimare. La dottrina
del cecoslovacchismo fu accantonata in favore del riconoscimento del-
l’individualità della nazione slovacca, ma la creazione di specifici or-
gani di autogoverno slovacchi fu sostanzialmente vanificata dalla pre-
minenza mantenuta dall’elemento ceco all’interno delle istituzioni cen-
trali25.

24
K. Kaplan, Nekrvavá revoluce, Sixtyeight Publishers, Toronto, 1985 (ed. ingl.
The Short March: The Communist Takeover in Czechoslovakia, Hurst, London,
1987); Id., Poslední rok prezidenta. Edvard Beneš v roce 1948, ÚSD AV ČR, Brno,
1993; Id., Pět kapitol o únoru, Doplněk-ÚSD AV ČR, Brno, 1997; V. Veber, Osu-
dové únorové dny 1948, Nakladatelství Lidové noviny, Praha 2008; J. Kocian, M.
Deváta (eds.), Únor 1948 v Československu. Nástup komunistické totality a proměny
společnosti, ÚSD AV ČR, Praha, 2011; per il contesto slovacco, M. Barnovský, Na
ceste k monopolu moci. Mocenskopolitické zápasy na Slovensku v rokoch 1945-1948,
Archa, Bratislava, 1993.
25
K. McDermott, Communist Czechoslovakia 1945-89. A Political and Social
History, Palgrave, London, 2015; F. Caccamo, La Cecoslovacchia al tempo del so-
cialismo reale. Regime, dissenso, esilio, Società editrice Dante Alighieri, Roma, 2017.
Per quanto riguarda i rapporti ceco-slovacchi, il testo di riferimento è J. Rychlík,

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 29

Nonostante questi elementi di continuità, sarebbe inesatto consi-


derare il quarantennio dominato dal PCCs come un periodo omo-
geneo e indistinto. Come e forse più di altri paesi del blocco sovie-
tico, la Cecoslovacchia comunista fu percorsa da tensioni e fermenti,
da crisi e da tentativi di riforma. Con un po’ di approssimazione si
possono identificare cinque fasi principali. Gli anni immediatamente
successivi all’instaurazione del regime furono segnati dal fenomeno
dello stalinismo, dall’imitazione pedissequa del modello sovietico, dal-
l’utilizzo massiccio dell’apparato di sicurezza, dallo svolgimento di
una serie di processi politici ai danni dei veri o supposti oppositori
e dallo scatenamento di durissime di purghe nei confronti degli stessi
comunisti; a quest’ultimo riguardo il culmine fu raggiunto ormai dopo
la morte di Stalin con l’eliminazione del segretario generale del par-
tito Rudolf Slánský e di altri undici dirigenti (tra l’altro tutti di ori-
gine ebraica). Dal punto di vista socio-economico fu portata a ter-
mine la nazionalizzazione dell’industria, fu avviata la collettivizza-
zione delle terre e si cercò di realizzare la dittatura del proletariato,
favorendo l’ascesa degli elementi di vera o supposta estrazione ope-
raia e discriminando quanti erano identificati come appartenenti alle
classi sfruttatrici e reazionarie, secondo un termine di nuovo conio i
bývalí lidé o le ex persone. Infine, la vivace scena culturale che aveva
contraddistinto la prima repubblica e l’immediato dopoguerra fu co-
stretta a conformarsi ai canoni del realismo socialista26.
Con la scomparsa in rapida successione di Stalin e Gottwald nel
marzo 1953 si aprì una lunga e travagliata fase di transizione. In Ce-
coslovacchia la destalinizzazione ebbe in effetti un esordio debole e
incerto, come denotava la prudenza esibita dalla nuova dirigenza fa-
cente capo a Antonín Novotný di fronte ai fermenti che investirono
il blocco sovietico nel 1956, dalla denuncia dei crimini staliniani al
XX congresso del PCUS all’esplosione dei moti polacchi e unghe-

Češi a slováci ve 20. století. Česko-slovenské vztahy 1945-1992, Academic Electro-


nic Press Bratislava - Ústav T.G. Masaryka Praha, 1998.
26
K. Kaplan, P. Paleček, Komunistý režím a politické procesy v Československu,
Barrister & Principal, Brno, 2001; K. Kaplan, P. Kosatík, Gottwaldovi muži, Paseka,
Praha-Litomyšl, 2004; K. Kaplan, Kronika komunistického Československa. Klement
Gottwald a Rudolf Slánský, Barrister & Principal, Brno, 2009; L. Kalinová, Spo-
lečenské proměny v čase socialistického experimentu. K sociálním dějinám v letech
1945-1969, Academia, Praha, 2007; J. Pešek, Komunistická strana Slovenska. Dějiny
politického subjektu, I, Veda, Bratislava, 2012.

© Edizioni Scientifiche Italiane ISBN 978-88-495-4334-6


30 Francesco Caccamo

resi27. Al tempo stesso proprio questo esordio lento rese possibile lo


sviluppo di una riflessione di singolare interesse sulla natura del re-
gime e sulle possibilità della sua riforma. Soprattutto dopo il rilan-
cio della destalinizzazione al XXII congresso del PCUS del 1961 No-
votný e i suoi collaboratori ammisero un’apertura che inizialmente
sembrò beneficiare soprattutto i settori meno conformisti del partito
e gli ambienti intellettuali di fede comunista, ma che nella seconda
metà del decennio coinvolse fasce sempre più ampie della popola-
zione. Tra le espressioni più caratteristiche di quello che a posteriori
sarebbe stato definito «il periodo precedente la Primavera» o «i do-
rati anni Sessanta» si possono menzionare la fortuna della nová vlna
o nuova onda in campo cinematografico, la diffusione della musica
rock, l’emergere di nuovi stili di vita e di nuove mode (la minigonna,
i capelli lunghi), perfino la comparsa di fenomeni di controcultura
giovanile come il tramping o gli hippie. Ancora maggiori furono le
conseguenze delle accresciute possibilità di viaggiare all’estero e della
moltiplicazione dei contatti con il mondo occidentale28.
Nel corso del 1967 il ritmo sempre più impetuoso assunto dal
cambiamento indusse Novotný a cercare di reagire operando una
svolta in senso conservatore, ma ormai non era più possibile ripor-
tare indietro le lancette dell’orologio. L’elezione dello slovacco Alexan-
der Dubček a segretario generale del PCCs nel gennaio 1968 inau-
gurò il periodo passato alla storia come la Primavera di Praga. Du-
rante questa breve ma intensa stagione si assistette a un duplice fe-
nomeno: da un lato l’accelerazione dei tentativi di riforma degli stessi
comunisti, miranti a promuovere una democratizzazione interna al
partito e ad ammettere una maggiore libertà di espressione; dall’altro
lato il risveglio dell’opinione pubblica che, stimolata dall’abolizione
della censura, cominciò ben presto a manifestarsi insofferente verso

27
M. Blaive, Une déstalinisation manquée. Tchécoslovaquie 1956, Complexe,
Bruxelles, 2005; J. Pernes, Krize komunistického režimu v Československu v 50. le-
tech 20. století, Centrum pro studium demokracie a kultura, Brno, 2008; K. Kaplan,
Kronika komunistického Československa. Doba tání 1953-1956, Barrister & Princi-
pal, Brno, 2005.
28
K. Kaplan, Kořeny československé reformy, 2 voll., Doplněk, Brno, 2000-2002;
Id., Kronika komunistického Československa. Kořeny reformy 1956-1968. Společnost
a moc, Barrister & Principal, Brno, 2008; Id., Antonín Novotný. Vzestup a pád “li-
dového” aparátčíka, Barrister & Principal, Brno, 2011; M. Londák, S. Sikora, D.
Londáková, Predjarie. Politický, ekonomický a kuturní vývoj na Slovensko v rokoch
1960-1967, Veda, Bratislava, 2002.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 31

l’idea di una semplice democratizzazione e a coltivare la speranza del


conseguimento della democrazia tout court. A complicare questa di-
namica si aggiungeva l’irrequietezza degli slovacchi, che avevano avuto
un ruolo decisivo nell’emarginazione di Novotný e che adesso pun-
tavano con risolutezza a una riforma di tipo federale. Difficile dire
quale sarebbe stato l’esito finale di questa evoluzione se le varie anime
del processo di rinnovamento fossero rimaste libere di agire. Certo
è che per l’URSS, per gli altri paesi del bocco sovietico e per la com-
ponente ortodossa sempre viva in seno al PCCs l’esperimento del so-
cialismo dal volto umano divenne presto sinonimo di caos e anar-
chia, anzi, di controrivoluzione; da qui la decisione di ricorrere a
un’azione di forza e di invadere la Cecoslovacchia nella notte tra il
20 e il 21 agosto con 500.000 uomini del Patto di Varsavia29.
L’occupazione della Cecoslovacchia sancì l’avvio di una nuova fase,
quella del ritorno alla normalità del socialismo reale o della norma-
lizzazione. Sebbene sul momento l’ampiezza della protesta popolare
costringesse i sovietici a lasciare in carica la dirigenza dubcekiana, col
passare del tempo gli invasori si avvantaggiarono delle divisioni in
seno al PCCs e del senso di scoraggiamento che si stava impadro-
nendo dell’opinione pubblica. Dopo che ancora nel gennaio 1969 l’im-
molazione dello studente Jan Palach fu accompagnata da massicce di-
mostrazioni di cordoglio, nell’aprile seguente le dimissioni di Dubček
e la sua sostituzione con Gustáv Husák, anche lui slovacco, posero
definitivamente termine alle speranze di riforma. Circa 150.000 per-
sone scelsero la strada dell’esilio, quasi mezzo milione di comunisti
– un terzo degli iscritti – furono espulsi dal partito o rassegnarono
le dimissioni, mentre artisti, intellettuali e in genere tutti quanti ri-
fiutavano di conformarsi al nuovo ordine venivano colpiti da misure
punitive o discriminatorie. Da questo momento il PCCs normaliz-

29
Sulla Primavera di Praga esiste una grande quantità di lavori, dal già citato
classico di Skilling, Czechoslovakia’s Interrupted Revolution ai recenti M. Schulze
Wessel, Der Prager Früling. Aufbruch in eine neue Welt, Reclam, Ditzingen 2018, e
A. Laudiero, La Primavera e le sue stagioni, Viella, Roma, 2018; in ambito ceco tra
gli ultimi titoli si segnalano J. Hoppe, Opozice ’68. Sociální demokracie, Kan a K231
v období Pražského jara, Prostor, Praha, 2009; J. Vondrová, Reforma? Revoluce?
Pražské jaro 1968 a Praha, ÚSD, Praha, 2013; S. Sikora, Rok 1968 a politický vý-
voj na Slovensku, Pro Historia, Bratislava, 2008. Fondamentale risulta comunque la
raccolta di documenti Prameny k dějnám československé krize 1967-1970, ÚSD -
Doplněk, Praha-Brno, 1993-2018, di cui nell’arco di un quarto di secolo sono stati
pubblicati 11 volumi in 23 tomi.

© Edizioni Scientifiche Italiane ISBN 978-88-495-4334-6


32 Francesco Caccamo

zato si chiuse in se stesso, rinunciando a qualsiasi apertura e ridu-


cendosi alla conservazione dell’esistente. Husák e i suoi collaboratori
riuscirono comunque ad assicurarsi tra la popolazione, se non un
vero e proprio consenso, quanto meno una certa acquiescenza, fa-
cendo leva sulla discreta situazione dell’economia cecoslovacca e of-
frendo come valvola di sfogo un modesto consumismo. Un discorso
a parte era quello della Slovacchia, che a fine 1968 aveva ottenuto la
tanto agognata federalizzazione dello stato e che anche in seguito si
sarebbe vista destinare un sostanzioso flusso di investimenti e di ri-
sorse. In queste circostanze le uniche manifestazioni non conformi-
ste dovevano provenire nei paesi cechi dai circoli del dissenso e in
particolare dall’iniziativa per la difesa dei diritti umani Charta 77, in
Slovacchia dalla componente cattolica30.
Questo fragile equilibrio fu scosso nella seconda metà degli anni
Ottanta, quando il regime normalizzatore si dovette confrontare con
i sintomi della stagnazione economica che stava colpendo l’intero
campo socialista. Nel contempo la circolazione delle idee e l’attività
dei dissidenti erano stimolate dall’arrivo dall’Occidente di nuovi stru-
menti tecnologici come i registratori, le telecamere, le macchine fo-
tocopiatrici e i primi computer. Ma, soprattutto, l’avvento al potere
in URSS di Michail Gorbačëv e il lancio di perestrojka e glasnost die-
dero ai vertici del PCCs la percezione di non poter più fare incon-
dizionato affidamento sull’appoggio di Mosca e li indussero a pren-
dere in considerazione l’adozione di qualche cambiamento di facciata.
Il partito rimase comunque dominato dal timore di un ripetersi de-

30
M. Vaněk, P. Urbášek (eds.), Vitěžové? Poražení? Životopisná interview, 2 voll.,
Prostor, Praha, 2005; M. Vaněk (ed.), Mocní? A bezmocní? Politické elity a disent v
období tzv. normalizace, Prostor, Praha, 2006; M. Otáhal, Opoziční proudy v české
společnosti 1969-1989, ÚSD, Praha, 2011; L. Kalinová, Konec nádějiny a nová
očekávání. K dějinám české společností 1969-1989, Academia, Praha, 2012; M. Londák,
S. Sikora, E. Londáková, Od predjaria k normalizácia, Veda, Bratislava, 2016; inol-
tre la raccolta di saggi, dal sapore vagamente revisionista, M. Pullmann, P. Kolář, Co
byla normalizace? Studie o pozdním socialismu, NLN-ÚSTR, Praha, 2016. Sulla fi-
gura di Husák, solo con grande ritardo affrontata sul piano storico, si vedano gli
ampi profili biografici di S. Michálek, M. Londák a kol., Gustáv Husák. Moc poli-
tiky, politik moci, Veda, Bratislava 2013; Michal Macháček, Gustáv Husák, Výšeh-
rad, Praha, 2017. Tra la letteratura in lingua inglese, si segnalano P. Bren, The Green-
grocer and His TV. The Culture of Communism after the 1968 Prague Spring, Cor-
nell University Press, Ithaca, 2010; J. Bolton, Worlds of Dissent: Charter 77, The
Plastic People of the Universe and Czech Culture Under Communism, Harvard Uni-
versity Press, Cambridge, London, 2012.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Le parabole della Cecoslovacchia attraverso il secolo breve 33

gli avvenimenti del 1968 e mancò di sviluppare al suo interno una


componente autenticamente riformista, a differenza di quanto verifi-
catosi nelle vicine Polonia e Ungheria; non a caso la přestavba ceco-
slovacca (appunto la traduzione del russo perestrojka) non si spinse
oltre l’adozione di modesti provvedimenti di risanamento dell’eco-
nomia31.

5. Dalla rivoluzione al divorzio di velluto. – Con questi precedenti


la Cecoslovacchia arrivò abbastanza impreparata all’appuntamento del
1989. Per quanto i circoli del dissenso raccogliessero crescenti adesioni
e tendessero a trasformarsi in una vera e propria opposizione, le loro
iniziative erano ancora lontane dall’assumere un carattere di massa.
Per fare un salto di qualità bisognava attendere la fine dell’anno, sotto
lo stimolo decisivo delle elezioni polacche, dell’esodo dei tedesco orien-
tali verso la Germania occidentale e soprattutto della caduta del muro
di Berlino. La svolta avvenne con le manifestazioni studentesche del
17 novembre, che inaugurarono una serie impressionante di dimo-
strazioni e di proteste pacifiche: la cosiddetta rivoluzione morbida o
di velluto. Nel contempo la guida dell’opposizione era assunta dal Fo-
rum Civico nella parte ceca del paese e dal Pubblico contro la Vio-
lenza in Slovacchia. Proprio sotto il loro impulso entro la fine del-
l’anno si giunse alla formazione di un nuovo governo in cui i mini-
stri non comunisti erano ormai maggioritari e alla duplice elezione di
Dubček alla presidenza del Parlamento e del drammaturgo-dissidente
Václav Havel alla presidenza della repubblica32.
La caduta del quarantennale sistema di potere del PCCs fu in
realtà soltanto l’inizio di un colossale processo di trasformazione o
di transizione diretto al passaggio dal socialismo reale alla democra-
zia, dall’economia di piano a quella di mercato, e, in maniera com-
plementare, all’inserimento nel mondo occidentale, in concreto nel
Patto Atlantico e nella Comunità / Unione Europea. La Cecoslo-

31
M. Pullmann, Konec experiment. Přestavba a pád komunismu v Českosloven-
sku, Scriptorium, Praha, 2011.
32
J. Suk, Labyrintem revoluci, Prostor, Praha, 1998; B. Blehová, Der Fall des
Komunismus in der Tschechoslowakei, Lit, Wien, 2006; J. Krapfl, Revolution with a
Human Face: Politics, Culture, and Community in Czechoslovakia 1989-1992, Cor-
nell University Press, Ithaca-London, 2013; su Havel, D. Kaiser, Disident. Václav
Havel 1936-1989, Paseka, Praha-Litomyšl, 2009; J. Suk, Politika jako absurdní drama.
Václav Havel v letech 1975-1989, Paseka, Praha-Litomyšl, 2013; M. Žantovský, Ha-
vel; A Life, Atlantic Books, London, 2014.

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34 Francesco Caccamo

vacchia non avrebbe assistito all’esito positivo di questo processo a


causa del riaffiorare sin dall’indomani del 1989 della questione na-
zionale. Il ritorno alla libertà vide infatti contestualmente venire alla
ribalta le tradizionali aspirazioni slovacche per l’emancipazione e la
parificazione, questa volta sotto forma della richiesta di una «auten-
tica federazione» o, ancor più, del passaggio da un sistema federale
a uno confederale, nel quale le prerogative dello stato comune avreb-
bero dovuto essere nettamente subordinate a quelle delle singole re-
pubbliche. Se però i cechi erano disposti a rinegoziare la struttura
della federazione, essi erano risolutamente contrari a soluzioni che
minassero l’unitarietà dello stato e ne compromettessero l’efficienza.
Al punto di non ritorno si arrivò con le elezioni del giugno 1992 e
l’affermazione di due forze politiche con visioni antitetiche: nei paesi
cechi il Partito civico democratico del liberista Václav Klaus e in Slo-
vacchia il Movimento per una Slovacchia libera del populista Vla-
dimír Mečiar. Il risultato fu l’avvio di negoziati per lo scioglimento
dello Cecoslovacchia e per la sua sostituzione con due stati indipen-
denti, la Repubblica Ceca e la Slovacchia33.
Il «divorzio di velluto» concretizzatosi nella notte tra il 31 dicem-
bre 1992 e il 1° gennaio 1993 sancì la definitiva uscita di scena di un
paese che era stato un protagonista – magari minore, ma pur sempre
un protagonista – della vicenda novecentesca europea. A trent’anni di
distanza non pare azzardato affermare che i suoi due successori avreb-
bero pagato un prezzo non indifferente per il raggiungimento di una
maggiore compattezza nazionale e operatività decisionale, vedendo di-
minuire la capacità di influenza che erano stati in grado di esercitare
all’interno dello stato comune sul piano culturale, economico o della
politica estera. Al tempo stesso, le modalità pacifiche con cui fu con-
dotta la separazione e lo sviluppo di un’intensa collaborazione bilate-
rale negli anni seguenti rimangono un indubbio titolo di merito per i
cechi e gli slovacchi; e questo tanto più ove si considerino le dram-
matiche vicende che avrebbero accompagnato la disgregazione delle al-
tre due federazioni sorte in epoca socialista, l’URSS e la Jugoslavia.

33
J. Rychlík, Rozpad Českovenska. Česko-slovenské vztahy 1989-1992, Acade-
mic Electronic Press, Bratislava, 2002; K. Skalnik Leff, The Czech and Slovak Re-
publics: Nation Versus State, Westview Press, Boulder-Oxford, 1997; M. Kraus, A.
Stinger, Irreconcilable Differences? Explaining Czechoslovakia’s Dissolution, Rowman
& Littlefield Publishers, Lanham, 2000; A. Innes, Czechoslovakia: The Short Goodbye,
Yale University Press, New Haven-London, 2001.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Oliver Panichi
GENESI CULTURALE E POLITICA DI UNO SCISMA
RELIGIOSO: LA CHIESA NAZIONALE CECOSLOVACCA
(1918-1920)

«La grande preoccupazione di Vienna è stata per secoli interi di iniet-


tare in Boemia sangue tedesco e col sangue, le idee, per far dimenticare
ai cechi l’antico splendore della loro indipendenza. E quantunque l’a-
nima nazionale di un popolo compatto che ha dietro a se una storia, una
letteratura, una tradizione tutta propria, non si può far scomparire inte-
ramente, pure è innegabile che ancora alla vigilia della guerra mondiale
la nazione ceca aveva la coscienza della propria debolezza o piuttosto,
per essere esatti, non aveva ancora la coscienza della propria forza».

1. Premessa. – Ad esprimere questi concetti era monsignor No-


radino Eugenio Torricella, all’interno di un suo rapporto dedicato alla
Cecoslovacchia ed inviato alla Segreteria di Stato vaticana fra la fine
di marzo e l’inizio di aprile del 19191. All’epoca monsignor Torri-
cella ricopriva il ruolo di segretario presso la Nunziatura Apostolica
di Vienna mentre nel 1917 aveva svolto la medesima funzione a Mo-
naco di Baviera, agli ordini del nunzio Eugenio Pacelli, futuro Pio
XII. Era dunque un ecclesiastico pienamente inserito nella macchina

1
Il documento è conservato presso l’Archivio Storico della Sezione per i Rap-
porti con gli Stati della Segreteria di Stato, Città del Vaticano [in seguito: S.RR.SS.],
fondo Archivio della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari [in seguito:
AA.EE.SS.], Austria-Ungheria III, posizione [in seguito: pos.] 1320, fascicolo [in se-
guito: fasc.) 519, fogli [in seguito: ff.) 54-76, «Situazione politico religiosa nella Re-
pubblica Ceco-Slovacca». Il rapporto è contrassegnato dal numero di protocollo
88057 ma non è datato. Non ne viene indicata la datazione esatta nemmeno negli
indici dei protocolli delle comunicazioni ricevute dalla Segreteria di Stato, che ab-
biamo consultato presso l’Archivio Apostolico Vaticano. Ma leggendo tali indici si
può stabilire che il documento fu scritto di certo nel 1919 (cosa peraltro desumibile
anche dagli argomenti trattati dal testo). Inoltre, dalle datazioni dei numeri di pro-
tocollo immediatamente precedenti e successivi al numero 88057, si deduce che que-
sto pervenne in Segreteria di Stato fra il 27 marzo ed i primi giorni dell’aprile di
quell’anno.

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36 Oliver Panichi

diplomatica vaticana, anche se poi il suo percorso di vita lo porterà


altrove, dapprima fra gli esponenti di primo piano del Partito Popo-
lare nel bergamasco, che collaborò a fondare nel 1919, e poi nel Sud-
Ovest della Francia, operando per l’assistenza agli emigrati italiani per
conto dell’Opera Bonomelli2.
Il fatto che le informazioni fornite da monsignor Torricella fos-
sero reputate di rilevante interesse da parte della Segreteria di Stato
ai fini dell’analisi della situazione cecoslovacca è evidente dalla col-
locazione stessa del documento, archiviato nei dossier della Con-
gregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, un organo della
Curia romana istituito nel 1814 per coadiuvare la Segreteria di Stato
nelle relazioni fra la Santa Sede ed i governi3. Documenti del ge-
nere, raccolti in unità denominate posizioni create secondo classifi-
cazioni statuali4 ed ulteriormente suddivise tematicamente, servivano

2
Per un profilo biografico e bibliografico, si veda Noradino Eugenio Torricella,
in Kritische Online-Edition der Nuntiaturberichte Eugenio Pacellis (1917-1929), URL:
<www.pacelli-edition.de/Biographie/22000> (consultato il 11/6/2019). Riguardo al-
l’attività di Torricella nel Partito sturziano, si veda G. Laterza, I primi anni del Par-
tito Popolare a Bergamo (1919-1922), in Archivio Storico Bergamasco, 3, 2, 1983, pp.
265-343, URL: <http://www.archiviobergamasco.it/wp-content/uploads/2014/01/Ri-
vista-05.pdf> (consultato il 11/6/2019). Sull’attività di Torricella per gli emigrati ita-
liani ad Agen e sui rapporti contrastati col regime fascista in Italia, cenni in L. Teu-
lières, Immigrés d’Italie et paysans de France, 1920-1944, Presses universitaires du
Mirail, Toulouse, 2002, pp. 99-101, 146, 193. La figura di Torricella nel quadro della
società francese e dell’antifascismo in esilio resta ancora da studiare appieno, così
come rimangono da chiarire le circostanze della sua morte, pare ad opera del par-
tito comunista francese in clandestinità, secondo quanto riportato da P. Borruso, Or-
ganizzazione e ruolo delle missioni cattoliche italiane in Francia (1938-1945), in G.
Perona (ed.), Gli italiani in Francia 1938-1946 (“Mezzosecolo. Materiali di ricerca
storica”, 9), FrancoAngeli, Milano, 1993, pp. 105-120 (p. 109). Si veda anche A. But-
tarelli, Missionari bergamaschi in Francia: tra emigrazione e crisi bellica (1938-1946),
ibi, pp. 185-222.
3
Circa la storia di questa congregazione vaticana, delle sue competenze e del
suo funzionamento, si rimanda alla parte generale di L. Pettinaroli, Les sessioni de
la congrégation des Affaires ecclésiastiques extraordinaires: évaluation générale (1814-
1938) et remarques sur le cas russe (1906-1923), in Mélanges de l’École française de
Rome - Italie et Méditerranée modernes et contemporaines, 122, 2, 2010, anche on-
line URL: http://journals.openedition.org/mefrim/585. doi: <10.4000/mefrim.585>.
4
Come si vede dalla prima nota di questo lavoro, lo scritto di Torricella si trova
in una posizione classificata ancora sotto la categoria Austria-Ungheria, sebbene la
monarchia asburgica fosse cessata già da alcuni mesi. La categoria Cecoslovacchia
nell’ordinamento di tale documentazione comparirà infatti solo a partire dal 1920,
con l’avvio delle relazioni diplomatiche fra Praga e Santa Sede inaugurate il 15 mag-
gio di quell’anno. Una recente sintesi in lingua italiana circa modalità e problemi

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 37

come strumento di studio ai cardinali che periodicamente si riuni-


vano nelle Sessioni di questa Congregazione e che avevano il com-
pito di formulare valutazioni e consigli operativi al Segretario di
Stato e talvolta anche direttamente al pontefice, concorrendo così a
stabilire orientamenti e decisioni specifiche nell’azione internazio-
nale della Santa Sede.
Specie durante i periodi di grandi trasformazioni politiche e so-
ciali – ed il 1919 lo era certamente – testi come quello di monsignor
Torricella rappresentavano una tipologia assai frequente nella docu-
mentazione ricevuta dalla Santa Sede. Costituivano per così dire dei
momenti di sintesi puntuale, delle istantanee, all’interno di quello
sforzo di comprensione del mondo sociale e culturale, oltre che re-
ligioso, che veniva messo in atto da parte di nunzi e vescovi, così
come da ecclesiastici di rango minore e talvolta anche da laici.
Lo scritto di Torricella si distingue per lucidità di analisi. Com-
pendiava valutazioni storiche di lungo periodo, apprezzamenti circa
le ultimissime fasi della monarchia asburgica e riflessioni sul presente
della politica cecoslovacca, declinando tali tematiche anche alla luce
di un problema che preoccupava particolarmente la Santa Sede. In
quei mesi infatti, oltre alla politica religiosa dall’orientamento ultra li-
berale ed ultra laico che veniva dispiegandosi da parte dei governi di
Praga5, ad essere fonte di particolare inquietudine erano anche le aspi-
razioni riformatrici di una parte non irrilevante del clero cattolico se-
colare e regolare cecoslovacco, in particolare di quello boemo. Le ri-
chieste che ne provenivano a favore dell’abolizione del celibato ob-
bligatorio per gli ecclesiastici erano l’elemento certo più immediata-
mente evidente – ma non l’unico – di una volontà di rottura epocale
con il passato, dell’intenzione di una cesura che avrebbe dovuto es-

nell’avvio di tali rapporti diplomatici è quella di L. Hromják, Benedetto XV e la


Cecoslovacchia, in G. Cavagnini, G. Grossi, (eds.) Benedetto XV. Papa Giacomo
Della Chiesa nel mondo dell’«inutile strage», direzione di A. Melloni, vol. 2, il Mu-
lino, Bologna, 2017, pp. 820-831.
5
Basti citare una frase che compare nella breve sintesi dattiloscritta sul primo
foglio del dossier che contiene lo scritto di Torricella. «Dopo la dichiarazione della
Boemia, come Repubblica democratica indipendente, fu acclamato Presidente il Dr.
Masaryk, le cui dottrine non fanno sperare nulla di buono per la religione». Cfr.
S.RR.SS., AA.EE.SS., Austria-Ungheria III, pos. 1320, fasc. 519, f. 4r. Tomáš Gar-
rigue Masaryk, figura centrale nella storia del movimento nazionale ceco, era nato
da una famiglia cattolica in Moravia. Sua madre era germanofona. Masaryk si con-
vertirà poi al protestantesimo dopo aver sposato la statunitense Charlotte Garrigue.

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38 Oliver Panichi

sere tanto radicale nell’ambito religioso almeno quanto la cessazione


del dominio asburgico lo era già stato in quello politico.
Nel presente intervento ci focalizzeremo precisamente su tali aspi-
razioni da parte del clero cattolico cecoslovacco. Tale movimento
aveva risvolti politici e culturali oltre che religiosi. Affondava le pro-
prie radici nel risveglio nazionale boemo, dispiegatosi gradualmente
dai decenni a cavallo della metà dell’Ottocento in avanti. Con l’indi-
pendenza dopo la prima guerra mondiale, tali idee avevano trovato
il contesto e gli spazi più idonei per accrescere la propria presa sulle
masse e, in questo caso specifico, su un gruppo sociale ben preciso
quale appunto il clero cattolico.
Discuteremo dunque la genealogia ideale del movimento e segui-
remo le sue vicende fra 1918 e 1920, anno nel quale una parte del
clero cecoslovacco decide di dichiarare lo scisma dalla Chiesa catto-
lica romana ed istituire la Chiesa Nazionale Cecoslovacca.

2. La rivincita di Jan Hus. – Torniamo alla «Situazione politico


religiosa nella Repubblica cecoslovacca» descritta da monsignor Tor-
ricella. Le prime pagine del documento sono una sorta di atto d’ac-
cusa verso i politici dell’ultima fase della Monarchia asburgica, in par-
ticolare del ministro degli Esteri Czernin, del primo ministro au-
striaco Seidler e del suo successore Hussarek, giudicati incapaci di
creare le condizioni per quel riavvicinamento fra la dinastia asburgica
e le aspirazioni della Boemia, che poi il giovane imperatore Carlo
avrebbe tentato in extremis in un quadro però ormai sfavorevolis-
simo. All’analisi impietosa degli errori politici e delle inadeguatezze
umane emergenti dal comportamento della classe dirigente asburgica,
segue una valutazione delle dinamiche geopolitiche internazionali in
seguito alla proclamazione dell’indipendenza cecoslovacca. Si faceva
così menzione dei finanziamenti che giungevano dalla Francia, la quale
continuava a temere la Germania e secondo Torricella voleva fare di
Praga uno «strumento politico» contro Berlino6.

6
A Parigi, così come a Londra, durante la prima guerra mondiale i leader del
movimento cecoslovacco avevano trovato un luogo sicuro e favorevole ove intrec-
ciare rapporti con diplomatici, politici e giornalisti a sostegno dei propri scopi indi-
pendentisti. Fin dal 29 giugno 1918, la Francia aveva riconosciuto il Consiglio Na-
zionale Ceco-Slovacco come organo supremo degli interessi della propria nazione e
come base legittima di ogni suo futuro governo. Cfr. H. Hanák, France, Britain,
Italy and the Independence of Czechoslovakia in 1918, in N. Stone, E. Strouhal
(eds.), Czechoslovakia: Crossroads and Crises, 1918-88, Palgrave Macmillan-BBC

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 39

Del resto, la Francia era stata la prima potenza ad inviare un di-


plomatico accreditato presso il governo cecoslovacco e da testimo-
nianze contemporanee sappiamo che la presenza francese – perlo-
meno nella capitale – era stata qualcosa di pervasivo anche a livello
di immaginario collettivo7, pur se non va dimenticata l’importante
collaborazione fra l’Italia ed il Consiglio Nazionale Ceco-Slovacco
negli anni della guerra. Un legame, questo, grazie al quale era stata
organizzata una legione a supporto dell’Intesa composta dai prigio-
nieri di guerra asburgici nativi delle terre ceche e slovacche, mentre
nell’immediato dopoguerra la missione guidata dal generale Luigi Pic-
cione aveva armato e comandato la prima forza militare regolare nella
nuova repubblica, pur se poi il governo cecoslovacco aveva deciso di
affidare il comando del proprio esercito al generale francese Maurice
Pellé e la missione Piccione veniva a cessare non senza controversie8.
Quanto a Torricella, questi assegnava l’etichetta di «nuovo impe-
rialismo» al drastico ridimensionamento territoriale della nuova Au-
stria e della nuova Ungheria; trattando della Germania sconfitta e
prevedendo che presto o tardi avrebbe cercato di risorgere dalle pro-
prie ceneri, poi, Torricella mostrava un realismo quasi profetico, so-

World Service, London, 1989, pp. 30-61 (pp. 54-55). Sugli anni della guerra, si veda
anche l’ancora utile L. Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Il Saggiatore,
Milano, 1966, pp. 194-236, 276-280, 291-293. La preoccupazione della Francia nel
primo dopoguerra verso la rinascita della Germania ed il suo investimento strate-
gico a supporto di una Cecoslovacchia “forte” viene trattata nella recente sintesi di
M. Heimann, Czechoslovakia. The State that Failed, Yale University Press, New
Haven-London, 2011 (ed. or. 2009), pp. 43-44, 58.
7
In un rapporto da Vienna, il generale Roberto Segre (presidente della Com-
missione militare interalleata esecutiva delle clausole dell’armistizio) oltre a citare la
presenza a Praga del diplomatico francese Clément Simon ed a trattare estesamente
delle condizioni economiche e militari della Cecoslovacchia, descriveva Praga stessa
come «presidiata da legionari francesi» e le vetrine dei negozi «abbondantemente or-
nate di ritratti di Foch e Poincaré; si vendono cartoline raffiguranti il legionario
czeco, il qual porta, naturalmente, la divisa francese; le agenzie giornalistiche non
mancano di giornali francesi […] Pare si stia impiantando una stazione radiotele-
grafica francese». Cfr. Archivio Storico del Ministero degli Esteri, Roma [in seguito:
ASMAE], Fondo della Direzione degli Affari Politici 1919-1930 [in seguito: AP 1919-
30], busta 932, fasc. Czecoslovacchi, Vienna, 26 gennaio 1919, f. 23.
8
Tali temi sono stati oggetto di studio anche recente. Un contributo di sintesi,
forte anche dell’uso di fonti italiane e cecoslovacche, è quello di uno degli autori
maggiormente esperti del tema, ovvero F. Caccamo, Un’occasione mancata. L’Italia,
la Cecoslovacchia e la crisi dell’Europa centrale, 1918-1938, in Nuova Rivista Sto-
rica, 1, 2015, pp. 111-156.

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40 Oliver Panichi

stenendo con una punta di sarcasmo che «Ad una pace perpetua, può
credere chi vuole…»9.
L’ecclesiastico bergamasco richiamava poi l’attenzione della Segre-
teria di Stato su un elemento cruciale nel processo che aveva portato
alla nascita della Repubblica cecoslovacca, qualcosa che si era svilup-
pato già a partire dal secolo precedente in un riverberarsi reciproco
fra rivendicazioni culturali e linguistiche, idee religiose e progetti po-
litici. Si trattava del mito di Jan Hus, il sacerdote e riformatore reli-
gioso boemo che nel 1415 fu condannato al rogo per eresia dal Con-
cilio di Costanza. A proposito della potenza di questo mito nei giorni
in cui scriveva, Torricella offriva la seguente sintesi:
«Il fatto, religiosamente non indifferente, che gli eroi nazionali della Boe-
mia, primo fra tutti Giovanni Huss[sic], sono anche i vessilliferi di una
nuova concezione religiosa, complica di molto la situazione in danno
della Chiesa. Teoreticamente e con alcune frasi eleganti si può scindere
l’uomo politico dal religioso: praticamente però, per la grande massa, ciò
è impossibile e Giovanni Huss rimane per i patrioti boemi il simbolo
delle rivendicazioni nazionali – simbolo che la Chiesa cattolico-romana
ha tentato un giorno – dicono essi – di annientare»10.

Ciò che Torricella non diceva era che l’elevazione della figura di
Hus a nume tutelare del movimento nazionale nelle terre ceche11 pro-
veniva dalla storiografia ottocentesca ed in particolare dall’opera di
František Palacký, intellettuale e politico di confessione Protestante
ed originario della Moravia, che fra il 1836 ed il 1867 aveva pubbli-
cato in più volumi una Storia della nazione Ceca in Boemia e Mo-
ravia che gli era valso l’appellativo di “padre della nazione”12. Nel-

9
S.RR.SS., AA.EE.SS., Austria-Ungheria III, pos. 1320, fasc. 519, ff. 61-63.
10
Ibi, ff. 65-66.
11
In questa sede si impiega la parola “ceco” per aggettivare ciò che riguarda la
Boemia, la Moravia e la Slesia. Tale era anche la scelta terminologica degli attivisti
nel movimento nazionale ceco ottocentesco, i quali insistevano in chiave di diritto
storico sulla antica unione di Boemia e Moravia sotto la medesima corona e sulla
necessità di riconoscere tale continuità istituzionale anche nel presente. La nostra
scelta terminologica si rifà a T. Kamusella, The Politics of Language and Nationa-
lism in Modern Central Europe, Palgrave Macmillan, Basingstoke-New York, 2009,
p. 983.
12
Palacký iniziò le pubblicazioni di tale opera in tedesco (con il titolo Geschi-
chte von Böhmen) nel 1836. Dal 1848 in poi diede alle stampe i volumi dell’edi-
zione in lingua ceca (Dějiny národu českého v Čechách a v Moravě), modificata sia
per gli eventi trattati che per l’impostazione ideologica. Nella versione tedesca in-

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 41

l’opera di Palacký, Hus ed il movimento ussita venivano infatti esal-


tati per mezzo di un’operazione culturale che simultaneamente e per
altri versi si veniva attuando anche presso altri esponenti della sto-
riografia romantica europea, in una temperie nella quale la crescente
secolarizzazione sociale e l’emergere diffuso di idee liberali e nazio-
nali giocavano un ruolo non certo secondario. La tendenza da parte
di molti intellettuali europei era quella di identificare a ritroso nei se-
coli le anticipazioni ed i precursori di idee e processi storici succes-
sivi13.
Secondo Palacký dunque Jan Hus aveva anticipato la Riforma pro-
testante, era stato antesignano di Lutero e Calvino nella lotta contro
la Chiesa Cattolica medievale ed il suo assolutismo assetato di ob-
bedienza, una sorta di padre fondatore della libertà di coscienza. Nel
trattare la storia del movimento ussita con una certa indulgenza ri-
spetto alle pur esistenti divisioni interne al movimento stesso, lo sto-
rico boemo arrivava dunque a sostenere la valenza universale del ten-
tativo di riforma religiosa boema fra la fine del Medioevo e la prima
età moderna, un momento nel quale andavano individuati gli elementi
seminali di idee posteriori quali il razionalismo, il socialismo, il pan-
teismo, la stessa concezione moderna di democrazia, così come il pan-
slavismo ottocentesco14.
L’intera storia boema (ceca, nell’aggettivazione del secondo Pa-
lacký) veniva inoltre ad essere reinterpretata come un perenne con-
fronto con il germanesimo, incarnato prima dal Sacro Romano Im-

fatti il focus adottato era quello geografico e costituzionale della Boemia, mentre l’o-
pera in lingua materna definiva la storia e l’identità della nazione ceca (gli slavofoni
di Boemia e Moravia) intesa in senso etnico. Per un profilo biografico dell’autore e
per la traduzione inglese di alcuni estratti dell’opera in ceco, si veda František Pa-
lacký: History of the Czech Nation in Bohemia and Moravia, in B. Trencsényi, M.
Kopeček (eds.), Discourses of Collective Identity in Central and Southeast Europe
(1770-1945). Texts and Commentaries: National Romanticism. The Formation of Na-
tional Movements, vol. 2, Central European University Press, Budapest-New York,
2007, pp. 50-56.
13
Tali dinamiche sono state analizzate in chiave generale (ad esempio notando
l’investimento valoriale nella figura di Arnaldo da Brescia da parte della storiografia
italiana ottocentesca) ed in chiave comparativa anche in relazione ad Hus, da M.
Baár, Heretics into National Heroes: Jules Michelet’s Joan of Arc and František Pa-
lacký’s John Hus, in S. Berger, C. Lorenz (eds.), Nationalizing the past. Historians
as Nation Builders in Modern Europe, Palgrave Macmillan, Basingstoke-New York,
2010, pp. 128-148.
14
Ibi, p. 143; p. 145.

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42 Oliver Panichi

pero e poi dagli Asburgo d’Austria. La mitologia nazionale basata su


tali idee tralasciava il fatto storico che fra gli ussiti ci fossero stati an-
che dei germanofoni e che le divisioni religiose del periodo non ave-
vano seguito una linea etnico-linguistica. Ed il mondo tedesco po-
teva così venire presentato come il nemico eterno della nazione ceca.
Che la Riforma luterana poi si fosse per giunta propagata proprio da
luoghi di lingua tedesca non veniva percepito come contraddittorio
all’intera narrazione15.
È assodato però che con la ricattolicizzazione delle terre ceche
dopo la battaglia della Montagna Bianca del 1620 si aprì un periodo
di radicale cambiamento sul piano linguistico-culturale. La produ-
zione di libri in lingua ceca scomparì infatti quasi del tutto, limitan-
dosi ai testi scritti dai protestanti. Riprese vigore soltanto dagli ul-
timi due decenni del Settecento16, mentre dal Seicento inoltrato l’ari-
stocrazia locale che era sopravvissuta alle guerre di religione iniziò
ad impiegare il tedesco come propria lingua, cosa che fece regredire
il ceco ad idioma quasi solo orale17. Si trattava di un elemento cru-
ciale per comprendere l’investimento valoriale che il risorgimento na-
zionale ceco dal primo Ottocento in avanti avrebbe gradualmente
compiuto, proprio sulla questione della lingua ceca e del suo uso ne-
gli strati superiori della società. È un processo al quale il clero ceco
non rimase certamente estraneo. Gli ecclesiastici erano sensibili al-
l’impiego della lingua ceca nella predicazione per il popolo e, come
rilevato dal grande storico cecoslovacco Miroslav Hroch nei suoi studi
novecenteschi, fino agli anni Quaranta dell’Ottocento gli uomini di
chiesa sopravanzavano i laici all’interno dell’élite patriottica. Tra l’al-
tro l’epicentro di tale movimento si situava nelle zone di maggiore
contatto con l’elemento germanofono, la cui presenza agiva dunque
da stimolo alla maturazione delle idee del movimento stesso18.
Quando negli anni ’80 dell’Ottocento Tomáš Garrigue Masaryk
promosse ancor di più l’opera di Palacký attraverso dei saggi dalla
notevole eco, l’intensificazione delle tensioni nazionali fra cechi e te-
deschi stava per raggiungere il suo apice, anche oltre le intenzioni

15
Riprendiamo qui l’interpretazione di T. Kamusella, The Politics of Language
and Nationalism in Modern Central Europe, cit., p. 504.
16
Ibi, pp. 488- 495.
17
F. Caccamo, I cechi dalla rinascita nazionale alla lotta per l’emancipazione, in
R. Tolomeo (ed.), Vecchie e nuove élites nell’area danubiano-balcanica del XIX se-
colo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011, pp. 11-28.
18
Ibi, pp. 20-21.

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 43

dello stesso Palacký e dei suoi scritti Soffermarci brevemente sul pen-
siero di Masaryk relativo ad Hus ed alla storia ceca, a questo punto,
agevolerà la comprensione dei successivi sviluppi politici e religiosi
che qui si stanno analizzando.
Già nel 1896 Masaryk aveva pubblicato una raccolta di saggi sulla
figura di Hus, più volte ripubblicata in seguito. In un famoso di-
scorso del 1910 edito nel 1923, Masaryk compie un excursus su Hus
e sui successivi movimenti riformatori religiosi nelle «terre ceche».
Ciò che accomunava i predicatori ed i movimenti cechi più o meno
radicali a livello dottrinale erano il porre la Scrittura sopra al Papa
ed il richiamo alla moralità apostolica declinato anche in termini di
socialismo ante litteram. La Controriforma, asseriva Masaryk, era
stata perciò la reazione di una Chiesa assolutista e teocratica contro
gli aneliti dello spirito nazionale ceco ed aveva voluto interrompere
quella fase nella quale «l’intera nazione ceca, come un unico corpo,
sfidò Roma»19. Tale reazione sarebbe poi stata una causa di profondo
degrado per la nazione ceca20 in quanto avrebbe fatto prevalere la
Chiesa aristocratica contro la «democrazia religiosa». Il Papa e l’Im-
peratore, nell’ottica di Masaryk, avevano dunque rappresentato i due
assolutismi contro i quali la riforma ceca aveva tentato di far preva-
lere una religiosità che non si opponesse alla ragione, che fosse anti-
mistica (il misticismo era considerato da Masaryk come una “intos-
sicazione” del divino21) e che promuovesse il contatto fra l’uomo e
Dio senza l’intermediazione del clero22.

19
Citiamo dalla traduzione inglese del saggio, pubblicata con il titolo Hus and
Czech destiny, in G.J. Kovtun (ed.), The Spirit of Thomas G. Masaryk 1850-1937:
An Anthology, St. Martin’s Press-Masaryk Publications Trust, New York, 1990, pp.
85-95 (p. 91).
20
È stato messo in evidenza che sono pur esistiti altri giudizi più sfumati sulla
Controriforma nelle terre ceche, ad esempio mettendone in rilievo il contributo dato
dalla cultura barocca. Cfr. F. Caccamo, I cechi dalla rinascita nazionale alla lotta per
l’emancipazione, cit., p. 12.
21
Hus and Czech destiny, cit., p. 93.
22
Una recente e polemica sintesi in italiano del pensiero religioso di Masaryk è
quella di E. Hrabovec, La Rivoluzione russa e la genesi della Ceco-Slovacchia, in Qua-
derni di Scienze Politiche. Università Cattolica del Sacro Cuore, 13, 2018, pp. 57-81.
L’autrice sostiene che nell’uso degli argomenti religiosi da parte di Masaryk sarebbe ri-
scontrabile un certo grado di strumentalità. Quanto alle sue idee circa il passato ceco,
esse sarebbero state viziate da apriorismi e da arbitrarietà interpretative. Nelle idee re-
ligiose masarykiane, infine, l’autrice rintraccia «la sua appartenenza alla massoneria scoz-
zese impregnata dal pensiero deista e dall’umanesimo antropologico» (ibi, p. 63).

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44 Oliver Panichi

Ma questo testo masarykiano non si limitava all’analisi storica.


Conteneva infatti delle precise indicazioni per attualizzare Hus nel
presente. Se il martire non si era sacrificato invano e se i cinque se-
coli successivi avevano consolidato lo spirito nazionale e religioso
ceco, era dunque mai possibile che i discendenti novecenteschi po-
tessero continuare a sentirsi cechi senza proseguire nello spirito della
riforma religiosa ceca? Chiedendosi questo, Masaryk si rivolgeva an-
che alla maggioranza cattolica del suo popolo: «Come possiamo noi
appartenere alla Chiesa cattolica, ed allo stesso tempo riconoscere Hus
come il nostro martire nazionale, onorarlo e riverirlo?». La risposta
che Masaryk esplicitava era che i riformatori religiosi cechi «ci danno
una forma di religione migliore e più alta rispetto a quella che ci è
stata data dalla teocrazia romana». Dunque occorreva attualizzare Hus
«rompendo i nostri legami con Roma, non solo nel nome, ma nel-
l’atto e nello spirito. Dobbiamo superare la Roma che si trova den-
tro ognuno di noi»23.
Non può stupire, dunque, che nel febbraio del 1919 Masaryk di-
chiarasse al giornale parigino Le Temps che «nel momento in cui la
morsa che gli serrava il cranio si è infranta, l’anima ussita sonnec-
chiante si è risvegliata»24.

3. Un clero nuovo per un nuovo Stato. – Questa dunque la base


ideale che poi avrebbe sorretto le aspirazioni riformatrici del clero
boemo e moravo nell’immediato dopoguerra. I contenuti religiosi di
tali idee si inserivano nel più generale mito nazionale cecoslovacco25,
che dopo la dissoluzione della monarchia asburgica aveva continuato
a permeare le retoriche discorsive interne ma anche la proiezione in-

23
Hus and Czech destiny, cit., pp. 93-94.
24
Il passaggio dell’intervista, comparsa sul numero del 13 febbraio 1919 de Le
Temps, è citato da E. Hrabovec, Reformbestrebungen der tschechischen Priester und
die Entstehung der „Tschechoslowakischen Kirche“, in Römische Historische Mittei-
lungen, 2009, pp. 337-368.
25
Si tratta di un tema sul quale la storiografia internazionale ha continuato ad
applicarsi anche di recente. Si vedano lo studio specifico di A. Orzoff, Battle for the
Castle. The Myth of Czechoslovakia in Europe, 1914-1948, Oxford University Press,
Oxford-New York, 51, 2009 e la sintesi più generale di M. Heimann, Czechoslo-
vakia. The State that Failed, cit., un’opera – quest’ultima – il cui intento di deco-
struzione del mito nazionale cecoslovacco è stato da alcuni giudicato come a tratti
troppo severo. Si veda ad esempio la recensione di N. W. Wingfield, in Slavic Re-
view, 70, 2011, pp. 180-182 (doi: 10.5612/slavicreview.70.1.0180).

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 45

ternazionale del nuovo Stato. Cruciale era infatti l’efficace azione di


propaganda attraverso le relazioni diplomatiche, gli intellettuali e la
stampa nazionale ed estera, che veniva dispiegata sotto la regia del
Hrad (il Castello), l’edificio storico praghese nel quale risiedeva la
presidenza masarykiana ed inizialmente anche il ministero degli Esteri
affidato all’altro grande protagonista del movimento nazionale pre-
1918 e dello Stato post-1918, cioè Edvard Beneš26.
La Repubblica cecoslovacca nasceva il 28 ottobre del ’18 come
una democrazia progressista, ispirata al modello istituzionale delle po-
tenze vincitrici della guerra mondiale. Il multipartitismo, le libere ele-
zioni ed una certa garanzia del rispetto dei diritti individuali l’avreb-
bero resa l’unico esempio compiuto di democrazia di tipo occiden-
tale nell’Europa centro-orientale interbellica27.
Nonostante le premesse, il nuovo Stato non poteva dirsi un’ap-
plicazione perfetta del principio di nazionalità. Per via dell’assai ri-
levante presenza di popolazioni tedesche, ungheresi, polacche e ru-
tene28, esso riproduceva su scala ridotta il mosaico nazionale e reli-
gioso della cessata monarchia asburgica, un elemento del quale gli
osservatori contemporanei erano ben consapevoli29. La reale effica-
cia della tutela dei diritti delle minoranze nazionali viene giudicata
variamente dagli storici. Si è sostenuto ad esempio che, rispetto ad
altri paesi dell’epoca, “il trattamento delle minoranze poteva consi-

26
A. Orzoff, Battle for the Castle, cit. Liquidata come reazionaria e borghese
nel periodo di più rigida ortodossia comunista cecoslovacca dopo la seconda guerra
mondiale, l’esperienza della democrazia interbellica e l’opera di Masaryk e Beneš sa-
ranno poi rivalutate dapprima nel clima di relativa libertà degli anni Sessanta e poi
da parte dello scrittore e politico Václav Havel negli anni Ottanta. Cfr. F. Caccamo,
La Cecoslovacchia al tempo del socialismo reale. Regime, dissenso, esilio, Società Edi-
trice Dante Alighieri, Roma, 2017, p. 71, p. 187.
27
S. Bottoni, Un altro Novecento. L’Europa orientale dal 1919 a oggi, Carocci,
Roma, 2011, p. 35.
28
I tre milioni di tedeschi nei Sudeti costituivano il 23% della popolazione to-
tale; poi c’erano oltre 800.000 ungheresi, concentrati in Slovacchia e circa 700.000
fra polacchi, ebrei, rom e ruteni. Tali dati vengono citati ibidem. Gli slovacchi erano
circa due milioni.
29
«Si riproducono in questo piccolo Stato le condizioni di plurinazionalità esi-
stenti nell’ex monarchia»: così l’incaricato d’affari italiano Mario Lago scriveva da
Praga a Tommaso Tittoni, allora appena diventato ministro degli Esteri nel primo
governo Nitti. Cfr. ASMAE, AP 1919-30, busta 932, fasc. Trattazione generale, Lago
a Tittoni, 22 giugno 1919. Il rapporto è anche edito in I documenti diplomatici ita-
liani [in seguito: DDI], Libreria dello Stato-Istituto poligrafico dello Stato, Roma,
1952-, serie VI, vol. 3, doc. 888.

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46 Oliver Panichi

derarsi esemplare”30. Ma si è anche notato che nell’assemblea nazio-


nale provvisoria che ebbe i poteri legislativi dopo la proclamazione
dell’indipendenza non c’erano seggi per gli esponenti delle minoranze
nazionali, mentre i contrasti anche violenti fra cechi e tedeschi per-
durarono, anche con attacchi alle statue dell’imperatore asburgico Giu-
seppe II31. Esistevano poi due problematiche destinate a rimanere in
sospeso, cioè la concessione di uno statuto di autonomia alla regione
della Rutenia sub-carpatica e soprattutto la questione slovacca. C’era
sì una pervasiva promozione del “cecoslovacchismo” in quanto co-
mune matrice nazionale fra cechi e slovacchi, che nel concreto ve-
deva anche un impegno alla promozione dello sviluppo culturale, eco-
nomico e sociale della Slovacchia, ma non le venne mai concessa l’au-
tonomia promessa negli anni della guerra32. Una certa impostazione
centralistica e “pragocentrica” dello Stato era fonte di malcontento
per una parte importante dell’opinione pubblica e dei politici slovac-
chi33. Come vedremo, inoltre, le politiche governative apertamente di
rottura con la Chiesa cattolica non venivano ben giudicate dagli slo-
vacchi, presso cui il sentimento religioso cattolico era molto più forte
che nella secolarizzata ed industriale Boemia.
Fin dai primi giorni della Repubblica cecoslovacca, presso alcuni
gruppi sociali l’avversione al cattolicesimo andava concretizzandosi in
dimostrazioni iconoclaste ed in una profonda ostilità verso i vescovi
nominati durante la monarchia asburgica.
Il 3 novembre ’18 una folla socialista demoliva rabbiosamente la
colonna con la statua della Vergine Maria, costruita nel 1648 in cen-

30
S. Bottoni, Un altro Novecento, cit., p. 35, il quale rileva che laddove le mi-
noranze costituivano almeno il 20% della popolazione, esse avevano il diritto di uti-
lizzare la propria lingua nella scuola e nelle altre istituzioni pubbliche. Allo stesso
tempo, Bottoni nota che non mancarono forme di prevaricazione da parte statale,
quali la censura della stampa tedesca e ungherese critica verso le autorità.
31
A. Orzoff, Battle for the Castle, cit., p. 62. Sulla violenza iconoclasta verso i
simboli del governo asburgico, si veda N. Wingfield, Conflicting Constructions of Me-
mory: Attacks on Statues of Joseph II in the Bohemian Lands after the Great War, in
Austrian History Yearbook, 28, 1997, pp. 147-171 (doi: 10.1017/S0067237800016362).
32
Una sintesi della questione e della bibliografia in lingua slovacca in L. Hromják,
Benedetto XV e la Cecoslovacchia, cit.
33
La mancata concessione dell’autonomia, il “pragocentrismo” dello Stato e l’at-
tivismo del partito popolare slovacco guidato dal sacerdote cattolico Andrej Hlinka
concorrono a spiegare la genesi della proclamazione di indipendenza slovacca alla
fine degli anni Trenta, secondo F. Caccamo, La Cecoslovacchia al tempo del sociali-
smo reale, cit., pp. 223-224.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 47

tro a Praga come ringraziamento per la fine della guerra dei Trent’anni
e per la salvezza della città. Due giorni prima oltre 300.000 persone
avevano tenuto un pellegrinaggio laico di orgoglio nazionale ed an-
tiasburgico presso la Montagna Bianca. Secondo un importante ec-
clesiastico locale, monsignor Sedlák, il vandalismo alla statua mariana
di Praga derivava dall’erronea ma evidentemente persuasiva convin-
zione da parte della folla che la statua stessa fosse stata costruita in
segno di disprezzo verso il popolo boemo34. Un altro sacerdote ce-
coslovacco, di cui il nunzio a Vienna Teodoro Valfrè di Bonzo però
non farà il nome, gli scriverà una lettera dal cui tono il diplomatico
vaticano avrà modo di persuadersi di quanto fosse disilluso in quel
momento lo stato d’animo degli ecclesiastici locali, consapevoli di
quanto la religione cattolica fosse ampiamente considerata come la
«ancilla Imperii». E quanto all’episodio della statua mariana, questo
sacerdote lo interpreterà come un atto di ribellione alla gerarchia ec-
clesiastica, più che come mero sfregio alla religione35.
L’avversione ai simboli cattolici, accompagnata ad una furia ico-
noclasta verso le tracce del passato asburgico36, non risparmierà gli
arredi sacri nelle chiese, i crocifissi nelle scuole ed altre statue della
Madonna e di San Giovanni Nepomuceno37, il cui culto veniva da

34
Jan Nepomuk Sedlák in quel momento era ausiliare di Praga durante l’assenza
forzosa dell’arcivescovo Huyn (si veda infra). Il suo resoconto, parte di un più am-
pio rapporto in latino inoltrato pochi giorni dopo i fatti al nunzio apostolico a
Vienna, Teodoro Valfrè di Bonzo, verrà reso noto alla Santa Sede in un dispaccio
che Valfrè stesso inviava il 25 novembre al cardinale Segretario di Stato, Pietro Ga-
sparri. Il documento è edito in M. Šmíd, M. Pehr, J. Šebek, P. Helan (eds.), Česko-
slovensko a Svatý stolec. vol. 3: Diplomatická korespondence a další dokumenty (1917-
1928). Výběrová edice, Masarykův ústav a Archiv Akademie věd ČR, v.v.i., Praha
2015 [in seguito: ČSS, vol. 3], doc. 6 (pp. 34-35).
35
«Dejectio statuae B.M.V. non erat tam signum odii contra cultum B.M.V. quam
signum odii contram Hyerarchicam servitutem Imperii»: il passaggio si trova nella
copia della lettera scritta da questo anonimo ecclesiastico cecoslovacco al nunzio Val-
frè, e da questi allegata al suo rapporto a Gasparri del 1° dicembre 1918. Cfr. S.RR.SS.,
AA.EE.SS., Austria-Ungheria III, pos. 1320, fasc. 519, ff. 24r-33r (f. 29v).
36
Wingfield, in polemica con Heimann, sostiene che la furia iconoclasta si sa-
rebbe scagliata meno contro i simboli cattolici e molto di più contro insegne in te-
desco ed aquile bicipiti asburgiche. Si veda la recensione citata alla nota 25.
37
In una sintesi retrospettiva, che è imprecisa almeno per quanto riguarda la data
del vandalismo contro la statua mariana (indicata nel 7 novembre invece che nel 3
novembre) un corrispondente anonimo dell’importante rivista romana dei gesuiti
identificherà con sarcasmo tali atti come «i primi frutti della libertà». Cfr. Ceco-Slo-
vacchia (Nostra corrispondenza), in La Civiltà Cattolica, quaderno 1698, 19 marzo

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48 Oliver Panichi

molti considerato un emblema della Controriforma e dunque certa-


mente sostituibile con quello di Hus38. Gli abbandoni di massa del
cattolicesimo da parte di gruppi di soldati avvenivano spesso e pro-
prio in occasione del loro servizio d’ordine per processioni e ceri-
monie religiose39. La grande permeabilità all’ideologia ussita da parte
dei combattenti nazionali ed i molti casi di conversioni all’ortodos-
sia erano del resto qualcosa che si era già visto durante gli anni della
guerra presso le legioni cecoslovacche in Russia40.
Quanto alle gerarchie ecclesiastiche, il caso dell’arcivescovo di Praga
Pavel Huyn è particolarmente indicativo. Mentre il prelato si trovava
in visita pastorale a Cheb nei primi giorni dell’indipendenza nazio-
nale, alla Santa Sede venivano giungendo notizie inquietanti che ne
sconsigliavano apertamente il ritorno nella capitale. Essendo questi un
aristocratico di cultura tedesca41, Huyn era infatti diventato una figura

1921, pp. 563-569 (p. 567): «Nel seguente anno, 1919, furono depredate dei sacri ar-
redi più di trecento chiese, e circa cinquecento statue della Madonna e di S. Gio-
vanni Nepomuceno furono abbattute nottetempo; fu tolto il Crocifisso da circa 1600
scuole».
38
Fin dalle prime settimane dall’indipendenza, si era parlato di abolire la festa
del 16 maggio per San Giovanni Nepomuceno ed istituire la festa di Hus il 6 lu-
glio, anniversario del suo rogo. Ne dava notizia il nunzio Valfrè, chiedendosi ama-
ramente: «Tutto ciò avviene quando è ancora al potere la frazione cosiddetta degli
intellettuali; che cosa si potrebbe sperare se un giorno venissero al potere gli ele-
menti estremi?». Cfr. S.RR.SS., AA.EE.SS., Austria-Ungheria III, pos. 1320, fasc.
519, Valfrè a Gasparri, Vienna 8 dicembre 1918, ff. 34r-37v (f. 35v).
39
Tali eventi vengono descritti da Valfrè in un rapporto a Gasparri del 6 giugno
1919, edito in ČSS, vol. 3, doc. 20, p. 95. Nel 1921 il nunzio apostolico a Praga
Clemente Micara insisterà sull’accanimento verso le statue di San Giovanni Nepo-
muceno da parte degli «anticlericali», notando che gli autori degli atti vandalici erano
«gente che le autorità assicurano essere rimasta finora ignota». Tuttavia, notava il
nunzio, nella cattolicissima Slovacchia era di recente avvenuto un sollevamento po-
polare contro gli iconoclasti. Cfr. S.RR.SS., AA.EE.SS., Cecoslovacchia III, pos. 2,
fasc. 2, Micara a Gasparri, Praga 17 maggio 1921, ff. 34r-35v (f. 35r).
40
Sulla laicizzazione del culto di San Venceslao, prima della guerra, e sulle suc-
cessive conversioni di massa all’ortodossia da parte della brigata ceco-slovacca in
Russia nel 1916, con la quasi contestuale adozione di simboli ussiti ordinata nel 1917
dallo stesso Masaryk, si veda E. Hrabovec, La Rivoluzione russa e la genesi della
Ceco-Slovacchia, cit., pp. 70-74.
41
Nato a Brno (Brünn in tedesco) in Moravia, aveva studiato a Innsbruck e poi
alla Gregoriana a Roma. Tipico esponente dell’alto clero nelle terre ceche del pe-
riodo asburgico, il suo bilinguismo ceco-tedesco era stato considerato positivamente
in vista della proposta del suo nome alla Santa Sede da parte del governo austriaco
per l’arcidiocesi di Praga nel 1916. Cfr. A. Gottsmann, Rom und die nationalen

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 49

particolarmente sgradita all’opinione pubblica e, come notarono in se-


guito i cardinali riuniti a Roma nella Congregazione degli Affari Ec-
clesiastici Straordinari del 28 giugno 1919, il prelato «venne a trovarsi
in una assai difficile situazione». Nel novembre precedente infatti il
Padre generale della Compagnia di Gesù, il polacco Ledóchowski,
aveva avvertito il nunzio a Vienna Valfrè di Bonzo del fatto che
«Mons. de Huyn era considerato negli ambienti ceki come “straniero-
tedesco”, ed anzi come una creatura del passato governo austriaco. La
sua permanenza a Praga venne, quindi, prospettata alla S. Sede come pe-
ricolosa per la stessa Chiesa, potendo essa condurre ad un rinvigorimento
dell’Ussitismo, che in Boemia si tende a considerare come la religione
nazionale»42.

Ritenendo opportuno adottare una linea prudente, la Santa Sede


per mezzo di Valfrè si era adoperata fin da subito per convincere
Huyn a prolungare il suo soggiorno fuori Praga in attesa di tempi
migliori43, cosa che egli fece riparando prima in Baviera e poi in Sviz-
zera, quando anche fra i dignitari ecclesiastici a lui più vicini era già
conclamata l’opinione che il suo ritorno sarebbe stato inattuabile.
Troppi i nemici che l’arcivescovo si era fatto in patria, sia per lo zelo
antimodernista che aveva già dimostrato nel suo precedente incarico
episcopale a Brno44, sia «perché non possiede bene la lingua ceca» e

Katholizismen in der Donaumonarchie. Römischer Universalismus, habsburgische Rei-


chspolitik und nationale Identitäten 1878-1914, Österreichische Akademie der Wis-
senschaften, Wien 2010, p. 344, pp. 340-341. Come vedremo a breve, la sua reale
padronanza della lingua ceca verrà poi messa in discussione.
42
Il passaggio fa parte del verbale della Sessione cardinalizia del 28 giugno 1919,
nel quale la vicenda Huyn, per come era stata affrontata dalla Santa Sede, dai suoi
inviati diplomatici e dal clero di Praga, viene riassunta dettagliatamente. Il docu-
mento è edito in P. Helan, J. Šebek, Československo a Svatý stolec. vol. 2/1: Kon-
gregace pro mimořádné církevní záležitosti (1919-1925). Výběrová edice dokumentů,
Masarykův ústav a Archiv Akademie věd ČR, v.v.i., Praha, 2013, doc. 2, pp. 31-32.
43
Era questo il senso delle istruzioni contenute nel telegramma inviato da Ga-
sparri a Valfrè il 10 novembre ’18, edito in ČSS, vol. 3, doc. 4.
44
Nel 1908, durante la repressione degli orientamenti modernisti nel clero catto-
lico di tutto il mondo, legata all’enciclica di Pio X Pascendi, Huyn era stato l’unico
vescovo boemo ad ammettere alla Santa Sede la presenza di idee liberali presso il pro-
prio clero, vantando però la propria opera di correzione della “retta fede”. Si veda
O. Weiß, Reports from the non-German Speaking Parts of Austria-Hungary, in C.
Arnold, G. Vian (eds.), The Reception and Application of the Encyclical Pascendi. The
Reports of the Diocesan Bishops and the Superiors of the Religious Orders until 1914,
Edizioni Ca‘ Foscari-Digital Publishing, Venezia, 2017, pp. 109-119 (p. 112).

© Edizioni Scientifiche Italiane ISBN 978-88-495-4334-6


50 Oliver Panichi

da parte del popolo e di molta parte del clero veniva considerato


«principalmente uno strumento della dominazione austriaca»45.
Al netto della lettura molto critica verso il fermento religioso ceco,
del resto naturale dal loro punto di vista, uomini come Valfrè e Tor-
ricella esprimevano anch’essi una sconfessione del sistema di rapporti
fra Chiesa e Stato in epoca asburgica. Almeno su ciò, dunque, due
esponenti di rilievo della Santa Sede erano nei fatti d’accordo con
Masaryk46. Più in generale, tali atteggiamenti si inserivano nel qua-
dro degli orientamenti di un pontificato, quello di Benedetto XV, che
già durante la guerra aveva dato segno di riconoscere come giuste le
aspirazioni dei popoli all’autodeterminazione47.
Il nunzio a Vienna nei suoi rapporti dopo la fine della guerra av-
vertiva sovente della diffusa identificazione fra dominio austriaco e
Chiesa cattolica48. Peraltro già negli anni del conflitto aveva avuto
modo di criticare l’ingerenza della Monarchia asburgica nelle nomine
episcopali, che a suo dire aveva prodotto vescovi che rappresentavano
lo Stato più che la Chiesa. Non ci si poteva stupire del fatto che la
popolazione li identificasse come aristocratici più vicini alla politica
che alle sollecitudini pastorali49. Quanto a Torricella, questi si era
espresso in un modo che lasciava poco spazio ad ambiguità. «Non

45
È la ricostruzione fornita da Valfrè dopo aver compiuto una inchiesta presso
il clero cecoslovacco. Cfr. ČSS, vol. 3, doc. 6, cit., pp. 33-34.
46
I pronunciamenti di Masaryk sul tema sono molteplici. Basterà qui citare il
suo messaggio del 15 novembre ’18 alla National Alliance of Bohemian Catholics di
Chicago, nella quale annuncia che la futura regolazione dei rapporti fra Cecoslo-
vacchia e Santa Sede avrà lo scopo di rimuovere «the Austro-Hungarian abuse of
religion by the State». Una copia del documento è conservata presso gli archivi va-
ticani ed è stata edita in ČSS, vol. 3, doc. 5.
47
L. Hromják, Benedetto XV e la Cecoslovacchia, cit., p. 823.
48
Si veda ad esempio la valutazione circa la religione utilizzata dal cessato Stato
asburgico «come mezzo per la sua politica», contenuta nel già citato rapporto di
Valfrè a Gasparri del 1° dicembre 1918, anche edito in ČSS, vol. 3, doc. 9, (p. 53).
49
L. Hromják, Benedetto XV e la Cecoslovacchia, cit., p. 824. Interessante a que-
sto proposito la valutazione ex post offerta da La Civiltà Cattolica nel 1922, par-
lando del secondo tentativo di ritorno dell’ex imperatore Carlo in Ungheria e del
mancato supporto dei cattolici cecoslovacchi: «La vecchia Austria-Ungheria non aveva
in realtà che una vernice di cattolicismo, ma non era cattolica nell’anima; la Chiesa
cattolica era pel governo di Vienna uno strumento politico pei suoi fini tra gli slavi,
a gravissimo danno della Chiesa». Certo, notava il redattore gesuita, nella nuova re-
pubblica «la Chiesa soffre e deve combattere, ma con ciò lo spirito cattolico si ri-
desta e si rinvigorisce». Cfr. Cecoslovacchia (Nostra corrispondenza), in La Civiltà
Cattolica, quaderno 1722, 18 marzo 1922, pp. 562-569 (p. 565).

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 51

si potrà trovare nella storia recente della Chiesa cattolica pagina di


servilismo più schietto», scriveva infatti a proposito della nomina di
Huyn a Praga nel 1916, nella quale aveva avuto luogo una «inge-
renza sfacciatamente volgare del Governo»50. Nella condizione pre-
sente, consigliava alla Santa Sede di adottare «una politica saggia ten-
dente a far conoscere che la Chiesa non era libera e che la Santa Sede
il più delle volte doveva subire in silenzio le imposizioni dello Stato»51.
Stava proprio nello sfavore verso i vescovi del passato regime la
motivazione, secondo Torricella, che aveva fatto scaturire nel clero
boemo il desiderio di sottoporre le lettere pastorali episcopali alla
propria censura preventiva:
«Quest’ultimo punto […] può sembrare strano. Invece non è che la rea-
zione dell’orgoglio nazionale ceco, più volte ferito da frasi scritte e stam-
pate da Vescovi che molto volentieri dimenticavano di essere tali per ri-
cordarsi solamente di essere uomini politici»52.

Il rapporto fra i cattolici cecoslovacchi (clero e fedeli) e l’indi-


pendenza nazionale è un nodo problematico non banale. Certo, c’e-
rano stati i dignitari ecclesiastici pro-austriaci e ancora fino agli ul-
timi giorni della Monarchia c’erano giornali cattolici dall’orientamento
non indipendentista. Però il dire che i cattolici fossero ostili alla nuova
repubblica suona oggi più come un argomento propagandistico del-
l’epoca che come un dato di fatto. Il clero boemo già il 3 settembre
’18 aveva definito l’indipendenza come un atto di giustizia divina. Le
associazioni cattoliche degli emigrati negli Usa avevano supportato
Masaryk e Beneš53. Il partito popolare cecoslovacco, emanazione del
cattolicesimo politico locale, fin dai suoi esordi aveva cercato di scrol-
larsi di dosso lo stigma di austrofilia ed anche prima di entrare nella
compagine di governo nel 1921 aveva voluto porsi come forza pa-
triottica, aderente all’idea cecoslovacchista, cercando pragmaticamente
di limitare i danni delle leggi ultra laiche in discussione ed allo stesso
tempo di avversare le forze socialiste più radicali54.

50
S.RR.SS., AA.EE.SS., Austria-Ungheria III, pos. 1320, fasc. 519, cit., ff. 69-70.
51
Ibi, f. 74.
52
Ibi, f. 69
53
K. Skalický, The Vicissitudes of the Catholic Church in Czechoslovakia, 1918
to 1988, in N. Stone, E. Strouhal (eds.), Czechoslovakia: Crossroads and Crises, cit.,
pp. 297-324 (p. 299).
54
M. Trapl, Political Catholicism and the Czechoslovak People’s Party in Cze-
choslovakia, 1918-1938, Columbia University Press, New York 1995.

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52 Oliver Panichi

Il clero cattolico aveva ritrovato fin da subito una propria forma


di rappresentanza collettiva attraverso la Jednota (in ceco, “Unione”)55,
riproposizione della quasi omonima associazione che era stata di-
sciolta d’ufficio nel 1907 dalle autorità ecclesiastiche nell’ambito della
repressione antimodernista. La nuova Jednota si era costituita il 7 no-
vembre del 1918, dopo aver proclamato che ogni opposizione da parte
dell’arcivescovo Huyn non sarebbe stata rispettata. Dai documenti
vaticani emerge chiaramente che il successore temporaneo di Huyn
e più in generale i vescovi cecoslovacchi avevano acconsentito alla ri-
costituzione di Jednota per evitare guai maggiori, cioè per depoten-
ziare le già evidenti propensioni riformatrici dei suoi aderenti, stimati
in tre quarti del clero ceco56, e ciò nonostante il fatto che la Santa
Sede avesse dato il permesso soltanto alla creazione di associazioni
del clero a livello diocesano e non invece nazionale57.

4. Dalla riforma alla ribellione. – Il clima nel quale rinasceva Jed-


nota era complesso. C’era l’entusiasmo patriottico, principalmente, del
quale i sacerdoti si sentivano pienamente partecipi, non da ultimo
proprio perché si percepivano come vittime della diffusa equazione
fra religione e Austria, tanto da aver sviluppato anche una sensazione
di inadeguatezza e di marginalizzazione in una società che, specie in
Boemia era altamente secolarizzata per il tempo. Il patriottismo inol-
tre si innestava sulle derivazioni delle idee moderniste di inizio se-
colo. Le spinte ad adeguare la Chiesa ai tempi nuovi trovavano poi
nella fine dell’impero una sorta di atmosfera palingenetica58. La ri-

55
Il suo nome completo era Jednota českého katolického duchovenstva (Unione
del clero cattolico Ceco).
56
E. Hrabovec, Reformbestrebungen der tschechischen Priester, cit., p. 344.
57
La documentazione vaticana contiene molteplici riferimenti al fatto che i ve-
scovi locali avevano tollerato la rinascita di Jednota per evitare ulteriori ribellioni del
clero, sperando che ciò avrebbe moderato i riformatori. Cfr. ad esempio il dispac-
cio di Valfrè da Vienna a Gasparri dell’8 febbraio 1919 in S.RR.SS., AA.EE.SS., Au-
stria-Ungheria III, pos. 1351, fasc. 541, ff. 71r-74v (f. 72r). In una riunione dei ve-
scovi cecoslovacchi nel gennaio 1920, pochi giorni dopo lo scisma, i prelati chiesero
a monsignor Josef Doubrava, amministratore apostolico di Praga al tempo della rifon-
dazione di Jednota, come mai egli avesse consentito alla rifondazione stessa. Il re-
soconto della discussione dato dal futuro nunzio Micara è assai vivido: «[Doubrava]
assicurò, con le lacrime agli occhi, che si era ingannato e che era stato ingannato».
Cfr. ČSS, vol. 3, doc. 33, (p. 158).
58
Su tali aspetti, cfr. E. Hrabovec, Reformbestrebungen der tschechischen Prie-
ster, cit., pp. 341-349.

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 53

bellione alle gerarchie ecclesiastiche, densa di coloriture politiche,


traeva anche linfa dalla preoccupazione del basso clero per le proprie
condizioni materiali. Fin dalla nascita della repubblica infatti si era
cominciato a parlare di riforme agrarie e di secolarizzazione dei beni
ecclesiastici e ciò, notava Valfrè, poteva spingere i sacerdoti «di meno
spirito» a temere per il proprio sostentamento futuro59, in un conte-
sto economico nazionale ancora piegato dalla tempesta bellica60.
È stato notato che il fervore rivoluzionario dell’autunno ’18 aveva
raccolto attorno a Jednota un gruppo molto eterogeneo. C’erano ve-
scovi e canonici che avevano aderito per prevenire ribellioni più ra-
dicali e poi c’erano anche degli elementi che avevano parlato di sci-
sma già tempo prima. Fra i due poli, una maggioranza di ecclesia-
stici che volevano marcare una cesura con i rapporti Stato-Chiesa del-
l’era asburgica e provavano un entusiasmo anche un po’ indetermi-
nato verso l’idea di rendere la Chiesa più al passo con i tempi61.
In questa atmosfera di entusiasmo ed al tempo stesso di diso-
rientamento, ecclesiastici quali Bohumil Zahradník-Brodský62 stavano

59
Accenni alla questione nei rapporti del nunzio a Vienna inviati al Segretario
di Stato Gasparri il 25 novembre ed il primo dicembre ’18. Cfr. rispettivamente ČSS,
vol. 3, doc. 6 (pp. 39-40) e doc. 9 (p. 53).
60
L’inviato diplomatico italiano a Praga, Mario Lago, era dell’opinione che la
condizione economica misera della quale il basso clero cecoslovacco si lamentava di-
pendeva «non tanto dalla scarsità delle prebende quanto dall’aumento vertiginoso del
carovivere». Cfr. ASMAE, AP 1919-30, busta 932, fasc. Czecoslovacchi, Lago a Son-
nino, Praga 2 marzo 1919. Il ligure Mario Lago nel 1922 verrà nominato governa-
tore del Dodecaneso, carica che manterrà fino al 1936. Cfr. G. E. Visone, s.v. “Lago,
Mario”, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 63, Istituto della Enciclopedia
Italiana, Roma 2004, URL: < http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-lago_(Dizio-
nario-Biografico)/>.
61
E. Hrabovec, Reformbestrebungen der tschechischen Priester, cit., p. 344. Em-
blematico della chiave di lettura data da Valfrè è ancora il suo rapporto a Gasparri
dell’8 dicembre 1918: molti sacerdoti erano «tutti presi dal sentimento della nazio-
nalità, amanti della popolarità malsana, pronti ad accogliere tutto ciò che si presenta
loro sotto le spoglie di modernità e di progresso»; i vescovi ed il clero non rifor-
matore, scrive ancora Valfrè, devono «per motivi di prudenza, usare di una condotta
piena di dolcezza, di persuasione, di dissimulazione, affine di evitare una rottura do-
lorosa ed irreparabile che, però, le idee e la maniera di agire di quelli fanno temere
con sempre maggiore ragione». Cfr. S.RR.SS., AA.EE.SS., Austria-Ungheria III, pos.
1320, fasc. 519, f. 36r.
62
Sacerdote e romanziere (Brodský era lo pseudonimo assunto in questa veste),
fra 1919 e 1924 operava anche come referente per la sezione ecclesiastica presso il mi-
nistero dell’Istruzione: in un rapporto a Valfrè, il canonico praghese Karel Kašpar (che
nel 1935 diventerà cardinale) faceva notare come il ministro che lo aveva nominato,

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54 Oliver Panichi

riuscendo a spingere Jednota verso la posizione più radicale, che con-


sisteva nel richiedere da Roma una democratizzazione nel governo
delle diocesi (la già citata possibilità di censura preventiva da parte
dei sacerdoti alle lettere pastorali vescovili, ed inoltre l’elezione dei
vescovi da parte del clero e dei fedeli) e l’adozione di misure per un
allentamento della disciplina ecclesiastica (abolizione del divieto di
avere la barba; permesso di non indossare il collare sacerdotale). In-
fine richiedevano anche ciò che si poteva ben immaginare avrebbe
trovato il no più fermo da parte di Roma: l’abolizione del celibato
ecclesiastico obbligatorio. Scrivendo al cardinale Gasparri, il canonico
Kašpar commenterà le rivendicazioni dei riformatori usando due ar-
gomenti che si troveranno spesso nelle analisi giunte in Vaticano, cioè
che la richiesta di abolire il celibato avrebbe rappresentato una sorta
di sanatoria richiesta da sacerdoti già concubinari e che la prepara-
zione teologica del clero locale lasciava a desiderare63.
Pochi giorni dopo la ricostituzione di Jednota, Bohumil Zahradník-
Brodský aveva inviato una circolare a tutto il clero boemo e moravo
(sacerdoti in cura d’anime, clero regolare, pensionati) per avere il loro
consenso a portare avanti queste richieste, definite non come un as-
salto al dogma, ma come un «accomodamento di cose che erano e
sono ancora una sorgente di amarezza e di disgusto per centinaia e
migliaia di anime sacerdotali»64.
Da un rapporto inviato a fine gennaio 1919 da un informatore
polacco, il prelato Casimiro Skirmunt, la Santa Sede apprenderà che
un’ulteriore istanza del clero riformatore era la richiesta di revisione
per il processo canonico contro Hus65. Nella piattaforma program-

Gustav Habrman, fosse un «sommo nemico della Chiesa» (cfr. ČSS, vol. 3, doc. 17,
rapporto del 2 febbraio 1919, p. 81). Il fratello di Bohumil, Isidor Zahradník, era un
padre Premostratense, diventato ministro delle Ferrovie nel primo governo della re-
pubblica. Nel suo già citato rapporto, il generale Segre parlerà di quest’ultimo nei se-
guenti termini: «Versato in studi storici. Fu a lungo a Roma e parla correntemente ita-
liano». Cfr. ASMAE, AP 1919-30, busta 932, fasc. Czecoslovacchi, cit., f. 7.
63
Quanto all’abolizione del celibato, Kašpar scriveva che lo chiedevano solo co-
loro «i quali non habent ordinarie bonam famam». Sulla preparazione culturale de-
gli ecclesiastici boemi, affermava che «il clero è da magna parte assai ignorante nelle
cose divine». Cfr. ČSS, vol. 3, doc. 12, Kašpar a Gasparri, 13 dicembre 1918, p. 61.
64
Cfr. la circolare inviata al clero cecoslovacco da Zahradník-Brodský, nella tra-
duzione realizzata da un informatore del nunzio Valfrè e da questi inviata in Vati-
cano il primo dicembre ’18. Cfr. S.RR.SS., AA.EE.SS., Austria-Ungheria III, pos.
1320, fasc. 519, ff. 30r-33r (f. 32v).
65
Skirmunt, inoltre, riferiva il passaggio di un discorso del ministro Isidor Zah-

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 55

matica pubblicata nell’aprile 1919, i riformatori delineavano l’idea di


una chiesa nazionale, che usasse il ceco nella liturgia e fosse larga-
mente indipendente da Roma, una realtà che avrebbe rimpiazzato il
principio gerarchico con un modello democratico, ispirato alle chiese
Protestanti, e fondato su un sistema di concili ecclesiastici locali dalle
competenze molto ampie66.
La Santa Sede intanto usava il canale diplomatico per tutelare gli
interessi ecclesiastici dai progetti di legge che miravano alla separa-
zione fra Chiesa e Stato. Alla fine di febbraio del ’19 Valfrè, ancora
nella sua qualità di nunzio a Vienna, visitava Praga ed incontrava Ma-
saryk. La necessità di sostituire i vescovi germanizzati e magiarizzati
si era ormai imposta ma, secondo Lago, «la difficoltà principale sem-
bra sia nel trovare tra il clero czeco prelati non compromessi col vec-
chio regime e sufficientemente preparati»67. Sempre da un rapporto
dell’incaricato d’affari italiano, notiamo come questi avesse appreso
direttamente da Masaryk quale fosse l’attitudine del governo ceco-
slovacco verso il movimento riformatore religioso:
«Egli [Masaryk] afferma anzi di sapere da sicuri rapporti che i quattro
quinti del clero condivide [sic] questo modo di pensare […] mi ha detto
di credere che il Governo potrebbe con una lieve spinta far trionfare
questo movimento inteso alla creazione di una chiesa nazionale scisma-
tica. Egli però è di avviso che il Governo non debba immischiarsi in si-
mile materia finché è possibile»68.

radník («la Chiesa Cattolica deve cambiare ed adattarsi al tempo nuovo. Essa non
deve essere un corpo estraneo ma un corpo nazionale») e, pochi giorni dopo, il me-
desimo con informatore paventava alla Santa Sede il rischio concreto di uno scisma.
Per i passaggi dei suoi rapporti del 30 gennaio e del 3 febbraio 1919, cfr. rispetti-
vamente S.RR.SS., AA.EE.SS., Austria-Ungheria III, pos. 1351, fasc. 541, f. 53r e e
56r. Nel secondo rapporto, scriverà icasticamente: «Si ripetono proprio i tempi di
Lutero e di Hus, ed abbiamo di nuovo il caso di una rivoluzione religiosa stretta-
mente unita ad un’altra.
66
E. Hrabovec, Reformbestrebungen der tschechischen Priester, cit., pp. 346-347.
67
ASMAE, AP 1919-30, busta 932, fasc. Trattazione generale, Lago al ministero
degli Esteri, Praga 28 febbraio 1919.
68
Ibi, fasc. Czecoslovacchi, Lago a Sonnino, Praga 2 marzo 1919. Da una nota
apposta dai funzionari del ministero degli Esteri italiano in un foglio presente in
questa cartella, si apprende che tale rapporto (assieme ad altri sui medesimi temi)
giunse verosimilmente a conoscenza del Vaticano, essendo stato inoltrato al barone
Carlo Monti, direttore del Fondo per il Culto e tramite ufficioso in quegli anni fra
il Governo italiano e la Santa Sede, oltre che conoscente diretto per ragioni biogra-
fiche di Papa Benedetto XV.

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56 Oliver Panichi

Lago, poi, aveva avuto modo di parlare anche con Valfrè durante la
sua visita di questi a Praga. A giudizio del nunzio, il clero radicale era
meno numeroso di quanto sostenesse Masaryk. «Anche limitatamente
al clero di nazionalità ceca (circa i due terzi della totalità) egli [Valfrè]
calcola che i sacerdoti disposti alla ribellione non superino le poche cen-
tinaia»69. In quei giorni il diplomatico italiano seguiva con particolare
attenzione la vicenda. Da un suo successivo rapporto apprendiamo che
Valfrè aveva incontrato Isidor Zahradník e gli aveva detto che la Santa
Sede avrebbe preferito lo scisma, piuttosto che fare delle concessioni sul
celibato. Parlandone con Lago, Zahradník aveva poi paventato che «po-
trebbe accadere che, in un giorno determinato, alcune centinaia di sa-
cerdoti cecoslovacchi, contraggano matrimonio, e che il Governo li man-
tenga nell’esercizio del loro ufficio, mentre non verrebbe a mancar loro
il favore dei fedeli»70. Nel novembre ’19, prima dunque dello scisma,
Zahradník chiederà all’abate di Strahov (autorità del monastero Premo-
stratense del quale faceva parte) di venire ridotto allo stato laicale e di
poter contrarre matrimonio in chiesa. Dai rapporti spediti al cardinale
Gasparri da parte di monsignor Clemente Micara, da poche settimane
inviato della Santa Sede in Cecoslovacchia e poi nunzio dal settembre
192071, sappiamo che Zahradník il 23 dicembre ’19 contrarrà matrimo-
nio civile con la donna con la quale conviveva da tempo e che uno dei
testimoni della cerimonia era stato il generale francese Pellé. Un fatto,

69
Ibidem. Che l’incaricato d’affari del governo italiano avesse avuto uno scam-
bio di idee con un nunzio pontificio non era un fatto così scontato. Secondo le
istruzioni date dalla Santa Sede ai suoi rappresentanti all’estero nel 1888, richiamate
ancora nel 1922 dalla Segreteria di Stato, i nunzi dovevano ben guardarsi dallo strin-
gere «relazioni compromettenti» con gli inviati diplomatici italiani all’estero. I con-
tatti ufficiali dovevano essere evitati, «restringendo le relazioni private con essi nei
limiti del solo necessario». Cfr. Archivio Apostolico Vaticano [in seguito: AAV],
Arch. Nunz. Jugoslavia, busta 2, «Istruzioni per Monsignor Ermenegildo Pellegri-
netti, Arcivescovo tit. di Adana. Nunzio Ap. in Belgrado», f. 96r.
70
ASMAE, AP 1919-30, busta 932, fasc. Czecoslovacchi, Lago a Sonnino, Praga
4 marzo 1919, f. 2.
71
Micara era stato inviato a Praga nell’ottobre ’19 in qualità di rappresentante della
Santa Sede presso l’episcopato cecoslovacco. Considerando che ancora non erano state
stabilite relazioni diplomatiche ufficiali fra Cecoslovacchia e Santa Sede, la presenza di
Micara testimoniava della rilevante importanza attribuita da parte di quest’ultima alla
situazione. Cfr. E. Hrabovec, Reformbestrebungen der tschechischen Priester, cit., pp.
361-362. Per un profilo biografico ed una bibliografia sul prelato, cfr. Clemente Mi-
cara, Kritische Online-Edition der Nuntiaturberichte Eugenio Pacellis (1917-1929), URL:
<www.pacelli-edition.de/gnd/101908865> (consultato il 11/6/2019).

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 57

quest’ultimo, che secondo Micara confermava che la Francia stava eser-


citando «un’influenza ostile alla Chiesa»72.
Ma torniamo alla primavera del ’19. È questo infatti il periodo nel
quale i sacerdoti riformatori decidevano di presentare le proprie richie-
ste direttamente a Roma e di farlo in persona. Delle spese per il viag-
gio e dei preparativi diplomatici si sarebbe occupato il governo di Praga,
su spinta del ministro Habrman73. Il memorandum presentato al Papa
ed al cardinale Gasparri dai quattro sacerdoti delegati di Jednota a fine
giugno insisteva sul riconoscimento dell’identità nazionale cecoslovacca
nel campo della religione cattolica, con una enfatica e per certi versi stru-
mentali rilettura della propria vicenda storica a partire dagli evangelizza-
tori del IX secolo Cirillo e Metodio. Nello specifico, venivano richiesti
l’uso della lingua nazionale durante la liturgia, la sostituzione dei vescovi
tedeschi e magiari, il riconoscimento all’arcivescovo di Praga del titolo
di Primate, con un patriarcato dall’autonomia molto ampia. La Santa
Sede in effetti avrebbe poi accordato dei permessi per l’uso della lingua
nazionale nel canto del Vangelo e dell’Epistola durante la Messa solenne74
e si era pur mostrata conciliante – e continuerà ad esserlo – anche per
la questione dei nuovi vescovi, pur rifiutando ogni ingerenza di Jednota
e del governo di Praga nella scelta dei nomi, in quanto ciò avrebbe sur-
rettiziamente riprodotto sotto altre vesti le interferenze del periodo. Ma
lo status di Primate per l’arcivescovo di Praga sarebbe stata una con-
cessione al nazionalismo cecoslovacco del tutto inaudita e non poteva
venir considerata. Dell’abolizione del celibato ecclesiastico, ancor di più,
Santa Romana Chiesa non era disposta nemmeno a parlare75. Le frasi
pronunciate da Benedetto XV in una lettera al nuovo arcivescovo di
Praga del 29 gennaio 1920 lo chiariranno a posteriori:

72
La vicenda del matrimonio di Isidor Zahradník è documentata in S.RR.SS.,
AA.EE.SS., Austria-Ungheria III, pos. 1361, fasc. 546, ff. 44r-50v (citazione al f. 48r).
73
Su tale supporto governativo e più in generale sulla missione di Jednota a
Roma, maggiori dettagli in E. Hrabovec, Reformbestrebungen der tschechischen Prie-
ster, cit., pp. 353-355.
74
Ceco-Slovacchia (Nostra corrispondenza), in La Civiltà Cattolica, quaderno
1698, 19 marzo 1921, p. 567.
75
Sbagliando macroscopicamente valutazione, Lago informerà Nitti del fatto che
la Santa Sede era invece disposta a trattare sul celibato, grazie al particolare argomento
utilizzato da Jednota: quello cioè per cui con l’annessione alla Cecoslovacchia dei ter-
ritori abitati dai ruteni greco-cattolici, la presenza nel loro clero di sacerdoti sposati e
la convivenza nel medesimo territorio con i sacerdoti cattolici latini e celibi avrebbero
rinvigorito «la propaganda scismatica degli estremisti». Cfr. ASMAE, AP 1919-30, bu-
sta 932, fasc. Trattazione generale, Lago a Nitti, Praga 18 luglio 1919.

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58 Oliver Panichi
«A tale proposito è superfluo che Noi qui ripetiamo come la S. Sede
non possa in alcun modo acconsentire alle riforme in senso cosiddetto
democratico che alcuni vorrebbero introdurre nella Chiesa. Né parimenti
la S. Sede potrà mai addivenire ad una abolizione od anche ad una mi-
tigazione della legge del celibato ecclesiastico, che della Chiesa latina co-
stituisce la gloria più pura»76.

Prima di inviare la propria delegazione a Roma, Jednota poteva


contare su un punto a suo favore nella sfida per una abolizione de
facto del celibato ecclesiastico. La legge che aveva appena istituito il
matrimonio civile in Cecoslovacchia, infatti, veniva interpretata da
Valfrè come una misura di favore per coloro che fra il clero inten-
devano sposarsi. Tanto più che il governo aveva assicurato ai sacer-
doti ribelli di mantenerli nei loro impieghi pubblici, pur di fronte a
ingiunzioni vescovili di segno contrario77.
L’esito della missione a Roma era giudicabile in vario modo da parte
dei sacerdoti di Jednota. Si erano ottenute delle concessioni, certo, ma
sui punti maggiormente radicali si stava comprendendo che non era
possibile trattare. Man mano che il movimento diventava più audace,
si approfondiva la differenza fra la situazione in Boemia e Moravia e
quella in Slovacchia, territorio quest’ultimo dove la secolarizzazione
della società era stata quasi inesistente e dunque la polemica contro il
cattolicesimo trovava ben poco terreno fertile78. Gli errori commessi
dai cechi in Slovacchia, secondo Mario Lago, erano stati macroscopici
«anche perché nient’affatto necessari. Continue e sciocche le manife-
stazioni di miscredenza da parte di ogni ordine di funzionari». Quanto
agli ordini di festeggiare Jan Hus, ciò era un ulteriore motivo che creava

76
Per la citazione della lettera papale cfr. I recenti movimenti religiosi nella Czeco-
slovacchia, in L’Osservatore Romano, 18 febbraio 1920.
77
Valfrè esprime tali valutazioni nel suo rapporto a Gasparri del 6 giugno 1919,
edito in ČSS, vol. 3, doc. 20, (p. 94). Sulle intenzioni del governo di tutelare i sa-
cerdoti che si sarebbero staccati da Roma, si veda anche ASMAE, Archivio della Le-
gazione di Praga, busta 3 anno 1919, fasc. 202-b Questioni religiose in Cecoslovac-
chia, Lago a Sonnino, Praga 3 giugno 1919 (minuta).
78
Su questi temi all’interno della letteratura storiografica in lingua italiana ri-
mandiamo a E. Hrabovec, La Santa Sede, il governo cecoslovacco e gli slovacchi
(1918-1939) ed a L. Hromják, Il Kulturkampf in Cecoslovacchia alla luce della let-
tera pastorale dei vescovi slovacchi del 1924, entrambi in M. Valente (ed.), Santa Sede
ed Europa centro-orientale tra le due guerre mondiali. La questione cattolica in Ju-
goslavia e in Cecoslovacchia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, rispettivamente pp.
243-272 e pp. 273-286.

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 59

distacco fra lo Stato, la sua ideologia ed il basso clero slovacco, men-


tre le invocazioni di maggiore autonomia per la Slovacchia diventavano
sempre più forti79. Che il problema fosse percepito come evidente lo
confermava Masaryk stesso che, in un passaggio di un discorso di ri-
sposta all’arcivescovo di Olomouc sul tema della legge per la separa-
zione fra Stato e Chiesa, esprimeva rincrescimento per i casi nei quali
fosse stato offeso il sentimento religioso della popolazione80.
Intanto nella parte finale del 1919 acquisiva sempre maggiore cen-
tralità la questione della nomina del nuovo arcivescovo di Praga. Co-
lui che il 26 ottobre sarebbe stato designato nel ruolo precedente-
mente occupato da Huyn era un ecclesiastico che da molti veniva
considerato non abbastanza patriota81, cioè il deputato all’Assemblea
Nazionale František Kordač.
Il 3 gennaio del 1920 Benedetto XV scriverà una lettera al nuovo
arcivescovo, per comunicargli di riunire in assemblea l’episcopato
boemo nella seconda metà di febbraio al fine di analizzare accurata-
mente la situazione e poi decidere se si fosse potuto rimettere Jed-
nota «sulla retta via» o se piuttosto si fosse dovuto ordinare lo scio-
glimento dell’associazione, «qualora essa persista nel proposito di
riforme che la Santa Sede non potrà mai accordare»82. Tuttavia la riu-
nione dell’episcopato avrebbe dovuto fare i conti con un fatto che il
pontefice non poteva prevedere quando scriveva la sua lettera, cioè
con lo scisma formalmente dichiarato dai riformatori cecoslovacchi

79
ASMAE, AP 1919-30, busta 932, fasc. Trattazione generale, Lago a Nitti, Praga
15 settembre 1919.
80
ASMAE, Archivio della Legazione di Praga, busta 3 anno 1919, fasc. 202-b
Questioni religiose in Cecoslovacchia, il viceconsole Iginio Ugo Faralli al ministero
degli Esteri, Praga 6 novembre 1919 (minuta). Vi si legge anche che «una delle cause
più gravi di malcontento in Slovacchia è appunto il contegno sprezzamenre antire-
ligioso dei militari, dei funzionari e dei maestri cechi».
81
La valutazione era contenuta in un rapporto di Mario Lago, nel quale il di-
plomatico italiano rettificava quanto aveva scritto il 18 luglio a proposito della (ir-
reale) disponibilità della Santa Sede a trattare sul celibato ecclesiastico, spiegando
come monsignor Micara appena arrivato a Praga aveva fin da subito negato le voci
circa un presunto atteggiamento morbido da parte di Gasparri. Cfr. ibi, Lago a Nitti,
Praga 18 settembre 1919 (minuta). Circa l’ottimismo esagerato diffuso dai sacerdoti
tornati dalla missione a Roma, nelle parole di Micara stesso, cfr. AAV, Arch. Nunz.
Cecoslovacchia, busta 5, fasc. 19, «Relazione finale Missione Mgr. Micara», 9 giugno
1923, ff. 51-166 (f. 68).
82
La versione in italiano della lettera papale si trova in S.RR.SS., AA.EE.SS., Ce-
coslovacchia III, pos. 2, fasc. 2, ff. 6r-8r. Il testo in latino si trova in Acta Apostoli-
cae Sedis, 12, 1920, Typis Polyglottis Vaticanis, Roma, pp. 33-35.

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60 Oliver Panichi

l’8 gennaio 1920 a Praga e con la contestuale fondazione della


Chiesa Nazionale Cecoslovacca. La riunione, che secondo Micara
aveva visto la presenza di 300 sacerdoti, era cominciata celebrando
una Messa in lingua ceca alla presenza del ministro delle Poste
František Staněk, che intervenendo fra gli applausi dichiarava di es-
sere lì solo a titolo personale, pur se avrebbe usato la sua influenza
nel Governo a favore del movimento riformatore83. Fra gli oratori
dell’assemblea, notava Micara, c’erano coloro che proponevano di
procedere alle riforme ed ai matrimoni dei sacerdoti per via di fatto,
ma senza dichiarare lo scisma. A sostenere queste posizioni c’era
anche un iscritto del partito popolare cattolico. Ma tali posizioni
per così dire concilianti venivano contestate dall’ala più radicale,
che votava di procedere allo scisma con una maggioranza di 140
voti contro 66. Micara, con intento polemico, sosteneva poi che a
Praga, città estremamente secolarizzata, l’evento non aveva riscosso
certo l’eco prevista. Coloro che applaudivano allo scisma, notava
il diplomatico pontificio, erano «quasi esclusivamente gente senza
fede e non è quindi con tali elementi che i riformisti possono spe-
rare di fondare una nuova Chiesa». Quanto ai sacerdoti, molti dei
quali secondo Micara non erano più celibi già da anni, «sono piut-
tosto dei materialisti, alieni da qualunque vita religiosa, incapaci di
un sacrificio per qualunque Chiesa»84. Quanto al governo cecoslo-
vacco, in questa relazione Micara fornisce un esempio del suo tra-
vagliato rapporto con Beneš, che qui come in altri momenti si man-
teneva in bilico fra la volontà di mantenere buoni rapporti con la
Santa Sede («mi autorizzò a dire che il Governo intende rimanere
del tutto estraneo al movimento riformista») ed un atteggiamento
simpatetico verso i riformatori, paventando perciò difficoltà nel fa-
vorire i vescovi che volessero rimuovere gli scismatici dai posti che
occupavano85.
Scrivendo al futuro ambasciatore cecoslovacco presso la Santa Sede,
del resto, Beneš nel febbraio del ’20 affermava esplicitamente che «la
chiesa democratizzata e nazionalizzata non potrà mai essere così pe-

83
Sulla fondazione della Chiesa Nazionale Cecoslovacca, molto dettagliato è il
resoconto inviato da Micara a Gasparri il 10 gennaio 1920, edito in ČSS, vol. 3, doc.
31, pp. 142-152.
84
Ibi, p. 148.
85
Ibi, pp. 149-150.

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Genesi culturale e politica di uno scisma religioso 61

ricolosa per lo Stato come la chiesa assolutisticamente guidata da una


potenza ultramontana e straniera»86.
Una settimana dopo l’avvenuto scisma, il Sant’Uffizio emetterà il
decreto di scomunica verso i sacerdoti fondatori della nuova chiesa87.
Era l’esito del processo messo in moto dalle idee e dalle azioni che
in questo saggio abbiamo discusso limitandoci al periodo 1918-1920,
cioè alla fase fondativa di questo movimento religioso innestato su
una particolare visione di una storia nazionale. Le tensioni fra Santa
Sede e Cecoslovacchia non finivano certo qui. Al panorama sociale
di un popolo fortemente secolarizzato, specie in Boemia e Moravia,
presso il quale l’adesione alla nuova chiesa era un’opzione disponi-
bile al pari del totale ateismo, si sarebbe continuata ad accompagnare
una relazione diplomatica turbata da una serie di fattori che qui pos-
siamo solo accennare: i progetti legislativi di separazione tra Stato e
Chiesa; la secolarizzazione delle scuole; gli edifici ecclesiastici catto-
lici contesi dalla nuova chiesa; la riforma agraria; i festeggiamenti del
1925 in onore di Jan Hus, che causò il richiamo a Roma del nunzio
Marmaggi e la sospensione dei rapporti diplomatici.
In Cecoslovacchia la Santa Sede affrontava dunque una serie di
problemi spinosi che la chiamavano in causa sia come autorità reli-
giosa nei confronti di una società ipersecolarizzata, sia come attore
diplomatico nei confronti di uno Stato nuovo, desideroso di tagliare
tutti i ponti con “l’antico regime” di un mondo che si riteneva su-
perato per sempre da una democrazia progressista e liberale.
Sotto la guida di Benedetto XV, la Chiesa aveva affrontato con
consapevolezza il radicale cambio di paradigma nell’Europa sconvolta
dalla guerra. La fine degli imperi multinazionali e l’emancipazione di
popoli come quello cecoslovacco avevano annunciato tempi nuovi e
riproposto ai vertici della Chiesa universale quello spinoso intreccio
fra religione, costruzione delle idee nazionali e nazionalismi che si
era affacciato già nei decenni precedenti, per rimanere nel quadrante
dell’Europa centro-orientale e sud-orientale.
In Cecoslovacchia, come abbiamo visto, la linea di faglia lungo la
quale si era scatenata l’energia del cambiamento era proprio la reli-
gione. Questa importante dimensione della vita collettiva era stata

86
La citazione e la traduzione in italiano del documento rinvenuto negli archivi
cecoslovacchi si trova in L. Hromják, Benedetto XV e la Cecoslovacchia, cit., p. 826.
87
Decreto pubblicato in Acta Apostolicae Sedis, 12, 1920, Typis Polyglottis Va-
ticanis, Roma, p. 37.

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62 Oliver Panichi

giudicata, per quanto concerneva il cessato regime, come uno stru-


mento della politica. Tale meccanismo andava superato.
Alcune rivendicazioni del clero cecoslovacco, per certi versi, erano
anticipatorie (si pensi alla questione della lingua nazionale nella li-
turgia). Allo stesso tempo, non può sfuggire che i riformatori ceco-
slovacchi, nel loro anelito di tagliare i ponti con il passato asburgico
e con il suo modo di intendere il connubio fra religione e Stato, ab-
biano privilegiato proprio l’aspetto politico. Volendo espellere lo Stato
dalla religione si sono comunque rivolti alla politica, seppur cambiata
di segno. La comunità ecclesiale da loro fondata aveva ritenuto cioè
di non poter prescindere dall’appoggio di uno Stato, in questo caso
la Repubblica cecoslovacca88. Giudicavano evidentemente che i valori
liberali e democratici da questa incarnati potessero costituire ragione
sufficiente per non avvertire tale contraddizione. L’universalismo della
Chiesa romana, per i riformatori cecoslovacchi, non aveva una por-
tata religiosa, ma era la mera manifestazione della volontà di intro-
missione di una potenza straniera nelle questioni nazionali.

88
A proposito di tale linea interpretativa, ci sembrano convincenti le argomen-
tazioni fornite da Emilia Hrabovec, da ultimo in un saggio pubblicato mentre il pre-
sente lavoro era in corso di stampa. Cfr. E. Hrabovec, La Santa Sede e la nuova
Cecoslovacchia: problemi e sfide nel contesto transnazionale, in M. Agostino (ed.),
Santa Sede e cattolici nel mondo postbellico 1918-1922. Raccolta di Studi nel cente-
nario della conclusione della Prima Guerra Mondiale, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano, 2020, pp. 49-75. L’autrice afferma che nonostante la propria «autode-
finizione laica o laicista», il governo di Praga «cominciò subito ad arrogarsi gli stessi
diritti verso la Chiesa considerata un instrumentum regni sui generis» (cfr. p. 54: il
paragone viene compiuto in riferimento al periodo asburgico).

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Fabrizio Politi
LA NASCITA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
AUSTRIACA E LA TUTELA DELLE LIBERTÀ
NELLA COSTITUZIONE AUSTRIACA DEL 1920

1. La nascita della Corte costituzionale austriaca quale «risposta


tecnica» alla tensione fra Bund e Länder nel nascente federalismo au-
striaco e quale «erede» del Reichsgericht asburgico. – La Corte costi-
tuzionale (Verfassungsgerichtshof) austriaca nasce, nella Costituzione
del 1920, quale risposta alla principale questione politico-istituzionale
che si poneva in quel momento costituente e rappresentata dalla in-
dividuazione di adeguati equilibri fra Bund e Länder nella nascente
Repubblica federale. Al tempo stesso va rilevato che la creazione di
tale organo costituisce anche l’esito di un processo storico-politico
avviatosi già nella seconda metà del secolo precedente. È in questo
quadro che va collocata l’opera, a sua volta decisiva, di Hans Kelsen
che dirà appunto di aver dato, nella redazione di tale costituzione, il
suo maggiore contributo proprio con riguardo alla disciplina della
Corte costituzionale.
La ricostruzione storica degli eventi – e del sottostante quadro po-
litico – che portarono all’approvazione della Costituzione del 1920
dimostra che, nel biennio che va dall’ottobre 1918 all’ottobre 1920,
l’instaurazione di una giustizia costituzionale si pose agli attori di
quel processo non come «coronomento razionale» di una normati-
vische Stufenbau, bensì come soluzione concreta alla questione rela-
tiva agli equilibri interni del nascente Stato federale. Nella neonata
Repubblica infatti elevata era la tensione fra Bund e Länder in ra-
gione della rivendicazione, da parte di questi ultimi, del riconosci-
mento di una loro «statualità», peraltro già affermata (sia pure con
le modalità peculiari individuate nell’Impero asburgico, v. infra) du-
rante gli ultimi decenni dell’Impero austro-ungarico.
Nel frangente storico immediatamente successivo alla fine della
prima guerra mondiale, caratterizzato da una scelta (il passaggio dal-
l’Impero alla Repubblica) di netta rottura con il passato, si registra

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64 Fabrizio Politi

anche – come spesso avviene nei decisivi tornanti della storia – un’in-
fluenza non secondaria proprio del preesistente quadro normativo-co-
stituzionale come consolidatosi in particolare negli ultimi decenni del
diciannovesimo secolo. A tale proposito i più significativi documenti
costituzionali sono quelli ricompresi sotto la denominazione di De-
zemberverfassung (unitamente ad alcuni altri a questi antecedenti ed
intimamente legati) tramite i quali la monarchia asburgica dava (o aveva
cercato di dare) risposta, da un lato, alle istanze di autonomia prove-
nienti dai vari territori dell’Impero (in primis, ma non solo, l’Unghe-
ria) e, dall’altro lato, a quelle «domande di libertà» così care all’ideo-
logia liberale ottocentesca e che si concretizzavano nel riconoscimento
di una sfera di libertà individuali e della tutela giudiziaria dei diritti.
Con l’espressione Dezemberverfassung si indicano sei atti norma-
tivi di rango costituzionale (tutti denominati Grundgesetz, «leggi fon-
damentali»)1, redatti dal «Comitato costituzionale del Reichsrat au-
striaco» e adottati con un’unica «sanzione» da parte dell’imperatore
Francesco Giuseppe il 21 dicembre 18672.
La legge n. 141 del 21 dicembre 1867, Das Gesetz vom 21. De-
zember 1867, wodurch das Grundgesetz über die Reichsvertretung
vom 26. Februar 1861 abgeändert wird, era l’unica componente della
«Costituzione di dicembre» a non introdurre una «nuova legge», ma
apportava significative modifiche al Grundgesetz über die Reichsver-
tretung del 26 febbraio 1861 (c.d. Februarpatent) e proclamava il ri-
conoscimento dei diritti storici delle popolazioni dell’impero, confer-
mava l’impianto bicamerale del parlamento imperiale (Reichsrat) e ri-
conosceva potestà legislativa alle Diete territoriali (a vantaggio delle
quali operava anche il principio di residualità).

1
Le sei leggi fondamentali erano: 1) «Das Gesetz vom 21. Dezember 1867, wo-
durch das Grundgesetz über die Reichsvertretung vom 26. Februar 1861 abgeändert
wird»; 2) «Das Staatsgrundgesetz vom 21. Dezember 1867 über die allgemeinen Re-
chte der Staatsbürger für die im Reichsrathe vertretenen Königreiche und Länder»;
3) «Das Staatsgrundgesetz vom 21. Dezember 1867 über die Einsetzung eines Rei-
chsgerichts»; 4) «Das Staatsgrundgesetz vom 21. Dezember 1867 über die richterli-
che Gewalt»; 5) «Das Staatsgrundgesetz vom 21. Dezember 1867 über die Ausü-
bung der Regierungs- und Vollzugsgewalt»; 6) «Das Gesetz vom 21. Dezember 1867
über die allen Ländern der österreichischen Monarchie gemeinsamen Angelegenhei-
ten und die Art ihrer Behandlung» (Delegationsgesetz).
2
Sulla Dezemberverfassung v. P. Costanzo, 21 dicembre 1867-21 dicembre 2017.
L’ultimo colpo d’ali dell’imperial-regio governo Una Costituzione non «senza qua-
lità», in Consulta online, 2017.

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La nascita della Corte costituzionale austriaca 65

La legge fondamentale n. 142, Staatsgrundgesetz über die allge-


meinen Rechte der Staatsbürger, poneva un «catalogo di diritti fon-
damentali», confermando la fine di ogni diritto feudale e proclamava
il principio di eguaglianza formale; tale «legge fondamentale» rico-
nosceva «diritti eguali» per le varie nazionalità dell’Impero che pur
mantenevano le rispettive peculiarità; erano in particolare proclamate
la libertà personale e l’inviolabilità del domicilio, la segretezza della
corrispondenza, la libertà di circolazione, il diritto di riunione e di
associazione, la libertà di manifestazione del pensiero, di stampa, di
fede religiosa, di ricerca scientifica e di insegnamento, nonché la tu-
tela della proprietà privata (dichiarata inviolabile, salva la possibilità
di esproprio per motivi di interesse generale e nei casi e modi pre-
visti dalla legge)3.
La «legge fondamentale» n. 143, Staatsgrundgesetz über die Ein-
setzung eines Reichsgericht istituiva il Tribunale dell’Impero (Reich-
sgericht), chiamato a giudicare sui conflitti di giurisdizione tra giudici
ordinari e amministrativi, sui conflitti di competenza tra autorità giu-
diziaria e autorità amministrative, sui conflitti di attribuzione tra Land
e autorità governativa e tra Länder (più precisamente tra Diete ter-
ritoriali e amministrazione centrale, o tra i governi dei diversi Län-
der dell’Impero, tra il Reichsrat ed i governi o le Diete dei Länder
e tra questi ultimi). Era inoltre concessa ad ogni cittadino la possi-

3
Tale legge costituzionale sarà mantenuta in vigore nell’ordinamento repubbli-
cano da parte della Costituzione del 1920 (art. 149) e poi anche nella Costituzione
federale del 1929 e poi (in ragione del Verfassungs-Überleitungsgesetz del 1° maggio
1945) nelle fonti costituzionali austriache del secondo dopoguerra (e sarà abrogata
con la «legge federale di adeguamento della legge costituzionale» BGBl. I n. 2/2008,
approvata il 5 dicembre 2007, con la quale i testi della costituzione austriaca sono
stati oggetto di risistemazione). L’art. 149 dispone che «Devono essere considerate
come leggi costituzionali…
– la legge fondamentale del 21 dicembre 1867 sui diritti generali dei cittadini;
– la legge del 27 ottobre 1862 sulla tutela della libertà individuale;
– la legge del 27 ottobre 1862 sulla tutela del domicilio;
– la deliberazione dell’Assemblea nazionale provvisoria del 30 ottobre 1918;
– la legge del 3 aprile 1919 concernente l’esilio e la confisca dei beni della dina-
stia Absburgo-Lorena;
– la legge del 3 aprile 1919 sulla soppressione della nobiltà, degli ordini secolari
cavallereschi e femminili, e di determinati titoli e dignità;
– la legge dell’8 maggio 1919 sullo stemma e il sigillo di Stato…
– la sezione V della terza parte del trattato di Saint-Germain del 10 settembre
1919».

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66 Fabrizio Politi

bilità di proporre ricorso per la tutela dei diritti elencati nella «legge
fondamentale n. 142».
Con la «legge fondamentale» n. 144, Staatsgrundgesetz über die
richterliche Gewalt, che affermava il principio di separazione tra po-
tere giudiziario e potere esecutivo, venivano garantite l’indipendenza
del potere giudiziario, l’oralità e la pubblicità delle udienze. Tale legge
fondamentale escludeva espressamente il potere dei giudici ordinari
di pronunciarsi sulla validità delle leggi.
Con la «legge fondamentale» n. 145, Staatsgrundgesetz über die
Ausübung der Regierungs- und Vollzugsgewalt, viene disciplinato il
ruolo costituzionale dell’imperatore con elencazione delle immunità
e dei poteri a questo riservati.
Con la legge fondamentale n. 146 (Gesetz über die allen Ländern
der österreichischen Monarchie gemeinsamen Angelegenheiten und die
Art ihrer Behandlung), denominata anche Delegationsgesetz, viene
consolidato il contenuto dell’Österreichisch-Ungarischen Ausgleich del
12 giugno 1867 (Gesetzesartikel XII), che aveva riconosciuto all’Un-
gheria (quale «unità statale») un’importante autonomia (con parla-
mento bicamerale e governo parlamentare).
L’assetto complessivo della Dezemberverfassung delineava dunque
un ordinamento costituzionale in cui al principio della sovranità del-
l’imperatore si accompagnavano, da un lato, l’affermazione di im-
portanti forme di autonomia ai vari territori dell’Impero e, dall’altro
lato, il riconoscimento ai cittadini di un catalogo di diritti fonda-
mentali unitamente alla proclamazione del principio di legalità e del-
l’indipendenza del potere giudiziario cui era affidata la garanzia della
tutela dei diritti ma anche delle forme di autonomia dei territori del-
l’Impero4.

4
P. Costanzo, op. ult. cit., sottolinea come le modifiche introdotte dalla De-
zemberverfassung abbiano inciso «sulla stessa natura della monarchia asburgica», giac-
ché «si passò […] da una monarchia unica per tutti i territori dinastici della casa
d’Austria ad una c.d. doppia monarchia basata sull’unione personale della Corona
imperiale austriaca e di quella regia ungherese in capo allo stesso Francesco Giu-
seppe (incoronato re magiaro nel 1867). Su un simile rimescolamento istituzionale,
si scommise in effetti nel tentativo di mantenere intatto il ruolo di Vienna nel con-
certo delle Potenze europee con l’eliminazione del più deleterio fattore di crisi in-
testina, ossia la vocazione centripeta dell’Ungheria. Tuttavia, l’intesa a due rinfocolò
le ambizioni anche delle altre nazionalità presenti: circostanza destinata a costituire,
dopo la sconfitta austriaca nella Prima Guerra Mondiale, la pietra tombale dell’im-
pero multietnico in nome del cd. diritto di autodeterminazione dei popoli messo al-
l’ordine del giorno al tavolo della pace».

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La nascita della Corte costituzionale austriaca 67

Se il nuovo assetto giudiziario conferma la supremazia del prin-


cipio di legalità, il carattere rigido delle «leggi fondamentali» costi-
tuenti la Dezemberverfassung (per la modifica delle quali sarebbe stata
necessaria una maggioranza qualificata) rappresenta un significativo
sintomo di una maturazione dell’idea della superiorità delle norme
costituzionali rispetto alla legge e del necessario rispetto da parte di
quest’ultima della fonte di grado superiore con il conseguenziale ruolo
del Reichsgericht nell’applicazione della fonte di grado costituzionale
in caso di conflitto fra governo centrale e Länder.
Da questo punto di vista, la Dezemberverfassung viene a costi-
tuire un’importante premessa anche alla Costituzione del 1920 la
quale, oltre a confermare quale «legge costituzionale» la «legge fon-
damentale» n. 142 (Staatsgrundgesetz über die allgemeinen Rechte der
Staatsbürger) relativa ai diritti fondamentali del cittadino, consolida
l’impianto federale già emergente dalla Dezemberverfassung e, per
quanto interessa ai nostri fini, assegna al Verfassungsgerichtshof il ruolo
(già delineato con riguardo al Reichsgericht) di organo giurisdizionale
chiamato a pronunciarsi sui conflitti di attribuzione fra Bund e Län-
der e fra Länder (secondo la logica dello Staatsgerichtsbarkeit) cui la
Costituzione del 1920 aggiunge la prima forma di Verfassungsgeri-
chtsbarkeit (v. infra).

2. Le competenze del Verfassungsgerichtshof nel quadro della Co-


stituzione austriaca del 1920 e la nascita dell’idea del controllo di co-
stituzionalità della legge. – La Costituzione del 1920 proclama l’Au-
stria «una repubblica democratica» (art. 1) ed «uno Stato federale»
(art. 2) formato «dai Länder» (art. 3). È stato più volte sottolineato
che tale Costituzione si caratterizza, da un lato, per la istituzione di
un federalismo «debole» (di cui pone una dettagliata e minuziosa di-
sciplina) e, dall’altro lato, per l’istituzione di una Corte costituzio-
nale, organo giudiziario chiamato – unitamente ad ulteriori compe-
tenze – non solo a risolvere i conflitti fra Bund e Länder ma anche
a pronunciarsi sulla conformità della legge alla costituzione (deter-
minando così il passaggio dalla Staatsgerichtsbarkeit al Verfassung-
sgerichtsbarkeit).
Con riguardo alla tutela delle libertà, la Costituzione del 1920 non
contiene alcun catalogo di libertà e l’art. 149 (penultimo articolo della
Costituzione medesima) assegnava la qualifica di «leggi costituzionali»
ad una serie di atti normativi precedenti fra cui alcune leggi adottate
nella seconda metà del diciannovesimo secolo e fra queste la «legge

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fondamentale del 21 dicembre 1867 sui diritti generali dei cittadini»


(ma anche «la legge del 27 ottobre 1862 sulla tutela della libertà in-
dividuale» e la «legge del 27 ottobre 1862 sulla tutela del domicilio»).
Con riguardo specifico alla struttura della Costituzione del 1920,
va rilevato che essa è incentrata sulle problematiche relative alla strut-
tura federale dello Stato. E così l’art. 4 affermava la unitarietà del ter-
ritorio federale, il divieto di «barriere doganali o altre limitazioni dei
traffici» all’interno del Bund e la precisazione che «Ogni cittadino
federale ha in ciascun Land gli stessi diritti e doveri dei cittadini del
Land stesso». Questa precisazione si rivelava necessaria giacché la
stessa Costituzione (all’art. 6) riconosceva, «per ciascun Land», una
«cittadinanza del Land», il cui acquisto «comporta l’acquisto della
cittadinanza federale» e con la specificazione che «i requisiti per l’ac-
quisto e la perdita della cittadinanza del Land sono eguali in ciascuna
Land». Inoltre l’art. 7 precisava che «tutti i cittadini del Bund sono
eguali davanti alla legge».
Gli artt. 10 e seguenti ponevano la disciplina di riparto delle com-
petenze fra Bund e Länder: l’elencazione delle materie cui sono as-
segnate al Bund sia l’attività legislativa che quella esecutiva (art. 10)5;

5
L’art. 10 prevede le seguenti materie:
«I - Costituzione federale, in particolare, elezioni al consiglio nazionale; refe-
rendum in base alla costituzione federale; giurisdizione costituzionale;
II - Affari esteri, compresa la rappresentanza politica ed economica nei confronti
dell’estero, e in particolare la stipulazione di tutti i trattati internazionali; delimita-
zioni di frontiera; scambi di merci e di bestiame con l’estero; dogane;
III - Polizia di frontiera; immigrazione ed emigrazione; passaporti; espulsione dal
territorio federale, estradizione e transito di persone soggette ad estradizione;
IV - Finanze federali, in particolare entrate pubbliche, che siano esclusivamente
o parzialmente da percepire per la Federazione; monopoli;
V - Materie monetarie e creditizie, Borse e banche; pesi e misure, determina-
zione del titolo e punzonatura dei metalli preziosi;
VI - Rapporti di diritto civile, compresa la disciplina delle associazioni econo-
miche; diritto penale, con esclusione delle norme di diritto penale amministrativo e
di procedura penale amministrativa, nei casi che rientrino nella sfera di attività au-
tonoma delle regioni; amministrazione della giustizia; giustizia amministrativa; diritto
d’autore; stampa; espropriazione in quanto non riguardi materie rientranti nella sfera
di azione autonoma delle regioni; attività dei notai avvocati e professioni connesse;
VII - Diritto di associazione e di riunione;
VIII - Disciplina dell’industria e della produzione industriale; agenzie pubbliche
e intermediazione privata; repressione della concorrenza sleale; brevetti e tutela dei
modelli, marchi di fabbrica ed altri contrassegni di commercio; attività degli avvo-
cati in materia di brevetti; disciplina degli ingegneri e tecnici civili; camere di com-
mercio e industria;

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La nascita della Corte costituzionale austriaca 69

l’elenco delle materie riguardo alle quali al Bund è assegnata la po-


testà legislativa ed ai Länder l’attività esecutiva (art. 11)6; l’elenco delle

IX - Comunicazioni, nei riguardi delle ferrovie, della navigazione marittima e


fluviale e di quella aerea; disciplina dei trasporti sulle strade che, per la loro impor-
tanza ai fini del traffico, sono state con legge federale dichiarate strade federali; po-
lizia fluviale e della navigazione; poste, telegrafi e telefoni;
X - Miniere; foreste e pascoli; diritto delle acque; regolarizzazione e manuten-
zione delle acque allo scopo di assicurarne il deflusso senza danni alluvionali delle
inondazioni o ai fini della navigazione e della fluitazione; arginatura di torrenti; co-
struzione e manutenzione delle vie acquee; normalizzazione e tipicizzazione de-
gl’impianti e dispositivi elettrici, e misure di sicurezza in questi settori: regolamen-
tazione delle linee ad alta tensione, in quanto gli elettrodotti si stendano in due o
più regioni; disciplina delle caldaie a vapore e degli apparecchi motori; agrimensura;
XI - Diritto del lavoro, tutela dei lavoratori e degli impiegati, eccezion fatta per
i lavoratori e gli impiegati dell’economia agricola e forestale; assicurazioni sociali e
private;
XII - Sanità, ad eccezione dei servizi mortuari e cimiteriali, nonché del servizio
sanitario dei comuni, e dell’attività di salvataggio, nonché degli stabilimenti di cura
e di assistenza, delle stazioni climatiche e delle sorgenti minerali, sotto il solo aspetto
della vigilanza sanitaria; assistenza veterinaria; alimentazione, compreso il controllo
dei generi commestibili;
XIII - Servizi scientifici e tecnici delle biblioteche; collezioni ed impianti artistici
e scientifici; tutela dei monumenti; affari di culto; censimenti e altre statistiche, in
quanto non servano unicamente agli interessi di singole regioni; fondazioni e lasciti
pubblici, sempre che si tratti di fondazioni e lasciti che per i loro scopi oltrepassino
la sfera di interessi di una regione e non siano stati finora amministrati in forma au-
tonoma dalle regioni;
XIV - Polizia e gendarmeria federale;
XV - Affari militari, questioni relative ai danni di guerra ed assistenza ai reduci
di guerra e ai loro superstiti; misure ritenute necessarie in caso di guerra, o in se-
guito alla medesima, per assicurare una guida unitaria dell’economia, e particolar-
mente in vista di assicurare il fabbisogno della popolazione;
XVI - Ordinamento delle autorità federali e degli altri funzionari federali; stato
giuridico degli impiegati federali».
6
L’art. 11 elenca le seguenti materie:
«I - Cittadinanza e indigenato;
II - Rappresentanze professionali, in quanto non rientrino sotto l’art. 10, ma ad
eccezione di quelle nel settore agricolo e forestale;
III - Le imposte che non spettano esclusivamente o parzialmente al Bund: di-
sposizioni tendenti ad impedire le doppie imposizioni o altri carichi eccessivi, gli
ostacoli alle comunicazioni economiche con l’estero fra le regioni, le tasse eccessive,
o che ostacolano la circolazione, sull’utilizzazione dei mezzi di comunicazione e dei
servizi pubblici e infine ogni pregiudizio alle finanze federali.
IV - Regime delle munizioni, delle polveri e degli esplosivi, nella misura in cui
essi non sono soggetti a monopolio;
V - Abitazioni popolari;

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materie per le quali al Bund è assegnata la competenza ad adottare


la sola legislazione di principio ed ai Länder «la legislazione com-
plementare e l’esecuzione» (art. 12)7. A future «leggi federali costitu-
zionali» vengono rimesse la disciplina delle attribuzioni del Bund e
dei Länder in materia di imposte (art. 13) e con riguardo alla scuola,
all’istruzione e alla cultura popolare (art. 14). La «clausola di resi-
dualità» (art. 15) opera a vantaggio dei Länder, ai quali è assegnata
(«nell’ambito della propria capacità legislativa») anche la competenza
ad emanare «le norme occorrenti nel campo del diritto penale e ci-
vile».
A livello federale il potere legislativo è assegnato al Nationalrat
(Consiglio nazionale, eletto, «secondo i principi della rappresentanza
proporzionale» dai cittadini di entrambi i sessi aventi venti anni di
età)8 «in unione» con il Bundesrat («Consiglio federale») i cui mem-
bri sono eletti dalle Diete di ciascun Land (in proporzione alla con-
sistenza della rispettiva popolazione e «secondo il principio generale
della rappresentanza proporzionale») per la durata delle rispettive le-
gislature, ma tali deputati «non devono necessariamente appartenere

VI - Procedura e procedura penale amministrative, ivi compresa l’attività esecu-


tiva, e le disposizioni generali del diritto penale amministrativo anche nelle materie
di competenza legislativa dei Länder».
7
L’art. 12 assegna al Bund la competenza per la «legislazione di principio» ed
ai Länder la competenza per «la legislazione complementare e l’esecuzione» nelle se-
guenti materie:
«I - Organizzazione dell’amministrazione;
II - Beneficenza pubblica; politica della popolazione; sanatori popolari; assistenza
alla maternità, ai lattanti e all’infanzia; case di salute e di riposo; stazioni climatiche
e sorgenti termali;
III - Istituzioni per la protezione sociale contro i delinquenti, gli individui ab-
bandonati ed altre persone pericolose, quali gli stabilimenti per i lavori forzati e si-
mili, foglio di via obbligatorio e espulsione da un Land in un altro;
IV - Organizzazioni pubbliche per la mediazione extra-giudiziaria nei conflitti;
V - Diritto del lavoro, e tutela dei lavoratori e degli impiegati, in quanto si tratti
di lavoratori ed impiegati nell’economia agricola e forestale;
VI - Riforma agraria, operazioni agrarie; colonizzazione interna;
VII - Tutela delle piante contro malattie e insetti nocivi;
VIII - Elettricità, per quanto non rientri sotto l’art. 10;
IX - Polizia stradale, in quanto non si riferisca a strade federali;
X - Stato giuridico dei dipendenti delle regioni, che svolgono funzioni pubbli-
che».
8
L’art. 31 prevede che «Le deliberazioni del Nationalrat non possono essere
prese, salvo disposizione contraria della presente Costituzione, che alla presenza di
almeno un terzo dei suoi membri e a maggioranza assoluta dei votanti».

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La nascita della Corte costituzionale austriaca 71

alla Dieta» (dovendo essere soltanto eleggibili alla stessa) (art. 35)9.
Gli artt. 41 e seguenti disciplinano la procedura legislativa e l’art. 56
dispone il divieto di mandato imperativo per i membri sia del Na-
tionalrat che del Bundesrat e a questi ultimi è riconosciuta l’immu-
nità conferita ai membri della Dieta che li ha eletti. Gli artt. 60 e se-
guenti disciplinano l’elezione e le competenze del Presidente del Bund,
del governo federale (eletto dal Nationalrat) e del cancelliere federale.
Nella seconda parte della Costituzione (artt. 82 ss.) si rinviene la
disciplina della funzione giurisdizionale (assegnata al Bund) e si spe-
cifica (art. 89) che i giudici non possono «giudicare della validità delle
leggi» e che nel caso di «dubbi circa l’applicazione di una disposi-
zione a motivo della sua incostituzionalità» il giudice «deve sospen-
dere il procedimento e richiedere al Verfassungsgerichtshof la cassa-
zione di tale disposizione». Gli artt. 95 e seguenti disciplinano il po-
tere legislativo ed esecutivo dei Länder esercitati rispettivamente dalle
Diete e dal governo regionale (eletto dalla rispettiva Dieta) e guidato
da un governatore. Si prevede un controllo preventivo da parte del
governo federale delle «deliberazioni legislative della Dieta», ed il giu-
dizio negativo del governo federale è superabile con una nuova de-
liberazione da parte della Dieta medesima.
Infine la Costituzione (nel titolo «Garanzie della Costituzione e
dell’amministrazione»), disciplina, nell’ordine, la Verwaltungsgericht-
shof («Suprema Corte amministrativa», artt. 129 ss.)10 – chiamata a
giudicare dei ricorsi contro gli atti delle autorità amministrative – e

9
L’art. 37 (in parallelo con quanto previsto dall’art. 31 per il Nationalrat) di-
spone che «Per ogni deliberazione del Bundesrat è necessaria, a meno che nella pre-
sente legge non sia altrimenti disposto, la presenza di almeno un terzo dei suoi mem-
bri e la maggioranza assoluta dei votanti».
10
La Costituzione precisa che dinanzi alla Suprema Corte amministrativa può
intentare ricorso chi si affermi leso «nei propri diritti dal provvedimento ammini-
strativo per irregolarità» o quanti «avessero il diritto di partecipare alla procedura
preparatoria dell’atto e vi hanno effettivamente partecipato, qualora invochino un
motivo di nullità previsto dalla legge o la violazione di norme imperative, qualora
cioè affermino che il contenuto dell’atto è in contraddizione con una proibizione o
una condizione previste dalla legge, oppure che detto atto è giuridicamente impos-
sibile». È inoltre prevista la possibilità di impugnativa del provvedimento ammini-
strativo da parte del «ministro federale competente» … allorché il ministro ritiene
lesi dall’atto dell’autorità del Land gli interessi del Bund. Sono esclusi dalla compe-
tenza del Verwaltungsgerichtshof (art. 130) «le questioni che rientrano nella compe-
tenza del Verfassungsgerichtshof» e «le questioni la cui decisione è di competenza
dei tribunali ordinari».

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72 Fabrizio Politi

il Verfassungsgerichtshof («Suprema Corte costituzionale», artt. 137 e


ss.) competente a pronunciarsi:
– sulle «azioni patrimoniali dirette contro il Bund, i Länder o i
comuni, che non possano essere presentate dinanzi ai tribunali ordi-
nari» e «sulle pretese pecuniarie avanzate in base ad un rapporto di
servizio di diritto pubblico da funzionari del Bund, dei Länder e dei
comuni»;
– sui conflitti di competenza: a) fra tribunali e autorità ammini-
strative; b) fra il Verwaltungsgerichtshof e tutti gli altri tribunali e con
la stessa Corte costituzionale; c) fra i Länder nonché fra un Land e
il Bund, stabilendo («su richiesta del governo federale o di un Land»)
«se un atto legislativo o amministrativo rientri […] nella competenza
del Bund o dei Länder»;
– sulla «illegalità di ordinanze delle autorità federali o di un Land»,
su richiesta di un’autorità giudiziaria o d’ufficio («qualora si tratti di
un’ordinanza che deve formare il presupposto di una sua pronun-
cia») o su richiesta del governo federale (per la illegalità delle ordi-
nanze delle autorità regionali) di un governo di un Land per «la il-
legalità delle ordinanze delle autorità federali»;
– sui ricorsi presentati contro provvedimenti delle autorità ammi-
nistrative, qualora il ricorrente affermi di esser stato leso in uno dei
suoi diritti tutelati costituzionalmente (art 144).
L’art. 140 assegna alla Corte costituzionale il potere di pronun-
ziare «sull’incostituzionalità delle leggi dei Länder a richiesta del go-
verno federale, sull’incostituzionalità delle leggi federali a richiesta di
un governo di un Land, ovvero d’ufficio, quando una legge formi il
presupposto di una delle sue sentenze». La relativa richiesta «può es-
sere presentata in qualsiasi momento» e la sentenza della Corte con
la quale una legge o una determinata parte di una legge viene an-
nullata come incostituzionale, «obbliga il cancelliere federale o il go-
vernatore del Land all’immediata pubblicazione dell’annullamento»
che «entra in vigore nel giorno della pubblicazione, a meno che la
Corte non stabilisca un termine per la cessazione della validità della
legge. Tale termine non può superare i sei mesi».
L’art. 141 assegna al Verfassungsgerichtshof la competenza anche a
decidere sulle contestazioni delle elezioni al Nationalrat, al Bunde-
srat, alle Diete dei Länder «e a tutte le altre assemblee rappresenta-
tive, e, su richiesta di una di queste assemblee, sulla dichiarazione
della perdita del mandato di uno dei suoi membri». Il successivo art.
142 disciplina la competenza penale della Corte costituzionale, chia-

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La nascita della Corte costituzionale austriaca 73

mata a pronunciarsi «sull’accusa con cui si ponga in atto la respon-


sabilità costituzionale dei supremi organi federali e regionali, per vio-
lazioni di cui si siano resi colpevoli nell’esercizio delle loro funzioni».
Tale accusa può essere elevata contro: a) il presidente federale («per
violazione della costituzione federale»): con deliberazione dell’As-
semblea federale; b) i membri del governo federale («per violazione
della legge») con deliberazione del Nationalrat; c) i membri dei go-
verni dei Länder («per violazione della legge») con deliberazione della
Dieta competente; d) i governatori dei Länder o i membri dei go-
verni dei Länder («per violazione della legge o per inosservanza delle
ordinanze e altre istruzioni delle autorità federali, in materia di am-
ministrazione federale indiretta») con deliberazione del governo fe-
derale.
Emerge così la centralità del ruolo del Verfassungsgerichtshof nelle
dinamiche dei rapporti sia fra i diversi livelli dello Stato federale sia
fra le istituzioni di governo di ciascuno dei predetti livelli. L’espressa
previsione del controllo di costituzionalità della legge va dunque col-
locata all’interno di questa impostazione e non appare (almeno ini-
zialmente) configurata come precipuo strumento di tutela delle libertà
del singolo ma piuttosto come strumento che assciura il rispetto del
riparto di competenze fra Bund e Länder.
L’idea della sottoposizione della legge (o degli atti adottati dal sog-
getto titolare di potere legislativo) ad un «controllo» esercitato da un
organo avente questa apposita funzione non è nuova nella storia11.
La novità delle giurisdizioni costituzionali del ventesimo secolo è rap-
presentata dalla assegnazione a siffatto controllo della natura giuri-
sdizionale, come farà esplicitamente Kelsen nel saggio del 1928. Ma
l’idea di un controllo giurisdizionale, volto a garantire la Costitu-
zione, matura in tutto il secolo precedente12.

11
Fin dall’antica Grecia abbiamo esempi di organi di controllo del potere legi-
slativo e di cui troviamo corrispondenza anche nell’Eforato proposto da Mario Pa-
gano nella costituzione napoletana del 1799!
12
Al riguardo v. J. Luther, Idee e storia di giustizia costituzionale nell’ottocento,
Giappichelli, Torino, 1989; è altrettanto noto che, a partire dagli inizi del dicianno-
vesimo secolo, a partire dalla sentenza Marbury v. Madison, negli Stati Uniti d’America
si afferma il controllo diffuso di costituzionalità. Per il dibattito dell’epoca v. G.B.
Ugo, Sulle leggi incostituzionali, Macerata, 1887 (e l’amplia bibliografia ivi citata). E
la dottrina da tempo ha sottolineato che l’affermazione del controllo giudiziario di
costituzionalità consegue al passaggio della nozione della costituzione da documento
politico (volto a porre il principio della limitazione del potere del monarca) a norma

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74 Fabrizio Politi

3. Il biennio costituente 1918-1920. Il ruolo dei partiti politici e dei


Länder nel passaggio dall’Impero alla Repubblica. – La conclusione
della prima guerra mondiale coincide, come noto, con la dissoluzione
della monarchia austriaca.
L’imperatore Carlo (succeduto nel 1916 a Francesco Giuseppe), il
16 ottobre 1918, tenta un ultimo salvataggio proclamando la trasfor-
mazione della parte austriaca dell’Impero in uno stato federale «ove
ogni popolo, nella propria zona di insediamento, darà vita ad un pro-
prio ordinamento statale». Ma era già stata avviata in altre parti del-
l’Impero – in particolare nelle zone non tedesche – la costruzione di
Stati autonomi13.
Il 21 ottobre 1918 i deputati elettivi del Reichsrat, provenienti dai
territori tedeschi della monarchia, si costituiscono in «Assemblea Na-
zionale provvisoria dello Stato autonomo austro-tedesco». Il giorno
successivo (22 ottobre 1918) una delegazione dei principali Länder
contesta a tale «Assemblea nazionale provvisoria» il potere di deci-
dere autonomamente sulla costituzione del nuovo Stato. Si pone così
fin dall’inizio della nascente Repubblica la tensione fra Bund e Län-
der e, proprio per il superamento di tale tensione, fondamentale sarà
il ruolo giocato da Karl Renner (leader dell’ala destra del partito so-
cial-democratico e Cancelliere federale a capo di un governo di coa-
lizione fra socialdemocratici e cristiano-sociali) e da Michael Mayr
(leader del partito cristiano-sociale, sottosegretario per la riforma della
costituzione nel gabinetto Renner e suo successore dal luglio 1920).
A questi, per i profili di tecnica giuridica, si affiancherà Hans Kel-
sen. Il successivo 30 ottobre viene adottata la «Delibera sugli organi
fondamentali dello Stato» con cui il «potere supremo» della «As-
semblea Nazionale provvisoria» e il potere di governo sono trasferiti
ad una «Giunta esecutiva» (Staatsrat).
L’11 novembre 1918 l’imperatore Carlo dichiara di riconoscere
«valida» ogni decisione inerente la futura forma dello Stato dell’Au-
stria, ma, come visto, nelle settimane precedenti si era già concretiz-
zata una situazione che vedeva l’esautoramento della monarchia e la
nascita dell’ordinamento repubblicano. Ed infatti il 12 novembre è

giuridica (di grado superiore alla legge); al riguardo v. G. Zagrebelsky, La giustizia


costituzionale, il Mulino, Bologna, 1989. E nella seconda metà del diciannovesimo
secolo proprio questa concezione sembra maturare progressivamente.
13
R. Walter, Hans Kelsen e le origini della costituzione federale austriaca del
1920, in Scienza e Politica, 1991, p. 29.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


La nascita della Corte costituzionale austriaca 75

emanata la «legge sulla forma di Stato e sulla forma di governo» con


la quale è proclamata la Repubblica. E con legge costituzionale del
14 novembre 1918 era riconosciuta la qualità di «Stati» ai Länder (le
cui Diete, nel frattempo si erano costituite in «Assemblee provviso-
rie»)14.
Prende dunque l’avvio un ordinamento costituzionale provvisorio,
che segna una rottura con la forma di Stato preesistente e l’inizio di
una nuova esperienza istituzionale.
Il 16 febbraio 1919 è eletta la «Assemblea Nazionale Costituente»,
chiamata a redigere la Carta costituzionale (risultato cui si giungerà
nell’ottobre del 1920) e che si riunisce per la prima volta il 4 marzo
1919. Durante i lavori preparatori della Costituzione, la Cancelleria
federale conferisce ad Hans Kelsen l’incarico di redigere «progetti
preparatori» da sottoporre ai Länder (alle «conferenze dei Länder»).
Kelsen ne prepara sei, sia pure tutti costruiti sulla base di uno schema
di fondo comune. La scelta di preparare più «progetti» favorì l’af-
fermarsi di una vicendevole predisposizione, da parte delle diverse
forze politiche in campo, a pervenire ad un accordo.
Il panorama politico si presentava articolato in tre schieramenti: il
partito social-democratico (espressione del c.d. «austromarxismo»), il
partito cristiano-sociale (ispirato ai temi della dottrina sociale catto-
lica ma con al proprio interno anche una corrente liberale) ed il par-
tito nazional-tedesco (di orientamento liberale, con accento naziona-
listico e che puntava all’annessione con la Germania). Se tutti e tre i
partiti si dichiaravano favorevoli alla repubblica e alla forma demo-
cratica dello Stato, le posizioni divergevano con riguardo al «tipo» di
federalismo da introdurre. Il partito cristiano-sociale sosteneva l’in-
troduzione di un ordinamento spiccatamente federale, mentre i so-
cial-democratici guardavano con timore il riconoscimento di una ec-
cessiva autonomia ai Länder ed il partito nazional-tedesco era favo-
revole ad una struttura di tipo federale come strumento favorevole
all’integrazione con la Germania.

14
S. Lagi, Kelsen e la Corte costituzionale austriaca: un percorso storico-politico
(1918-1920), in Giornale di storia costituzionale, 2006, I, p. 165 ss., sottolinea come
la contrapposizione fra Centro e Länder, che aveva rappresentato uno dei «trend»
della storia politica e costituzionale austriaca, venga ad esplodere nuovamente dopo
la fine della grande guerra; sul pensiero di Kelsen, v. S. Lagi, Il pensiero politico di
Hans Kelsen. Le origini di «Essenza e valore della democrazia», Genova, 2008. Nella
dottrina austriaca v. F. Ermacora, Österreichischer Föderalismus vom patrimonialen
zum kooperativen Bundesstaat, Brammüller, Wien, 1976.

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76 Fabrizio Politi

Bisogna inoltre aggiungere che la dialettica relativa al «tipo» di fe-


deralismo da instaurare, oltre ad attraversare trasversalmente anche i
partiti politici, vedeva un’incidenza significativa anche della burocra-
zia centrale timorosa di perdere i propri poteri.
E, oltre ai partiti politici presenti in Assemblea costituente, gio-
cano un ruolo decisivo anche i Länder ai quali già sotto la monar-
chia erano stati conferiti (quali «Länder della Corona») poteri legi-
slativi e poteri di «amministrazione territoriale autonoma». Fin dal-
l’ottobre 1918 i Länder cercano di ampliare la propria autonomia, ri-
vendicando maggiori poteri e questa posizione è sostenuta dai Län-
der durante l’intera fase costituente e, a questo proposito, va rilevato
che anche all’interno delle Diete di ciascun Land si riproduce la tri-
partizione partitica sopradescritta (cristiano-sociale, social-democra-
tico, nazionalisti) e la contrapposizione maggiore è proprio fra cat-
tolici (impegnati in una forte affermazione delle istanze autonomisti-
che dei Länder) e socialdemocratici (più «centralistici»).
Da queste dinamiche storico-politiche discende appunto la nascita
di un federalismo peculiare («debole») quale quello posto dalla Co-
stituzione austriaca del 1920.
Dal punto di vista dei contenuti, proprio per le distanze esistenti
fra i vari partiti, elevata fu l’attenzione dei costituenti ad evitare l’in-
serimento in Costituzione di disposizioni «impegnative» con riguardo
alla proclamazione di valori fondamentali. Infatti la Costituzione au-
striaca del 1920 si caratterizza, come più volte sottolineato dalla dot-
trina, per la grande attenzione alle procedure ed alla garanzia delle
stesse e alla non inclusione di disposizioni di principio relative a pro-
clamazioni di diritti o di «valori». Questa caratteristica ha portato
spesso la dottrina ad individuare in tale costituzione il riflesso (se non
l’applicazione) della idea kelseniana di costituzione (Grundnorm) quale
norma essenzialmente «procedurale», ma l’analisi delle vicende con-
crete che portarono alla Costituzione del 1920 evidenzia il peso delle
ragioni politiche di tale scelta che dipese dunque non da una visione
«teorica» ma appunto da concretissime ragioni storico-politiche.
Quest’ordine di riflessioni induce a riflettere anche sul nesso di
conseguenzialità fra la produzione teorica kelseniana e le opzioni con-
tenute nella Costituzione del 1920 giacché può spingere a ritenere
che proprio l’esperienza del biennio 1918-1920 abbia incentivato la
riflessione kelseniana verso quella visione del confronto parlamentare
quale momento di depurazione dello scontro politico ed a cui si ri-
vela funzionale la «costruzione «normativa» dell’ordinamento giuri-

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La nascita della Corte costituzionale austriaca 77

dico. La teoria normativa kelseniana non muove da uno «smarri-


mento» dei contenuti, ma dalla scelta (voluta e meditata) di «accan-
tonare» ogni riflessione sui contenuti, che avrebbe portato inevitabil-
mente allo scontro, e di avviare quei «procedimenti» destinati a creare
«il compromesso». Lo spazio di questa riflessione non consente un
adeguato approfondimento di questa linea di riflessione, ma si vuole
comunque evidenziare che nel quadro della costituzione del 1920 il
Verfassungsgerichtshof era chiamato appunto ad assicurare il rispetto
della Costituzione quale «suprema regola del gioco».
I progetti di Kelsen furono da Mayr sottoposti alla conferenza dei
Länder, di cui le più significative riunioni furono quella di Salisburgo
del febbraio 1920 e quella di Linz del successivo aprile 1920. Il te-
sto proposto alla conferenza di Salisburgo fu oggetto di alcune mo-
difiche ed il nuovo testo, sottoposto alla Conferenza di Linz («Pro-
getto Linz»), sarà quello poi preso come punto di partenza dalla sot-
tocommissione costituente dell’Assemblea nazionale. Infatti nel luglio
1920 l’Assemblea costituente nomina una «commissione costituente»
che a sua volta nominò una «sotto-commissione» ai cui lavori (che si
svolsero dall’11 luglio 1920 al 23 settembre 1920) Kelsen partecipa
quale «consulente scientifico».
È stato più volte sottolineato lo «stile» della Costituzione austriaca,
caratterizzata da una grande attenzione alla chiarezza del linguaggio
(espressione della tradizione giuridica austriaca) e ad evitare formu-
lazioni di principio o indeterminate. La funzione unificante della co-
stituzione viene ad esplicarsi nella disciplina – e nella garanzia – delle
procedure. L’assenza, nella Costituzione del 1920, di un catalogo dei
diritti fondamentali ed il richiamo alla legge fondamentale del 1867,
se sono il frutto della situazione politica del momento, sono anche
espressione di una concezione liberale dei diritti di libertà. Infatti la
decisione di richiamare esplicitamente i diritti fondamentali previsti
dalla Dezemberverfassung del 1867, se conferma da un lato il radi-
camento di tale catalogo nell’ordinamento austriaco, dall’altro lato
conferma anche la perdurante visione liberale dei diritti di libertà (a
differenza di quanto avviene nella Costituzione di Weimar). E biso-
gna aggiungere che Kelsen ritenne opportuna la decisione di richia-
mare la legge fondamentale del 1867 già oggetto di giudizio positivo
da parte dello stesso (in quanto «apprezzabile prodotto» – «non dei
peggiori» – del liberalismo politico del diciannovesimo secolo). E la
creazione della Corte costituzionale – con l’assegnazione alla stessa
delle sopra ricordate competenze – si pone all’interno della Costitu-

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78 Fabrizio Politi

zione del 1920 in stretto collegamento con la (e quale garanzia della)


struttura federale dello Stato ed entrambe (struttura federale e giusti-
zia costituzionale) vengono a porsi quali strumenti di attuazione, ol-
tre del principio democratico, del principio di tutela delle libertà.

4. Considerazioni conclusive. – Con riguardo alla ricostruzione del


pensiero di Kelsen, in particolare con riferimento alla giustizia costi-
tuzionale, va ricordata l’importante riflessione di Carlo Mezzanotte
che, nel volume «Corte costituzionale e legittimazione politica», ri-
percorre il vivace dibattito sulla giustizia costituzionale fra Hans Kel-
sen e Carl Schmitt.
Carlo Mezzanotte individua la «matrice teorica» del pensiero di
Kelsen nel principio di separazione poteri di stretta derivazione illu-
ministica. E questi costituiscono i «solidissimi materiali della teoria
kelseniana della Verfassungsgerichtsbarkeit»15, giacché Kelsen muove
dalla «convinzione che il sindacato di costituzionalità delle leggi po-
tesse innestarsi nel tronco dei sistemi parlamentari europei senza al-
terarne la configurazione essenziale e senza provocare trasmigrazioni
occulte di potere politico dal Parlamento verso organi imparziali»16.
Rientra qui in gioco la concezione della costituzione ed in parti-
colare la contrapposizione di due diverse visioni della costituzione e
cioè come insieme di limiti formali imposte al legislatore (esemplare
a questo proposito la posizione di Bognetti)17 o piuttosto come si-
stema (più o meno compiuto) di valori sostanziali («la cui interpre-
tazione non può essere ridotto ad una operazione di semplice tec-
nica giuridica»).
E trova così conferma un’altra importante considerazione di Carlo
Mezzanotte e cioè che la teoria kelseniana sulla funzione della Corte
costituzionale riflette «i motivi propri di una fase storica del costitu-
zionalismo europeo che difficilmente potrebbero essere proposti tali
e quali»18. Da questo punto di vista Mezzanotte distingue nettamente
la riflessione kelseniana sulla giustizia costituzionale da quella sul

15
C Mezzanotte, Corte costituzionale e legittimazione politica, Editoriale Scien-
tifica, Napoli, 2018, p. 2.
16
C. Mezzanotte, op. ult. cit., p. 3.
17
G. Bognetti, Teorie della Costituzione e diritto giurisprudenziale, in Associa-
zione Italiana dei Costituzionalisti, Annuario, 2002. Diritto costituzionale e diritto
giurisprudenziale, Cedam, Padova, 2004, p. 12 ss.
18
C. Mezzanotte, op. ult. cit., p. 3.

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La nascita della Corte costituzionale austriaca 79

ruolo del Parlamento. Sicuramente Kelsen inserisce il Verfassungsge-


richtshof sullo sfondo di una Costituzione non «lunga» né contenente
disposizioni esprimenti «valori», bensì una Costituzione, quale quella
austriaca del 1920, che pone dettagliate disposizioni volte a discipli-
nare la linea di delimitazione delle rispettive competenze fra Bund e
Länder ed i procedimenti da seguire.
Mezzanotte distingue nettamente la riflessione kelseniana sulla giu-
stizia costituzionale da quella sul ruolo del Parlamento. Se la prima
appare «oramai superata», quella sul Parlamento va ritenuta invece
ancora «di grande importanza». La riflessione di Mezzanotte coglie
senz’altro nel segno anche se forse, proprio alla luce della ricostru-
zione storico-politica di quel particolare momento storico, può ag-
giungersi che i due filoni del pensiero kelseniano non vanno poi così
nettamente differenziati ed anzi, qualora accostati, si dischiude una
visione più ampia. A questo proposito è illuminante l’analisi com-
piuta da Ridola con riguardo al «filo conduttore» che collega il nor-
mativismo alla riflessione politica kelseniana la cui teoria pluralistica
della democrazia (di dichiarato relativismo filosofico) «affida la for-
mazione del consenso esclusivamente ad una procedura antitetico-dia-
lettica di contemperamento fra interessi opposti»19. La «negazione di
ogni sorta di Verabsolutierungen» costituisce il fondamento della ri-
costruzione kelseniana del parlamentarismo democratico, in cui gli
strumenti della democrazia procedurale cercano di pervenire al con-
senso superando gli antagonismi appunto nelle procedure.
Negli anni successivi al primo conflitto mondiale assistiamo, e se
ne dimostrano consapevoli gli osservatori più attenti di quell’epoca
(Capograssi), alla «fine di un’epoca» che comporta anche la «crisi»
della classe sociale (la borghesia) i cui valori (e le cui azioni) hanno
caratterizzato lo Stato liberale. La fine del precedente assetto oligar-
chico (conseguente all’estensione del suffragio elettorale), i nuovi as-
setti sociali (conseguenti anche agli esiti della vicenda bellica) deter-
minano un profondo mutamento rispetto alla situazione precedente.
Iniziano ad affermarsi le prime esperienze dello Stato sociale o co-
munque le prime contrapposizioni fra modelli (ed ideologie) di Stato
sociale e (modelli di) Stato di diritto di stampo liberale ottocentesco.
E, in tale tensione, proprio la costituzione di Weimar viene a costi-
tuire una soluzione mediana o di compromesso quale «primo tenta-

19
P. Ridola, Democrazia pluralistica e libertà associative, Giuffrè, Milano, 1987,
p. 160 s.

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80 Fabrizio Politi

tivo di unificazione costituzionale del popolo intorno ai valori ete-


rogenei di cui sono portatrici le forze in campo»20. E, non a caso,
Kelsen si mostrerà critico verso la costituzione di Weimar.
Ed infatti nel saggio sulla garanzia giurisdizionale della costitu-
zione (1928) – quando il costituzionalismo del primo dopoguerra è
in crisi – Kelsen costruisce la sua riflessione sulla contrapposizione
fra due modelli: «le costituzioni equivoche, o di compromesso», espres-
sione delle «ideologie politiche correnti» e «le costituzioni univoche,
chiare, precise, produttrice di certezza». Solo di queste ultime la su-
periorità «può essere garantita». Invece l’introduzione nelle costitu-
zioni del primo tipo del sindacato di costituzionalità è da guardare
con disfavore poiché lo spostamento di potere che si verrebbe a rea-
lizzare a favore del Tribunale costituzionale «sarebbe semplicemente
intollerabile»21.

20
C. Mezzanotte, op. ult. cit., p. 4.
21
C. Mezzanotte, op. ult. cit., p. 4.

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Mauro Mazza
LA DISSOLUZIONE DELL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO
E LA QUESTIONE DELLE NAZIONALITÀ

1. Il diritto imperialregio austro-ungarico e il problema storico delle


nazionalità. – Nella secolare vicenda storica della monarchia asbur-
gica, un posto di rilievo è da attribuire agli ultimi decenni1. Durante
il biennio 1848-1849, in particolare, emersero forze costituzionali di-
rettamente connesse alle nazionalità presenti nell’Impero2. Si trattava
del movimento ungherese e di quello italiano, nonché dell’elemento
statale tedesco che oscillava tra i poli della riforma dello Stato e della
costruzione dell’unità statale tedesca. Allo stesso tempo, i diversi po-

1
Cfr. G. Stourzh, The Multinational Empire Revisited: Reflections on Late Im-
perial Austria, in Austrian History Yearbook, 1992, 1 ss.; M. CornwallMark (ed.),
The Last Years of Austria-Hungary. A Multi-National Experiment in Early Twen-
tieth-Century Europe, University of Exeter Press, Exeter, 2002; P.M. Judson, “Where
our commonality is necessary…”: Rethinking the End of the Habsburg Monarchy,
in Austrian History Yearbook, 2017, 1 ss.; A. Ara, Crisi e declino della monarchia
asburgica, in P. Prodi, A. Wandruszka (cur.), Il luogo di cura nel tramonto della mo-
narchia d’Asburgo. Arco alla fine dell’Ottocento, il Mulino, Bologna, 1986 (Annali
dell’Istituto storico italo-germanico, Quaderni, n. 43), 323 ss.
2
Sulla questione delle nazionalità, v. F. Zwitter, J. Šidak, V. Bogdanov, Les pro-
blèmes nationaux dans la Monarchie des Hasbourg, Comité national yougoslave des
sciences historiques, Beograd, 1960; P. Hanák (ed., con l’assistenza di Z. Szász), Die
nationale Frage in der Österreichisch-Ungarischen Monarchie 1900-1918, Akadémiai
Kiadó, Budapest, 1966; R.C. Monticone, Nationalities Problems in the Austro-Hun-
garian Empire, in The Polish Review, 968, 110 ss.; A. Sked, The Nationality Pro-
blem in the Habsburg Monarchy and the Revolutions of 1848, in D. Moggach, G.
Stedman Jones (eds.), The 1848 Revolutions and European Political Thought, Cam-
bridge University Press, Cambridge, 2018, 322 ss.; L. Valiani, L’esordio della «poli-
tica delle nazionalità», in Id., La dissoluzione dell’Austria Ungheria, Il Saggiatore,
Milano, 1966, 139 ss.; A. Ara. Il problema delle nazionalità in Austria da Metter-
nich al dualismo, in Rivista storica italiana, 2004, 409 ss., e in U. Levra (cur.), Na-
zioni, nazionalità, stati nazionali nell’Ottocento europeo (atti del LXI Congresso di
storia del Risorgimento italiano, tenutosi a Torino dal 9 al 13-10-2002), Carocci,
Roma, 2004, 237 ss.

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82 Mauro Mazza

poli slavi esprimevano il bisogno di affermare la propria identità na-


zionale.
Vennero elaborati disegni centripeti, rispettivamente d’impronta
austro-slava e tedesco-costituzionale, per arrivare nel 1867 allo snodo
fondamentale che fu rappresentato dall’Ausgleich (compromesso) au-
stro-ungherese3, finalizzato a garantire la pace interna della monar-
chia. Esso costituì la base della transizione costituzionale destinata a
durare fino al 1918. Il compromesso presupponeva l’egemonia di due
nazioni, tedesca e ungherese. Ma furono evidenti fin da subito le re-
sistenze ungheresi, come anche l’incapacità di riformarsi ulteriormente.
Si verificarono, quindi, periodici scontri tra Vienna e Budapest al mo-
mento della scadenza decennale delle clausole temporanee del com-
promesso e del relativo rinnovo. I problemi maggiori derivavano dalla
“magiarizzazione” e “snazionalizzazione”, con uno stato permanente
di conflitto tra la nazionalità dominante e quelle soggette4.
L’edificio dualistico austro-ungherese entrò in crisi alla metà degli
anni novanta del XIX secolo. Nel 1896, a quasi trent’anni dall’Au-
sgleich, si ebbe la celebrazione in Ungheria del millenario del Regno
d’Ungheria. In direzione contraria alla realtà multinazionale della so-
cietà ungherese, venne affermato il principio dello Stato unitario e
nazionale. L’idea era quella della indivisibile e unitaria nazione poli-
tica ungherese; fu, così, imposto il magiaro come lingua di Stato, pur
consentendo l’uso di altre lingue nelle contee non ungheresi. Si inau-
gurò una aggressiva politica contro le minoranze, soprattutto in campo
linguistico e scolastico, per il loro indebolimento se non per la com-
pleta assimilazione.
Come risposta, venne elaborato un programma comune degli al-
tri gruppi nazionali; in cui denunciare la “snazionalizzazione”; ciò av-
venne in occasione del Congresso delle nazionalità non ungheresi
svoltosi nel 1895. Lo Stato nazionale, in effetti, appariva in contrad-

3
Österreichisch-Ungarischer Ausgleich. Si vedano L. Eisenmann, Le compromis
austro-hongrois de 1867. Étude sur le dualisme, Paris, Société nouvelle de librairie et
d’édition (Librairie G. Bellais), 1904; A. Vantuch, L. Holotík (eds.), Der österreichi-
sch-ungarische Ausgleich 1867, Verlag der slowakischen Akademie der Wissenschaf-
ten, Bratislava, 1971.
4
Sulle conseguenze della “magiarizzazione”, cfr. A.M. Stevens-Arroyo, Austria-
Hungary 1914: Nationalisms in MultiNational Nation-State, in Comparative Civili-
zations Review, 2015, 99 ss., spec. 108-110. Ivi l’autore osserva, tra l’altro, che
«Magyarization reserved influence and privilege to those with Hungarian names and
longstanding national identity» (v. 109).

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La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico 83

dizione con la realtà della società ungherese e costituiva una minac-


cia per il libero sviluppo delle altre nazioni.
Nonostante le proteste volte a garantire l’identità e lo sviluppo
delle altre nazionalità, proseguirono gli attacchi ad associazioni na-
zionali e scuole confessionali delle minoranze; venne approvata, al-
tresì, una nuova legge sulla “magiarizzazione” dei toponimi. Il tutto
mentre si infittivano le denunce del comitato esecutivo del Congresso
delle nazionalità non ungheresi.
Alla metà degli anni novanta, si aprirono le trattative tra Buda-
pest e Vienna per il rinnovo delle clausole del compromesso. Emer-
sero, in quella sede, le differenze di sempre tra l’Austria, legata all’i-
dea imperiale sovranazionale, e l’Ungheria, ferma invece sul princi-
pio dell’indipendenza e della sovranità magiara. In definitiva, per i
magiari l’Austria-Ungheria era una lega di Stati, per gli austriaci co-
stituiva uno Stato federale.
Si aprì una difficile trattativa, che sfociò in una soluzione tempo-
ranea, ovvero il Provisorium tipico della prassi politica asburgica. Il
Provisorium, in particolare, recepiva le tesi magiare in materia di im-
poste di consumo e Banca nazionale, ma nel contempo innalzava la
quota ungherese per le spese comuni.
Persistevano, comunque, i dissensi che indebolivano l’edificio della
monarchia comune, restituendo l’immagine della c.d. monarchia a di-
sdetta5, nel momento in cui entravano in crisi le stesse ragioni di com-
plementarietà tra le economie cisleitanica e transleitanica6.
La crisi, d’altro canto, era sempre più evidente anche nella parte
austriaca della duplice monarchia. Nel 1896 venne approvata una
riforma elettorale, con la quale si introduceva una quinta curia eletta
a suffragio universale, accanto alle quattro curie censitarie esistenti.
La riforma intendeva favorire la convivenza tra cechi7 e tedeschi nelle
province storiche di Boemia, Moravia e Slesia. L’aspetto dei conflitti
tra le nazionalità austriache risultava ormai rilevante, anche in consi-

5
Monarchie auf kündigung.
6
Le espressioni Cisleitania e Transleitania indicavano in maniera non ufficiale,
dopo l’Ausglech del 1867 (e sino al 1919), i territori rispettivamente al di qua e al
di là del fiume Leita, che segnava (a tratti) il confine tra Austria e Ungheria
7
V. lo studio seminale di G. Stuparich, La nazione czeca, Battiato, Catania, 1915,
seguito da S. Thomson, The Czechs as Integrating and Disintegrating Factors in the
Habsburg Empire, in Austrian History Yearbook, 1967, 203 ss., nonché J. Havránek,
The Development of Czech Nationalism, ivi, 1967, 223 ss.

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84 Mauro Mazza

derazione del fatto che i tedeschi erano piuttosto numerosi in Boe-


mia.
Nell’aprile del 1897 furono emanate due ordinanze sui rapporti
linguistici in Boemia, Moravia e Slesia8. Con esse, il ceco veniva equi-
parato al tedesco come lingua interna dell’amministrazione. Con ri-
guardo alla lingua da utilizzare presso gli uffici pubblici e i tribunali,
vi era dunque l’obbligo di usare la lingua della parte, nella quale do-
vevano avvenire anche le registrazioni degli atti pubblici. Di conse-
guenza, fu introdotto il requisito della conoscenza del ceco per tutti
gli impiegati delle tre regioni, con decorrenza dal 1°luglio 1901.
Da parte tedesca si contestò il ricorso allo strumento giuridico del-
l’ordinanza, ma soprattutto il contenuto della misura governativa. Spe-
cialmente criticata fu la validità delle ordinanze per i distretti a mag-
gioranza tedesca. Era diffuso il timore, presso la popolazione tede-
sca, di un implicito riconoscimento dell’unità della regione e della tesi
ceca del diritto di Stato boemo. Oggetto di vivace contestazione era
in special modo l’obbligo della padronanza delle due lingue per gli
impiegati pubblici. Questo perché, in un contesto linguistico caratte-
rizzato da un diffuso bilinguismo tra i cechi e, invece, una scarsa co-
noscenza del ceco da parte dei tedeschi, i provvedimenti governativi
apparivano – ai tedeschi – preordinati quasi a una completa “cechiz-
zazione” della burocrazia regionale. Da qui, il manifestarsi di prote-
ste sia nel territorio austro-tedesco che nella stessa Germania impe-
riale. Nelle parole dell’illustre storico e giurista Theodor Mommsen,
pronunciate nel 1897, i tedeschi d’Austria dovevano essere uniti e
duri, per il motivo che «il cranio dei cechi non capisce la ragione,
ma è sensibile al linguaggio dei colpi»9. Il sogno della pacifica con-
vivenza tra le due nazionalità era, così, infranto; dilagava, al contra-
rio, la violenza dello scontro politico e culturale, nonché qualche volta
fisico.
In definitiva, l’irrisolto nodo del conflitto ceco-tedesco costituiva
un aspetto evidente del mancato adeguamento delle strutture poli-

8
A commento dei provvedimenti normativi, v. le notazioni di T. Kamusella, Si-
lesia and Central European Nationalisms. The Emergence of National and Ethnic
Groups in Prussian Silesia and Austrian Silesia, 1848-1918, Purdue University Press,
West Lafayette (Indiana), 2007, 216.
9
La frase virgolettata è nel saggio di A. Ara, Il tramonto della monarchia asbur-
gica, in Memorie dell’Accademia Roveretana degli Agiati, a. 252, 2002 [ma 2004], s.
II, v. V, t. I, 7 ss., ed ivi v. 13 [lo scritto è pubblicato anche in E. Capuzzo, E. Ma-
serati (cur.), Per Carlo Ghisalberti. Miscellanea di studi, ESI, Napoli, 2003, 297 ss.].

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La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico 85

tico-istituzionali dello Stato austriaco al pluralismo nazionale della so-


cietà. La scelta fu, infatti, quella di non affrontare in modo organico
e globale la questione delle nazionalità, ma di ricorrere a una tratta-
tiva diretta ceco-tedesca, mediata dall’autorità ministeriale. Lo scopo
perseguito consisteva, dunque, nel cercare di smussare le punte più
aspre con accordi locali.
La via venne inaugurata nel 1906 con il compromesso ceco-tede-
sco in Moravia, che comprendeva un nuovo ordinamento provinciale,
una nuova legge elettorale, nonché una riforma linguistica e scola-
stica. Venne, inoltre, creato il catasto nazionale. In base a esso, i cit-
tadini della provincia dichiaravano la propria appartenenza nazionale-
linguistica ed esercitavano il loro diritto di voto all’interno delle sin-
gole curie, ma divisi in due corpi elettorali diversi a seconda della na-
zionalità di appartenenza.
Le caratteristiche del compromesso moravo vennero analogamente
riprese per la Bucovina, dove convivevano rumeni, ruteni (slavi orien-
tali/ucraini10), tedeschi ed ebrei, come anche in Galizia, nel cui terri-
torio erano presenti due principali gruppi nazionali, rappresentati da
polacchi e ruteni, e inoltre gli ebrei.
Gli Ausgleiche isolati non potevano, comunque, ovviare all’assenza

10
La Rutenia è oggi una regione dell’Ucraina, chiamata subcarpatica dagli ucraini
e transcarpatica dagli slovacchi. Si tratta di un luogo «dove confinano tutti i confini,
dove le frontiere si fronteggiano»; cfr. M. Zola, I Ruteni, il popolo dai mille confini,
in East Journal, 26-7-2011, www.eastjournal.net, e prima P.R. Magosci, The Rusyn
Question, in Political Thought, 1995, 221 ss., nonché, da ultimo, S. Földvári, The
Rusyn Question in the Frameworks of Ehnic Minorities, and of the International Di-
plomacy and Peace-Building. Rusyns in Different Positions in Ukraine, Slovakia and
Serbia, relazione presentata alla Fourth Annual Tartu Conference on Russian and
East European Studies, svoltasi dal 9 all’11-6-2019 presso l’Università di Tartu in
Estonia, sul tema generale Communities in Flux: Rethinking Sovereignty and Iden-
tity in an Era of Change. Al tempo della monarchia danubiana, gli austriaci deno-
minavano ruteni gli slavi dell’Est che non fossero russi o polacchi. In particolare,
sui ruteni d’Ungheria, v. M. Mayer, The Rusyns of Hungary. Political and Social De-
velopments, 1860-1910, Boulder (Col.), 1997 (East European Monographs, no. 490).
I diritti nazionali dei ruteni non erano adeguatamente riconosciuti nell’Austria-Un-
gheria. Del resto, se è vero gli slovacchi faticavano ad affermare la propria identità
nazionale nei confronti non soltanto degli ungheresi ma anche dei cechi, la stessa
cosa valeva per i ruteni. Cfr. G. Lami, Le motivazioni all’origine dello Stato ceco-
slovacco dopo la prima guerra mondiale. Letture di ieri e di oggi, in A. Di Grego-
rio, A. Vitale (cur.), Il ventennale dello scioglimento pacifico della Federazione ceco-
slovacca. Profili storico-politici, costituzionali, internazionali, Maggioli, Santarcangelo
di Romagna (Rimini), 2013, 17 ss., e ivi v. spec. 19, testo e nt. 6 e 9.

© Edizioni Scientifiche Italiane ISBN 978-88-495-4334-6


86 Mauro Mazza

di una prospettiva innovatrice e globale in merito alla questione delle


nazionalità, anche perché i singoli gruppi nazionali cercarono di strap-
pare concessioni a proprio vantaggio, senza porsi in alcun modo su
un terreno comune.
La questione delle nazionalità continuava a costituire il nodo es-
senziale del problema complessivo dello Stato austro-ungarico, nella
misura in cui le nazionalità restavano soggette rispetto al condomi-
nio tedesco-magiaro, e in ultima analisi all’egemonia di queste due
nazioni. Le nazioni non ungheresi, in particolare, erano decisamente
avverse alla politica di “snazionalizzazione” magiara.
Un fattore innovante si ebbe con la nascita della coalizione croato-
serba, a seguito degli incontri di Fiume e Zara del 190511, per ini-
ziativa di personalità slavo-meridionali sia austriache che ungheresi12.
La ventata di aria nuova era dovuta al fatto che i membri di tale coa-
lizione si rivolgevano a Budapest, vale a dire agli indipendentisti un-
gheresi, nella speranza di ricevere l’aiuto magiaro per ottenere i pro-
pri obiettivi. Si registrarono alcune oscillazioni tra il c.d. programma
trialistico, fondato sul riconoscimento della individualità statale croata,
che andava ad aggiungersi – ovviamente, secondo le intenzioni dei
proponenti – alle individualità statali austriaca e ungherese, e disegni
federalistici, con la conseguente formazione dell’ideologia jugoslava e
della questione slavo-meridionale. Venne concepita l’idea del federa-
lismo etnico, prefigurandosi la creazione degli «Stati Uniti della Grande
Austria». Erano, infatti, decisamente pochi i movimenti politici favo-
revoli alla dissoluzione dell’Austria-Ungheria. Si trattava, in partico-
lare, del partito nazionalsocialista ceco13, nonché di gruppi libertari e
anarchici slavo-meridionali, come pure di alcune correnti rutene sen-
sibili all’attrazione russa.
La complessità derivante dalla questione ceca e dal problema slavo-
meridionale si poneva, per la duplice monarchia e per le due parti
che la componevano, nello stesso tempo come un problema di poli-
tica estera e di politica interna. Da un lato, vi era il problema costi-
tuito dai due Stati indipendenti di Serbia e Montenegro. Dall’altro

11
Si cfr. L. Valiani, I movimenti nazionali centrifughi dal 1905 al 1914, in Id.,
La dissoluzione dell’Austria Ungheria, cit., 9 ss.
12
Sul tema, v. R.W. Seton-Watson, Southern Slav Question and the Habsburg
Monarchy, Constable, London, 1911.
13
Esattamente, Partito socialnazionale ceco (Česká Strana Národně Sociální), fon-
dato nel 1898.

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La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico 87

lato, i problemi erano posti da serbi14, croati15 e anche sloveni16 della


duplice monarchia. Inoltre, forte era la tensione con la Russia, natu-
rale protettrice della Serbia e dei popoli slavo-meridionali. La crisi
era, dunque, interna ma anche internazionale.
Con riferimento, poi, alla posizione degli italiani rimasti in Au-
stria17, la linea era quella della difesa nazionale. Con alcune differenze,
però, dovute al fatto che, mentre il Trentino è nazionalmente omo-
geneo, il c.d. Litorale era invece tradizionalmente plurilingue e mul-
tinazionale. Da ciò la conseguenza che nel Trentino le rivendicazioni
italiane avevano a oggetto l’ottenimento dell’autonomia politica18, e
si ponevano così in contrasto con la popolazione tedesca del Tirolo,
laddove lungo la costa adriatica prevaleva una esasperata difesa della
identità, percepita come in pericolo di fronte all’ascesa demografica,
economica e culturale dell’elemento slavo-meridionale19. Va tenuto
conto della situazione amministrativa, economica, nazionale e politica
degli italiani d’Austria, che era molto differente nel Trentino rispetto
alla costa adriatica. I trentini erano inseriti in un unico Kronland, il
Tirolo20, a maggioranza tedesca. Gli italiani del Tirolo erano, quindi,

14
Si vedano W. Vucinich, The Serbs in Austria-Hungary, in Austrian History
Yearbook, 1967, 3 ss.; D. DjordjeviÊ, The Serbs as an Integrating and Disintegra-
ting Factor, ivi, 1967, 48 ss.
15
Si cfr. C. Jelavich, The Croatian Problem in the Habsburg Empire in the Ni-
neteenth Century, in Austrian History Yearbook, 1967, 83 ss.; B. Krizman, The Croa-
tians in the Habsburg Monarchy in the Nineteenth Century, ibidem, 1967, 116 ss.
16
V. F. Zwitter, The Slovenes and the Habsburg Monarchy, in Austrian History
Yearbook, 1967, 159 ss.
17
Cfr. A. Ara, Gli italiani nella monarchia asburgica (1850-1918), in Rassegna
storica del Risorgimento, 1998, 435 ss.; Id., Austria e questione italiana, 1796-1915,
Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 1997; K. Greenfield, The Ita-
lian Nationality Problem of the Austrian Empire, in Austrian History Yearbook, 1967,
491 ss.
18
Su questione e progetti di autonomia, si veda S. Benvenuti, L’autonomia tren-
tina al Landtag di Innsbruck e al Reichsrat di Vienna. Proposte e progetti 1848-1914,
Società di studi di scienze storiche, Trento, 1978.
19
Le identità, nello spazio del Litorale, si incontravano, scontravano e contami-
navano; cfr. M. Cattaruzza, Angelo Ara fra Nazione e Impero: biografia e storio-
grafia, in Studi Trentini. Storia, a. 90, 2011, 229 ss., spec. 233 ss., che evoca l’im-
magine dell’identità «multipla, frantumata, contraddittoria, fluida, comprendente l’io
ma anche l’altro, conviventi in equilibrio instabile nella stessa personalità». In pre-
cedenza, v. A. Ara, Italiani e sloveni nel Litorale austriaco, 1880-1918, in Rivista sto-
rica italiana, 2001, 397 ss.
20
Per cenni al Kronland Tirol della monarchia asburgica, v. R. Gismann, Una
notevole svolta. Lo sviluppo dei rapporti tra Tirolo e Trentino dal Dopoguerra al Mil-

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minoritari nella istituzione dietale, e tuttavia ben distinti, sul piano


nazionale e linguistico, dai tedesco-tirolesi. Al contrario, nel Litorale
austriaco gli italiani vivevano in tre Kronländer, rappresentati da con-
tea principesca di Gorizia-Gradisca, città di Trieste e marchesato
d’Istria, con l’autorità centrale costituita da un unico luogotenente
con sede a Trieste, ed erano inferiori demograficamente, nella com-
plessiva area regionale della costa adriatica, nei confronti della somma
degli abitanti sloveni e croati21. Come bene è stato osservato, «Il qua-
dro dei rapporti nazionali nel Litorale è molto più teso e complesso

lennio, in E. Happacher, R. Toniatti (cur.), Gli ordinamenti dell’Euregio. Una com-


parazione, Franco Angeli, Milano, 2018, 423 ss., spec. 430. V., altresì, R. Schober, Il
Trentino durante il periodo di unione al Tirolo, 1815-1918, in F. Valsecchi, A. Wan-
druszka (cur.), Austria e province italiane 1815-1918. Potere centrale e amministra-
zioni locali, il Mulino, Bologna, 1981 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico.
Quaderno, n. 6).
21
Si vedano: G. Castellini, Trento e Trieste. L’irredentismo e il problema adria-
tico, Treves, Milano, 1915; E. Sestan, L’irredentismo italiano tra il ’700 e il ’900,
R. Istituto Magistrale «Gino Capponi» in Firenze, Firenze, Annuario 1927-1928,
1929, 34 ss.; Id., Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Edi-
zioni italiane, Roma, 1947; C. Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti fra italiani e
slavi nella Venezia Giulia, Stabilimento tipografico nazionale (Istituto di Storia me-
dievale e moderna dell’Università di Trieste), Trieste, 1946, 2ª ed.; G. Sabbatucci,
Irredentismo e movimento nazionalista in Italia, in Storia contemporanea, 1970,
486 ss.; B. Marušič, La cultura degli sloveni del Litorale nell’Ottocento, in M. Re-
ner (cur.), La cultura slovena nel Litorale (atti del seminario di studio dell’Istituto
di storia sociale e religiosa di Gorizia, ottobre-novembre 1986), prefazione di F.
Salimbeni, Gorizia, Istituto di storia sociale e religiosa, 1988, 9 ss. Tra le richieste
dei nazionalisti e irredentisti italiani vi fu quella della creazione a Trieste di un’u-
niversità di lingua italiana. Il governo austriaco non accolse la richiesta, temendo
la nascita di nuclei di attivismo politico filoitaliano, e propose sedi alternative; in
particolare, nel 1904 vi fu la proposta austriaca di istituire una Facoltà di scienze
politiche e giuridiche a Rovereto, nonché altre proposte minori quali l’ampliamento
degli insegnamenti già esistenti in lingua italiana presso la Facoltà di giurispru-
denza dell’Università di Innsbruck, oppure la costituzione di una Facoltà giuridica
italiana all’Università di Vienna (proposta, quest’ultima, avanzata nel 1909, con la
precisazione che si prevedeva altresì il trasferimento della Facoltà medesima dopo
quattro anni in una città italiana, rimasta peraltro da individuare). Le proposte au-
striache non vennero accettate dai richiedenti, cosicché la questione si trascinò ad
infinitum, senza giungere a una soluzione condivisa. Sull’intera vicenda, v. l’ottima
ricostruzione di J. Sondel-Cedarmas, «Trieste o nulla!». La richiesta dell’Univer-
sità italiana in Austria negli scritti degli irredentisti-nazionalisti italiani (1903-1914),
in E. Capuzzo, B. Crevato-Selvaggi, F. Guida (cur.), Per Rita Tolomeo., scritti di
amici sulla Dalmazia e l’Europa centro-orientale, I, La Musa Italia Editrice, Lido
di Venezia, 2014, 21 ss.

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La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico 89

rispetto a quello del Titolo»22. Inoltre, entrando ancora più nel det-
taglio delle posizioni politiche espresse dagli italiani d’Austria, alcune
correnti si collocavano nella cornica asburgica. I cattolici, infatti, fe-
cero propria l’identità sovranazionale dello Stato, mentre i socialisti
parteciparono intensamente al dibattito sulla sua riforma23.
Il quadro generale vedeva una crescente dimensione del dissenso24,
ma nello stesso tempo un lealismo ancora forte. Questo avveniva an-
che tra le nazionalità soggette, tale situazione essendo talvolta deter-
minata dagli antagonismi che dividevano i vari gruppi nazionali. Per
esempio, in molti ambienti croati la guerra contro la Serbia era po-
polare. E ancora, la dichiarazione di guerra dell’Italia avrebbe avuto
l’effetto di rafforzare la causa asburgica tra gli slavi meridionali. Sul
fronte dell’emigrazione politica, poi, vi erano intellettuali e attivisti
cechi, come Tomáš Masaryk25, che avevano come obiettivo la disso-
luzione dell’Austria-Ungheria26.

22
Cfr. A. Ara, Gli austro-italiani e la Grande Guerra: appunti per una ricerca,
in Id., Fra Nazione e Impero. Trieste, gli Asburgo, la Mitteleuropa, prefazione di C.
Magris, Garzanti, Milano, 2009, 371 ss. (il brano riportato sopra nel testo si trova a
372).
23
V. A. Agnelli, Socialismo triestino, Austria e Italia, in L. Valiani, A. Wandru-
szka (cur.), Il movimento operaio e socialista in Italia e in Germania dal 1870 al
1920, il Mulino, Bologna, 1978, 221 ss.; E. Apih, Il socialismo italiano in Austria -
Saggi, Udine, Del Bianco, 1991; M. Cattaruzza, Socialismo adriatico. La socialde-
mocrazia di lingua italiana nei territori costieri della Monarchia asburgica: 1888-1915,
Licata, Manduria-Bari-Roma, 2001, 2ª ed.; Aa.Vv., I cattolici isontini nel XX secolo,
I-III, Gorizia, Le casse Rurali ed Artigiane della Contea di Gorizia-Istituto di Sto-
ria sociale e religiosa, 1981-1987, e ivi spec. N. Agostinetti, L’attività dei cattolici
isontini nel primo ventennio del novecento (1900-1919), 42 ss.; Aa.Vv., L’attività del
Partito cattolico popolare friulano negli ultimi venticinque anni (1894-1918), intro-
duzione e note al testo originale a cura di I. Santeusanio, Istituto di storia sociale e
religiosa, Gorizia, 1990 (ripr. anast. dell’ediz. orig., Unione cattolica popolare del
Friuli. Herold, 1919).
24
Cfr. P. Sugar, The Rise of Nationalism in the Habsburg Empire, in Austrian
History Yearbook, 1967, 91 ss.
25
Sostenitore del “cecoslovacchismo”, Masaryk divenne il primo Presidente della
Cecoslovacchia. Sulla figura e il pensiero di Tomáš Masaryk, v. P. Fornaro, Que-
stione nazionale e democrazia negli scritti di Masaryk del periodo 1893-1918, in Hu-
manities, gennaio 2012, 19 ss.; Id., (cur.), Costruire uno Stato. Scritti di Tomáš G.
Masaryk sull’identità nazionale ceca e la creazione della Cecoslovacchia, Le Lettere,
Firenze, 2011; Id., Un sorprendente interprete del pensiero mazziniano nell’Europa
centro-orientale: Tomáš G. Masaryk, in S. Bonanni (cur.), Pensiero e azione. Maz-
zini nel movimento democratico italiano e internazionale, Istituto per la Storia del
Risorgimento italiano, Roma, 2006, 483 ss.; G. Rutto, Il pensiero politico ceco con-

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90 Mauro Mazza

2. La prima guerra mondiale e la sua incidenza (decisiva) sull’as-


setto istituzionale dell’Austria-Ungheria. – Con lo scoppio della prima
guerra mondiale nel 191427, Carlo I28 tentò di creare un Ministero
della pace (Friedensministerium)29, finalizzato (nelle intenzioni) a ot-
tenere tanto la distensione interna che la cessazione delle ostilità con-
tro l’Intesa30. Ciò, tuttavia, non fu possibile, soprattutto perché gli
slavi d’Austria insistettero per la federalizzazione e per il superamento
del dualismo. In sostanza, si manifestò una distanza ancora crescente
tra le posizioni del governo viennese e quelle delle nazionalità sog-
gette.
Sul piano internazionale, nell’inverno 1917-1918 si ebbe, in primo
luogo, il manifesto firmato da Lev31 Trockij per la stipulazione della

temporaneo, I, Thomas Garrigue Masaryk 1850-1937, Edizioni Nuova Cultura, Roma,


2008; F. Leoncini, Mazzini e Tomas G. Masaryk precorritori dell’integrazione europea,
in F. Guida (cur.), Dalla Giovine Europa alla Grande Europa, Carocci, Roma, 2007,
225 ss.; T.G. Masaryk, L’idéal d’humanité, Librairie des sciences politiques et sociales
M. Rivière, Paris, 1930. Sono due, sostanzialmente, le opere di Tomáš Masaryk tra-
dotte in Italia. La prima è La Russia e l’Europa. Studi sulle correnti spirituali in Rus-
sia, I-II., Istituto Romano Editoriale, Roma, 1925 (una nuova edizione italiana, rive-
duta e con un aggiornamento storico-bibliografico a cura di E. Lo Gatto, è uscita
presso Boni, Bologna, 1971); la seconda è La nuova Europa. Il punto di vista slavo,
a cura e con introduzione di F. Leoncini, Studio Tesi, Pordenone-Padova, 1997.
26
Sul contesto storico-politico di riferimento, v. E. Broklová, La Cecoslovacchia
nell’epoca di Tomáš G. Masaryk, in P. Fornaro (cur.), La tentazione autoritaria. Ii-
stituzioni, politica e società nell’Europa centro-orientale tra le due guerre mondiali,
Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, 61 ss.
27
V., ampiamente, M. Rauchensteiner, The Fisrt World War and the End of the
Habsburg Monarchy, 1914-1918, Böhlau, Wien, 2014; Id., Der Tod des Doppelad-
lers. Österreich-Ungarn und der Erste Weltkrieg, Graz-Wien-Köln, Styria, 1993; P.
Pombeni (cur.), La Grande guerra e la dissoluzione di un Impero multinazionale,
Fondazione Bruno Kessler (FBK) Press, Trento, 2017.
28
Imperatore d’Austria, re d’Ungheria e Boemia, ecc.
29
Alla guida del costituendo (ma, in effetti, mancato) Ministero si ipotizzò di
porre l’insigne giurista austriaco Heinrich Lammasch, docente di diritto penale al-
l’Università di Vienna, studioso di diritto internazionale e membro della Corte per-
manente di arbitrato dell’Aja. Cfr. B. Mayer, Lammasch als Politiker, dissertazione
alla Facoltà di filosofia dell’Università di Vienna, 1941.
30
La Triplice Intesa era formata da Impero britannico, Francia e Impero russo;
ad essi si unirono nel 1915 il Regno d’Italia e nel 1917 gli Stati Uniti d’America,
mentre la Russia ne fece parte fino al 1918, avendo poi abbandonato l’alleanza (con
il Trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918). L’Italia entrò in guerra in base al
Patto (o Trattato) di Londra, un accordo segreto firmato nella capitale inglese il 26
aprile 1915 tra il governo italiano e i rappresentanti della Triplice Intesa.
31
O Leon, nella traslitterazione anglosassone.

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La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico 91

pace e il riconoscimento del principio di autodeterminazione. In se-


condo luogo, quale “risposta” al detto manifesto, intervenne il di-
scorso pronunciato l’8 gennaio 1918 davanti al Senato USA dal Pre-
sidente statunitense Woodrow Wilson, anche a seguito dell’appello
alla pace del Papa Benedetto XV, il quale, nella Lettera ai Capi dei
popoli belligeranti datata 1° agosto 1917, aveva parlato di «inutile
strage»32. Si trattava del discorso wilsoniano in quattordici punti, ispi-
rato dalla volontà33 di dare vita dopo la fine del conflitto a un nuovo
ordine internazionale. Il “contromanifesto” wilsoniano era fondato
sui principi della democrazia liberale, con lo scopo di assicurare agli
Stati Uniti la leadership morale sulle correnti democratiche europee.
L’intento di Woodrow Wilson consisteva nel delineare il programma
di pace statunitense, dopo l’appello bolscevico per l’autodetermina-
zione, nonché facendo seguito all’esortazione papale34.
I nuovi Stati nazionali sorti dalla dissoluzione della duplice mo-
narchia si richiamano, dopo la guerra, ai quattordici punti di Wilson,
sebbene questi ultimi siano in verità alquanto generici sui singoli pro-
blemi territoriali, dal momento che si occupano principalmente di li-
bertà dei mari, riduzione degli armamenti e nuovo assetto dei Paesi
coloniali. In particolare, il decimo dei punti wilsoniani era specifica-
tamente dedicato all’Austria-Ungheria. Il punto in esame prevedeva,
da un lato, la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria, e, dall’altro lato,
il dovere della monarchia asburgica di garantire uno sviluppo auto-
nomo delle nazioni esistenti al suo interno35. Il decimo punto, quindi,
affermava l’obiettivo del ridimensionamento territoriale dell’Austria-
Ungheria, non però la sua cancellazione. Gli altri punti, inoltre, con-
tenevano affermazioni in merito ai problemi italiano, polacco e serbo.

32
Sulla condanna della guerra e del nazionalismo da parte della Chiesa cattolica,
v. R. Morozzo della Rocca, Benedetto XV e la prima guerra mondiale, in Annali di
scienze religiose, 2015, 31 ss.
33
C.d. war aims.
34
Cfr. le approfondite analisi di A. Ara, L’Austria-Ungheria nella politica ame-
ricana durante la prima guerra mondiale, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1973; Id., Gli
Stati Uniti tra Italia e Austria dalla dichiarazione di guerra americana all’Austria-
Ungheria alla conferenza della pace, in Storia e politica, 1973, 477 ss.
35
Questo era il tenore letterale del decimo punto: «Ai popoli dell’Austria-Un-
gheria, il cui posto desideriamo vedere tutelato e garantito fra le nazioni, si dovrà
dare più largamente occasione per uno sviluppo autonomo». I 14 punti di Woodrow
Wilson sono consultabili in E. Collotti, E. Collotti Pischel (cur.), La storia contem-
poranea attraverso i documenti, Zanichelli, Bologna, 1974, 138-139 (sub La proposta
americana per la conclusione della prima guerra mondiale).

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92 Mauro Mazza

I quattordici punti di Wilson ricevettero la risposta di uomini di


governo degli Imperi centrali. La Germania rispose negativamente,
mentre l’Austria-Ungheria dichiarò di condividere i grandi principi
del Presidente Wilson, ma non le modifiche dei confini e le ingerenze
negli equilibri interni della duplice monarchia.
Il dialogo a distanza proseguì, con il successivo discorso di Wil-
son c.d. dei quattro punti, pronunciato dal Presidente USA l’11 feb-
braio 1918. Il dialogo era in primo luogo con il governo di Vienna,
ma conteneva anche aperture alle nazionalità soggette.
Dopo il quarto durissimo inverno di guerra, il malcontento so-
ciale cresceva nell’Impero austro-ungarico. Gli esponenti della social-
democrazia austriaca36, fra cui in primis Otto Bauer, avevano com-
piuto una svolta radicale sotto l’influenza della Rivoluzione d’otto-
bre37. Nelle città dell’Impero si svolgevano comizi per la pace, men-
tre nel gennaio 1918 esplose la protesta operaia, con un’ondata di
scioperi a Vienna, Budapest, Brno, Cracovia, Trieste, Pola, ai quali si
accompagnò l’ammutinamento di marinai nel febbraio 1918 nella baia
di Cattaro (Boka Kotorska)38. Il “fronte interno” nell’ultimo anno di
guerra indubbiamente si allargava. Vi fu, infatti, una grande protesta
sociale e politica, ma non venne proclamato lo sciopero generale.
Questo perché la radicalizzazione della protesta venne valutata criti-
camente dalla vecchia leadership moderata socialdemocratica, rappre-
sentata in particolare da Viktor Adler e Karl Renner39, mentre lo
stesso Otto Bauer temeva l’invasione tedesca dei territori danubiani40.
Prevalevano, altresì, gli interessi nazionali. Renner, per esempio, non

36
Su cui v. il profilo storico di F. Kaufmann, Sozialdemokratie in Österreich.
Idee und Geschichte einer Partei. Von 1889 bis zur Gegenwart, Amalthea, Wien-
München, 1978. Si trattava, in particolare, della corrente storica dell’austromarxismo,
analizzata da G. Marramao, Austromarxismo e socialismo di sinistra fra le due guerre,
La Pietra, Milano, 1977.
37
Si veda R. Löw, Otto Bauer und die russische Revolution, Europaverlag, Wien,
1980.
38
Quest’ultimo evento innescò una serie di proteste all’interno dell’esercito im-
perialregio; v. R.G. Plaschka, Cattaro-Prag. Revolte und Revolution. Kriegsmarine
und Heer Österreich-Ungarns im Feuer der Aufstandsbewegungen vom 1. Februar
und 28. Oktober 1918, Böhlau, Graz, 1963.
39
Sul ruolo centrale di Renner (inter alia Cancelliere dal 1918 al 1920 e nel 1945,
nonché Presidente della Repubblica austriaca dal 1945 al 1950), cfr. W. Rauscher,
Karl Renner. Ein österreichischer Mythos, Ueberreuter, Wien, 1995.
40
Cfr. A. Agnelli, Questione nazionale e socialismo. Contributo allo studio del
pensiero di K. Renner e O. Bauer, il Mulino, Bologna, 1969.

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La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico 93

era disposto a riconoscere ai cechi il diritto all’autodeterminazione41;


i cechi preferivano la sconfitta militare per non salvare la monarchia;
i socialisti e democratici magiari restavano tenacemente legati alla tra-
dizione e al mito della “grande” Ungheria. In definitiva, vi fu una
radicalizzazione delle masse popolari, ma nella direzione delle riven-
dicazioni nazionali, piuttosto che in quella della rivoluzione sociale.
In data 6 gennaio 1918, i deputati parlamentari e dietali cechi42 ri-
vendicarono il diritto di autodeterminazione per cechi e slovacchi, in
base ai diritti storici, un ambiguo principio che avrà conseguenze ne-
gative per l’assetto della Mitteleuropa43. Nel contempo, anche per ef-
fetto della netta presa di posizione parlamentare, l’emigrazione poli-
tica ceca aveva ora maggiore ascolto e consenso nell’opinione pub-
blica interna.
Dopo la rivendicazione ceca, nel maggio 1918, venne sottoscritto
un accordo politico, militare, doganale ed economico tra i due Im-
peri centrali; tale accordo segnava l’appiattimento completo dell’Au-
stria-Ungheria sulla linea germanica. Si chiudeva, così, la lunga fase
della storia diplomatica del conflitto44, durante la quale non era del
tutto tramontata la possibilità di un accordo tra la monarchia danu-
biana e i Paesi dell’Intesa, secondo la prospettiva della c.d. pace di
compromesso45.
Si intensificò ulteriormente la politica delle nazionalità, la quale
faceva leva sul diritto delle nazioni, che nella monarchia austro-un-
garica si trovavano in condizioni d’inferiorità rispetto a quelle ege-
moni dei tedeschi e dei magiari, di staccarsene e costituirsi in Stati
indipendenti, anche a prezzo dello smembramento dell’Impero46. Per
certi versi, contro l’Austria-Ungheria si ritorceva la politica utilizzata

41
Sulla posizione teorica renneriana circa la questione delle nazionalità nell’Au-
stria-Ungheria, v. P. Loewenberg, Karl Renner and the Politics of Accommodation:
Moderation versus Revenge, in Austrian History Yearbook, 1991, 35 ss.
42
Più esattamente, i deputati cechi al Reichsrat e alle Diete di Boemia e Mora-
via.
43
Si veda H. Louis Rees. The Czechs during World War I. The Path to Inde-
pendence, Boulder (Col.), 1992 (East European Monographs, no. 339).
44
Cfr. A. Ara, Prolusione al Convegno Politica e Diplomazia. I Trattati di Pace
degli anni 1919-1920, tenutosi a Gorizia dal 18 al 19-11-1999 presso l’Auditorium
della Cultura Friulana, consultabile nel website dell’Istituto per gli incontri culturali
mitteleuropei-ICM (www.icmgorizia.it).
45
Verständigungsfriede, contrapposta alla Siegfriede (pace vittoriosa).
46
Cfr. L. Valiani, L’indipendentismo jugoslavo, cecoslovacco e ungherese (1915-
1916), in Id., La dissoluzione dell’Austria Ungheria, cit., 194 ss.

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94 Mauro Mazza

per la prima volta all’inizio del conflitto dagli Imperi centrali per in-
debolire la Russia.
La politica delle nazionalità era certamente sostenuta da cechi e
jugoslavi, ma anche dall’Italia. Non incontrava, per la verità, il favore
del Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, ma era appoggiata dal Primo
Ministro Vittorio Emanuele Orlando, che sosteneva l’utilità dei rap-
porti con il fuoriuscitismo ceco e slavo-meridionale, nonché di una
più stretta collaborazione tra l’Italia e le opposizioni nazionali anti-
asburgiche. Il Ministro Sonnino, invece, temeva le mire jugoslave sui
territori italiani.
Si giunse quindi al Congresso delle nazionalità oppresse d’Austria-
Ungheria, tenutosi a Roma nell’aprile 191847. Il Congresso suscitò
l’attenzione dei governi dell’Intesa per i movimenti nazionali ceco e
jugoslavo. Gli americani si interessarono anch’essi al Congresso, pur
non partecipando allo stesso. Si registrò, sulla scia del Congresso ro-
mano, un mutamento complessivo dell’atteggiamento verso l’Austria-
Ungheria. La politica delle nazionalità, infatti, era considerata alla stre-
gua di uno strumento per vincere la guerra, sulla base dell’idea sem-
pre più diffusa di Impero “artificiale”. Ne derivava il sostegno alla
dissoluzione dell’Impero, adesso anche da parte degli Stati Uniti
d’America.
In ogni caso, la crisi della monarchia danubiana fu accelerata più
che da interventi esterni dallo scontento interno. I movimenti nazio-
nali chiedevano ormai esplicitamente l’indipendenza. Nel maggio 1918
si riunirono a Praga i rappresentanti di tutte le nazioni «soggette»
d’Austria-Ungheria, ufficialmente presenti nella capitale boema al li-
mitato scopo do celebrare l’anniversario della fondazione del teatro

47
I lavori congressuali, presieduti dal senatore Francesco Ruffini (eminente giu-
rista, già Rettore dell’Università di Torino), si svolsero in Campidoglio dall’8 al 10
aprile 1918. Il c.d. Patto di Roma, frutto del dibattito congressuale, faceva cadere
per l’Italia la tradizionale pregiudiziale anti-slava, ovvero meglio anti-jugoslava. Al
Congresso romano partecipò, infatti, una delegazione del Comitato di propaganda
per l’intesa italo-jugoslava. Cfr. L. Valiani, L’autodecisione dei popoli e il «Congresso
di Roma», in Id., La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, cit., 344 ss. Dal “Patto di
Roma” originò, tra l’altro, la Legione ceca che combatté a fianco delle truppe ita-
liane nella riscossa del Piave. Su questa pagina rimasta a lungo trascurata dalla sto-
riografia, v. F. Leoncini (cur.), Il Patto di Roma e la Legione ceco-slovacca. Tra
Grande Guerra e Nuova Europa, Kellermann, Treviso, 2014; Aa.Vv., La legione
Ceco-Slovacca in Italia e la Grande Guerra (Raccolta di studi), Make That, Brati-
slava, 2016; L. Ferranti, La legione Ceco-Slovacca d’Italia nel processo di formazione
della Ceco-Slovacchia, Morlacchi, Perugia, 2018.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico 95

nazionale ceco. Vi fu, in quell’occasione, la partecipazione di forze


sino ad allora leali alla monarchia, come i polacchi e i cattolici tren-
tini, dichiaratisi a favore di posizioni «nazionali». Si acuiva, sotto que-
sto profilo, la differenza rispetto alla posizione mantenuta dai catto-
lici isontini, nonché dalla maggioranza dei socialisti triestini, ancora
leali alla monarchia asburgica.
Per la parte italiana, Alcide De Gasperi denunciò il centralismo
tedesco e la pressione livellatrice, che costringevano – a suo parere –
le nazioni non tedesche a rivendicare il diritto a vivere al di fuori di
uno Stato che soffoca le identità. Il regime militare e la politica cen-
tralistica dello Stato multinazionale durante la guerra finirono, dun-
que, con l’incentivare il processo di smembramento, pure a lungo av-
versato dai cattolici trentini e polacchi.
Permanevano, però, i (forti) dissensi interni tra le nazioni soggette.
L’edificio statale asburgico rimaneva, quindi, nonostante tutto in piedi,
a motivo della presenza di forze non solo centrifughe, ma anche cen-
tripete. Un esempio fu rappresentato dallo sciopero operaio a Buda-
pest del dicembre 191848, dal momento che i ceti proletari delle na-
zioni soggette negarono la solidarietà agli operai ungheresi. D’altro
canto, l’esercito imperialregio reggeva, a dispetto delle diserzioni, e
ciò almeno fino a quando le truppe ungheresi vennero richiamate in
patria. Si può, anzi, affermare che l’esercito assurse a simbolo unita-
rio della monarchia.
A seguito del fallimento dell’offensiva dell’esercito asburgico nel
giugno 1918, nel corso dell’estate la protesta delle nazionalità sog-
gette si intensificò fino a culminare in settembre nella proclamazione
del Consiglio nazionale cecoslovacco e del Consiglio nazionale slavo-
meridionale (degli sloveni, croati e serbi), i quali rappresentarono il
preludio delle dichiarazioni d’indipendenza dell’ottobre dello stesso
anno49. Le élites politiche delle nazionalità erano ormai schierate in

48
Durante il quale fu avanzata la richiesta di costituire i comitati di fabbrica (allo
scopo di ottenere dagli imprenditori la stipulazione di contratti collettivi).
49
Il Consiglio nazionale cecoslovacco proclamò l’indipendenza della Repubblica
cecoslovacca il 28 ottobre 1918 a Praga; v. A. Di Gregorio, Repubblica ceca, il Mu-
lino, Bologna, 2008, 20. A sua volta, il Consiglio nazionale degli sloveni, croati e
serbi (soggetti all’Austria-Ungheria), costituito a Zagabria, stabili il nuovo Stato (de-
gli sloveni, croati e serbi) il 29 ottobre 1918. Tale ultimo Stato si unì successiva-
mente, dal 1° dicembre 1918, con il Regno di Serbia e con quello del Montenegro,
dando vita al Regno dei serbi, croati e sloveni (Regno SHS), ovvero alla c.d. Prima
Jugoslavia (o Regno di Jugoslavia). Cfr. I. Pellicciari, Tre Nazioni, Una Costituzione.

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96 Mauro Mazza

grande maggioranza su posizioni centrifughe, anche se forse vi è an-


cora carenza, sotto il profilo dello “scavo” storiografico, di studi de-
dicati agli effettivi sentimenti della popolazione.
In occasione di un incontro nell’agosto 1918, Carlo I d’Austria
fece presente all’imperatore Guglielmo II i motivi che rendevano in-
sostenibile l’ulteriore resistenza austro-ungarica. Nel settembre del ’18
una nota di pace austro-ungarica venne inoltrata a Washington attra-
verso la Legazione svedese. Ebbero, così, inizio le trattative “ufficiali”
di pace, che erano state peraltro anticipate da negoziazioni “segrete”
condotte dall’uomo d’affari (industriale e commerciante) viennese Ju-
lius Meinl, incaricato informalmente dall’imperatore Carlo I, con il
pubblicista americano George Davis Herron, a sua volta autorizzato
a intavolare discussioni con gli emissari austriaci dal Dipartimento di
Stato USA (e dallo stesso Woodrow Wilson)50.
Il successivo 7 ottobre il Ministero degli Esteri asburgico espresse
nuovamente la disponibilità a trattare sulla base dei quattordici punti
wilsoniani. La diplomazia imperiale e regia considerava quella statu-
nitense come unico partner negoziale per salvare la monarchia, ma
gli Stati Uniti d’America replicarono che il decimo punto – riguar-
dante l’Austria-Ungheria – era ormai da considerare superato; per tal
modo, si rimetteva in discussione la stessa sopravvivenza dello Stato
danubiano.
Vi fu anche un tentativo di soluzione dei conflitti nazionali in-
terni, che si scontrarono però con l’intransigenza ungherese. In tale
contesto, la pubblicazione da parte di Carlo I del manifesto per la

Storia costituzionale del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, (1917-1921), Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2004; A. Becherelli, Il Regno dei Serbi Croati e Sloveni nell’Eu-
ropa di Versailles (1918-1921), prefazione di A. Vagnini, Aracne, Roma, 2017 (sul
Regno SHS, v. anche infra, nel paragrafo 3).
50
Cfr. S. Osuský, The Secret Peace Negotiations between Vienna and Washing-
ton, in Slavonic and East European Review, 1926, 657 ss.; M.P. Briggs, George D.
Herron and the European Settlement, Stanford University Press, Stanford, 1932. In
Italia, v. Leo Valiani, Nuovi documenti sui tentativi di pace nel 1917, in Id., La dis-
soluzione dell’Austria Ungheria, cit., 451 ss. La possibilità di un negoziato segreto
era stata preventivamente sondata presso Herron, per iniziativa di Meinl e Lamma-
sch (su quest’ultimo v. retro, nella nt. 29), dal pacifista tedesco Friedrich Wilhelm
Foerster, professore alle Università di Zurigo, Vienna e Monaco. Il prof. Foetser fu
oppositore del nazismo (scrisse l’opera dal titolo Mein Kampf gegen das militaristi-
sche und nationalistische Deutschland. Gesichtspunkte zur deutschen Selbsterkenntnis
und zum Aufbau eines neuen Deutschland, Stuttgart, «Friede durch Recht» Verlag,
1920).

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La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico 97

federalizzazione della sola Austria51, costituì nulla più che una tar-
diva apertura alle nazionalità soggette, non idoneo ad arginare il pro-
cesso di disintegrazione da tempo in atto nell’Impero.
All’inizio di novembre, il governo magiaro proclamò a sua volta
l’indipendenza del Paese e la decadenza degli Asburgo, allo scopo di
evitare la dissoluzione della «grande Ungheria». Seguì il richiamo dal
fronte italiano delle truppe ungheresi per difendere i confini della pa-
tria dopo la dichiarazione d’indipendenza. Si verificò, allora, un caso
probabilmente unico nella storia, vale a dire che l’esercito imperial-
regio continuò a combattere sulla linea del Piave, senza però avere
più un Paese alle spalle.
Si può, dunque, affermare che la Conferenza della pace di Parigi
del 191952 non sancì la dissoluzione della duplice monarchia, ma si
limitò, per così dire, a legalizzare il collasso che era già avvenuto
spontaneamente negli ultimi mesi di guerra53. In ultima analisi, lo
Stato plurinazionale (Nationalitätenstaat) con forza di aggregazione
interna minore rispetto alle altre potenze belligeranti, in quanto ba-
sato su un fragile e precario equilibrio tra forze centripete e centri-
fughe, non resse all’acuirsi delle tensioni interne provocate dalla guerra.

3. Conclusioni: le prospettive post-conflitto mondiale della questione


(e della relativa politica) delle nazionalità. – Dopo la scomparsa dello
Stato asburgico si aprì una lunga e sofferta stagione di transizione,
con conseguenze che sono avvertibili ancora oggi. Per esempio, nei
territori entrati a far parte dello Stato italiano con i trattati di pace
usciti dalla Conferenza di Parigi, l’euforia per lo storico e atteso av-
venimento della c.d. redenzione54 finì con il coprire problemi profondi,

51
L’ipotesi di ristrutturazione (o riorganizzazione) in senso federale era conte-
nuta nel Manifesto delle nazioni, datato 16 ottobre 1918.
52
In dottrina, v. A. Scottà (cur.), La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e do-
mani (1919-1920) (atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione,
svoltosi dal 31-5 al 4-6-2000), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003.
53
La tesi prospettata nel testo è stata sostenuta da V.S. Mamatey, Legalizing the
Collapse of Austria-Hungary at the Paris Peace Conference, in Austrian History Year-
book, 1967, 206 ss.
54
Cfr. A. Ara, L’irredentismo fra tradizione risorgimentale e nazionalismo, in Rö-
mische Hisdtorische Mitteilungen, 1982, 69 ss. L’illustre autore ivi scrive che l’irre-
dentismo italiano «è una corrente politica e di opinione quasi esclusivamente an-
tiaustriaca» (v. 69). In epoca risalente, v. la monumentale opera di A. Sandonà, L’ir-
redentismo nelle lotte politiche e nelle contese diplomatiche italo-austriache, I-III, Za-
nichelli, Bologna, 1932-1938, nonché R. Fauro, Trieste, Italiani e Slavi. Il governo

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98 Mauro Mazza

come è evidenziato dal vivace dibattito interno sui temi dell’autono-


mismo e dello “austriacantismo”. Si verificò, in altri termini, una sorta
di amputazione di una parte della propria storia e della propria iden-
tità55, favorita dall’intenso clima nazionalistico. Ne discende che i con-
trasti nazionali nella Venezia Tridentina (id est, le odierne provincie
autonome di Trento e Bolzano) e nella Venezia Giulia rappresentano
la prosecuzione di quelli esistenti nella vecchia Austria. Del resto, i
contrasti lacerano tutti gli Stati successori della duplice monarchia.
Sembra di potersi dire che nessuna delle realtà politiche e istituzionali
sorte dalla disintegrazione dello Stato danubiano riesca tuttora a dare
ai problemi sorti dalla convivenza al proprio interno di nazionalità di-
verse una risposta migliore e più giusta di quella data dalla scomparsa
monarchia danubiana, in particolare dalla sua metà austriaca.
Ne discende, in conclusione, un confronto intriso di elementi, in
buona parte emotivi e nostalgici, dai quali nasce il “mito” dell’Au-
stria asburgica, che da allora accompagna la riflessione critica e il di-
battito storiografico e giuridico sull’Austria-Ungheria. Ciò è reso evi-
dente dalla constatazione che gli Stati nati sulle ceneri dell’Impero
multietnico asburgico (e un discorso analogo potrebbe probabilmente
valere anche per l’ex Impero ottomano56), con particolare riferimento
alla c.d. Prima Repubblica cecoslovacca (1918-1938)57 e al Regno dei
serbi, croati e sloveni (1918-1929)58, hanno conosciuto, accanto alle

austriaco. L’irredentismo, Garzoni Provenzani, Roma, 1914; A. Vivante, Irredentismo


adriatico. Contributo alla discussione sui rapporti austro-italiani, Librerai della Voce,
Firenze, 1912.
55
In arg., cfr. A. Ara, Amputazione e riappropriazione della storia. Note minime
su alcuni episodi recenti, in Studi trentini di scienze storiche, 2004, 99 ss., poi ripub-
blicato come Postfazione a N. Dacrema (cur.), Felix Austria, Italia Infelix? Tre se-
coli di relazioni culturali italo-austriache, Aracne, Roma, 2015, 187 ss.
56
Membro della Quadruplice Alleanza, che riuniva Germania, Austria-Unghe-
ria, Impero ottomano e Regno di Bulgaria, opposti nella prima guerra mondiale agli
Stati della Triplice Intesa. Negli Stati multinazionali, quali l’Impero asburgico e quello
ottomano, i movimenti nazionali diventarono, infatti, forze disgreganti.
57
Cfr. A. Di Gregorio, Repubblica ceca, cit., 20 ss. Emblematico, più recente-
mente, il caso dello scioglimento nel 1993 della Repubblica cecoslovacca (c.d. sepa-
razione di velluto, che fa seguito alla c.d. rivoluzione di velluto del 1989), su cui v.
A. Di Gregorio, A. Vitale (cur.), Il ventennale dello scioglimento pacifico della Fe-
derazione ceco-slovacca. Profili storico-politici, costituzionali, internazionali, cit.; S.
Mancini, Il fallimento di un mariage de raison: la dissoluzione della Repubblica Fe-
derativa Ceca e Slovacca, in Nomos - Le attualità nel diritto, 1993, 87 ss.
58
Sui profili giuridici, cfr. G. Benacchio, La circolazione dei modelli giuridici tra
gli slavi del Sud (Sloveni, Croati, Serbi), Cedam, Padova, 1995. Per gli aspetti so-

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La dissoluzione dell’Impero austro-ungarico 99

traiettorie nazionaliste acceleratrici di cambiamento, anche nuove ten-


sioni e instabilità. La rilettura storico-giuridica delle vicende dell’Im-
pero austro-ungarico mostra che la monarchia danubiana non è de-
finibile quale “carcere dei popoli”, quanto piuttosto sono gli Stati na-
zionali – ovvero, almeno alcuni di essi – che hanno garantito e tal-
volta ancora garantiscono ben poco spazio ai diritti sia linguistici che
culturali delle minoranze nazionali presenti sui loro territori59. È, cioè,
necessaria una più aggiornata comprensione del carattere dei regimi
che hanno sostituito la monarchia dopo la sua caduta, che superi le
“narrazioni” tradizionali sulla fine dell’Austria-Ungheria, elaborate in
passato dagli “architetti nazionalisti” degli Stati successori della mo-
narchia asburgica60.

ciopolitici, v. B. Salvi, Il movimento nazionale e politico degli sloveni e dei croati.


Dall’Illuminismo alla creazione dello Stato Jugoslavo (1918), prefazione di L. Valiani
e note introduttive di A. Agnelli, ISDEE, Trieste, 1971 (sul Regno dei serbi, croati
e sloveni, v. anche retro, nel paragrafo 2).
59
In tal senso, v. la convincente argomentazione svolta da P.M. Judson, The Hab-
sburg Empire. A New History, The Belknap Press for Harvard University Press,
Cambridge (Mass.), 2016, che parla, con riferimento alla monarchia danubiana, di
Liberal Empire.
60
Analogamente orientata è l’analisi di P.M. Judson, “Where our commonality is
necessary…”: Rethinking the End of the Habsburg Monarchy, cit.

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Angela Ferrari Zumbini
IL DIRITTO DI ESSERE SENTITI
NELL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO

1. Introduzione. – Il processo del Nation Building passa anche at-


traverso la formulazione di principi generali del diritto che si pon-
gono come fondamenta dell’ordinamento giuridico da costruire.
In questo breve scritto l’attenzione sarà rivolta al diritto di essere
sentiti, come riconosciuto e ricostruito dalla corte amministrativa del-
l’Impero Austro-ungarico tra fine Ottocento e primi Novecento1. In
quegli anni la corte ha elaborato una serie di principi per l’azione
amministrativa che hanno influenzato i diritti amministrativi degli Stati
sorti dalle ceneri dell’Impero.
Il diritto di essere sentiti nel corso di un procedimento ammini-
strativo è attualmente un principio generale comune agli ordinamenti
democratici. Le radici di tale principio sono antiche, e la Corte Am-
ministrativa austriaca (Verwaltungsgerichtshof) ha affermato, fin dalla
fine dell’Ottocento, l’esistenza del diritto di essere sentiti anche in as-
senza di un’apposita prescrizione normativa, ricollegandosi ai prin-
cipi di natural justice.

2. Il Verwaltungsgerichtshof. – Il Verwaltungsgerichtshof (d’ora in


poi anche solo VwGH) fu istituito nel 1875 con la Gesetz vom 22
Oktober 1875, betreffend die Errichtung eines Verwaltungsgericht-
shofes (d’ora in poi anche solo VwGG), entrata in vigore il 2 aprile
1876.
La giurisdizione amministrativa era stabilita con una clausola ge-

1
L’analisi della giurisprudenza della corte amministrativa dell’Impero Austro-un-
garico è stata possibile grazie ad una approfondita ricerca di archivio nella biblio-
teca del Verwaltungsgerichtshof, condotta nell’ambito della ricerca CoCEAL Com-
mon Core of European Administrative Law, finanziata dall’European Research Coun-
cil (ERC) con un Advanced Grant (Grant Agreement n. 694697), PI Prof. Giacinto
della Cananea.

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102 Angela Ferrari Zumbini

nerale che devolveva al VwGH il potere di «decidere in tutti i casi


in cui qualcuno afferma che i suoi diritti sono stati violati da una de-
cisione illegittima di un’autorità amministrativa»2 (art. 2 VwGG).
La legge istitutiva del VwGH prevedeva due motivi di invalidità
degli atti amministrativi che ne giustificavano l’annullamento.
Il primo motivo era la «violazione di forme essenziali del proce-
dimento amministrativo» (art. 6, comma 2, VwGG). Tuttavia, la legge
non conteneva alcuna definizione, né un’elencazione, delle forme es-
senziali del procedimento. Pertanto, il Verwaltungsgerichtshof dovette
individuare quali fossero le forme essenziali del procedimento am-
ministrativo. Il potere creativo attribuito al VwGH fu riconosciuto
ed evidenziato fin da subito3, e fu una scelta intenzionale del legisla-
tore, ben consapevole di utilizzare espressioni e concetti indetermi-
nati privi di una definizione normativa4.
Il secondo motivo di invalidità di un atto amministrativo risiedeva
nel suo essere gesetzwidrig, contrario alla legge (art. 7 VwGG). La
corte annullava gli atti in base a tale disposizione normativa quando
l’amministrazione non era competente o non applicava la legge. Il
giudice amministrativo austriaco ha interpretato il concetto di ge-
setzwidrig in modo piuttosto ampio, non limitandolo alla contrarietà
alla sola legge formale, bensì intendendolo inclusivo di altre tipolo-
gie di regole generali, per esempio i regolamenti, dunque come con-
trarietà al diritto (rechtswidrig)5.
Il Verwaltungsgerichtshof era un’unica corte di unica istanza ed
aveva giurisdizione su compagini territoriali profondamente differenti

2
Tutte le traduzioni nel presente saggio dal tedesco all’italiano sono state fatte
dall’autrice del contributo, non sono traduzioni ufficiali, eventuali errori sono di sua
diretta responsabilità.
3
Nel primo volume che raccoglie le prime sentenze del VwGH (pubblicato nel
1877), il curatore scrive nella premessa che all’epoca non vi era alcuna codificazione
del diritto amministrativo, molte leggi risalivano a più di cento anni addietro, e le
leggi più recenti contenevano lacune. Pertanto, era chiaro che l’importanza e la ri-
levanza delle sentenze del VwGH travalicavano il singolo caso deciso, in quanto at-
traverso le sentenze veniva definita la regola applicabile ai casi concreti. Cfr. Vorwort
alla «Sammlung der Erkenntnisse des k. k. Verwaltungsgerichtshofes. Zusammenge-
stellt auf dessen Veranlassung von Adam Freiherrn von Budwinski, k. k. Hofsek-
retär» Wien, 31 dicembre 1877.
4
T. Olechowski, Die Entwicklung allgemeiner Grundsätze des Verwaltung-
sverfharens, Wien, Linde Verlag, 2006.
5
T. Olechowski, Die Einführung der Verwaltungsgerichtsbarkeit in Österreich,
Wien, Manz’sche Verlag, 1999, 172 ss.

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Il diritto di essere sentiti nell’Impero austro-ungarico 103

sotto il profilo etnico, culturale, linguistico, religioso. La sua giuri-


sprudenza ha fortemente influenzato il diritto amministrativo austriaco
e non solo, soprattutto per la disciplina del procedimento ammini-
strativo, creando un sistema di tutele giurisdizionali a favore dei sin-
goli nei confronti del potere pubblico.
L’importanza delle decisioni del giudice amministrativo è stata am-
plificata dalle opere di Friedrich Tezner, un professore universitario
che ha ricostruito e sistematizzato la disciplina del procedimento am-
ministrativo austriaco sulla base delle sentenze del VwGH. In so-
stanza Tezner ha fatto una raccolta sistematica, suddivisa per argo-
mento, delle decisioni del VwGH, su cui poi ha fondato una rico-
struzione dogmatica degli istituti6. Tezner fu poi nominato giudice e
presidente di sezione del VwGH7. Dunque, la sua opera, basata su
un’analisi sistematica della giurisprudenza amministrativa al fine di
elaborare una dogmatica del diritto amministrativo ed estrapolarne i
principi, svolge poi un ruolo fondamentale nella giurisprudenza suc-
cessiva di cui egli diviene autore in prima persona.
Il VwGH decideva singoli casi concreti, che grazie alla sistema-
tizzazione di Tezner divenivano uno strumento per l’enucleazione di
principi generali8, che furono poi codificati dalla legge austriaca sul
procedimento amministrativo del 19259.
6
Nel 1922 Tezner pubblica il volume Das österreichische Administrativverfah-
ren, dargestellt auf Grund der verwaltungsrechtlichen Praxis, la cui seconda edizione
rielaborata ed ampliata confluisce nella sua opera monumentale in quattro volumi
Die rechtsbildende Funktion der österreichischen verwaltungsgerichtlichen Rechtspre-
chung, di cui costituisce il quarto, più ampio, volume (i primi tre riguardano la dog-
matica giuridica, le fonti del diritto, l’organizzazione). L’opera è composta da quat-
tro volumi: il primo è Rechtslogik und Rechtswirklichkeit: eine empirisch-realistische
Studie; il secondo è Die Rechtsquellen des österreichischen Verwaltungsrechtes. Für
das Bedürfnis der Praxis dargestellt auf Grund der verwaltungsgerichtlichen Recht-
sprechung; il terzo è Die Ordnung der Zuständigkeiten der österreichischen Verwal-
tungsbehörden. Systhematisch dargestellt auf Grund der verwaltungsgerichtlichen Re-
chtsprechung; il quarto e ultimo è quello dedicato al procedimento Das österreichi-
sche Administrativverfahren. Systhematisch dargestellt auf Grund der verwaltung-
srechtlichen Praxis, 2° Auflage. Tutti i volumi sono editi dalla casa editrice di Vienna
Österreichische Staatsdruckerei, e sono stati pubblicati nel 1925, anno in cui Tezner
muore.
7
Tezner fu nominato giudice al Verwaltungsgerichtshof nel 1907 e dal 1921 fu
presidente di sezione.
8
Sull’importanza dell’opera di Tezner per l’enucleazione di principi generali del
procedimento, si veda T. Olechowski, Die Entwicklung allgemeiner Grundsätze des
Verwaltungsverfharens, cit., spec. pp. 26 ss.
9
Nel 1976 il presidente di sezione del VwGH Friedrich Lehne affermò che in

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104 Angela Ferrari Zumbini

L’esempio più importante di formulazione giurisprudenziale di un


principio, poi recepito dal legislatore, è sicuramente il diritto di es-
sere sentiti, il Parteiengehör, che il Verwaltungsgerichtshof ha da su-
bito individuato come un principio generale che attiene alla natura
delle cose e che dunque deve essere sempre garantito.

3. Il diritto di essere sentiti. – Nelle decisioni del VwGH volte a


delineare un sistema di tutele a protezione dei privati nei confronti
del potere pubblico possono individuarsi sei profili fondamentali: l’af-
fermazione dell’esistenza, della natura e delle funzioni del diritto di
essere sentiti; l’identificazione dei diritti da riconoscere ai partecipanti
(principalmente il diritto di avere conoscenza degli atti istruttori e di
presentare memorie); la ricostruzione del principio generale del giu-
sto procedimento; l’enunciazione dell’obbligo dell’amministrazione di
tenere in seria considerazione i documenti presentati dalle parti; il
profilo temporale e linguistico dell’invito a partecipare; la ripercus-
sione dei diritti di partecipazione sull’efficacia degli atti.

3.1. Esistenza, natura e funzioni del diritto di essere sentiti. – Già


nel 1884 con la sentenza n. 226310 il VwGH afferma che il diritto di
essere sentiti appartiene alla natura delle cose e deve pertanto essere
tutelato anche in assenza di una puntuale previsione normativa.
Il caso riguardava l’attribuzione della natura demaniale a una strada
(prima privata) che collegava altre strade del circondario a una sta-
zione ferroviaria. I ricorrenti, proprietari della strada, impugnarono
l’atto lamentando di non essere stati sentiti. La legge rilevante in ma-
teria non prevedeva alcun diritto di partecipazione. Ciononostante, il
VwGH ha annullato l’atto, affermando che l’assenza di una base nor-
mativa non rappresenta un elemento decisivo poiché la partecipazione
appartiene alla natura delle cose (die Natur der Sache) ed è necessa-
ria al fine di delineare in maniera completa e appropriata i fatti rile-
vanti per la decisione.

molti casi il legislatore ha codificato le soluzioni adottate dalla corte: «die Über-
nahme der Rechtsprechung durch das Gesetz behandelt«. F. Lehne, Aus dem le-
bendigen Erbe des k.k. Verwaltungsgerichtshofes, in Lehne, F., Loebenstein, E., Schi-
metschek, B., Die Entwicklung der österreichischen Verwaltungsgerichtsbarkeit, Sprin-
ger Verlag, Wien-New York, 1976, pp. 1 ss., la frase citata è a p. 8.
10
Sentenza n. 2263 del 24 ottobre 1884, «Sammlung der Erkenntnisse des k. k.
Verwaltungsgerichtshofes» del 1884, pp. 493-495

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Il diritto di essere sentiti nell’Impero austro-ungarico 105

La riconduzione dei diritti partecipativi alla natura delle cose viene


ribadita dieci anni dopo, con la sentenza n. 8150 del 189411. In que-
sto caso l’amministrazione aveva ordinato a una società di stipulare
polizze assicurative sanitarie per tutti i suoi dipendenti, senza infor-
mare la società dell’avvio del procedimento, e dunque impedendole
di partecipare.
La corte individua quale primo ed elementare requisito di un pro-
cedimento amministrativo corretto e completo il fatto che tutti co-
loro che subiranno conseguenze sfavorevoli dal provvedimento finale
debbano essere informati.
Il diritto di essere sentiti viene riaffermato nella sua qualità di di-
ritto immanente alla natura delle cose in una successiva sentenza del
189812 che ne evidenzia anche il profilo funzionale.
Il caso riguardava una fabbrica di Vienna a cui l’autorità pubblica
aveva notificato un provvedimento contenete una serie di obblighi da
adempiere nei confronti dei lavoratori. In particolare, il decreto or-
dinava di mettere a disposizione un letto (dotato di cuscino e co-
perta) per ciascun lavoratore, vietando quindi di far dormire insieme
due persone nello stesso letto, con l’unica eccezione delle coppie spo-
sate. I lavorati ospitati presso famiglie con cui non avevano alcun le-
game di parentela dovevano avere delle stanze separate in cui dor-
mire e dovevano essere divisi in base al sesso.
Il giudice riconosce che un tale ordine aveva lo scopo di impe-
dire comportamenti contrari alla salute e alla morale, tuttavia, lo an-
nulla per carenza procedimentale.
In particolare, il VwGH annulla il provvedimento poiché non era
stato riconosciuto al titolare della fabbrica il diritto di essere sentito
prima dell’adozione dell’atto. Anche in questo caso, le norme non
prevedevano diritti partecipativi in capo ai destinatari (trattandosi di
argomenti abbastanza sensibili come la salute pubblica e la moralità),
ma ciò non ha impedito al giudice di ricavare il right to a hearing
dal diritto naturale.
Il VwGH ritiene palesemente indubitabile che un ordine conte-
nente una serie di obblighi per il destinatario debba essere preceduto
da un’ampia istruttoria volta a valutare le varie alternative possibili

11
Sentenza n. 8150 del 10 novembre 1894, «Sammlung der Erkenntnisse des k.
k. Verwaltungsgerichtshofes» del 1894, pp. 979-980.
12
Sentenza n. 11393 del 5 febbraio 1898, «Sammlung der Erkenntnisse des k. k.
Verwaltungsgerichtshofes» del 1898, pp. 144-147.

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106 Angela Ferrari Zumbini

per rimuovere o rimediare ai comportamenti inadeguati. Nel presente


caso l’istruttoria si era svolta, ma senza la partecipazione del desti-
natario, e questo rende il procedimento viziato non solo per la vio-
lazione del diritto del privato, ma anche perché la mancata parteci-
pazione ha reso incompleta l’istruttoria, privando l’amministrazione
di un fondamentale contributo per la corretta ricostruzione dei fatti.
Il giudice in questo caso riconosce l’esistenza del diritto di essere
sentiti anche in assenza di una norma positiva che espressamente lo
preveda. Dunque, il soggetto su cui graveranno gli obblighi previsti
nel provvedimento deve avere l’opportunità di presentare obiezioni e
suggerimenti – sia in fatto che in diritto – e deve partecipare all’i-
struttoria che precede l’adozione del provvedimento. Nei casi ecce-
zionali in cui la partecipazione non sia possibile deve almeno essere
garantito il diritto di esprimere la propria opinione sui risultati del-
l’istruttoria prima dell’emanazione dell’atto.
Sotto il profilo funzionale, la corte collega il diritto di essere sen-
titi non solo a una funzione difensiva, ma anche a una funzione col-
laborativa per un’adeguata e corretta ricostruzione dei fatti rilevanti
per la decisione.

3.2. I diritti da riconoscere ai partecipanti. – Nel 1885, un anno


dopo aver affermato in generale l’esistenza di un right to a hearing,
la corte affronta anche la questione di quali debbano essere in con-
creto i diritti da riconoscere ai partecipanti.
L’amministrazione aveva proceduto a espropriare alcuni terreni al
fine di costruire una linea ferroviaria e i soggetti interessati erano stati
invitati a partecipare. Tuttavia, la corte individua tre carenze nella pro-
cedura espropriativa che ne determinano l’invalidità13.
In primo luogo, gli interessati avevano potuto unicamente esporre
argomenti a difesa della loro posizione (e dunque della loro proprietà)
ma non era stato concesso loro di accedere agli atti della procedura
e di conoscere le risultanze istruttorie e i rilievi di fatto eseguiti dai
periti in loco. Dunque, le parti non avevano conoscenza dei fatti in
base ai quali l’autorità avrebbe preso la propria decisione.
In secondo luogo, la procedura era lacunosa poiché l’amministra-
zione non aveva svolto alcuna indagine per verificare se l’espropria-

13
Sentenza n. 2452 del 13 marzo 1885, «Sammlung der Erkenntnisse des k. k.
Verwaltungsgerichtshofes» del 1885, pp. 164-167.

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Il diritto di essere sentiti nell’Impero austro-ungarico 107

zione di altri terreni, ugualmente idonei per la costruzione della fer-


rovia, avrebbe comportato danni economici uguali per i loro pro-
prietari. Il giudice non valuta la maggiore o minore adeguatezza di
una soluzione rispetto a un’altra: censura unicamente la mancata con-
siderazione di possibili alternative da parte dell’amministrazione (che
resta l’unica titolare di tale potere di ponderazione). L’amministra-
zione, prima di procedere a un’espropriazione, deve valutare le al-
ternative ammissibili, in quanto l’espropriazione è un’intrusione nel
diritto di proprietà e deve pertanto costituire un’eccezione, nei con-
fronti della quale i diritti privati esistenti devono essere tutelati con
le maggiori garanzie possibili.
In terzo luogo, il VwGH individua una illegittima disparità di trat-
tamento nei diritti riconosciuti ai partecipanti. Infatti, al perito no-
minato dai ricorrenti non è stato consentito di partecipare alle audi-
zioni, mentre la società ferroviaria ha potuto partecipare alle audi-
zioni con l’ausilio del proprio perito oltre che del proprio avvocato.
Con una successiva sentenza del 1895, la corte torna ad investi-
gare quali siano i diritti che debbano essere in concreto riconosciuti
ai partecipanti14.
Il caso riguardava un convento cistercense che era stato danneg-
giato a causa di un crollo del terreno, che i monaci ricollegavano al-
l’attività di una compagnia mineraria nelle vicinanze. I monaci si erano
rivolti all’autorità affinché inibisse l’attività mineraria. L’amministra-
zione però decise che i danni erano dovuti alla natura dell’edificio e
ai cambiamenti nella capacità di carico del sottosuolo, dunque rigettò
l’istanza.
Prima di emanare il provvedimento, l’autorità aveva svolto un pro-
cedimento con una complessa istruttoria a cui avevano partecipato an-
che i rappresentanti dell’Abbazia. L’amministrazione aveva nominato
tre esperti (uno di costruzioni, uno di montagne e uno di miniere)
che avevano ispezionato con sopralluoghi lo stato dei fatti e avevano
redatto le loro relazioni. I monaci avevano criticato la nomina di due
esperti su tre, mettendo in dubbio la loro indipendenza. L’ammini-
strazione aveva quindi proceduto a sostituire i due esperti con altri
due su cui l’Abbazia non aveva formulato alcuna riserva. I due nuovi
esperti fecero una nuova indagine completa ripetendo i sopralluoghi.

14
Sentenza n. 8686 del 22 maggio 1895, «Sammlung der Erkenntnisse des k. k.
Verwaltungsgerichtshofes» del 1885, pp. 654-656.

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108 Angela Ferrari Zumbini

Nonostante tale complessa istruttoria, il VwGH annulla il prov-


vedimento per carenze procedimentali perché l’autorità si era limitata
a comunicare per iscritto ai monaci i risultati delle relazioni degli
esperti, mentre avrebbe dovuto consentire un pieno accesso a tutta
la documentazione su cui i pareri erano stati espressi. Secondo i giu-
dici le parti hanno il diritto di avere piena conoscenza degli atti istrut-
tori che ricostruiscono i fatti. Tale piena conoscenza è necessaria per
poter pienamente esercitare il proprio diritto di presentare le richie-
ste e le osservazioni al fine di rappresentare e tutelare i loro diritti.
La mera comunicazione delle conclusioni dei periti non è sufficiente
a garantire i diritti partecipativi dei monaci, perché i fatti e i docu-
menti alla base di tali relazioni costituiscono parte integrante delle ri-
sultanze istruttorie rispetto alle quali le parti devono poter esprimere
la propria opinione.

3.3. Il principio del giusto procedimento. – Con una sentenza del


189815 il VwGH stabilisce che il diritto di essere sentiti si inserisce
nel più generale principio del giusto procedimento.
Il caso riguardava un pittore di porcellana che aveva registrato un
marchio e vent’anni dopo la camera di commercio cancellò il mar-
chio, ritenuto «non registrabile» sulla base delle dichiarazioni giurate
di altri pittori di porcellana.
Il ricorrente non aveva potuto visionare in alcun modo le depo-
sizioni delle persone interrogate e la sua istanza di accesso agli atti
formulata al Ministero per il commercio era stata rigettata.
La legge sulla tutela dei marchi non disciplinava affatto la proce-
dura per la cancellazione del marchio, quindi non vi era una disci-
plina normativa di riferimento. Ciononostante, il VwGH stabilisce
che la decisione di cancellare un marchio è una decisione ammini-
strativa. Quindi «deve conformarsi a determinati principi generali, che
il linguaggio e la scienza giuridica associano alla nozione di giusto
procedimento». Il primo e più importante di questi principi è che «la
persona i cui diritti sono coinvolti deve essere informata dei risultati
delle indagini svolte e deve avere l’opportunità di proteggere i suoi
diritti».
Secondo la Corte qualsiasi decisione amministrativa deve confor-
marsi a determinati principi generali, riconducibili alla nozione di giu-

15
Sentenza n. 11996 del 5 ottobre 1898, «Sammlung der Erkenntnisse des k. k.
Verwaltungsgerichtshofes» del 1898, pp. 999-1000.

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Il diritto di essere sentiti nell’Impero austro-ungarico 109

sto procedimento (Rechtsverfahren). Volendo riassumere il pensiero


della corte si potrebbe dire che ubi Verfahren, ibi Rechtsverfahren,
ovvero ogni volta che si svolge un procedimento, esso deve rispet-
tare i canoni del giusto procedimento.

3.4. Obbligo dell’amministrazione di tenere in seria considerazione


i documenti presentati dalle parti. – Dopo aver stabilito il diritto dei
partecipanti a presentare memorie e documenti, nel 1905 il VwGH
ha affermato anche il correlato obbligo dell’amministrazione di te-
nerne conto. Invero, il diritto dei privati sarebbe concretamente va-
nificato qualora l’amministrazione fosse libera di non considerare i
documenti prodotti dalle parti.
Peraltro, il principio in questione viene affermato in una sentenza
avente ad oggetto la materia fiscale, settore nel quale tutt’oggi le tu-
tele a favore dei privati subiscono talora ingiustificate limitazioni.
Con la sentenza n. 3212(F) del 190516, la corte annulla per carenze
procedurali un avviso di accertamento poiché l’amministrazione fi-
nanziaria non aveva tenuto in seria considerazione la documentazione
presentata dal privato per contestare l’accertamento.
L’autorità fiscale della Galizia aveva emesso un avviso di accerta-
mento nei confronti del sig. Berto sul presupposto che egli avesse
guadagnato un’ingente somma di denaro da alcune operazioni di com-
pravendita immobiliare. Il sig. Berto, nel corso del procedimento di
accertamento fiscale, aveva presentato una serie di documenti da cui
risultava che il venditore dei terreni, e dunque beneficiario dei ricavi,
era un soggetto terzo, avendo egli svolto unicamente il ruolo di me-
diatore, per cui aveva guadagnato una somma notevolmente inferiore.
Nonostante la documentazione contrattuale prodotta dal contri-
buente, da cui si evinceva il suo ruolo di mero intermediario, il fi-
sco galiziano emette l’avviso di accertamento per l’intera somma. Il
giudice annulla l’atto poiché la procedura ha rivelato carenze signifi-
cative, soprattutto perché l’autorità fiscale non ha preso in conside-
razione i documenti presentati dal contribuente.
L’art. 1 della legge sulle imposte dirette allora in vigore affermava
che la base imponibile deve fondarsi sulla raccolta e sulla ricostru-
zione di fatti specifici.

16
Sentenza 3212(F) del 3 gennaio 1905, «Sammlung der Erkenntnisse des k. k.
Verwaltungsgerichtshofes» del 1905, pp. 3-4.

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110 Angela Ferrari Zumbini

Il VwGH afferma che qualora il contribuente contesti o neghi i


fatti specifici che hanno determinato la base imponibile, l’autorità fi-
scale deve prendere in seria considerazione la documentazione pre-
sentata dal contribuente, e non può semplicemente affermare il con-
trario senza fornire alcuna motivazione. Tanto più che tale noncu-
ranza nei confronti dei documenti del contribuente, senza fornire una
motivazione alla base del rifiuto, priva il soggetto del diritto di for-
nire chiarimenti, commentare o confutare le ipotesi dell’amministra-
zione.

3.5. Profili temporali e linguistici dell’invito a partecipare. – Oltre


ad affermare la necessità di far partecipare al procedimento ammini-
strativo i destinatari del provvedimento finale, il VwGH ha indivi-
duato alcune caratteristiche necessarie dell’invito a partecipare, atti-
nenti il profilo temporale e linguistico.
Con la sentenza n. 6218 del 190817, la corte ha definito il concetto
di Rechtlicher Gehör, affermando che il primo e fondamentale prin-
cipio del procedimento amministrativo è che a tutte le parti deve es-
sere data l’opportunità di esprimere la propria opinione e di tutelare
i propri diritti. Al fine di garantire che l’audizione delle parti sia ef-
fettivamente un Rechtlicher Gehör, la convocazione deve essere scritta
in una lingua che il destinatario comprende e deve essere inviata con
un congruo anticipo. Dunque, la convocazione per un’audizione del
24 ottobre 1907, inviata al ricorrente il 21 ottobre e in una lingua
che non comprendeva, non garantisce i diritti di partecipazione del
ricorrente (nell’impero austro-ungarico vi erano diverse lingue uffi-
ciali).
La necessità di un congruo anticipo per la convocazione delle parti
viene ribadita l’anno seguente con la sentenza n. 683718.
Il caso ha origine dalla decisione del consiglio scolastico regionale
della Boemia di costruire una nuova scuola elementare nella località
di Trebetin in considerazione dell’aumento della popolazione infan-
tile in quella località. Tale decisione viene impugnata dal consiglio
scolastico locale della comunità di Běla, affermando che fosse più op-
portuno ampliare la scuola esistente a Běla piuttosto che costruirne

17
Sentenza n. 6218 del 22 ottobre 1908, «Sammlung der Erkenntnisse des k. k.
Verwaltungsgerichtshofes» del 1908, pp. 1045-1046.
18
Sentenza n. 6837 del 26 giugno 1909, «Sammlung der Erkenntnisse des k. k.
Verwaltungsgerichtshofes» del 1909, pp. 780-781.

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Il diritto di essere sentiti nell’Impero austro-ungarico 111

una nuova a Trebetin (fino a quel momento i bambini della comu-


nità di Trebetin rientravano nel bacino di utenza della scuole di Běla,
la quale avrebbe quindi subito una diminuzione del corpo studente-
sco). La corte rigetta il ricorso sotto il profilo sostanziale, invocando
la discrezionalità amministrativa, ma accoglie le doglianze del ricor-
rente sotto il profilo procedurale.
Infatti, il consiglio scolastico locale di Běla era stato invitato a
un’audizione presso il consiglio regionale della Boemia, ma l’invito
era stato inviato troppo tardi, rendendo impossibile inviare un rap-
presentante. Il VwGH ritiene che l’assenza di un invito tempestivo,
che avrebbe consentito la corretta rappresentazione della parte inte-
ressata durante l’audizione, deve essere considerata un grave difetto
nella procedura.
Dunque, il diritto di essere sentiti implica che l’invito a parteci-
pare debba essere inviato con un congruo anticipo e in una lingua
compresa dal destinatario.

3.6. Partecipazione ed efficacia degli atti. – Con la sentenza n. 3544


del 190519 in materia di concessioni farmaceutiche, il VwGH ha chia-
rito le ripercussioni del rispetto del diritto di essere sentiti sull’effi-
cacia degli atti20.
Nel 1901 l’autorità amministrativa di Vienna aveva riassegnato tre
concessioni farmaceutiche a tre farmacisti senza espletare una proce-
dura pubblica aperta alla partecipazione di tutti i farmacisti. Un far-
macista (Anton T.) che avrebbe avuto interesse a ottenere una con-
cessione, impugna i provvedimenti con un ricorso amministrativo,
chiedendo dunque l’annullamento in autotutela. Il Ministero degli In-
terni annulla i tre provvedimenti di riassegnazione delle concessioni
proprio per il mancato svolgimento di una procedura pubblica.
Durante il procedimento di secondo grado volto ad esercitare i
poteri amministrativi di autotutela, uno dei tre farmacisti a cui la con-
cessione era stata riassegnata (Franz Z.), non era stato invitato a par-
tecipare. Pertanto, egli impugna dinanzi al VwGH il provvedimento

19
Sentenza n. 3544 del 13 maggio 1905, «Sammlung der Erkenntnisse des k. k.
Verwaltungsgerichtshofes» del 1905, pp. 562-567.
20
Sul concetto generale di efficacia giuridica si veda A. Falzea, voce Efficacia
giuridica, in Enciclopedia del Diritto, vol. XIV, Giuffrè, Milano, 1965, pp. 432 ss.; e
in particolare per l’efficacia degli atti amministrativi si rinvia a G. Corso, L’efficacia
del provvedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1969.

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112 Angela Ferrari Zumbini

con cui si annulla la sua concessione, lamentando la violazione del


suo diritto si essere sentito.
La corte annulla il provvedimento in autotutela (avviato su ini-
ziativa di Anton T.) perché il titolare della concessione Franz Z. era
un controinteressato ed è stato ingiustamente pretermesso. La corte
riconosce come principio fondamentale del procedimento ammini-
strativo che se una parte interessata al procedimento viene ingiusta-
mente esclusa, il provvedimento finale non può spiegare alcun effetto
giuridico nei suoi confronti.
Peraltro, l’individuazione di Franz Z. quale controinteressato era
piuttosto agevole. Il VwGH annulla l’atto in quanto esso non po-
teva avere efficacia nei confronti di un soggetto interessato «rechtli-
cher Interessent» a cui era stata negata l’opportunità di partecipare al
procedimento.

4. Conclusioni. – La corte amministrativa austriaca ha svolto un


ruolo cruciale nell’elaborazione dei principi generali dell’azione am-
ministrativa. Quando fu approvata la legge istitutiva del Verwaltung-
sgerichtshof nel 1875 la legislazione in materia amministrativa era as-
sai vetusta, lacunosa e soprattutto non vi era alcuna legge generale
sull’azione amministrativa. Durante la discussione parlamentare per
l’approvazione della legge istitutiva del VwGH vari membri delle due
camere sottolinearono la necessità di codificare il diritto amministra-
tivo, poiché in quel momento non vi era «alcuna disciplina del pro-
cedimento amministrativo, che è completamente senza regole e ri-
messo all’arbitrarietà delle amministrazioni»21.
Il legislatore attribuì al giudice il potere di annullare gli atti per
«carenze nelle forme essenziali del procedimento» ma evitò di defi-
nire o elencare tali forme essenziali, rinviando al VwGH la loro in-
dividuazione.
La corte ha dunque dovuto identificare gli standard generali del-
l’azione amministrativa, da utilizzare quale criterio di giudizio per va-

21
La frase citata è di Ernst von Plener, membro della Abgeordnete Haus, pro-
nunciata durante la seduta del 18 marzo 1875, riportata in P. Gautsch von Frankenthurn,
Die Gesetze vom 22. October 1875, R.G.B. Nr. 36 und 37, Jahrgang 1876 über den
Verwaltungsgerichtshof: mit Materialien, Wien, Manz’sche k.k. Verlag, 1876, pp. 170
ss. La frase citata è a p. 175 «keine Vorschriften, keine Normen für das administra-
tive Verfahren. Das administrative Verfahren unserer Behörden ist vollständig regel-
los, der reinen Willkür der Behörden überlassen».

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Il diritto di essere sentiti nell’Impero austro-ungarico 113

lutare nei casi concreti la legittimità degli atti amministrativi. Il VwGH


non si è limitato a stabilire standard per controllare la legittimità og-
gettiva dell’azione amministrativa, ma ha anche costruito un sistema
di diritti dei cittadini ad un giusto procedimento22.
Il principio del giusto procedimento e il suo primo e fondamen-
tale elemento del diritto di essere sentiti vengono ricostruiti dal giu-
dice attraverso il richiamo al diritto naturale. Già nel 1884 il right to
a hearing viene ricondotto alla natura delle cose, dunque costituisce
un diritto da tutelare anche in assenza di un’espressa previsione nor-
mativa che lo preveda. Il diritto di essere sentiti viene definito come
principio generale non scritto che appartiene al diritto naturale.
Nel volume di Tezner sul procedimento amministrativo del 1925
l’espressione «die Natur der Sache» viene adoperata otto volte. In
particolare, egli chiarisce che «contrario al diritto non è sinonimo di
contrario alla legge. La nozione di contrario al diritto ricomprende
anche tutto ciò che è contrario alla legge così come essa risulta dalla
giurisprudenza, pur in assenza di una base normativa esattamente
identificabile. Diritto è tutto ciò che il Verwaltungsgerichtshof ha af-
fermato come tale, richiamando la Natura delle Cose o i principi ge-
nerali»23.
Il VwGH ha elaborato diversi principi, desumendoli dal diritto
naturale, da cui derivavano numerosi diritti procedurali che i singoli
potevano in concreto esercitare nei confronti delle autorità ammini-
strative.
Il primo e più importante principio stabilito dalla giurisprudenza
amministrativa austriaca è il Parteienghör, in base al quale la persona
che subirà le conseguenze dell’atto amministrativo deve essere ascol-
tata prima dell’emanazione dell’atto. Il principio della partecipazione
come enunciato dalla corte non ha unicamente una funzione difen-

22
H.R. Klecatsky, Der Verwaltungsgerichtshof und das Gesetz, in W. Dorazil, B.
Schimetschek, F. Lehne (a cura di), 90 Jahre Verwaltungsgerichtsbarkeit in Öster-
reich, cit., pp. 46 ss., afferma esplicitamente tale ruolo del Verwaltungsgerichtshof.
23
«Rechtswidrig ist nicht gleichbedeutend mit Gesetzwidrig. Rechtswidrig ist
auch das, was dem durch die Rechtsprechung ohne genau nachweisbare Grundlage
gefundenen Recht im Wiederspruche steht. Alles, was der Verwaltungsgerichtshof
unter Heranziehung der Natur der Sache, allgemeiner Rechtsgrundsätze […] zutage
gefördert hat, ist Recht«. F. Tezner, Die rechtsbildende Funktion der österreichischen
verwaltungsgerichtlichen Rechtsprechung, IV. Das österreichische Administrativver-
fahren. Systhematisch dargestellt auf Grund der verwaltungsrechtlichen Praxis, 2° ed.,
cit., p. 305.

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114 Angela Ferrari Zumbini

siva, ma ha anche una funzione collaborativa poiché è necessario per


la corretta ricostruzione dei fatti rilevanti.
Il VwGH non si limita ad affermare il diritto di essere sentiti, ma
richiede che il Gehör sia sempre un rechtlicher Gehör, ovvero che al
privato, durante la partecipazione, siano garantiti una serie di diritti
e tutele.
Innanzitutto, durante la partecipazione deve essere garantita la pa-
rità di trattamento a tutte le parti intervenute. Inoltre, l’invito a par-
tecipare alle audizioni deve pervenire all’interessato con un congruo
anticipo per consentirgli effettivamente di partecipare, e deve essere
redatto in una lingua che il destinatario comprende.
Rispetto ai diritti esercitabili, deve essere consentito l’accesso agli
atti istruttori. Invero, gli interessati devono avere piena conoscenza
di tutti i documenti che l’amministrazione utilizza per stabilire i fatti
e le circostanze rilevanti per l’adozione dell’atto. Inoltre, i privati de-
vono avere il diritto di presentare memorie per commentare e con-
futare i fatti e le circostanze così come emergono dai documenti in
possesso dell’amministrazione.
Oltre al diritto di presentare memorie, il VwGH stabilisce anche
il corrispondente e fondamentale obbligo per l’amministrazione di te-
nere in seria considerazione i documenti prodotti dai privati.
I diritti partecipativi si ripercuotono anche sul profilo dell’effica-
cia degli atti. Secondo il VwGH un atto emanato senza il coinvolgi-
mento della persona interessata non può produrre effetti giuridici nei
confronti di tale persona. Pertanto, la partecipazione dell’interessato
è presupposto essenziale per la piena efficacia dell’atto.
Infine, la corte afferma il principio generale del giusto procedi-
mento, a cui ogni procedimento amministrativo deve conformarsi a
prescindere dalla concreta disciplina normativa settoriale. Dunque,
ogni volta che l’amministrazione svolge un procedimento (Verfahren)
deve garantire che esso sia un giusto procedimento (Rechtsverfahren).

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Andrea Gratteri
IL PRINCIPIO PROPORZIONALE
NELLE COSTITUZIONI DEL PRIMO DOPOGUERRA

1. Il terreno fertile della rappresentanza proporzionale al cambio


di secolo. – Nel corso dell’Ottocento le idee proporzionalistiche fu-
rono oggetto di intense speculazioni teoriche e di iniziative politiche
innovative in molte aree d’Europa. La pubblicistica dell’epoca è as-
sai ricca di proposte e può essere letta in una duplice prospettiva: da
un lato si affermava l’esigenza di promuovere una diversa e più giu-
sta forma di rappresentanza politica; dall’altro, ci si preoccupava di
elaborare soluzioni tecniche capaci di tradurre nella legge elettorale
le nuove istanze.
Gli scritti di Attilio Brunialti sono emblematici in proposito e ab-
bondano di accostamenti fra un ideale di giustizia e la rappresentanza
proporzionale. Fra i molti sostenitori dell’idea proporzionalista egli cita
John Stuart Mill secondo cui in un sistema rappresentativo la maggio-
ranza degli elettori deve avere la maggioranza dei rappresentanti e la
minoranza degli elettori deve averne la minoranza: «uomo per uomo,
la minorità dovrebbe essere rappresentata alla pari della maggiorità […]
se no si va contro ogni giustizia, e sovratutto contro il principio de-
mocratico, che proclama sua radice e fondamento l’eguaglianza»1.
Non è insolito incontrare affermazioni legate a tale aspetto nei la-
vori di altri fra i primi pionieristici teorici della rappresentanza pro-
porzionale; fra questi Francesco Genala che nel 1871 nel volume Della
libertà e equivalenza dei suffragi nelle elezioni ovvero della propor-
zionale rappresentanza delle maggioranze e minoranze si rifà a un
criterio di giustizia nel valutare le leggi elettorali: «è ingiusto, illibe-

1
Così in A. Brunialti, Libertà e democrazia, Treves, Milano, 1872, p. 47. Sul
tema della giustizia della rappresentanza proporzionale v. diffusamente anche A. Bru-
nialti, La giusta rappresentanza per tutti gli elettori, Cirelli, Roma, 1878 che – sotto
forma di esergo – recita: «La decisione alle maggioranze, la rappresentanza a tutti
gli elettori».

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116 Andrea Gratteri

rale, dannoso» il sistema che esclude dalla rappresentanza una parte


degli elettori. Questo ideale di giustizia è, già all’epoca, connesso al
suffragio universale e in una visione radicale ci si spinge fino al punto
di affermare che «la rappresentanza proporzionale è giusta, è legit-
tima e […] perciò ingiusti e illegittimi sono tutti quegli ordinamenti
che la rendono impossibile»2.
Ernesto Bettinelli3 riconduce tali affermazioni di giustizia e verità
– intesa come fedele rappresentazione della volontà degli elettori –
alla cultura di origine illuminista che si era diffusa nella seconda metà
del XIX secolo nella ricerca della vera maggioranza. Se ne coglie l’eco
nelle parole di Ernest Naville che, nel sostenere che solo una rap-
presentanza parlamentare fedele può garantire i principi fondamen-
tali dello Stato rimettendo il governo del Paese alle decisioni di una
maggioranza reale, afferma anche, con una delle più icastiche fra le
espressioni dei pensatori proporzionalisti, che «dans un État démo-
cratique, le droit de décision appartient à la majorité, mais le droit
de représentation doit appartenir à tous»4.
In tutta Europa fiorirono le associazioni proporzionaliste come la
Proportional Representation Society nel Regno Unito, l’Association
réformiste belge, l’Association réformiste di Ginevra e l’Associazione
per lo studio della rappresentanza proporzionale in Italia5 e, con esse,
si moltiplicarono gli studi di carattere teorico che miravano all’ela-
borazione di un modello matematico capace di restituire una proie-
zione equa dei rapporti numerici fra i voti ottenuti dalle liste e i seggi
assegnati. Gli studiosi più celebri di quella stagione furono Thomas
Hare, Victor d’Hondt, Eduard Hagenbach-Bischoff e, in seguito, An-
drè Sainte-Lagüe. Ma ad essi se ne affiancarono altri meno celebri o,
addirittura, quasi sconosciuti. Vale la pena ricordare perlomeno il da-
nese Carl Andrae, il belga Pierre Imperiali e i tedeschi Gustav Bur-
nitz e Georg Varrentrapp. Furono proprio le intuizioni dei pensatori

2
F. Genala, Della libertà e equivalenza dei suffragi nelle elezioni ovvero della
proporzionale rappresentanza delle maggioranze e minoranze, Vallardi, Milano, 1871,
pp. 9 e 22.
3
E. Bettinelli, All’origine della democrazia dei partiti, Ed. di Comunità, Milano,
1982, p. 12.
4
E. Naville, La Patrie et les partis, discours sur la réforme électorale prononcé le
15 février 1865, Ginevra, Georg 1865, rispettivamente pp. 41 s. e 14 s.
5
In proposito v. M.S. Piretti, La giustizia dei numeri - Il proporzionalismo in
Italia (1870-1923), il Mulino, Bologna, 1990, p. 19 ss.

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 117

di questa feconda epoca a gettare le basi delle formule proporzionali


oggi considerate classiche e, allora, viste come rivoluzionarie6.
Il crescente successo delle idee proporzionalistiche fu favorito da
due fondamentali elementi che marcarono il passaggio dallo stato li-
berale allo stato di democrazia pluralista: il suffragio universale e il
ruolo dei partiti di massa. Nei nuovi sistemi politici dell’inizio del
Novecento le leggi elettorali proporzionali divennero una vera e pro-
pria esigenza. Era essenziale trasformare gli assetti della rappresen-
tanza politica per superare il predominio di una ristretta élite bor-
ghese e favorire la partecipazione di tutti i cittadini alla vita istitu-
zionale per il tramite (più o meno significativo) dei partiti politici.
Si trattava di un’idea davvero rivoluzionaria, capace di soppian-
tare quasi ovunque i sistemi di impronta maggioritaria che avevano
caratterizzato la rappresentanza negli Stati borghesi dell’epoca libe-
rale. Il nucleo centrale di tale trasformazione risiedeva nella volontà
di tutelare le minoranze politiche al momento della composizione
dell’assemblea rappresentativa. Inoltre, emerse molto rapidamente an-
che la consapevolezza della capacità dei nuovi sistemi di rispecchiare
fedelmente i rapporti di forza fra i partiti politici, così come definiti
in base alle preferenze dell’elettorato, garantendone le reciproche po-
sizioni. Questa potenzialità “fotografica” della rappresentanza pro-
porzionale influì frequentemente sulle valutazioni di convenienza de-
gli attori politici tradizionalmente dominanti, i quali compresero su-
bito che avrebbero potuto, talvolta, beneficiare di una minor seletti-
vità del sistema elettorale. Da elemento rivoluzionario di trasforma-
zione istituzionale la proporzionale fu, invece, spesso imbrigliata in
sistemi politici che tentavano di resistere ai mutamenti conseguenti
all’allargamento del suffragio e all’erosione dei consensi in favore dei
nuovi partiti di massa7.

2. La diffusione del principio proporzionale nei testi costituzionali


di inizio Novecento, prima e dopo la guerra. – L’apparente ambiguità
della rappresentanza proporzionale, capace di alternare un carattere
di rottura ad uno di conservazione, fu evidente al momento della
adozione della legge elettorale proporzionale basata sul metodo d’Hondt

6
Su questi aspetti rinvio diffusamente a A. Gratteri, La formula e il risultato,
Franco Angeli, Milano, 2019, p. 23 ss.
7
In proposito v. M. Volpi, Le riforme elettorali in Francia, Bulzoni, Roma, 1987,
p. 37 s.; M. Luciani, Il voto e la democrazia, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 22.

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118 Andrea Gratteri

da parte del legislatore belga nel 1899. Una riforma epocale intro-
dotta con la prudenza propria della legga ordinaria che, in assenza di
un vincolo costituzionale, sarebbe stata facilmente modificabile in caso
di necessità. Colse appieno questo elemento Joseph Barthélemy che
sottolineò il successo di una soluzione dettata dalla saggezza del le-
gislatore belga che ha evitato «di dare tutto d’un colpo al problema
dell’elettorato la soluzione definitiva, dettata da pretesi principi su-
periori» ed ha compreso che «l’arte politica è dominata dalla regola
della relatività. Le soluzioni debbono variare, non soltanto con i co-
stumi, con gli ambienti, con i temperamenti delle razze, ma ancora
con altre mille circostanze, di cui la più importante è il tempo: l’i-
stituzione più perfetta è quella che conviene di più al momento. Così
le organizzazioni del diritto di suffragio hanno rivestito quasi sem-
pre, in Belgio, un carattere transitorio»8.
Fu quello il clima politico-istituzionale in cui il carattere “rivolu-
zionario” della formula d’Hondt si tradusse rapidamente in un ele-
mento di stabilizzazione, se non di conservazione. A fronte degli in-
convenienti di un sistema maggioritario incapace di reggere alle forti
divisioni elettorali fra cattolici e liberali, i più lungimiranti rappre-
sentanti del partito cattolico capirono che solo una legge elettorale
proporzionale avrebbe evitato la scomparsa del partito liberale che,
invece, era essenziale in funzione equilibratrice rispetto al crescente
partito socialista9.
Nel continente europeo, però, l’approccio gradualistico seguito in
Belgio rimase un’eccezione e, negli anni del primo dopoguerra, si dif-
fuse l’idea che il principio della rappresentanza proporzionale meri-

8
J. Barthelemy, L’organisation du suffrage et l’expérience belge, M. Giard et É.
Briére, Parigi, 1912, p. 747 nella traduzione presente in D. De’ Cocci, La legisla-
zione elettorale belga, Sansoni, Firenze, 1946, p. 7.
9
Sul punto v. D. De’ Cocci, La legislazione elettorale belga, cit., p. 20 ss., che
ricorda anche come nella vigenza del sistema maggioritario accadde talvolta che la
maggioranza dei seggi fosse assegnata (per lo squilibrio nelle circoscrizioni) al par-
tito minoritario e come poche centinaia di voti potessero costituire l’ago della bi-
lancia nelle maggiori circoscrizioni e, quindi, nell’intero paese. Nell’ampia letteratura
sul tema delle motivazioni degli attori politici nel promuovere la rappresentanza pro-
porzionale v., in questo senso, C. Boix, Setting the Rules of the Game: The Choice
of Electoral Systems in Advanced Democracies, in American Political Sciences Re-
view, 1999, p. 609 ss.; S. Rokkan, Citizens Elections Parties, D. Mckay, New York,
1970.

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 119

tasse non solo di trovare applicazione, ma anche di essere affermato


in Costituzione in modo da vincolare il legislatore ordinario.
Questa tendenza si riscontra facilmente nella quasi totalità delle
Costituzioni entrate in vigore negli ordinamenti sorti dalle ceneri della
guerra e dal crollo degli Imperi tedesco e austro-ungarico. La vastità
del gruppo di Costituzioni che lo esplicitano è impressionante. E non
è un caso che si tratti della prima ampia generazione di Costituzioni
rigide adottate in un breve lasso di tempo e in un contesto tutto som-
mato omogeneo dal punto di vista culturale, geografico e storico.
Tutte le Costituzioni dei Länder tedeschi adottate fra il 1919 e il
1922 contengono la esplicita costituzionalizzazione del principio pro-
porzionalistico10, in linea del resto con quanto stabilito dalla Costi-
tuzione di Weimar all’art. 22: «I deputati sono eletti a suffragio uni-
versale, eguale, diretto e segreto da tutti gli uomini e donne che ab-
biano compiuto i venti anni d’età, secondo i principi della rappre-
sentanza proporzionale». Il favore per una soluzione proporzionale
era pressoché scontato, anche nei testi che precedettero la Costitu-
zione di Weimar, nonostante la presenza di alcune autorevoli voci cri-
tiche11.
Si affermava così quella che Costantino Mortati identificò come
«un’esigenza caratteristica delle democrazie moderne nelle quali l’in-
gente massa degli elettori, formata da tutti i cittadini maggiorenni,
portatori di una molteplicità di interessi economici e sociali e dai fini
politici difformi, non potrebbe validamente adempiere la funzione sua
propria se non si predisponessero i congegni idonei ad enucleare da
essa gli orientamenti corrispondenti a tali interessi e fini, ed a fare
valere questi nella fase deliberativa con il peso da ciascuno effettiva-
mente posseduto»12.
Una decisione in tal senso era stata anticipata già nella fase costi-

10
In proposito si rinvia ai testi pubblicati in F.R. Dareste, P. Dareste, Les Con-
stitutions modernes, Sirey, Parigi, IV ed., 1928, vol. 1: art. 5, Cost. Anhalt; art. 25,
Cost. Baden; art. 26, Cost. Baviera; art. 10, Cost. Brema; art. 14, Cost. Brunswick;
art. 3, Cost. Amburgo; art. 18, Cost. Assia; art. 22, Cost. Lubecca; Art. 27, Cost.
Meclemburgo-Schwerin; art. 6, Cost. Meclemburgo-Strelitz; art. 49, Cost. Olden-
burg; art. 9, Cost. Prussia; art. 6, Cost. Sassonia; art. 6, Cost. Turingia; art. 10, Cost.
Wurtemberg.
11
Sulla nascita della Costituzione di Weimar e del principio proporzionalistico v.
diffusamente G. Delledonne, Costituzione e legge elettorale - Un percorso comparati-
stico nello Stato costituzionale europeo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, p. 44 ss.
12
Così C. Mortati, La Costituzione di Weimar, Sansoni, Firenze, 1946, p. 36 s.

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120 Andrea Gratteri

tuente, a partire dal proclama del consiglio dei commissari del po-
polo del 12 novembre 1918 che preannunciava come tutte le elezioni
dovessero svolgersi «secondo i principi elettorali proporzionalistici».
Non è marginale osservare che anche in Germania – come prima in
Belgio – il sistema proporzionale assunse da subito una duplice va-
lenza: rivoluzionario per alcuni e garante dello status quo per altri. Il
partito conservatore era infatti ben consapevole che solo la rappre-
sentanza proporzionale avrebbe salvaguardato le sue posizioni ormai
minoritarie13.
Inizialmente si utilizzò la formula d’Hondt per l’elezione del-
l’Assemblea costituente. Ma con l’entrata in vigore della nuova Co-
stituzione, si avviò la ricerca di un sistema capace di minimizzare le
distorsioni che più penalizzavano le liste minori. L’ordinamento elet-
torale tedesco fu così improntato, grazie a quel forte impulso dato
dalla Costituzione ad un criterio di riparto proporzionale puro, fi-
nalizzato a massimizzare la corrispondenza fra voti e seggi.
Fu la Costituzione del Baden del 21 marzo 1919 a presentare la
nuova soluzione che poi ispirò la legislazione elettorale weimariana.
L’art. 25 di quel testo costituzionale esplicita non solo il principio
proporzionalistico, ma anche la specifica formula del quoziente au-
tomatico: ad ogni lista è attribuito un seggio per ogni diecimila voti
ottenuti a livello circoscrizionale; i voti residui dopo il calcolo circo-
scrizionale sono computati al livello del Land con l’attribuzione di
ulteriori seggi, sempre in ragione di uno ogni diecimila voti; infine,
i resti possono essere utilizzati per l’assegnazione di un seggio se sono
superiori a 7.500 voti14.
La legge elettorale tedesca del 27 aprile 192015 seguì la medesima
impostazione, basata su una dimensione variabile dell’assemblea elet-
tiva. A livello circoscrizionale ad ogni lista è assegnato un seggio ogni
60.000 voti; i voti residui possono poi essere sommati o con quelli
delle liste collegate all’interno della circoscrizione (a condizione che
almeno una lista abbia ottenuto almeno 30.000 voti) o, a livello na-
zionale, con i voti residui della stessa lista nelle altre circoscrizioni,

13
In proposito v. S. Ortino, Riforme elettorali in Germania, Vallecchi, Firenze,
1970, p. 48 ss., che sottolinea che solo i cattolici avrebbero tratto un vantaggio dal
sistema maggioritario.
14
Sull’influenza del precedente del Baden v. in particolare R. Brunt, La Consti-
tution allemande du 11 aout 1919, Payot, Parigi, 1921, p. 128.
15
Poi modificata in alcuni aspetti di dettaglio dalla legge del 6 marzo 1924.

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 121

dove è assegnato un seggio ogni 60.000 voti e per i resti superiori a


30.000 voti16.
Si trattava di un meccanismo iperproporzionale, capace di assicu-
rare un’esatta rappresentanza in termini di seggi dei rapporti di forza
fra le diverse liste di candidati e di ridurre al minimo le distorsioni
che in genere si producono in sfavore delle liste minori che, anzi,
sono di fatto incentivate a frammentarsi e collegarsi fra loro per il
recupero dei resti17.
Accanto alla Costituzione di Weimar quasi tutte le nuove carte
costituzionali europee adottate fra il 1920 e il 1922 enunciarono il
principio fondamentale della rappresentanza proporzionale per l’ele-
zione delle assemblee parlamentari: si tratta della Costituzione au-
striaca del 1920 (art. 22); della Costituzione cecoslovacca del 1920
(art. 8); della Costituzione estone del 1920 (art. 36); della Costitu-
zione di Danzica del 1920 (art. 8); della Costituzione polacca del 1921
(art. 11); della Costituzione lettone del 1922 (art. 6); della Costitu-
zione lituana del 1922 (art. 25) e, disomogenea dal punto di vista geo-
grafico, della Costituzione irlandese del 1922 (art. 32).
Diversa e peculiare la soluzione seguita dall’ordinamento finlan-
dese. Nel silenzio della Costituzione del 1919, il principio propor-
zionalistico, che già era presente nell’ordinamento costituzionale sin
dal 190618, trovò comunque una forte legittimazione nella legge or-
ganica sull’Eduskunta del 1928 che, all’art. 4, fissava su di esso il fon-

16
La legge del 1924 è tradotta in italiano in O. Borin (a cura di), La legge elet-
torale tedesca, Sansoni, Firenze, 1946, p. 17 ss. Per una descrizione della legge del
1920 v. S. Ortino, Riforme elettorali in Germania, cit., p. 51.
17
In questo senso v. R. Brunt, La Constitution allemande du 11 aout 1919, cit.,
129.
18
L’esperienza finlandese fu subito studiata con particolare interesse, M. Siotto
Pintor, Le riforme del regime elettorale e le dottrine della rappresentanza politica e
dell’elettorato nel secolo XX, Athenaeum, Roma, 1912, p. 25 s. le assegna la «palma
dell’ardimento nell’innovazione» in materia elettorale. È interessante rilevare che an-
cora oggi la legge vigente, pacificamente ricondotta al metodo d’Hondt, segue le me-
desime linee della legge del 1906 che è così descritta da Siotto Pintor: «Per determi-
nare la posizione effettiva dei candidati si assegna a quello di essi che in una asso-
ciazione di liste ha conseguito la cifra più alta di voti, la totalità dei voti toccati alle
liste associate; a quello che segue, la metà dei voti stessi, e poi via via il terzo, il
quarto, e via dicendo» (p. 27). Il medesimo criterio è previsto dalla legge elettorale
oggi vigente (Legge elettorale n. 714 del 1998) all’art. 89; in proposito v. una descri-
zione puntuale del sistema in A. Gratteri, Il ruolo dell’Eduskunta nella Costituzione
finlandese del 2000, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2002, p. 689 ss.

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122 Andrea Gratteri

damento della legge elettorale, fatta salva la possibilità di istituire cir-


coscrizioni uninominali (e quindi maggioritarie) in condizioni parti-
colari19.
Il panorama si completava con la significativa eccezione della Co-
stituzione rumena del 1923 che, all’art. 64, stabilì che la Camera dei
deputati è eletta «sulla base della rappresentanza delle minoranze»
compatibile con la legge di impronta maggioritaria vigente.
Questa onda proporzionalista si sovrappose alla revisione delle
Costituzioni di origine ottocentesca che resistettero – aggiornandosi
– agli stravolgimenti del primo dopoguerra. Queste ultime Costitu-
zioni furono revisionate a cavallo del primo conflitto mondiale, an-
ticipando talvolta le soluzioni portate dal modello weimariano.
In un diverso contesto storico, la prima formale affermazione
del principio della rappresentanza proporzionale si ebbe nella Co-
stituzione danese secondo il testo scaturito dalla revisione del 1866:
le elezioni del Landsthing (una delle due camere del Parlamento
bicamerale) avvengono secondo le regole del sistema proporzio-
nale (Forholdstalsvag) in base alle disposizioni della legge eletto-
rale (art. 40, Cost. Danimarca). Si tratta, tuttavia, di una soluzione
costituzionale eccentrica, evidentemente influenzata dall’originalità
del pensiero di Carl Andrae, collocata in un contesto storico che
anticipa i successivi sviluppi determinati dall’estensione del suffra-
gio (che in Danimarca era ancora censitario) e dal ruolo dei par-
titi di massa20.
In Scandinavia il principio proporzionalistico ebbe una rapida
espansione; oltre alla pionieristica esperienza danese e alla già citata
disciplina legislativa in Finlandia del 1906, rileva il caso della Svezia
dove, il Riksdagsordning (uno dei documenti costituzionali di tale or-
dinamento) fu modificato nel 1909 per stabilire all’art. 8 che «le ele-
zioni della Camera alta si svolgeranno a suffragio proporzionale qua-

19
«Quando le circostanze locali rendono necessaria un’eccezione alla procedura
proporzionale, uno o più circondari […] possono essere costituiti in vista dell’ele-
zione di un solo deputato» (secondo la traduzione presente in C. Lavagna, La Co-
stituzione e il sistema elettorale finlandesi, Sansoni, Firenze, 1946, p. 93). La norma
si applicò in origine alla poco densamente popolata Lapponia dove fu istituito un
collegio uninominale.
20
Per una ricostruzione del ruolo di Carl Andrae nell’evoluzione dell’ordina-
mento danese e nel rapporto con Thomas Hare v. A. Gratteri, La formula e il ri-
sultato, cit., p. 27 ss.

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 123

lora siano da eleggere due o più membri della Camera» (identica la


previsione dell’art. 18 per la Camera bassa)21.
Al di fuori dell’area scandinava, la prima esplicitazione sul piano
costituzionale del principio proporzionalistico si deve alla Costitu-
zione dei Paesi Bassi che, in seguito alla revisione portata dalla legge
del 29 novembre 1917, all’art. 82 prevede che «la seconda camera è
composta da cento membri eletti secondo il principio della rappre-
sentanza proporzionale» (mentre la prima Camera deriva da un’ele-
zione indiretta). È questo il momento in cui si completa la costru-
zione dell’ordinamento costituzionale olandese e la rappresentanza
proporzionale è accompagnata dalla costituzionalizzazione del suf-
fragio universale maschile e femminile22.
Alla Costituzione dei Paesi Bassi si affiancò rapidamente la Co-
stituzione della Svizzera che, con l’approvazione popolare nella con-
sultazione del 13 ottobre 1918 della modifica dell’art. 73 della Co-
stituzione («Le elezioni pel Consiglio Nazionale […] hanno luogo
secondo il principio della proporzionalità»), portò a compimento un
procedimento avviato, con alterne vicende, a partire dal 1900. I due
referendum del 1900 e del 1910 non ebbero infatti il sostegno ne-
cessario per determinare la revisione della Costituzione: a una mag-
gioranza dei Cantoni non corrispose, in quelle due prime occasioni,
la necessaria maggioranza popolare. Fu poi l’iniziativa presentata nel
1913 a determinare la revisione della Costituzione federale, dopo un
dibattito parlamentare in cui i sostenitori della modifica sottolinea-
rono lo stretto legame fra democrazia e rappresentanza proporzio-
nale: i rappresentanti devono essere designati in modo da rappresen-

21
J.B. Board, The Government and Politics of Sweden, Houghton Mifflin, Bo-
ston, 1970, pp. 31 e 79 afferma che la proporzionale fu introdotta a partire dal 1909
con un sistema basato su collegi plurinominali. Si trattava del sistema ideato dal ma-
tematico Phragmen come variante del metodo d’Hondt, caratterizzata per la possi-
bilità di presentare candidature comuni a più liste; la formula matematica di fondo
era la stessa del metodo d’Hondt ma la farraginosità del sistema suggerì ai com-
mentatori del tempo che «esso pare fatto apposta per mettere meglio in luce tutta
la praticità e la semplicità del d’Hondt», così G. Bandini, La riforma elettorale con
la rappresentanza proporzionale nelle elezioni politiche, Società libraria editrice na-
zionale, Roma, 1910, p. 356; una descrizione dettagliata del metodo Phragmen è pre-
sente anche in G. Schepis, I sistemi elettorali, Editrice Caparrini, Empoli, 1955, II,
p. 188 ss.
22
C. Kortmann, P. Bovend’Eert, The Kingdom of the Netherlands - An Intro-
duction to Dutch Constitutional Law, Kluwer, Deventer-Boston, 1993, p. 3.

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124 Andrea Gratteri

tate il più fedelmente possibile le opinioni dei loro elettori. Ogni


gruppo deve quindi ricevere un numero di seggi proporzionale23.
Un procedimento di revisione lungo e accidentato ma, in ogni
caso, riconducibile nella sua essenza ad un momento anteriore ri-
spetto al termine del primo conflitto mondiale e che si perfezionò
quando ormai la fine della guerra non era lontana24.
Subito dopo la fine del conflitto mondiale, sono modificate anche
la Costituzione del Lussemburgo (art. 52, 15 maggio 1919), la Co-
stituzione della Norvegia (art. 59, 5 dicembre 1919) e la Costituzione
del Belgio (art. 48, 15 novembre 1920)25. Un’ampia porzione del con-
tinente europeo è ormai regolata secondo i principi della rappresen-
tanza proporzionale per esplicita prescrizione costituzionale.
Raramente, invece, la disciplina elettorale rimase nel dominio della
legge ordinaria. Fu questo il caso della III Repubblica francese e del
Regno d’Italia.
In Francia il movimento proporzionalista non riuscì ad affermarsi
al di là della fase dell’elaborazione teorica: la Ligue pour la repré-
sentation proportionnelle propose, senza successo, l’adozione del me-
todo d’Hondt sin dal 1905; e la Camera dei deputati non poté ap-
provare una riforma elettorale di stampo proporzionalista nel 1909/1910
a causa delle convenienze contingenti dei gruppi maggioritari in Par-
lamento26. Pertanto, dopo la fine della guerra, la Francia seguì un
tracciato in controtendenza e la legge 12 luglio 1919 introdusse un
sistema maggioritario misto, complesso e potenzialmente capace di
determinare distorsioni assai accentuate. Quel sistema scontentò gli
appartenenti ad entrambi gli schieramenti, sia i sostenitori del mag-
gioritario sia quelli del proporzionale, e fu presto superato dal ri-
torno al sistema maggioritario uninominale con la legge 21 luglio
192727.

23
Così il Consigliere nazionale Tissières durante il dibattito del giugno 1915 ci-
tato in W.E. Rappard, L’individu et l’État, Polygraphiques, Zurigo, 1937, p. 456 s.
24
In proposito v. W.E. Rappard, La Costituzione federale della Svizzera, Car-
minati, Locarno, 1948, p. 374 s.
25
Sulla revisione della Costituzione norvegese v. E. Jansen, H. Koht, The Con-
stitution of Norway, in Le Costituzioni degli Stati nell’Età Moderna, Sansoni, Fi-
renze, 1938, p. 222; sulla Costituzione del Lussemburgo v. N. Margue, Histoire de
la Constitution du Grand-Duché de Luxembourg, ivi, p. 194 s.
26
In proposito v. le considerazioni di G. Bandini, La riforma elettorale con la
rappresentanza proporzionale nelle elezioni politiche, cit., p. 324 ss.
27
G. Schepis, I sistemi elettorali, cit., II, p. 100 ss.

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 125

In Italia, dopo l’estensione del suffragio nel 1912, si ebbe l’ap-


provazione di una legge proporzionale nel 1919 che, in assenza di
qualsiasi garanzia costituzionale, fu agilmente superata dalla legge
Acerbo: la soluzione ipermaggioritaria che facilitò il consolidamento
del regime fascista28.
Il Regno Unito, a dispetto (o forse proprio a causa) dell’ininter-
rotta pratica del voto maggioritario in collegi uninominali, fu nei primi
decenni del ’900 al centro della discussione sulle proposte propor-
zionalistiche. Vi fu una significativa partecipazione culturale e poli-
tica al movimento sostenuto dalla Proportional Representation Society
le cui attività erano, inevitabilmente, alimentate proprio dal fervore
di coloro che avversavano il sistema maggioritario vigente.
Il lascito ideale di Thomas Hare ebbe una lunga influenza sul di-
battito britannico. Fu infatti centrale, a più riprese, la proposta di in-
trodurre il voto singolo trasferibile o, sempre nel quadro delle for-
mule basate su preferenze graduabili29 (e trasferibili), eventualmente
il voto alternativo (utilizzato in Australia a partire dall’approvazione
del Commonwealth Electoral Act del 1918)30.
Il dibattito pubblico manifestava una particolare sensibilità alle ra-
gioni della proporzionale anche per le oggettive difficoltà del sistema
politico nella transizione dallo schema ottocentesco dell’alternanza fra
liberali e conservatori al nuovo scenario novecentesco, in cui i labu-
risti seppero rapidamente inserirsi come prima o seconda forza poli-
tica. A molti non sembravano sufficienti i tentativi di riformare il si-

28
Sull’evoluzione della legislazione elettorale italiana in queste fasi storiche v. dif-
fusamente M.S. Piretti, La giustizia dei numeri - Il proporzionalismo in Italia (1870-
1923), il Mulino, Bologna, 1990.
29
Su questo aspetto definitorio v, L. Trucco, Democrazie elettorali e Stato costi-
tuzionale, Giappichelli, Torino, 2011, p. 18.
30
Il voto alternativo può essere classificato fra i sistemi di carattere proporzio-
nale solo con un certo grado di approssimazione; esso ha però la capacità di con-
tenere l’esclusione degli elettori estranei ai maggiori partiti dalla selezione degli eletti.
Il sistema australiano prevede che ogni elettore debba graduare le sue preferenze fra
tutti i candidati e che le seconde preferenze dei candidati meno votati siano ridi-
stribuite sino a che un candidato non raggiunga la maggioranza assoluta. Si attenua
così l’effetto maggioritario del sistema first-past-the-post utilizzato nel Regno Unito
dove, non a caso, il voto alternativo fu presentato come possibile base di una riforma
elettorale in occasione del referendum popolare del 2011 che, tuttavia, determinò la
conferma del sistema tradizionale, cfr. v. P. Whiteley, H.D. Clarke, D. Sanders, M.C.
Stewart, Britain Says No: Voting in the AV Ballot Referendum, in Parliamentary Af-
fairs, 2012, p. 301 ss.

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126 Andrea Gratteri

stema elettorale intervenendo sull’allargamento del suffragio e sulla


razionalizzazione dei collegi elettorali (come fece il Representation of
the People Act del 1918) e gli incerti risultati di quasi ogni tornata
elettorale fra il 1910 e il 192931 non potevano che rinvigorire il mai
ripagato entusiasmo dei proporzionalisti.
Tuttavia, la prospettiva di una riforma proporzionale non incon-
trò preclusioni pregiudiziali e in più di un’occasione il Parlamento fu
sul punto di modificare il sistema elettorale (una prima volta nel 1917-
18, poi di nuovo nel 1929-31)32. Gli esiti di quei tentativi riuscirono,
talvolta, a scalfire la compattezza del sistema maggioritario uninomi-
nale.
Una prima residua ma significativa traccia del clima favorevole alla
rappresentanza proporzionale può essere riscontrata nel Representa-
tion of the People Act del 1918 che, all’art. 20, par. 1, stabiliva che
nelle circoscrizioni universitarie33 l’elezione dovesse avvenire «secondo
il principio della rappresentanza proporzionale» nelle forme del voto
singolo trasferibile. Fino al 1950, quando fu abolito, il privilegio rap-
presentativo di cui godevano le Università si espresse quindi attra-
verso una formula diversa dal maggioritario plurality.
La differenziazione della formula in una parte dei collegi era stata
presa in considerazione dal legislatore anche per una quota di seggi
“ordinari”: il par. 2 dello stesso art. 20 gettava infatti le basi norma-
tive per lo studio di una proposta tale per cui fino a cento membri
della Camera dei Comuni sarebbero stati eletti con la formula del
voto singolo trasferibile. Tuttavia, la norma in questione rimase let-
tera morta34.
I proporzionalisti riuscirono nell’intento di superare il classico col-
legio uninominale maggioritario anche nella legislazione destinata al-

31
Si ebbe un hung Parliament nelle due elezioni del 1910, nel 1923, nel 1929.
Nel 1929, inoltre, si determinò una distorsione casuale in virtù della quale il partito
laburista ottenne più seggi dei conservatori pur ottenendo meno voti.
32
Per una ricostruzione dettagliata di quelle vicende v. J. Hart, Proportional Re-
presentation - Critics of the British Electoral System 1820-1945, Clarendon Press,
Oxford, 1992, p. 178 ss.
33
Si trattava di tre collegi binominali corrispondenti all’Università di Cambridge,
all’Università di Oxford ed alle altre Università raggruppate fra loro (Birmingham,
Bristol, Durham, Leeds, Liverpool, Manchester, Sheffield e, dal 1928, Reading).
L’Università di Londra costituiva un collegio uninominale a sé stante.
34
Su questa specifica vicenda v. G. Perticone Jr., Il sistema elettorale inglese, San-
soni, Firenze, 1946, p. 21 ss.

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 127

l’Irlanda e a Malta35. Il voto singolo trasferibile fu adottato a Malta


a partire dal 1921 e in Irlanda, sulla base del Local Government (Ire-
land) Act, dal 1919. In particolare, in Irlanda il sistema ispirato dalle
elaborazioni di Thomas Hare fu applicato da subito in tutte le ele-
zioni locali e fu presto recepito dalla Costituzione del 1922 e mai più
abbandonato, proprio grazie alla sua capacità di tutelare la rappre-
sentanza delle minoranze anche in un sistema politico e sociale alta-
mente divisivo36.

3. Il laboratorio elettorale europeo del primo Novecento. – L’on-


data di Costituzioni che formalizzano il principio proporzionalistico,
e conseguentemente di leggi elettorali proporzionali che trasformano
le istituzioni rappresentative di molti Paesi europei nell’arco di po-
chi anni, creò le condizioni e la necessità affinché le nuove soluzioni
(matematiche e normative) fossero studiate e approfondite. Si ha la
chiara percezione di tale fermento rileggendo i volumi della preziosa
collana di Testi e documenti curata dal Ministero della Costituente
quando, non molti anni dopo, in Italia si porrà la questione dell’ela-
borazione di una nuova legge elettorale di impianto proporzionale37.
Nel primo dopoguerra in Europa si assistette alla nascita di una plu-
ralità di laboratori costituzionali ed elettorali che proposero e speri-

35
Così avvenne anche in altri territori sotto il controllo britannico come il Sud
Africa, dove il voto singolo trasferibile fu applicato in virtù del South Africa Act del
1909 per l’elezione del Senato, e in alcune circoscrizioni in India (cfr. J. Hart, Pro-
portional Representation, cit., p. 200).
36
La legge elettorale irlandese del 1923 che dava applicazione al principio costitu-
zionale della rappresentanza proporzionale è pubblicata in G. Ambrosini, La legge
elettorale dell’Irlanda (Eire), Sansoni, Firenze, 1946, pp. 16 e 19 ss., dove si sottolinea
la scarsa proporzionalità del sistema in presenza di circoscrizioni di piccole dimen-
sioni, mentre si consegue l’obiettivo della rappresentanza delle minoranze. Un primo
embrione di quel sistema era già stato prospettato nel 1914 e sperimentato nella città
di Sligo nel 1919, in proposito v. J. Hart, Proportional Representation, cit., p. 176 ss.
37
In quella collana, pubblicata dall’editore Sansoni di Firenze nel 1946, figurano
volumi di grande interesse dedicati ai principali sistemi costituzionali ed elettorali del
tempo. In una elencazione non esaustiva, si possono ricordare: G. Perticone jr (a
cura di), Il sistema elettorale inglese; G. Ambrosini, La legge elettorale dell’Irlanda;
C. Mortati, La legge elettorale cecoslovacca; D. De’ Cocci, La legislazione elettorale
belga; G. Tupini, Il sistema elettorale danese; C. Lavagna, La Costituzione e il si-
stema elettorale finlandesi; P. Santarcangeli, La legge elettorale ungherese; T. Napo-
litano, Il sistema elettorale sovietico; U. Prosperetti, La Costituzione e il sistema elet-
torale della Nuova Zelanda.

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128 Andrea Gratteri

mentarono numerose novità, ingegneristiche in quella prima fase ma,


frequentemente, destinate a divenire classiche in un secondo momento.
L’applicazione concreta della rappresentanza proporzionale nelle
leggi elettorali dell’epoca fu coerente con le premesse teoriche se-
condo cui il fine era la garanzia di una rappresentanza parlamentare
equa e rispettosa delle minoranze. Per questo motivo le soglie di sbar-
ramento furono, in questa fase, tendenzialmente escluse, fatta salva
qualche sporadica apparizione in alcune leggi elettorali dei Cantoni
svizzeri, dove l’esigenza per una maggior selettività era sostenuta dai
fautori dei sistemi maggioritari38.
Tutte le prime leggi elettorali proporzionali furono improntate, al-
meno nominalmente, alla ricerca di una forte proiettività nella rap-
presentanza. Vi potevano essere varie forme di distorsione, legate alla
formula o alla magnitudine delle circoscrizioni, che non sollevavano
particolari obiezioni, ma una soglia di sbarramento esplicita avrebbe
contraddetto le premesse stesse su cui le nuove leggi elettorali si fon-
davano39. Era quel che aveva sostenuto con enfasi ed efficacia Atti-
lio Brunialti: «Ogni gruppo di elettori il cui numero è eguale al quo-
ziente elettorale, sia sicuro di essere rappresentato: ecco il principio.
Questo bisogna inscrivere nella costituzione»40.
La formula elettorale è il cuore di ogni legge elettorale e, in un
certo senso, diventò l’emblema degli interventi di riforma insieme allo
scrutinio di lista. Il metodo d’Hondt riscosse un significativo suc-
cesso e dal Belgio si diffuse in molti altri ordinamenti (ad es. in Au-
stria, in Estonia, in Polonia, in Finlandia); tuttavia, talvolta gli fu pre-
ferito il metodo del quoziente naturale per contenere la sovrarappre-
sentazione di cui possono usufruire le liste maggiori. In Cecoslovac-
chia, la legge del 1920 utilizzava il metodo del quoziente e, proprio
in Belgio, la formula d’Hondt fu integrata da alcune varianti41. In Ir-

38
Sul punto v. A. Gratteri, La formula e il risultato, cit., p. 166.
39
È emblematico il caso del Belgio dove, nel 1899, la proposta di una soglia di
sbarramento del dieci per cento fu respinta perché è «nella logica indiscutibile» del
sistema d’Hondt di ripartire tutti i seggi secondo una scala di quozienti decrescenti
«mentre un quorum è una barriera a questa degressione». L’espressione utilizzata dal
relatore Léger è tratta da G. Bandini, La riforma elettorale con la rappresentanza
proporzionale nelle elezioni politiche, cit., p. 507.
40
A. Brunialti, Libertà e democrazia, cit., p. 412 s. Il corsivo è nell’originale.
41
Nel 1919 in Belgio la legge elettorale fu modificata: in prima battuta si appli-
cava la formula del quoziente e solo per i resti – raccolti a livello provinciale – si
ricorreva alla formula d’Hondt, in proposito v. D. De’ Cocci, La legislazione elet-

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 129

landa si optò per il voto singolo trasferibile e nell’ordinamento di


Weimar si ideò la soluzione iperproporzionale del quoziente auto-
matico che, nella sua essenza pratica, può essere accostata alla for-
mula presentata nel 1910 da Andrè Sainte-Laguë42.
Il fine della più ampia rappresentatività perseguito attraverso leggi
elettorali prive di soglie di sbarramento legali e fondate su formule
matematiche proiettive accentuò il ruolo delle liste partitiche dei can-
didati. L’imprescindibile ruolo di mediazione dei partiti politici della
“nuova” democrazia rappresentativa trovò poi un forte impulso nei
sistemi che prevedevano il ricorso al voto obbligatorio e/o a liste
bloccate di candidati.
Il voto obbligatorio, come forma di adempimento di una funzione
pubblica e non solo come esercizio di un diritto, fu imposto da molte
leggi elettorali a cavallo di Ottocento e Novecento. Con una diversa
graduazione dell’intensità dell’obbligo (talvolta era sufficiente presen-
tarsi personalmente presso l’ufficio elettorale di sezione, anche senza
esprimere un voto) e delle sanzioni corrispondenti, esso era previsto
in Belgio, nei Paesi Bassi, in Lussemburgo e in numerosi Cantoni
svizzeri oltre che nella legge elettorale cecoslovacca del 192043.
Le liste bloccate – utilizzate dalle leggi elettorali di Weimar, della
Cecoslovacchia, della Polonia, dell’Austria – divennero lo strumento
essenziale attraverso cui fu attribuita ai partiti la funzione di veicolare
la volontà collettiva anche a costo del sacrificio di una maggior libertà

torale belga, cit., p. 37. Nel 1921 fu modificata anche la legge comunale belga con
l’intento di introdurre un elemento di maggior selettività: su proposta di Pierre Im-
periali si rielaborò la serie dei divisori della formula d’Hondt e si introdussero i di-
visori 1; 1½; 2; 2½; 3; 3½; 4; 4½, ecc., sul punto (e sugli equivoci sorti a proposito
della formula Imperiali) v. A. Gratteri, La formula e il risultato, cit., p. 123 s.
42
A. Sainte-Laguë, La représentation proportionnelle et la méthode des moindres
carrés, in Annales scientifiques de l’École normale supériore, 1910, p. 529 ss. La for-
mula Sainte-Laguë, nella sua versione originaria, si basa sulla medesima tecnica del
divisore del metodo d’Hondt ma ricorre ad una serie di divisori diversi: l’assegna-
zione dei seggi è determinata dalla cifra elettorale di ogni lista divisa per la serie dei
numeri naturali dispari (1, 3, 5, 7 ecc.). Essa può essere rappresentata anche come
la serie 0,5, 1,5, 2,5, 3,5 ecc. e rispetto alla formula d’Hondt si caratterizza per una
maggiore proporzionalità del riparto a causa di una sorta di arrotondamento per ec-
cesso dei quozienti ottenuti da ciascuna lista. Un risultato uguale a quello determi-
nato dalla formula di base della legge elettorale di Weimar, con l’unica differenza del
numero di seggi complessivi dell’assemblea parlamentare che con il quoziente auto-
matico è variabile, mentre con la formula Sainte-Laguë è predefinito.
43
In proposito v. G. Cordini, Il voto obbligatorio, Bulzoni, Roma, 1988, p. 62 ss.

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130 Andrea Gratteri

di scelta da parte del singolo elettore. Un difficile bilanciamento fra


esigenze contrapposte che – come sottolineò Costantino Mortati con
un giudizio ancora attuale – richiede il coinvolgimento degli iscritti ai
partiti nel procedimento di selezione delle candidature: «il rimprovero
che si fa al sistema della lista bloccata di sancire la tirannia dei comi-
tati elettorali si supera quando si ottenga che questi non siano forma-
zioni fittizie, ma corrispondano ad orientamenti apprezzabili dello spi-
rito pubblico, e che al loro funzionamento sia assicurata la partecipa-
zione effettiva degli aderenti, così da potersi ritenere che i candidati in-
clusi nella lista riescano graditi al maggior numero di questi»44.
Questi tratti di fondo delle leggi elettorali del primo dopoguerra
si combinavano con un ulteriore elemento, per certi aspetti distonico
rispetto alla prevalente volontà di promuovere la massima rappre-
sentatività. Accanto alla ovvia finalità di rappresentare le minoranze
politiche in una logica elettorale pervasivamente proiettiva, si riscon-
tra una significativa attenzione alla rappresentanza privilegiata delle
minoranze etniche che, con la dissoluzione dell’Impero austro-unga-
rico, furono al centro delle attenzioni del legislatore elettorale. Tut-
tavia, in astratto, la rappresentanza di tali minoranze non sempre è
agevolata dalle leggi proporzionali: in particolare, da un lato, le mi-
noranze concentrate in porzioni ristrette del territorio possono essere
meglio rappresentate attraverso sistemi elettorali selettivi; dall’altro, la
tutela di tali minoranze può produrre una distorsione rispetto alla
perfetta corrispondenza voti/seggi45.

4. Le originali soluzioni portate dalla legge elettorale cecoslovacca


dei tre scrutini. – La legge elettorale cecoslovacca del 1920, modifi-
cata nel 1925 con specifiche norme dedicate alla tutela delle mino-
ranze46, è uno degli esempi più innovativi fra le leggi proporzionali
dell’epoca. È un tentativo originale e interessante di combinare rap-
presentanza proporzionale; liste rigide e norme di favore per le mi-
noranze etniche. Nel quadro di una democrazia fortemente radicata

44
C. Mortati, La legge elettorale cecoslovacca, cit., p. 30.
45
Un esempio evidente di tali distorsioni è dato dalla legge lettone del 3 giugno
1923 che consentiva alla minoranza tedesca (pari a circa il tre per cento della po-
polazione) di eleggere sei dei cento deputati della Saeima, il parlamento unicame-
rale. In proposito v. l’apprezzamento per tale forma di tutela della minoranza in F.R.
Dareste, P. Dareste, Les constitutions modernes, cit., p. 115.
46
Legge 29 febbraio 1920, n. 123 modificata dalla legge 15 ottobre 1925, n. 205.

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 131

sul ruolo di mediazione dei partiti politici come testimoniano la pre-


senza del voto obbligatorio e del mandato imperativo47. La conce-
zione di fondo è inequivocabile: l’elettore sceglie non tra persone, ma
tra programmi, il voto è dato ad una lista, non a un candidato. Un
obiettivo perseguito con coerenza e la cui democraticità fu rivendi-
cata esplicitamente. Il relatore sulla legge elettorale così si espresse al
momento della sua votazione: «possiamo comparare con coraggio la
legge che presentiamo al vostro voto con tutte le leggi elettorali at-
tualmente in vigore nel mondo, nessuna è più liberale, nessuna è più
equa, nessuna è più democratica»48.
Il voto obbligatorio trova nella legge cecoslovacca una delle sue
applicazioni più rigorose: chiunque non partecipi alla votazione senza
un giustificato motivo è soggetto a una sanzione pecuniaria o all’ar-
resto da un minimo di ventiquattrore fino a un mese (art. 58, legge
elettorale 1920). La stessa legge stabilisce peraltro un ampio catalogo
di cause di giustificazione, ai sensi dell’art. 6 sono dispensati dall’ob-
bligo: gli ultra settantenni; i malati; coloro i quali si trovino ad oltre
cento chilometri di distanza dal luogo della votazione. Non stupisce
quindi che il tasso di partecipazione fosse regolarmente superiore al
90 per cento così inverando, almeno formalmente, l’auspicio di Co-
stantino Mortati secondo cui in un sistema proporzionale deve es-
sere garantita la partecipazione di tutti i cittadini al voto «perché tutti
in regime democratico sono portatori di interessi da ritenere rilevanti
per lo Stato»49. Senza contraddire l’impostazione di Mortati, il voto
obbligatorio nella legge elettorale cecoslovacca è stato inquadrato in
una diversa – e assai convincente – prospettiva da Fulco Lanchester
secondo cui esso si presenta come uno strumento di stabilizzazione
in uno Stato plurinazionale costituito dalle diverse etnie dei cechi, de-
gli slovacchi, dei tedeschi, dei polacchi e dei magiari50. L’integrazione

47
Il principale riferimento bibliografico è C. Mortati, La legge elettorale ceco-
slovacca, cit., dove è pubblicata in appendice la traduzione in italiano della legge del
1920 così come modificata nel 1925; in proposito v. anche Z. Peska, Aprés dix années.
Le développement de la constitution Tchécoslovaque. 1020-1930, in Revue de droit
public et de la science politique, 1930, p. 224 ss.
48
Così il relatore Meissner citato da G. Picot, Un essai de représentation pro-
portionelle intégrale: la législation électorale tchécoslovaque, in Revue politique et par-
lementaire, 1923, p. 435.
49
C. Mortati, La legge elettorale cecoslovacca, cit., p. 26.
50
F. Lanchester, Il voto obbligatorio da principio a strumento: un’analisi compa-
rata, in Il Politico, 1983, p. 46.

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132 Andrea Gratteri

istituzionale di una pluralità di comunità nazionali presuppone l’ef-


fettiva partecipazione politica: in assenza della sua spontaneità il voto
obbligatorio diviene funzionale ad una sua vigorosa promozione51.
L’essenzialità del carattere rappresentativo dell’assemblea come rea-
lizzazione di una piena proiettività delle preferenze dell’elettorato at-
traverso la mediazione dei partiti trova una delle sue massime espres-
sioni nella c.d. clausola cecoslovacca: ovvero la decadenza dal man-
dato del parlamentare che avesse abbandonato il proprio gruppo.
L’idea, riconducibile a Kelsen52, ebbe una sua traduzione concreta
(nonché fonte di ispirazione) nell’ordinamento costituzionale della
Cecoslovacchia, dove la legge 14 luglio 1927, n. 125 attribuiva al Tri-
bunale elettorale la funzione di dichiarare la decadenza dei parla-
mentari eletti che avessero cessato di essere iscritti al partito nelle cui
liste erano stati eletti, così integrando sostanzialmente il sistema elet-
torale53. Come ha ricordato Nicolò Zanon, la ratio delle disposizioni
della legge in questione era quella «di assicurare che i partiti politici
– considerati, in virtù del sistema elettorale adottato, i veri candidati
presentati agli elettori – non avessero a perdere o a veder diminuita
la loro rappresentanza parlamentare, a causa di semplici scelte per-
sonali dei deputati»54. Il Tribunale elettorale era incaricato di salva-
guardare, su impulso del comitato esecutivo del partito interessato, la
compattezza dei gruppi parlamentari e l’omogeneità dei comporta-
menti dei singoli parlamentari rispetto alle direttive dei suoi vertici
come testimonia, ad esempio, il caso della dichiarazione della deca-
denza dal mandato di quattro deputati che avevano votato contro le

51
In occasione delle prime elezioni del 1920 fu rilevato che, con una partecipa-
zione del 90 per cento, solo il 2-3 per cento degli elettori non era in grado di pre-
sentare una adeguata giustificazione, in proposito v. G. Picot, Un essai de représen-
tation proportionelle intégrale, cit., p. 434 s.
52
H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, ed. orig. 1929, ora in H. Kel-
sen, La democrazia, il Mulino, Bologna, 1981, p. 82 ss.; per una puntuale ricostru-
zione del pensiero di Kelsen su questo tema v. N. Zanon, Il libero mandato parla-
mentare, Milano, 1991, p. 89 ss.
53
Sulla disciplina legislativa della clausola cecoslovacca v. C. Horáček, Le prin-
cipes du droit électoral tchécoslovaque, in Bulletin de droit tchécoslovaque, 1930-1932,
p. 24 ss. che specifica come essa non sia direttamente disciplinata dalla legge eletto-
rale.
54
N. Zanon, Il libero mandato parlamentare, cit., p. 112 s. In proposito v. an-
che R. Scarciglia, Il divieto di mandato imperativo, Cedam, Padova, 2005, p. 77 ss.
e, più di recente, A. Morelli, Rappresentanza politica e libertà del mandato parla-
mentare, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018.

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 133

indicazioni del gruppo su una proposta di legge. Il procedimento non


prevedeva – significativamente – alcun coinvolgimento dell’istituzione
parlamentare, a testimonianza del carattere formale (e non politico)
della decisione del Tribunale elettorale55.
L’originalità della legge elettorale cecoslovacca risiede principal-
mente nella c.d. formula dei tre scrutini, un procedimento trifasico
caratterizzato dalla coesistenza di una pluralità di formule elettorali
basate sul quoziente nel tentativo di minimizzare l’impatto dei voti
residui e di valorizzare le liste espressive delle minoranze etniche.
Originalità e complessità si mescolano in un sistema valutato assai
positivamente dai teorici. Ancora una volta è Costantino Mortati ad
esprimersi in termini netti: a suo giudizio la legge cecoslovacca del
1920 è il prodotto di «una profonda, dotta e accuratissima elabora-
zione» e, su queste premesse, persegue coerentemente lo scopo di una
rappresentanza in trasformazione. A Mortati, ovviamente, non sfugge
l’astrusa elaborazione tecnica sottostante alla formula dei tre scrutini,
tuttavia, la sua opinione è che il «criterio per giudicare della bontà
di un sistema elettorale non può essere quello del grado di sempli-
cità realizzato, bensì della rispondenza dei congegni che lo compon-
gono allo scopo specifico perseguito»56. Una considerazione inap-
puntabile in astratto anche se forse difficilmente sostenibile nella con-
temporaneità, se non nelle aspirazioni ingegneristiche dei legislatori
elettorali.
In sintesi il sistema è articolato, per definizione, in tre fasi con lo
scopo di utilizzare in modo efficiente il maggior numero possibile di
voti espressi, di garantire una elevata proporzionalità, di consentire
ai partiti di agire sulla selezione degli eletti e di tutelare la rappre-
sentanza delle minoranze etniche57.
Il primo scrutinio determina una assegnazione parziale dei seggi
in ambito circoscrizionale, sulla base di liste rigide di candidati (l’e-

55
Sul punto v. Z. Peska, Aprés dix années, cit., p. 246. Per una complessiva va-
lutazione delle ipotesi di decadenza v. N. Zanon, Il libero mandato parlamentare,
cit., p. 110 ss.
56
C. Mortati, La legge elettorale cecoslovacca, cit., pp. 8 s. e 32.
57
Sulla capacità pratica del sistema di soddisfare tali premesse v. G. Picot, Un
essai de représentation proportionelle intégrale, cit., p. 429, che – sulla base dei ri-
sultati delle elezioni del 1920 – sottolinea la capacità del sistema di garantire l’uti-
lizzo efficiente della quasi totalità dei voti e di rispecchiare in termini fotografici il
rapporto percentuale fra voti e seggi di ogni lista.

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134 Andrea Gratteri

lettore inserisce la scheda del partito prescelto nella busta di Stato) e


del quoziente naturale secondo quanto stabilito dall’art. 46 della legge.
Il secondo scrutinio assegna un numero di seggi variabile in fun-
zione dei resti del primo scrutinio. I partiti che hanno ottenuto al-
meno un seggio al primo scrutinio compongono a posteriori una li-
sta di candidati fra quelli non eletti al primo scrutinio che, sulla base
dei voti residuati dopo il primo scrutinio, attinge ai seggi assegnati a
livello nazionale con la formula del quoziente corretto +1 (art. 52).
Il terzo scrutinio, dovuto alla modifica legislativa del 1925, ha lo
scopo di integrare la rappresentanza proporzionale a tutela delle mi-
noranze etniche. Le liste di partito che hanno partecipato al secondo
scrutinio sono divise da parte della commissione elettorale centrale in
due gruppi sulla base delle dichiarazioni dei singoli candidati che, al-
l’atto dell’accettazione della candidatura, devono indicare la proprio
appartenenza nazionale (ceca, slovacca, tedesca, magiara o polacca),
art. 23). La selezione effettuata da parte della Commissione segue un
criterio empirico e forma un primo gruppo in cui confluiscono le li-
ste cui appartiene la maggioranza assoluta di una o più minoranze.
Nel compiere tale selezione si tiene conto della nazionalità maggio-
ritaria dei candidati di ogni lista. Il secondo gruppo è formato sulla
base di un criterio meramente residuale e complementare (art. 53).
Il terzo scrutinio si rende necessario anche in relazione al man-
cato utilizzo dei resti nei primi due, quando la formula elettorale del
quoziente (pur se corretto) non consente di esaurire l’assegnazione
di tutti i seggi.
La cifra elettorale di ciascuno dei due gruppi è data dalla somma
dei voti delle liste escluse dal riparto dei seggi del secondo scrutinio
raggruppate su base etnica secondo il medesimo criterio fissato dal-
l’art. 53. A ciascun gruppo di liste sono poi attribuiti tanti seggi quanti
sono i quozienti interi ottenuti, nell’ambito di ciascun gruppo tali
seggi sono infine assegnati alle singole liste con la formula del quo-
ziente corretto +1.
Anche da una sintetica descrizione del procedimento si ricava che
il livello di elaborazione tecnica cui giunge il legislatore cecoslovacco
è decisamente elevato e che, come ha osservato Mortati, la comples-
sità delle soluzioni è indubitabilmente omogenea nei contenuti ri-
spetto alle finalità perseguite. Nonostante la finezza con cui il legi-
slatore regola tale procedimento, si deve però notare che alcuni ele-
menti sfuggono ad una rigorosa applicazione dei principi di libertà
ed eguaglianza del voto, perlomeno per come essi sono oggi intesi.

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Il principio proporzionale nelle Costituzioni 135

In particolare, si tratta della ricomposizione delle liste rigide fra il


primo e il secondo scrutinio e della formazione dei gruppi per il ri-
parto etnico ad opera della commissione elettorale.
La composizione dei gruppi in vista del terzo scrutinio è definita
d’ufficio, senza alcuna dichiarazione di apparentamento, e prescinde
da qualsiasi valutazione relativa alle affinità ideologiche o program-
matiche fra le liste: rileva esclusivamente la nazionalità dei candidati.
Con questo metodo di recupero si determina in sostanza un travaso
di voti (e quindi di seggi) fra partiti etnicamente affini anche se ideo-
logicamente distanti, indipendentemente da qualsiasi manifestazione
di volontà degli elettori.
Le liste rigide sono uno degli elementi qualificanti la rappresen-
tanza “di partito” voluta dal legislatore cecoslovacco. Ciononostante
esse furono oggetto di numerose critiche per l’eccessivo potere dete-
nuto dai presentatori delle liste e, in un secondo momento, il sistema
fu attenuato perlomeno con riferimento alla disciplina delle elezioni
amministrative58. Inoltre, il predominio dei partiti risulta evidente con
riferimento alla formazione delle liste di candidati per il secondo scru-
tinio. L’art. 49 della legge prevede infatti che prima dell’inizio del se-
condo scrutinio i responsabili di ciascuna lista di partito consegnino
alla Commissione elettorale le liste dei candidati «che possono con-
tenere, in numero indeterminato, solo i nomi di coloro che sono stati
candidati dal partito stesso» e non risultano eletti al primo scrutinio.
In questo modo, pur con il vincolo della presentazione al primo scru-
tinio, ogni partito è in grado di selezionare a posteriori i candidati
che saranno proclamati eletti secondo l’ordine di presentazione: una
soluzione che può essere qualificata come lista arbitraria e attual-
mente è unanimemente considerata incompatibile con la libertà del
voto, come dimostrano l’abbandono di tale metodo da parte del le-
gislatore serbo in seguito ai rilievi della Commissione di Venezia nel
2011 e le preoccupazioni che – su un piano sostanziale – hanno a
lungo riguardato in Italia la legge n. 270 del 2005 in cui compari-

58
In proposito v. ancora C. Mortati, La legge elettorale cecoslovacca, cit., p. 29.
La legge 12 luglio 1933, n 122 prevedeva in proposito un interessante soluzione di
lista semi-rigida, assai simile a quella adottata dal legislatore italiano con la legge n.
52 del 2015. L’elettore aveva a disposizione un voto di preferenza che tuttavia non
poteva incidere sulla posizione privilegiata del capolista e poteva modificare l’ordine
di presentazione dei candidati solo al raggiungimento di un quorum di efficienza.

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136 Andrea Gratteri

vano lunghe liste rigide con possibilità di candidature plurime e un


regime di opzione successiva59.
La legge elettorale cecoslovacca del 1920, di cui ora si celebra la
ricorrenza, fu nel complesso una legge assai innovativa che, al con-
tempo, seppe bene interpretare lo spirito del tempo nella traduzione
normativa delle esigenze pratiche del sistema politico: la fedele rap-
presentazione parlamentare del peso elettorale dei partiti politici e il
conseguente ruolo direttivo che ad essi doveva essere riconosciuto
costituirono il principale obbiettivo del legislatore. La lista rigida di
candidati del primo scrutinio, la lista arbitraria del secondo, l’obbli-
gatorietà del voto, il vincolo di mandato partitico e la formula dei
tre scrutini sono tutti elementi finalizzati a perseguire il medesimo
scopo; anche il favore per le minoranze etniche si inserisce in que-
sto quadro senza contraddirne le premesse.
Per i fondatori della Repubblica cecoslovacca il modello dichia-
rato era la Svizzera, come ebbe ad affermare Edvard Beneý davanti
alla Conferenza di Pace di Parigi: un sistema di impronta tollerante
e liberale capace di rispettare le minoranze nazionali presenti al suo
interno. Tuttavia la storia andò rapidamente in una diversa direzione
e anche il carattere plurinazionale del neonato ordinamento costitu-
zionale cecoslovacco ebbe un impatto che – a causa della scarsa in-
tegrazione di alcune comunità nazionali – incise negativamente sul
complessivo sviluppo delle istituzioni democratiche60.

59
Sul punto v. A. Gratteri, Il diritto straniero e la comparazione nelle motiva-
zioni della Corte costituzionale: il caso delle “sentenze elettorali”, in M. D’Amico,
F. Biondi (cur.), La Corte costituzionale e i fatti: istruttoria ed effetti delle decisioni,
Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, p. 229 ss.; P. Passaglia (a cura di), Liste bloccate
e voto di preferenza, in Studi di diritto comparato, novembre 2013 (in www.corte-
costituzionale.it).
60
In questo senso v. E. Broklová, La Cecoslovacchia nell’epoca di Tomáš G. Ma-
saryk, in P. Fornaro, La tentazione autoritaria, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004,
p. 61 ss.

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Francesco Duranti
IL PROCESSO DI NATION BUILDING
DEL PRIMO DOPOGUERRA
NEL CONTESTO NORDICO:
LA COSTITUZIONE FINLANDESE DEL 1919

1. Le origini storiche del costituzionalismo finlandese. – Sulla base


della condivisa premessa metodologica in virtù della quale «constitu-
tional history is of too much importance to be left alone in the scho-
larly ivory tower; it should be seen as a crucial element if one wi-
shes to understand the different layers of a constitution»1, è di par-
ticolare interesse indagare le radici storiche del costituzionalismo fin-
landese per coglierne appieno i successivi sviluppi e le principali di-
namiche.
Così, dalle origini dell’ordinamento feudale sino ai primi anni del
XIX secolo la Finlandia ha costituito parte integrante del Regno di
Svezia, risultando soggetta integralmente, per oltre 600 anni, al si-
stema istituzionale ed alle tradizioni giuridiche svedesi: ciò che costi-
tuisce l’autentica pietra angolare per comprendere le effettive pecu-
liarità del costituzionalismo finlandese2.
Nel 1362 ai finlandesi è concesso – per la prima volta – il diritto
di inviare rappresentanti per l’elezione del Re in Svezia, e nel XVI
secolo questo diritto viene esteso per includere la rappresentanza nella
Dieta svedese.
Il primo documento di rilievo costituzionale risale, in ogni caso,
al 1617, allorché viene approvata una legge speciale sull’organizza-
zione del Parlamento, seguita da una più ampia legge sulla forma di
governo nel 1634: nella storia costituzionale svedese queste leggi della

1
J. Husa, The Constitution of Finland. A Contextual Analysis, Hart Publishing
PLC, Oxford, 2011, 12. Vd. anche M. Gobbo, Periodi, contesti e tradizioni giuridi-
che nell’evoluzione del diritto costituzionale europeo. Spunti per un percorso storico-
diacronico, in Dir. pub. comp. eur., numero speciale 2019, 295 ss.
2
I. Saraviita, Constitutional Law in Finland, Alphen, 2012, 5 ss.

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138 Francesco Duranti

Dieta sono considerate come forme embrionali di un assetto costitu-


zionale moderno, anche se fino ai primi anni del XVIII secolo pre-
vale una lunga fase di effettivo accentramento dei poteri nelle mani
del sovrano.
Il punto di svolta si verifica con l’approvazione della nuova legge
sulla forma di governo (1719) e con la nuova legge sul Parlamento
(1723), che danno luogo ad una effettiva separazione dei poteri e ad
una reale primazia istituzionale della Dieta nei confronti del monarca,
inaugurando la stagione del liberalismo classico che si conclude con
l’avvento al trono di Gustavo III3.
Nel corso del 1772, su decisivo impulso di Gustavo III, viene in-
fatti approvato un nuovo assetto costituzionale, di stampo fortemente
reazionario, che ricolloca al centro del modello istituzionale il mo-
narca, sottraendo alla Dieta i poteri faticosamente conquistati nel corso
del tempo, che, però, nel 1789 trovano un parziale contemperamento,
grazie all’Atto di Unione e Sicurezza, che stabilisce il necessario pre-
vio assenso della Dieta degli Stati – ancora strutturata in quattro as-
semblee su base cetuale – per tutte le imposizioni tributarie4.

2. Un ordinamento costituzionale in divenire: la Finlandia come


Granducato di Russia (1809-1917). – Sino al 1809 la Finlandia non
esiste, dunque, come autonomo ordinamento costituzionale, trattan-
dosi, come visto, solo di una provincia nell’ambito del Regno di Sve-
zia: non è, perciò, di conseguenza, nemmeno immaginabile un diritto
finlandese distinto da quello svedese.
Con la sconfitta nelle guerre napoleoniche, la Svezia è, però, co-
stretta a cedere nel 1809 la Finlandia all’Impero russo.
La Finlandia, tuttavia, non entra far parte quale semplice entità
territoriale nell’ambito dell’ordinamento imperiale, acquisendo, al con-
trario, il rango e le prerogative costituzionali di Granducato auto-
nomo, con il privilegio garantito dallo Zar di mantenere il proprio
ordinamento giuridico, come stabilito con la convocazione della Dieta
di Porvoo nell’agosto 1809, che riconosce allo Zar Alessandro I il ti-

3
Sullo Stato liberale, cfr. ora A. Di Giovine, Stato liberale, Stato democratico e
principio di laicità, in Dir. pub. comp. eur., numero speciale, 2019, 215 ss
4
G.F. Ferrari, La Costituzione della Finlandia, in R. Orrù, G. Parodi (cur.),
Codice delle Costituzioni, vol. II, Cedam, Padova, 2016, 222. A quest’epoca – defi-
nita ‘età Gustaviana’ – risalgono sia il bilinguismo che l’emergere di altri istituti poi
consolidatisi nel successivo sviluppo del costituzionalismo finlandese.

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La Costituzione finlandese del 1919 139

tolo di Granduca di Finlandia, rappresentato nel paese da un Go-


vernatore generale di nazionalità russa da lui designato.
L’accordo costituzionale raggiunto a Porvoo è di particolare inte-
resse: lo Zar riceve l’assenso della Dieta al suo ruolo di Granduca di
Finlandia e, nel contempo, il Granducato di Finlandia ottiene la ga-
ranzia della sua autonomia costituzionale nell’ambito dell’Impero
russo, con l’espresso riconoscimento delle leggi fondamentali svedesi
del 1772 e del 1789 quali norme costituzionali ancora vigenti per la
(sola) Finlandia5.
Gli sviluppi istituzionali di questo periodo non sono privi di pa-
radossi: «thus, a curious situation emerged: despite being an auto-
cratic ruler in the rest of Russia, the Tsar and Grand Duke was at
least in principle a constitutional monarch within the particular juri-
sdiction of Finland under those Swedish Constitutional Act had been
revoked in Sweden; the Tsar and Grand Duke explained that Fin-
land was henceforth to be placed in the category of nations»6.
Il Nation Building finlandese inizia, così, a svilupparsi senza evi-
denti contrasti da parte dell’Impero russo.
La Finlandia è dotata di un’Assemblea legislativa (la Dieta degli
Stati) e di un’amministrazione centrale (il Senato), nonché di un au-
tonomo sistema giuridico, ereditato dai tempi della dominazione sve-
dese, il che significa che a tutti i livelli i finlandesi sono essenzial-
mente responsabili dell’amministrazione dei propri affari ‘domestici’.
Inoltre, si sviluppa un forte senso di identità nazionale che de-
marca una stretta linea di continuità con la Svezia e con gli altri Paesi
nordici, anche attraverso significativi legami linguistici, storici e, più
in generale, culturali7.

5
P. Kastari, The Historical Background of Finnish Constitutional Ideas, in Scand.
Stud. Law, vol. 7, 1963, 73 ss.
6
Così, efficacemente, M. Suksi, Common Roots of Nordic Constitutional Law?
Some Observations on Legal-Historical Development and Relations between the Con-
stitutional System of Five Nordic Countries, in H. Krunke, B. Thorarensen (eds.),
The Nordic Constitutions. A Comparative and Contextual Study, Hart Publishing,
Oxford, 2018, 25.
7
Lo Zar illuminato Alessandro I, Granduca di Finlandia nel periodo 1809-1825,
concede alla Finlandia un’ampia autonomia, dando vita così, di fatto, allo Stato fin-
landese. La Chiesa luterana mantiene la sua posizione di religione riconosciuta, così
come lo svedese rimane lingua ufficiale del paese. Nel 1812, Helsinki diviene la ca-
pitale della Finlandia e l’Università, fondata a Turku nel 1640, viene trasferita ad
Helsinki nel 1828. Il decreto linguistico emanato nel 1863 da Alessandro II segna,

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140 Francesco Duranti

D’altra parte, però, la dipendenza della Finlandia dalla Russia au-


tocraticamente governata costituisce un evidente ostacolo al suo pro-
gresso liberale: ne è conferma la mancata convocazione, per oltre
mezzo secolo, della Dieta finlandese, riconvocata solo nel 1863 dopo
la formale e solenne seduta cerimoniale del 18098.
Da questa fase in poi – con il decisivo supporto della neocosti-
tuita scienza costituzionale finlandese9 – inizia una stagione di signi-
ficativa opposizione al tentativo di «russificazione» da parte delle au-
torità centrali dell’Impero10.
La forte opposizione al tentativo egemonico dell’Impero si fonda
principalmente su solide argomentazioni giuridico-costituzionali.
Tra queste, un ruolo di assoluto rilievo è senz’altro costituito dal-
l’emergere del controllo di costituzionalità preventivo affidato ad una
speciale commissione parlamentare della Dieta, alla quale è affidato il
compito di verificare il rispetto dell’assetto costituzionale – ovvero di
quello ancora risalente all’epoca svedese – da parte della nuova legi-
slazione in corso di approvazione: con la (voluta) conseguenza di
escludere del tutto le Corti di giustizia, di nomina imperiale, da que-
sta cruciale (per l’autonomia finlandese) funzione di controllo11.
Altra pietra angolare del costituzionalismo finlandese – che tale
permarrà per tutto il corso del XX secolo – a svilupparsi in questa

poi, l’inizio del processo attraverso il quale il finlandese diviene lingua amministra-
tiva ufficiale del paese.
8
Nel corso di questo lungo periodo, le lacune ordinamentali derivanti dalla per-
durante vigenza del diritto svedese vengono, di conseguenza, colmate attraverso de-
creti dello Zar: cfr. G.F. Ferrari, La Costituzione della Finlandia, cit., 222.
9
Il capostipite della scuola pubblicistica finlandese è certamente Leo Mechelin,
autore dell’influente trattato Précis de droit public de Grande-Duché de Finlande
(1886).
10
La cancellazione del separatismo finlandese – una politica appunto nota anche
come «russificazione» – inizia durante la «prima era di oppressione» (1899-1905) e
continua durante la sua seconda fase (1909-1917). Ciò anche perché durante il re-
gno di Alessandro III (1881-1894) e poi di Nicola II (1894-1917) i circoli naziona-
listi in Russia acquisiscono una maggiore influenza politica. Il Granducato di Fin-
landia, parte dell’Impero russo ma con ampia autonomia, rappresenta un punto do-
lente per gli sciovinisti russi: la Finlandia è, infatti, uno stato all’interno di uno stato,
con il proprio Senato e la propria Dieta, i propri funzionari locali, una legislazione
speciale, l’esercito ed una propria moneta nazionale. Inoltre, per di più, la Finlandia
è separata dall’Impero da un confine geopolitico riconosciuto.
11
Sulle origini del controllo di costituzionalità preventivo, cfr. M. Hidén, Con-
stitutional Rights in the Legislative Process: The Finnish System of Advance Control
of Legislation, in Scand. Stud. Law, vol. 17, 1973, 95 ss.

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La Costituzione finlandese del 1919 141

fase è, poi, la nuova concezione istituzionale delle «leggi di eccezione


costituzionale», con le quali il Parlamento finlandese escogita una sin-
golare procedura per evitare di modificare formalmente l’assetto co-
stituzionale, alterando, invece, il contenuto sostanziale di interi set-
tori normativi: è la cosiddetta procedura delle «leggi di eccezione co-
stituzionale» che, appunto, non modificano formalmente le disposi-
zioni costituzionali vigenti, consentendone, però, la diversa interpre-
tazione prescritta dalle leggi di eccezione stesse, rimanendo, in ogni
caso, modificabili ad opera di successive semplici leggi ordinarie12.
L’alba del nuovo secolo porta così all’affermarsi di importanti ac-
quisizioni costituzionali per la Finlandia, che marcheranno decisa-
mente tutto il successivo sviluppo del costituzionalismo finlandese.
La pesante sconfitta nella guerra russo-giapponese costringe, poi,
lo Zar Nicola II a fare ulteriori concessioni all’autonomia finlandese,
immediatamente seguenti al «grande sciopero» del 1905 ed al «mani-
festo costituzionale» di Leo Mechelin dello stesso anno.
Si giunge, di conseguenza, ad una radicale riforma parlamentare,
ovvero all’introduzione di un nuovo Parlamento unicamerale (Edu-
skunta) in luogo della Dieta degli Stati strutturata in quattro assem-
blee distinte.
Non solo.
Vengono parimenti introdotti il suffragio universale maschile e
femminile, oltre ai diritti di libertà fondamentali, tra i quali la libertà
di riunione ed associazione, di stampa e di manifestazione del pen-
siero.
All’epoca, questa è, dunque, la riforma parlamentare più radicale
d’Europa, poiché la Finlandia passa da una Dieta su base medieval-
censuale ad un Parlamento unicamerale eletto, con metodo propor-
zionale, a suffragio universale: le donne finlandesi sono, inoltre, le
prime in Europa ad ottenere il diritto di elettorato – attivo e passivo
– alle elezioni parlamentari.

3. La Finlandia indipendente. – Il primo conflitto mondiale e la


Rivoluzione russa costituiscono il contesto storico e politico di rife-
rimento che conduce alla piena e definitiva indipendenza della Fin-
landia dalla Russia.

12
Sulla singolare genesi di queste «leggi di eccezione costituzionale» – oggetto
di ulteriore analisi infra nel testo – cfr., in particolare, P. Kastari, The Historical Back-
ground of Finnish Constitutional Ideas, cit., 74-76.

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142 Francesco Duranti

Dal punto di vista interno, le elezioni parlamentari del 1916 asse-


gnano una solida maggioranza assoluta ai socialdemocratici, ma lo
Zar rifiuta di convocare il Parlamento e si oppone a qualsiasi tenta-
tivo di riforma legislativa13.
La Rivoluzione di febbraio e la caduta dello Zar determinano i
successivi eventi istituzionali: il Governo provvisorio russo di Lvov
permette al Parlamento finlandese di riunirsi, consentendo pure la
formazione dell’esecutivo (il Senato) composto dai rappresentanti di
tutti i partiti.
Il 4 dicembre 1917 il Senato dichiara l’indipendenza della Finlan-
dia dalla Russia, che il Parlamento approva due giorni dopo e che la
Russia riconosce il 31 dicembre 1917, cui fanno seguito nei giorni
successivi altri Stati.
Ma la pacifica indipendenza dalla Russia è seguita ben presto da
una lacerante, sanguinosa, guerra civile: alla fine di gennaio 1918 le
Guardie Rosse (supportate dalle milizie russe ancora di stanza in Fin-
landia) tentano di rovesciare Parlamento e Senato legittimi, con suc-
cessivi, cruenti scontri nelle piazze e nelle vie delle principali città del
paese14.
La guerra civile si conclude alla fine di aprile 1918 con la vittoria
della parte bianca (conservatrice, supportata dalla Germania), con la
conseguenza politica della formazione di un nutrito blocco di partiti
ad ispirazione monarchica nelle successive elezioni parlamentari della
primavera dello stesso anno.
La perdurante vigenza del vecchio assetto costituzionale svedese
del 1772 conduce così all’elezione da parte del Parlamento di un reg-
gente, ovvero del principe di Assia Friedrich Karl, genero dell’impe-
ratore tedesco Guglielmo II.
Ma la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale co-
stringe ben presto la Finlandia, dopo soli due mesi, ad abbandonare
il suo reggente: le potenze occidentali accettano, infatti, di ricono-
scere la Finlandia solo con la sua definitiva recisione del legame filo-
germanico in atto.

13
P. Ihalainen, Transnational Constructors of Parliamentary Democracy in Swe-
dish and Finnish Constitutional Controversies 1917-1919, in Scandinavian Journal of
History, 2019, 213-235.
14
La guerra civile tra Bianchi e Rossi «could be characterised, from a constitu-
tional point of view, as a conflict between the pouvoir constituant of the Reds and
the pouvoir constitué of the Whites»: M. Suksi, Common Roots of Nordic Consti-
tutional Law?, cit., 27.

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La Costituzione finlandese del 1919 143

I partiti ad ispirazione repubblicana prevalgono nelle elezioni par-


lamentari nel marzo 1919 e la nuova costituzione repubblicana (Atto
sulla Forma di Governo) viene, così, approvata, con una larghissima
maggioranza, nel successivo mese di giugno 191915.

4. La Costituzione del 1919: i profili di originalità del costituzio-


nalismo finlandese. – Il compromesso costituzionale raggiunto nel
1919 riflette accuratamente la distinzione tra forze politiche di ispi-
razione monarchica e quelle repubblicane e tale distinzione è parti-
colarmente evidente in relazione a modalità di investitura, ruolo e po-
teri del Presidente della Repubblica.
Ciò si spiega in considerazione dei richiamati pregressi eventi sto-
rici: il tradizionale assetto monarchico ereditato dalla consolidata tra-
dizione svedese; la profonda, lacerante, divisione tra forze rivoluziona-
rie filo-sovietiche e quelle conservatrici filo-tedesche nella sanguinosa
guerra civile combattuta nel 1918; il nuovo contesto geopolitico mon-
diale realizzatosi con la fine del primo conflitto mondiale e le conse-
guenti divisioni, trasversali ai partiti, tra monarchici e repubblicani.
L’istituzione della Presidenza della Repubblica – sconosciuta alla
storia costituzionale finlandese – deriva, perciò, dal singolare conte-
sto costituzionale che si realizza nel biennio 1917-1919: «the only
plausible explanation for the powers oh the Finnish President is the
fact that this institution actually inherited many of the powers gran-
ted to the Grand Duke during the Russian period prior to indepen-
dence; in other words, the Finnish President is not truly a republi-
can institution: as a matter of fact it is a monarchical remnant, a li-
ving constitutional ruin from the earlier constitutional layers»16.
Il compromesso costituzionale tra monarchici e repubblicani si ri-
flette, quindi, proprio sui poteri del Presidente della Repubblica, che
l’assetto costituzionale disegnato nel 1919 vuole di rilevo ed in grado
di adeguatamente bilanciare il Parlamento, altrettanto tributario di si-
gnificative prerogative istituzionali17.

15
Sui dibattiti parlamentari e sui modelli costituzionali di riferimento, è di par-
ticolare interesse l’ampio volume di P. Ihalainen, The Springs of Democracy. Natio-
nal and Transnational Debates on Constitutional Reform in the British, German,
Swedish and Finnish Parliament 1917-1919, Finnish Literature Society, Helsinki, 2017,
465-502.
16
J. Husa, The Constitution of Finland. A Contextual Analysis, cit., 106.
17
«A compromise was reached. In the future republic the President would have

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144 Francesco Duranti

Ciò porta all’assegnazione al Presidente di rilevanti poteri in rela-


zione alla nomina del Governo ed allo scioglimento anticipato del Par-
lamento, oltre all’attribuzione di decisive funzioni in ordine all’indi-
rizzo politico in materia di politica estera e di sicurezza: la qualifica-
zione in senso semipresidenziale della forma di governo finlandese
può, pertanto, così trovare solido fondamento costituzionale per una
prima, lunga, fase del nuovo assetto costituzionale introdotto nel 191918.
Altro profilo di originalità del costituzionalismo finlandese è poi
costituito dalla natura pluritestuale dell’assetto costituzionale, con evi-
denti legami alla (plurisecolare) tradizione costituzionale svedese.
Oltre all’Atto sulla Forma di Governo del 1919, compongono la
Costituzione pluritestuale finlandese – sino all’entrata in vigore della
nuova Costituzionale unitestuale nel marzo 2000 – anche l’Atto sul-
l’Alta Corte di impeachment (1922), l’Atto sulla Responsabilità Mini-
steriale (1922) e, infine, l’Atto sul Parlamento (1928)19.
Ma i tratti di maggiore interesse ed originalità, in prospettiva com-
parata, sono certamente costituiti dalla specifica dimensione del con-
trollo preventivo di costituzionalità e dalla singolare categoria delle
«leggi di eccezione costituzionale», entrambi istituti sviluppatisi –
come visto – nel corso del XIX secolo e poi definitivamente consa-
cratisi con l’assetto costituzionale del 1919.
Nell’ordinamento costituzionale finlandese, sino all’entrata in vi-
gore della nuova Costituzione del 2000, le Corti, a differenza delle
altre esperienze nordiche, non hanno mai esercitato il sindacato dif-
fuso di costituzionalità nei confronti delle leggi approvate dal Parla-
mento20.

almost all of the powers that the monarchists had wanted to give to the King. Iro-
nically, the Finnish presidency grew in the direction of a strong powerful position
of the President, while in the Kingdom of Sweden, the equal prerogatives of the
Swedish Kings were gradually ‘parliamentarised’ and transferred to the Prime Mi-
nister of Sweden. The Constitution of Finland reflects the monarchical ideas for
strong position of the Head of State especially during political crises and exceptio-
nal circumstances»: così I. Saraviita, Constitutional Law in Finland, cit., 64.
18
«Without a shadow of doubt, those who drafted the final 1919 constitutional
document were not thinking any pouvoir neutre according to French constitutional
theory, but rather a strong governmental organ taking part in political life on con-
stant basis»: J. Husa, The Constitution of Finland. A Contextual Analysis, cit., 107.
19
Per una panoramica comparata sulle Carte pluritestuali, cfr. G. Morbidelli, Co-
stituzioni e costituzionalismo, in G. Morbidelli, L. Pegoraro, A. Rinella, M. Volpi,
Diritto pubblico comparato, Torino, V ed., 2016, 170.
20
Come rileva, ancora di recente, E. Smith, Judicial Review of Legislation, in H.

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La Costituzione finlandese del 1919 145

Ciò in quanto, in base all’interpretazione consolidata dell’art. 92


del testo costituzionale del 1919, agli organi giudiziari è consentito
unicamente sindacare la legalità dei decreti del Governo e degli atti
amministrativi delle altre pubbliche autorità, mentre risulta del tutto
precluso il controllo giudiziario di costituzionalità nei confronti delle
norme di legge ordinaria21.
Il controllo preventivo di costituzionalità interno al procedimento
legislativo, si origina, tuttavia, ben presto nell’ordinamento finlandese:
nel corso del 1882, infatti, viene richiesto, per la prima volta, un ap-
posito parere sulla costituzionalità di una proposta di legge in corso
di approvazione ad una commissione parlamentare appositamente isti-
tuita al riguardo, la quale si pronuncia per la legittimità della propo-
sta, affermando che il suo controllo è esclusivamente volto a verifi-
care la legittimità dell’atto dal punto di vista della sua conformità co-
stituzionale22.
Dopo la riforma del 1906, che introduce il Parlamento unicame-
rale, il sindacato preventivo di costituzionalità viene, quindi, affidato
alla Commissione affari costituzionali dell’Eduskunta (Perustuslaki-
valiokunta).
Tale Commissione, composta di parlamentari, ma integrata da
esperti costituzionalisti nel caso di pareri in materia di costituziona-
lità delle leggi in corso di approvazione, ha, tra i vari altri, anche il
compito di pronunciarsi in via preventiva sulla legittimità costituzio-
nale delle leggi e delle altre deliberazioni parlamentari, su richiesta di
un’altra Commissione parlamentare o del Presidente dell’Eduskunta.
Una solida consuetudine costituzionale, sviluppatasi nel corso de-
gli anni, stabilisce, poi, l’efficacia giuridicamente vincolante del parere
reso dalla Commissione in via preventiva, di talché la proposta di
legge, se ritenuta non compatibile con la Costituzione, deve essere
modificata in conformità con l’opinione della Commissione o non
può, comunque, essere approvata in via definitiva.

Krunke, B. Thorarensen (eds.), The Nordic Constitutions. A Comparative and Con-


textual Study, cit., 115.
21
V.P. Hautamäki, Novel Rules in the Finnish Constitution - The Question of
Applicability, in Scand. Stud. Law, vol. 52, Constitutional Law Constitutions, 2007,
146.
22
«Later, this declaration was to become a crucial part of the Finnish constitu-
tional landscape: the cunning idea was to make the control of constitutionality an
internal affair of the Grand Duchy and, thus, keep it out of the Russian hands»: J.
Husa, The Constitution of Finland. A Contextual Analysis, cit., 78.

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146 Francesco Duranti

Il particolare prestigio riconosciuto alla Commissione – accresciuto,


come detto, dalla prassi della consultazione di esperti accademici di
diritto costituzionale, le cui opinioni risultano invariabilmente osser-
vate nelle decisioni dell’organo parlamentare – ha di conseguenza rap-
presentato, in Finlandia, l’effettivo punto di riferimento per tutto l’or-
dinamento in ordine all’interpretazione costituzionale degli atti nor-
mativi, al punto di farne l’interprete più autorevole della stessa Co-
stituzione23.
Ulteriore profilo di originalità e di interesse comparativo che emerge
dall’assetto costituzionale del 1919 è, infine, quello delle leggi di ec-
cezione costituzionale: «this, if anything in the constitutional field, is
a Finnish constitutional specialty»24.
A partire dalla metà del XIX secolo, la prassi costituzionale ha,
infatti, iniziato a registrare con sempre maggior frequenza il ricorso
a vere proprie «leggi di eccezione costituzionale» (poikkeuslaki), ov-
vero all’adozione di leggi di rango formalmente ordinario, sebbene
approvate con la speciale procedura richiesta per la revisione costi-
tuzionale, in quanto contenenti disposizioni in contrasto con la Co-
stituzione, ma con l’obiettivo di non intervenire a modificare espres-
samente il testo della Carta fondamentale.
L’origine di tale singolare procedura risale, come visto, all’epoca
del Gran Ducato.
Per evitare di alterare formalmente il testo costituzionale vigente
(quello svedese del 1772), la revisione del quale avrebbe comportato
la sicura reazione contraria delle autorità russe, che avrebbero potuto,
in ipotesi, limitare fortemente la stessa autonomia finlandese, e, nel
contempo, adeguare il vecchio testo alla nuova realtà sociale, viene,
pertanto, escogitata la soluzione delle «leggi di eccezione costituzio-
nale», adottate, appunto, secondo la procedura richiamata.
Con l’ulteriore conseguenza – attesa la collocazione di dette leggi
al livello primario della scala gerarchica delle fonti del diritto – di
rendere possibile l’abrogazione di tali leggi di eccezione con semplici
leggi ordinarie successive25.
La procedura delle «leggi di eccezione costituzionale» – parago-

23
J. Husa, Guarding the constitutionality of Laws in Nordic Countries, in Amer.
Journ. Comp. L., vol. 48, 2000, 345.
24
J. Husa, The Constitution of Finland. A Contextual Analysis, cit., 238.
25
M. Hidén, Constitutional Rights in the Legislative Process: The Finnish System
of Advance Control of Legislation, cit., 99 ss.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


La Costituzione finlandese del 1919 147

nabile, nella sostanza, a quelle che la dottrina comparatistica defini-


sce quali «rotture» della Costituzione – ha caratterizzato in maniera
pervasiva l’esperienza costituzionale finlandese per tutto l’arco del XX
secolo ed è stata ripetutamente impiegata per la disciplina di molte-
plici settori normativi.
Neppure la nuova Costituzione del 2000 ha abrogato l’istituto in
questione: ne ha, in ogni caso, l’imitato l’impiego, risultando ora con-
sentito il ricorso a «leggi di eccezione costituzionale» per sole dero-
ghe di contenuto limitato alla Costituzione, secondo quanto dispone
il nuovo art. 73 della Carta26.

5. Considerazioni conclusive. – La Costituzione finlandese del 1919


rappresenta il crocevia simbolico di significativi eventi nel quadro del
costituzionalismo continentale agli albori del XX secolo: l’afferma-
zione dell’indipendenza dall’Impero Russo nell’ambito di un origi-
nale processo di Nation Building; la realizzazione di una singolare
forma di governo – che verrà, poi, qualificata come ‘semipresiden-
ziale’ dalla dottrina comparatistica – con rilevanti elementi di novità
rispetto al modello parlamentare all’epoca prevalente in Europa; l’o-
riginale struttura pluritestuale dell’assetto costituzionale (tributaria del
modello svedese); l’introduzione ‘pionieristica’ del suffragio univer-
sale maschile e femminile; il consolidamento nel testo costituzionale
dei diritti fondamentali e la peculiare concezione del controllo pre-
ventivo di costituzionalità.
Sono, questi, i principali elementi di specifico interesse compara-
tivo che emergono dalla Costituzione finlandese del 1919 e che ne
segnano i più rilevanti sviluppi e le successive dinamiche istituzionali
sino all’introduzione della nuova Costituzione unitestuale del 2000,
la quale rappresenta – pare di poter rilevare in conclusione – la più
efficace forma di definitiva consolidazione e maturazione del pre-
gresso, originale, assetto costituzionale finnico introdotto nel 1919.

26
Cfr., sul punto, J. Husa, Nordic Reflections on Constitutional Law. A Com-
parative Nordic Perspective, Franfurt-am-Main/New York, 2002, 143 ss.

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COMUNICAZIONI
Giulio M. Salzano
IMMAGINARE LA NAZIONE.
RAPPRESENTAZIONI DELL’IDENTITÀ MUSULMANA
NELLA JUGOSLAVIA SOCIALISTA

1. Premessa. – La Costituzione della Repubblica socialista della


Bosnia-Erzegovina, promulgata il 25 febbraio 1974, sancì, de jure, la
«nascita» della nazione musulmana di Bosnia-Erzegovina, la sesta na-
zione costituente della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia1.
Fu l’ultimo atto di un complesso percorso politico avviato dal Par-
tito comunista jugoslavo nell’ambito della lotta popolare di Libera-
zione, durante le fasi decisive del Secondo conflitto mondiale. L’ap-
proccio dei comunisti jugoslavi alla questione nazionale musulmana
aveva da subito evidenziato alcune criticità rispetto al tradizionale
orientamento iperlaicista della dottrina marxista-leninista. L’elemento
predominante di una presunta identità collettiva musulmana, in ef-
fetti, era e restava saldamente ancorato al patrimonio religioso isla-
mico. L’idea di fondare la nazione musulmana su tali presupposti, no-
nostante l’opera di persuasione da parte di alcuni esponenti del mondo
accademico bosniaco, fu considerata, dai comunisti più intransigenti,
incompatibile con quei principi sui quali il partito aveva fondato, le-
gittimato e preteso il consenso popolare nell’immediato secondo do-
poguerra.
Le strategie adottate dai funzionari politici comunisti favorevoli
all’affermazione nazionale della componente bosniaco-musulmana si
svilupparono essenzialmente in due direzioni: attraverso gli strumenti
della storiografia e della pubblicistica di regime, tesi a rintracciare gli
elementi della presupposta identità nazionale musulmana lungo un

1
Ustav Socijalističke Republike Bosne i Hercegovine in Službeni list SRBiH,
25.02.1974, n.4, pp. 90 e segg. La Jugoslavia del secondo dopoguerra nacque dall’u-
nione di sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e
Montenegro) e cinque popoli-nazioni costituenti (sloveni, croati, serbi, macedoni e
montenegrini).

© Edizioni Scientifiche Italiane ISBN 978-88-495-4334-6


152 Giulio M. Salzano

percorso ideale che dalla tradizione medievale bogumila giungeva, tra-


mite il complesso processo di islamizzazione di epoca ottomana e le
riforme dell’amministrazione asburgica, fino ai più recenti anni della
Resistenza partigiana; l’altra, attraverso un articolato progetto istitu-
zionale, contraddistinto dall’adozione di una serie di provvedimenti
legislativi e atti amministrativi, che, nel tempo, favorirono il processo
di inclusione della componente bosniaco-musulmana nel novero delle
nazioni costituenti jugoslave. Il successo dell’azione politica comuni-
sta di orientamento «liberale» causò, inevitabilmente, alcuni assesta-
menti degli equilibri di potere all’interno del partito e aprì nuovi sce-
nari nell’ambito delle relazioni tra le repubbliche, le nazioni e il go-
verno federale jugoslavo.

2. Il protonazionalismo slavo nella Bosnia-Erzegovina tra i due


Imperi. – Nella prima metà degli anni Sessanta del Novecento, la
Lega dei comunisti jugoslavi favorì la proliferazione di numerose ri-
cerche di carattere storiografico sui musulmani della Bosnia-Erzego-
vina. Le cause che spinsero diversi esponenti del mondo accademico
a confrontarsi con un argomento tanto complesso quanto delicato,
sono da ricondurre alla volontà del partito di legittimare un partico-
lare indirizzo politico, i cui sforzi erano tesi essenzialmente a «rico-
noscere» e affermare l’esistenza della nazione bosniaco-musulmana.
Sin dalle sue prime fasi, il processo di affermazione nazionale della
componente musulmana incontrò una decisa resistenza sia tra gli stessi
vertici del partito che in alcuni ambienti della società civile e acca-
demica jugoslava. A partire dagli scritti di Enver Redžić e Atif Pu-
rivatra, l’approccio di una certa storiografia, che si affermò tra la metà
degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, nell’ambizioso tentativo
di rintracciare gli elementi «laici» dell’identità «etnica» musulmana, si
orientò inizialmente verso le vicende politiche che segnarono l’ultima
fase del governo ottomano e i quattro decenni dell’amministrazione
asburgica2. In questo primo paragrafo, il cui scopo è essenzialmente
introduttivo, saranno evidenziati i momenti decisivi e i principali ele-

2
Enver Redžić, Prilozi o nacionalnom pitanju, Svjetlost, Sarajevo 1963; Salim Će-
rić, Muslimani srpsko-hrvatskog jezika (I musulmani di lingua serbo-croata), Svje-
tlost, Sarajevo 1968; Atif Purivatra, Nacionalni i politički razvitak Muslimana, Svje-
tlost, Sarajevo 1969; Muhamed Hadžijahić Od tradicije do identiteta. Geneza nacio-
nalnog pitanja Bosanskih Muslimana (Dalla tradizione all’identità. Genesi della que-
stione nazionale dei musulmani bosniaci), Svjetlost, Sarajevo 1974.

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Immaginare la Nazione 153

menti all’origine della questione nazionale musulmana, che sarebbero


confluiti, molto tempo dopo, nel dibattito politico e accademico che
si sviluppò a partire dai primi anni Sessanta del Novecento nella Ju-
goslavia socialista.
Tra il 1839 e il 1876, la Bosnia-Erzegovina fu interessata dalle
riforme «progressiste» (Tanzimat) che il governo ottomano aveva
avviato nei territori soggetti all’Impero per la riorganizzazione del
sistema giuridico, delle strutture militari, delle finanze e dell’istru-
zione scolastica. Il passaggio repentino dei territori bosniaci all’Au-
stria-Ungheria, in seguito alle decisioni scaturite dal Congresso di
Berlino (1878), fu caratterizzato da un’ulteriore riorganizzazione
delle strutture governative e da una rigida pianificazione burocra-
tica, attraverso cui la nuova amministrazione imperiale intese tra-
sformare la provincia ottomana in un «moderno stato europeo». In
entrambi i casi, i provvedimenti imperiali suscitarono reazioni di
dissenso tra le popolazioni locali, che sfociarono spesso in rivolte,
coinvolgendo a più riprese sia i notabili musulmani (in particolare
tra il 1839 e il 1851), sia gli esponenti delle correnti panslaviste serbe
e croate, che avvertirono tali iniziative come l’ennesima ingerenza
da parte di agenti politici stranieri negli affari interni dei rispettivi
territori3.
Le prime sollevazioni dei «patrioti» serbi contro l’Impero otto-
mano (1804-1813; 1814) riscossero importanti successi e furono ri-
compensate con la nascita di un principato autonomo (1815) la cui
reggenza fu affidata a Miloš Obrenović. Nel corso degli anni Trenta
dell’Ottocento, il croato Ljudevit Gaj (1809-1872) diede vita a un
movimento culturale e politico, riconducibile al diffuso fenomeno del-
l’Illirismo, e idealmente, al breve esperimento napoleonico delle Pro-
vince illiriche (1809-1814), il cui principale obiettivo, all’inizio del se-
colo, era stato riunire, in una sorta di unica entità amministrativa, i
territori sottratti all’Austria e quelli del litorale adriatico abitati pre-
valentemente dalle popolazioni slave: Istria e Dalmazia. A differenza
del passato, però, questa volta la «grande Illiria» avrebbe dovuto in-
cludere i territori compresi tra le regioni abitate dagli sloveni e dai

3
J.R. Lampe, Yugoslavia as History. Twice There was a Country, Cambridge
University Press, Cambridge, 1996 (2000), pp. 65-66; Fikret Karčić, Opšti građan-
ski zakonik u Bosni i Hercegovini: kodifikacija kao sredstvo transformacije pravnog
sistema, in Zbornik Pravnog fakultet u Zagrebu, vol. 63, n. 5-6, 2013, pp. 1027-1036,
pp. 1027-1028.

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154 Giulio M. Salzano

bulgari, compresa la Bosnia-Erzegovina4. A partire dal 1860, il pro-


getto di riunire i popoli slavi sulla base della condivisione di elementi
culturali e religiosi comuni fu ripreso e ampliato dal vescovo di
Djakovo, Josip Juraj Strossmayer e dal sacerdote e storico Franjo
Rački. In un articolo dal titolo Jugoslovjenstvo, pubblicato sulla rivi-
sta Pozor nel mese di ottobre del 1860, Rački pose le basi teoriche
dello «jugoslavismo». Gli elementi politici, culturali e ideologici dello
jugoslavismo ottocentesco avrebbero influenzato, negli anni succes-
sivi, generazioni di politici e, circa un secolo dopo, attraverso una
singolare rilettura dei principi teorici del marxismo-leninismo e la loro
declinazione in chiave locale, anche l’approccio del Partito comuni-
sta alla questione nazionale jugoslava5.
A partire dagli anni Quaranta del XIX secolo, diverse formazioni
«patriottiche» provenienti dalla Serbia e dalla Croazia, che avevano
già sviluppato, seppur in forma embrionale, una certa coscienza proto-
nazionale, iniziarono a guardare con particolare interesse alla «dor-
miente» Bosnia come a uno spazio in cui sviluppare e ampliare il
processo di unificazione delle popolazioni jugo-slave. La Bosnia e i
bosniaci, secondo una diffusa convinzione che circolava tra i gruppi
nazionalisti più intransigenti, erano percepiti dalle élite serbe e croate
come «parti naturali delle rispettive comunità nazionali»6. Questo at-
teggiamento avrebbe favorito, con il passare del tempo, l’insorgere di
tensioni tra la componente musulmana, i cui riferimenti identitari si
erano sviluppati attraverso l’adesione ai principi della tradizione isla-
mico-ottomana, e le componenti serbe e croate i cui elementi cultu-
rali fondanti erano riconducibili rispettivamente ai valori e ai principi
del cristianesimo ortodosso e del cattolicesimo romano. Gli ambiziosi

4
M.R. Leto, Danica Ilirska i pitanje hrvatskoga Književnog jezika, in Slavica
Tergestina, 2004, pp. 163-188, p.181; J.R. Lampe, Yugoslavia as History. Twice there
was a Country, cit., pp. 39-50; Sulle diverse forme che assunse il fenomeno dell’Il-
lirismo si rimanda al testo di E. Ivetić, La Jugoslavia sognata. Lo jugoslavismo delle
origini, Franco Angeli, Milano, 2012, in particolare al capitolo terzo: «Dall’Illirismo
alla cultura jugoslava», pp. 91-126.
5
J.R. Lampe, Yugoslavia as History. Twice there was a Country, cit., pp. 58-60;
Egidio Ivetić, La Jugoslavia sognata…, cit., p. 116; William Klinger, A vent’anni
dalla dissoluzione della Jugoslavia: le radici storiche, in Fiume, rivista di studi adria-
tici, XXXII, n.1-6, 25, pp. 67-71. A Rački è attribuita la paternità del neologismo
Jugoslovjenstvo.
6
E. Hajdarpašić, Whose Bosnia. Nationalism and Political Imagination in the
Balkans, 1840-1914, Cornell University Press, Ithaca and London, 2015, pp. 9-11.

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Immaginare la Nazione 155

progetti dei nascenti movimenti nazionali serbi e croati trovarono


quindi l’opposizione dei notabili musulmani e dei legati ottomani, e
più tardi, tra il 1878 e il 1914, dinanzi a qualsiasi ipotesi di autono-
mia, o, peggio, di secessione da Vienna, la decisa fermezza dei fun-
zionari asburgici.
Edin Hajdarpašić ha analizzato gli aspetti più rilevanti delle dina-
miche del nazionalismo tra Otto e Novecento in Bosnia-Erzegovina,
attraverso l’analisi di alcuni esempi tratti dalla tradizione letteraria lo-
cale di carattere «patriottico». Lo storico di origini bosniache ha ri-
volto la sua attenzione all’eterogenea produzione culturale del XIX se-
colo con l’obiettivo di evidenziare le poetiche comuni e maggiormente
rappresentative del protonazionalismo slavo-meridionale. E lo ha fatto
principalmente attraverso la rilettura delle opere dei serbi Dositej Obra-
dović7, «che per primo percorse tutto il Meridione slavo e intese gli
slavi meridionali come un’unica popolazione»8, e Vuk Stefanović Ka-
radžić9, il riformatore della lingua serba; del croato Ljudevit Gaj10, dei
francescani croato-bosniaci Ivan Franjo Jukić e Grgo Martić11, e, quindi,
dei croati Ante Starčević12 e Antun Radić13. Se da una parte la lettera-
tura patriottica riuscì a veicolare e instillare nelle élite locali i primi
concetti rudimentali di appartenenza «nazionale», dall’altra servì a infor-
mare gli ambienti cattolici europei e quelli ortodossi dell’Impero russo
riguardo le drammatiche condizioni di vita delle popolazioni cristiane

7
M.R. Leto, Il capolavoro imperfetto: forme narrative e percorsi culturali in «Vita
e avventure di Dositej Obradović», Liguori, Napoli, 2011.
8
Egidio Ivetić, op. cit., p. 101.
9
M. Melichárek, The Role of Vuk Karadžić in Histoy of Serbian Nationalism
(In the Context of Europen Linguistic in the First Half of 19TH Century), Serbian
Studies Research, vol. 6, n.1, 2015, pp. 55-74.
10
E.M. Despalatović, Ljudevit Gaj, panslavist i nacionalist, in Radovi: Radovi
Zavoda za Hrvatsku povijest Filozofskog Fakulteta Sveučilišta u Zagrebu, 1973, pp.
111-122.
11
J. Grbić, Etnografska građa u putopisima bosanskih franjevaca I.F. Jukića i G.
Martića (Mogučnosti istraživanja razvoja identita i međuetnickih odnosa), in Na-
rodna Umjetnost: Časopis za etnologiju i folkloristiku, 1995, pp. 109-126.
12
T. Markus, Društveni pogledi Ante Starčevića, in Časopis za suvremenu po-
vijest, 2009, pp. 827-848.
13
J. Čapo Žmegać, Antun Radić i suvremena etnološka istraživanja, in Narodna
Umjetnost, vol. 34/2, Institut za etnologiju i folkloristiku, Zagreb, 1997, pag. 9-33.
Antun Radić è considerato il padre dell’etnologia croata. È stato, inoltre, co-fonda-
tore, assieme al fratello Stjepan, del Partito Contadino Croato (HSS). L’attività in-
tellettuale di Radić fu intensa sia come scrittore che come editore della rivista Zbor-
nik za narodni život i običaje Južnih Slavena.

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156 Giulio M. Salzano

nei domini ottomani. Uno dei tratti che sembra accomunare gli autori
passati in rassegna, nonostane l’appartenenza a contesti storici e geo-
grafici eterogenei, era la convinzione che le popolazioni slave di fede
cristiana in Bosnia-Erzegovina, in larga parte serbi e croati, avrebbero
potuto riscattare la propria condizione di popoli oppressi solo attra-
verso la riconquista dei territori occupati e l’assimilazione dei musul-
mani slavofoni nelle rispettive compagini nazionali. I musulmani bo-
sniaci, infatti, secondo un’opinione ancora oggi diffusa in alcuni am-
bienti nazionalisti, erano considerati serbi o croati convertiti all’islam.
Ciò sarebbe bastato a giustificare qualsiasi iniziativa posta in essere dai
gruppi nazionali antagonisti per «ricondurre» i musulmani bosniaci
nelle rispettive culture di origine. Circa un secolo dopo, la storiogra-
fia comunista avrebbe rigettato certe pretese come espressione della
«borghesia serba e croata» e affermato, contestualmente, il diritto dei
musulmani, in linea di massima, di poter rivendicare la propria indi-
pendenza, l’autonomia e la sovranità nazionale e territoriale.
Alcuni tra gli elementi più frequenti e abusati della letteratura pa-
triottica per descrivere il «pathos collettivo» delle popolazioni autoc-
tone di fede cristiana, sui quali si sofferma a lungo l’indagine di Haj-
darpašić, sono riconducibili essenzialmente al tema generale della «sof-
ferenza» e alla sua evoluzione nel motivo letterario della «povera –
misera – Bosnia” (jadna Bosna). Uno dei primi testi che inaugurò
questa tendenza fu, secondo lo storico bosniaco, il breve e noto poe-
metto pubblicato nel 1835 dallo scrittore croato Mate Topalović, dal
titolo Tužna Bosna (la triste Bosnia). A questo primo esempio di let-
teratura «impegnata» seguì, qualche anno dopo, precisamente nel 1842,
Echoes from the Balkans, The Tears of the Bulgarian, Herzegovinian,
and the Bosnian Christians di Ognjeslav Utješenović (Ostrožinski),
funzionario del confine militare (Vojna krajina o Militärgrenze), di
origine serba, croato di adozione, che poteva vantare, tra le sue co-
siddette amicizie strette, il bano Jelačić e Ljudevit Gaj. Il breve poema
ottenne un successo inaspettato. Esso fu dapprima pubblicato in croato
con il titolo Jeka od Balkana, ili suze bugarskih, hercegovačkih i bo-
sanskih hristianah, quindi in tedesco, e successivamente tradotto in
francese e in italiano. Attraverso il lavoro di Utješenović, le dram-
matiche vicende della raja, ovvero le locali comunità cristiane, ini-
ziarono a circolare nei più importanti salotti europei14. La «soffe-

14
E. Hajdarpašić, op. cit., pp. 59-61. Il termine Raja era utilizzato all’epoca per
riferirsi alla popolazione cristiana di Bosnia.

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Immaginare la Nazione 157

renza», nella sua funzione di espediente narrativo, rappresenta uno


degli elementi letterari che ricorre con una certa frequenza anche nel
resoconto del viaggio in Bosnia di Matija Mažuranić: Pogled u Bo-
snu: ili kratak put u onu krajinu, učinjen 1839-40. Po jednom do-
morodcu (Uno sguardo sulla Bosnia: oppure breve viaggio in quella
regione, compiuto tra il 1839 e il 1840. Dal punto di vista di un na-
tivo). Si tratta di un volumetto che raccoglie le impressioni del viag-
gio che l’autore intraprese nei territori della «Turchia croata […] a
rischio della propria vita», per verificare «alcune notizie sulle rivolte
dei musulmani e dei serbi contro i turchi». Matija, spinto a compiere
il viaggio dai suoi fratelli, i quali avevano abbracciato l’idea pan-illi-
rica di Gaj, descrisse le misere condizioni di vita dei cristiani e dei
musulmani slavofoni (o Turci, come venivano spesso identificati dai
croati), nei territori bosniaci.
Oltre a definire i musulmani bosniaci serbi o croati convertiti al-
l’Islam alcuni autori, riportando certe opinioni ampiamente diffuse
tra le popolazioni locali, identificavano i seguaci dell’islam, senza ul-
teriori distinzioni, come turchi ottomani. Alcuni di questi elementi
emergerebbero anche in una delle opere più discusse dell’epoca. Il
ministro serbo Ilija Garašanin e alcuni dei suoi più stretti collabora-
tori si erano dedicati, proprio in quegli stessi anni, alla stesura del
Načertanje («Il piano» o «il progetto»); un testo dai contenuti con-
troversi, considerato da diverse prospettive storiografiche l’espressione
più acuta del nazionalismo serbo anti-imperiale15. Il Načertanje, tra
le altre cose, affermava, nei fatti, il «naturale» protettorato serbo in
Bosnia per difendere gli interessi dei «serbi delle tre religioni». In
quegli stessi anni, d’altronde, certe posizioni erano diffuse anche tra
gli intellettuali croati. Ante Starčević, ad esempio, sosteneva con par-
ticolare enfasi la presunta origine croata dell’aristocrazia musulmana
di Bosnia16.
Verso la metà dell’Ottocento, il dibattito politico riconducibile alle
attività di alcuni gruppi nazionalisti e alle iniziative di certi funzio-
nari locali iniziò a diffondersi anche attraverso le pubblicazioni pe-
riodiche nelle lingue slavo-meridionali e in quelle delle amministra-
zioni imperiali. Le riforme progressiste ottomane (Tanzimat), an-

15
J.R. Lampe, op. cit., pp. 52-53; Edin Hajdarpašić, op. cit., pp. 95-96; N. Stančić,
Problem ‹Načertanja› Ilije Garašanina u našoj historiografiji, Historijiski Zbornik,
21-22 (1968-1969), pp. 179-196.
16
E. Redžić, op. cit., p. 72.

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158 Giulio M. Salzano

nunciate nel 1839 con l’editto del sultano Abdülmecid I, furono ac-
colte con un certo scetticismo dalla rivista Danica Ilirska17. Il 16 mag-
gio 1866, su iniziativa dei funzionari ottomani, fu stampato il primo
numero del foglio Bosna. Questo progetto editoriale, presumibilmente
il primo del genere che vide la luce a Sarajevo, rappresentava chiara-
mente gli interessi della Sublime Porta. Bosna era uno dei mezzi adot-
tati dagli amministratori del sultano per sensibilizzare la componente
bosniaco-musulmana sui valori condivisi della tradizione islamico-ot-
tomana e «al progresso e ai doveri civili» contemplati dalle recenti
riforme. La rivista serba Zastava non tardò a manifestare il proprio
disappunto nei confronti della pubblicistica ottomana, considerata una
minaccia agli interessi strategici dei serbi in Bosnia-Erzegovina: «così
al posto della lingua serba, essi scrivono lingua ‘bosniaca’ e popolo
‘bosniaco’, ora essi vogliono distruggere la nostra appartenenza na-
zionale, il nostro patrimonio sacro, il nostro orgoglioî»18.
La pubblicistica ebbe un ruolo di primo piano nel sensibilizzare
e nel rendere edotte le élite locali sugli sviluppi delle politiche na-
zionali, anche attraverso un uso sapiente dell’apparato linguistico-
simbolico19. L’offerta l’offerta editoriale si ampliò notevolmente con
la pubblicazione di Sarajevski Cvjetnik (1868-1872, Sarajevo) del
giovanissimo editore Mehmed Šaćir Kutćehajić, in lingua turca e
nella variante jiekavica della lingua bosniaca, utilizzando in parte i
caratteri dell’alfabeto arabo e in parte quelli dell’alfabeto cirillico; la
Neretva (1876, Mostar) in cirillico e arebica20, il Bosanski Vjestnik
(1866-1867, Sarajevo) in cirillico e il Bosanski Prijatelji (1850-1870,
Zagabria), di Ivan Franjo Jukić, Ljudevit Gaj e Antun Knežević, in
croato, con i caratteri latini21. In epoca austriaca, l’attività editoriale

17
La rivista Danica Ilirska fu fondata da Ljudevit Gaj nel 1835, cfr. M.R. Leto,
Danica Ilirska i pitanje hrvatskoga Knji_evnog jezika, in Slavica Tergestina, 2004,
pp. 163-188.
18
E. Hajdarpašić, op. cit., pp. 165-166.
19
A. Sokol, Lingua e identità nazionale in Bosnia-Erzegovina. Dal multicultu-
ralismo all’esclusivismo linguistico, in Scienze e Ricerche, 2015, pp. 92-98.
20
Si tratta di un particolare utilizzo dei caratteri arabi e persiani nella scrittura
della lingua bosniaca.
21
In epoca austro-ungarica la lista dei periodici si ampliò con la pubblicazione
delle riviste Босанска Вила (Bosanska Vila) stampata in cirillico nella variante jieka-
vica della lingua bosniaca (1885-1914); Bošnjak, in bosniaco stampato con i caratteri
latini (1891-1910); Nada, la rivista edita dal governo territoriale austriaco della Bo-
snia-Erzegovina, stampata con i caratteri latini e cirillici, a cura di Kosta Hormann
(1895-1903) e Sarajevski list, in caratteri latini e cirillici (1878-1918). Per una pano-

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Immaginare la Nazione 159

conobbe un ulteriore sviluppo diventando il principale veicolo sia


della propaganda imperiale che del diffuso atteggiamento anti-im-
periale22.
Nel 1875 ampi territori della provincia bosniaca furono teatro di
gravi tumulti popolari. Il pretesto all’origine dei disordini fu la rea-
zione dei contadini di confessione cristiana, principalmente serbi e
croati, alle pressioni fiscali dei funzionari ottomani e alle dure con-
dizioni imposte dai notabili musulmani. Fu subito evidente che l’in-
surrezione bosniaca si fondava su chiare «motivazioni socio-econo-
miche e potenziali sviluppi irredentistici»23. In seguito al trattato di
Berlino del luglio 1878, i territori bosniaci, come è noto, furono af-
fidati alla tutela dell’Impero asburgico. Il passaggio repentino dalla
plurisecolare amministrazione ottomana, i cui riferimenti normativi e
culturali si fondavano sui precetti della legge sciaraitica e sugli ele-
menti del patrimonio giuridico islamico (šerijat/shar a e fikh/fiqh), a
quella austriaca, il cui sistema giudiziario, di tradizione cristiano-cat-
tolica, alterò sensibilmente i rapporti di forza sia tra le componenti
nazionali della regione che tra queste e la nuova amministrazione24.
Ad esempio, nonostante alcuni articoli del trattato austro-turco del
1879 garantissero la libertà di culto e la tutela delle tradizioni reli-
giose islamiche, si registrarono diversi casi di soprusi da parte dei
funzionari asburgici, puntualmente denunciati dai rappresentanti delle
comunità locali25.

ramica sulle lingue e la scrittura in Bosnia-Erzegovina nel periodo ottomano e asbur-


gico si veda: G. Selvelli, Caratteri arabi per la lingua bosniaca. Esempi di scrittura
fra influssi ottomani e riappropriazioni locali, in Contatti di lingue-contatti di scrit-
ture, Filologie medievali e moderne, 2015, pp. 197-217; Id., Sistemi di scrittura, con-
fini e identità nazionali. Uno sguardo su alcune ideologie alfabetiche in ex-Jugosla-
via, in Eurasiatica. Quaderni di studi su Balcani, Anatolia, Iran, Caucaso e Asia Cen-
trale, 3, Cà Foscari, Venezia e i Balcani, pp. 101-111.
22
N. Ćukac, Dva neobična stara časopisa, in Vjesnik bibliotekara Hrvatske, 2013.
23
M. Dogo, Movimenti risorgimentali in Europa sud-orientale: appunti di lavoro
per una prospettiva comparata, Contributi italiani al IX Congresso Internazionale
dell’Association Internationale d’Études du Sud-Est Européen, Tirana 30 agosto-3
settembre 2004, a cura di A. Basciani, A. Tarantino, in Romània orientale, XVII,
2004, pp. 29-47.
24
In alcuni casi, i termini che indicano particolari istituti della tradizione reli-
giosa islamica sono riportati, rispettivamente, nella variante della lingua bosniaca e
araba.
25
P. Pizzo, Fonti ottomane sui musulmani della Bosnia-Erzegovina asburgica
(1878-1908), in S. Trinchese, F. Caccamo (cur.), Rotte adriatiche, tra Italia, Balcani

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160 Giulio M. Salzano

Le autorità asburgiche, sin dal loro insediamento nella regione, in-


tesero trasformare la provincia ottomana in un «moderno stato euro-
peo». Nel perseguire questo fine, la nuova amministrazione si sforzò
continuamente di limitare «la penetrazione – da tempo già in atto –
delle ideologie nazionaliste serbe e croate in Bosnia» e di concedere
maggiori autonomie alla comunità religiosa islamica, anche nel tenta-
tivo di recidere i legami tra Sarajevo e Istanbul26. Ciò provocò, inevi-
tabilmente, crescenti e diffusi malumori tra le fazioni che avevano in-
teressi diretti nella regione. «L’occupazione della Bosnia-Erzegovina
aveva infatti mortificato ogni ulteriore aspirazione serba in tale con-
testo»27. Nel 1882, in seguito all’insediamento del ministro delle Fi-
nanze Benjamin Kállay, delegato imperiale per la Bosnia-Erzegovina,
la comunità musulmana ottenne importanti concessioni riguardo l’au-
tonomia nella gestione degli affari religiosi28. Lo stesso anno fu isti-
tuito il consiglio degli ulema/‘ulama-’ (ulema medžlis) e contestual-
mente fu insediato il reis/raı-s Mustafa Hilmi efendija Hadžiomerović,
la cui nomina fu decisa a Vienna. Questo atto spostò di fatto il bari-
centro del potere politico-religioso da Istanbul nel cuore dell’Impero
asburgico. Con l’istituzionalizzazione della Comunità islamica furono
adottati nuovi regolamenti per la gestione dei beni appartenenti agli
enti religiosi (vakuf/waqf)29. Il sistema scolastico fu riformato e nel
1887 fu inaugurata la šerijatska sudačka škola, l’istituto per la forma-
zione degli esperti di diritto islamico, i kadija/qa-d.ı30.
L’attenzione di Kállay nei confronti della comunità musulmana
era chiaramente dettata da ragioni riconducibili a un sistema di al-

e Mediterraneo, collana Temi di Storia, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 82-94 e
89-90.
26
F. Karčić, Opšti građanski zakonik u Bosni i Hercegovini: kodifikacija kao
sredstvo transformacije pravnog sistema, in Zbornik Pravnog fakultet u Zagrebu,
2013, pp. 1027-1036, p.1028; X. Bougarel, Survivre aux empires. Islam, identité na-
tionale et allégeances politiques en Bosnie-Herzégovine, Karthala, Paris, 2015, p.34;
27
E. Ivetić, op. cit., p. 68.
28
P. Purivatra, H. Muhamed. ABC Muslimana, Muslimanska Biblioteka, Sarajevo,
1990, p. 24.
29
Letteralmente “capo degli ulema”.
30
F. Giomi, Tra Istanbul e Vienna. I musulmani di Bosnia nel periodo austro-
ungarico (1878-1918): ricerca di identità fra tradizione islamica e suggestioni mitte-
leuropee, in D. Melfa, A. Melcangi, F. Cresti (cur.), Spazio privato, spazio pubblico
e società civile in Medio Oriente e in Africa del nord, Atti del Convegno di Cata-
nia della Società per gli studi sul Medio Oriente, 23-25 febbraio 2006, Collana del
Dipartimento di Studi politici, Università di Catania, pp. 459-480, p. 468.

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Immaginare la Nazione 161

leanze strategiche. Già in un memorandum redatto nell’aprile 1877,


il governatore di origini ungheresi avrebbe sottolineato la necessità di
rafforzare l’elemento musulmano per evitare qualsiasi alleanza tra que-
sti e i movimenti indipendentisti serbi. Kállay perseguiva l’idea di una
«nazione» bosniaca separata, incentrata sull’elemento musulmano, la
cui identità andava rintracciata innanzitutto nella tradizione della no-
biltà bogomila di epoca medievale. L’intenzione di Kállay era inde-
bolire i gruppi nazionali antagonisti, serbi e croati, e limitare, quindi,
le loro pretese territoriali sulla Bosnia-Erzegovina31.
In seguito all’improvvisa e arbitraria annessione della Bosnia da
parte dell’Austria (1908) i movimenti irredentisti e le neo-nate for-
mazioni politiche serbe e croate inasprirono le loro attività di pro-
paganda anti-imperiale, trovando spesso il sostegno di alcuni espo-
nenti del notabilato musulmano. Quella che all’inizio assunse la
forma di una dissidenza relativamente pacifica si tramutò ben pre-
sto in concrete azioni dimostrative dai risvolti spesso violenti. Le
misure repressive della polizia austriaca e la politica estera asbur-
gica, particolarmente severa e aggressiva nei confronti della Serbia,
favorirono la proliferazione di numerose formazioni clandestine. Le
attività illegali dei gruppi eversivi si inasprirono a ridosso delle guerre
balcaniche, che tra il 1912 e il 1913 ridisegnarono ancora una volta
il profilo della geopolitica regionale e gli equilibri tra le fazioni in
lotta.
Per chiarire meglio il clima di tensione che in quegli anni aveva
raggiunto il dibattito pubblico sulla questione nazionale bosniaca, è
opportuno rivolgere brevemente l’attenzione alle strategie della pro-
paganda anti-imperiale riguardo la strumentalizzazione di alcuni fatti
di cronaca. Il primo caso riguarda gli attivisti serbo-bosniaci Vladi-
mir Gačinović, esponente del movimento Mlada Bosna (La Giovane
Bosnia), e Bogdan Žerajić, lo studente che il 15 giugno 1910 tentò
di assassinare, a Sarajevo, il governatore imperiale Marijan Varešanin.

31
D.T. Bataković, Prelude to Sarajevo: The Serbian Question in Bosnia-Erzego-
vina, 1878-1914, in Balcanica, 1996, p. 123. È interessante notare che Bataković, sto-
rico dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti (SANU), a un anno dalla fine
della guerra in Bosnia-Erzegovina e dal trattato di Pace di Dayton (1995), poche ri-
ghe oltre, a proposito dell’identità musulmana bosniaca, dichiara: «L’intera teoria di
Kállay era una voce isolata dall’essere storicamente fondata: la maggioranza della no-
biltà bosniaca cessò di esistere dopo la conquista ottomana, e i Musulmani erano
prevalentemente discendenti di Serbi o Croati islamizzati (ogni famiglia musulmana
conosce le proprie origini)».

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162 Giulio M. Salzano

Il suicidio di Žerajić, in seguito al fallito attentato, fu descritto da


Gačinović nei termini di un martirio per la libertà. Nelle parole di
Gačinović confluirono tutti quegli elementi che la letteratura «pa-
triottica» del secolo precedente aveva sviluppato attorno all’immagine
mitica dell’eroe (junak, heroj); la rappresentazione iconografica di Že-
rajić assunse da subito i caratteri di una «figura apostolica»32. Il se-
condo caso riguarda un espisodio che si verificò a Sarajevo, due anni
dopo, nel 1912. Durante un’azione della polizia, intervenuta per se-
dare una protesta degli studenti croati contro l’amministrazione im-
periale, fu ferito gravemente lo studente musulmano Salih Salko Šahi-
nagić. Negli ambienti del nazionalismo croato, Šahinagić fu elevato a
figura martire (mučenik) della causa nazionale. Il caso Šahinagić e
quello di Luka Jukić, lo studente serbo che qualche mese dopo tentò
di eliminare, fallendo, il governatore della Croazia Slavko Cuvaj, su-
scitarono l’ammirazione di due attivisti particolarmente vicini alla
Mlada Bosna: Gavrilo Princip e Ivo Andrić. Lo stesso Princip, e in
modo diverso Andrić, sarebbero diventati a loro volta i simboli di
una tensione sociale diffusa, sui quali si esercitarono, fino a tempi
molto recenti, gli ideologi e i censori delle varie espressioni del na-
zionalismo regionale33.
Le riforme imperiali avviate dall’Impero ottomano a partire da-
gli anni Trenta dell’Ottocento e le successive politiche dell’ammini-
strazione asburgica nei territori bosniaci favorirono l’insorgere di ten-
sioni diffuse e la formazione di movimenti indipendentisti. Nono-
stante i numerosi tentativi di opporsi alla riorganizzazione ammini-
strativa ottomana e quindi alla presenza asburgica, tra i musulmani
bosniaci, almeno fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, non
sembrò affermarsi alcun movimento di carattere nazionalista para-
gonibile, almeno sul piano politico, a ciò che stava avvenendo tra i

32
V. Gačinović, Smrt jednog heroja, Beograd, Pijemont, 1912; N. Malcom, Sto-
ria della Bosnia. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 1994 (2000).
33
E. Hajdarpašić, op. cit., p. 153; R.J. Donia, Iconography of an assassin: Ga-
vrilo Princip from Terrorist to Celebrity, in Prilozi, 43, Sarajevo 2014, pp. 57-78; V.
Pavlović, Le reazioni interne in Bosnia-Erzegovina di fronte all’annessione del 1908,
in A. Basciani, A. D’Alessandri (cur.) Balcani 1908. Alle origini di un secolo di con-
flitti, Beit, Trieste, 2009, pp. 101-113 B. Aleksov, Forgotten Yugoslavism and Anti-
Clericalism of Young Bosnians, in Prilozi, 43, Sarajevo, 2014, pp. 79-87; V.Katz, Ideo-
logical use of Memorial Plaques dedicated to Gavrilo Princip in the upbringing and
education of generations of youth in Bosnia and Herzegovina, in Prilozi, 43, Sarajevo,
2014, pp. 99-111.

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Immaginare la Nazione 163

serbi e i croati. L’élite musulmana, che in quegli anni era rappre-


sentata dai grandi proprietari terrieri, dai mercanti, dagli artigiani e
dagli esponenti della Comunità religiosa islamica, aveva mostrato una
certa unità d’intenti a causa della necessità, particolarmente sentita,
di salvaguardare i non pochi privilegi conquistati a fatica sia in epoca
ottomana che durante la breve esperienza asburgica. La minaccia
principale, se si escludono alcune scelte impopolari delle ammini-
strazioni imperiali, proveniva dai locali movimenti nazionalisti. Que-
sto timore, che si diffuse particolarmente tra i notabili musulmani,
avrebbe caratterizzato le attività di quelle prime formazioni politi-
che, espressione degli interessi della comunità musulmana, che si af-
fermarono in maniera più strutturata solo a partire dall’immediato
primo dopoguerra.

3. L’incognita jugoslava tra le due guerre. – Il 17 agosto 1917,


Šerif Arnautović, notabile di Mostar, direttore del locale vakuf e at-
tivista dell’Ujedinjena Muslimanska Organizacija34, e Safvet-beg Baša-
gić, scrittore e presidente del locale consiglio bosniaco-erzegovese,
consegnarono a Carlo I d’Austria un memorandum con le istanze
di quei musulmani che avrebbero optato, una volta finita la guerra,
per l’autonomia politico-territoriale della Bosnia-Erzegovina nel-
l’ambito della compagine imperiale asburgica35. Il documento fu una
diretta reazione sia alla ventilata ipotesi di una possibile cessione della
Bosnia alla sola Ungheria sia alle attività parlamentari, e alla succes-
siva «dichiarazione di maggio» del club jugoslavo (Jugoslovenski club)
di Anton Korošec e Marko Laginija, i quali avrebbero invece desi-
derato affidare l’amministrazione dei territori bosniaci a una coali-
zione governativa serbo-croata-slovena «sotto lo scettro della dina-
stia d’Asburgo-Lorena»36. «Questa unione – affermò Arnautović –
con nostra profonda convinzione non porterebbe alcun vantaggio,
ma, come temiamo, sarebbe per noi solamente dannosa». Il reis-ul-
ulema Džemaludin Čaušević sembrò, al contrario, quasi entusiasta

34
Organizzazione musulmana unita.
35
Cfr. A. Jahić, Vrijeme izazova. Bošnjaci u prvoj polovini XX stoljeća, Bošnjačka
nacionalna zajednica za Grad Zagreb i Zagrebačku županju, Zagreb, Bošnjački In-
stitut - Fondacija Adila Zulfikarpašića, Sarajevo, 2014, p. 85 ss.
36
M. Trogrlić, La vita, la morte e la politica in Dalmazia durante la Grande
Guerra, in S. Trinchese, F. Caccamo (cur.), Rotte adriatiche. Tra Italia, Balcani e
Mediterraneo, Franco Angeli, Milano, 2011, p. 135; E. Ivetić, op. cit., p. 29.

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164 Giulio M. Salzano

della «soluzione jugoslava» così come gli era stata prospettata dallo
stesso Korošec durante un’incontro avvenuto a Sarajevo poco tempo
prima37.
Intanto, il 20 luglio 1917 si erano incontrati a Corfù i rappresen-
tanti del Comitato jugoslavo (Jugoslavenski odbor), presediuto dal
croato Ante Trumbić e da alcuni esponenti del governo serbo in esi-
lio. Nonostante le opinioni divergenti riguardo l’assetto che avrebbe
dovuto assumere il futuro stato jugoslavo, a Corfù furono comun-
que individuati i presupposti politici attorno ai quali i serbi, i croati
e gli sloveni avrebbero sancito la loro unione e affidato il loro de-
stino alla dinastia Karađorđević. Il successo di Corfù, nonostante «il
difficile avvicinamento tra il Comitato jugoslavo e il governo serbo
in esilio», fu tale che a maggio dell’anno seguente, secondo la testi-
monianza del generale croato dell’esercito austro-ungarico Stjepan
Sarkotić, gran parte della popolazione bosniaca era stata «infettata»
dall’idea jugoslava38.
All’interno della nuova compagine statale del Regno dei Serbi,
Croati e Sloveni (Kraljevina SHS), la cui proclamazione avvenne for-
malmente il primo dicembre 1918, gli esponenti della comunità bo-
sniaco-musulmana tentarono di sviluppare un percorso politico au-
tonomo attraverso l’Organizzazione Musulmana Jugoslava (JMO) e
altre formazioni minori, tra cui il Partito popolare musulmano, il Par-
tito radicale musulmano e il Partito contadino musulmano39. In se-
guito alla riforma agraria del 1919, che ridimensionò innanzitutto la
posizione sociale ed economica delle famiglie musulmane più influenti
della Bosnia-Erzegovina, il JMO, nel tentativo di salvaguardare gli
interessi dei notabili musulmani e limitare l’ingerenza della classe di-

37
H. Kamberović, Hod po Trnju. Iz bosansko hercegovačke historije 20. stoljeća,
Posebna Izdanja, Institut za istoriju Sarajevu, Sarajevo, 2011, p.13; X. Bougarel, Fa-
rewell to the Ottoman Legacy? Islamic Reformism and Revivalism in Inter-War Bo-
snia-Herzegovina, in N. Clayer, E. Germain, Islam in Inter-War Europe, Hurst, pp.
313-343, 2008.
38
E. Ivetić, op. cit., pp. 28-29; J.R. Lampe, op. cit., p. 108. Il governatorato di
Sarkotić in Bosnia fu contrassegnato da una feroce repressione dell’elemento serbo.
Si trattò, secondo Lampe, di una «pulizia etnica» nei confronti dei serbi di Bosnia,
che contribuì ad aggravare le tensioni tra le comunità locali.
39
S. Ćerić, Muslimani Srpsko-Hrvatskog jezika, Svjetlost, Sarajevo, 1968, pp. 187-
188. L’Organizzazione Musulmana Jugoslava (Jugoslovenska Muslimanksa Organi-
zacija o JMO) fu fondata a Sarajevo nel febbraio del 1919. Il primo presidente eletto
fu Ibrahim Maglajić. Mehmed Spaho (1883-1939) subentrò alla guida dell’organiz-
zazione nel 1921.

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Immaginare la Nazione 165

rigente serba nei propri affari, assunse i caratteri di un vero e pro-


prio partito politico ispirato ai principi della tradizione religiosa isla-
mica40. Nelle elezioni per la Costituente, convocate per il 28 novem-
bre 1920, i voti dei musulmani bosniaci confluirono in larga parte
nel JMO e il partito ottenne il maggior numero di consensi in Bo-
snia-Erzegovina. Le elezioni del 1920 segnarono il tracollo delle al-
tre formazioni politiche musulmane che raccolsero, al contrario, solo
qualche manciata di voti. Un successo inatteso fu invece registrato
dal Partito comunista jugoslavo (Komunistička Partija Jugoslavija o
KPJ)41, che ottenne numerosi seggi in Serbia, Macedonia e Montene-
gro. I risultati del KPJ, però, destarono preoccupazione in alcuni am-
bienti politici ostili. Subito dopo le elezioni, una coalizione governa-
tiva formata dal Partito radicale e dal Partito democratico, entrambi
espressione della scena politica serba, riuscì a far approvare, nono-
stante l’opposizione dei rispettivi sostenitori, un bando (obznana) con
il quale fu interdetta ogni attività politica pubblica organizzata o co-
munque riconducibile al Partito comunista jugoslavo42. Due settimane
prima delle votazioni per la ratifica della Costituzione, il Partito co-
munista rinunciò, per protesta, a presenziare i lavori dell’Assemblea
costituente. L’astensione dei comunisti e del Partito contadino croato
contribuì a rafforzare la posizione parlamentare dell’elemento serbo.
Il disegno costituzionale ottenne quindi i consensi necessari e il 28
giugno 1921 la Costituzione fu promulgata. Il sostegno del JMO al
Partito radicale serbo per l’approvazione della Costituzione fu ri-
compensato con la promessa di garantire l’integrità «etnica» dei ter-
ritori bosniaci compresi entro i confini di 6 dei 33 distretti (oblast)
in cui fu organizzata l’amministrazione territoriale del regno SHS43.
Le prime tensioni tra i vertici del JMO si manifestarono a causa
dei disaccordi che emersero quando al Parlamento si tornò a discu-
tere un disegno di legge su una possibile riorganizzazione ammini-
strativa e territoriale della Bosnia-Erzegovina. L’ala minoritaria del
JMO si riunì nell’Organizzazione nazionale musulmana jugoslava (Ju-

40
E. Mutapčić, Pravno-historijski kontekst agrarne reforme u BiH posle Prvog
Svjetskog Rata, in Tranzicija/Transition, »asopis za ekonomiju i politiku tranzicije/Jour-
nal of economic and politics of Transition, Anno XIII, Tuzla-Travnik-Beograd-Buku-
rest, 2011, pp. 143-156.
41
Il Partito comunista jugoslavo fu fondato a Belgrado nel 1919.
42
A. Purivatra, Nacionalni i politički razvitak Muslimana, Svjetlost, Sarajevo,
1969, pp. 46-47; J.R. Lampe, op. cit., pp. 124-125.
43
A. Purivatra, M. Hadžijahić, op. cit., p. 31.

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166 Giulio M. Salzano

goslovenska muslimanska narodna organizacija o JMNO), guidata dal


Mufti Ibrahim Maglajilić. Tuttavia, alle elezioni del 18 marzo 1923,
il JMO di Mehmed Spaho ottenne un ampio consenso conferman-
dosi come l’unica forza politica dei musulmani bosniaci in grado di
vantare una propria rappresentanza parlamentare44. Simili risultati fu-
rono confermati nelle elezioni del 1925 e del 192845. Eccetto una breve
parentesi a supporto del governo Davidović, tra luglio e novembre
del 1924, il JMO restò all’opposizione fino alle elezioni del 1927,
quando, avendo ben chiare le limitate risorse per difendere i propri
interessi, accettò di entrare a far parte della coalizione di Velimir
Vukičević. In cambio dell’alleanza politica Mehmed Spaho ottenne il
Ministero delle Finanze46.
I primi a esprimere apertamente i malumori e il dissenso nei con-
fronti delle politiche governative furono gli esponenti del Partito co-
munista jugoslavo. Nel corso della Terza conferenza territoriale del KPJ
(Belgrado, gennaio 1924) i comunisti criticarono il serbo-centrismo del
Regno SHS. La risoluzione che seguì la conclusione dei lavori affermò
il «principio di autodeteminazione e di secessione dei popoli (nazioni)»
e la necessità di convogliare le aspirazioni dei popoli oppressi nella «lotta
della classe operaia contro la dominazione del capitalismo»47. Nel corso
delle successive riunioni del partito, in occasione del terzo congresso di
Vienna (17-22 maggio 1926), del quarto congresso di Dresda (ottobre
1928) e della quarta conferenza territoriale di Ljubljana (24-25 dicem-
bre 1934), si palesò sempre più la necessità, in linea con le indicazioni
del Komintern, di assumere un chiaro impegno riguardo la «questione
nazionale» dei popoli jugoslavi «oppressi» dal regime assolutistico dei
Karađorđević e dai «partiti borghesi» serbi e croati. L’iniziale approc-
cio politico del dirigente comunista Sima Marković, che considerava i
serbi, i croati e gli sloveni come «tre rami della stessa nazione» jugo-
slava, fu abbandonato già a partire dalla metà degli anni Venti a favore
di una visione generale che contemplasse e garantisse separatamente a
ognuno dei popoli jugoslavi il diritto all’autodeterminazione48.

44
Ivi, pp. 31-32.
45
S. Ćerić, op. cit., p.197.
46
H. Kamberović, Mehmed Spaho (1883-1939). Politička biografija, Vijeće Kon-
gresa bošnjačkih intelektualca, Sarajevo, 2009, pp.69-70; R. Petrović, Il fallito mo-
dello federale della ex Jugoslavia, Rubettino, Catanzaro, 2005, p. 40; A. Purivatra,
M. Hadžijahić, op. cit., p. 32.
47
A. Purivatra, op. cit., p.48.
48
«Oslobođenje», 10 novembre 1968, anno XXV., n. 7343, A.Purivatra, Put do

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Immaginare la Nazione 167

La riforma amministrativa e territoriale dello Stato, attuata qual-


che mese dopo l’instaurazione della dittatura del 6 gennaio 1929 (še-
stojanuarska diktatura), tolse ogni dubbio a coloro che avevano spe-
rato in un miglioramento della questione musulmana. Il JMO e al-
tre formazioni politiche furono estromesse dalle attività di governo.
Il 31 gennaio 1930, malgrado l’opposizione degli esponenti della co-
munità islamica, tra i quali Mehmed Spaho e il reis Čaušević, fu ema-
nata una nuova legge che di fatto sospendeva gran parte di quelle au-
tonomie in materia religiosa che la componente musulmana aveva
conquistato in epoca asburgica. A causa delle sue posizioni critiche,
Čaušević fu invitato a dimettersi49. La sede della Comunità religiosa
islamica (Islamska Vjerska Zajednica o IVZ), che proprio in quel-
l’occasione estese la sua giurisdizione su tutti i musulmani del Regno
di Jugoslavia (come era stato ridenominato il regno SHS dal mese di
ottobre 1929), fu trasferita temporaneamente da Sarajevo a Belgrado
e con essa la sede del neo-eletto reis ul ulema Ibrahim efendija Ma-
glajilić. La suddivisione amministrativa della Jugoslavia in 33 oblasti,
risalente al 1922, che aveva garantito una sorta di integrità dei con-
fini storici della Bosnia-Erzegovina, fu riorganizzata in 9 banovine
(province), che di fatto alterarono gli «equilibri» demografici della re-
gione. I musulmani, da quel momento, rimasero in minoranza in
ognuna delle quattro banovine in cui furono ridistribuiti i territori
della Bosnia-Erzegovina50.
Il ritorno ad un governo di coalizione serbo-croato in seguito al-
l’attentato di Marsiglia del 1934, nel quale perse la vita il re Alek-
sandar I e decretò di fatto la fine della dittatura, coincise con il riaf-
fermarsi dei desideri annessionistici dei partiti nazionalisti. Il punto
più alto delle trattative politiche tra i serbi e i croati fu raggiunto il
26 agosto 1939 con la ratifica dello sporazum Cvetoković-Maček, l’ac-
cordo per il rafforzamento dell’intesa parlamentare, che garantiva un
maggior peso politico al Sabor croato (la Dieta locale) e ampliava le
rispettive giurisdizioni territoriali sui territori bosniaci. L’accordo rap-

ravnopravnosti. Savez komunista Jugoslavije i nacionalno pitanje u Bosni i Herce-


govini do 1946. Godine; A. Purivatra, op. cit., pp. 44 e segg.
49
A. Purivatra, M. Hadžijahić, op. cit., p. 33; D. Bečirović, op.cit., p.57.
50
Con la riorganizzazione amministrativo-territoriale del 1922, i territori bosniaci
furono compresi nei sei oblasti di Bihać, Mostar, Sarajevo, Travnik, Tuzla e Vrbanja,
i cui confini ricalcavano, a loro volta, i sei okrug (circoscrizioni) di epoca asburgica.
Nel 1929, i territori bosniaci furono inclusi in quattro delle nove banovine in cui
furono suddivisi i territori jugoslavi: Vrbaska, Primorska, Drinska, Zetska.

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168 Giulio M. Salzano

presentò, seppur temporaneamente, il coronamento delle antiche aspi-


razioni territoriali di una ben nota e diffusa tradizione politica. Le
reazioni alla spartizione dei territori bosniaci giunsero da più parti.
Il 6 novembre 1939, Džafer beg Kulenović, l’erede politico di Spaho
alla guida del JMO, fece pressioni al governo, principalmente attra-
verso la stampa, per ottenere la creazione di una quarta banovina bo-
sniaca che tutelasse l’integrità territoriale della Bosnia secondo i con-
fini amministrativi di epoca ottomana51. A novembre dello stesso anno
fu resa pubblica una risoluzione della comunità islamica con la quale
si dichiarava esplicitamente la contrarietà dei musulmani bosniaci allo
sporazum: «l’autonomia della Bosnia-Erzegovina entro i confini sto-
rici, rappresenta le richieste generali di tutti i musulmani della Bo-
snia-Erzegovina, senza alcuna distinzione»52. Ad ogni modo, le ti-
mide reazioni allo sporazum da parte dell’inteligencija musulmana,
minata al suo interno dalle correnti pro-serbe e pro-croate, non sor-
tirono alcun effetto di rilievo sulle decisioni politiche del governo. Al
coro delle proteste si unirono i giovani studenti comunisti, i quali
reagirono inviando tre lettere aperte alle autorità governative. «Deve
essere chiaro – si legge in una di queste – che qualsiasi divisione della
Bosnia-Erzegovina comporta un’ingiustizia nei confronti dei musul-
mani che da sempre rappresentano una collettività […] Solo in una
Bosnia-Erzegovina autonoma né l’Una né la Drina ci separeranno dai
fratelli di entrambe le sponde»53.
Il primo maggio 1940, il Partito comunista jugoslavo condannò
apertamente l’accordo Cvetković-Maček come espressione politica
della «borghesia» serba e croata. In occasione della Quinta confe-
renza territoriale del KPJ per la Bosnia-Erzegovina (luglio 1940) fu-
rono rivolte dure critiche ai dirigenti del JMO, accusati di aver col-
laborato con il regime monarchico per difendere i propri interessi.
L’attenzione si spostò quindi sulla questione musulmana e i musul-
mani bosniaci, non più considerati esclusivamente sulla base dell’ap-

51
D. Begić, Pokret za autonomiju Bosne i Hercegovine u uslovima Sporazuma
Cvetković-Maček, in Prilozi, Institut za Istoriju Radničkog Pokreta Sarajevo, vol. 2.,
1966, pp.177-191, p. 181; D. Bečirović, op. cit., p. 71.
52
M. Imamović, Historija Bošnjaka, Preporod, Sarajevo, 1997, pp. 519-521; Š.
Filandra, Bošnjačka politika u XX stoljeću, Šejtarija, Sarajevo, 1998, pp. 107-108.
53
«Oslobođenje», 11 novembre 1968, anno XXV, n. 7344, A. Purivatra, Put do
ravnopravnosti. Savez komunista Jugoslavije i nacionalno pitanje u Bosni i Herce-
govini do 1946. Godine; A. Purivatra, op. cit., p. 53.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Immaginare la Nazione 169

partenenza religiosa, ma come possibile espressione «etnica» (etnička


grupa)54.
A partire dall’aprile del 1941, con l’invasione e l’occupazione della
Jugoslavia e la nascita dello Stato Indipendente di Croazia (Nezavi-
sna Država Hrvatska o NDH), l’equilibrio tra i gruppi nazionali
della regione, già provato da una serie di tensioni mai risolte, subì
un inevitabile tracollo. Da quel momento, la questione nazionale mu-
sulmana entrò stabilmente nel programma politico del Partito comu-
nista jugoslavo.

4. Rat svih protiv sviju (La guerra di tutti contro tutti). – Nel-
l’ambito della narrativa storiografica socialista, la guerra di Libera-
zione ha rappresentato per lungo tempo il mito di fondazione della
«seconda» Jugoslavia, e, sul piano politico, la legittimazione del Par-
tito comunista alla guida della Repubblica Popolare Federativa di Ju-
goslavia (Federativna Narodna Republika Jugoslavija o FNRJ)55. È
anche corretto affermare che l’impalcatura ideologica, politica e am-
ministrativa della federazione jugoslava fu edificata in Bosnia-Erze-
govina durante le fasi più concitate della guerra56. La Resistenza ju-
goslava, coordinata dal Partito comunista, confluì presto nel movi-
mento popolare di Liberazione (Narodni Oslobodilački Pokret o
NOP), la cui ala militare era costituita dalle formazioni partigiane.
Tuttavia, la storiografia tradizionale di epoca socialista enfatizzò ol-
tremodo l’epopea di «Tito e i suoi compagni»57, oscurando di fatto
l’apporto prezioso, seppur indiretto, delle formazioni resistenziali non
inquadrate nel Movimento di Liberazione. Fu il caso, ad esempio,
delle bande musulmane autonome che operarono in Bosnia orientale,
i cui successi, nonostante i metodi di guerriglia a dir poco discuti-
bili, permisero ai partigiani di riconquistare ampie zone del Paese. La

54
Ivi, p. 55. L’aspetto semantico delle categorie utilizzate per definire i musul-
mani, nel secondo dopoguerra jugoslavo, fu oggetto, come vedremo, di accesi di-
battiti sia in ambito accademico che in quello politico.
55
Dal 1963 la FNRJ cambiò denominazione in Socialistička Federativna Repu-
blika Jugoslavia o SFRJ (Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia).
56
Con «prima Jugoslavia» ci si riferisce, solitamente al periodo monarchico tra
le due guerre (1918-1941). Il Consiglio popolare antifascista di Liberazione (AVNOJ)
si costituì in qualità di governo provvisorio e operò essenzialmente in Bosnia-Erze-
govina, dal novembre 1942 fino alla fine della guerra.
57
Il riferimento al recente lavoro di Jože Pirivijec, Tito e i suoi compagni, Ei-
naudi, Torino, 2015, in particolare al capitolo settimo, Djilas, Kardelj, Ranković.

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170 Giulio M. Salzano

partecipazione in massa dei musulmani alla lotta popolare di Libera-


zione (NOB) fu incentivata dal costante impegno del KPJ nel pro-
muovere e sostenere il processo di affermazione nazionale della com-
ponente bosniaca di fede e tradizione islamica. Dietro la retorica
marxista-leninista del Partito comunista jugoslavo, che aveva abil-
mente inquadrato la questione nazionale musulmana nelle azioni po-
litiche di contrasto alla «borghesia serba e croata», si celavano, in
realtà, interessi di altra natura riconducibili principalmente alle stra-
tegie delle attività resistenziali. D’altronde, fu subito chiaro a tutte le
parti in conflitto che l’intesa con la componente musulmana avrebbe
potuto determinare, in un modo o nell’altro, le sorti della guerra; di
questo ne erano particolarmente consapevoli, oltre ai comunisti, i ver-
tici dello Stato Indipendente di Croazia che con quelli si contesero,
per qualche anno, la preziosa alleanza.
I complessi rapporti tra il Partito comunista jugoslavo e la co-
munità musulmana della Bosnia-Erzegovina sono stati adeguatamente
indagati da Marko Attila Hoare in uno dei suoi ultimi lavori dal ti-
tolo The Bosnian Muslims in The Second World War58. L’analisi dello
storico inglese, che ha l’indiscusso merito di aver condotto la sua ri-
cerca su un’ampia documentazione archivistica, tende a ridimensio-
nare notevolmente alcuni aspetti del mito storiografico socialista della
Lotta popolare di Liberazione. Contro la diffusa e abusata rappre-
sentazione della «fratellanza e unità» (bratstvo i jedinstvo) dei po-
poli jugoslavi, la ricostruzione di Hoare evidenzia un quadro com-
plessivo chiaramente meno omogeneo rispetto alle narrazioni cano-
niche e ingessate della storiografia di regime. Hoare ha rivolto la sua
attenzione ai complessi rapporti intercorsi tra le bande autonome
musulmane, i comunisti, il Movimento popolare di Liberazione
(NOP), gli ustaša, i četnici e le forze d’occupazione dell’Asse. La
complessità evidenziata da Hoare risiede nel dinamico e mutevole
sistema di alleanze tra le fazioni in lotta, caratterizzate da infiltra-
zioni clandestine nelle formazioni nemiche e da continue e recipro-
che defezioni di massa. Un quadro generale dai contorni decisamente
meno rigidi rispetto anche ai tradizionali approcci storiografici di
tipo manualistico.
Durante la guerra, i sentimenti di lealtà delle popolazioni coin-

58
M.A. Hoare, Bosnian Muslims in the Second World War: A History, C. Hurst
& Co., London, 2013.

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Immaginare la Nazione 171

volte negli scontri, indipendentemente dall’affiliazione alle forze go-


vernative o alle formazioni resistenziali, fluttuavano secondo l’evolu-
zione delle operazioni militari e alle ragioni ideologiche si sovrappo-
nevano le impellenti necessità riconducibili alla sicurezza e alla sus-
sistenza delle comunità locali59. I musulmani, in particolare, almeno
sul piano politico, non si vincolarono né si schierarono in modo de-
finitivo con nessuna delle formazioni in lotta. Più complessa fu la
posizione degli esponenti della Comunità religiosa islamica (IVZ). In
seguito alla morte del reis Fehim Spaho, avvenuta nel febbraio del
1942, all’interno della Comunità religiosa islamica si affermarono due
indirizzi contrapposti: da una parte la tendenza laicizzante del «gruppo
di Zagabria», dall’altra l’associazione degli ulema bosniaci El Hidaje,
che aveva la sua sede a Sarajevo. I primi, legati da un vincolo di fe-
deltà al governo croato, erano rappresentati dal bosniaco-musulmano
Džafer-beg Kulenović, ex leader del JMO, succeduto a Mehmed Spaho
e ora vice presidente dell’NDH. Gli altri, riconducibili al gruppo di
Mehmed efendija Handžić, ulema e figura di spicco nella tradizione
bosniaca degli studi islamici, si distinsero per un approccio decisa-
mente più conservatore e meno collaborativo nei confronti degli oc-
cupanti60.
Uno dei meriti maggiori di Hoare è senza dubbio quello di averci
disabituato a considerare le fazioni in lotta nel teatro di guerra bo-
sniaco entro rigidi confini ideologici, riconducibili a precisi gruppi
nazionali o a determinate formazioni politiche. «La lotta per la Bo-
snia – scrive Hoare – fu una lotta in cui le identità, le lealtà e i ruoli
erano spesso sfocati: gli attivisti serbi si travestivano da musulmani;
i musulmani adottavano nomi serbi; gli ustaša diventavano comuni-
sti e i comunisti ustaša; i partigiani si trasformavano in cetnici; i cet-
nici lavoravano per i partigiani, gli uomini si travestivano da donne,
le donne combattevano come uomini; e molti attivisti lavoravano con-
temporaneamente per fazioni opposte»61. Contrariamente a ciò che si
è portati a immaginare, non era infrequente che persino in alcuni im-
portanti nuclei famigliari coabitassero elementi di diverso orienta-
mento nazionale e appartenenti a formazioni politiche tra loro anta-
goniste, come dimostra il caso dei fratelli musulmani Mehmed e Fehim

59
Ivi, p. 7; cfr. E. Greble, Sarajevo la cosmopolita. Musulmani, ebrei e cristiani
nell’Europa di Hitler, Feltrinelli, Milano, 2012.
60
D. Bečirović, op. cit., pp. 85-89.
61
M.A. Hoare, op. cit., p. 64.

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172 Giulio M. Salzano

Spaho, il primo guida del JMO, l’altro reis ul ulema62. Del resto, fa
notare anche lo storico francese Xavier Bougarel «in certi momenti,
cetnici e partigiani combattevano insieme, e talvolta risultava difficile
distinguere gli uni dagli altri»63. Se a tutto ciò si aggiunge il diffuso
fenomeno delle conversioni religiose di massa, molto frequente du-
rante i primi anni di guerra, tanto da essere regolato da una serie di
dispositivi di legge, il concetto di «appartenenza» e quello di identità
assumono ulteriori sfumature. Tra aprile e ottobre del 1941 non meno
di duemila ebrei, il venti per cento della comunità sefardita di Sa-
rajevo, si convertirono in parte al cattolicesimo e in parte all’islam,
con la speranza (vana) di evitare le persecuzioni degli agenti ustaša64.
Negli stessi mesi, stando ai rapporti delle autorità croate, si registra-
rono frequenti casi di conversione anche tra i serbi di confessione or-
todossa, che nell’inutile tentativo di sfuggire ai loro aguzzini decide-
vano di dichiararsi, secondo le necessità del momento, musulmani o
cattolici. La pratica della conversione, nella provincia bosniaca, ri-
guardava spesso interi villaggi o gruppi famigliari molto estesi. A Mali
Gradac, un villaggio con qualche centinaio di anime, 19 persone di
fede “greco-orientale” chiesero e ottennero il permesso di convertirsi
alla fede cattolica65.
Sia la base ideologica della Resistenza che le strategie politiche
delle forze d’occupazione contenevano molti elementi attinti dall’ar-
ticolato patrimonio della cultura tradizionale nazionalista, che i di-
versi gruppi della regione avevano portato in dote all’appuntamento
con la guerra. Le teorie sulla nazione, che si affermarono nel corso
dell’Ottocento, durante l’occupazione ottomana e asburgica, trovava-
rono piena applicazione nelle pratiche ideologiche del regime dello
Stato Indipendente di Croazia.
L’occupazione dei territori bosniaci da parte dell’NDH aveva com-
portato l’assimilazione della popolazione musulmana ad un presunto
patrimonio biologico-culturale croato. L’elemento distintivo dell’ap-
partenenza nazionale croata, infatti, all’epoca dell’NDH, non era ri-

62
Fehim Spaho, fratello di Mehmed, leader del JMO, ricoprì la carica di reis ul
ulema dal 1938 al 1942. Il reis Spaho si dichiarava musulmano di nazionalità croata.
63
X. Bougarel, op. cit., p. 99.
64
E. Greeble, op. cit., p. 107.
65
HR-DAZG, Nezavisna Državna Hrvatska, (Mup-NDH, 21378/41) K. 45, 46,
53, Ministarstvo Pravosudja i Bogoštovlja, n. 1626-B-1941. Mali Gradac selo, «vje-
rozakonski prijelaz stanovnika grčko istočne vjere na rimo-katoličku». Zagreb, 9.
rujna, 1941.

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Immaginare la Nazione 173

conducibile esclusivamente alla fede, tutt’altro: «il popolo croato si


considerava omogeneo per razza»66. Ciò stava a significare che i mu-
sulmani di Bosnia-Erzegovina (dall’aprile del 1941 territorio del-
l’NDH), sia sul piano amministrativo che da una prospettiva di «ap-
partenenza etnica», furono «naturalizzati», nel nuovo ordinamento
statale, come cittadini di nazionalità croata di fede islamica. Basti pen-
sare che il poglavnik (duce) Ante Pavelić, durante un colloquio con
il mufti Ismet efendija Muftić, funzionario del Consiglio di Stato, av-
venuto pochi giorni dopo l’occupazione dei territori bosniaci, si ri-
volse al popolo musulmano definendolo: «sangue del nostro sangue
e fiore della nostra nazione croata»67.
Anche sul fronte opposto, quello del Partito comunista, la que-
stione musulmana occupò ampi spazi del dibattito politico riguardo
il futuro assetto costituzionale della Jugoslavia. Il 25 e il 26 novem-
bre 1943, a Mrkonjić-Grad, i delegati del Consiglio popolare antifa-
scista di Liberazione della Bosnia-Erzegovina (ZAVNOBiH)68, tra i
quali erano presenti numerosi esponenti del Partito comunista, si pro-
nunciarono per una Bosnia che non fosse «né serba, né musulmana,
né croata, ma serba, musulmana e croata – ovvero – una Bosnia-Er-
zegovina libera e affratellata in cui sarà assicurata la piena uguaglianza
e unità tra i Serbi, i Musulmani e i Croati»69. Questa solenne di-
chiarazione, che fondava i suoi contenuti sull’inviolabile principio
della fratellanza e dell’unità dei popoli jugoslavi (bratstvo i jedinstvo),

66
N. Kisić Kolanović, Islamska varijanta u morfologiji kulture NDH 1941-1945,
in Časopis za suvremenu povijest, vol. 39, n. 1, 2007, p. 64.
67
Hrvatski Narod. Zagreb, anno 3, nr.71, 23 aprile 1941, p.5; Xavier Bougarel,
op. cit., p.105.
68
Zemaljski Antifašističko Vijeće Narodnog Oslobođenja Bosne i Hercegovine.
69
Службени лист Федералне Босне и Херцеговине, anno I, n.1, 20 giugno 1945,
Резолуција Земалјиског Антифашистичког Бијећа Нaродног Ослобођења Босне и
Херцеговине, Сарајево, 20 novembre 1943, p.2. Nel testo originale “Srbi, Hrvati i
Muslimani”. Secondo le regole ortografiche del serbo-croato-bosniaco, i sostantivi di
nazionalità si scrivono con l’iniziale maiuscola. Nel nostro caso, «Musliman» si ri-
ferisce alla (presunta) nazione musulmana, mentre «musliman» è il termine con il
quale ci si riferisce al seguace della religione islamica; una differenza non di poco
conto se consideriamo le implicazioni che comportava, nella forma scritta, l’uso del-
l’uno o dell’altro termine. In una sorta di preambolo alla Costituzione della SRBiH
del 1963, il termine Muslimani fu usato, per la prima volta in un documento del ge-
nere, nella sua accezione di «componente etnica» (Cfr. “Ustav Sočijalističke Repu-
blike Bosne i Hercegovine”, Službeni list NRBiH, XIX, n.14, 11 aprile 1963, vol. I,
p. 153).

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174 Giulio M. Salzano

fu disattesa pochi giorni dopo, come fa notare Hoare, in uno degli


appuntamenti più importanti nella storia della lotta partigiana.
Il 29 e 30 novembre si riunì a Jaice, a un anno di distanza dalla
prima sessione di Bihać, il Consiglio popolare antifascista di Libera-
zione della Jugoslavia (AVNOJ)70. In quell’occasione, l’AVNOJ as-
sunse le funzioni di governo provvisorio, e sancì uno dei principi
fondanti della futura federazione: «la Jugoslavia deve essere costruita
su basi federative, le quali devono garantire la piena uguaglianza di
Serbi, Croati, Sloveni, Macedoni e Montenegrini e, rispettivamente,
delle popolazioni di Serbia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Montene-
gro e Bosnia-Erzegovina»71. Con questa formula, dai contenuti a dir
poco ambigui, i musulmani bosniaci, pur rappresentati in quanto cit-
tadini jugoslavi, furono esclusi dalla ristretta cerchia delle nazioni co-
stituenti72.
In base alle premesse dell’AVNOJ, recepite dall’Assemblea costi-
tuente e confluite nella Carta costituzionale promulgata il 31 gennaio
1946, la «seconda» Jugoslavia assunse la struttura di una federazione
composta da 6 stati, ma rappresentata da 5 nazioni73. Alla fine della
guerra, dunque, i musulmani bosniaci furono relegati nel novero delle
comunità religiose, e non tra i gruppi nazionali costituenti del paese,
come era stato più volte prospettato loro durante la guerra. La Bo-
snia socialista, dunque, nacque come «uno stato-nazione senza una
nazione»74. Nella costituzione della Repubblica Popolare di Bosnia-
Erzegovina (NRBiH), in vigore dal 31 dicembre 1946, fu confermato
a chiare lettere il principio inviolabile della sovranità popolare, ma fu
evitato accuratamente di indicare quali fossero i popoli, o meglio, le
nazioni, che avrebbero dovuto rappresentare il Paese75.

70
Antifašitičko Vijeće Narodnog Oslobođenja Jugoslavije.
71
Дekларација другог заседанја антифашистичког већа народног ослобођенја
Југославије (29.XI.1943), in Службени лист демократске федеративне Југославије, 1
febbraio 1945, Београд, n. 1, anno I, p.4; Marko Attila Hoare, op. cit., pp.183-184.
La nascita della «seconda» Jugoslavia, per il Partito comunista, avvenne proprio in
occasione della seconda sessione dell’AVNOJ, il 28 novembre 1943 a Jaice, in Bo-
snia-Erzegovina.
72
X. Bougarel, op. cit., p.120.
73
A. Omerika, The Role of Islam in Academic Discourses on the National Iden-
tity of Muslims in Bosnia Herzegovina, 1950-1980, in Islam and Muslim societies: A
Social Science Jurnal, vol. 2, n. 2, New Delhi, 2006, pp. 351-376, p 352.
74
M.A. Hoare, op. cit., p. 287; Xavier Bougarel, op. cit., p. 127.
75
Устав Народне Републике Босне и Херцеговине, in Службени лист Народне
Републике Босне и Херцеговине, 8 gennaio 1947, n.1, anno III, pp. 2-18.

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Immaginare la Nazione 175

5. Etnogenesi di una nazione. – L’occupazione della Jugoslavia da


parte delle truppe dell’Asse e le drammatiche vicende della guerra
avevano contribuito a esasperare le tensioni pre-esistenti tra i gruppi
nazionali della regione. A partire dall’immediato dopoguerra, l’azione
incisiva del Partito comunista nell’ambito delle relazioni tra i popoli
e le repubbliche della Federazione, nonostante l’adozione di metodi
discutibili, sembrò riportare una certa stabilità tra le componenti na-
zionali del Paese. Ma solo in apparenza, come avrebbero mostrato
gli eventi nel corso degli anni successivi. La ricerca di una soluzione
alla questione nazionale musulmana fu una delle cause che, nel corso
della prima metà degli anni Sessanta, fece precipitare le relazioni tra
le correnti «liberali» e le tendenze conservatrici che si erano manife-
state all’interno della Lega dei comunisti (SKJ)76. La «nascita» della
nazione musulmana, legittimata da una serie di atti giuridici e am-
ministrativi, adottati tra il 1968 e il 1974, ebbe l’effetto di indebolire
il già precario equilibrio dei rapporti tra le repubbliche jugoslave. Le
conseguenze dell’indirizzo politico comunista riguardo la questione
musulmana si sarebbero manifestati anni dopo, contestualmente al-
l’implosione della Jugoslavia socialista e alla deflagrazione dei con-
flitti degli anni Novanta in Bosnia-Erzegovina.
Il processo di affermazione nazionale della componente musul-
mana fu condizionato da diversi fattori; alcuni riconducibili alle com-
plesse e delicate dinamiche interne al partito, e altri agli sviluppi della
politica estera jugoslava, in seguito allo «scisma» tra il KPJ e il Par-
tito comunista dell’Unione Sovietica (KPSS). Fino al 1953 il Partito
comunista jugoslavo esercitò un capillare controllo sulle attività della
Comunità religiosa islamica. Le relazioni tra i comunisti e la com-
ponente musulmana della Bosnia-Erzegovina migliorarono sensibil-
mente a partire dalla metà degli anni Cinquanta, in concomitanza con
il nuovo corso della politica estera jugoslava. Dalla metà degli Ses-
santa, subito dopo l’VIII congresso della Lega dei comunisti jugo-
slavi (1964), la questione delle autonomie nazionali entrò, dunque,
nel vivo del confronto politico e accademico, raggiungendo i mo-
menti più critici del dibattito tra il 1968 e il 1971.
Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, oltre ai primi
provvedimenti adottati dal nuovo governo, tra i quali la riforma agra-

76
Nel 1952, in occasione del VI Congresso del Partito comunista jugoslavo a
Zagabria (dal 2 al 7 novembre), la denominazione del Partito cambiò in Lega dei
comunisti jugoslavi (Savez Komunista Jugoslavije o SKJ).

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176 Giulio M. Salzano

ria, la nazionalizzazione delle attività economiche e la riorganizza-


zione amministrativo-territoriale della Federazione, furono emanate
diverse norme per regolare i rapporti tra le istituzioni dello Stato e
le organizzazioni religiose77. La prima costituzione della FNRJ78
(1946) affermò una netta separazione dei rispettivi ambiti, specie in
materia di diritto e istruzione pubblica. Alle organizzazioni religiose
furono garantite alcune autonomie riguardo l’organizzazione delle
attività cultuali, se non in contrasto con i rigidi principi di laicità
espressi dalla Carta costituzionale. Fu questo il primo tentativo di
estromettere le organizzazioni religiose dalla vita pubblica del Paese,
senza ricorrere, per il momento, a misure particolarmente coercitive.
La libertà di culto e l’organizzazione delle attività religiose furono
di fatto limitate e garantite solamente sotto la stretta sorveglianza
degli organi statali, coordinati dalla Commissione per gli Affari Re-
ligiosi (Komisija za Vjerska Pitanja o KZVP), un ente governativo
di controllo istituito nel 194479. Inoltre, l’intensa campagna diffama-
toria nei confronti dei dissidenti «cominformisti», in seguito allo sci-
sma politico del 1948, colpì indistintamente numerosi esponenti delle
istituzioni religiose che non avevano accettato di buon grado il nuovo
corso politico jugoslavo. «La religione fu esclusa dalla sfera pubblica
e sottoposta a un processo di privatizzazione; le vecchie élite bo-
sniaco-musulmane persero la loro influenza, la quale era stata spesso
legata al forte impatto della religione islamica sulla società musul-
mana»80.
La Comunità religiosa islamica (Islamska Vjerska Zajednica o
IVZ), l’istituzione di riferimento per tutti i fedeli musulmani della
Jugoslavia fu riorganizzata secondo il nuovo statuto entrato in vi-
gore nel 194781. I vertici dell’IVZ furono scelti tra i funzionari fe-
deli al regime in modo tale che il partito potesse controllare da vi-
cino ogni attività dell’organizzazione e delle istituzioni religiose pe-

77
Cfr. V. Katz, Društveni i ekonomski razvoj Bosne i Hercegovine 1945.-1953.,
Institut za Istoriju, 2011.
78
Federativna Narodna Republika Jugoslavija (Repubblica Popolare Federativa
di Jugoslavia).
79
Службени лист Федералне Босне и Херцеговине, год. I, бр. 1, 20.6.1945, стр.
5, Одлука Земалјског Антифашистичког Вијећа Народног Ослобођенја Босне и
Херцеговине.
80
A. Omerika, op. cit., p. 352.
81
Ustav Islamske Vjerske Zajednice u Federativnoj Narodnoj Republici Jugosla-
viji, Vrhovno Islamsko Stariješinstvo u FNRJ, Sarajevo, 1947.

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Immaginare la Nazione 177

riferiche82. Nel marzo 1946, le competenze in materia di diritto isla-


mico furono demandate esclusivamente ai tribunali civili83. Gran parte
degli ingenti beni dei vakuf furono nazionalizzati. La popolazione
musulmana e le altre organizzazioni religiose subirono un intenso
processo di laicizzazione che interessò diversi ambiti della società, a
partire dal sistema dell’istruzione pubblica. Le scuole islamiche isla-
miche per la formazione di base (mekteb), presenti nelle città e in
quasi tutti i villaggi del Paese, furono ridotte drasticamente, fino a
decretare la sospensione di ogni loro attività. L’insegnamento al di
fuori dei luoghi autorizzati dal regime fu severamente vietato. Gli
studi islamici potevano essere seguiti esclusivamente nella medresa di
Sarajevo, l’unico istituto scolastico per la formazione dei funzionari
religiosi musulmani autorizzato dal governo.
Il processo di laicizzazione imposto dal Partito comunista agì in-
nanzitutto sull’apparato simbolico e sulle consuetudini rituali delle
comunità religiose. Nel 1950, ad esempio, in seguito alle pressioni del
Fronte Antifascista delle Donne84, fu proibito alle musulmane di co-
prirsi con i veli rituali della tradizione (zar i feredža); una decisione
che ebbe importanti e inevitabili ripercussioni sul sistema delle rela-
zioni famigliari, in ambito pubblico e nei rapporti tra i fedeli e le au-
torità governative85. La libertà di culto, più volte ribadita dalla Co-
stituzione, fu, al contrario, sottoposta a importanti limitazioni, ad
esempio proibendo la celebrazione dei culti o l’assembramento di fe-
deli nelle abitazioni private per motivi religiosi. Il consueto pellegri-
naggio alla Mecca ( hadž/hajj), uno dei cinque obblighi rituali per i
musulmani, fu sospeso fino al 1954, con una eccezione nel 1949,
quando fu concesso a cinque funzionari dell’IVZ, tra cui il compia-
cente reis-ul-ulema Ibrahim Feijć, di lasciare la Jugoslavia per recarsi
in Arabia Saudita86. Tra il 1948 ed il 1950, nel clima di terrore sca-
turito dalla caccia ai «Kominformisti», furono celebrati diversi pro-

82
A. Zulfikarpašić, Bosanski pogledi, nezavisni list muslimana Bosne i Hercego-
vine u iseljeništvu. 1960-1967, Zurich, STAMACO, 1984, p. 422.
83
F. Karčić, op. cit., p. 1034.
84
Antifašistički Front Žena o AFŽ.
85
Službeni list narodne NRBiH, anno VI, n. 32, 272, Zakon o zabrani nošenja
zara i feredže.
86
Il rituale del pellegrinaggio alla Mecca dalla prospettiva dei rapporti diploma-
tici jugoslavi è stato oggetto di un mio recente contributo dal titolo Viaggiare per
fede. Il pellegrinaggio alla Mecca e la politica estera jugoslava (1949-1961), in Dia-
cronie, Studi di Storia contemporanea, 36, 4/ 2018.

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178 Giulio M. Salzano

cessi farsa nei confronti di numerosi esponenti della comunità isla-


mica accusati di collaborazionismo nell’ultimo conflitto e di sovver-
sione nei confronti del nuovo ordine politico87. Tali misure non ri-
sparmiarono nemmeno i rappresentanti del clero cattolico e orto-
dosso, verso le cui attività i funzionari del partito avevano riservato
una particolare attenzione. Questo atteggiamento fu all’origine, ad
esempio, della crisi diplomatica tra la Jugoslavia e la Santa Sede, i cui
rapporti si interruppero ufficialmente dal 1952 al 1963, in seguito alle
vicende del caso Stepinac, l’arcivescovo di Zagabria arrestato e con-
dannato per collaborazionismo con le forze di occupazione88.
L’approccio del governo comunista alla questione nazionale mu-
sulmana, contrariamente alle narrazioni veicolate da una certa storio-
grafia apologetica che si affermò nel corso degli anni Sessanta, fu de-
cisamente contraddittorio, mai lineare né costante, e non privo di im-
portanti criticità. La discontinuità ideologica del partito riguardo la
questione nazionale musulmana emerge chiaramente attraverso la let-
tura dei dati demografici pubblicati periodicamente dall’Istituto di sta-
tistica jugoslavo in occasione dei censimenti della popolazione. I cri-
teri per la compilazione delle schede censitarie, riguardo l’ambito del-
l’appartenenza nazionale, furono formulati e adottati sulla base di spe-
cifiche indicazioni provenienti dal governo, e quindi dallo stesso par-
tito. Nel nostro caso, dunque, i censimenti rappresentano il punto di
vista privilegiato dal quale osservare gli sviluppi della questione na-
zionale musulmana dalla prospettiva delle istituzioni dello Stato.
Nel primo censimento della Jugoslavia socialista (15 marzo 1948),
l’elemento distintivo dell’identità bosniaco-musulmana si fondava esclu-
sivamente sulla dimensione religiosa89. Le istruzioni riservate ai com-
pilatori, riguardo l’appartenenza nazionale, sembrano non lasciare mar-

87
S. Jaliman, Politički osuđenici u kazneno-popravnom domu u Zenici 1945-1954
Godina, in Dru_tvena istra_ivanja, »asopis Pravnog fakulteta Univerziteta u Zenici,
Rivista della Facoltà di Giurisprudenza, Università di Zenica; n. 2, anno II; Zenica
2008, pp. 13-27; Suđenje organizatorima i rukovodiocima terorističke organizacije
“Mladi Muslimani”, in Oslobođenje, Organ Izvršnog Odbora Narodnog Fronta Bo-
sne i Hercegovine, anno VI, n .865, p. 2.
88
N. Žutić, Protokol Jugoslavije i Vatikana iz 1966. Godine, in Istorija 20. Veka,
1/2013, pp. 135-156; M. Akmadža, Pregovori Svete Stolice i Jugoslavije i potpisivanje
protokola iz 1966. Godine, in »asopis za suvremenu povijest, 36(2), pp. 473-503.
89
I. Lučić, Making the “Nation” Visible: Socialist Census Policy in Bosnia in the
early 1970s, in The Ambiguos Nation, Case Studies from Southeastern Europe in the
20th Century, Oldenbourg Verlag München, 2013, pp. 423-448, p. 426.

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Immaginare la Nazione 179

gini di dubbio: «ogni persona registrerà la propria nazionalità (na-


rodnost), ad esempio Serbo, Croato, Sloveno, Macedone, Montene-
grino, Ungherese, Albanese, Rumeno ecc. I Musulmani scriveranno
Serbo-musulmano (Srbin-musliman), Croato-musulmano (Hrvat-mu-
sliman) o musulmano di nazionalità indeterminata (musliman-neo-
predeljen)». I musulmani bosniaci, dunque, all’atto pratico, potevano
dichiararsi, dal punto di vista dell’appartenenza nazionale, serbi o
croati di fede islamica. L’alternativa, la stessa che poi si affermò come
la scelta condivisa dalla totalità dei musulmani bosniaci, consisteva
nella possibilità di non esprimere alcuna specifica appartenenza na-
zionale, limitandosi, dunque, a indicare la categoria musliman-neo-
predjeljeni, «musulmani – dal punto di vista nazionale – indetermi-
nati» o di «nazionalità non dichiarata»90. Il 15 marzo 1948 in Bosnia-
Erzegovina furono censite 2.565.277 cittadini, di cui 1.136.116 serbi,
614.123 croati e 788.403 musulmani «indeterminati»91.
Nonostante le dichiarazioni e le rassicurazioni in merito alla que-
stione nazionale musulmana, espresse dal Partito comunista jugoslavo
durante la lotta popolare di Liberazione, con il censimento del 1948 la
posizione dei musulmani era tornata di fatto alla situazione antecedente
il conflitto. Mentre gli sloveni, i serbi, i croati, i macedoni e i monte-
negrini, con la costituzione del 1946 avevano acquisito lo status di po-
poli costituenti della federazione jugoslava, i musulmani bosniaci con-
tinuavano a essere identificati e censiti esclusivamente sulla base del-
l’appartenenza religiosa, come accadeva nelle rilevazioni del 193192.

90
Federativna Narodna Republika Jugoslavija, Savezni Zavod za statistiku i evi-
denciju. Konačni rezultati popisa stanovništva od 15 marta 1948 godine, Knjiga V,
Stanovništvo po pismenosti, Beograd, 1955, p. XI.
91
Federativna Narodna Republika Jugoslavija, Savezni Zavod za statistiku i evi-
denciju. Konačni rezultati popisa stanovništva od 15 marta 1948 godine, Knjiga I,
Stanovništvo po polu i domaćinstva, Beograd 1951, p. LXXII; Federativna Narodna
Republika Jugoslavija, Savezni Zavod za statistiku i evidenciju. Konačni rezultati po-
pisa stanovništva od 15 marta 1948 godine, Knjiga IX, Stanovništvo po narodnosti,
Beograd, 1954, pp.128-129; Nacionalni Sastav Stanovništva SFR Jugoslavije, knjiga
I, podacima po naseljima i opštinama, Savezni zavod za statistiku, Beograd, 1991,
p.11. Oltre ai principali gruppi nazionali jugoslavi (serbi, croati, sloveni, macedoni e
montenegrini), nel 1948, in Bosnia-Erzegovina, furono censite piccole comunità di
bulgari, cechi, slovacchi, russi, russo-ucraini, albanesi, ungheresi, tedeschi, rumeni,
valacchi, italiani, turchi e cigani.
92
Cfr. Kraljevina Jugoslavija. Definitivni rezultati popisa stanovništva od 31 marta
1931 godine. Knjiga II. Prisutno stanovništvo po veroispovesti. Državna štamparija,
Beograd, 1938.

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180 Giulio M. Salzano

Il 31 marzo 1948, i musulmani scelsero la categoria «nacionalno


neopredjeljeni» (nazionalità non dichiarata), respingendo, in questo
modo, l’ennesimo tentativo, questa volta avallato proprio dal Partito
comunista jugoslavo, di essere identificati, dal punto di vista dell’ap-
partenenza nazionale, come serbi o croati di fede islamica.
Cinque anni dopo, nelle rilevazioni del 1953, il termine musliman
fu escluso dalle categorie censitarie. Il partito intese affermare di fatto
la netta separazione tra l’aspetto confessionale e l’appartenenza na-
zionale, evitando pericolose sovrapposizioni tra due ambiti, che nelle
ambiziose intenzioni dei comunisti, erano destinati a essere separati
definitivamente93. Accanto alle pre-esistenti categorie nazionali, l’Isti-
tuto di Statistica introdusse, nel censimento del 1953, la denomina-
zione «jugoslavi di nazionalità indeterminata»94. Con questa scelta il
partito intese riproporre, seppur con le dovute distinzioni, la mai tra-
montata idea ottocentesca dell’unità dei popoli jugoslavi. Però, men-
tre nell’Ottocento lo «jugoslovjenstvo» si affermò in funzione anti-
imperiale, lo jugoslavismo di epoca socialista fu essenzialmente la ri-
sposta politica alla tardiva, o del tutto assente, coesione tra i gruppi
nazionali del paese. In quest’ultimo caso si trattava, per dirla con le
parole dello storico Egidio Ivetić, di un «meta-luogo di riferimento
per la costruzione di una generica identità jugoslava»95.
Nel censimento del 1953, secondo l’Istituto federale di Statistica,
891.798 bosniaci musulmani, quasi un terzo della popolazione totale,
si dichiararono jugosloveni neopredjeljeni, jugoslavi di nazionalità “in-
determinata”96. Ancora una volta, i musulmani bosniaci conferma-
rono la volontà comune di respingere il tentativo di essere identifi-

93
«Il termine musliman designa l’appartenenza alla confessione musulmana e non
ha nessun rapporto con la questione nazionale», M. Pijade, O popisu stanovništva,
Borba, vol. XVIII, n. 20, 21 gennaio 1953, riportato in M. Pijade, Izabrani spisi,
tomo 1, libro 5. Beograd: IIRP, 1966, pp. 946-949, citato da M. A. Hoare, op. cit.,
p. 132; Popis stanovništva 1953, libro I, Vitalna i Etnička Obeležja, Federativna Na-
rodna Republika Jugoslavija, Savezni Zavod za Statistiku, Beograd, 1959, p. XXXIV.
94
«Jugosloveni neopredjeljeni».
95
E. Ivetić, op. cit., pp. 9-12. Ivetić mette in guardia sul significato del termine
jugoslavenstvo (croato)/jugoslovenstvo (serbo): «Non è semplice cogliere il corri-
spettivo italiano (e in altre lingue) di jugoslavenstvo/jugoslovenstvo, poiché a seconda
della circostanza del dicorso, del libro o del saggio di riferimento, esso potrebbe es-
sere tanto la jugoslavità, cioè l’essere jugoslavi (popoli o culture), quanto lo jugo-
slavismo nel senso di ideologia o progetto politico».
96
Nacionalni Sastav Stanovništva SFR Jugoslavije, knjiga I, podacima po na-
seljima i opštinama, Savezni zavod za statistiku, Beograd, 1991, p. 11.

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Immaginare la Nazione 181

cati alcuno dei gruppi nazionali antagonisti. La scelta condizionata


dei musulmani fu considerata dagli storici coevi come la dichiarazione
implicita della loro presunta identità nazionale. Questa posizione sem-
brerebbe però più un’attribuzione di senso a posteriori, che aveva
l’intento di superare alcuni aspetti critici delle narrazioni storiografi-
che riguardo i rapporti tra il partito e la comunità bosniaco-musul-
mana.
Il principale obiettivo dei musulmani bosniaci restava la salva-
guardia della propria identità religiosa, minacciata dall’atteggiamento
iper-laicista dello Stato e, in ogni caso, mal conciliabile con le pre-
messe culturali e religiose dei serbi e dei croati. Rinunciando a iden-
tificarsi con l’una o l’altra comunità nazionale, i musulmani bosniaci
avevano espresso la propria identità per viam negationis. Dichiaran-
dosi «jugoslavi di nazionalità indeterminata», essi non intesero affer-
mare, quindi, un’idea di nazione sulla base di determinate coordinate
politiche, linguistiche o territoriali, ma rigettare i modelli disponibili,
proposti dalle autorità governative attraverso il censimento. Non sa-
rebbe del tutto azzardato ipotizzare che i musulmani bosniaci aves-
sero sviluppato maggiormente l’ideale senso di appartenenza alla
Umma, la comunità islamica universale (ummat al-isla-miyya), rispetto
alle altre forme secolari di espressione nazionale97. L’elemento predo-
minante dell’identità musulmana bosniaca, secondo le autorità politi-
che e governative jugoslave, andava ancora ricercato, nel 1953, esclu-
sivamente nella dimensione religiosa.
I segnali di una timida riconciliazione tra la dirigenza comunista
e la Comunità religiosa islamica si intravidero a partire dalla seconda
metà degli anni Cinquanta. Nel 1957 Sulejman Kemura subentrò alla
guida dell’IVZ al posto del dimissionario reis Ibrahim Fejić. L’ele-
zione di Kemura, il reis «rosso», a causa della sua estrema «vicinanza»
al partito, coincise con un rinnovato atteggiamento dei funzionari go-
vernativi nei confronti della comunità musulmana. In politica estera,
dopo la crisi del 1948, la Jugoslavia si era gradualmente inserita in
un nuovo sistema di alleanze, spinta dalla necessità di ricercare una
maggiore sicurezza e una certa stabilità economica per il Paese. I prin-
cipali interlocutori di Tito, in quegli anni, erano: il presidente indo-
nesiano Akmed Sukarno, il Primo Ministro indiano Jawaharlal Nehru,

97
Cfr. G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, Torino, 2002, pp.
15-21.

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182 Giulio M. Salzano

e il ministro degli interni egiziano, poi Presidente, Gama-l ‘Abd al-


Na-ir H . usayn. Con loro, il Maresciallo jugoslavo avrebbe dato vita,
in due distinti momenti, a Bandung nel 1955 e a Belgrado nel 1961,
al Movimento dei Paesi non allineati, un organismo internazionale
alternativo ai blocchi delle due maggiori superpotenze, Stati Uniti
e Unione Sovietica. Le relazioni tra la Jugoslavia e il mondo isla-
mico, rappresentato da numerosi Paesi che aderirono al Movimento,
esigevano però un radicale cambiamento delle politiche governative
nei confronti della componente musulmana. La mediazione dei lea-
der religiosi musulmani della Bosnia-Erzegovina con i governi dei
Paesi islamici fu imprescindibile per il buon esito dei rapporti di-
plomatici, come dimostrano le frequenti e reciproche visite che le
rispettive delegazioni religiose si scambiarono regolarmente a par-
tire dal 195898.
Il 1961, l’anno in cui la Lega dei comunisti jugoslavi si apprestava
ad accogliere a Belgrado le delegazioni di 25 Paesi del costituendo
Movimento dei non allineati, fu decisivo per i rinnovati rapporti tra
il partito e la Comunità religiosa islamica. Un primo passo in que-
sta direzione fu la rimozione definitiva del limite al numero dei mu-
sulmani ammessi a partecipare all’annuale pellegrinaggio alla Mecca99.
Il 31 marzo 1961 fu effettuato il terzo censimento della popola-
zione dalla fine della guerra. L’Istituto di statistica introdusse la ca-
tegoria «Musulmani nel senso di appartenenza etnica» (Muslimani u
smislu etničke pripadnosti)100. Alcune indicazioni riportate nei formu-
lari per il censimento non lasciano dubbi circa il significato di que-
sta importante decisione: «Riguardo al fatto che la risposta Musliman
significa appartenenza etnica e non religiosa, tale risposta può essere

98
Uno strumento prezioso per ricostruire le attività «diplomatiche» della Co-
munità religiosa islamica è la rivista Glasnik Vrhovno Islamskog Starješinstva u Fe-
derativnoj Narodnoj Republici Jugoslaviji (abbreviato: Glasnik VIS-a)
99
Glasnik VIS-a, XIII (XXV), 1-3/1962, p. 54. Da quel momento in poi, di-
versamente dal passato, le istanze d’espatrio per il pellegrinaggio alla Mecca, in as-
senza di particolari impedimenti, sarebbero state tutte autorizzate indipendentemente
dal numero delle richieste.
100
Popis stanovništva 1961, libro I, Vitalna, etnička i migraciona obeležja, Sočija-
listčka Federativna Republika Jugoslavija, Beograd, 1970, pp. XVIII-XIX. Popis sta-
novništva, domaćinstava i stanova u 1961. Godini. Nacionalni sastav stanovništva
FNR Jugoslavije, podaci po naseljima i opštinama, Vol. III. Savezni Zavod za Stati-
stiku, Beograd, 1994, p. 5; Demografska Kretanja i karateristike stanovništva jugo-
slavije prema nacionalnoj pripadnosti, Belgrade, IDN, 1978, p. 15, citato in X. Bou-
garel, op. cit., p. 142.

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Immaginare la Nazione 183

sottoscritta anche dalle persone senza credo, se si considerano ap-


partenenti a questo gruppo»101. Si trattava di un chiaro atto politico
con il quale la Lega dei comunisti intese distinguere e separare for-
malmente due aspetti (inscindibili) dell’identità musulmana: la di-
mensione «etnica» (avulsa, secondo i comunisti, da qualsiasi elemento
religioso) e quella propriamente religiosa. A partire dal censimento
del 1961, i due aspetti dell’identità musulmana, etnica (Musliman) e
religiosa (musliman), avrebbero potuto coesistere, almeno sul piano
amministrativo, indipendentemente l’uno dall’altro102.
In un suo lavoro del 1969, Atif Purivatra affermò che l’espres-
sione «particolarità etnica» (etnička posebnost), riferita ai musulmani
bosniaci, era da intendersi come sinonimo di narod, «popolo», ov-
vero «nazione». Narod, in effetti, è un termine da sempre caratteriz-
zato da frequenti oscillazioni semantiche che non sempre corrispon-
dono a interpretazioni univoche103. Possiamo però affermare che nel
1969, quando fu pubblicato il lavoro apologetico di Purivatra, dal ti-
tolo Nacionalni i politički razvitak Muslimana (Sviluppo politico e
nazionale dei Musulmani), il significato e l’uso della locuzione et-
nička grupa (gruppo etnico) erano ben distinti dai rispettivi usi e si-
gnificati dei termini narod e narodnosti. Nel censimento del 1961, i
musulmani erano classificati come «gruppo etnico». Diversamente, il
termine narod era utilizzato, in ambito amministrativo, per designare
le nazioni costituenti della Federazione jugoslava: serbi, croati, slo-
veni, macedoni, montenegrini e, solo più tardi, dal 1971, per riferirsi
anche alla nazione musulmana104. Appare poco convincente, quindi,
il tentativo, non isolato, di Purivatra nel sovrapporre il significato di
etnia a quello di nazione. Tali affermazioni mal celavano, verosimil-

101
S. Mrdjen, Narodnost u popisima. Promjenljiva i nestalna kategorija, in «Sta-
novništvo», 1-4, 2002, pp. 77-103, p. 80.
102
Nei documenti amministrativi, il termine Musliman, nella sua funzione di et-
nonimo, era riportato con l’iniziale maiuscola, mentre musliman, con l’iniziale mi-
nuscola, continuava a essere utilizzato per riferirsi ai seguaci dell’islam.
103
E. Hajdarpašić, op. cit., pp.18-20. Nel caso dei volumi pubblicati in lingua
italiana, narod è stato tradotto sia come «nazione» che «popolo». Nel volume di
Jože Pirjevec, Tito e i suoi compagni, pubblicato da Einaudi nel 2015 (titolo origi-
nale: Tito in tovariši) l’aggettivo narodni è stato tradotto a volte come «popolare»
altre come «nazionale» e a volte con il sostantivo «Stato».
104
Il termine narodnost veniva solitamente impiegato per indicare le entità na-
zionali non costituenti che avevano i propri «riferimenti etnici» fuori dai confini ju-
goslavi: a quei tempi in Jugoslavia ci si riferiva, ad esempio, agli albanesi, ai tede-
schi, agli italiani e alle altre minoranze nazionali presenti nel territorio federale.

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184 Giulio M. Salzano

mente, lo sforzo di attribuire al Partito comunista più meriti di quanti,


in realtà, ne avrebbe potuti rivendicare105.
I dati del terzo censimento, nel caso dei musulmani bosniaci, con-
fermarono la tendenza dei primi due. In tutta la Jugoslavia furono
censiti 972.954 «musulmani in senso etnico», 842.248 dei quali risul-
tarono residenti in Bosnia-Erzegovina106. Il numero dei cittadini bo-
sniaci che scelse di identificarsi nella categoria «Musulmani in senso
etnico» coincideva, con le debite proporzioni, al numero di coloro
che nel 1948 scelsero la categoria «neopredjeljeni» (di nazionalità in-
determinata) e nel 1953 la categoria «Jugoslavi [di nazionalità] inde-
terminati».
Nell’aprile del 1963 fu promulgata una nuova Costituzione. Il
Paese assunse la denominazione di Repubblica socialista federativa di
Jugoslavia (Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija o SFRJ).
Questa scelta sembrava tradire la necessità di conciliare le tendenze
«centraliste» e «periferiche» interne al partito. La costituzione del
1963, secondo alcuni osservatori, non fu il tanto auspicato punto di
svolta del federalismo jugoslavo, ma «un momento di esitazione», un
punto di partenza dal quale il partito si sarebbe orientato, poco alla
volta, verso un percorso di decentramento politico e amministrativo.
Un deciso passo in tale direzione fu compiuto in occasione dell’VIII
Congresso della Lega dei Comunisti (1964). In quegli anni vi erano
essenzialmente due tendenze in seno al partito: l’una «liberale», ri-
conducibile alle posizioni di Kardelj, l’architetto delle costituzioni ju-
goslave, sostenitore del decentramento di alcune prerogative gover-
native e fautore di una sorta di «federalizzazione» del partito; l’altra,
«conservatrice», sostenuta dal serbo Aleksandar Ranković, il temu-
tissimo capo dell’OZNA (poi UDB-a)107, ministro degli Interni, fa-

105
A. Purivatra, op. cit., p. 59. Purivatra, a tal proposito scrive: «In base a ciò è
opportuno ricordare che l’individualità etnica dei Musulmani bosniaco-erzegovesi
nella maggior parte dei documenti del partito della guerra di Liberazione nazionale
e della rivoluzione popolare si esprime con il concetto di narod».
106
Savezni Zavod za statistiku, Nacionalni sastav stanovništva SFRJ po naseljima
i opštinama, Beograd: SZS, 1991; H. Kamberović, op. cit., pp. 59-81, p.61; A. Puri-
vatra, op. cit., pp.32-34. SR BiH sta per Socijalistička Republika Bosna i Hercego-
vina.
107
K. Boeckh, Vjerski progoni u Jugoslaviji 1944.-1953.: staljinizam u titoizmu,
in Časopis za suvremenu povijest, anno 38, n. 2, dicembre 2006, pp. 373-716. OZNA
è l’acronimo di Odeljenje za Zaštitu Naroda (Dipartimento per la difesa del po-
polo). Dopo la riorganizzazione del 1946, l’OZNA cambio denominazione in Uprava
Državne bezbednosti o UDB-a (Amministrazione per la sicurezza dello Stato).

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Immaginare la Nazione 185

vorevole alla concentrazione dei poteri politici, delle funzioni ammi-


nistrative e burocratiche nelle mani del governo federale, espressione
diretta del partito108. «L’opposizione al progressivo decentramento del
partito e dello stato stava finalmente crollando durante i lavori del
IV Plenum di Brioni del 1966 con la caduta di Aleksandar Ranko-
vić»109.
Il duro colpo inferto alle tendenze conservatrici, se da una parte
favorì il ridimensionamento dei rapporti di potere tra il governo fe-
derale e le repubbliche, in secondo luogo contribuì, seppur indiret-
tamente, alla preoccupante recrudescenza dei fenomeni di «nazio-
nalismo e sciovinismo», specialmente in Bosnia-Erzegovina110. A ciò
si aggiunsero momenti di tensioni e un diffuso senso di malessere
che irrigidirono i rapporti tra le repubbliche della federazione e le
rispettive istituzioni politiche e accademiche. Il 17 marzo 1967 il
quotidiano croato Telegram pubblicò la “Dichiarazione sul nome e
la posizione della lingua letteraria croata” (Deklaracija o nazivu i
položaju hrvatskog književnog jezika), un documento sottoscritto
dalla Matica Hrvatska e dai più autorevoli esponenti del mondo ac-
cademico croato, che esprimeva chiaramente la volontà degli intel-
lettuali di rivendicare una maggiore autonomia linguistica e cultu-
rale111.

108
Sull’uso del termine «liberale» e «conservatore» nell’ambito della politica ju-
goslava di epoca socialista si fa riferimento all’uso che propone Sabrina P. Ramet:
«Per liberale, nel contesto jugoslavo intendo qualcuno che favorisce la riduzione del
controllo del partito centrale e una minore supervisione del partito sulla società. Per
conservatore, nel contesto jugoslavo intendo qualcuno che favorisce un forte con-
trollo del partito centrale e uno stretto controllo del partito sulla società». Cfr. S.P.
Ramet, The Three Jugoslavias. State-Building and Legitimation, 1918-2005, Woo-
drow Wilson International Center Press, Washington, D.C. 2006, p. 211.
109
I. Štiks, Nations and Citizens in Yugoslavia…, cit., p. 69.
110
(ABH) ACKSKBiH, K. 7, Aktivnost Saveza Komunista povodom pojava na-
cionalizma, šovinizma, djelovanja konzervatnih snaga poraženih na IV plenum CK
SKJ i drugih vidova neprijateljske djelatnosti. Sarajevo, marta 1968. Nell’inchiesta del
Comitato Centrale della Lega dei comunisti bosniaci, condotta nelle città di Neve-
sinje, Stolac e Kiseljak, emersero frequenti e preoccupanti casi di violenza di matrice
nazionalista. A Nevesinje, l’anno successivo la caduta di Ranković, se ne contarono
27. «Qui – si legge nel rapporto – non sono rare le canzoni su Ranković […] ci
sono sempre più casi di esaltazione dell’atteggiamento cetnico e grande-serbo». Ranko-
viÊ veniva costantemente celebrato dai gruppi pro-cetnici come il «più grande figlio
della Serbia».
111
Il documento fu una chiara denuncia all’Accordo di Novi Sad del 1954 in
occasione del quale fu dichiarata l’unità linguistica “serbo-croata” o “croato-serba”

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186 Giulio M. Salzano

Secondo la condivisibile analisi dello storico Husnija Kamberović,


il processo di affermazione dell’identità nazionale musulmana, nella
sua fase decisiva, si articolò in tre momenti: il primo, dal 1961 al
1963, in cui si creò uno spazio politico per il riconoscimento dei mu-
sulmani come nazione; il secondo, dal 1963 al 1966, in cui il dibat-
tito politico fu traslato in ambito accademico, e coincise con la cir-
colazione delle prime argomentazioni “scientifiche” sull’identità na-
zionale musulmana; e infine, dal 1966 al 1968, gli anni in cui il pro-
cesso di affermazione nazionale dei musulmani trovò accoglienza nel
più ampio contesto della politica federale jugoslava112.
In ambito accademico, il dibattito vide contrapporsi, da una parte
i bosniaci Enver Redžić, Atif Purivatra, Muhamed Hadžijahić, Salim
Ćerić, Muhamed Filipović, Hamdija Ćemerlić, Mustafa Imamović, so-
stenitori dell’identità etnica e nazionale bosniaco-musulmana, dall’al-
tra, i detrattori dell’idea nazionale musulmana, tra cui lo scrittore Do-
brica Ćosić e lo storico Jovan Joco Marjanović, entrambi accademici
e funzionari della Lega dei comunisti di Serbia (SKS)113. Sul piano
politico, secondo Kamberović, la questione nazionale musulmana trovò
un sostegno molto importante, sia nell’ambito della repubblica che a
livello federale, grazie all’azione dell’élite comunista bosniaca: Cvije-
tin Mijatović, presidente del CK SKBiH, Branko Mikulić, presidente

come uno dei simboli più evidenti dell’unità jugoslava. La Dichiarazione del 1967
fu considerata come una preoccupante manifestazione di nazionalismo dai vertici del
Partito comunista croato e dallo stesso Tito.
112
H. Kamberović, op. cit., p. 275. Per avere un’idea del complesso dibattito sulla
questione nazionale musulmana, in particolar modo in ambito accademico, è op-
portuno fare riferimento alla rassegna bibliografica curata da Muhamed Hadžijahić
e Atif Purivatra, pubblicata dalla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Sa-
rajevo nel 1971, con il titolo: Građa za bibliografiju o nacionalnoj problematici Bo-
snaskih Muslimana. Prilog studijskom projektu „Međunacionalni odnosi u Jugoslaviji
i problemi federalizma“ Instituta društvenih nauka u Beogradu. (Materiale per la bi-
bliografia sulla problematica nazionale dei musulmani bosniaci. Contributo al pro-
getto di studio «relazioni tra le nazioni in Jugoslavia e il problema del federalismo»
dell’Istituto di Scienze sociali di Belgrado).
113
“Oslobođenje”, 30 maggio 1968, godina XXV, n. 7178, p. 4. Demokratsko
dogovaranje o politici nacionalne ravnopravnosti; “Oslobođenje”, 31 maggio 1968,
Anno XXV, n. 7179, pp. 4-5. Platforma Ćosić i Marjanovića je nacionalistička, ne-
samoupravna i birokratska. Clanovi Centralnog komiteta oštro osudili stavove Do-
brice Ćosića i Jovana Marjanovića o ravnopravnosti među narodima i narodnostima.
In seguito alle polemiche sollevate nei confronti del partito, Ćosić e Marjanović fu-
rono esautorati delle loro funzioni politiche.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Immaginare la Nazione 187

del SIV, Avdo Humo, funzionario del CK SKJ, Džemal Bijedić, pre-
sidente dell’Assemblea parlamentare della Bosnia-Erzegovina114.
Una prima e importante svolta politica nella questione nazionale
musulmana si ebbe nel primo semestre del 1968. Durante i lavori
della XVII e della XX seduta del CK SKBiH, convocate rispettiva-
mente per gennaio e maggio, i comunisti bosniaci espressero in ma-
niera inequivocabile la posizione del partito riguardo la componente
bosniaco-musulmana. «L’esperienza ha mostrato i danni delle diverse
forme di espressione e insistenze del passato, quando all’inizio i mu-
sulmani venivano classificati, dal punto di vista nazionale, come serbi
o croati, poiché oggi si è dimostrato, e lo conferma l’attuale prassi
socialista, che i musulmani sono una nazione distinta». Questa di-
chiarazione in particolare, riportata nei verbali del Comitato Centrale
e pubblicata il 18 maggio su Oslobođenje, è stata considerata da di-
versi autori la chiave di volta del nuovo impianto politico della Lega
dei comunisti riguardo l’annosa questione nazionale musulmana115.
Affermando ufficialmente l’esistenza della nazione musulmana, per la
prima volta dalla fine della guerra, i comunisti bosniaci rigettarono
definitivamente le pretese territoriali sulla Bosnia-Erzegovina e le pres-
sioni sulla comunità musulmana avanzate negli anni dai nazionalisti
serbi e croati.
Ad ogni modo, ad accelerare la risoluzione della questione mu-
sulmana, nonostante l’opposizione degli ambienti conservatori interni

114
Centralni Komitet Saveza Komunista Bosne i Hercegovine o CKSKBiH (Co-
mitato Centrale della Lega dei comunisti della Bosnia-Erzegovina); Savezno izvršno
Vijeće o SIV (Consiglio esecutivo federale); Centralni Komitet Saveza Komunista Ju-
goslavije o CK SKJ (Comitato Centrale della Lega dei comunisti jugoslavi).
115
“Zaključci o idejno političkim zadacima komunista Bosne i Hercegovine u
daljem ostvarivanju samoupravnosti naroda i narodnosti i razvijanju međurepubličke
saradnje” in Oslobođenje-Nedjelja, anno XXV, n.7166, 18 maggio 1968, p. 6. «Praksa
je pokazala štetnost raznih oblika pritisaka i insistiranje iz ranijeg perioda da se Mu-
slimani u nacionalnom pogledu opredjeljuju kao Srbi odnosno kao Hrvati, jer se i
ranije pokazivalo, a to i današnja socijalistička praksa potvrđuje da su Muslimani
poseban narod». Iva Lučić, Stavovi Centralnog Komiteta Saveza Komunista Jugo-
slavije o nacionalnom identitetu Bosanskih Muslimana/Bošnjaka. Između afirmacije,
negacije i konfesionalne artikulacije, in Rasprave o nacionalnom identitetu BošnjakaÉ,
cit., pp. 97-115, p.106; Höpken W., Die Jugoslawischen Kommunisten und die bo-
snischen muslime, in Die muslime in der Sowjetunion und in Jugolsawien: Identität,
Politik, Widerstand, Colonia 1989, citato da Noel Malcom, Storia della Bosnia, Bom-
piani, 2000, p. 266; Atif Purivatra, Nacionalni i politički razvitak Muslimana, Svje-
tlost, Sarajevo, 1969, p. 30.

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188 Giulio M. Salzano

al partito e di una parte consistente del mondo accademico jugoslavo,


contribuirono sia gli avvenimenti che segnarono il tornante geopoli-
tico regionale del 1968 sia alcune preoccupanti vicende di politica in-
terna: la crisi in Polonia, l’azione militare sovietica in Cecoslovacchia,
le prove di forza ai confini tra la Jugoslavia e la Bulgaria, le rivolte
studentesche a Belgrado e Sarajevo, le proteste e le prime sommosse
popolari nella regione autonoma del Kosovo e i gravi attentati dina-
mitardi che colpirono Belgrado: a maggio, nella centralissima stazione
ferroviaria e a novembre nella sala cinematografica «20 ottobre»116.
La concomitanza di questi fattori richiese, da parte del governo,
l’adozione di misure straordinarie, volte principalmente a garantire la
sicurezza dei confini, reprimere i disordini interni e rafforzare l’a-
zione diplomatica con i Paesi non allineati. La percezione di un im-
minente attacco militare alla Jugoslavia da parte dei Paesi del Blocco
sovietico era più che reale, come si evince dai rapporti del Comitato
Centrale e in particolare dalla trascrizione dell’incontro tra Tito e
Ivan Benediktov, ambasciatore sovietico a Belgrado, nove giorni dopo
l’invasione della Cecoslovacchia117.
Ulteriori passi in avanti nel processo di affermazione nazionale dei
musulmani bosniaci furono compiuti nelle prime settimane del 1970.
In vista del quarto censimento della popolazione, la Lega dei comu-
nisti avviò alcune importanti riflessioni sulla questione nazionale mu-
sulmana, nel corso di tre distinti appuntamenti: il 14 gennaio, du-

116
“Oslobođenje”, 31 maggio 1968, anno XXV, n. 7179, p. 5; “Oslobođenje”,
24 novembre 1968, Anno XXV, n. 7357, p. 1.
117
(ABH) ACKSKBiH 1968 str. Pov. […] a intervenciji u ČSR, NN. Strogo
Povjerljivo 221, Centralni Komitet Saveza Komunista Jugoslavije, str. Pov. 03-14/1,
6 septembra 1968. god. Materijale sa zajedničke sednice Predsedništva i Izvršnog Ko-
miteta Centralnog Komiteta SKJ održane 2 septembra 1968. godine, p. 18; ABH
ACKSKBiH, K. NN, Strogo Povjerljivo […] o intervenciji u ČSR, CKSKJ, Strogo
pov. br. 03-14/1, 6 septembar 1968. god. Beograd. Materijal sa zajedničke sednice
Predsedništva i Izvršnog Komiteta Centralnog Komiteta SKJ održane 2.septembra
1968. godine. Beleška o prijemu sovjetskog ambasadora kod Predsednika Tita, 30.
avgusta 1968, pp. 1-18, Brioni 31 avgusta 1968. Ad un punto del discorso, Tito, ri-
volgendosi all’ambasciatore russo, disse: «I popoli della Jugoslavia hanno combat-
tuto contro il fascismo. La Jugoslavia ha avuto un milione e settecentomila vittime.
Siamo pronti anche oggi al sacrificio se si mette in pericolo la nostra indipendenza
e la nostra via autonoma per l’edificazione del socialismo. Qualora la Jugoslavia fosse
minacciata, come da Oriente così da Occidente, essa si difenderà risolutamente. Se
l’attacco alla Jugoslavia arrivasse da Occidente, così come da Oriente, la Jugoslavia
combatterà risolutamente per la difesa della sua indipendenza. Su questo non si può
dubitare».

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Immaginare la Nazione 189

rante i lavori della seduta ordinaria del CKSKBiH; il 16 gennaio, nel


corso delle consultazioni del «gruppo di lavoro per le nazionalità e
i gruppi etnici» della Presidenza dello SKJ, e quindi, il 18 febbraio
in occasione della seduta ordinaria dello SKJ. Le indicazioni emerse
nel corso di questi incontri furono recepite e riformulate dall’Istituto
di Statistica per il censimento del 31 marzo 1971118.
Riguardo la posizione dei musulmani, Ibrahim Laftić, direttore
dell’Istituto di Statistica, in un rapporto inviato ai vari organi politici
e governativi, scrisse: «i Musulmani si dichiarano liberamente nel senso
nazionale. Nell’imminente lavoro politico in occasione del censimento
è necessario spiegare che in questo caso non si esprime l’appartenenza
religiosa, in modo che si possano distinguere gli appartenenti della
comunità religiosa islamica che si sentono e si dichiarano Macedoni,
Albanesi, Serbi, Montenegrini, Croati, da coloro i quali si conside-
rano Musulmani in senso nazionale»119. Questa importante distinzione
era stata in qualche modo anticipata, pochi mesi prima, dall’ulema
Husein Đozo, una delle figure più autorevoli della Comunità reli-
giosa islamica in Bosnia-Erzegovina: «da ora il concetto musliman
non designa più solamente colui che appartiene alla fede islamica, ma
colui che appartiene alla nazione musulmana, a prescindere se si tratti
di un credente oppure no»120.
Nel censimento del 1971 fu quindi introdotta la categoria «Mu-
sulmano in senso nazionale» (Musliman u smislu narodnosti). Con
questa importante decisione, gli organi governativi legittimarono for-
malmente la «nascita» della nazione musulmana, la sesta nazione co-
stituente della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia121. Il 31

118
Socijalistički savez radnog naroda Jugoslavije (Lega socialista del popolo la-
voratore della Jugoslavia)
119
AJ KPR 2-4-b/45 27. I-18. VII 1970. br. 762/1 9. II 1971, Pripreme za po-
pis stanovništva i stanova u 1971. godini.
120
H. Đozo, Islam i Musliman, in Glasnik Vrhovnog islamskog starješinstva u
SFRJ, XXXIII/5-6, maggio-giugno 1970, pp. 201-206, p.205. Sulla vita di Husein
Đozo si rimanda alla biografia di E. KariÊ, Husein Đozo, Dobra Knjiga, Sarajevo,
2010.
121
La scelta della denominazione da utilizzare per la componente nazionale mu-
sulmana fu il risultato di lungo dibattito che vide schierarsi da una parte i sosteni-
tori del termine Musliman e dall’altra coloro favorevoli all’alternativa Bošnjak. Nel
1971 la scelta cadde quindi sull’etnonimo Musliman. Nel 1993, il Bošnjački sabor (il
consiglio dei bošnjaci) decise di abbandonare l’etnonimo Musliman/Muslimani a fa-
vore di Bošnjak/Bošnjaci. Cfr. X. Bougarel, Od ‘Muslimana’ do ‘Bošnjaka’, pitanje

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190 Giulio M. Salzano

marzo 1971, in Bosnia-Erzegovina furono censiti 1.482.430 Musli-


mani, 1.393.148 serbi e 772.491 croati122. Da quel momento, dunque,
i musulmani si affermarono quale il gruppo nazionale più numeroso
della Bosnia-Erzegovina; un primato che avrebbero mantenuto sino
e oltre la dissoluzione della Jugoslavia. Tre anni dopo, nel febbraio
del 1974, la costituzione della Repubblica Socialista di Bosnia-Erze-
govina sancì, sul piano giuridico, l’inclusione della nazione musul-
mana nel novero delle nazioni costituenti della SFRJ123. Fu l’inizio di
«una nuova era politica per la Repubblica socialista della Bosnia-Er-
zegovina e per l’intera Jugoslavia»124.

6. Conclusioni. – Come suggerisce Iva Lučić «al posto di un’i-


dentità nazionale musulmana e di una politica nazionale all’interno
della Lega dei comunisti (SK), si dovrebbe discutere delle identità dei
Musulmani […] e allo stesso modo delle [differenti] politiche/posi-
zioni dei membri dell’SK»125. La nazionalizzazione dei musulmani
bosniaci, infatti, fu l’esito di un approccio politico diversificato nel
tempo, discontinuo, spesso contraddittorio, che vide impegnati in un
costante confronto, non privo di tensioni, diversi esponenti del par-
tito, i rappresentanti del mondo accademico e delle istituzioni reli-
giose islamiche. Ad essere escluse dal dibattito, paradossalmente, fu-
rono proprio le «silenti» masse musulmane, che subirono le decisioni

nacionalnog imena bosanskih muslimana, in Rasprave o nacionalnom identitetu


Bošnjakać, cit., pp. 117-136.
122
Popis Stanovništva, domačinstava i stanova u 1971 godini. Nacionalni Sastava
Stanovništva SFR Jugoslavije. Podaci po naseljima i opštinama, Libro II, Savezni Za-
vod za Statistiku, p.11. I bosniaci che si erano identificati come «Jugoslavi» furono
43.796, mentre la categoria «altri» registrò 54.246 adesioni; in termini di percentuali,
i Musulmani risultarono essere i più numerosi anche nel successivo censimento del
1981 e nel più recente censimento del 2013. Cfr. Popis Stanovni_tva, domačin-
stva/kuÊanstva i stanova u Bosni i Hercegovini 2013. godine. Konačni rezultati, Bo-
sna i Hercegovina, Federalni zavod za statistiku, Sarajevo, 2016.
123
Costituzione della Repubblica Socialista di Bosnia-Erzegovina del 1974 (Ustav
SRBiH 1974), in Službeni list SR Bosna i Hercegovina 1974, p. 90 e seg., n. 4; 25
febbraio 1974; H. Kamberović, op. cit., pp. 59-81; Š. Filandra, Bošnjačka politika u
XX stoljeću, Biblioteka Posebna izdanja, Sarajevo, 1998, pp. 229-240.
124
I. Lučić, Političke kontroverse o popisu stanovništva 1971. godine, in T. Jako-
vina (cur.) Hrvatsko Proljeće 40 godina poslije, Zagreb, 2012, pp. 225-243, p. 243.
125
I. Lučić, Stavovi centralnog komiteta Saveza komunista Jugoslavije o nacio-
nalnom identitetu Bosanskih Muslimana/Bošnjaka. Između afirmacije, negacije i kon-
fesionalne artikulacije, in Rasprave o nacionalnom identitetu Bošnjaka, Sarajevo: In-
stitut za istoriju, Sarajevo, 2009, pp. 97-115, p.114.

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Immaginare la Nazione 191

imposte da un’esigua minoranza politica. Si trattò dunque, anche nel


caso della nazione musulmana, di un fenomeno «duale», prodotto es-
senzialmente dall’alto, che, come avverte Eric Hobsbawm, per essere
ben compreso, andrebbe indagato anche dal basso, ossia «in termini
di assunzioni, speranze, esigenze, aspettative e interessi della gente
comune, che non sono necessariamente nazionali, e ancor meno na-
zionalistici […] Questa visione dal basso – aggiunge Hobsbawm – è
estremamente difficile da indagare»126.
Dopo l’iniziale entusiasmo manifestato durante la lotta popolare
di Liberazione, al quale fece però seguito l’intensa attività repressiva
che contraddistinse l’immediato secondo dopoguerra jugoslavo, le ra-
gioni che spinsero i comunisti a riconsiderare la questione nazionale
musulmana da una prospettiva diversa furono molteplici non sempre
dipendenti dall’esclusiva volontà delle parti sociali coinvolte. Anthony
Smith ha puntualizzato i caratteri generali del nazionalismo inteso
come fenomeno politico, in uno dei passaggi conclusivi del suo la-
voro dal titolo Le origini etniche delle nazioni: «La creazione-di-na-
zioni è un’attività ricorrente, che dev’essere rinnovata periodicamente.
Essa comporta incessanti reinterpretazioni, riscoperte e ricostruzioni;
ogni generazione deve riplasmare le istituzioni e i sistemi di stratifi-
cazione nazionali alla luce dei miti, memorie, valori e simboli del
“passato” in modo che possano soddisfare al massimo i bisogni e le
aspirazioni delle sue istituzioni e dei suoi gruppi sociali dominanti.
Perciò quella attività di riscoperta e reinterpretazione non è mai né
completa né semplice ma è il prodotto di dialoghi continui tra i gruppi
sociali e le istituzioni più importanti entro i confini della “nazione”,
e risponde ai loro ideali e interessi così come sono percepiti»127.
L’inattesa apertura al dialogo da parte delle istituzioni politiche e
delle autorità governative nei confronti della componente religiosa bo-
sniaco-musulmana fu determinata, in primo luogo, da un’accurata pia-
nificazione strategica, messa in atto dai vertici della Lega dei comu-
nisti, dinanzi alle vicende di politica estera successive alla crisi del Ko-
minform (1948) e agli importanti sviluppi dell’attività diplomatica con
i Paesi islamici non allineati. Ciò avrebbe favorito, a partire dalla se-
conda metà degli anni Cinquanta, una decisa quanto inevitabile di-

126
E.J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1870. Programma, mito e realtà,
Einaudi, Torino, 1991 (2002), pp. 12-13.
127
A.D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, il Mulino, Bologna, 1998, p. 422.

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192 Giulio M. Salzano

stensione dei rapporti tra il partito e i vertici della Comunità reli-


giosa islamica.
«Fino al 1963 – scrive Sabrina P. Ramet – la Jugoslavia fu uno
stato centralizzato con una patinatura federale»128. La caduta di Ranko-
vić nel 1967, uno dei maggiori oppositori dell’affermazione nazionale
dei musulmani bosniaci, e l’ascesa dei comunisti «liberali» in alcune
posizioni chiave delle istituzioni politiche e governative, coincise con
una maggiore apertura del governo alle istanze provenienti dalle sin-
gole repubbliche. Nei cinque anni successivi all’esautorazione del capo
dell’UDB-a e vice-presidente della Jugoslavia, la questione nazionale
musulmana entrò nella sua fase decisiva. Le vicende geopolitiche re-
gionali, le tensioni interne al partito e i frequenti episodi di «sciovi-
nismo e nazionalismo», che nel corso degli anni Sessanta attraversa-
rono la Bosnia-Erzegovina e diverse altre regioni della Federazione,
non fecero altro che accelerare un processo politico già in atto.
Nel maggio del 1968, i comunisti bosniaci espressero una posi-
zione chiara e indubbia riguado la questione nazionale bosniaco-mu-
sulmana: «I musulmani sono una nazione distinta». Le indicazioni
politiche del partito furono convogliate prima nel censimento del 1971
e successivamente nella Costituzione bosniaca del 1974. Non poteva
essere altrimenti. Ogni opposizione, come abbiamo visto, fu stron-
cata sul nascere. Il censimento fu uno degli strumenti con cui il go-
verno federale jugoslavo, come nel caso dello stato coloniale otto-
centesco analizzato da Benedict Anderson «generò – inconsapevol-
mente – la grammatica dei nazionalismi che alla fine gli si rivolta-
rono contro per combatterlo»129.
Con la Costituzione del 1974, i musulmani bosniaci avrebbero
potuto esercitare, almeno sul piano formale, alcune funzioni politico-
giuridiche, tra cui la sovranità territoriale, il diritto all’indipendenza
o alla secessione, essendo queste alcune delle prerogative riservate alle
nazioni costituenti della Repubblica socialista federativa di Jugosla-
via130.
Sulla base di tali diritti, il 25 gennaio 1992, la Presidenza della Bo-

128
S. P. Ramet, op. cit., p. 212.
129
B. Anderson, Immagined comunities. Refelctions on the Origin and Spread of
Nationalism, Verso, London-New York, 1983, 2nd edition, 1991 (ed. it. Comunità
immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Laterza, Bari-Roma, 2018, p. 5).
130
M. Snježana, Narodnost u popisimia. Promjenljiva i nestalna kategorija, Bi-
blid, 0038-982X 1-4, pp. 77-103, p. 82.

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Immaginare la Nazione 193

snia-Erzegovina, dinanzi agli imprevedibili sviluppi della pericolosa


crisi che si era aperta l’anno precedente con la dichiarazione d’indi-
pendenza della Slovenia e della Croazia, invitò l’Assemblea parla-
mentare a organizzare un referendum, per riaffermare la sovranità del
Paese e, allo stesso tempo, vagliare la possibilità di dichiarare l’indi-
pendenza da ciò che restava della Repubblica Socialista Federativa di
Jugoslavia. Il 29 febbraio e il primo marzo 1992, quasi due milioni
di cittadini (il 63.4 per cento dell’intera popolazione), su un totale di
circa 3.15 milioni di aventi diritto al voto, si recarono alle urne. Gran
parte dei serbi di Bosnia, su invito del Partito democratico serbo (Sr-
pska Demokratska Stranka), non prese parte alle votazioni, in quanto
considerava il referendum «un atto illegale e illegittimo»131. Il 99.7 per
cento, 1.986.202 cittadini, in larga maggioranza di nazionalità musul-
mana e croata, votarono per la sovranità e l’indipendenza della Bo-
snia-Erzegovina. Fu l’inizio del secondo atto della guerra civile in
Bosnia-Erzegovina, a distanza di quasi mezzo secolo dal precedente
conflitto.

131
The referendum on Indipendence in Bosnia-Herzegovina, February 29-March
1, 1992, Commission on Security and Cooperation in Europe, 102nd Congress, Ist
Session, p. 10.

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Lorenzo Venuti
LE ASSOCIAZIONI CALCISTICHE EBREE
COME FENOMENO TRANSNAZIONALE
DOPO LA DISGREGAZIONE DELL’IMPERO
AUSTRO-UNGARICO: I CASI DEL MAKKABI BRUNN
E DELL’HAKOAH VIENNA (1918-1925)

1. Premessa. – Nell’aprile del 1882 la scomparsa di una giovane


ragazza, Eszeter Solymosi, presso Tiszaeszlár, nell’Ungheria centro-
orientale, portò quindici esponenti della locale comunità ebraica ad
essere accusati di omicidio rituale, pur in assenza di prove concrete.
Malgrado l’epilogo positivo – l’assoluzione grazie alla difesa del ce-
lebre avvocato Károly Eötvös1 – l’episodio segnava il riacuirsi del-
l’antisemitismo nel Regno di Santo Stefano, interruzione di un lungo
processo di assimilazione che aveva investito buona parte della co-
munità ebraica. Un percorso lento e scandito da iniziative legislative,
inaugurato da Giuseppe II (1790)2, proseguito con le effimere con-
quiste della Rivoluzione del 18483, e poi definitivamente sdoganato
dal governo di Ferenc József Andrássy4.
La stagnazione economica provocata dal crollo della borsa di Vienna
(1873)5, aveva alimentato nel decennio precedente i fatti di Tiszae-
szlár una efficace retorica antisemita, che finì per condensarsi nel-

1
Cfr. A. Handler, Blood libel at Tiszaeszlar, Columbia UP, Boulder, 1980.
2
J. Katz, From prejudice to destruction. Anti-Semitism, 1700-1933, Harvard UP,
Cambridge, 1980, p. 55.
3
Sui limiti mostrati dalla Rivoluzione del 1848 nei confronti degli ebrei cfr. G.
Barany, Magyar Jew or Jewish Magyar? Reflections on the question of assimilation,
in B. Vago, G.L. Mosse (ed by), Jews and non-jews in Eastern Europe, Israel UP,
New York-Toronto, 1974.
4
J. Katz, From prejudice to destruction, cit., p. 230.
5
Sulla crisi cfr. I. T. Berend, Storia economica dell’Ungheria dal 1848 ad oggi,
Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 24.

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196 Lorenzo Venuti

l’Országos Antiszemita Párt (Partito nazionale antisemita) di Gyözö


Istóczy (1883)6.
I limiti mostrati dalla via assimilazionista, resi ancora più evidenti
dopo l’affaire Dreyfus (1894-1906), spinsero diversi ebrei di origine
magiara a dare una nuova risposta ai problemi ebraici: il sionismo
politico. La necessità cioè, della fondazione di uno stato per gli ebrei.
Esattamente come il progetto sionista prevedeva la rigenerazione
del popolo ebraico, attraverso la costituzione di uno stato moderno,
uno dei suoi maggiori teorici Max Nordau, argomentò che era ne-
cessario anche un nuovo tipo di ebreo, rigenerato nel corpo. Arri-
vando dunque a teorizzare il muskeljudentum, l’ebraismo muscolare.

2. Un ebreo muscoloso? – Le associazioni ginniche e sportive rap-


presentarono per la causa ebrea elementi di grande interesse, stru-
menti necessari per la formazione e la preparazione di una gioventù
pioniera, condizione basilare per la costituzione di uno stato ebraico.
Al contempo l’attività fisica avrebbe potuto, nel breve periodo, met-
tere in competizione i giovani ebrei con i gentili, mostrando l’artifi-
cialità della retorica antisemita7. Il secondo punto era centrale nel pen-
siero del medico magiaro Henrik Schuschnyi, che nel 1895 pose, sulla
rivista «Izraelita Magyar Irodalmi Társulat», l’accento sulla necessità
di un rinnovamento fisico per gli ebrei, argomentando che attraverso
la competizione questi potevano togliere ai gentili uno degli stereo-
tipi più diffusi8.
L’idea della formazione di una gioventù pioniera è invece centrale
nel concetto di muskeljudentum, teorizzato da Max Nordau, nato Si-
mon Maximilian Südfeld. Medico di origini ungheresi, cresciuto a
Vienna e vissuto soprattutto a Parigi, Nordau aveva tutti i connotati
dell’ebreo integrato e cosmopolita di fine Ottocento: poliglotta, so-
stenitore dell’assimilazione, pur contrario allo Spiessbürger, il piccolo
borghese ebreo senza scrupoli, sostanzialmente ostile alla religione. Il
caso Deyfrus prima e il contatto con Theodor Herzel poi, lo con-

6
Su Istóczy e la sua figura cfr. A. Handler, An Early Blueprint for Zionism.
Gyızı Istóczy’s Political Antisemitism, Columbia UP, Boulder, 1989.
7
V. Pinto, Un ebreo nuovo. Alle origini del sionismo (1881-1920), Free ebrei,
Torino, 2017, p. 78.
8
S. A. Riess, Antisemitism and sport in Central Europe and United States c.
1870-1932, in L.J. Greenspoon (ed.), Jews in the Gym: Judaism, Sports and Athle-
tics, Perdue UP, West Lafayette, 2012, p. 107.

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Le associazioni calcistiche ebree 197

vinsero della bontà del progetto sionista9, rendendolo un fedele so-


stenitore del connazionale.
Del resto, lo stesso sionismo politico era un fenomeno moderno, as-
solutamente diverso dall’ortodossia, osteggiata dal medico magiaro: rap-
presentava anzi il superamento di una fede millenaristica, con la defini-
tiva affermazione della stirpe di Sem, protagonista, senza aiuto divino10.
Per utilizzare le parole dello stesso Nordau:
…il nome di sionismo politico, differisce dall’antico sionismo religioso e
messianico in quanto rifiuta ogni misticismo in quanto non s’identifica
più col messianismo e non attende il ritorno in Palestina dal miracolo
ma vuol prepararlo con i propri sforzi11

Per fondare il nuovo stato era però prima di tutto necessario un


nuovo popolo, che al talmud judentum sostituisse un muskeljuden-
tum. Durante il II congresso sionista di Basilea (1898) il medico ma-
giaro rimarcò l’importanza degli esercizi fisici, invitando i propri udi-
tori all’allenamento del corpo attraverso la ginnastica, per contrastare
i pregiudizi antisemiti e preparare una generazione di pionieri pronta
a colonizzare il nuovo stato. Un vero e proprio ebraismo dei mu-
scoli, come affermò nel suo discorso:
Qui si promuove l’idea di coltivare un ebraismo dei muscoli. […] Ogni
associazione sionistica deve sviluppare una propria sezione ginnica che
incoraggi il perfezionamento corporale12

L’esempio elogiato da Nordau era quello della Bar Kochba, se-


zione sportiva nata nel 1898 a Berlino: un’associazione che promuo-
veva l’attività fisica e richiamava, attraverso il nome, la tradizione e
l’identità ebraica. Un modello certamente influenzato dai due movi-
menti ginnici sorti nell’Europa centrale nel periodo, quello dei Sokol
slavi e dei Turner tedeschi13.

9
Cfr. R. S. Wistrich, Max Nordau and the Dreyfus Affair, in The Journal of
Israeli History, vol. 16 (1995), n. 1, pp. 1-17.
10
Cfr. V. Pinto, Un ebreo nuovo, cit., p. 72.
11
Discorso di Nordau al congresso di Basilea (1902), cit. da A. Marzano, Sto-
ria dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci, Roma, 2017, p. 45.
12
Cit. da V. Pinto, Un ebreo nuovo, cit., p. 76. In generale sul pensiero di Nor-
dau e sul muskeljudentum cfr. T. D. Presner, Muscular Judaism. The Jewish body
and the politics of regeneration, Routledge, London-New York, 2007.
13
Sul Turner cfr. G. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo poli-

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198 Lorenzo Venuti

Per incentivare e diffondere la pratica della ginnastica sorse anche


una rivista ispirata ai principi di Nordau, «Die Jüdische Turnzeitung»,
organo ufficiale della Bar Kochba di Berlino. Questa si proponeva in
primo luogo di far riconquistare vigore ai corpi degli ebrei, auspi-
cando che questi si preparassero per affrontare con coraggio ed ener-
gia gli antisemiti14. Con una certa soddisfazione, già nel 1903, gli au-
tori della rivista asserirono di un deciso aumento nel numero delle
associazioni ebraiche, proponendosi di continuare ad incentivare l’at-
tività fisica, anche attraverso ricostruzioni storiche, e contributi scien-
tifici15.
Se nel pensiero di Nordau la ginnastica – e non lo sport – avrebbe
scolpito il corpo degli ebrei europei, nella pratica le cose andarono
in modo diverso.
Quelle stesse associazioni ebree che avevano inizialmente incenti-
vato esclusivamente la pratica atletica e ginnica, dopo pochi anni si
aprirono anche ai nuovi sport inglesi, formando, oltre a grandi gin-
nasti, anche giovani calciatori. Un’evoluzione non solo sconsigliata,
ma ritenuta persino dannosa da Nordau16.
Allo stesso modo l’attività sportiva divenne nella pratica veicolo
più di integrazione che di sionismo, con atleti ebrei che andarono ad
integrarsi perfettamente nel contesto sportivo venutosi a creare. Un
fenomeno particolarmente evidente in Ungheria, dove la comunità
ebraica cittadina, che spesso si avvertiva come integrata nel tessuto
sociale, non aveva che un’aderenza superficiale ai valori sionisti. Del
resto, come aveva sostenuto lo stesso Nordau, il paese danubiano era
il “ramo secco del sionismo”17.

3. Associazioni sportive nel Regno di Santo Stefano. – La fonda-


zione di circoli e di associazioni sportive ebree fu particolarmente

tico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), il Mulino, Bologna, 2009, pp.


190-197 (ed. or. 1975). Sui Sokol cfr. C. E. Nolte, The Sokol in the Czech Lands to
1914. Training for the Nation, Palgrave Macmillan, Houndmils, 2002.
14
Cfr. T. S. Presner, Muscular Judaism, cit., pp.122-123.
15
Id, Clear Heads, Solid Stomachs, and Hard Muscles: Max Nordau and the Ae-
sthetics of Jewish Regeneration in Modernism/modernity, vol. 10 (2003), n. 2, p. 283.
16
G.L. Mosse, Max Nordau, Liberalism and the New Jew, in Journal of Con-
temporary History, 1992, p. 569.
17
L. Karsai, Dall’emancipazione fino allo sterminio della gente. Questione ebraica
in Ungheria tra il 1867 e il 1945, in Rivista di studi ungheresi, vol. 12 (1997), n. 1,
pp. 64-65.

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Le associazioni calcistiche ebree 199

prolifica nel Regno d’Ungheria, dove la popolazione di fede israelita


era cresciuta numericamente lungo tutto il XVIII secolo, con una
particolare accelerazione dopo l’Ausgleich - kiegyezés del 1867.
Se a metà ’700 la popolazione ebraica era stimata in circa 12.000
elementi, durante l’Ottocento questa era almeno decuplicata, per ar-
rivare ad inizio Novecento oltre le 900.000 unità, concentrate perlo-
più a Budapest, ribattezzata in modo sprezzante «Judapest» dagli an-
tisemiti austriaci18. I giovani ebrei ungheresi, spesso figli di immigrati
provenienti dai territori orientali, sfruttarono a pieno il potenziale as-
sociativo dei nuovi sport, mezzi di aggregazione e di integrazione,
collante per costruire reti e legami nel nuovo contesto moderno-cit-
tadino19.
Non che lo sport, o in generale l’attività fisica, fosse isolata dalla
realtà circostante. A fine secolo, la crescente ostilità antisemita si ma-
nifestò anche nell’universo associativo quando la MAC, (Magyar Atlé-
tikái Club, Club di atletica magiaro), il principale centro sportivo di
Budapest, bandì gli ebrei dalle proprie fila, riservando la partecipa-
zione solo ai “veri ungheresi”. In risposta a questa prevaricazione,
nel 1888, la comunità ebraica fondò la MTK (Magyar Testnevelók
Köre, Circolo educazione fisica ungherese), centro prevalentemente
ebraico, ma in realtà aperto a chiunque volesse praticare l’attività gin-
nica. Una natura inclusiva, segnalata anche dalla stessa presenza del-
l’aggettivo magyar (magiaro, ungherese) nel nome, indice di un’auto-
rappresentazione profondamente connessa a valori patriottici. Del re-
sto, all’attività ginnica e atletica si affiancò ben presto quella calci-
stica, con una formazione capace di vincere tre titoli nazionali prima
dello scoppio della Prima guerra mondiale, quindi di aggiungervi al-
tri nove successi consecutivi fra il 1916 e il 1925.
Non vi sono certezze sulle modalità di diffusione del calcio nei
territori della corona di Santo Stefano, e il merito dell’introduzione
dello sport viene solitamente ricondotta a singoli personaggi legati al
contesto inglese. Malgrado la prima partita ufficiale sia stata giocata

18
A. Geró, Német-osztrák identitás a századforduló Monarchiában, in H. Z.
Biró, T. P. Nagy (cur.), Zsidóság - tradicionalitás és modernitás. Tisztelgö kötet
Karády Viktor 75. születésnapja alkalmából, Wesley Jubileumi Kötetek, Budapest,
2012, p. 505.
19
Questo è il caso, ad esempio, del celebre giocatore e poi allenatore Béla Gutt-
mann, cfr. D. Bolchover, The Greatest Comeback: From Genocide to Football Glory.
The Story of Béla Guttman, Biteback Publishing, London, 2017.

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200 Lorenzo Venuti

solo nel 1896 fra gli atleti della MAC e della BTC (Budapest Torna
Club, club ginnico di Budapest)20, la popolarità del pallone doveva
già essere ampia, considerando il fatto che la prima proposta di ban-
dire il gioco arrivò ad inizio Novecento21. L’intensa rivalità fra le
squadre e la dimensione internazionale raggiunta immediatamente
(1897) portarono all’organizzazione di una Federazione calcistica ma-
giara (MLSz, Magyar Labdarúgó Szövetség) e di un campionato di
Budapest (1901). Competizione alla quale la MTK prese regolarmente
parte dal 1903.
L’identificazione dei principali grund, i terreni dove i giovani gioca-
vano al popolare sport, proprio nei quartieri attorno alla sinagoga, fa-
vorì innegabilmente la componente, numericamente sopra rappresentata
nel nascente mondo del pallone magiaro22. Uno sviluppo che provocò
un’abbondanza di talenti ebrei, di fatto protagonisti del campionato e
della nazionale di Budapest, che fra il 1900 e il 1918 vide trenta gioca-
tori ungheresi “di fede israelita” vestire la maglia della Válogatott23.
Nella fase finale dell’Ottocento vide la luce in Ungheria anche il
primo club espressamente sionista, la VAC (Vívó és Atlétikai Club,
associazione di scherma e atletica) fondata da Lajos Döményi (1898).
Malgrado il club non avesse né i colori, né una denominazione che
richiamasse alla tradizione biblica24, aveva un sistema di riferimento
valoriale ben diverso dalla MTK come risulta dal diverso modo di
incitare gli atleti da parte dei tifosi: al grido dei secondi «forza un-
gheresi!», i primi replicavano con «avanti israeliani»25.
Malgrado il caso della VAC di Budapest sia poco noto fuori dal-
l’Ungheria, il suo contributo all’emergere di uno sport sionista fu cer-
tamente decisivo26. Ad esempio, fu proprio la formazione magiara ad
ispirare la nascita dell’Hakoah Vienna, dopo una partita giocata da-
gli ungheresi nella capitale imperiale contro la Vienna Cricket und

20
Ivi, p. 28.
21
P. Szegedi, Az elsö Aranykor. A magyar foci a 1945-ig, Akadémia Kiadó, Bu-
dapest, 2016, p. 145.
22
A. Handler, From the Ghetto to the games. Jewish athletes in Hungary, Co-
lumbia UP, New York, 1985, p. 53.
23
Ivi, pp. 51-55.
24
M. Kálmán, Cutting the Way into the Nation: Hungarian Jewish Olympians
in the Interwar Era, cit., p. 131.
25
P. Szegedi, A cionizmustól a futballgazdaságig. A Makkabi Brno az elsö vilá-
gháború után, in Múlt és, p. 70.
26
A. Handler, From the Ghetto to the games, cit., p. 43.

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Le associazioni calcistiche ebree 201

Football Club27. L’Hakoah divenne poi un’associazione che oltrepas-


sava la dimensione sportiva; un vero e proprio centro di socializza-
zione, come dimostrava la presenza di un’orchestra di ballo, e una
forte apertura al genere femminile28. Insomma, un vero e proprio
esempio da seguire per quelle associazioni ebree che volevano allar-
garsi attraverso la creazione di una sezione sportiva.
Per quanto il fenomeno raggiunse l’apice dopo la Prima guerra
mondiale, già prima del conflitto si erano diffuse associazioni del ge-
nere in buona parte dell’Impero, con la fondazione dell’Hagibor Praha
(1912), l’Hakoah Olomuc (1912) e la Makkabea Pozsonyi (1914).

4. L’esplosione del fenomeno. – Il sociologo Péter Szegedi, notando


il consistente incremento numerico delle associazioni ebree con una
sezione sportiva dopo la Prima guerra mondiale, ha ipotizzato che il
fenomeno fosse connesso alla dissoluzione dell’Impero degli Asburgo.
Nella lettura di Szegedi, la perdita delle certezze imperiali si univa al
nuovo clima nazionalistico degli stati successori, che spinse gli ebrei
verso l’associazionismo29. Del resto, lo stesso presidente e fondatore
dell’Hakoah Vienna rivendicò in un’intervista del 1926 che l’attività
dell’associazione era ripresa dopo il conflitto soprattutto per via dei
continui attacchi antisemiti avvenuti a Vienna30.
Secondo lo storico Michael Brenner l’aumento dell’associazioni-
smo ebraico risiederebbe invece nella dichiarazione di Balfour (1917),
che avrebbe imposto un ripensamento delle comunità nell’ottica di
una gegenwartsarbeit. Insomma, un’unione ben più radicata nel con-
testo sociale e identitario rispetto a quelle antecedenti il conflitto31.
Ad ogni modo, rimane il dato: il numero delle associazioni ispi-
rate ai principi del sionismo crebbe esponenzialmente in tutto l’areale
del vecchio Impero, specialmente nella metà orientale. Ad esempio,
associazioni del genere furono fondate a Cluj, Novi Sad, Debrecen,

27
Cfr. S. A. Riess, Antisemitism and sport in Central Europe, cit., p. 104 e J. S.
Gurock, Pride and Priorities: American Jewry’s Response to Hakoah Vienna’s U.S.
Tour of 1926, in E. Mendelsohn (ed. by), Jews and the sporting life, Oxford UP,
New York, 2008, p. 19.
28
W. D. Bowman, Hakoah Vienna and the International Nature of Interwar
Austrian Sports, in Central European History, vol. 44 (2011), n. 4, pp. 642-668.
29
P. Szegedi, A cionizmustól a futballgazdaságig, cit., p. 70.
30
I. H. Koerner, How the Hakoah was Founded, in The Sentinel, 11 giugno
1926.
31
M. Brenner, Breve storia degli ebrei, Donzelli, Roma, 2008, p. 248.

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202 Lorenzo Venuti

Cracovia, Timișoara, Oradea, Sighetu Marmat.iei e Brno. Tutti centri


dotati di una sezione calcistica, che si intratteneva in lunghe tournée
dove si confrontava con le squadre gentili, o con quelle delle altre
associazioni sionistiche.
Compagini distinte sotto il profilo dei risultati sportivi e di im-
portanza, ma legate da un filo comune nel richiamo all’identità reli-
giosa. Spesso contraddistinte dai colori bianco-blu, dalla stella di Da-
vid sulla divisa e da un nome che richiamava la tradizione biblica.
Partiamo dall’analisi del nome. Questo spesso era legato a simboli
di coraggio, di virilità e di forza, come nel caso del Maccabi (o
Makkabi/Makkabea), che stava ad indicare l’appartenenza ai macca-
bei. Associazioni con questa denominazione furono fondate – per no-
minare solo i centri maggiori – a Bratislava, Brno, Cernăut.i, Košice
e Zagabria. Molto diffuso anche Hagibor, “l’eroe”, presente a Cluj,
Cracovia Praga e Plzeň; mentre erano contraddistinte dal nome Hakoah,
“la forza”, le associazioni di Vienna, Arad, Granz e Olomuc. Meno
frequenti le associazioni che portavano il nome Kadima “avanti”
(Târgu Mures e Timis.oara) e Sámason, derivazione magiara da Sem
(Sighetu Marmat.iei).
L’aumento delle associazioni – con sezioni sportive – si verificò
anche all’esterno dell’areale del vecchio Impero, con la creazione della
Maccabi Bucarest, dell’Hakoah Berlino, dell’Hakoah Łódz e della
Maccabi Varsavia32.
Se è vero che alla base delle formazioni vi era una precisa iden-
tità, è da tenere presente che la vocazione spettacolare di alcuni di
questi sport, e in particolare del calcio, trasformarono le frequenti
tournée in lucrose imprese commerciali. Da un lato necessarie, per-
ché permettevano alle associazioni di intraprendere azioni di aiuto e
assistenza ai soci delle stesse, ma dall’altro, finirono per alimentare
un processo di professionalizzazione – informale – degli atleti. Un
business che spinse alcune squadre a rinnegare i propri principi, o al-
meno a metterli seriamente in discussione. Un fenomeno particolar-
mente evidente in due delle formazioni più importanti del periodo:
l’Hakoah Vienna e la Makkabi Brünn (Maccabi Brno).

5. L’apice del calcio ebreo: l’Hakoah Vienna. – Sotto molti punti


di vista l’Hakoah Vienna rappresentò l’esempio perfetto dell’associa-

32
Sul caso polacco cfr. D. Blecking, Jews and Sports in Poland before the Se-
cond World War, cit., pp. 19-24.

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Le associazioni calcistiche ebree 203

zione sionista con una forte sezione sportiva. Secondo il presidente


e fondatore Ignaz H. Körner (o Koerner), di origini magiare, il cen-
tro era stato fondato per coltivare l’educazione fisica degli ebrei e
contrastare la loro degenerazione, rendendoli meno vulnerabili di
fronte agli attacchi antisemiti, riscattando l’esclusione che avevano su-
bito nei club “ariani”33.
Dato che non esisteva nessun campionato nazionale, come nel re-
sto del continente, la formazione di calcio militò regolarmente nelle
serie minori del torneo cittadino finché, nel 1920, non approdò alla
prima serie. Il successo sportivo esaltò il club che fu capace di man-
tenere una forte identità ebraica, sebbene alcuni allenatori di altri sport
praticati nel centro fossero in realtà cristiani34. Un’identità forte, ca-
pace al contempo di attrarre anche diverse antipatie, dato che gli in-
contri calcistici della formazione furono spesso sospesi per via di in-
cidenti antisemiti negli anni Venti35.
Con l’approdo alla massima serie il club si rafforzò ulteriormente
incentivando l’arrivo di molti talenti sportivi ebrei dalla vicina Un-
gheria. Del resto, la difficile situazione economica magiara si univa
al forte antisemitismo del nuovo corso di Budapest inaugurato dal-
l’Ammiraglio Horthy36; non fu quindi difficile per diversi calciatori
scegliere di trasferirsi nella capitale austriaca, meta tradizionale della
migrazione degli ebrei ungheresi.
Stelle della Hakoah erano, ad esempio, Béla Guttmann, Alexan-
dre Fabian, Ernı Schwarz, e Alex Neufeld (meglio conosciuto come
Sándor Nemes): tutti di origine magiara. Un flusso di grandi gioca-
tori, che permise all’Hakoah di divenire una vera e propria attrazione,
capace di attrarre enormi folle in lunghe tournée.
Se in questa fase la formazione era solo una delle tante compa-
gini danubiane che dominavano il gioco continentale, il 1923 rappre-
sentò l’anno della svolta. La compagine con la stella di David e la
divisa bianco-blu, fu infatti la prima a battere una formazione pro-
fessionistica inglese, anzi, ad umiliarla, infliggendo al West United

33
I. H. Koerner, How the Hakoah was Founded, cit.
34
J. Bunzl, Hakoah Vienna: Reflections on a Legend, in M. Brenner, G. Reu-
veni (ed.), Emancipation through muscles. Jews and sports in Europe, University of
Nebraska Press, Lincoln-London, 2006, pp. 108-109.
35
S. A. Riess, Antisemitism and sport in Central Europe, cit., p. 105.
36
Su questo cfr. T. Stark, La legislazione antiebraica in Ungheria dal 1920 al
1944, in A. Capelli, R. Broggini (cur.), Antisemitismo in Europa negli anni Trenta.
Legislazioni a confronto, FrancoAngeli, Milano, 2001.

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204 Lorenzo Venuti

Team un pesantissimo 5-0. L’episodio ebbe un’eco vastissima in tutta


Europa, alimentando il mito dell’Hakoah e contrastando quello del-
l’ebreo ingobbito e inadatto all’attività fisica. Nelle sue memorie gio-
vanili, Edmund Schechter, poi diplomatico americano scrisse persino:
Ogni vittoria dell’Hakoah diventa un’altra piccola prova che il tempo
dell’inferiorità fisica degli ebrei è arrivata alla fine37

Insomma, l’Hakoah diventava simbolo della parità ebrea rispetto


ai gentili, capace di mettere d’accordo assimilazionisti e sionisti, en-
trambi presenti alle partite della formazione38.
Nel 1925 la squadra sionista riuscì ad imporsi nel campionato au-
striaco, passato l’anno prima al professionismo, vincendo per la prima
(e unica) volta il titolo. Nel 1926 la formazione fu persino invitata
per una tournée negli Stati Uniti, dove, in un crescendo di entusia-
smo, venne accolta da oltre 46.000 persone alla prima partita al Polo
grounds di New York. Una vera e propria occasione per gli ebrei
statunitensi di veder comprovata la loro prestanza fisica, smentendo
le tesi che Maurice Samuel qualche anno prima aveva espresso in You
Gentiles, su un’irriducibile differenza fra ebrei e cristiani39.
La squadra fu ricevuta con tutti gli onori sia dal sindaco di New
York James J. Walker che dal Presidente degli Stati Uniti Calvin Coo-
lidge, che lamentò persino la mancanza di una partita a Washington40.
I giornali ebrei negli USA lusingarono la compagine per tutto il pe-
riodo della tournée indicando come, grazie all’esempio dell’Hakoah,
era ormai chiaro che gli ebrei potevano giocare alla pari contro i gen-
tili.
Il tour statunitense fu dunque punto più alto, ma anche l’iniziò
della fine della grande Hakoah. Buona parte dei giocatori ebrei de-
cise infatti di rimanere negli USA, in due formazioni nate proprio
dall’esempio viennese: la Brooklyn Hakoah e la New York Hakoah,
fusesi dopo pochi anni nell’Hakoah All-Star.
Il «New York Herald Tribune» arrivò persino ad ipotizzare che
il tour dell’Hakoah potesse segnare l’inizio della conquista del con-

37
Cit. da F. Foer, How Soccer Explains the World, HarperCollins, New York,
2004, p. 73.
38
A. Riess, Antisemitism and sport in Central Europe, cit., p. 106.
39
J. S. Gurock, Pride and Priorities, cit., p. 79.
40
Ibid.

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Le associazioni calcistiche ebree 205

tinente nordamericano da parte del pallone di cuoio; ipotesi affasci-


nante, ma tramontata a causa delle crescenti difficoltà economiche
scatenate dalla crisi del ’29. L’Hakoah americana sopravvisse solo
qualche stagione, finché, nel 1932, si disciolse.
Malgrado Franklin Foer abbia ipotizzato che il motivo del trasfe-
rimento dei giocatori danubiani nel nuovo mondo sia dovuto all’as-
senza di antisemitismo sul continente41, la spiegazione lascia un po’
perplessi. Più che l’assenza di discriminazioni, guardando la carriera
sportiva di alcuni giocatori, come Alex Neufeld e Béla Guttmann, si
potrebbe ipotizzare motivazioni meno nobili, legate alla possibilità di
percepire migliori compensi. In questo caso si potrebbe parlare di un
vero e proprio professionismo, ovvero, la scelta dei giocatori sarebbe
dipesa più dal contratto di lavoro, che non da ragioni ideologico/sio-
nistiche42.
Privata dei principali atleti la formazione di Vienna si ritrovò a
galleggiare fra la prima e le serie minori finché l’anschluss portò alla
dissoluzione della formazione43.

6. Impresa economica o radici identitarie? – Se nel caso dell’Hakoah


Vienna il club seppe sempre mantenere un equilibrio fra identità
ebraica e impresa economica, almeno all’interno dell’associazione,
stessa cosa non si può dire di un’altra squadra ebraica del periodo,
il Makkabi Brünn (o Maccabi Brno).
La città della Moravia, celebre per la sua industria tessile, si di-
stingueva anche sotto il profilo sportivo/calcistico, con diverse squa-
dre che militavano nei vari campionati del neonato stato Cecoslo-
vacco. Al contrario di quello che accadeva negli altri stati, dove il
principio seguito per l’organizzazione dei vari tornei calcistici era ter-
ritoriale, nel nuovo stato di Praga il principio era invece etnico, con
la creazione di diverse leghe parallele, sotto un unico ČSAF (Česko-
slovenská asociace fotbalová, Associazione calcistica cecoslovacca)44.
Dunque, le varie formazioni si dividevano secondo il principio et-

41
F. Foer, How Soccer, cit., p. 75.
42
Cfr. D. Bowman, Hakoah Vienna, cit., p. 653.
43
In generale sul rapporto fra Regime nazista e paesi occupati sul piano calci-
stico cfr. R. Oswald, Nazi Ideology and the End of Central European Soccer Pro-
fessionalism, 1938-1941, in M. Brenner, G. Reuveni (ed.), Emancipation through mu-
scles, cit., pp. 156-168.
44
P. Bučka, From the history of football of Slovak population of Hungarian na-
tionality, in Hadtudományi szemle, vol. 7 (2014), n. 2, pp. 10-15.

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206 Lorenzo Venuti

nico-linguistico, e le associazioni ebree in particolare erano raccolte


nella Kuwucas Mesehakej Kadúr Regel Jehudit (lega calcistica ebrea).
Naturale che in città vi fossero diverse formazioni, ognuna delle quali
militante in un diverso torneo, come la morava Židenice Brno, ma
anche il Vorwärts Brünn, e il Moravska Slavia Brno45.
In questo contesto la ricca borghesia ebraica vide nel pallone un
interessante veicolo di affari, mentre la difficile situazione economica
della vicina Ungheria rendeva particolarmente vantaggiosa l’acquisi-
zione di giocatori magiari, come dimostrava l’alto numero di atleti
rimasti nelle Felvidék, dopo le tournée del Ferencváros e della MTK
nel 191946.
Si andò così a formare la Makkabi Brünn, teoricamente apparte-
nente all’universo delle squadre sioniste, ma decisamente meno ligia
sul piano religioso rispetto all’Hakoah. Come ha scritto il celebre
storico Paul Dieschy nella sua Storia del calcio, pur ribattezzando la
formazione ZK Zidenice, questa era una squadra di professionisti ante
litteram, che giocava praticamente solo remunerative amichevoli, di-
sdegnando i campionati locali47.
La squadra acquisì una certa notorietà nel 1921, superando la ben
più qualificata Pozsony Makkabi, compagine ebrea di Bratislava, ma
già da queste prime occasioni è evidente che la formazione non avesse
alcun radicamento territoriale. Degli undici giocatori scesi in campo,
ben cinque erano di Budapest, tre di Vienna, due di Prostjov e uno
di Praga48.
Nel 1922 la squadra fece il definitivo salto di qualità con l’acqui-
sto di Gyula Fedmann dalla MTK, assegnandogli il ruolo di allena-
tore-giocatore, mentre poco dopo approdò in Moravia anche Rezsö
Nikolsburger dal Ferencváros, seguito da Ferenc Hirzer, Árpád Weisz
e Árpád Hajós49. Un traffico profondamente inviso a Budapest, dove
si accusava la squadra cecoslovacca di fare incetta di giocatori che
avrebbero dovuto portare gloria all’Ungheria, tentandoli attraverso
forti somme di denaro.
Un atteggiamento chiaro nel novembre del 1923, quando, in se-

45
P. Szegedi, A cionizmustól a futballgazdaságig, cit., p. 71.
46
Ibid.
47
P. Dietschy, Storia del calcio, Paginauno, Vadano al Lambro, 2014, p. 137.
48
P. Szegedi, A cionizmustól a futballgazdaságig, cit., p. 73.
49
Ibid.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Le associazioni calcistiche ebree 207

guito alla rotonda vittoria del Makkabi contro il Rapid Vienna (4-
1), il corriere sportivo «Sporthírlap» scrisse:
Tutti sanno, dovunque giochi il Makkabi, che i membri della squadra
ceco-tedesca sono ungheresi, e che in tedesco o in ceco sanno probabil-
mente solo cosa significa Sokol50.

Anche altri giornali magiari si scagliarono contro la formazione,


come il nazionalista «Magyarság», che accusò i proprietari ebrei di
voler confrontarsi contro i cristiani, ma non avendone le possibilità
si erano ridotti ad acquistare i giocatori ungheresi, facendoli battere
con la stella di David al posto dello scudo di Lajos Kossuth51.
Nella breve storia della formazione calcistica (1921-1924), oltre
quaranta giocatori magiari militarono in Moravia e, cosa assoluta-
mente singolare trattandosi di una formazione “sionista”, anche gio-
catori cristiani. Dal 1923 giocarono nella Makkabi ben quattro gio-
catori non ebrei: Ferenc Hirzer, Zsigmond Vilmos, Árpád Hajós e
Gábor Obitz52; chiaramente in veste più di professionisti, che di so-
stenitori del sionismo.
In un articolo del febbraio 1923 il «Nemzeti Sport», riportò i lauti
stipendi che i giocatori incassavano, parlando di un monte ingaggi
complessivo di oltre 15.000 corone mensili, di cui 3.500 solo Feld-
man, 2.000 Obitz e 1.500 Weisz. Un articolo scritto con un linguag-
gio indignato, che lanciava un appello a Praga affinché fosse inter-
rotta questa tratta53.
Le imprese sportive della Makkabi erano certamente meno sen-
sazionali di quelle dell’Hakoah Vienna, ma la compagine di Brno si
trasformò in una vera e propria macchina da tournée, con 47 partite
giocate nel 1923, fra Italia, Spagna, Cecoslovacchia e Austria. Ad
esempio, la formazione della Moravia si impose sul Real Madrid con
un secco 3-1, umiliò con un 4-1 i campioni di Austria del Rapid
Vienna, e si impose con un 7-1 sulla terza forza del campionato di
Praga Čehie Karlín54. Persino la nazionale italiana in partenza per le
Olimpiadi del ’24 scelse di testare la propria preparazione contro la

50
A Makkabi teplitzi és bécsi sikere, in Sporthírlap, 15 novembre 1923.
51
A csehek a cionisták ellen, in Magyarság, 21 maggio 1924.
52
P. Szegedi, A cionizmustól a futballgazdaságig, cit., p. 76.
53
A futballváros, in Nemzeti Sport, 12 febbraio 1923.
54
P. Szegedi, A cionizmustól a futballgazdaságig, cit., p. 76.

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208 Lorenzo Venuti

Makkabi impattando per 1-155. Partite particolarmente redditizie, come


dimostra il fatto che in occasione di un match contro il Barcellona
la società incassò 40.000 corone nette, esentate da qualsiasi spesa56.
Proprio il torneo Olimpico del ’24 fu quello che segnò la fine
della fortuna della squadra di Brno. La precoce eliminazione della
nazionale di Praga contro la Svizzera, poi finalista del torneo, mise
infatti in crisi il sistema ceco, spingendo verso una complessiva rior-
ganizzazione del pallone cecoslovacco. La crescente pressione delle
squadre di Praga, e in primis dello Sparta e dello Slavia, portarono
all’adozione del professionismo, ridimensionando il peso delle leghe
etniche e delle squadre provinciali.
In questo contesto, la Makkabi per continuare a militare all’in-
terno di una lega ebraica fu costretta a rinunciare ai giocatori non-
ebrei, di fatto mettendo fine alle ricche tournée che avevano con-
traddistinto la formazione. I giocatori provarono allora a formare una
nuova squadra, la Blue Star tentando di iscriversi al campionato pro-
fessionistico, ma dovettero incassare il rifiuto della Federazione. La
compagine si sciolse, e i giocatori si accasarono fra diverse realtà, al-
cuni all’Hakoah, altri in Italia, mentre qualcuno rientrò in Unghe-
ria57.

7. Epilogo: professionisti del pallone. – All’indomani del crollo del-


l’Impero austro-ungarico, le associazioni ebraiche, e in particolare le
loro sezioni sportive riuscirono a mantenere i collegamenti creati du-
rante il periodo precedente. Gli stati successori finirono per modifi-
care questo disegno, proiettando anche sul piano sportivo la nuova
dimensione statuale, con la formazione dei campionati a girone unico,
che sostituirono i tornei regionali e cittadini. Accanto a questo fe-
nomeno, l’ascesa di una dimensione spettacolare dello sport, creò le
basi per l’instaurazione del professionismo, e di una maggiore rego-
lamentazione della stagione calcistica. Un’evoluzione che lasciò sem-
pre meno spazio per le tournée che mantenevano le formazioni ebree
competitive.
Gli stessi giocatori non esitarono a fare una scelta ben poco sio-
nista, passando ad altre compagini, che potevano garantire agli atleti
lauti stipendi. Private dei loro principali talenti le formazioni furono

55
L’allenamento della squadra nazionale, in Corriere della Sera, 5 maggio 1924.
56
P. Szegedi, Az első, cit., p. 236.
57
Id., A cionizmustól a futballgazdaságig, cit., pp. 77-82.

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Le associazioni calcistiche ebree 209

relegate in leghe minoritarie o in posizioni subordinate, mentre altre


formazioni, con sufficienti capitali e radicamento territoriale erano
chiamate ad assumere il ruolo di difensori dell’orgoglio cittadino nel
campionato nazionale e in qualche caso, persino sul palcoscenico in-
ternazionale. A metà anni ’20 il periodo d’oro delle associazioni cal-
cistiche ebraiche era ormai giunto al termine.

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Alessandro Volpato
LA LEGIONE CECOSLOVACCA IN ITALIA
CONTRO L’AUSTRIA-UNGHERIA:
GENESI, SVILUPPO E CONTRADDIZIONI

1. Premessa. – La Legione Cecoslovacca in Italia ebbe un ruolo


peculiare nel processo di accelerazione della caduta dell’Impero Au-
stro-Ungarico. Composta da disertori e prigionieri dell’esercito asbur-
gico, essa fu il primo esercito nazionale cecoslovacco riconosciuto
senza ancora avere uno stato ed il primo in assoluto delle nazioni
sotto il tallone austro-ungarico.
La Legione si formò tra difficoltà pratiche e resistenze politico-
diplomatiche di parte della classe politica italiana che nutriva dubbi
sulla opportunità della caduta dell’Impero. Con alcuni nuclei già ope-
ranti in via non ufficiale, superate le incertezze governative dopo Ca-
poretto, la Legione si costituì in seguito al Patto di Roma dell’aprile
1918.

2. Aspetti politici e diplomatici. – A differenza delle Legioni Ce-


coslovacche operanti in Russia e in Francia, quella attiva in Italia ri-
vestì un ruolo dal punto di vista politico e diplomatico molto più ri-
levante ai fini della costruzione della Cecoslovacchia indipendente. In
Francia c’era difficoltà a reperire uomini, considerato che l’esercito
austro-ungarico non era di fatto presente sul fronte occidentale, men-
tre in Russia la Pace di Brest-Litovsk impedì ai legionari cechi e slo-
vacchi ivi stanziati di combattere contro gli Imperi Centrali nella fase
finale e decisiva della guerra, rimanendo poi invischiata nelle dina-
miche successive alla Rivoluzione d’Ottobre. In Italia la creazione di
un corpo combattente cospicuo e organizzato formato da prigionieri
e disertori dell’esercito austro-ungarico, che contro quello stesso eser-
cito prendeva le armi, consegnò nelle mani del Consiglio Nazionale
Cecoslovacco con sede a Parigi, organismo composto da fuoriusciti
fautori dell’indipendenza dei popoli ceco e slovacco e successivamente
embrione del governo del nascente stato, una carta di fondamentale

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212 Alessandro Volpato

importanza per la legittimazione internazionale delle aspirazioni in-


dipendentiste cecoslovacche, laddove ancora esistevano resistenze allo
smembramento dell’Impero Asburgico. Infatti, esso venne ben pre-
sto riconosciuto come esercito nazionale cecoslovacco alleato dell’In-
tesa ed emanazione dell’embrione del futuro governo della Cecoslo-
vacchia, autonomo dal punto di vista amministrativo e politico, an-
che se non, ovviamente, da quello militare.
In Italia una parte della classe politica liberale, tra cui il Ministro
degli Esteri Sonnino, avanzava riserve sull’opportunità della creazione
di una legione composta da prigionieri e disertori che rivolgessero le
armi contro l’esercito da cui provenivano. Dal punto di vista strate-
gico, si riteneva che potessero venire lesi gli interessi territoriali ita-
liani in Istria, Dalmazia e nell’Adriatico, poiché lo smembramento
dell’Impero Austro-Ungarico avrebbe potuto aprire la porta alla crea-
zione di un forte stato jugoslavo. Ciò avrebbe, secondo tale ottica,
messo a rischio quanto concordato nel Patto di Londra del 1915.
Inoltre Sonnino riteneva, non a torto, che l’impiego di unità di di-
sertori e prigionieri volontari ne avrebbe messo a rischio la vita in
caso di cattura, poiché secondo i codici militari di guerra sarebbero
stati immediatamente giustiziati, cosa che purtroppo avvenne più volte.
Altresì, il ministro riteneva che tale impiego avrebbe esposto i mili-
tari italiani prigionieri degli austro-ungarici a ritorsioni, considera-
zione pure più che fondata1. Tali resistenze ritardarono di molto la
creazione della Legione Cecoslovacca. Molti prigionieri, autorganiz-
zati da tempo, scalpitavano, il Consiglio Nazionale premeva, la stampa
italiana cominciava ad interessarsi alla questione e ad appoggiare la
causa cecoslovacca (tra gli altri Corriere della Sera, Popolo d’Italia,

1
«Il signor Edvard Beneš Segretario Generale del Consiglio Nazionale dei Paesi
czechi, che ho veduto oggi, mi ha chiesto il consenso del R. Governo di arruolare
i prigionieri di nazionalità czeca che si trovano in Italia per inviarli in Francia a far
parte del corpo separato czeco di cui ha ottenuto la costituzione in Francia. Ho ri-
sposto al signor Beneý che la questione era già stata sollevata altre volte e che ad
essa mi ero recisamente dichiarato contrario, come lo ero tuttora, sia perché ciò non
era conforme alle norme del diritto internazionale, sia perché ci saremmo esposti a
gravi rappresaglie da parte dell’Austria-Ungheria a danno dei soldati italiani che ca-
dessero in suo potere. Il caso della Francia era diverso non avendo essa prigionieri
austro-ungarici né prigionieri propri in mano all’Austria-Ungheria: così quello della
Russia poiché il trattamento reciproco dei prigionieri era già talmente cattivo che
non poteva peggiorare.» In: I Documenti Diplomatici Italiani (DDI), Quinta Serie,
Vol. IX, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1983, T.Gab. R. 167 del 04/09/1917
di Sonnino a Boselli, Orlando, Giardino ed altri, p. 6.

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La Legione Cecoslovacca in Italia contro l’Austria-Ungheria 213

La Voce). Molti intellettuali e giornalisti, liberali, nazionalisti e inter-


ventisti di sinistra pure si interessarono e appoggiarono tale causa
(Bissolati, Salvemini, Ojetti, Amendola, Albertini, Mussolini, Feder-
zoni). Intanto nel gennaio del 1917 venne creato, come costola della
Società Dante Alighieri, il Comitato per l’indipendenza czeco-slo-
vacca, fondato da Pietro Lanza di Scalea e presieduto da Franco Spada.
Di impronta smaccatamente nazionalista, e il cui intento principale
era quello di usare la causa cecoslovacca in funzione antiaustriaca per
favorire gli interessi territoriali italiani dopo lo smembramento del-
l’Impero, essa arrivò a contare 120 sezioni, 57 senatori e 142 depu-
tati, tra cui Benito Mussolini.
Intanto, a livello organizzativo già dal 1916 l’ingegner Karel Ve-
selý, in Italia da anni, era riuscito ad ottenere di aprire un ufficio infor-
mazioni sulla questione cecoslovacca a Roma nonché la promessa di
separare i prigionieri sulla base del principio di nazionalità, cosa che
a poco a poco cominciò ad avvenire. Dalla fine del 1916 i prigionieri
cechi e slovacchi vennero concentrati in massa nel campo di prigio-
nia di Santa Maria Capua Vetere, dove nel gennaio 1917 si autorga-
nizzarono tramite il Československý Dobrovolnický Sbor (Corpo Vo-
lontario Cecoslovacco). Il Consiglio Nazionale, che inizialmente ne
era all’oscuro, successivamente ne prese in mano le redini. Dal feb-
braio dello stesso anno gli ufficiali vennero concentrati nei campi di
Polla e di Finalmarina. Dal marzo a Santa Maria Capua Vetere iniziò
ad uscire il periodico V Boj! (In Battaglia!). Nel luglio 1917, infine,
i prigionieri di Santa Maria Capua Vetere vennero convogliati in massa
nel campo di prigionia allestito nella Certosa di Padula. Se inizial-
mente si riscontrarono poche adesioni al Corpo Volontario Cecoslo-
vacco, successivamente esse aumentarono, tanto che a luglio del 1917
si contavano già 2.000 iscritti. Qui tuttavia entrarono in gioco alcuni
aspetti non secondari: in relazione alle adesioni dei prigionieri e alla
propaganda degli attivisti va detto che dietro un ostentato entusiasmo
esistevano in realtà dinamiche complesse, con adesioni non sempre
realmente volontarie o dettate da schietto patriottismo, spesso condi-
zionate dalle difficili contingenze e dalle pressioni dei compagni di
prigionia che effettuavano opera di propaganda. Vi è riscontro da do-
cumenti d’archivio in corso di analisi da parte chi scrive presso l’Ar-
chivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito2 a Roma

2
Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito (AUSSME), Fondo E5.

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214 Alessandro Volpato

e presso il Vojenský Historický Archiv3 a Praga di rilevanti e diffusi


fenomeni di non adesione e finanche di aperta rivolta avverso un re-
clutamento che sovente solo nominalmente era volontario, ma nella
realtà si traduceva spesso in una coercizione forzata in un clima dif-
fusamente intimidatorio. Di tale clima narra anche il delegato del
Consiglio Nazionale Cecoslovacco nonché futuro primo addetto mi-
litare in Italia Jan Šeba, principale collaboratore di Štefánik per le
questioni italiane4. I numeri dei non volontari sono difficilmente pre-
cisabili con esattezza, ma comunque si tratta di numeri rilevanti, tanto
più che lo stesso Hanzal, tra i narratori «ufficiali» della storia della
Legione, ex legionario egli stesso e poco incline a mettere in luce le
contraddizioni inerenti tali aspetti, riporta una cifra iniziale pari circa
al 60%.5 Le ragioni dei dubbi di molti erano molteplici, come riporta
lo storico militare ceco Josef Fučík, il quale cita anche un documento
parzialmente conservato di ufficiali cechi prigionieri all’Asinara6 che

3
Vojenský Historický Archiv (VHA), Československý Dobrovolnický Sbor Fond.
4
«Accadde una volta, durante una delle mie visite nei campi di prigionia, che in
un campo di concentramento i nostri radicali del Corpo effettuavano un vero e pro-
prio reclutamento militare. Venendo meno al principio della volontarietà, semplice-
mente arruolavano nell’esercito i prigionieri senza riguardo per la loro volontà. Tra-
scinavano quindi gli arruolati al giuramento. C’era un gruppo di non volontari, in
maggioranza slovacchi, che si rifiutavano di andare a giurare. I nostri radicali vole-
vano obbligarli con la violenza fisica. Ero arrivato al campo proprio in quel mo-
mento e il comandante, colonnello Gusberti, mi stava informando di un episodio
che aveva a che fare con le sue istruzioni in merito alla volontarietà. Fermai con la
rivoltella in pugno l’orda dei nostri radicali davanti agli alloggiamenti dove i non
volontari slovacchi, come cristiani nelle catacombe, si erano assembrati e cantavano
una canzone di Natale. Cacciai via i radicali con la minaccia che avrei sparato, e
presi i non volontari sotto la mia protezione, facendoli trasferire in un altro campo
in cui avevamo cinque sezioni e nel quale i nostri emissari-soldati, anche ufficiali,
eseguivano la rieducazione. Nella quinta sezione vi erano gli oppositori dell’esercito.
Nella quarta e nella terza sezione vi erano i prigionieri neutrali, sui quali era con-
centrata la propaganda degli emissari, i quali si accontentavano di essere trasferiti
nella sezione due, nella quale arrivavano quelli che erano d’accordo ad essere inclusi
nelle compagnie di lavoro che costruivano le strade nelle retrovie. Di questi poi quelli
che si decidevano per l’esercito arrivavano alla prima sezione, dalla quale fluiva la
corrente dei volontari.» In, J. Šeba, Paměti legionáře a diplomata [Memorie di un
legionario e diplomatico], Historický Ústav, Praha, 2016, p. 83 (traduzione dal ceco
a cura dell’autore del presente articolo).
5
V. Hanzal, «Boj Piavského praporu a bitva na Doss Altu» [«Il combattimento
del battaglione del Piave e la battaglia di Dosso Alto»], Vojensko-historický sborník,
roč. I, sv. 1, 1932, p. 4.
6
«Nel campo non c’è concordia, e il lavoro di concetto è impossibile, cosicché

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La Legione Cecoslovacca in Italia contro l’Austria-Ungheria 215

descrivevano appunto un clima intimidatorio e si opponevano all’a-


desione: c’era chi era stanco di combattere, chi non riteneva la Le-
gione un mezzo (o comunque non l’unico idoneo) per ottenere l’in-
dipendenza, chi temeva ritorsioni per i familiari in patria, chi riteneva
disdicevole disertare e chi si sentiva comunque cittadino di un im-
pero sovranazionale. Il fenomeno non fu affatto secondario, tanto più
che Beneš dovette diffondere un proclama in cui precisava che l’a-
desione era del tutto volontaria e solamente si chiedeva di non col-
laborare con gli austro-ungarici7. Accanto alle numerose resistenze è
indubbio tuttavia che un sincero entusiasmo animò molti prigionieri,
ed è innegabile che un fenomeno così rilevante e così minuziosamente
organizzato come quello dell’autorganizzato Československý Do-
brovolnický Sbor sarebbe stato impossibile senza un reale e diffuso
sostegno di una parte dei prigionieri e dei disertori alla causa nazio-
nale ceca e slovacca ed alla formazione di una legione combattente
contro l’Austria-Ungheria.

alcuni si registrano [per il lavoro] fuori dal campo per avere pace. La colpa è dei
volontari, che si pongono in maniera aspra nei confronti degli autori dell’appello,
perché hanno opinioni diverse da quelle di coloro i quali, secondo la loro opinione
consolidata, non possono averne di diverse dalla decisione di entrare nell’esercito
ceco. […]. Non siamo di quell’opinione secondo cui l’esercito ceco sarebbe l’unico
strumento per raggiungere gli obiettivi nazionali stabiliti, ma, secondo le parole del
suo ideatore intellettuale, prof. Masaryk, essa deve avere solo uno scopo dimostra-
tivo e non quello di conseguire quella vittoria dell’Intesa che quest’ultima finora non
è riuscita a ottenere.» In J. Fučík, Doss Alto - mýtus a skutečnost. Československá
legie na italské frontě 1918 [Dosso Alto - mito e realtà. La Legione cecoslovacca sul
fronte italiano], Epocha, Praha, 2014, p. 29 (traduzione dal ceco a cura dell’autore
del presente articolo).
7
«Non ci rivolgiamo a voi per invitarvi a chissà quale movimento rivoluziona-
rio. Allo stesso modo neanche ci viene in mente di obbligare nessuno a fare alcun-
ché. Al contrario sottoponiamo a voi l’intera nostra situazione, ponendo l’attenzione
sulla condizione militare degli imperi centrali, sui nostri successi politici e sul no-
stro futuro, nonché sul nostro futuro ritorno in patria. Neppure abbiamo mai co-
stretto nessuno a compiere alcun atto antiaustriaco, alcuna proclamazione o manife-
stazione o a prendere parte al nostro movimento, e neppure, infine, ad entrare nel-
l’esercito dei volontari. Non lo abbiamo fatto e non lo faremo mai. La decisione per
un tale atto è una questione individuale, una questione che riguarda l’amor di pa-
tria di ognuno e una questione che riguarda le proprie condizioni personali. Tutto
quello che chiediamo a voi oggi, in Francia e in Italia, è che nessuno tra di voi la-
vori per l’Austria, non dimostrandosi un buon Ceco nell’anima e nel pensiero.» In,
J. Kretší, Vznik a vývoj československé legie v Itálii [L’origine e lo sviluppo della le-
gione cecoslovacca in Italia], Nákladem vlastním, Praha, 1928, p. 53 (traduzione dal
ceco a cura dell’autore del presente articolo).

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216 Alessandro Volpato

Il Consiglio Nazionale intanto era attivo in Italia soprattutto at-


traverso la figura di Milan Rastislav Štefánik, il quale grazie alle in-
dubbie qualità diplomatiche e relazionali riuscì a creare una rete di
rapporti e a suscitare interesse per la propria causa. Fu spesso in Ita-
lia, più di Beneš, che pure venne più volte incontrando al pari di
Štefánik personaggi politici di livello apicale (primi tra tutti Orlando
e Sonnino), operando da vero regista dell’organizzazione della Le-
gione.
In seguito a Caporetto per ovvie ragioni si andarono repentina-
mente smussando le resistenze di parte della classe politica italiana
allo smembramento dell’Impero Austro-Ungarico e alla formazione
di una Legione Cecoslovacca. Parimenti si andava al contempo deli-
neando in maniera più netta a livello internazionale l’idea della di-
sgregazione dell’Impero asburgico, sia pure ancora con non poche
resistenze nell’ambito dell’Intesa.
Sonnino già dall’estate precedente aveva dato il suo benestare alla
creazione di battaglioni di lavoro cecoslovacchi da non impiegarsi in
azione, e rifiutandosi altresì di cedere i prigionieri alla Francia8, come
aveva chiesto Beneš, per un impiego nella Legione ivi in formazione.
Nel febbraio del 1918 vennero creati alfine questi battaglioni, che ot-
tennero circa 9.000 adesioni. Intanto nel gennaio 1918 era stato creato
il Comitato per l’organizzazione del Congresso delle Nazionalità Op-
presse dall’Austria-Ungheria, che, inizialmente previsto in Francia,
sotto l’egida del deputato liberal-radicale Andrea Torre, sostenuto da-
gli interventisti democratici e non osteggiato dai nazionalisti, si svolse
a Roma nell’aprile del 1918, sancendo il diritto dei popoli soggetti
alla dominazione austro-ungarica alla propria autodeterminazione. Tale
evento fu fondamentale a livello internazionale per il definitivo con-
solidamento dei propositi di disgregazione dell’Impero. Da qui gli
eventi si svolsero repentinamente. A marzo Orlando riunì Diaz, Zu-
pelli e Štefánik e definì i dettagli della creazione della Legione, al cui
comando pochi giorni dopo venne posto il generale Andrea Graziani.

8
«Allo scopo di attrarre verso il nostro paese le simpatie delle popolazioni czeco-
slovacche dell’Austria-Ungheria, proporrei di stabilire […] che siano immediatamente
costituiti reparti czeco-slovacchi in Italia con le limitazioni indicate dal Comando
Supremo, escludendo cioè che possano essere impiegati in combattimenti e che pos-
sano essere arruolati nell’esercito nazionale czeco organizzato in Francia». In: I Do-
cumenti Diplomati ci Italiani (DDI), Quinta Serie, Vol. VIII, Roma, Istituto Poli-
grafico dello Stato, 1980, T. 11822 del 30/08/1917 di Sonnino a Boselli e Giardino,
pp. 681-682.

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La Legione Cecoslovacca in Italia contro l’Austria-Ungheria 217

Il 21 aprile venne firmata da Orlando e Štefánik la Convenzione Italo-


Cecoslovacca, con cui l’Italia per prima riconobbe l’esercito cecoslo-
vacco come esercito nazionale e de facto il Consiglio Nazionale come
embrione del futuro governo della Cecoslovacchia indipendente. A
giugno infine venne stipulata una convenzione complementare per
definire alcuni ambiti di responsabilità e autorità.

3. Organizzazione e impiego. – La Legione Cecoslovacca appena


costituita contava circa 18.000 militari in prevalenza cechi. Gli uffi-
ciali erano cecoslovacchi fino al livello di comando di compagnia e,
per i gradi superiori, italiani. Costituita da due brigate, assunse il
nome di 6a Divisione Cecoslovacca. Le unità vennero inviate in Um-
bria per l’addestramento, con il comando dislocato a Foligno e i re-
parti disseminati a medio raggio nei dintorni.
Una storia inizialmente a parte, e comunque anche in seguito pe-
culiare all’interno della Legione, scrissero gli esploratori cecoslovac-
chi9, già attivi in esigui nuclei a partire dal 1915 sul fronte italiano:
si trattava di disertori e prigionieri che volontariamente e ufficiosa-
mente si offrivano in qualità di informatori e di interpreti negli in-
terrogatori dei prigionieri. In seguito diverrà prevalente l’aspetto pro-
pagandistico della loro azione nei confronti dei connazionali dell’e-
sercito austro-ungarico, nonché l’impiego in qualità di ricognitori-
esploratori ed incursori. Essi, con azioni di piccole pattuglie, effet-
tuavano colpi di mano in prima linea ed azioni di propaganda ed in-
vito alla diserzione con canti, lancio di volantini ed altro. Dipendenti
dagli Uffici Informazioni delle singole armate e utilissimi anche come
latori di preziose informazioni militari relative alle unità austro-un-
gariche, riscontrarono un pressoché unanime giudizio positivo da
parte dei comandi d’armata italiani e dei capi dei relativi Uffici Infor-
mazioni, i quali, progressivamente, richiesero un numero sempre mag-
giore di elementi da impiegare con tali funzioni. Inizialmente i nu-

9
Oltre alle fonti primarie degli archivi AUSSME di Roma e VHA di Praga, di
una certa utilità appare in proposito V. Hanzal, Il 39° Reggimento esploratori ceco-
slovacco sul fronte italiano, in P. Crociani (cur.), Roma, Stato Maggiore dell’Esercito
Ufficio Storico, 2009, traduzione e parziale rielaborazione del volume S výzvědčíky
od švýcarských ledovců až po moře adriatické, Praha, 1928. Scritta da un ex legio-
nario, pur trattandosi di un’opera datata e non completamente obiettiva (glissa su
contraddizioni e criticità), possiede tuttora una certa affidabilità in quanto a infor-
mazioni e dati.

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218 Alessandro Volpato

meri furono decisamente limitati, e conobbero un aumento impor-


tante solo in seguito all’episodio, di particolare rilievo, divenuto noto
come il Sogno di Carzano10: tra il luglio e il settembre del 1917 il te-
nente sloveno Ljudevit Pivko, al comando interinale del V Battaglione
del 1° Reggimento Bosniaco, organizzò, con la decisiva complicità di
molti commilitoni cechi del battaglione e con la collaborazione del-
l’Ufficio Informazioni di 1a e 6a Armata, mediante incontri segreti
notturni con il Maggiore Cesare Pettorelli Lalatta Finzi e con il be-
nestare del Colonnello Tullio Marchetti11, un’azione offensiva che
avrebbe potuto aprire una breccia forse decisiva nello schieramento
austro-ungarico e che avrebbe potenzialmente potuto spingere le forze
italiane dalla zona di Carzano, attraverso la Valsugana, fino a Trento.
Non è ovviamente possibile sapere se sarebbe potuta andare in que-
sto modo, ma certamente il successo molto limitato dell’azione, svol-
tasi tra il 17 e il 18 settembre, fu dovuto alle incertezze nella dire-
zione sul campo dell’operazione, affidata a ufficiali italiani evidente-
mente poco convinti delle prospettive di tale azione, in particolare il
generale Zincone che ne era al comando. In seguito a questo episo-
dio, Pivko e i suoi uomini, ormai in Italia, costituirono nell’ambito
dell’Ufficio Informazioni di 1a e 6a Armata e sotto la diretta respon-
sabilità del maggiore Pettorelli Lalatta, quel Reparto Speciale Czeco-
Jugoslavo che rappresentò il primo reparto strutturato di esploratori
appartenenti alle nazionalità irredente dell’Impero Austro-Ungarico.
Tale reparto fu d’esempio per la strutturazione di reparti simili, com-
posti da cechi e slovacchi, in altre armate e il numero di questi uo-
mini crebbe progressivamente ed esponenzialmente. È importante ri-
levare che fino alla creazione ufficiale della 6a Divisione Cecoslovacca
i reparti esploratori non furono mai ufficialmente riconosciuti dal Co-
mando Supremo italiano, il quale, pur essendone certamente a cono-
scenza, ne tollerava (quando non ne caldeggiava) l’esistenza ma non
poteva riconoscerli formalmente per non contravvenire alle disposi-
zioni governative. Nel momento in cui venne ufficialmente creata la
Legione, gli esploratori cecoslovacchi (oltre 1.500 uomini) manten-
nero esattamente le medesime funzioni e la medesima organizzazione
di fatto, semplicemente dal punto di vista formale vennero prima in-

10
L. Pivko, Proti Avstriji, Maribor, Klub Dobrovoljcev v Mariboru, 1923-1928
(trad.it. Abbiamo vinto l’Austria-Ungheria: la Grande Guerra dei legionari slavi sul
fronte italiano, LEG - Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2011).
11
Si veda, C. Pettorelli Lalatta, L’occasione perduta, Mursia, Milano, 1967.

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La Legione Cecoslovacca in Italia contro l’Austria-Ungheria 219

corporati nel II Battaglione del 31° Reggimento e successivamente


venne creato un reggimento apposito, il 39° Reggimento Esploratori
Cecoslovacco. Va rilevato come il loro contributo nell’ambito gene-
rale delle operazioni della Legione risulti quantitativamente e quali-
tativamente di spicco, scontando molto meno delle altre unità quelle
deficienze che un impiego tradizionale non poté, come vedremo, che
mettere in luce.
Il 31 maggio 1918 la 6a Divisione, esclusa la quasi totalità degli
esploratori, della cui peculiarità d’impiego abbiamo detto, partì per
la zona di operazioni: dapprima concentrata sui Monti Berici e sui
Colli Euganei, si stabilì il 20 giugno sotto il comando della 1ª Ar-
mata nella regione ad est del Lago di Garda, nella zona dell’Altis-
simo di Nago tra il Lago di Garda e il fiume Adige, per completare
la preparazione e concorrere ai lavori di sistemazione difensiva della
zona; nelle retrovie dunque per il momento, ma pronti alla difesa del
Monte Baldo. Nel frattempo, il I Battaglione del 33° Reggimento era
partito già il 30 maggio per raggiungere la 3a Armata dove nel giu-
gno combatté nella Battaglia del Solstizio presso Fossalta di Piave
mentre la 6a Compagnia esploratori del II Battaglione del 31° Reg-
gimento era stata dislocata sul Montello, nella zona controllata dall’8a
Armata, dove pure partecipò alla medesima battaglia. Entrambe le
unità ebbero gravi perdite, sia caduti sul campo che catturati e giu-
stiziati dagli austro-ungarici12.
Nel corso delle operazioni13 in cui fu coinvolta, la 6ª Divisione

12
I numeri in proposito sono spesso riferiti in maniera inesatta o confusa. Il rap-
porto di Jan Šeba, inviato alla sede romana del Consiglio Nazionale il 26 giugno
1918 riferisce: per quanto riguarda la 6ª Compagnia esploratori dislocata sul Mon-
tello 36 morti e 9 prigionieri giustiziati dagli austro-ungarici (oltre a 5 prigionieri
riusciti in un secondo momento a fuggire e a rientrare tra le linee italiane); per quanto
riguarda il I Battaglione del 33° Reggimento impiegato presso Fossalta di Piave 9
morti, 107 feriti e 18 prigionieri (quasi tutti poi impiccati dagli austro-ungarici). Vedi:
Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito (AUSSME), Fondo E5, busta
263, documento 4.38.
13
Sulla parte strettamente attinente alle operazioni militari della Legione, oltre
naturalmente agli archivi AUSSME e VHA per le fonti primarie, utili tra le poche
opere edite: T. Bertè, Arditi e Alpini sul Dosso Alto di Nago, Rovereto, Museo Sto-
rico Italiano della Guerra, 2005, saggio circoscritto alle azioni sul Dosso Alto di
Nago; G.C. Gotti Porcinari, Coi legionari cecoslovacchi al fronte italiano ed in Slo-
vacchia (1918-1919), Roma, Ministero della Guerra, Comando del Corpo di S.M.,
Ufficio Storico, 1933, stringato libello datato e metodologicamente non attuale, ma
che offre una griglia di informazioni e dati comunque validi.

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220 Alessandro Volpato

Cecoslovacca partecipò a numerosi combattimenti, tra i quali spic-


cano ancora quello del 29 agosto nella frazione di Martello e, so-
prattutto, quelli, particolarmente sanguinosi, del 21 settembre sul
Dosso Alto di Nago, questi ultimi menzionati con apprezzamento
anche dal Presidente del Consiglio Orlando e nel bollettino di guerra
del Comando Supremo. L’8 ottobre seguente, la divisione venne ri-
tirata dal fronte e inviata a Castelfranco Veneto, registrando fino a
quel momento circa un centinaio di morti in combattimento14, a cui
vanno aggiunti i 46 catturati e giustiziati dagli austro-ungarici. Da se-
gnalare che alcuni elementi del 39° Reggimento Esploratori parteci-
parono all’inseguimento delle truppe imperiali fino al termine del con-
flitto. A Foligno intanto, con nuove forze disponibili, era stato co-
stituito il 35° Reggimento, che andava così ad aggiungersi ai già esi-
stenti 31°, 32°, 33°, 34° e 39° Esploratori. Alla fine delle ostilità la 6ª
Divisione era formata da questi sei reggimenti con 19.400 uomini di
cui 600 slovacchi.
Occorre constatare come, nonostante i ricorrenti elogi e le men-
zioni da parte delle autorità italiane, oltre a quelle ovvie del Consi-
glio Nazionale, che lodavano i risultati sul campo delle unità ceco-
slovacche, esistano documenti che, viceversa, attestano non solo una
carenza e una frettolosità nella preparazione militare, ma anche un
conseguente scarso successo nell’impiego operativo tradizionale in li-
nea, con perdite forti a fronte di risultati modesti, come riporta an-

14
Le fonti in tal senso sono difformi ed è estremamente difficile avere un ri-
scontro preciso. Lo Stato Maggiore del Regio Esercito riferisce di 52 morti e 239
feriti, il che non solo non include evidentemente i caduti dei reparti esploratori an-
tecedentemente alla formazione della Legione, ma denota discrepanze anche con i
dati presenti nei singoli rapporti a cura della sezione italiana del Consiglio Nazio-
nale combinati con i rapporti italiani dei singoli episodi bellici. La discrepanza è nel-
l’ordine delle decine in ogni caso e il computo totale più realistico è nell’ordine, ap-
prossimativamente, di un centinaio di morti. Del resto alcuni lavori riportano cifre
che appaiono evidentemente eccessive, nell’ordine delle diverse centinaia, forse in al-
cuni casi includendo per errore anche i caduti della missione in Slovacchia. Per ci-
tarne alcuni a titolo di esempio: P. Helan, La Legione Cecoslovacca in Italia, in F.
Leoncini (cur.), Il Patto di Roma e la Legione Ceco-Slovacca: tra Grande Guerra e
nuova Europa, Kellermann, Vittorio Veneto, 2014, p. 76; K. Pichlík, B. Klípa, J. Za-
bloudilová, Českoslovenští legionáři (1914-1920), Mladá Fronta, Praha, 1996 (trad.it.
I legionari cecoslovacchi (1914-1920), Museo Storico in Trento, Trento, 1997), p. 224.
Rispettivamente, nel primo caso sono riportati 725 tra caduti in combattimento e i
46 giustiziati dagli austro-ungarici, e nel secondo 355 tra caduti in combattimento,
giustiziati dagli austro-ungarici e morti per le ferite riportate. In entrambi i casi non
sono indicate le fonti primarie a sostegno.

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La Legione Cecoslovacca in Italia contro l’Austria-Ungheria 221

cora Josef Fučík in riferimento soprattutto agli scontri avvenuti nel


corso della Battaglia del Solstizio e a quelli del 21 settembre 1918 a
Dosso Alto di Nago15. Ciò tanto per le modalità d’impiego da parte
dei comandi italiani, nella fattispecie soprattutto del generale Andrea
Graziani, comandante della divisione, quanto per le intrinseche defi-
cienze di preparazione dei legionari, aggravate dall’inesperienza dei
loro giovani ufficiali. A far luce su questi aspetti sono molto impor-
tanti alcuni rapporti di Jan Šeba dedicati appunto all’addestramento
e alla preparazione di truppa e ufficiali16.
Appare evidente come la frettolosità dell’addestramento alle tatti-
che e agli armamenti italiani di questi ex militari austro-ungarici fu
dovuta da una parte alla pressione del Consiglio Nazionale, che spin-
geva per un impiego in combattimento prima che il conflitto termi-
nasse, e ciò per evidenti ragioni legate al peso delle carte da giocare

15
«Tutta questa azione a Fossalta, non preparata dall’inizio e poi malamente con-
dotta, era dunque finita con un’ecatombe, attribuita di nuovo ai barbari austriaci.
Ciò doveva oscurare la responsabilità dei rappresentanti politici e militari a Roma e
a Parigi e il fallimento dei comandanti italiani, e questo tanto nell’addestramento,
quanto nella preparazione e nella conduzione del combattimento, quantomeno a li-
vello di battaglione. Pressoché ogni cosa era lontana dalla realtà, persino, ad esem-
pio, nel maneggiamento delle bombe a mano italiane i comandanti di plotone cechi
impiegavano fino a un quarto d’ora, dall’estrazione all’attacco, per la dimostrazione
ai loro tiratori. Davanti a un tribunale italiano venne poi mandato come responsa-
bile solo l’ultimo nella gerarchia, l’inefficiente comandante della compagnia mitra-
gliatrici assegnata al battaglione I/33. Del tutto immacolato uscì dal grattacapo l’in-
capace comandante del battaglione I/33, maggiore Sagone, e intoccato naturalmente
rimase anche il comandante della divisione cecoslovacca, generale Graziani». In J.
Fučík, Doss Alto - mýtus a skutečnost. Československá legie na italské frontě 1918,
cit., pp. 42-43 (traduzione dal ceco a cura dell’autore del presente articolo).
16
Riferendosi al già citato I battaglione del 33° Reggimento, impegnato sul basso
Piave nel giugno 1918 e pesantemente falcidiato, così scrive Šeba in uno di questi
rapporti, quello già menzionato nella nota 12: «Sono stato con questo battaglione
ed ho visto che non è abbastanza preparato, ed ho domandato al comando dell’ar-
mata di non mandarlo più al combattimento isolato ma di incorporarlo di nuovo
nella divisione nostra». Ed aggiunge ancora più avanti nel medesimo rapporto: «Gli
ufficiali nostri sono, però, in gran parte senza esperienza e non all’altezza della
truppa». In: Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito (AUSSME), Fondo
E5, busta 263, documento 4.38. Vedi anche, dello stesso fondo: busta 232, docu-
mento 12.18. E ancora, in un altro rapporto inviato a Štefánik relativo ai medesimi
combattimenti: «Della divisione ha preso parte ai combattimenti un battaglione che
ci ha procurato una citazione nel bollettino d’armata, nel bollettino ufficiale, ma ha
fatto anche da cavia, perché la truppa non è addestrata.» In J. Fučìk, Doss Alto -
mýtus a skutečnost. Československá legie na italské frontě 1918, cit., p. 44 (tradu-
zione dal ceco a cura dell’autore del presente articolo).

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222 Alessandro Volpato

al tavolo delle trattative in funzione della propria indipendenza. Dal-


l’altra parte il generale Andrea Graziani, comandante della divisione,
dimostrò di avere una fretta tutta personale nell’impiego al fronte dei
suoi uomini. Personaggio sui generis, poco apprezzato dalle gerarchie
militari italiane e con una sinistra fama di esaltato, tanto nella disci-
plina quanto nell’impiego operativo, che lo accompagnava17, Graziani
fu certamente corresponsabile dell’invio in prima linea di reparti solo
parzialmente addestrati. In tal senso è importante notare come in pre-
visione della Battaglia del Solstizio, Šeba avvertì Diaz dell’intenzione
di Graziani di inviare sul Piave l’intera divisione, al fine di utilizzarla
contro la prevista offensiva austriaca, in particolare per contrattaccare,
il che avrebbe disintegrato la divisione, ancora impreparata. Fu pro-
prio grazie a tale intervento che Graziani poté inviare per questa bat-
taglia solo le due unità precedentemente menzionate, che comunque,
come abbiamo visto, ebbero perdite rilevanti18.
Riguardo alla inflessibilità di Graziani, non è possibile inoltre non
ricordare il noto episodio relativo alla fucilazione sommaria di otto
militari cecoslovacchi accusati di diserzione al fronte. La notte dell’11
giugno 1918 a Barbarano, nel Vicentino, una ventina di legionari si
rese irreperibile nell’immediatezza della partenza per il fronte. Di que-
sti, otto furono rintracciati ed arrestati dai Carabinieri il mattino se-
guente alla stazione di Vicenza. Graziani li fece fucilare alla schiena
il giorno stesso. Tale episodio suscitò le rimostranze delle autorità ce-
coslovacche, ed in seguito a questo episodio vennero repentinamente
istituiti dei tribunali composti da elementi cecoslovacchi, deputati al
giudizio di ogni questione inerente i propri militari.
Nel frattempo, mentre il 28 ottobre a Praga veniva proclamato il
nuovo stato cecoslovacco indipendente, il neonato esercito cecoslo-
vacco sul fronte italiano venne riorganizzato: il 24 ottobre il comando
passò da Graziani, il cui operato non forniva agli occhi dei comandi
italiani adeguate garanzie di equilibrio, al generale Luigi Piccione.

17
Andrea Graziani (1864-1931), generale del Regio Esercito e, in seguito, Luo-
gotenente Generale della MVSN fascista. Fu accusato spesso di brutalità verso i sot-
toposti. Tra gli episodi precedenti al comando della 6ª Divisione Cecoslovacca, par-
ticolarmente noto fu l’episodio della fucilazione, il 03/11/1917 a Noventa Padovana,
dell’artigliere Alessandro Ruffini, reo di averlo salutato militarmente con il sigaro in
bocca.
18
J. Fučík, Doss Alto - mýtus a skutečnost. Československá legie na italské frontě
1918, cit., pp. 37-38.

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La Legione Cecoslovacca in Italia contro l’Austria-Ungheria 223

Venne creato un Corpo d’Armata Cecoslovacco, comprendente la 6a


e la 7a Divisione, con 981 ufficiali (136 italiani) e circa 23.000 uomini
tra sottufficiali e soldati (1.031 italiani). La nuova unità, così costi-
tuita, venne inviata nelle settimane successive in Cecoslovacchia nel-
l’ambito della Missione Italiana, dove, come è noto, venne prevalen-
temente impiegata in Slovacchia e combatté contro gli Ungheresi per
passare, nel giugno 1919, sotto il comando francese, con il ben noto
grave smacco per il governo e la diplomazia italiani. Nel medesimo
periodo venne impostata anche la creazione di un secondo esercito,
cosiddetto di Battaglioni Territoriali, composto da unità fatte prigio-
niere alla fine e da disertori dell’ultimo minuto: tali unità, all’incirca
40.000 uomini, vennero equipaggiate ed inviate in patria a scaglioni
fino al 1920.

4. Conclusioni. – Senza dubbio i maggiori successi sul campo i


legionari li conseguirono nell’effettuare opera di propaganda e colpi
di mano che inducessero alla diserzione i compatrioti e acceleras-
sero la disgregazione del multinazionale esercito austro-ungarico.
Tuttavia, come detto, una parte importante dei legionari fu impie-
gata in linea in maniera tradizionale, con scarsa utilità per le vi-
cende belliche, risultati modesti e perdite alte, e questo fondamen-
talmente per due ordini di ragioni: anzitutto per rispondere alle esi-
genze di «visibilità bellica» del Consiglio Nazionale, esigenze con-
divise, una volta rotti gli indugi sulla creazione della Legione, an-
che dagli italiani, per i quali a questo punto era utile ergersi a pa-
ladini della causa nazionale di un futuro stato su cui avrebbero po-
tuto avere una decisiva influenza politica ed economica: in tal senso
va letta anche, secondo l’opinione di chi scrive, la citazione dei ce-
coslovacchi nel Bollettino della Vittoria, in nessun modo giustifi-
cato dall’apporto squisitamente militare nel novero globale degli av-
venimenti bellici; in secondo luogo per la discutibile strategia del
suo comandante Andrea Graziani, solo in parte mitigata dagli in-
terventi moderatori di Šeba, Štefánik e Diaz, e ciò per i motivi di
cui al primo ordine di ragioni. Quanto all’aspetto della volontarietà
e della sincerità degli afflati patriottici dei legionari, se è vero che
ci furono aspetti contraddittori e che spesso tale decantata e osten-
tata volontarietà non era affatto tale, non vi è tuttavia dubbio, al
netto di alcune ricostruzioni agiografiche, che la presenza al fronte
dei legionari abbia sovente destabilizzato i compatrioti che li fron-
teggiavano in divisa austro-ungarica favorendone in più casi la di-

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224 Alessandro Volpato

serzione. Altresì è un fatto che una sincera coscienza nazionale si


diffuse in una parte significativa dei prigionieri e che la Legione così
formata ebbe una solida base di consenso e quella coesione neces-
saria per esercitare la funzione di primo nucleo dell’esercito nazio-
nale a difesa dei propri confini neocostituiti.

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Fabrizio Rudi
LA FINE DELLA GRANDE GUERRA, L’ITALIA,
IL PROCESSO DI EDIFICAZIONE NAZIONALE
DI CECOSLOVACCHI E JUGOSLAVI

1. Introduzione. – Subito dopo che il presidente Wilson ebbe enun-


ciato i suoi Quattordici Punti sul futuro dell’Europa post-bellica, due
nazioni inserite entro la cornice del periclitante Impero asburgico, quella
cecoslovacca e quella jugoslava, iniziarono a mostrare alcuni lati vera-
mente oscuri delle proprie prospettive politiche e militari verso l’In-
tesa: il 27 gennaio 1918 il sottocapo di Stato Maggiore della Marina
italiana, marchese Lorenzo Cusani Visconti, scriveva al barone Sidney
Sonnino che i due popoli sunnominati, in seguito al “tradimento” della
Russia, erano, in quel momento, in piena evoluzione: sentendosi ab-
bandonati dai Russi, avrebbero, potenzialmente, preferito seguirne l’e-
sempio giungendo ad un accordo con l’imperatore Carlo. Una scelta
di questo tipo era dovuta in primo luogo il discorso di David Lloyd
George del 5 gennaio 1918 alle Trade Unions sugli obiettivi di guerra,
pronunciato durante le trattative per la pace di Brest-Litowsk1, e che

1
Effettivamente, secondo quanto riportato dall’ambasciatore italiano a Londra, mar-
chese Guglielmo Imperiali, Lloyd George, durante il discorso del 5 gennaio 1918,
avrebbe detto quanto segue: «Per gli stessi motivi noi consideriamo come vitale la sod-
disfazione delle legittime esigenze degli italiani per l’unione con quelli della loro razza
e lingua. Intendiamo pure spingere perché sia fatta giustizia agli uomini di sangue e
lingua romena nelle loro legittime aspirazioni». Per ciò che atteneva, in generale, al-
l’Austria-Ungheria, Lloyd George, senza mai, in effetti, far riferimento ai Boemi e agli
Slavi del Sud, si limitava a scrivere: «Similmente, benché concordiamo con il Presi-
dente Wilson sul fatto che la disgregazione dell’Austria-Ungheria non sia parte dei no-
stri obiettivi di Guerra, noi sentiamo che, salvo che non sia concessa un’autentica au-
tonomia [a genuine self-government] basata su principi democratici a quelle naziona-
lità dell’Austria-Ungheria che l’hanno lungamente desiderata, è impossibile sperare nel-
l’eliminazione di ogni causa di inquietudine in quella parte dell’Europa che ha così per
lungo tempo minacciato la sua pace generale». L’Austria-Ungheria, quindi, doveva sod-
disfare queste condizioni e queste richieste, perché, continuando a comportarsi quale
propaggine militare della Prussia, la sua fine sarebbe stata sicura, perché inevitabile.

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226 Fabrizio Rudi

sotto certi riguardi funse da preludio a quello del presidente Wilson


di tre giorni dopo2: fu ad effetto di questi eventi che gli Slavi occi-
dentali e meridionali si erano sentiti abbandonati alla propria sorte3.
Il discorso del 5 gennaio lasciava sommamente scontento anche la
stessa diplomazia italiana, se il barone Sonnino, in un colloquio avuto
con sir James Rennell Rodd, ambasciatore britannico a Roma, se ne
disse «non molto soddisfatto»:
[Lloyd George], senza alcun preventivo concerto con noi o avvertimento
qualsiasi, buttava in mare tutti i nostri fini di guerra (come convenuti
con gli alleati nella convenzione di Londra o posteriormente), con la sola
eccezione dei puri territori abitati da popolazioni di razza e di lingua
italiana. Con ciò fa in certo modo riserva anche sull’Istria, non che sulla

Per ciò che attiene, invece, al mondo, slavo, era la Polonia libera ciò che poteva ga-
rantire una certa stabilità nell’Europa occidentale. Il marchese Guglielmo Imperiali
avrebbe commentato questo passo del discorso in questi termini: «Con questa dichia-
razione appare evidente che i desiderata separatisti dei boemi e degli jugoslavi non
rientrano negli scopi di guerra dell’impero britannico». Documenti Diplomatici Italiani
(d’ora in poi DDI), Serie V, 1914-1918, Vol. X, N. 37, Imperiali a Sonnino, Londra,
6 gennaio 1918, ore 23,30 (per ore 9,40 del 7). Sul discorso di Lloyd George vedasi
anche D. R. Woodward, The Origins and Intent of David Lloyd George’s January 5
War Aims Speech, in The Historian, XXXIV, 1971, 1, 22-39. Vedere anche: J.W. Whee-
ler-Bennet, Brest-Litovsk, the Forgotten Peace: March 1918, New York, W. W. Nor-
ton & Company, 1971; G. J. Ikenberry, Dopo la vittoria. Istituzioni, strategie della
modernizzazione e ricostruzione, traduzione italiana di Stefano Galli (Titolo originale:
After Victory. Institutions, strategic restraint and the rebuilding of order after mahor
wars, 2001), Milano, Vita e Pensiero, 2003; L. W. Martin, Peace without Victory. Woo-
drow Wilson and British Liberals, New Haven, Yale University Press, 1958. Piuttosto
importante è infine il saggio di Ch. Seton Watson, Czechs, Poles and Yugoslavs in
London, 1914-1918, in L’èmigration politique en Europe aux XIXe et XXe siècles, Ac-
tes du colloque de Rome (3-5 mars 1988), Rome, Publications de l’École Française de
Rome, 1991, CLVI, 277-293; A. Zorin, American Policy Towards Czechoslovakia, 1918-
1945, in Great Power Policies Towards Central Europe, 1945, edited by A. Piahanau,
Bristol, E- International Relations Publishing, Bristol, 2019, 107-127.
2
È comunque da ricordare che il discorso di Lloyd George insisteva maggior-
mente sulla necessità di imporre una battuta d’arresto alle operazioni degli Imperi
Centrali – in esso si fa sovente riferimento alla Prussia, non già all’Impero germa-
nico! – ma poneva più vaghe prospettive a proposito di popoli non turchi – e non
arabi – soggetti dell’Impero ottomano. Cfr. J. Grigg, Lloyd George: War Leader,
London, 2002, 385-387.
3
«Alcuni si sentono poi perduti nella politica adottata verso di essi, e, cioè, in-
vece di radunarli in un fascio contro l’Austria, constatano invece che l’Intesa li ha
svalorizzati e non sfruttati e poi abbandonati quando le cose, per fatale conseguenza,
si sono rivolte alla peggio». DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. X, N. 158, Cusani Vi-
sconti a Sonnino, Roma, 27 gennaio 1918 (per il 28).

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La fine della Grande Guerra 227
Dalmazia, ecc. Della difesa dell’Adriatico e garanzia della nostra sicu-
rezza non una parola. Accenna a convenzioni particolari, ma dichiaran-
dole rivedibili e riducibili4.

I Comitati delle nazionalità soggette all’Austria-Ungheria (quelli che


rappresentavano le due nazioni in discorso erano particolarmente po-
tenti, ed influenti, per i contatti che avevano in Europa e in tutto il
mondo5) decisero, quindi, di riunirsi per una prima volta alla Sorbona
di Parigi per l’inizio del mese di marzo: a presiedere questa grande as-
semblea sarebbe stato Henry Franklin-Bouillon, deputato del Parti ré-
publicain radical et radical socialiste francese, assistito da Albert Tho-
mas, fino al 12 settembre 1917 Ministro degli Armamenti e delle Fab-

4
S. Sonnino, Diario, a cura di P. Pastorelli, Bari, Laterza, 1972, 3 voll., III, 9 gen-
naio 1918, 250. Di questa scontentezza Sonnino e il primo ministro Vittorio Ema-
nuele Orlando fecero rappresentazione anche all’ambasciatore statunitense a Roma,
Thomas Nelson Page: «Prime Minister Orlando left last night suddenly for London
supposedly to urge on Lloyd George personally Italy’s asserted right to possession
of Trieste and eastern coast of Adriatic. Italian press discussing warmly, even criti-
cally, since Lloyd George’s speech to workmen, omission of reference to Italy’s ri-
ghts. It says that omission repeated becomes commission. They speak as if Italy’s ri-
ghts are unquestioned and could be got for the asking. Baron Sonnino said to me
Saturday in informal conversation that President’s reference to Italy, to satisfy Italy’s
imperative requirements for security, ought to be extended to include Italy’s geo-
graphically defensive frontier». Foreign Relations of the United States (d’ora in poi
FRUS), 1918, Supplement 1, The World War, Vol. I, N. 20, Nelson Page to Lansing,
Rome, January 21, 1918, noon. In un documento americano dello stesso giorno, si
può riscontrare, sin da quel momento, il timore di un possibile tradimento da parte
francese e inglese sull’esecuzione del Patto di Londra: «I learn from an intelligent Ita-
lian general of standing just arrived from the front, who has been always most friendly
to Allies, that the Italian Army is asking now, “What are we fighting for if Trent
and Trieste are not to be Italy’s?” He says that the Army is ready to fight to the
end for these, which are watchwords like Alsace-Lorraine, but will stop if this hope
and inspiration be taken away; for they will consider Italy betrayed by England and
France». Ivi, n. 21, Nelson Page to Lansing, Rome, January 21, 1918, 9 p.m.
5
Per gli atti del Comitato Jugoslavo, e, in generale, della emigrazione sloveno-croato-
serba in tutto il mondo, si veda, a titolo d’esempio Dokumenti o postanku kraljevine
Srba, Hrvata i Slovenaca, 1914-1919, sabrao ih [a cura di] F. Šišić, Zagreb, Naklada “Ma-
tice Hrvatske”, 1920. In generale, si vedano anche: I. Banac, The National Question in
Yougoslavia: Origins, History, Politics, Ithaca, New York, 1984; M. Paulová, Jugoslo-
venski odbor, Zagred, Prosvjetna Nalkadna Zadruga, 1925; M. Marjanović, Londonski
ugovor iz 1915. Prilog povijesti borbe za Jadran 1914-1917, Zagreb, Jugoslavenska Aka-
demija Znanaosti i Umjetnosti, 1960; J. Evans, Great Britain and the Creation of You-
goslavia, London, New York, 2008; New Perspectives on Yougoslavia. Key Issues and
Controversies, eds. D. Djokić e J. Ker-Lindsay, London, Routledge, 2019.

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228 Fabrizio Rudi

briche di Guerra6; secondo quanto detto in tal proposito dall’amba-


sciatore italiano a Parigi di allora, Lelio Bonin Longare, il quale pro-
nosticava come certo un invito a questa conferenza di rappresentanti
italiani, fra quegli elementi, specialmente di nazionalità ceca, che sino a
quel momento avevano nutrito sentimenti di simpatia per l’Italia, ini-
ziava a farsi strada, a vantaggio, però, della Francia, un complesso di
ostilità e di recriminazioni; l’Italia era tacciata di non fare alcunché in
onore della nazionalità ceca, «specialmente per quanto concerne», scri-
veva Bonin il 12 febbraio 1918, «la costituzione dell’esercito czeco il cui
maggiore contingente dovrebbe essere costituito dai prigionieri» in mano
dell’esercito italiano7. In realtà era ben noto che proprio in Italia si erano
andate costituendo delle Legioni cecoslovacche non destinate, almeno
per quel momento, a costituire una futura armata nazionale8.

2. Creare una legione cecoslovacca in Italia. Le diffidenze di Son-


nino. – Nel settembre del 1917 Eduard Beneš, nelle vesti di Segreta-
rio Generale del Consiglio Nazionale dei paesi cechi9, in quel mo-

6
Cfr. D. Deschênes, Rupture ou équilibre: les options de la Realpolitik française
face à l’Autriche-Hongrie lors de la Première Guerre mondiale, in Études internatio-
nales, XXX, 1999, 2, 521-545; H. Hanák, France, Britain, Italy and the Independence
of Czechoslovakia in 1918, in Czechoslovakia: Crossroads and Crises, 1918-88, edited
by N. Stone and E. Strouhal, London, Palgrave Macmillian, 1989, 30-61. Furono i Ro-
meni coloro che maggiormente si avvalsero di queste riunioni per la loro causa nazio-
nale. Cfr. J.-N. Grandhomme, La Roumanie en guerre et la mission militaire Italienne
(1916-1918), in Guerres mondiales et conflits contemporains, LVIII, 2006, 4, 15-33.
7
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. X, N. 215, Bonin Longare a Sonnino, Parigi, 12
febbraio 1918.
8
Sull’impegno italiano per la creazione delle legioni cecoslovacche, si veda: La Guerra
italiana - cronistoria illustrata degli avvenimenti, a cura di E. Mercatali e G. Vincen-
zoni, Milano, Sonzogno, 1915-1919, 6 voll. Vedansi anche Ministero della Difesa - Stato
Maggiore dell’Esercito, L’esercito italiano nella Grande Guerra (1915-1918) Volume V,
tomo 1°, Le operazioni del 1918 (Gli avvenimenti dal gennaio al giugno - narrazione),
Roma, Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito (d’ora in avanti USSME), 1980; idem,
tomo 1 bis, Le operazioni del 1918 (gennaio-giugno - documenti), Roma, USSME, 1980;
idem tomo 1ter, Le operazioni del 1918 (gennaio-giugno - Carte e schizzi), Roma, US-
SME, 1980; idem tomo 2°, Le operazioni del 1918 (La conclusione del conflitto - nar-
razione), Roma, USSME, 1988; idem tomo 2° bis, Le operazioni del 1918 (La conclu-
sione del conflitto - documenti), Roma, USSEME, 1988; idem tomo 2° ter, Le opera-
zioni del 1918 (La conclusione del conflitto - Carte), Roma-Bari, 1988. Infine, la seguente
“importante” importanti monografia: L. Ferranti, La legione ceco-slovacca d’Italia nel
processo di formazione della Ceco-Slovacchia, Perugia, Morlacchi Editore, 2018.
9
Esso aveva sede a Parigi, ove era stato fondato, in rue Bonaparte 18. Cfr. DDI,
Serie V, 1914-1918, Vol. VIII, N. 445, Salvago Raggi a Sonnino, Parigi, 23 giugno 1917.

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La fine della Grande Guerra 229

mento a Roma, chiese al Regio Governo di arruolare i prigionieri di


nazionalità ceca internati in Italia e di inviarli in Francia, dove ave-
vano ricevuto l’autorizzazione a far parte di un corpo militare sepa-
rato: vivo era, difatti, il desiderio di replicare quanto si era venuto a
creare in Russia già prima della presa di potere bolscevica. Fatta ec-
cezione per alcuni prigionieri usati dai servizi segreti italiani per il re-
perimento di informazioni e per mansioni di interprete, gli internati
cechi e slovacchi erano concentrati principalmente in Italia centrale e
meridionale, a Salerno, a Santa Maria Capua Vetere, ad Avezzano e
a Fonte d’Amore, frazione di Sulmona10 – ma ve n’erano altri anche
a Padula, Termini Imerese, Adernò e Cittaducale; i componenti di
quest’ultimo campo avrebbero poi chiesto di essere arruolati nella Le-
gione che si stava costituendo in Francia11 – e risultavano detenuti in
maniera separata rispetto ai restanti prigionieri appartenenti agli altri
gruppi etnici inseriti entro la cornice della Duplice Monarchia.
Verosimilmente sotto la spinta di certe specifiche richieste inol-
trate al governo italiano, allora presieduto da Paolo Boselli, dal Co-
mitato Centrale cecoslovacco di Parigi il 24 gennaio 191712, i prigio-
nieri di guerra cechi e slovacchi nel campo di Santa Maria Capua Ve-
tere si organizzarono in un corpo di volontari cecoslovacchi che non
fu riconosciuto né accettato come tale dal barone Sonnino, il quale,
ritenendo ancora possibile l’esistenza dell’Austria-Ungheria anche dopo

10
Cfr. M. G. Salzano, Il campo di concentramento per prigionieri di guerra di
Fonte d’Amore e la formazione della Legione cecoslovacca (1916-1918), in Storia e
problemi contemporanei, LXXI, 2016, 139-160.
11
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. IX, N. 173, Sonnino a Corfù, Roma, 8 febbraio
1917. Piuttosto importante sono, a tal proposito, i seguenti saggi: L. Tavernini, Pri-
gionieri austro-ungarici nei campi di concentramento italiani, 1915-1920, in I forti
austroungarici nell’Alto Garda, Atti del convegno al Forte Superiore di Nago 27 feb-
braio-2 marzo 2002, D. Riccadonna (cur.), Museo Civico di Riva del Garda, Qua-
derni di Storia n. 1, 2003, 70-81; A. Tortato, La prigionia di guerra in Italia, 1915-
19, Milano, Mursia, 2004. Per una panoramica generale dei campi di prigionia in Ita-
lia, si veda R. Anni, C. Perrucchetti (eds.), Voci e silenzi di prigionia. Cellelager,
1917-1918, Roma, 2015.
12
Le richieste in questione erano «l) se siano tenuti separati dai prigionieri di
a1tre nazionalità e 2) se si consentirebbe che venissero ad essi distribuiti opuscoli
czechi di propaganda antiaustriaca». DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. VII, N. 151, Bo-
selli a Sonnino, Roma, 24 gennaio 1917. Gli opuscoli di propaganda antiaustriaca,
in effetti, sarebbero stati distribuiti senza troppi problemi, in seguito all’assenso dato
dal governo italiano a tale iniziativa. Ivi, N. 176, Sonnino a Boselli, Roma, 30 gen-
naio 1917, ore 16.

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230 Fabrizio Rudi

la fine della guerra, prese questa decisione allo scopo di non avere
problemi diplomatici di sorta13.
Invero, il barone Sonnino si era dichiarato contrario, almeno for-
malmente, a una simile iniziativa per un duplice ordine di ragioni:
perché ciò non era conforme al diritto internazionale e, soprattutto,
perché l’Italia si sarebbe esposta a gravi e temute rappresaglie da parte
dell’Austria-Ungheria, «specialmente a danno dei soldati italiani che
cadessero in suo potere». A tal proposito, Sonnino soggiungeva che
la Francia poteva permettersi di fare questa richiesta proditoria, dal
momento che non aveva in propria mano prigionieri della periclitante
Duplice Monarchia.
Le preoccupazioni di Sonnino, tuttavia, non concernevano soltanto
le rappresaglie austro-ungariche. Da Washington, ove operava l’am-
basciatore Vincenzo Macchi di Cellere, giungeva notizia per cui l’e-
migrazione croata di Pittsburg e Cleveland – e dietro di essa anche
quella serba, slovena e montenegrina – già dal 1915 si organizzava in
federazioni e organizzazioni nazionalistiche, riunite alla Hrvatska
Bratska Zajednica, sulla base dei precedenti sokoli, ossia le società
ginniche sorte in Austria-Ungheria nella seconda metà del XIX se-
colo, atte a fondare un’opera capillare di propaganda jugoslava il cui
scopo risultava essere, «sotto l’apparenza di un interesse slavo con-
cordante con quello della pace e della civiltà propugnato dalle Po-
tenze dell’Intesa, di diffondere anche presso l’opinione pubblica ame-
ricana quello ch’è in sostanza un programma essenzialmente antita-
liano»14. Questo tipo di movimenti, pure, non si esauriva al solo am-

13
Cfr. C. Paoletti, L. Vannacci, The Czech Army Corps in the Italian Royal
Army in 1918, presentato al congresso National Formations In The Great War: From
An Imperial Mobilization Policy To Armies Of Independent Nation State, Tallinn -
Museo Estone della Guerra e Tartu - Baltic Defence College, 25-26 aprile 2017. Il
seguito dei contenuti di questa conferenza è poi apparso in: Id., Ead., Z ziemi wlo-
skiej… Korpus Broń w armii wloskiej podczas I wojny swiatowej, [Dalla terra ita-
liana… il Corpo cecoslovacco nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale]
in «Broń i amunicija», III, 2018, 12; Id., Ead., Maly czeski drapiezca. Udzial jedno-
stek Korpusu Czechoslowackiego i włoskiej kadry dowódczej w dzialaniach mili-
tarnych kształtujących granice I Republiki Czechoslowackiej (1918- 1919) [Un pic-
colo contingente ceco. La partecipazione del Corpo Cecoslovacco e i comandanti ita-
liani alle operazioni militari che modellarono i confini della I Repubblica Cecoslo-
vacca], in «Broń i amunicija», IV, 2019, 1. Vedere anche C. Polita, La Grande Guerra
degli ultimi: “Di qua e al di là del Piave”, Venezia, Mazzanti Libri, 2015.
14
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. VII, N. 283, Macchi di Cellere a Sonnino, Wa-
shington, 12 febbraio 1917. Ci siamo già ampiamente occupati del tema in F. Rudi,

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La fine della Grande Guerra 231

bito etnico-geografico slavo-meridionale: sempre a Cleveland si era


cementata una cooperazione delle Federazioni jugoslave con quelle
ceche (particolarmente rilevante fu il ruolo dell’emigrazione ceca di
Chicago)15, slovacche, polacche e russe, con un rinnovo della spe-
ranza di conquistare la libertà e l’unione in un grande Stato nazio-
nale «senza che nessuna frazione del nostro popolo, nessun pollice
del nostro territorio, sia all’ovest, all’est, al nord o al sud cada sotto
il giogo straniero»16, e su questo esempio qualcosa di simile avveniva
in Svizzera, dove dimoravano comunità slave meridionali e occiden-
tali assai cospicue e ben organizzate. Il ministro plenipotenziario ita-
liano a Berna, Raniero Paulucci de’ Calboli, in un allegato a un di-
spaccio del 17 febbraio 1917, ricostruiva con estrema dovizia di par-
ticolari il funzionamento del «servizio czeco in Isvizzera», diretto dal-
l’ingegnere Miro P. Boginov e finanziato dal Consiglio Nazionale ce-
coslovacco di Parigi, il cui governo doveva contribuire cospicuamente,
in termini pecuniari, al mantenimento dello stesso. Ciò che mag-
giormente suscita la nostra attenzione a tal merito è tuttavia quanto
riferito nel passo che segue dell’allegato in discorso:
Il gruppo czeco in Isvizzera dirige due servizi importantissimi: quello
delle informazioni e relazioni con la madre-patria nonché quello della
sorveglianza sui czechi e sugli altri slavi che vengono mandati qui dal
governo austriaco per spiare gli emigrati politici. Il servizio czeco di sor-
veglianza in Isvizziera conta parecchi ed abili agenti in tutti i centri più
importanti: questo servizio è organizzato in modo che un agente non
conosce l’altro e nessun agente dei servizi alleati viene messo in relazione
direttamente con questi se non per il tramite dell’ingegner Boginoff. I
mezzi finanziari sono forniti in gran parte dalle organizzazioni czeche
d’America e prossimamente i dirigenti del movimento czecho contrar-
ranno un prestito con una delle maggiori banche d’Inghilterra o di Fran-
cia. Secondo quanto afferma l’Ingegnere Boginoff, Russia, Francia ed In-

Da Cleveland a Corfù. L’azione dei comitati jugoslavi in Europa e nel mondo nella
corrispondenza diplomatica italiana (1915-1917), in fase di pubblicazione sulla «Nuova
Rivista Storica». Tra gli organizzatori di questo movimento vi erano, oltre che il suo
capo ispiratore, Don Niko Gršković, di Spalato, anche il medico Ante Biankini e lo
scienziato serbo Mihailo Pupin. Cfr. V. Holjevac, Hrvat izvan domovine, Zagreb,
Matica Hrvatska, 1967; I. Čizmić, Povijest Hrvatske bratske zajednice, Zagreb, 1994.
15
Cfr. J. Jahelka, The Role of Chicago Czechs in the Struggle for Czechoslovak
Independence, in Journal of the Illinois State Historical Society, XXXI, 1938, 4, 381-
410.
16
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. VII, N. 283, Macchi di Cellere a Sonnino, Wa-
shington, 12 febbraio 1917;

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232 Fabrizio Rudi
ghilterra avevano offerto ai czechi i necessari mezzi finanziari ma que-
sti declinarono l’offerta per conservarsi completamente indipendenti17.

A ciò si deve aggiungere che Milan Rastislav Štefánik, allora con il


grado di maggiore, tornando dalla Russia, dove era impegnato dal feb-
braio del 1917 e dove aveva lavorato in stretto contatto con il generale
Maurice Janin, capo della missione militare francese in Russia, si recava
a quel tempo a Parigi, nella prospettiva di recarsi in Italia e poi negli
Stati Uniti18. Dunque, date queste premesse, che certo offrono un’idea
precisa della struttura del sostegno politico e finanziario di cui gode-
vano le emigrazioni slave meridionali e occidentali in lotta per la loro
autodeterminazione statuale, all’iniziale diniego italiano relativo alla for-
mazione della legione, pure, fece seguito quello del potenziale ricono-
scimento, da parte dell’Italia, sull’esempio di quanto aveva fatto la Fran-
cia, del Comitato nazionale cecoslovacco come avente uno speciale ca-
rattere, quasi di governo vero e proprio19. Pure, già il 14 aprile 1917
Sonnino, aveva espresso il suo parere sull’inopportunità di consentire ai
singoli prigionieri di nazionalità ceca agevoli interlocuzioni con il Con-
siglio Nazionale: «se si fa una eccezione in questo caso», egli scriveva,
«bisognerà farla – o quanto meno ci si troverebbe a disagio per negarla
– anche per altre associazioni antiaustriache di carattere politico», con
celato, ma al contempo piuttosto nitido, riferimento agli jugoslavi20. In
effetti, due settimane dopo, da Parigi, Štefánik, rivolgendosi all’amba-
sciator Giuseppe Salvago Raggi, predecessore di Bonin Longare, racco-
mandava all’Italia di farsi garante dell’indipendenza degli Slavi dell’Eu-

17
Ivi, N. 324, Paulucci de’ Calboli a Sonnino, Berna, 17 febbraio 1917. Vedi an-
che ivi N. 421, Carlotti a Sonnino, Pietroburgo, 6 marzo 1917, ore 11 (per ore 22).
18
Ivi, N. 589, Porro a Sonnino, Comando Supremo, 27 marzo 1917, ore 21. Tra
i libri più importanti sulle Legioni cecoslovacche in Russia vi è il seguente: K.V. Sa-
charov, Češcije legiony v Sibiri: češskoe predatel’stvo, Berlin, Globus 1930; A. Ko-
tomkin, O Čechoskovackich Legionerah v Sibiri, Vospominanija i dokumenty, Paris,
Imprimerie d’Art Voltaire, 1930.
19
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. IX, N. 8, Sonnino a Boselli, Orlando, Giardino,
Del Bono, Dallolio e Comandini, Roma, 4 settembre 1917. Il Comitato Nazionale
ceco venne creato sotto i buoni auspici dei due influentissimi giornalisti e pubblici-
sti britannici Henry Wickham Steed e Robert William Seton-Watson, attivi anche e
soprattutto per la causa nazionale jugoslava. Vedasi a tal proposito, R.W. Seton-Wat-
son and His Relations with the Czechs and Slovaks, Documents, 1906-1951, J. Ry-
chlik, T.D. Marzik and M. Bielik (eds.), Bratislava, Banská Bistrica, 1995-1996, 2 voll.
20
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. IX, N. 720, Sonnino a Morrone, Roma, 14 aprile
1917.

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La fine della Grande Guerra 233

ropa centrale e sud-orientale in chiara funzione antiaustriaca, in ciò stor-


nando ogni pericolo di eccessiva vicinanza della Russia all’Adriatico per
l’unione in un solo Stato dei Croati cattolici con i Serbi ortodossi, e as-
sicurando che l’Italia avrebbe potuto ottenere dalla Boemia, e non dalla
Germania, il carbone di cui aveva bisogno21. Salvago Raggi, tuttavia, non
poté esimersi dal vedere nei progetti del maggiore Štefánik un incon-
veniente, costituito proprio dall’entrata in guerra degli Stati Uniti: «Il
nuovo belligerante» scrive Salvago a Sonnino «non è legato dall’accordo
di Londra e gli altri alleati saranno felici di potere, il giorno in cui si
discutesse delle sorti della Dalmazia, avere una scusa per non mante-
nere un impegno che è sgradito ad una grande maggioranza del pub-
blico francese e forse anche degli inglesi»22. Un mese dopo, Salvago
avrebbe scritto, per di più: «Stefanich ha detto che Governo francese,
convinto d’aver troppo promesso all’Italia circa l’Adriatico, favorisce ora
apertamente gli Jugo-slavi, e lavora a indurre Czechi a far causa co-
mune con questi. Perciò cerca di impedire le relazioni fra gli Czechi e
l’Italia»23. Al Consiglio Nazionale cecoslovacco non rimase che andare
alla ricerca del sostegno anche della Conferenza socialista di Stoccolma,
dinanzi al cui consesso, secondo le parole di Francesco Tommasini –
allora ministro plenipotenziario italiano in Svezia e futuro biografo di
Tommaso Tittoni –, i delegati Gustav Haberman, Antonín Němec e
Bohumil Šmeral reclamavano ora la «costituzione nella monarchia da-
nubiana trasformata in sistema federativo di uno Stato czeco autonomo
comprendente anche gli slovacchi con diritti eguali a quelli attuali de-
gli Stati austriaco e ungherese», ora «la completa indipendenza in se-
guito allo sfacelo dell’Austria»24, prima di presentare memoranda molto
più dettagliati e circostanziati, solo due giorni dopo la firma della Di-
chiarazione di Corfù. Il giornalista Alessandro Dudan spediva a Tom-

21
Ivi, N. 843, Sonnino a Morrone, Parigi, 27 aprile 1917.
22
Ibidem.
23
Ivi, Vol. VIII, N. 101, Sonnino a Sonnino, Parigi, 26 maggio 1917.
24
Ivi, N. 484, Tommasini a Sonnino, Stoccolma, 29 giugno 1917, ore 17.15; N.
497, Tommasini a Sonnino, Stoccolma, 30 giugno 1917, ore 17,45; N. 500, Tomma-
sini a Sonnino, Stoccolma, 30 giugno 1917. Sui tre delegati alla conferenza di Stoc-
colma si vedano: J.-P. Mousson-Lestang, Le parti social-démocrate et la politique
étrangère de la Suède, Paris, Publications de la Sorbone, Série internationale 1988,
pp. 381-382; G. V. Strong, Seedtime for Fascism: Disintegration of Austrian Political
Culture, 1867-1918, London and New York, Routledge, 1988; B. Marušič, F. Roz-
man, Stocklomska spomenica Henrika Tume, Ljubljana, Zgodoviski Inštitut Milka
Kosa ZRS SAZU, 2011, pp. 28 ss.

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234 Fabrizio Rudi

masini un dispaccio che compiegava diversi documenti aggiuntivi, fra i


quali un lungo appunto di una conversazione avuta con il professor
Procop Maxa – membro del Consiglio Nazionale cecoslovacco, in stretti
rapporti con la Russia e a quel tempo a Stoccolma – il cui luogo di
maggior interesse per noi è il seguente:
per ogni eventualità (pace prematura e separata coll’Austria-Ungheria) il
Consiglio czeco-slovacco si è assicurata l’indipendenza della Boemia con
i patti colla Francia (Ministro Thomas). Dell’appoggio dell’Italia e della
Russia gli czechi sono sicuri, li preoccupa soltanto il contegno dell’In-
ghilterra verso l’Austria-Ungheria. Errata l’obiezione che la Boemia avrebbe
poca vitalità e poca indipendenza essendo senza accessi al mare ecc. ecc.
Potrebbe, dice Maxa, avere speciali rapporti internazionali stabiliti in trat-
tati colla Polonia, con la Jugoslavia, con l’Italia25.

A tutto ciò, fortunatamente per i Cechi, seguì una decisione del


Ministro della Guerra italiano, Gaetano Giardino, di favorire la for-
mazione di reparti ceco-slovacchi a condizione che essi non venis-
sero in alcun modo impiegati in combattimento. Il motivo di tale de-
cisione era di pura convenienza per le esigenze interne dell’Italia, e
così giustificate dal ministro Giardino:
Peraltro, tenuto conto, come giustamente rappresenta codesta Commis-
sione [dei prigionieri di guerra], del numero ingente dei prigionieri czeco-
slovacchi (circa 15.000) e del danno non trascurabile che ne deriverebbe
ai lavori – specialmente agricoli – per il loro allontanamento, ed anche
della convenienza di avere qualche elemento di esperienza nel funziona-
mento dei reparti stessi, questo Ministero determina che la loro costitu-
zione avvenga gradualmente e per ora vi sia impiegato un primo nucleo
di circa un migliaio di Czeco-Slovacchi. A mano a mano che saranno
utilizzabili prigionieri di nuova cattura o che diminuiscano le necessità
agricole si procederà all’ulteriore costituzione di reparti in base anche al-
l’esperienza dei primi costituiti26.

Seguì a ciò tutto un memoriale di Eduard Beneš – il quale già a


nel giugno 1917 aveva chiesto al governo italiano la costituzione di
un primo nucleo di esercito ceco nel proprio territorio su espresso

25
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. VIII, N. 713, Tommasini a Sonnino, Stoccolma,
22 luglio 1917, Allegato I, Appunti di Dudan.
26
Ivi, Vol. IX, N. 24, Il Ministro della Guerra, Giardino, alla Commissione Pri-
gionieri di Guerra, Roma, 8 settembre 1917.

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La fine della Grande Guerra 235

desiderio del Comitato Nazionale di Parigi27 – di un memoriale con-


segnato all’attenzione del barone Sonnino il 15 settembre 1917, e in
proposito al quale questi ebbe a dire: «Osservo che erroneamente il
Signor Beneš parla di trattative fra il Governo Italiano ed il Consi-
glio nazionale czeco-slovacco. Non può essere questione di altro che
di concessioni da parte nostra». In buona sostanza, il memoriale, del
quale Sonnino riportava soltanto la parte centrale, affrontava la du-
plice questione degli internati civili e dei prigionieri di guerra, i primi
dei quali, secondo i desiderata di Beneš, l’Italia avrebbe dovuto con-
siderare come «cittadini di una nazione amica», e i secondi riunire in
reparti militari, sotto il proprio alto comando «e come parte del mo-
vimento della liberazione del popolo czeco-slovacco conformemente
al programma del Consiglio Nazionale dei Paesi czechi»28. L’Italia,
quindi, doveva farsi carico di un vero e proprio risveglio nazionale,
con tutti i vantaggi e i rischi che la situazione contingente prevedeva.
Il Ministro Giardino, dinanzi a questa ulteriore richiesta, rimase fermo
nel suo intento, ossia di «costituire a mezzo dell’autorità militare dei
reparti di volontari czeco-slovacchi di sentimenti antitedeschi da met-
tersi alla dipendenza e disposizione del Comando Supremo e da non
impiegarsi in combattimento, ma soltanto in servizi e lavori di 2a li-
nea»29.
Sonnino, nell’accettare questo parere del Ministro della Guerra,
pose, tuttavia precise, stringenti condizioni: che il Consiglio Nazio-
nale, controllato e finanziato grazie alle simmetrie create da Henry
Wickham Steed e da Robert William Seton Watson, ma non ancora
abbastanza solido da resistere ai ricatti della pur estenuata Austria-
Ungheria, non ingerisse nell’affare se non per ciò che atteneva alla
facoltà di fornire utili informazioni sui singoli individui da arruolare;
che i Cecoslovacchi perdessero la loro qualità di prigionieri di guerra:
che il loro trattamento dovesse essere «disciplinato in modo che nes-
sun maggiore privilegio» venisse «ad essi concesso in confronto a
quelli concessi agli irredenti italiani», e che «nessun pericolo di rap-
presaglia» potesse «essere provocato nei riguardi dei prigionieri di
guerra italiani in Austria-Ungheria»30. Ai prigionieri futuri legionari

27
Ivi, Vol. VIII, N. 415, Salvago Raggi a Sonnino, Parigi, 20 giugno 1917.
28
Ivi, Vol. IX, Sonnino a Boselli, Orlando, Giardino, Del Bono, Dallolio e Co-
mandini, Roma, 15 settembre 1917, ore 16.
29
Ivi, N. 107, Giardino a Sonnino, Roma, 23 settembre 1917.
30
Ivi, N. 117, Sonnino a Giardino, Roma, 25 settembre 1917.

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236 Fabrizio Rudi

fu imposta, tuttavia, una interdizione ben precisa: quella di recarsi in


Francia o a Salonicco.
Malgrado i summenzionati benefici accordati ai prigionieri ceco-
slovacchi, andava da sé che una simile decisione non dovesse essere
di gran garbo a Masaryk e Beneý, quest’ultimo essendo stato pun-
tualmente informato dal ministro Giardino di quanto stava per farsi,
e autorizzato a visitare i prigionieri di guerra cecoslovacchi per fini
di propaganda31. Ne nacquero alcuni problemi di non scarsa entità,
non ultimo quello relativo alla procedura per la nomina degli uffi-
ciali e alle questioni amministrative concernenti il costituendo Corpo
d’Armata32. La questione avrebbe dovuto essere risolta al più presto,
allo scopo di non creare ulteriori malcontenti, dato che nel mese di
ottobre si svolgeva a Stoccolma un Congresso socialista degli Stati
neutrali nel quale era affrontato anche il futuro della Polonia, degli
Jugoslavi e dei Cechi. Francesco Tommasini scriveva che le discus-
sioni avrebbero toccato la questione nei seguenti termini: «Per Boe-
mia riunione degli czechi in uno stato federale con Austria Unghe-
ria, e per jugoslavi uguaglianza economica e riunione in unico terri-
torio amministrativo. Distretti italiani dell’Austria che non fossero ce-
duti a Italia devono godere autonomia culturale»33.
Dato che gli obiettivi di guerra erano frattanto cambiati, e la pro-
spettiva per cui l’Austria-Ungheria sarebbe caduta non era più cosa
peregrina, si avvertì la necessità di far coincidere lo smembramento
della Duplice Monarchia con la liberazione delle “nazionalità op-
presse”34, in forza di una formula conciliatoria fra l’Italia e le com-
pagini jugoslava e cecoslovacca – per la prima in seguito alla dichia-
razione di Corfù, dai contenuti assai sospetti già per il ministro ple-
nipotenziario italiano presso il Governo serbo in esilio, conte Carlo
Sforza, per la seconda in seguito alle difficoltà create intorno alla for-
mazione del Corpo d’Armata cecoslovacco – tale che gli interessi ita-

31
Ivi, N. 157, Giardino a Beneý, Roma, 5 ottobre 1917; N. 171, Sonnino a Car-
lotti, Roma, 8 ottobre 1917.
32
Ivi, N. 241, Sonnino a Giardino, Roma, 19 ottobre 1917.
33
Ivi, N. 243, Tommasini a Sonnino, Stoccolma, 19 ottobre 1917, ore 18.10.
34
«Essi [gli Alleati] dimenticano però che fallirebbero lo scopo comune della
guerra se la liberazione delle nazionalità, oggi sostenuta quasi esclusivamente dall’Italia,
rimanesse un voto platonico. Essi dimenticano altresi che per fiaccare il germane-
simo è necessario scomporre l’Austria-Ungheria e che anche strategicamente su que-
st’ultima si devono concentrare gli sforzi per la più sollecita fine della guerra». Ivi,
N. 253, Carlotti a Sonnino, Pietrogrado, 20 ottobre 1917, ore 18.10.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


La fine della Grande Guerra 237

liani nell’Adriatico orientale non fossero lesi. Fu meditata a tal pro-


posito la creazione di un comitato composto da rappresentanti di
tutte le nazionalità suddite degli Asburgo-Lorena: due fra gli obiet-
tivi principali di questa organizzazione era porre sotto gli auspici ita-
liani i destini della Slavia occidentale e meridionale, una parte della
quale avrebbe ancora potuto mostrare sentimenti di lealtà verso l’im-
peratore Carlo I. In seguito alla sconfitta di Caporetto, una base per
questa conciliazione di interessi, secondo il Presidente della Com-
missione prigionieri di guerra, tenente generale Paolo Antonio Spin-
gardi35, già ministro della Guerra dal 1909 al 1914, poteva essere pro-
prio la formazione di «alcuni reparti assegnati esclusivamente ai pri-
gionieri di nazionalità italiana-czecoslovacca-romena-polacca,-rutena-
serba [sic], croata e slovena, in modo da separare nei limiti del pos-
sibile questi elementi da quelli tedeschi e magiari»36. Per ciò che ri-
guardava l’Italia, tale apertura era dovuta, certamente, anche ad una
interlocuzione che il generale Spingardi aveva avuto con il Capo del-
l’Ufficio di Roma del Consiglio Nazionale Cecoslovacco, František
Hlaváček, alla luce della quale la questione della nomina di ufficiali
«da adibirsi alle centurie czeco-slovacche» doveva risultare, più che
una questione di sostanza, una questione «di forma avente soprat-
tutto carattere morale»37; più specificamente:
Il numero degli ufficiali czeco slovacchi prigionieri essendo tale che do-
vrebbe per ora ampiamente bastare per coprire i posti occorrenti pel co-
mando delle centurie, il Consiglio non avrebbe alcuna difficoltà a sce-
gliere i propri ufficiali dapprima fra questi e si riserverebbe solo pel caso
che il numero degli ufficiali fidi dovesse esaurirsi, a designare altri pri-
gionieri che per la loro istruzione, fede politica ecc. diano affidamento
di poter adeguatamente coprire tali cariche38.

35
Per maggiori informazioni su di lui, vedasi N. Labanca, Paolo Antonio Spin-
gardi, in Dizionario Biografico degli Italiani, XCIII, 2018, ad vocem.
36
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. IX, N. 292, Spingardi a Sonnino, Roma, 24 feb-
braio 1918.
37
ASMAE, Gabinetto Politico Ordinario, 1915-1918, busta 50, Telegramma in
partenza N. 47078, Il Ministero della Guerra, Commissione per i Prigionieri di
Guerra al Ministero degli Affari Esteri, Roma, 25-10-1917. Vedere, a tal proposito,
anche H. Hanák, France, Britain, Italy and the Independence of Czechoslovakia in
1918, in Czechoslovakia: Crossroads and Crises, 1918-88, cit., 50-51.
38
ASMAE, Gabinetto Politico Ordinario, 1915-1918, busta 50, Telegramma in
partenza N. 47078, cit.

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238 Fabrizio Rudi

Virginio Gayda, a quel tempo corrispondente de’ La Stampa, dopo


aver sondato gli umori di Cechi, Slavi del Sud, Romeni e Polacchi
«avrebbe trovato disposizioni favorevoli per la costituzione di un si-
mile comitato a Pietrogrado»39. Dalla capitale russa, pochi giorni prima
della presa di potere bolscevica, Gayda inviava all’ambasciator An-
drea Carlotti un telegramma, poi trasmesso al barone Sonnino, il cui
punto centrale era proprio questo:
Il comitato escluderà punti contestati o controversi fra le varie naziona-
lità attenendosi ad una formula generale d’accordo. Ritengo azione do-
vrebbe estendersi a Londra e Parigi. Permettomi intanto sollecitare, per
debito di formalità, di precisare il mandato di trattare a nome degli ita-
liani irredenti che potrebbe essermi conferito dal comitato emigrazione
trentino-adriatico oppure da altri irredenti. Data urgenza accordo so-
stanziale già raggiunto sarei grato di sollecita risposta40.

Va da sé che dopo il 7 novembre 1917 (25 ottobre secondo il vec-


chio calendario giuliano), il progetto per un comitato a Pietrogrado,
base anche per un congresso generale delle “nazioni oppresse”, do-
vesse essere cassato. Fu solo dopo che la Lega nazionale dei Boemi
d’America ebbe inoltrato al Governo italiano, due mesi dopo il di-
sastro di Caporetto, un augurio di vittoria per le proprie armi per la
liberazione delle nazionalità oppresse e la distruzione della Monar-
chia asburgica che le cose iniziarono a cambiare: non è, difatti, fuori
luogo ritenere che Caporetto costituì un elemento essenziale per la
fondazione di un’azione comune fra l’Italia e gli Slavi meridionali e
occidentali in funzione antiasburgica per l’anno successivo, ciò per
cui, tuttavia, bisognava tener conto di un ulteriore elemento, ossia le
modalità attraverso cui le direttive americane per il futuro dell’Eu-
ropa postbellica sarebbero dovute essere eseguite41. Masaryk, nel frat-
tempo, rilasciava a Ia i 0una intervista al giornale Romania dal conte-
nuto esplosivo. Il barone Fasciotti, colà insediato nella qualità di mi-
nistro plenipotenziario, riferì che il politico praghese avrebbe definito
lo Stato austriaco «una dinastia degenerata e una aristocrazia dege-
nerata» e che la Cecoslovacchia era destinata ad essere uno Stato de-

39
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. IX, N. 292, Spingardi a Sonnino, Roma, 24 feb-
braio 1918.
40
Ivi, N. 258, Carlotti a Sonnino, Pietrogrado, 21 ottobre 1917, ore 20.
41
Ivi, N. 699, Macchi di Cellere a Sonnino, Washington, 13 dicembre 1917, ore
20; N. 731, Sonnino a Macchi Di Cellere, Roma, 17 dicembre 1917, ore 23.

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La fine della Grande Guerra 239

mocratico, possibilmente con delle simmetrie politiche con uno Stato


alleato quale era la Romania42.

3. Gli Stati Uniti protettori degli Slavi. – È ben noto che i Quat-
tordici Punti di Wilson potevano dare origine non solo a potenziali
antinomie di ordine applicativo, ma anche fondare vere e proprie con-
flittualità con tempi di latenza non troppo lunghi. Mentre era assai
difficile, in seguito al processo di slavizzazione delle coste liburniche
e dalmate alla fine del XIX secolo per impulso del governo di Vienna,
procedere ad una rettifica delle frontiere italiane «secondo linee di
demarcazione riconoscibili» (punto IX del Programma), offrire un
«libero e sicuro accesso al mare» alla Serbia, una volta che essa fosse
stata evacuata assieme al Montenegro (punto XI del Programma) non
avrebbe certo giovato alla sicurezza italiana nell’Adriatico se il go-
verno di Roma non avesse trovato un’intesa duratura e salda con gli
Slavi del Sud – e sappiamo che il punto XI del Programma sarebbe
stato disatteso nella sua applicazione a lungo termine, per la fine che
avrebbe fatto in seno al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni43. Ma pre-
sto si vedrà che persino il punto X del Programma di Wilson avrebbe
potuto andare a detrimento dell’Italia non solo nell’Adriatico, ma an-
che nel confine settentrionale.
È altresi da ricordare che a partire dal 13 febbraio 1918 il Trat-
tato di Londra non era praticamente più segreto: il deputato nazio-
nalista Giuseppe Bevione lo rendeva noto, leggendone il testo, alla
Camera dei Deputati44. Nel suo discorso, dunque, in riferimento ai
«popoli oppressi dalla dominazione tedesco-magiara» dell’Austria-Un-
gheria, egli ragionò sul cambiamento di disposizione collettiva spe-

42
Ivi, N. 284, Fasciotti a Sonnino, Jassy, 25 ottobre 1917.
43
Sul punto vedansi: F. Caccamo, Il Montenegro negli anni della prima guerra
mondiale, Roma, 2008; A. Sbutega, Storia del Montenegro, Soveria Mannelli, 2006;
A. Becherelli, Montenegro Betrayed: The Yougoslav Unification and the Controver-
sal Inter-Allied Occupation, in Balkan Studies, LI, 2016, 71-104; J. Leadbatter, The
End of Montenegro, 1914-1920, in The South Slav Journal, XIV, 1991, 3-4, 55-66.
44
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, CCXCIX, Tormata di mercoledì 13
febbraio 1918, pp. 15585-15598. Bevione, nel suo discorso, aggiunse queste parole
circa l’uscita della Russia dalla guerra e le trattative di pace di Brest-Litowsk, e dei
vantaggi che ne avrebbe tratto la Germania, padrona di tutta l’Europa orientale e
caucasica: «Brest-Litowsk apre un periodo nuovo, non solo nel corso della guerra,
ma nella storia del mondo. È vano cercare di chiudere gli occhi all’imponenza dei
fatti senza precedenti che si vanno svolgendo». Ivi,15592.

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240 Fabrizio Rudi

cialmente dei rappresentanti dei comitati slavi meridionali e occiden-


tali a Parigi, Londra e Washington verso l’Italia: essi, da diffidenti,
sospettosi, se non apertamente ostili, divennero intiepiditi per gli al-
leati dell’Italia e proclivi a guardare la medesima «come alla sola na-
zione che può difenderli, affermare in seno all’Alleanza il loro diritto
alla libertà, coordinare la loro azione associandola alla propria azione
politica»45, salvo poi porre l’attenzione su una prospettiva politica che
puntualmente si sarebbe poi inverata in sede di conferenza di pace:
l’Italia e la sua politica molto soffrono per la discordia con gli slavi d’Au-
stria, soprattutto coi jugo-slavi. Specialmente l’America è scontenta di
questo dissidio, e, purtroppo, non dà ragione a noi, ma ai nostri vicini
d’oltre Adriatico. Ora noi dobbiamo ricordare l’influenza politica e mo-
rale enorme, decisiva che l’America esercita oggi nei consigli degli alleati
e che sarà massima quando si discuterà la pace. Sopratutto non dob-
biamo dimenticare che l’America non ha firmato il Patto di Londra e
che potrebbe finire la guerra domani, nel momento a noi meno propi-
zio. Un accordo sincero, leale cogli slavi d’Austria assicurerebbe per que-
sto lato vantaggi notevoli, e soprattutto, ci garantirebbe da contrarietà
assolutamente non desiderabili46.

Quest’atto coraggioso del deputato Bevione stimolò la stampa fran-


cese a pubblicare il testo del Trattato di Londra, il 18 febbraio, come
letto alla Camera dei Deputati47: a quel punto, il suo valore venne
del tutto meno. Ciò sembrò indurre l’ambasciatore italiano a Wa-

45
Ivi, 15595.
46
Ibid. Forse non casualmente, Nelson Page non fece riferimento a tutto que-
sto in un suo dispaccio a Robert Lansing del giorno dopo, se egli, in merito al fer-
vente discorso di Bevione scrisse soltanto questo: «Bevione, member of League for
Prosecuting War, read in the Chamber of Deputies yesterday secret treaty of April
26, 1915, hitherto unpublished in Italy. He declared Italy’s claims to round out na-
tionality and defensive frontier indisputable but recognized change in the situation
touching other claims [regarding] colonial expansion. Publication generally applau-
ded. Press generally approves President’s message but Idea Nazionale criticises it».
FRUS, 1918, Supplement 1, The World War, Vol. I, N. 62, Nelson Page to Lansing,
Rome, February 14, 1918, 4 p.m. Il Dipartimento di Stato, pure, reagì in tutt’altra
maniera.
47
Scrive Bonin Longare a tal proposito: «Pubblicazione avvenuta in tal punto
coincide con la riunione socia1ista preparatoria della conferenza di Londra nella quale
seguitano a dominare i noti pregiudizi a proposito del nostro preteso imperialismo».
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. N.255, Bonin Longare a Sonnino, Parigi, 18 febbraio
1918, ore 14,10.

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La fine della Grande Guerra 241

shington, Vincenzo Macchi di Cellere a chiedere lumi a Robert Lan-


sing circa «l’opportunità di pubblicare un manifesto dell’Intesa che
dichiari nulli o non avvenuti tutti i trattati di pace e le relative clau-
sole e determinazioni di frontiere firmati o da firmare all’infuori del-
l’Intesa sotto la pressione degli Imperi centrali»: per quel momento,
Lansing parve non volersi pronunciare chiaramente48.
Dinanzi a tutto questo, la diplomazia italiana non poteva ormai
discostarsi troppo dalla parola di Wilson, la cui influenza, a livello
internazionale, acquisiva un peso sempre crescente, e tale che il go-
verno di Roma avrebbe dovuto avellere da sé ogni possibile taccia di
imperialismo e antidemocraticismo, nel caso in cui non si fosse messo
d’accordo con gli Slavi meridionali e occidentali nella misura del pos-
sibile: andava da sé che ogni accordo territoriale in tal senso – ciò di
cui Sonnino era perfettamente consapevole – avrebbe significato per
Roma andare incontro a rinunce non proporzionate a quanto avrebbe
poi ricevuto in cambio49. Dopo la pace di Brest-Litowsk50, la Ger-
mania aveva sotto il proprio controllo militare dieci stati satellite: la
Repubblica popolare di Bielorussia, il Ducato di Curlandia e Sem-
gallia, il Governo Regionale di Crimea, la Repubblica del Don, il Re-
gno di Finlandia, la Repubblica Popolare del Kuban’, il Regno di Li-
tuania, che di lì a poco avrebbe iniziato la propria lotta per l’indi-
pendenza, dichiarata il 13 febbraio 1918, la Repubblica del Caucaso
del Nord, l’Etmanato di Ucraina, la Repubblica Popolare di Georgia
e soprattutto il Regno di Polonia, definitivamente sotto il controllo
tedesco dopo il rifiuto, da parte del governo di Berlino, di accettare
la proposta austro-ungarica per una soluzione austro-polacca, ossia
un Regno di Polonia inserito entro i confini dell’antico Ducato di

48
Ivi, Vol. N.239, Macchi di Cellere a Sonnino, Washington, 15 febbraio 1918.
49
Cfr. ASMAE, Gabinetto Politico e Ordinario 1915-1918, busta 179, Telegramma
in arrivo N. 229, Sforza a Sonnino, Corfù, 26 gennaio 1918; N. 238, Sforza a Son-
nino, Corfù, 27 gennaio 1918.
50
L’ambasciatore russo a Roma, Michail Nikolaevič Girs, figlio di Nikolaj Kar-
lovič, ministro degli Esteri russo di dello zar Alessandro III e in minima parte di
Nicola II, dal 1882 al 1895, espresse la propria indignazione verso la firma di quella
pace in questi termini: «Je crois devoir affirmer de la façon la plus catégorique que
jamais la Russie ne saurait être liée par cet indigne subterfuge. Le peuple russe ne
pourra ne pas voir le piège qui lui a été tendu par des individus auxquels le senti-
ment de patriotisme est étranger; il comprendra qu’il a été trahi et par la force même
des choses, la Russie, une et indivisible, rentrera en lice pour continuer, au flanc de
ses Alliées, la lutte contre l’ennemi commun». DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. X, N.
352, Giers a Sonnino, Pietrogrado, 8 marzo 1918.

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242 Fabrizio Rudi

Varsavia stabiliti dall’Atto di Vienna del 1815: grazie a ciò, la Ger-


mania poteva tenere sotto il proprio controllo tutta l’Europa centro-
orientale oltre che parte del Caucaso settentrionale51. Ma ciò non ba-
stò ad arginare le mosse del germanesimo. Secondo quanto attestato
dall’ambasciatore italiano a Pietrogrado, Pietro Tomasi della Torretta,
i massimalisti scusano questa pace vergognosa e disastrosa coll’affermare
che le questioni territoriali hanno secondaria importanza avanti all’inte-
resse di conservare il potere per rafforzare il Governo dei Soviet mi-
nacciato di distruzione dall’avanzata germanica. A quanto mi viene rife-
rito però l’avanzata tedesca non si è ancora arrestata e si teme che essa
possa continuare sino alla ratifica del trattato dando possibilità di prov-
vigionare Pietrogrado52.

L’uscita della Russia dalla guerra, quindi, significava una cosa sola:
che i fronti in Europa da quattro sarebbero divenuti tre, quello franco-
tedesco, quello macedone e quello italo-austriaco, fra i rimanenti quello
più vulnerabile, per il mantenimento del quale Francesco Saverio Nitti,
allora Ministro del Tesoro, raccomandava un sostegno militare, ed
economico, da parte statunitense sicuro e sincero53.
Sonnino, quindi, dovette procedere nel senso auspicato dal presi-
dente Wilson, e un primo passo fu fatto il 7 marzo 1918 con l’ac-
cordo verbale stretto fra Ante Trumbić, presidente del Comitato ju-
goslavo e capo carismatico della causa slava meridionale fino alla firma
del Trattato di Rapallo, e il deputato e giornalista de’ Il Messaggero
Andrea Torre54. Auspici di questo accordo furono i maggiori sosteni-
tori, nonché patrocinatori, della causa slavo-meridionale e occidentale,
Wickham Steed e Seton-Watson: sul Manchester Guardian, uno dei
principali quotidiani attraverso i quali essa causa veniva più diffusa-
mente promossa, Sir Arthur Evans salutava l’accordo, che doveva ri-

51
Vedere, in particolare: A. Roshwals, Ethnic Nationalism and the Fall of Em-
pires: Central Europe, the Middle East and Russia, 1914-23, London, 2002; A. Sam-
martino, The Impossible Border: Germany and the East, 1914-1922, Ithaca, 2010.
52
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. X, N. 332, Tomasi della Torretta a Sonnino,
Pietrogrado, 3 marzo 1918.
53
FRUS, 1918, Supplement 1, The World War, Vol. I, N. 101, Nelson Page to
Lansing, Rome, March 14, 1918, 10 p.m; N. 122, Nelson Page to Lansing, Rome,
March 28, 1918, 12 a.m.
54
Si veda, a tal proposito, l’interessante saggio di V. De Sanctis, La propaganda
italiana in Gran Bretagna durante la prima guerra mondiale tra nazionalismo e po-
litica delle nazionalità (1917-1918), in Eunomia, VI, 2017, 2, 327-350.

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La fine della Grande Guerra 243

manere segreto, come opportuno preludio del congresso che si sa-


rebbe tenuto a Roma fra l’8 e il 10 aprile, nel quale i popoli d’Au-
stria-Ungheria si sarebbero avviati al raggiungimento del loro ideale,
e la diplomazia americana, rappresentata a Roma dall’ambasciator Tho-
mas Nelson Page, disse a proposito della sua riunione che «la confe-
renza sarebbe stata in linea con le intenzioni di Wilson per la prote-
zione delle nazionalità che ora stanno soffrendo il giogo austriaco»55.
In sostanza, Trumbić e Torre si erano messi d’accordo su sette
punti, che prevedevano: 1. il completamento della loro rispettiva na-
zionalità secondo il diritto imprescindibile della loro piena indipen-
denza politica ed economica (in ciò ricalcando il punto X dei Quat-
tordici di Wilson); 2. il riconoscimento della Duplice Monarchia quale
ostacolo fondamentale alla realizzazione di questo obiettivo; 3. una
reciproca assistenza nel perseguimento di esso; 4. il reciproco rico-
noscimento delle due nazioni in accordo come di vitale importanza
per entrambe; 5. la liberazione dell’Adriatico e la sua difesa contro
ogni nemico presente e futuro; 6. l’obbligo reciproco a regolare ami-
chevolmente ed equamente ogni contenzioso territoriale; 7. il rico-
noscimento di lingua, cultura e interessi morali ed economici di quei
popoli che si fossero trovati inclusi entro le frontiere dell’altro56. Di-
nanzi a queste dichiarazioni, il marchese Guglielmo Imperiali, al tempo
ambasciatore italiano a Londra, assumeva, comprensibilmente, due at-
teggiamenti diversi; uno distaccato, richiesto dal suo ufficio, ma non
per questo scevro di preoccupazioni57, e un altro appassionato, indi-
gnato, nel proprio Diario, nel quale scriveva, lunedì 11 marzo 1918:
«Pettegolezzi ministeriali e parlamentari. Sonnino. Orlando-Jugo-slavi.
Quanta parvità! E la patria?»58.
Il 10 aprile 1918, quindi, a conclusione del relativo Congresso ini-
ziato due giorni innanzi, e tenutosi presso la Sala della Lupa al Cam-
pidoglio sotto i buoni auspici di Leonida Bissolati e la presidenza del

55
FRUS, 1918, Supplement I, The World War, Vol. I, N. 800, Nelson Page to
Lensing, Rome, April 9, 1918.
56
Sul punto si veda, fra gli altri, L. Monzali, Il sogno dell’egemonia. L’Italia, la
questione jugoslava e l’Europa centrale (1918-1941), Firenze, Le Lettere, 2010, pp.
8-14. Sul punto di vista statunitense FRUS, Supplement 1, The World War, Vol. I,
N. 801, Nelson Page to Lansing, Rome, April 12, 1918, 7 p.m.
57
ASMAE, Ambasciata Italiana a Londra, N. 459, Telegramma in arrivo, N. 626,
Imperiali a Sonnino, 11 marzo 1918.
58
G. Imperiali, Diario 1915-1919, Soveria Mannelli, Rubbettino (Senato della Re-
pubblica, Archivio Storico), 2006, Lunedì, 11 marzo 1918.

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244 Fabrizio Rudi

senatore di Francesco Ruffini – vicepresidente era proprio Andrea


Torre –, furono votate, fra le altre, all’unanimità le seguenti risolu-
zioni:
I rappresentanti delle nazionalità soggette in tutto od in parte al domi-
nio dell’Austria-Ungheria – italiani, polacchi, rumeni, cecoslovacchi, iu-
goslavi – sono convenuti nell’affermare i loro principî per l’azione co-
mune nel seguente modo:
1° ciascuno di questi popoli proclama il suo diritto a costituire la pro-
pria nazionalità ed unità statale, a completarla ed a raggiungere la piena
indipendenza politica ed economica;
2° ciascuno di questi popoli riconosce nella Monarchia austro-ungarica
lo strumento della dominazione germanica e l’ostacolo fondamentale alla
realizzazione delle sue aspirazioni e dei suoi diritti;
3° L’Assemblea riconosce pertanto la necessità della lotta comune con-
tro i comuni oppressori perché ciascun popolo consegua la totale libe-
razione e la completa unità nazionale nella libera unità statale […]59.

Seguivano, poi, quattro risoluzioni che ricalcavano fedelmente


quanto concordato a Londra fra l’avvocato Trumbić e l’onorevole
Torre. Il Patto di Roma, inoltre, «concerneva l’assoluto silenzio in-
torno alle questioni territoriali»60, ma ciò non tolse che si succede-

59
Esiste, del congresso, una memoria coeva: P. Santamaria, Il Patto di Roma,
Roma, 1918. Sul Patto di Roma si veda anche A. Tamborra, L’Europa centro-orien-
tale (1800-1920), Milano, 1971, 401-404, e, più nello specifico: F. Leoncini (ed.), Il
Patto di Roma e la Legione Ceco-Slovacca, Vittorio Veneto, 2014; A. Carteny, Il
congresso di Roma, per le “nazionalità oppresse dell’Austria-Ungheria (1918), in A.
Carteny, S. Pelaggi (eds.), Stato, Chiesa e Nazione in Italia. Contributi sul Risorgi-
mento italiano, Roma, 2011, 163-187; Id., Oppressed Nationalities in Warfare, 1918,
in A. Carteny, G. Motta, A. Vagnini (eds.), Al fronte. La Grande Guerra fra inter-
ventismo, cronaca e soccorso, Roma, 2018, 205-220. Fondamentali rimangono i giu-
dizi figuranti in G. Volpe, Ottobre 1917, Milano, Roma, 1930, 209-211, e in L. Va-
liani (ed.), La dissoluzione dell’Austria-Ungheria V. L’autodecisione dei popoli e il
“Congresso di Roma”, in Rivista Storica Italiana, LVII, 1965, 3, 512-584. Per il te-
sto completo del Patto: G. Amendola, Il Patto di Roma e “la polemica”, in G.
Amendola, G.A. Borghese, U. Ojetti e A. Torre (eds.), Il Patto di Roma, e “la po-
lemica”, in Il Patto di Roma, Firenze, 20-21. Per opere più generali, dove lo svol-
gimento del Congresso è comunque affrontato, cfr., R. Vivarelli, Il dopoguerra in
Italia e l’avvento del fascismo (1918-1922), Napoli, 1967, pp.157-175; R. De Felice,
Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino, 1995 (prima ed. 1965), 381-385. Per i
verbali dei colloqui si veda G. Salvemini, Carteggio 1914-1920, a cura di E. Taglia-
cozzo e S. Bucchi, Roma-Bari, 1984, 2 voll. II, 563-570.
60
Ma in un colloquio privato, Sforza chiese a Trumbić se l’applicazione delle

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La fine della Grande Guerra 245

vano frattanto, anche a Washington, manifestazioni jugoslave che chie-


devano apertamente come confine occidentale la linea dell’Isonzo61:
su questo, Imperiali non esitava a inoltrare molte composte lagnanze
all’ambasciatore Macchi di Cellere, alle quali, tuttavia, faceva da con-
traltare il malriposto stupore del Foreign Office e del Dipartimento
di Stato americano dinanzi all’attitudine italiana di «mettersi a livello
jugoslavi e far dipendere da loro beneplacito conquista territorio che
per sacrosanti diritti ci spettano»62. Ciò nonostante, fra gli obiettivi
della diplomazia italiana in questa particolare congiuntura c’era pro-
prio quello di favorire e rendere più stretti i contatti e la collabora-
zione fra Trumbić e Masaryk in funzione antiaustriaca, e di coordi-
narne al contempo le azioni. In soccorso vennero proprio gli Stati
Uniti: della fine di maggio è infatti, secondo quanto riportato da Mac-
chi di Cellere, una dichiarazione del Segretario di Stato americano,
Robert Lansing, nella quale figurava un aperto incoraggiamento agli
Jugoslavi e Cecoslovacchi residenti negli Stati Uniti ad arruolarsi con
gli Alleati – quindi nelle truppe italiane contro l’Austria-Ungheria –
ma, espressamente, a ribellarsi in qualità di nazionalità oppresse63: il

formule votate a Roma, con conseguente abbandono di terre abitate in quel mo-
mento da Slavi non avesse creato dissensi entro il Comitato «da parte di quei mem-
bri che temessero il passaggio delle loro terre natali all’Italia»; l’avvocato spalatino
rispose che, dinanzi all’importanza di un evento quale la creazione di uno stato ju-
goslavo, ogni sacrificio territoriale sarebbe figurato come di entità minima in con-
fronto. Cfr. DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. X, Sforza a Sonnino, Corfù, 15 maggio
1918.
61
Archivio Centrale dello Stato, Roma (d’ora in avanti ACS), Carte Orlando,
busta 73, Registro copialettere N. 2, Telegramma N. 2170, Orlando a Macchi di Cel-
lere, 16 agosto 1918.
62
Ivi, Telegramma N. 2171, Imperiali a Orlando, 18 agosto 1918.
63
DDI Serie V, 1914-1918, Vol. X, N. 765, Macchi di Cellere a Sonnino, Wa-
shington, 30 maggio 1918 (per ore 14). Si leggano attentamente, infatti, questi punti:
«6. How America could aid this movement (suggestions made by Colonel Baker
and Colonel _tefánik): (a) By a public announcement by the Government that the
movement was approved of by the American Government; (b) By the appointing
of an American representative to the propaganda committee located here; (c) By a
vigorous propaganda in the United States among the Czechs, Jugo-Slavs, Poles, and
Servians now in the United States Army; (d) By the formation in the United Sta-
tes of special legions of these nationalities and sending these legions to join the Czech
forces now being organized on this front; (e) By the appointing in due course of
time of an American liaison officer to duty with the Czech troops here; (f) By an
enthusiastic reception in the United States of the Czech, Jugo-Slav units who are
supposed to be en route now in Siberia». FRUS, 1918, Supplement I, The World
War, Volume I, N. 804, Nelson Page to Lansing, Rome, May 3, 1918, 1 p.m.

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246 Fabrizio Rudi

Dipartimento di Stato Americano diede precise istruzioni su come


tutto questo si dovesse svolgere e come tutto doveva essere con-
dotto64, corredate da immancabili scenari futuri in forza dei quali evi-
tare che un ipotetico stato serbo-jugoslavo dovesse essere sottratto
da qualsiasi influenza commerciale austro-germanica65. A ciò si do-
veva inoltre aggiungere un’analoga dichiarazione annessa al verbale
della VI Sessione, III Seduta del Consiglio Supremo di Guerra riu-
nitosi a Versailles il 3 giugno 191866.

4. Verso la vittoria italiana. – L’offensiva italiana contro l’Austria-


Ungheria si avvicinava, e in occasione del terzo anniversario dall’en-
trata in guerra dell’Italia, ai sensi della convenzione, in 12 articoli, fir-
mata fra il nuovo primo ministro italiano, Vittorio Emanuele Or-
lando, e Štefánik – al tempo organizzatore della Legione cecoslovacca
di Francia67 – il 21 aprile 191868, la Divisione cecoslovacca ricevette
la propria bandiera dalle mani di Orlando a Roma, a piazza Vene-
zia: i suoi combattenti ricevettero come segni distintivi il cappello de-
gli Alpini e il coltello degli Arditi. Subito dopo, il 30 maggio, la Di-
visione fu inclusa nel XXII Corpo d’Armata di stanza presso i Colli
Berici, in provincia di Vicenza: essa, comandata dal generale Andrea
Graziani, era composta di due Brigate, la I e la II, e da quattro Reg-

64
Ivi, N. 805, Nelson Page to Lansing, Rome, May 7, 1918, 7 p.m.
65
Ivi, N. 808, Nelson Page to Lansing, Rome, May 18, 1918, 7 p.m.
66
«Les Gouvernments alliés ont pris note avec plaisir de la déclaration faite par
le Secrétaire d’Etat du Gouvernement des Etats-Unis et désirent s’y associer, en ex-
primant leur vive sympathie aux peuples tchéco-slovaques et yougo-slaves dans leur
lutte pour la liberté et la réalisation de leurs aspirations nationales». DDI Serie V,
1914-1918, Vol. XI, N. 7, Consiglio Supremo di Guerra, Sesta sessione, Terza Se-
duta, Versailles, 3 giugno 1918, ore 15.
67
Dopo un iniziale decreto di riconoscimento da parte del Governo francese,
del dicembre 1917, vennero formati i seguenti corpi: il XXI Reggimento Fucilieri a
Cognac, accorpato alla LIII Divisione di Fanteria francese; il XXII Reggimento Fu-
cilieri, accorpato alla CXXXIV Divisione fanteria. Cfr. S. Tazzer, Sergio, Banditi o
eroi? M.R. Stefanik e la Legione Ceco-slovacca, Vittorio Veneto, 2003; K. Pichlìk,
B. Klipa, J. Zabloudilovà, I legionari cecoslovacchi (1914-1920), Trento 1997.
68
ASMAE, Gabinetto Politico e Ordinario 1915-1918, busta 50, N. 1255, Pe-
trozziello ad Aldrovandi Marescotti, Roma, 6 maggio 1918, Annesso, Convenzione
fra il Governo Italiano e il Consiglio Nazionale dei Paesi Czeco-Slovachi, Roma, 21
aprile 1918. Vedi anche DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. X, N. 581, Roma, 21 aprile
1918.

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La fine della Grande Guerra 247

gimenti di fanteria, il I, II, III e IV69; seppur, subito dopo, ordinata


diversamente al proprio interno, alla Battaglia del Solstizio, si distinse
specialmente presso la collina di Montello e Fossalta di Piave70.
Le operazioni vittoriose italiane sembrarono, quindi, incoraggiare
il presidente Wilson nell’approvare la proposta di legge, fatta dal Se-
nato americano per la creazione di una «legione slava», comprendente
elementi “polacco-russi”, “czecoslovacchi” e “jugo-slavo-serbi” inter-
nati nei campi di prigionia europei o anche residenti negli Stati Uniti71.
In questa maniera, la collaborazione fra “jugoslavi” e “cecoslovacchi”
diretta dall’Italia sarebbe potuta nelle mani degli Stati Uniti, e ciò per
l’Italia non era privo di rischi a lungo termine.
Da Parigi, l’ambasciatore Bonin Longare segnalava una certa agi-
tazione degli elementi cecoslovacchi e jugoslavi stanziati in Francia
per il tenore delle dichiarazioni fatte a loro favore nel Consiglio di
Guerra del 7 giugno; esse sarebbero state più ampie, se non fosse
stato per la parola di Orlando72; da ciò discendeva il rischio per cui
fosse la Francia a divenire tutrice degli interessi delle due nazioni op-
presse a scapito dell’Italia, ciò che parve inverarsi allorché Raimond
Poincaré, Presidente della Repubblica francese, ebbe riconosciuto ai
Cechi e agli Slovacchi il diritto all’indipendenza il 29 giugno 1918.
In questo contesto, si sarebbe poi maturata la destinazione della Le-
gione comandata dallo Štefánik, frattanto divenuto generale, già vice-
presidente del Consiglio Nazionale cecoslovacco, in Siberia in soste-
gno del generale Anton Ivanovič Denikin contro i bolscevichi, dopo
che il Consiglio cecoslovacco di Vladivostok aveva chiesto l’urgente
invio di una spedizione interalleata73. Inizialmente, l’invio era indi-

69
Cfr. C. Paoletti, L. Vannacci, The Czech Army Corps in the Italian Royal
Army in 1918, cit.
70
La Divisione divenne la VI di Fanteria, le Brigate la XI e la XII, i Reggimenti
il XXXI, XXXII, XXXIII e XXXIV. Si può vedere, a tale proposito: C. Moretti,
Considerazioni sulla divisione della Cecoslovacchia, in Rivista di Studi Politici In-
ternazionali, LXXXI, 2014, 2 (332), 205-212.
71
DDI Serie V, 1914-1918, Vol. X, N. 117, Macchi Di Cellere a Sonnino, Wa-
shington, [24] giugno 1918 (per il 25).
72
Ivi, Vol. XI, N. 38, Bonin Longare a Orlando, Parigi, 10 giugno 1918.
73
Ivi, N. 178, Sonnino a Macchi di Cellere, Parigi, 4 luglio 1918. Sul ruolo dei
Cecoslovacchi in Russia vedansi:; J. Kalvoda, Czechoslovakia’s Role in Soviet Stra-
tegy, Washington DC, 1981; V. M. Fic, The Bolsheviks and the Czechoslovak Le-
gion. The Origin of Their Armed Conflict, March-May 1918, New Delhi, 1978; S.
McNeal, The Secret Plot to Save the Tsar, New York, 2002. E infine: A. Graziosi,

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248 Fabrizio Rudi

cato nei dispacci di Sonnino come eventuale, e lo stesso Stephen Pi-


chon parlava della ripugnanza che specialmente i soldati comandati
dal generale Sarryk avevano espresso nell’essere militarmente impie-
gati in Russia74, ripugnanza tale da aver causato il 17 maggio 1918
l’inizio di una rivolta dei reparti cecoslovacchi avvenuta presso »elja-
binsk75.
Ma pericoli di questo tipo provenivano anche dalla Gran Breta-
gna. L’incaricato d’affari a Londra, Livio Borghese, informava, alla
fine di agosto che il settimanale The Near East deplorava il fatto che
la dichiarazione fatta dal Governo britannico in favore dei cecoslo-
vacchi non fosse stata fatta a nome di tutti gli alleati, indicando il
Governo italiano responsabile di tutto questo: per tale ragione, il Go-
verno italiano «per aver aderito all’accordo di Roma…» era «logica-
mente condotto a cancellare il patto di Londra ed a stringerne uno
nuovo coi suoi Alleati»76. Come prima cosa, quindi, l’Italia pensò di
cedere i prigionieri serbi, croati e sloveni internati principalmente a
Nocera Umbra, i quali, consci che di lì a poco tempo le aspirazioni
nazionali jugoslave sarebbero state adeguatamente sistemate, inizia-
rono a giudicare vessatorio il trattamento comunque assai civile che
stavano ricevendo: il nuovo Ministro della Guerra Vittorio Zupelli

Storia dell’Unione Sovietica, Bologna, 2007-2011, 2 Voll., I, L’Urss di Lenin e Sta-


lin (1914-1945), pp. 108-120.
74
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. XI, N. 122, Bonin Longare a Sonnino, Parigi,
25 giugno 1918, ore 22,15.
75
In questa occasione, l’ambasciator Tomasi della Torretta, che allora si trovava
a Vologda, diede al generale Giovanni Romei Longhena, capo della missione mili-
tare in Russia, le seguenti istruzioni: «Truppe czeco-slovacche rappresentano truppe
alleate che hanno combattuto in territorio russo. Avendo Russia cessato partecipare
guerra dette truppe non furono armate dal territorio russo. Questione truppe russe
in Francia non ha alcun rapporto coll’attuale incidente truppe czeche ed in ogni caso
essa riguarda solamente Francia e Russia, mentre truppe czeche interessano tutti gli
alleati. Basandosi su questo concetto V. S. vorrà concertarsi col suo collega di Fran-
cia per appoggiare tutti quei passi che saranno giudicati opportuni circa truppe cze-
coslovacche mantenendo fermo punto di vista di non consentire disarmo». Ivi, N.
9, Tomasi Della Torretta a Sonnino, Vologda, 3 giugno 1918. Grazie a questo tipo
di intervento, anche i rappresentanti diplomatici di Francia, Inghilterra e Stati Uniti
fecero un passo affine presso il Commissario del Popolo per gli Affari Esteri della
RSFS Russa, Georgij Vasil’evič Čičerin, il quale, pur impressionato da questo passo,
disse di «non potere abbandonare le esigenze del disarmo, che avrebbe riferito in
ogni modo al Governo e avrebbe comunicato la risposta». Ivi, N. 26, Tomasi della
Torretta a Sonnino, Vologda, 7 giugno 1918, ore 22,30.
76
Ivi, N. 447, Borghese a Sonnino, Londra, 26 agosto 1918.

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La fine della Grande Guerra 249

riteneva ciò causato da «talune recenti dichiarazioni fatte dall’on. Bis-


solati alla Commissione Prigionieri, secondo le quali gli Ufficiali in
questione» erano «da considerarsi non come prigionieri ma come al-
leati, e quindi liberi»77. L’unica soluzione prospettabile sarebbe po-
tuta essere la creazione di una Legione jugoslava sull’esempio di quella
cecoslovacca, ma andava da sé che la scelta era assai compromettente
per la futura esecuzione del Trattato di Londra, in armonia, a que-
sto punto, con il rispetto delle risoluzioni prese a Roma il 10 aprile78;
molto più utile, e meno rischioso, sarebbe stato arruolare una divi-
sione jugoslava da destinarsi al fronte di Salonicco, ma da ceders i
formalmente alla Serbia79.
L’evento che smosse le sorti della guerra per il colpo finale agli
Imperi centrali occorse il 3 settembre 1918, allorché il Dipartimento
di Stato americano ebbe solennemente dichiarato la nazione cecoslo-
vacca come “nazione belligerante”, oltre che naturale alleata di quella
jugoslava80. Nello stesso giorno, un altro documento di una certa im-
portanza, ossia una convenzione anglo-cecoslovacca finalizzata al con-
solidamento dei rapporti fra il Consiglio Nazionale Cecoslovacco e
il Foreign Office, della cui primissima versione riportiamo del 25 ago-
sto, qui di seguito, il testo:
The British Government accepts in principe the following:
1°) The Czeco-Slovaks will hold a position among the Allies of an al-
lied and belligerent nation.
2°) Their relations with the Allies will be identical in all the allied con-
tries.
3°) Their Armies will be considered as a national, autonomous and Al-
lied Army, placed exclusively under the supreme political direction of
the Czeco-Slovaks National Council.
4°) The Czeco-Slovaks will be represented at all inter-Allied Conference
except such as are reserved to Great Powers only.
5°) A political loan will be advanced to the Czeco-Slovaks by the Al-
lies in which Great Britan will also participate and which will be used
for the manteinance of the Czeco-Slovaks Army and Administrations.
6°) The Czeco-Slovaks National Council, as the trustes of the future

77
Ivi, N. 461, Zupelli a Orlando, Roma, 29 agosto 1918.
78
Ivi, N. 463, Orlando a Zupelli, Roma, 31 agosto 1918.
79
Ivi, N. 465, Sonnino a Zupelli, Roma, 1° settembre 1918; N. 527, Zupelli a
Sonnino, Roma, 16 settembre 1918.
80
FRUS, 1918, Supplement I, The World War, Volume I, N. 832, Lansing a
Morris, Washington, 3 settembre 1918.

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250 Fabrizio Rudi
Czeco-Slovaks Government, will have the right to issue passports and
establish consular and messager service.
7°) The Czeco-Slovaks recognised as such by the Czeco-Slovaks autho-
rities who garantees for them will be treated as friends and Allies.
8°) A mixed financial Commission will be put up to control the bud-
get.
9°) The Czeco-Slovaks National Council will come up an agreement
with the other allies as regards those clauses of the convention which
deal with their interests and require their consent81.

Ciò obbligava il Ministero della Guerra italiano a meditare nuove


soluzioni per l’impiego dei reparti cecoslovacchi in territorio italiano82,
e induceva Orlando a risolvere finalmente il problema di come af-
frontare la nascita del futuro Stato jugoslavo, e delle simmetrie che
esso avrebbe avuto con il nascituro Stato cecoslovacco. A tale pro-
posito, il barone Sonnino inviava agli ambasciatori Bonin Longare e
Macchi Di Cellere e all’incaricato d’affari Borghese, riportava una di-
chiarazione del Governo italiano che considerava «il movimento dei
popoli jugoslavi per la conquista dell’indipendenza e per la loro co-
stituzione in libero Stato come rispondente ai principii per cui gli al-

81
ASMAE, Gabinetto Politico e Ordinario 1915-1918, busta 50, Telegramma in
arrivo N. 1671, Bonin Longare a Sonnino, Parigi, 25 agosto 1918; Telegramma in
arrivo, N. 1604, Imperiali a Sonnino, Londra, 15 agosto 1918. Nella versione defi-
nitiva della convenzione, all’articolo 9, i Cecoslovacchi erano definiti con il signifi-
cativo sintagma di “alien friends”. Ivi, Telegramma in arrivo N. 1698, Imperiali a
Sonnino, Londra, 2 settembre 1918, ore 22. Il testo della convenzione del 3 settem-
bre 1918 può essere letto in Digest of International Law, by Green Haywood
Hackworth, Washington, United States Government Printing Office, 1940, Volume,
I, Chapters I-V, 204-205. Per l’azione della diplomazia inglese a sostegno dei Ceco-
slovacchi durante la Grande Guerra, si veda L. Novotný, The British Legation in
Prague: Perception of Czech-German Relations in Czechoslovakia between 1933 and
1938, Oldenbourg, 2019, 14-15.
82
Ancora al principio di settembre la Commissione per i Prigionieri di Guerra
raccomandava che gli intenti non fossero ancora impiegati in combattimento, ma
solo per necessità agricole, salvo poi decidere «tenuto conto […] del numero ingente
dei prigionieri czeco-slovacchi (circa 15.000) e del danno non trascurabile che ne de-
riverebbe ai lavori specialmente agricoli per il loro allontanamento, ed anche della
convenienza di avere qualche elemento di esperienza nel funzionamento dei reparti
stessi, questo Ministero determina che la loro costituzione avvenga gradualmente e
per ora vi sia impiegato un primo nucleo di circa un migliaio di Czeco-Slovacchi».
ASMAE, Gabinetto Politico e Ordinario 1915-1918, busta 50, Telegramma in arrivo
N. 10509-G, Il Ministero della Guerra alla Commissione Prigionieri di Guerra e al
Ministero degli Affari Esteri, Roma, 8 settembre 1918.

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La fine della Grande Guerra 251

leati combattono nonché ai fini di una pace giusta e durevole»83. Se-


guì, poi, una pomposa dichiarazione di Trumbić in un suo colloquio
avuto con il ministro Paulucci De’ Calboli, nel quale la futura Jugo-
slavia non avrebbe potuto aver per madre che l’Italia, in ciò non man-
cavano, in questo senso, timori e sospetti, se da queste parole Pau-
lucci pensò di scorgere una personalità «più levantina che dalmata»84.
Nel mese di ottobre, mentre sul fronte veneto si preparava l’of-
fensiva finale contro l’Austria-Ungheria, il Comitato jugoslavo e il
Comitato cecoslovacco attendevano che l’Italia facesse il primo passo:
se non lo avesse fatto le due “nazioni oppresse” avrebbero proceduto
per conto proprio. E così avvenne: il 15 ottobre 1918 lo Stato ceco-
slovacco fu proclamato indipendente, e a quel punto la principale
preoccupazione di Orlando fu, accanto al riconoscere l’esistenza del
nuovo Stato il 19 ottobre, e allo sferrare il colpo decisivo alla Du-
plice Monarchia il 24 ottobre, la corretta esecuzione dell’articolo IV
del Trattato di Londra85: il 16 ottobre l’imperatore Carlo I procla-
mava, in extremis, ma indarno, lo Stato federale.
Mentre, dunque, si avvicinava la battaglia di Vittorio Veneto, gli
Jugoslavi non maturavano un’opinione particolarmente edificante sulle
conseguenze immediate della battaglia imminente. Nelle pagine del
settimanale La Serbie, stampato in lingua francese a Ginevra, appa-
riva, il 17 ottobre 1918 un breve articolo del Professor Lazar Ma-
sković intitolato Le dévoir de l’Italie, in cui era scritto che la len-
tezza con cui l’esercito italiano si riorganizzava lungo il Piave avrebbe
potuto consentire agli Austro-Ungarici di concentrare le proprie forze
contro l’esercito serbo con più agio86. In realtù, è ben noto che, al
contrario, in quei giorni, il morale degli Austriaci era piuttosto basso,
e che i comandi della III, IV, VI, VIII X, e XII Armata stava sem-
plicemente cercando di coordinare meglio la distribuzione dei propri

83
DDI Serie V, 1914-1918, Vol. X, N. 507, Sonnino a Bonin Longare, Macchi
Di Cellere e Borghese, Roma, 13 settembre 1918.
84
Ivi, N. 556, Paulucci De’ Calboli, Berna, 21 settembre 1918 (per il 26).
85
Ivi, N. 674, Sonnino a Imperiali, Bonin, Macchi Di Cellere e Sforza, Roma,
15 ottobre 1918
86
ASMAE, Gabinetto Politico e Ordinario 1915-1918, busta 128, N. 12588, Stric-
tly Confidential, the Chief of the Information Service of the Supreme Command of
the Italian Army in Washington, Marchetti, to the Italian Foreign Ministry, Turin,
October 17th, 1918, Annex: La Serbie, Journal politique hebdomadaire, Year III, N.
36, Geneva, October 14th, 1918, Monday.

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252 Fabrizio Rudi

reparti lungo il fronte del Brenta e del Piave87. Nel medesimo nu-
mero de’ La Serbie era un altro breve articolo che suscita il nostro
interesse per altre ragioni: affrontando la questione relativa alle rela-
zioni italo-serbe, lo scrittore britannico M. George Herron, premet-
tendo che gli Stati Uniti nutrivano sentimenti di genuine simpatia nei
riguardi dell’Italia specialmente dopo il Patto di Roma, non poteva
dissimulare un certo sentimento di diffidenza nell’opinione pubblica
americana per ciò che concerneva gli incipienti disaccordi fra l’Italia
e il mondo jugoslavo
Car il faut vous dire, en Amérique la cause serbe a trouvé des amis dé-
voués et convaincus. Mais aussi du point de vue de l’intérêt propre ita-
lien, c’était une erreur de ne pas embrasser immédiatement la cause de
la Serbie et de la Yougoslavie dès le commencement de la guerre. Sans
les Yougoslaves, sans les Serbes, l’ennemi le plus vicieux, le plus traître,
la Bulgarie, s’installerait sur l’Adriatique, la Bulgarie qui espérait absor-
ber la Serbie et l’Albanie et disputer à l’Italie la domination dans l’Adria-
tique…

Ciò, in altre parole, risulta sufficiente a fugare ogni dubbio sul de-
stino dell’Europa centrale, ora sotto stretto controllo dell’influenza
degli Stati Uniti, e non più sotto quello tedesco. Mentre le terre ce-
coslovacche avevano cessato di far parte della Duplice Monarchia, il
29 ottobre 1918 veniva proclamata a Zagabria. Due giorni dopo, l’u-
nione personale della Corona ungherese a quella austriaca fu procla-
mata decaduta dal primo ministro ungherese Mihály Károlyi88. Po-
chi giorni prima, Gyula Andrassy il Giovane, l’ultimo ministro de-

87
L’Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915-1918), cit., V, Le operazioni del
1918, Tomo II bis, La conclusione del conflitto, N. 179, the Command of the Ita-
lian IV Field Army to the Supreme Command and to the Chief of the General
Staff, War Zone, October 7th, 1918; N. 223, Strictly Confidential,the Supreme Com-
mand of the Italian Royal Armee, Office for Operations, to the Commanders of
III, IV, VI, VIII, X, and XII Field Army, War Zone, October 21th, 1918.
88
Cfr.: Z.A.B. Zeman, The break-up of the Habsburg empire, 1914-1918. A study
in national and social revolution, London, 1961; L. Freiherr von Flotow, November
1918 auf dem Ballhausplatz. Erinnerungen Ludwigs Freiherrn von Flotow des let-
zen Chefs des Österreichisch-Ungarischen Auswärtigen Dienstes 1895-1920, Herau-
sgabe und Bearbeitung von Erwin Matsch, Graz, 1985. See also: G. M. Sangiorgi,
L’Ungheria dalla repubblica di Károly alla reggenza di Horthy, Bologna, 1927; G.
Romanelli, Nell’Ungheria di Béla Kun e durante l’occupazione militare romena. La
mia missione (maggio-novembre 1919), edited by A. Biagini, Roma, Ufficio Storico
dello Stato Maggiore dell’Esercito, 2002.

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La fine della Grande Guerra 253

gli Esteri austro-ungarico, lanciava un disperato appello dell’impera-


tore Carlo I all’esercito, ma nel frattempo i neonati Stati nazionali
stavano richiamando le proprie truppe, vittoriose nei Paesi dell’In-
tesa, entro i propri confini. Carlo I, dopo il collasso dell’Impero,
avrebbe continuato ad essere de iure imperatore fino all’aprile 191989,
benché il 12 novembre 1918 Karl Renner avesse assunto la carica di
Cancelliere Repubblica dell’Austria tedesca.

5. Verso una compagine slava centro-europea? – Dopo l’armisti-


zio di Villa Giusti, le truppe italiane, fra il 3 e il 5 novembre 1918
occuparono tutte le terre adriatiche accordate all’Italia dal Patto di
Londra: poco prima, il Narodno Vijeće (Consiglio Nazionale)90 di Za-
gabria, dopo aver proclamato, il 29 ottobre, la nascita di uno Stato
degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi, non comprendente il Regno di
Serbia, ma che reclamava l’Isonzo quale confine occidentale, inviava
al presidente Wilson, il 4 novembre, una nota di protesta nella quale
era espressamente richiesta l’unificazione al neonato Stato, ancora
privo di alcun riconoscimento internazionale, della Serbia e del Mon-
tenegro91. La questione era vieppiù complicata dal fatto che il 30 ot-
tobre il Consiglio Nazionale di Fiume, presieduto da Antonio Gros-
sich, in virtù dei principi enunciati da Wilson l’8 gennaio, proclamava
l’unificazione del capoluogo del Carnaro al Regno d’Italia. Ecco, dun-
que, inverarsi i disastri della applicazione letterale del punto X dei
Quattordici di Wilson. In tutto questo, Beneý e Masaryk furono
tutt’altro che comprensivi nei riguardi dei legittimi diritti dell’Italia
sull’Adriatico, se, volendo per la propria compagine statale un rico-
noscimento legittimo, indirettamente spingevano anche i Serbo-jugo-
slavi a fare lo stesso, e inevitabilmente a scapito dell’Italia92. Per ri-

89
Cfr. R. Neck, V. Oldenbourg (eds.), Österreich im Jahre 1918. Berichte und
Dokumente, München, 1968.
90
Sulla storia e sul funzionamento del Narodno Vijeće, vedasi Z. Matijević, Na-
rodno vijeće Slovenaca, Hrvata i Srba u Zagrebu. Osnutak, djelovanje i nestanak
(1918-1919), in Narodno vijeće Slovenaca, Hrvata i Srba u Zagrebu (1918-1919: iza-
brani dokumenti, Hrvatski državni arhiv, Zagreb, 2008, 35-66.
91
Dokumenti o postanku kraljevine Srba, Hrvata i Slovenaca, 1914-1919, cit. N.
139, Protesta dell’Assemblea Nazionale al presidente Wilson contro l’occupazione
italiana Pribićević e Pavelić, Zagabria, 4 novembre 1918.
92
Cfr. ASMAE, Gabinetto Politico e Ordinario 1915-1918, busta 50, Telegramma
in arrivo N. 2297, Bonin Longare a Sonnino, Parigi, 11 novembre 1918. Vedansi an-
che: A. C. Davidonis, The American Naval Mission in the Adriatic, 1918-1921, Wa-

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254 Fabrizio Rudi

spondere alle inevitabili domande che diano una risposta a questo


mutato atteggiamento può essere utile la lettura bollettino speciale in-
terno dell’Ufficio del Capo di Stato Maggiore della Marina datato 7
dicembre 1918. In esso è detto che il cosiddetto “panslavismo” da
Pietroburgo si era ora spostato a Praga, per la formazione di un’u-
nione di tutti gli slavi sud-occidentali entro uno Stato libero da ogni
influenza russa. In tal proposito, qualcuno avrebbe fatto chiamare i
Cechi i “Prussiani della Slavia”, in quanto convinti di poter costituire
l’anima e il cervello di tale unione degli Slavi dei Sud. Ma c’erano in
seno a tale iniziativa delle difficoltà interne: mentre i Cechi volevano
questa unione, purché ne fossero la parte maggioritaria, i Serbi la de-
sideravano a condizione che ne costituissero l’elemento direttivo:
I Cechi adducono a sostegno della loro tesi una civiltà anteriore a quella
dei Serbi e una capacità organizzatrice ed economica maggiore di quella
dei Serbi; mentre questi ultimi citano a loro sostegno un’unità statale,
che ha resistito alle più dure sofferenze, una maggiore importanza terri-
toriale ed infine il possesso di una costa, che mette già in comunicazione
col mondo esterno e nella possibilità di esercitare traffici e commerci ai
quali il possesso di una flotta dà già una garanzia di sicurezza e di li-
bero esercizio. I Cechi ribattono che lo sbocco al mare è loro assicurato
per garanzia delle potenze dell’Intesa, che la flotta non è soltanto serba,
e che infine il regime monarchico non è accetto né a loro né ai Croati
o Sloveni. Le divergenze sono tali che lasciati a sé questi popoli non
s’intenderebbero e l’unione ceco-jugoslava non si farebbe93.

shington D.C., 1943; I.J. Lederer, Yugoslavia at the Paris Peace Conference, New
Haven, 1963; D.R. Živojnović, America, Italy and the Birth of Yugoslavia, 1917-
1919, New York, 1972. Non si sottolinea mai abbastanza che sin dall’inizio il Co-
mitato Jugoslavo di Londra “fissava” i confini etnici italiani in questo modo: «1°)
Nella provincia di Gorizia la riva destra dell’Isonzo, con Monfalcone e il suo porto;
2°) Trieste porto franco sotto sovranità italiana, ma al di fuori delle tariffe italiane;
3°) In Istria la parte occidentale, con Capo d’Istria, Rovigno, Pola, all’estuario del-
l’Arsa; 4°) Fiume (ora indipendente con governatore ungherese) porto franco sotto
la bandiera del Regno Unito dei Jugoslavi; 5°) Dalmazia ai Jugoslavi eccetto per con-
siderazioni militari l’isola di Losin (Lusson piccolo) l’isola di Lissa e finalmente Val-
lona; 6°) Abolizione delle fortezze di Sebenico e Cattaro, e la costa Dalmata consi-
derata neutrale». ASMAE, Gabinetto Politico Ordinario 1915-1918, busta 180, N.
41785, Il Ministero dell’Interno, Direzione Generale della P.S., Ufficio Riservato,
Roma, 26 ottobre 1915, Nota N. 1, Londra, ottobre 1915.
93
ASMAE, Gabinetto Politico e Ordinario 1915-1918, busta 50, N. 8776/268,
Riservatissimo, personale, Bollettino Speciale Interno dell’Ufficio del Capo di Stato
Maggiore della Marina, Roma, 7 dicembre 1918. In effetti, questo tipo di unione,
fino al tempo della rivoluzione di febbraio, sarebbe potuta essere favorita dalla Rus-

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


La fine della Grande Guerra 255

Ma, prosegue il documento, l’unione si sarebbe fatta, perché vi si


sarebbe intromesso un terzo: «questo terzo è l’Inghilterra o meglio
l’America, alle cui spalle sta l’Inghilterra»94. L’Inghilterra, infatti, lo
avrebbe fatto per liberarsi della minaccia tedesca, ma anche di quella
russa – non è specificato se quella massimalista oppure no – e con il
chiaro scopo di proteggere la propria influenza in Asia Minore per
la via del Golfo Persico, oltre che per evitare la creazione di una
nuova alleanza franco-russa.
Infatti:
L’organismo ceco-jugoslavo formatosi sotto la spinta inglese le sarebbe
devoto e toglierebbe al germanesimo ogni aspirazione mediterranea; que-
st’organismo libero da ogni influenza russa, anzi per necessità ostile ad
ogni influenza russa, le sarebbe una garanzia contro ogni tendenza russa
al Mediterraneo. Garanzia completata, per quanto riguarda l’Asia Minore
e la via al golfo Persico dalla formazione dello Stato Ucraino il quale li-
miterebbe lo sbocco marittimo meridionale della Russia propriamente
detta in un piccolo angolo del Mar Nero95.

Un tale assetto avrebbe lasciato, almeno per cinquant’anni ancora,


incontrastato il predominio inglese sull’Europa. La Francia, che aveva
tacitamente riconosciuta la necessità in ossequio ai principi procla-
mati di permettere la riunione alla Germania dei Tedeschi dell’Au-
stria, era ancora troppo ossessionata dal pericolo tedesco-italiano, per
pensare di opporsi ai disegni inglesi96. Si conclude, poi, dicendo:

sia. Scriveva, infatti, a tal proposito, l’allora ambasciatore italiano a Pietrogrado, An-
drea Carlotti: Delegazione Società Russo-Serba ricevuta dal Ministro degli Affari
Esteri ha esposto seguenti desiderata: l) che gli alleati facciano una dichiarazione uf-
ficiale al Governo serbo: sulla ricostituzione del reame e sulla rifusione danni sof-
ferti durante guerra come fu fatto per il Belgio; 2) che tale dichiarazione contenga
affermazione che non si vedano ostacoli né politici, né religiosi alla riunione in un
solo regno dei serbi, croati e sloveni; 3) che alleati dichiarino desiderabile che nuovi
due Stati indipendenti serbo e czeco slovacco abbiano una frontiera comune; 4) che
alleati dichiarino necessità sopprimere Stato Austria Ungheria poiché riunione alla
confederazione germanica di altri otto milioni di tedeschi non presenta pericolo men-
tre invece presenta molti vantaggi soppressione di un amalgama di nazionalità per-
petuamente alleate al militarismo prussiano». DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. VII, N.
421, Carlotti a Sonnino, Pietrogrado, 6 marzo 1917, ore 11.
94
ASMAE, Gabinetto Politico e Ordinario 1915-1918, busta 50, N. 8776/268,
cit.
95
Ibid.
96
Ibid.

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256 Fabrizio Rudi
L’unione ceco-jugoslava sarà antitaliana come è antirussa, di più essa sarà
fatalmente longa manus del germanismo in Mediterraneo, poiché essa ne
costituisce l’asse nord-sud di espansione. Un monopolio inglese in Asia
Minore, Persia ecc., completato per forza di cose da un piccolo mono-
polio francese in Siria, significa l’esclusione dell’Italia da ogni attività ed
ingerenza in Mediterraneo. È pertanto interesse comune dell’Italia e della
Russia di impedire questo. È pertanto interesse dell’Italia di opporsi allo
smembramento della Russia e di favorire il movimento monarchico, che
tende alla ricostituzione della Russia sotto un regime liberare e demo-
cratico97.

Quella testé citata e commentata non è una testimonianza isolata


e peregrina. Già dopo la rivoluzione di febbraio, l’ambasciatore ita-
liano a Pietrogrado di allora, marchese Andrea Carlotti di Ripabella,
annotava che una delegazione della Società russo-serba, ricevuta dal
ministro degli Esteri russo Nikolaj Nikolaevič Pokrovskij, espone-
vano dei desiderata fra i quali figurava, a fronte di una ricostituzione
del Regno di Serbia risarcito dei danni di guerra al pari del Belgio,
una dichiarazione, rilasciata dalle Potenze dell’Intesa, che desse per
desiderabile una frontiera comune ai «due Stati indipendenti serbo e
czeco slovacco»98. Dopo che la tutela degli Slavi occidentali e meri-
dionali fu passata nelle mani degli Stati Uniti, della Francia e del-
l’Inghilterra esclusivamente, Eduard Beneý, divenuto ministro degli
Esteri del nuovo Stato cecoslovacco, richiedeva tutele a Stephen Pi-
chon per i confini del suo Paese, specialmente dalla Repubblica del-
l’Austria tedesca e dal suo recalcitrante ministro degli Esteri, Otto
Bauer, che reclamava il proprio controllo sui Tedeschi dei Sudeti e
della Slesia. Il ministro degli Esteri francese, nell’indirizzarsi al mini-
stro Bauer attraverso la Legazione di Svizzera a Vienna, scrisse che
la questione delle frontiere dell’Austria tedesca con la Cecoslovacchia
e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni sarebbe stato posto sotto ar-
bitrato delle Potenze99.

97
Ibid.
98
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. VII, N. 421, Carlotti a Sonnino, Pietrogrado, 6
marzo 1917, ore 11.
99
«The Swiss Legation has been good enough to communicate to the Ministry
of Foreign Affairs under the dates of December 13th and 16th two communications
from the Government of German Austria. The first of these notes is in the form
of a protest against the alleged intention of the powers of the Entente to place in
subjection to the Czecho-Slovak state the Germans of Bohemia and of Moravia. In

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La fine della Grande Guerra 257

Ora, dopo l’armistizio di Villa Giusto, l’Italia si incaricò di gestire


la ripresa delle ora divise Austria e Ungheria: Trieste e Pola, occu-
pate dalle truppe italiane dal 4 novembre 1918, dovevano fungere da
punti di partenza per il trasporto di viveri in Ungheria, e gli snodi
ferroviari del Friuli per l’Austria Tedesca attraverso il Voralberg100. La
Francia aveva proposto all’Italia l’occupazione di una parte conside-
revole del precedente territorio austro-ungarico, ma gli interessi ita-
liani volgevano alla sicurezza dell’Adriatico, e in questa maniera si
arrivò ad affidare il Comando di occupazione dell’Austria tedesca al
Generale Armando Diaz, e quello dell’Ungheria al generale Louis
Franchet D’Esperey101. Il vero pomo della discordia era però il con-
trollo italiano di Fiume, che la Francia intendeva inibire.
Si arrivò, così, alla Conferenza di Pace di Parigi, allorché fu su-
bito chiaro alla diplomazia italiana che le questioni fiumana e boema
erano strettamente legate a quella dell’Austria tedesca102. La situazione
era nota soprattutto ai vertici militari, se il Sottocapo di Stato mag-
giore dell’Esercito italiano, Pietro Badoglio, di stanza ad Abano, sot-
tolineava, alla fine del gennaio 1919, che i la Cecoslovacchia e il Re-
gno dei Serbi, Croati e Sloveni intendevano confinare attraverso il
cosiddetto «corridoio ceco». Il percorso principale attraverso cui l’Italia
riforniva di vettovaglie l’Austria tedesca e in parte l’Ungheria era la
ferrovia Pontebbana, che percorreva una piccola porzione di territo-
rio, strategicamente rilevantissima, chiamata “triangolo di Assling”,
rivendicata, dal 25 novembre 1918, dagli Jugoslavi. Il governo di Bel-
grado, dunque, doveva essere dissuaso dall’estendere il proprio terri-
torio sino alla catena delle Caravanche, la cui sicurezza era essenziale
per il controllo di Fiume. Ma il Generale Badoglio ricordava che esi-

this note it is affirmed that the Germans in question are desirous of separating them-
selves from the Czecho-Slovak state and a plebiscite is proposed at an early date
for the purpose of clearing up the situation. In the second note it is proposed to
submit to arbitration all questions relating to the frontiers between German Austria
and both the Czecho-Slovak and the Jugo-Slav states». FRUS, 1918, Supplement 1,
The World War, Vol. II, N. 306, Eduard Beneý to Lansing, Paris, December 20,
1918, Enclosure, Copy of the Reply of the French Government to the Government
of German-Austria, Communicated Through the Swiss Legation, signed Pichon, Pa-
ris, on 19th of December 1918.
100
DDI, Serie V, 1914-1918, Vol. XI, N. 213, Sonnino a Imperiali, Rome, 18 no-
vembre 1918.
101
Ivi, N. 491, Sonnino ad Orlando, Roma, 7 dicembre 1918.
102
DDI, Serie VI, 1918-1922, Vol. II, N. 109, Sonnino al Ministero degli Esteri,
Parigi, 26 gennaio 1919.

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258 Fabrizio Rudi

steva invero un altro modo con cui Cecoslovacchi e Jugoslavi avreb-


bero potuto confinare, ossia l’assorbimento, entro le loro rispettive
compagini territoriali, dei comitati ungheresi di Zala, Vas, Sopron e
Moson, e l’atto di portare il confine settentrionale del Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni lungo il corso superiore della Drava. In que-
sta maniera, Praga e Belgrado sarebbero potute intervenire più facil-
mente sulla questione fiumana a proprio vantaggio.
In altre parole, una situazione del genere poteva risultare per l’Italia
assai più compromettente che una remota ed assai più debole riuni-
ficazione austro-ungherese103. Pertanto, garantire la ripresa dell’Austria
tedesca e dell’Ungheria separatamente significava per l’Italia evitare,
da una parte, la formazione del summenzionato «corridoio ceco» pre-
servando l’esistenza del futuro Stato federato del Burgenland (oggi
con capitale ad Eisenstadt), e dall’altra, che la questione del Tirolo si
risolvesse con l’assegnazione del Trentino all’Italia e dell’Alto Adige
all’Austria tedesca104; sopra ogni altra cosa, avrebbe significato garan-
tirsi il supporto dell’Ungheria in fase di riconoscimento dell’Italianità
di Fiume105.

103
Ivi, N. 141, Badoglio a Orlando, Sonnino e Barzilai, Roma, 28 gennaio 1919.
104
Per il punto di vista italiano, vedere in particolare: G.Marsico, Il problema
dell’Anschluss austro-tedesco 1918-1922, Milano, 1983
105
ASMAE, Affari Politici, 1919-1930, busta 1303, Telegramma in arrivo N. 71,
Tacoli a Sonnino, Budapest, 5 marzo 1919.

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Alessandro Tedde
DENTRO E CONTRO WEIMAR: CORPORATIVISMO
E PRIVATIZZAZIONE DEL CONFLITTO SOCIALE

1. Il punto di vista operaio sullo sviluppo costituzionale. – Nella


«parabola politica» del «secolo socialdemocratico»1, iniziata a Gotha
nel 1875, proseguita a Erfurt nel 1891 e a Bad Godesberg nel 1959,
la Repubblica di Weimar ha rappresentato un momento di netta emer-
sione del punto di vista del movimento operaio sulla storia dello svi-
luppo costituzionale2, non scevro da aporie e contraddizioni, che ha
dato luogo all’attuale significato di «socialdemocrazia» come
«sviluppo del pensiero e della prassi del socialismo fondata sul presup-
posto teorico della possibilità di superare l’antagonismo delle classi in
lotta e sul conseguente presupposto pratico della possibilità della colla-
borazione delle forze politiche della classe operaia alla gestione dello
Stato»3.

Nella fase storica compresa tra la fine del XIX secolo e la grande
crisi economica del 1929, la lotta di classe assunse sempre più le forme
di una lotta per il diritto, indotta da una riorganizzazione antagoni-
stica del lavoro con la rifondazione di un’associazione internazionale
di partiti operai4, nella quale il Partito Socialdemocratico di Germa-

1
Il periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e la fine del Novecento è stato
così denominato da R. Dahrendorf, La libertà che cambia, Laterza, Bari-Roma, 1994.
Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2012; Id., The Parabola of
Working Class Politics, in A. Gamble, T. Wright (cur.), The New Social Democracy,
Blackwell, Oxford, 1999.
2
A. Negri, Dal Capitale ai Grundrisse, in La forma Stato. Per la critica dell’e-
conomia politica della costituzione, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 33.
3
A. Negri, Dentro/contro il diritto sovrano: dallo stato dei partiti ai movimenti
della governance, Ombre corte, 2010, Padova, p. 128.
4
Nel 1889 ad opera di Friedrich Engels, che non a caso fissò la sede al di fuori
del Vecchio continente, nella città di New York, quale antitesi dialettica al comin-
ciamento del processo di globalizzazione dell’economia capitalistica, cioè di un avan-

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260 Alessandro Tedde

nia progressivamente si pose a capo di un processo di rinnovamento


analitico in opposizione al fatalismo, al determinismo e al meccani-
cismo imperanti, che ebbe in Eduard Bernstein il maggior protago-
nista5.
L’opera di Bernstein liberò dal freno dell’immobilismo dottrina-
rio la socialdemocrazia, mettendo in crisi tanto «la linea rivoluzio-
naria» quanto «la teoria del partito»6 vigente ai tempi attraverso l’in-
dividuazione del rapporto tra salari e profitti come il vero terreno
dello scontro con il capitale, dacché egli concluse nel senso della pre-
valenza degli obiettivi sindacali su quelli politici, cioè che «la lotta
sindacale, concepita come lotta economica, doveva sovrastare la lotta
politica» e conseguentemente «il sindacato si trovava al di sopra del
partito», essendo quest’ultimo relegato alla funzione di mera crea-
zione del quadro istituzionale funzionale alla crescita del potere eco-
nomico della forza-lavoro o, in altri termini, alla sua sanzione giu-
ridica7.
L’obiettivo finale del socialismo e quello intermedio della modi-
fica delle strutture del potere venivano obliterati «per scendere sul
terreno della concreta vertenza contrattuale», guadagnando in termini
di «carica dinamica» e di «possibilità d’immediata praticabilità», se-

zamento verso il raggiungimento dell’obiettivo connaturato al capitale, la realizza-


zione del mercato mondiale, cfr. Presentazione, in Storia del Marxismo, Einaudi, To-
rino, 1979, vol. II, p. XIII.
5
Con una serie di articoli pubblicati sulla Neue Zeit seguiti dal volume su I
presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, in un primo tempo
come affondo polemico contro le esitazioni di Kautsky e dei «santoni del partito,
timorosi del distacco dalla ortodossia», ma che presto innescò un profondo dibat-
tito in seno alla socialdemocrazia internazionale, cfr. S. Bologna, Composizione di
classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, in Aa. Vv., Operai
e stato. Lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra rivoluzione d’Ottobre e
New Deal, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 28 ss.; A. Negri, Dentro/contro il diritto
sovrano: dallo stato dei partiti ai movimenti della governance, cit., p. 129. Anni
dopo, nei suoi quaderni, Antonio Gramsci avrebbe così formalizzato la domanda
a cui Kautsky, Bernstein, Luxemburg e Lenin avevano provato a dare risposta e
cioè: «come nasce il movimento storico sulla base della struttura», cfr. A. Gramsci,
L. Gruppi, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Ed. Riuniti,
Roma, 1971, p. 152.
6
La questione fu subito affrontata da Rosa Luxemburg nel 1899, nella sua cri-
tica contenuta in Riforma sociale o rivoluzione?, cfr. S. Bologna, Ivi, p. 30.
7
S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movi-
mento consiliare, cit., p. 28 ss.

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Dentro e contro Weimar 261

condo la celebre massima bernsteiniana «il movimento è tutto, il fine


è nulla»; di tale potenzialità si accorsero ben presto i dirigenti delle
grandi organizzazioni sindacali tedesche, che già nel 1903 dichiara-
rono ufficialmente la propria autonomia dal partito, contribuendo alla
diffusione dell’economicismo come teoria generale del movimento di
classe8.
La prima guerra mondiale fornì alla classe lavoratrice l’occasione
per avanzare alcune pretese verso il governo dello Stato, di cui si av-
vantaggiarono le correnti del movimento operaio che, nello stesso
torno di anni, ruppero con la tradizione pacifista della Seconda In-
ternazionale: socialdemocratici weimariani e bolscevichi russi che si
sarebbero trovati a gestire la macchina statale capitalista, sulla base di
un’alleanza dei produttori finalizzata ad una nuova politica econo-
mica.
I primi esperimenti di «uso operaio dello stato capitalistico»9 mi-
sero in atto «una gestione dell’economia capitalistica sotto la guida
politica operaia che utilizzava la macchina statale (borghese) per scon-
figgere le arretratezze della società […], per promuovere la riforma
dello Stato e rimettere in moto lo sviluppo»10: una «decisione del cer-
vello operaio di rilanciare lo sviluppo per ricostituire le basi materiali
di crescita della classe»11 che si poneva in netta antitesi alla vulgata
marxista che riduceva lo Stato al «comitato che amministra gli affari
comuni di tutta la classe borghese»12.
La declinazione riformista dell’uso operaio dello stato capitalistico13
venne prima legittimata lungo tutto il corso del primo conflitto mon-
diale, il cui buon esito necessitava della collaborazione operaia non-

8
Ibid.
9
La formula richiama direttamente quella di «uso operaio del capitale e del po-
tere» coniata dall’operaismo italiano negli anni ’60 del XX secolo, cfr. M. Tronti,
Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano, 1977.
10
A. Giardiello, Operaismo: la disfatta di un’utopia letale, in Falcemartello, 2015,
p. 51.
11
S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movi-
mento consiliare, cit., p. 45.
12
K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), A.C. Editoriale,
Milano, 2010.
13
Perché, appunto negli stessi anni di Weimar, l’Europa assistette ad un tenta-
tivo rivoluzionario di uso operaio dello stato capitalistico, durante il periodo della
Nuova Politica Economica (NEP) di Lenin.

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262 Alessandro Tedde

ché del supersfruttamento in fabbrica (che potevano essere garantiti


solo dalla socialdemocrazia, per il tramite del sindacato)14.
Alquanto sbrigativamente, i pacifisti rivoluzionari e i bolscevichi
bollarono come tradimento «il patriottismo e la collaborazione di
classe» dei tedeschi, ma a un’analisi più approfondita può affermarsi
che invero si trattò di «un lucido e cinico progetto di cogestione tra
capitale e sindacati, tra stato borghese e partito socialdemocratico»,
un mero «passaggio tattico verso una successiva gestione della società
della ricostruzione e del lavoro»15.
Con l’approfondirsi della guerra fino al suo termine, «i socialde-
mocratici diventeranno, quanto più patriottici, tanto più pressanti, per
proporsi come ceto politico di ricambio»16 nella gestione di un’op-
zione poliziesca di rivoluzione von oben, dall’alto17, fondata sull’or-
ganizzazione autoritaria dei lavoratori in vista della loro liberazione
tramite l’intervento dello Stato18, a discapito di una rivoluzione von
unten, dal basso e autoemancipatrice19 (a dimostrazione di quanto

14
S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movi-
mento consiliare, cit., pp. 26 s.
15
Ivi, p. 42.
16
«In effetti non si spiega altrimenti la tempestività e la decisione con cui pa-
droni e partito socialdemocratico si mossero dopo il 1918, né il violento risentimento
antisindacale dei quadri consiliari; durante la guerra il sindacato aveva gestito e ga-
rantito in fabbrica il supersfruttamento, aveva denunciato alla polizia gli operai ri-
belli», cfr. S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del mo-
vimento consiliare, cit., p. 42 s.
17
E. Bussi (1948). Evoluzione storica dei tipi di stato, Milano, Giuffrè, 2002, p.
80 s.
18
Cioè di un hegeliano «individuo storico». Ricorda, a proposito, M. Löwy, Il
giovane Marx e la teoria della rivoluzione, Massari, Bolsena, 2001, p. 246 s., che
«intimamente persuaso del proprio ruolo messianico di ‘Grande Liberatore’ degli
operai, Lassalle concentra nelle proprie mani tutti i poteri dell’Associazione; mette
in piedi una struttura organizzativa ultracentralizzata, autoritaria, antidemocratica,
quasi dittatoriale, che toglie qualsiasi facoltà di iniziativa o di autonomia ai membri
delle sezioni locali».
19
Prima dell’incontro con il marxismo, le organizzazioni operaie tedesche erano
cresciute sulla base della dottrina di Lassalle, il cui socialismo era del tutto antite-
tico a quello di Marx, come aveva potuto appurare quest’ultimo nel luglio-dicem-
bre 1862 in occasione della visita del primo a Londra. Scrivendo ad Engels il 7
agosto, egli chiosava in questo modo: «politicamente non concordiamo in nulla
fuor che in alcuni scopi finali alquanto distanti», cfr. K. Marx, Lettera a Engels
del 7 agosto 1862, in Opere complete, XLI, 303. Sul punto delle diverse concezioni
di rivoluzione v. M. Löwy, Il giovane Marx e la teoria della rivoluzione, cit., 2001,
246 s.

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Dentro e contro Weimar 263

fosse stata profonda l’introiezione dei principi del lassallismo prima


del più recente approdo al marxismo)20.
La «clausola generale» di Bernstein che innalzava il rapporto sa-
lari-profitti a solo metro di giustezza dell’azione politica si innestava
su di un impianto analitico pregno di fideismo statolatrico e di crol-
lismo ideologico21, dominato da una dogmatica interpretazione della
legge marxiana sulla caduta tendenziale del saggio di profitto che fa-
ceva ritenere che, portando alle estreme conseguenze lo sviluppo del
capitale fino al superamento della soglia della minima remuneratività,
l’implosione del sistema economico capitalista sarebbe stata inevita-
bile.
La subordinazione del partito agli organi di lotta economica e sin-
dacale, cioè l’indicazione degli organi di «resistenza ai capitalisti»22
come sostituti della socialdemocrazia nella rappresentanza della «classe
operaia non nei suoi rapporti con un determinato gruppo d’impren-
ditori, ma nei suoi rapporti con tutte le classi della società contem-
poranea, con lo stato, come forza politica organizzata»23 faceva pro-
pendere per un intervento diretto delle rappresentanze operaie sulle
leve della politica nazionale, con il fine di accelerare il processo di
valorizzazione capitalistica, rendendo il capitale collettivo ancor più
capitalista, pur al contempo mitigandone gli effetti tramite la capacità
redistributiva dello Stato24.
In cambio del voto ai crediti di guerra nell’agosto del 1914 e del-

20
Al socialismo scientifico e materialista di Marx, Lassalle opponeva un sociali-
smo messianico calato dall’alto «per intervento di un Salvatore», a suo tempo iden-
tificato in Bismarck, al cui governo Lassalle aveva fatto appello affinché accogliesse
la sua «parola d’ordine della ‘creazione di cooperative di produzione con l’aiuto dello
Stato’», cfr. M. Löwy, Il giovane Marx e la teoria della rivoluzione, Massari, Bol-
sena, 2001, p. 246 s.
21
In seguito, nel 1875, Marx avrebbe criticato il lassallismo del Programma di
Gotha della socialdemocrazia tedesca, che sarebbe stato sostituito dal Programma
di Erfurt del 1891 scritto da Bernstein, Kautsky e Bebel, cfr. M. Löwy, op. cit.,
p. 245.
22
Tale il loro ruolo secondo la definizione classica di Engels, cfr. S. Bologna,
Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, cit.,
p. 33.
23
Contraddicendo, appunto, Lenin (citato da S. Bologna, Composizione di classe
e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, cit., p. 33).
24
Sul lassallismo della moderna socialdemocrazia tedesca ha scritto Karl Schmidt
(membro del comitato direttivo della Spd), in un articolo per il centesimo anniver-
sario del Partito apparso su Le Monde, il 29 maggio 1963.

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264 Alessandro Tedde

l’accettazione in toto del socialimperialismo»25, in Germania i rap-


presentanti dei lavoratori imposero «una serie di organismi paritetici
sia a livello di fabbrica che a livello più generale», alternativi al na-
scente movimento consiliare»26, il cui effetto, alla fine del conflitto,
fu la legittimazione della sussunzione dell’interesse di classe in quello
allo sviluppo del capitale collettivo «salvaguardato dallo stato, ossia,
nel 1918, dalla socialdemocrazia al potere»27.
In opposizione ad un’ottica antagonistica basata sulla conquista
violenta del potere da parte delle classi sfruttate, la declinazione rifor-
mista dell’uso operaio dello stato capitalistico si orientò verso una
forma di comunitarismo, che venne consolidata giuridicamente nella
Costituzione della Repubblica di Weimar, come «collaborazione delle
forze politiche della classe operaia alla gestione dello Stato […] visto
come arena neutrale entro cui le organizzazioni politiche delle classi
sociali in lotta [potevano esercitare] una pressione intesa a determi-
nare il movimento delle riforme»28.
Il modello giuspubblicistico weimariano sembra alluderà ad una
forma operaia di Fürsten-Revolution, che «non opera drasticamente,
in via generale sulla società e sulla sua conformazione»29 per produrre
una «trasformazione dei precedenti fondamenti della vita interna dello
Stato e di tutto il suo organismo, per quanto attiene alla costituzione,
al governo, alla amministrazione ovvero alla forma sociale su cui è
fondato»30 promossa dalle organizzazioni della socialdemocrazia in
veste di «principe illuminato»31. In questo modo, la socialdemocrazia
tedesca tenne aperta la

25
S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movi-
mento consiliare, cit., p. 26 s.
26
Ivi, p. 42.
27
Ivi, p. 22, 28.
28
A. Negri, Dentro/contro il diritto sovrano: dallo stato dei partiti ai movimenti
della governance, cit., p. 128.
29
E. Bussi (1948), op. cit., p. 84 s.
30
Ibid.
31
Un’eco del lassallismo, come si può intuire leggendo M. Löwy, op. cit., p. 246
s., secondo il quale, divenuto un vero e proprio dominus dell’Associazione generale
degli operai tedeschi, Lassalle tradusse la propria concezione riformistica di un «so-
cialismo ‘dall’alto’, per intervento di un Salvatore» in un pubblico sostegno profuso
al governo reale e, nel segreto delle trattative condotte con Bismarck, nella promessa
del «sostegno dell’Associazione in cambio di un intervento ‘sociale’ dello Stato prus-
siano».

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Dentro e contro Weimar 265
«possibilità che l’egemonia della classe operaia po[tesse] affermarsi, nel-
l’ambito delle istituzioni democratiche, attraverso l’uso dello Stato e l’im-
posizione di riforme progressive che man mano mut[asser]o i rapporti
di forza, stabilis[ser]o forme di proprietà e di gestione dei beni di pro-
duzione sempre più socialmente controllate, distribuis[ser]o in maniera
equa la ricchezza sociale»32.

2. Oltre il comunitarismo weimariano. – Tuttavia, il riconoscimento


di un ruolo pubblicistico delle rappresentanze del lavoro ha fallito
nell’imprimere una connotazione «operaia» allo stato, mentre ha de-
terminato una «vera integrazione organica dei sindacati nello sviluppo
programmato della società capitalistica»33: l’obiettivo di «istituziona-
lizzare il conflitto sociale e assorbirlo all’interno dello Stato»34 ha fi-
nito per trasformare compiutamente la classe operaia tedesca in una
classe socialista nazionale e ridotto l’intero campo della lotta di classe
ad una mera lotta per il diritto35, come peraltro perorato da Her-
mann Heller, unico giuspubblicista iscritto alla Spd durante gli anni
weimariani.
A differenza del successivo corporativismo fascista, il comunitari-
smo di Weimar non negava l’esistenza del conflitto di classe, piutto-
sto la obliterava, come si coglie dal precipitato giuridico-costituzio-
nale che, mentre sul piano dei principi riconobbe il «carattere pub-
blico» degli antagonismi fondamentali (capitale e lavoro)36, seguitò poi
nell’affermare un atteggiamento agnostico di non «chiara scelta tra
socialismo e capitalismo, rimettendo invece al Parlamento questo com-
pito»37.
Pur affermando i principi della giustizia e dell’esistenza dignitosa

32
A. Negri, Dentro/contro il diritto sovrano: dallo stato dei partiti ai movimenti
della governance, cit., p. 128.
33
«Negli ultimi giorni del suo impegno in Quaderni rossi, Tronti credeva che
[l’integrazione dei sindacati] rappresentasse la minaccia più grave alla lotta contro il
capitale», cfr. S. Wright, L’assalto al cielo: per una storia dell’operaismo, Ed. Alegre,
Roma, 2008, p. 99.
34
G. Arrigo, Teorie e ideologie politiche e sindacali nella Repubblica di Weimar.
Dalla ‘democrazia consiliare’ alla ‘democrazia economica’, in Rivista di Studi politici
S. Pio V, 2018, p. 105.
35
R. Cavallo, Hermann Heller e lo stato sociale di diritto, in M. Gambilonghi, A.
Tedde (cur.), Percorsi della democrazia sociale, in corso di pubblicazione, p. 4 s. datt.
36
F. L. Neumann, Behemoth, Oxford University Press, New York, 1944, pp.
53 ss.
37
G. Arrigo, op. cit., p. 89.

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266 Alessandro Tedde

a fondamento dell’ordinamento dello Stato e come limite alla libertà


economica privata (art. 151), di fatto la costituzione weimariana for-
malizzò uno schema corporativo di sussunzione dell’interesse di classe
nell’interesse nazionale, a detrimento della valenza antagonistica del
lavoro intesa come fattore di crisi dello Stato38, il cui fulcro è nel-
l’art. 165, dove è sancito l’asservimento degli strumenti dell’antago-
nismo di classe, tra cui il sindacato a uno sviluppo costituzionale retto
sulla pariteticità tra capitale e lavoro, sanzionato giuridicamente da
un principio di necessaria collaborazione con gli imprenditori impo-
sta ai lavoratori ai fini della «determinazione delle condizioni di im-
piego e di lavoro e per lo sviluppo economico complessivo delle ener-
gie produttive»39.
L’articolato modello di compartecipazione dei lavoratori alla de-
terminazione della politica economica nazionale incise anche sul piano
della libertà di contrattazione sindacale, stante che la coordinazione
congiuntiva compone un’endiadi che pone sullo stesso piano il trat-
tamento, non solo economico, dei lavoratori con il fine della valo-

38
S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, Giuffré, Milano, 1969 (ried.), pp.
12 ss.
39
L’Art. 165 così statuiva: «Gli operai ed impiegati debbono collaborare con gli
imprenditori per la determinazione delle condizioni di impiego e di lavoro e per lo
sviluppo economico complessivo delle energie produttive. Le organizzazioni delle
due categorie ed i contratti da esse stipulati sono giuridicamente riconosciuti. Gli
operai ed impiegati, per la tutela dei loro interessi sociali ed economici, dispongono
di una rappresentanza legale nei consigli operai di azienda e nei consigli operai di
distretto, formati secondo la ripartizione delle regioni economiche, nonché nel con-
siglio operaio del Reich. I consigli operai di distretto e quello del Reich per l’a-
dempimento dei generali compiti economici e la collaborazione all’attuazione delle
leggi di socializzazione, formano, insieme ai rappresentanti degli imprenditori e con
gli altri ceti interessati, dei consigli economici di distretto, ed un consiglio econo-
mico del Reich. Questi consigli devono essere organizzati in modo che vi siano rap-
presentati i gruppi di mestiere importanti ed in misura proporzionale al loro rilievo
economico e sociale. I progetti di legge in materia sociale ed economica di più rile-
vante importanza devono essere, prima della loro presentazione, a cura del governo
del Reich, sottoposti al parere del consiglio economico del Reich. Il consiglio eco-
nomico ha il diritto di formulare proposte di legge nella materia stessa, ed il go-
verno del Reich è obbligato a presentarle al Reichstag, anche se non consenta ad
esse. Il consiglio economico può incaricare uno dei suoi membri di sostenere in-
nanzi al Reichstag il progetto da esso proposto. I poteri di controllo e di ammini-
strazione possono essere trasferiti ai consigli dei lavoratori ed a quelli economici nel-
l’ambito territoriale loro spettante. Appartiene alla competenza esclusiva del Reich
di regolare l’organizzazione e le attribuzioni dei consigli operai ed economici ed i
loro rapporti con altri enti sociali autonomi».

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Dentro e contro Weimar 267

rizzazione del capitale collettivo, giungendo all’effetto di obliterare il


conflitto tra i due antagonismi, ma anche cristallizzando una prima-
zia logico-temporale del capitale sul lavoro40, che subordinò il rico-
noscimento giuridico delle organizzazioni di opere ed impiegati e la
previsione di una loro rappresentanza legale «nei consigli operai di
azienda e nei consigli operai di distretto, formati secondo la riparti-
zione delle regioni economiche, nonché nel consiglio operaio del
Reich», dunque la tutela dei loro interessi sociali ed economici, al-
l’immodificabilità dei rapporti di potere.
Ciononostante, il modello weimariano di confronto pubblicistico
tra gli antagonismi rappresenta una pietra miliare del costituzionali-
smo novecentesco, che per la prima volta riconobbe la preesistenza
del conflitto di classe all’ordinamento giuspolitico, derivandone la ine-
liminabile compresenza dualistica di poteri antagonisti nello Stato,
senza che per ciò stesso si determinasse una dissoluzione tout court,
bensì piuttosto una trasformazione progressiva di un antagonismo
«fuori e contro lo stato» in un agonismo «dentro e per lo stato»,
sebbene con evidenti limitazioni sul piano dell’autonomia di classe
che verranno messe in luce dai modelli che al comunitarismo wei-
mariano si ispireranno, come il corporativismo fascista, ma che an-
cora oggi fonda la capacità dello stato tedesco di stare nel mercato
mondiale in quanto «capitalista collettivo ideale»41, unico in Europa
ad aver mostrato, con la mediazione della Ue, di poter assurgere a
soggetto autonomo dell’ordinamento globale.

3. L’uso anti-operaio dell’interesse alla produzione nazionale nel


corporativismo totalitario fascista. – Il fascismo italiano recepì l’idea
della composizione pubblicistica del conflitto fra le classi nell’ordi-
namento corporativo, tratteggiando in «trenta banali aforismi» rac-
colti da Italo Balbo sotto «il pomposo nome di Carta del lavoro»42

40
È esattamente su questa considerazione che Mario Tronti concepisce la tesi
dell’autonomia del politico: «Con l’autonomia del politico, l’operaismo scopriva l’uso
operaio del capitale e del potere. La classe operaia era potere: secondo Tronti, l’er-
rore della socialdemocrazia non era quello di pensare che si potesse gestire la mac-
china statale capitalista, ma quello di essere subalterna alla sua iniziativa», cfr. A.
Giardiello, op. cit., p. 51.
41
F. Engels, Antidühring, Ed. Riuniti, Roma, 1971.
42
D. Mack Smith, Storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 466. La carta è
edita in A. Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, Torino, 19782,
pp. 477-481.

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268 Alessandro Tedde

un sistema di regolazione dell’economia nazionale43, che, tuttavia, rap-


presentò un elemento di stabilità rispetto all’eclettismo ideologico che
caratterizzava il fascismo delle origini; il sistema corporativo, capace
di coagulare sindacalisti, nazionalisti e financo cattolici, risultò effet-
tivamente definitorio del fascismo, per schietta ammissione di Mus-
solini, che lo elevò a «unico elemento veramente essenziale del fasci-
smo, […] destinato a diventare il tema principale del ventesimo se-
colo»44.
Come avvenuto nella Germania pre-weimariana, anche l’Italia
pre-fascista aveva assistito alla riarticolazione del movimento ope-
raio, con l’uscita dal partito socialista, nel 1908, della parte più at-
tiva del sindacalismo, indolente alle esitazioni del riformismo, la
quale divenne una corrente del tutto autonoma, sebbene priva di
una propria teoria (se si escludono alcune fumisterie soreliane);
prettamente incardinata nel sud agricolo e bracciantile, questa cor-
rente, slegata dal movimento operaio internazionale, fu in breve
egemonizzata dal nascente nazionalismo, espressivo degli interessi
degli strati intermedi della popolazione, il quale opponeva alla teo-
ria socialista e marxista della lotta di classe45 quella «fondamentale,
per il nazionalismo e l’imperialismo italiano, della ‘nazione prole-
taria’»46.
Secondo il suo maggior esponente, Corradini, «il nazionalismo
aveva per gli italiani la stessa importanza del socialismo per il prole-
tariato, era l’arma per la liberazione da un peso insopportabile del-
l’Italia ‘povera’ e ‘umiliata’»47. Egli provò a reinterpretare in termini
imperialistici anche il sindacalismo, alla stregua di quella che egli ri-
teneva la «dottrina universale di tutta la vita», precisamente definen-
dolo come «imperialismo della classe operaia che si realizza nel rap-
porto con la borghesia»48.
Da questa saldatura tra sindacalismo e nazionalismo nacquero or-
ganizzazioni come l’«Unione italiana del lavoro», ispiratrice della

43
A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa: dal medioevo all’età contem-
poranea, il Mulino, Bologna, 2007, p. 602.
44
D. Mack Smith, Storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 457 s.
45
B. R. Lopuchov, Il fascismo italiano, in R. De Felice, Il fascismo, Laterza, Mi-
lano, 1998, p. 496 s.
46
Ivi, p. 498
47
Ibid.
48
Ibid.

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Dentro e contro Weimar 269

prima occupazione di una fabbrica metalmeccanica sul suolo italiano49,


una «nuova forma di lotta, che a differenza dello sciopero, mante-
neva la produzione nazionale»50 e che divenne l’emblema di un nuovo
movimento operaio «anche patriottico»51, esaltato da Mussolini in un
suo celebre discorso contro la direzione massimalista del partito so-
cialista. Quando i lavoratori «rimasero padroni dell’impresa, conti-
nuando il lavoro e non cessando la produzione»52, questa occupa-
zione assunse «l’aspetto di lotta contro l’influenza funesta dei ‘poli-
ticanti di partito’ sui ‘produttori di lavoro’»53.
Giunto al potere, Mussolini mobilitò gli intellettuali del partito54
ai fini dello sviluppo di «un modello di stato nel quale all’assemblea
rappresentativa si sarebbero dovuti affiancare consigli di categoria
espressi dalle imprese e dai lavoratori»55, che fu «derivato dalle tesi
del socialdemocratico tedesco Kurt Eisner, in parte accolte nella co-
stituzione di Weimar (all’art.165)»56-57.

49
A Dalmine, dal 17 marzo 1919, in risposta al licenziamento di uno dei di-
pendenti.
50
B. R. Lopuchov, op. cit., p. 503.
51
Ivi, p. 502.
52
Ivi, p. 501 s.
53
Ivi, p. 503.
54
Secondo il progetto del nazionalista Rocco, ministro della Giustizia dal gen-
naio 1925, nel 1926 fu istituito il nuovo ministero delle Corporazioni e nel 1930 fu
data teoricamente vita a un Consiglio nazionale delle corporazioni con funzioni di
assemblea deliberante e nel quale erano rappresentati, sempre in teoria, tutti i lavo-
ratori del paese attraverso le rispettive organizzazioni corporative. Per ogni catego-
ria il fascismo consentì il riconoscimento di un solo sindacato e di una sola asso-
ciazione padronale, imponendo loro l’adesione al regime» con la legge 3 aprile 1926,
n. 563, mentre sciopero e serrata furono vietati e sanzionati penalmente, cfr. D. Mack
Smith, op. cit., p. 457 s.; A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa: dal me-
dioevo all’età contemporanea, p. 601 s.
55
A. Aquarone, op. cit., p. 3; cfr. A. Padoa Schioppa, op. cit., p. 601 s. All’art.
III della Carta si affidava al sindacato di categoria legalmente riconosciuto il potere
di «stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla
categoria». All’art. VI si affermava che le corporazioni, in cui sono presenti il sin-
dacato dei lavoratori e l’associazione di categoria dell’impresa, «costituiscono l’orga-
nizzazione unitaria della produzione e ne rappresentano legalmente gli interessi». La
Carta dei diritti acquistò formalmente valore di legge solo nel 1941, quando si stava
completando la redazione del nuovo codice civile.
56
A. Padoa Schioppa, op. cit., p. 601s.
57
Sebbene propagandata come una novità da Mussolini, «ansioso di dimostrare
che il fascismo non aveva un carattere meramente conservatore, ma era ricco di idee
nuove e feconde» D. Mack Smith, op. cit., p. 457 s.

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270 Alessandro Tedde

Sebbene non vi sia dubbio che sia stata la Costituzione weima-


riana a mostrare per prima la possibilità della sussunzione dell’inte-
resse di classe in quello alla produzione nazionale come strumento
per il superamento dell’antagonismo tra capitale e lavoro, non è pos-
sibile proporre un’identità tra comunitarismo e corporativismo, stante
che nel secondo l’afflato corporativo58 è lo strumento della negazione
della preesistenza della lotta di classe all’interesse nazionale, cui è so-
stituita, come succedaneo, la lotta tra l’imperialismo delle ricche plu-
tocrazie e quello della nazione proletaria.
La negazione della lotta di classe proletaria è, anzi, l’elemento di-
stintivo del carattere totalitario del regime fascista, il cui essenziale
corporativismo è espresso dalla massima «nulla contro lo Stato, nulla
al di fuori dello Stato»59: Costantino Mortati ha sottolineato che «alla
tipologia dello ‘Stato totalitario’ si deve ricorrere unicamente per in-
quadrare l’esperienza tedesca e italiana del nazismo e del fascismo
perché ciò che qualifica strutturalmente e politicamente queste forme
di Stato sono appunto rinvenibili nei loro ‘fini fondamentali […] di
neutralizzare in radice la forza sovversiva implicita nelle rivendica-
zioni della classe proletaria»60, cioè de facto imporre la sottomissione
dell’interesse della classe operaia, esclusa dal governo, a quello della
borghesia nazionale, già radicata da decenni.
Il sistema corporativo acquistò una forma più definita solo nel
193661, con ventidue corporazioni distinte per le varie attività com-

58
In verità, vi sarebbe il precedente, per quanto effimero, della Carta del Car-
naro.
59
Secondo una delle massime del regime che campeggiava in forma di aforisma
sulle pareti esterne delle case (cit. in D. Mack Smith, op. cit., p. 477).
60
S. Gambino, Stato sociale e Stato socialista in Costantino Mortati, Marco, Co-
senza, 2002, p. 89; cfr. C. Mortati, Lezioni sulle forme del governo, Cedam, Padova,
1973, p. 48.
61
«Nel 1933 [Mussolini] promise che il Consiglio nazionale delle corporazioni
avrebbe sostituito un giorno la camera dei deputati. Sottolineò come questa camera
non fosse mai stata di suo gusto, fosse diventata anacronistica persino nel nome e
fosse un istituto estraneo all’ideologia fascista, dato che presupponeva una pluralità
di partiti che ormai non esisteva più. Due anni più tardi assicurò impudentemente
al Consiglio stesso che esso era la più importante assemblea della storia d’Italia. Fi-
nalmente nel 1939 venne creata la Camera dei fasci e delle corporazioni per sosti-
tuire l’antico sistema parlamentare, che finì così di nome oltre che di fatto. Per quanto
la denominazione di questo nuovo istituto potesse sembrare suggestiva, sta di fatto
che le corporazioni erano più un’aspirazione che una realtà concreta, e Salvemini le
definì giustamente un esempio di complicata truffa. La macchina corporativa era

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Dentro e contro Weimar 271

merciali e industriali, con funzioni politiche oltre che economiche, al-


l’interno delle quali era inquadrato ogni lavoratore62. Ma, al di là della
effettiva modalità con cui era minata l’autonomia di classe, «per la
borghesia del tempo il problema era quello della conservazione del
sistema capitalistico come tale e non questa o quella forma della sua
gestione a livello statale»63.
In questa prospettiva, «il fascismo si mostrava come un fenomeno
storico, di gran lunga più ampio e profondo dei movimenti antipro-
letari e controrivoluzionari»64, capace di rendere universale, con l’e-
sempio della fascistizzazione dello Stato italiano, «il compimento di
quella antitesi, sorta nella lotta contro il movimento rivoluzionario
proletario, dopo la prima guerra mondiale. Il fatto stesso che nella
lotta contro tale movimento si arrivò al rifiuto di tutte le forme de-
mocratiche e alla piena fascistizzazione dello Stato, attestava altresì la
forza dell’impeto rivoluzionario»65.

4. L’uso operaio delle fonti del diritto in funzione dello stato di


«classe universale». – Anche la Costituzione repubblicana del 1948
presenta alcune influenze del modello weimariano, sebbene inserite
in un quadro generale nel quale il conflitto sociale è funzionalizzato
a stabilizzare la progressione dello sviluppo costituzionale.
Poiché «nella concezione pluralistica accolta dalla nostra Costitu-
zione non si disconosce la realtà del ‘conflitto industriale’ (cioè, del
conflitto tra gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro), né si

estremamente costosa, e ciò portò al clientelismo e alla corruzione, e con essa venne
creata in sostanza una nuova organizzazione elefantiaca che duplicava (e quindi osta-
colava) le operazioni svolte dai pubblici uffici preesistenti. Nel marzo 1936 Musso-
lini affermò davanti al Consiglio delle corporazioni che egli non desiderava buro-
cratizzare l’intera economia della nazione; ma in pratica l’estensione dell’attività go-
vernativa a tutti i settori della vita del paese creò una struttura organizzativa quanto
mai macchinosa, lenta, poco reattiva, priva di contatti con la gente comune», cfr. D.
Mack Smith, op. cit., p. 457 s.
62
«I rispettivi quadri erano naturalmente nominati dall’altro, in parte perché si
richiedevano posti ben retribuiti per i fascisti più eminenti. Quanto ai lavoratori co-
muni, non avevano che da pagare la loro quota d’iscrizione e fare quel che veniva
loro ordinato, ché invece d’esser cittadini indipendenti, titolari di determinati diritti,
essi non erano ormai che parti di un ingranaggio con una determinata funzione da
svolgere», cfr. D. Mack Smith, op. cit., p. 457 s.
63
B. R. Lopuchov, op. cit., p. 503.
64
Ibid.
65
Ibid.

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272 Alessandro Tedde

tenta di mediare tale conflitto con illusorie, quanto inutili, costruzioni


formali»66, ad un’attenta lettura del testo, la Costituzione italiana mo-
stra di rigettare con forza l’agnosticismo che fu di Weimar, non la-
sciando alcun dubbio sul fatto che «alcuni, fondamentali principi ideo-
logici del socialismo sono penetrati e vigono nella Costituzione»67.
Il nostro ordinamento costituzionale «si dichiara lavorista sin dalla
sua disposizione di apertura»68 e ciò denota il proprium del carattere
antifascista ed antitotalitario del nuovo Stato, perché tale «valore pri-
mario della Repubblica democratica»69, che ne fonda l’esistenza, non
può che rappresentare un limite supremo, sebbene non esclusivo70,
all’esercizio popolare della sovranità, in conformità con il disposto
dell’art. 1, secondo comma.
In virtù di tale primazia, che riverbera sul sistema dei diritti e dei
doveri dei cittadini, non è concepibile una sussunzione dell’interesse
della classe lavoratrice71 in un interesse nazionale definito a priori, se-

66
M. Persiani, Diritto sindacale, Cedam, Padova, 2011, p. 22.
67
A. Negri, Il lavoro nella Costituzione (1964), in La forma Stato. Per la critica
dell’economia politica della costituzione, cit., pp. 46-48.
68
Corte Costituzionale, sent. 26 gennaio 2004, n. 35.
69
Corte Costituzionale, sent. 26 luglio 1979, n. 83.
70
Il lavoro, infatti, inteso quale «attività lavorativa», non è «l’unico bene costi-
tuzionalmente garantito» (cfr. Corte Costituzionale, sent. 10 dicembre 1981, n. 185),
ma cionondimeno, anche su questo piano oggettivo, il fatto che il lavoro sia posto
a fondamento della stessa forma di Stato afferma «la preminenza di ogni attività la-
vorativa nel sistema dei diritti-doveri spettanti ai cittadini» (cfr. Corte Costituzio-
nale, sent. 4 aprile 1967, n. 60). Sulla questione, una disamina specifica è nella voce
enciclopedica di R. Bonanni, Lavoro. Principi Costituzionali, Treccani, Milano, 2019.
71
In molta parte della dottrina vige un’interpretazione riduzionista del principio
lavorista. G. Zagrebelsky, Fondata sul lavoro. La solitudine dell’art. 1, Einaudi, To-
rino, 2013, pp. 20 s., ad esempio, afferma che «il lavoro a cui si riferisce la formula
costituzionale non costituisce una ‘prerogativa della classe lavoratrice’, poiché è da
intendere nel senso di ‘lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni’, come precisa
anche la disposizione di cui all’art. 35 Cost., ed assume valore unitario ed inclusivo,
rappresentando ‘un titolo di appartenenza alla comunità nazionale, alla cittadinanza’».
A questa puntualizzazione fa riferimento anche R. Bonanni, Lavoro. Principi Costi-
tuzionali, Treccani, 2019, e vi si conformano varie altre (ad esempio, L. Nogler, Cosa
significa che l’Italia è una Repubblica ‘fondata sul lavoro’ e che ‘riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro’, in C. Casonato (cur.), Lezioni sui principi fondamentali
della Costituzione, Giappichelli, Torino, 2010). Tuttavia, questa posizione in tutt’uno
con l’affermazione di Zagrebelsky appare contraddittoria. Il lavoro è consustanziale
alla classe lavoratrice e, al contempo, rappresenta anche un carattere universale del-
l’uomo: per ciò tanto la classe lavoratrice non può che essere anche classe univer-
sale. Ed è proprio in considerazione di questa capacità inclusiva della classe lavora-

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Dentro e contro Weimar 273

condo lo schema corporativo totalitario fascista; e quand’anche que-


sta sussunzione fosse la conseguenza dell’ottemperanza a una «pre-
sunta» volontà popolare, sarebbe comunque da ritenere in contrasto
con la lettera della costituzione e con il suo spirito storico, poiché
negherebbe la «speciale posizione» conquistata dalla classe operaia
quale «protagonista di un grandioso moto storico di emancipazione
e pertanto meritevole di assurgere al ruolo di classe generale, perché
rivolta alla tutela di interessi trascendenti quelli più immediatamente
suoi propri»72.
Il principio ontologico della primazia lavorista, che è norma giu-
ridica piena73, individua il lavoro come soggetto storico del processo
di trasformazione costituzionale del trapasso dello stato monoclasse
(nelle sue forme autoritario-liberale ovvero totalitario-fascista), verso
uno stato uniclasse, cioè di classe universale, la «repubblica di lavo-
ratori» di cui all’ordine del giorno Basso-Amendola; in questa pro-
spettiva, la Repubblica democratica si configura quale stadio evolu-
tivo intermedio tra l’abbandono della dittatura di una minoranza che
governa nel solo proprio interesse ed il raggiungimento della «vera
democrazia»74 fondata sulla regola di maggioranza e finalizzata all’e-
mancipazione universale.

trice come «classe universale» che il lavoro è «un titolo di appartenenza alla comu-
nità nazionale, alla cittadinanza».
72
C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, in Diritto del lavoro, 1954, p. 153.
73
Non solo tale principio non è confinato in un preambolo, ma esprime il suo
pieno valore normativo nel rapporto tra i due inscindibili commi dell’articolo 1 e
tra questi ed il resto delle disposizioni costituzionali, cfr. D. Quaglioni, La sovra-
nità nella Costituzione, in C. Casonato (cur.), op. cit.
74
Come osserva R. Selucky, Marxism, socialism, freedom: towards a general
democratic theory of labour-managed systems, St. Martin Press, New York, 1979,
p. 63: «lo stesso concetto di democrazia suggerisce che la dittatura del proleta-
riato deve essere la regola della maggioranza», sicché la vera democrazia, «in
quanto espressione della volontà della maggioranza, in una società divisa in classi
appare come la dittatura della maggioranza proletaria della popolazione»: è in
virtù di questa concezione che, ne La guerra civile in Francia, il suffragio uni-
versale è indicato «come una riforma politica piena di potenzialità rivoluzionarie
[che] consente di sostituire alla dittatura della minoranza (la borghesia) la ditta-
tura della maggioranza (il proletariato)». La vera democrazia è, dunque, una forma
di dittatura che usa la forza coercitiva della volontà della stragrande maggioranza
della popolazione per modificare i rapporti di produzione e superare il capitali-
smo (cfr. R. S. Gottlieb, Marxism, 1844-1990: Origins, betrayal, rebirth. Psycho-
logy Press, 1992, p. 36). Il termine dittatura «in questa locuzione non deve es-
sere inteso come definiens di un forma di governo, di un tipo di governo totali-

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274 Alessandro Tedde

Precisamente, dal punto di vista operaio, la democrazia repubbli-


cana si appalesa come un sistema pluriclasse, relativamente democra-
tico, in cui «la conquista del potere proletario può assumere la forma
della lotta per l’estensione della democrazia e dei diritti politici e ci-
vili»75, purché «la forma di repubblica democratica tipica degli stati

tario», perché tale concetto, ai tempi di Marx, «non veniva inteso nel senso di ti-
rannia totalitaria che gli attribuiamo oggi, bensì nel senso che aveva nell’antica
Roma, cioè come istituzione di una autorità elettiva temporanea finalizzata al per-
seguimento di certi obbiettivi politici o militari eccezionali» H. Draper, Marx and
the Dictatorship of the Proletariat, Études de marxologie, 6, 1962 (Cahiers de
l’ISEA, 129), tant’è che «ogni forma di governo antidemocratico, di intimidazione
sui cittadini, di restrizione delle libertà, di dominio dei leader, è in contrasto con
questa concezione della dittatura» (cfr. R. S. Gottlieb, op. cit., p. 36). Sulle im-
plicazioni democratiche del concetto di «dittatura del proletariato» v. H. Draper,
Marx and the Dictatorship of the Proletariat, Études de marxologie, 6, 1962
(Cahiers de l’ISEA, 129); R. N. Hunt, The political ideas of Marx and Engels,
vol. I, Marxism and totalitarian democracy 1818-1850, Londra, Macmillan, 1975,
cap. 9; J. Elster, Making sense of Marx (Vol. 4), Cambridge, Cambridge Univer-
sity Press, 1985. Sul tema, v. E. Screpanti, Le basi teoriche di un approccio marxi-
sta alla democrazia radicale, in N. Bellanca, E. Screpanti (cur.), Democrazia ra-
dicale, Il Ponte, LXIII, 2007.
75
È un «principio direttivo per tutti i marxisti, compreso Lenin, [che] la de-
mocrazia repubblicana è la forma specifica entro cui prende corpo la dittatura del
proletariato» cfr. E. Screpanti, Ibid., che cita Storia del Partito Comunista (bol-
scevico) dell’URSS, Società Editrice L’Unità, Roma, 1945, pp. 459 s. Proprio il
capo bolscevico ammetteva, senza alcuna difficoltà: «l’idea fondamentale che at-
traversa, come un filo ininterrotto, tutte le opere di Marx: la repubblica demo-
cratica è la via più breve che conduce alla dittatura del proletariato», cfr. V. I. Le-
nin, Stato e rivoluzione, in Le opere, Editori Riuniti, Roma, 1968, p. 905. Texier
ha dimostrato che «il ricorso alla tattica insurrezionale, anche di tipo giacobino,
è teorizzato da Marx ed Engels per i paesi nei quali non esistono le condizioni
per la conquista democratica del potere. Ma ha anche dimostrato che il metodo
insurrezionale non è ritenuto necessario da Marx ed Engels per i paesi, come la
Gran Bretagna, la Svizzera e gli USA, dove esistono dei sistemi relativamente de-
mocratici in cui la conquista del potere proletario può assumere la forma della
lotta per l’estensione della democrazia e dei diritti politici e civili» (E. Screpanti,
Le basi teoriche di un approccio marxista alla democrazia radicale, in N. Bellanca,
E. Screpanti (cur.), Democrazia radicale, Il Ponte, LXIII, 2007; cfr. J. Texier, Ré-
volution et démocratie chez Marx et Engels, PUF, Parigi, 1998). «In una demo-
crazia partecipativa come la Comune Marx osserva che la regola della maggio-
ranza viene usata per rivoluzionare la società e l’economia. Mentre la minoranza
borghese usa lo Stato per consolidare il suo dominio di classe, la maggioranza
proletaria usa la democrazia per abolire le classi e liberare i produttori dal do-
minio del capitale», cfr. E. Screpanti, Le basi teoriche di un approccio marxista
alla democrazia radicale, cit.

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Dentro e contro Weimar 275

di diritto moderni [sia] vista dal movimento operaio non come punto
di arrivo», piuttosto come «un punto di partenza della rivoluzione
comunista»76, cioè come «la forma compiuta entro cui si può svol-
gere un atto decisivo della lotta di classe», perché solo «nel momento
in cui si conquista la democrazia repubblicana può iniziare la ditta-
tura del proletariato»77, cioè «la più ampia democrazia politica»78.
È, questo, uno dei maggiori lasciti dell’esperienza di Weimar: la
conferma dell’an dell’intuizione marxiana dell’esistenza di uno Stato
operaio di transizione al socialismo retto sul principio della rivolu-
zione in permanenza, che «mira quasi sempre, nonché al cambia-
mento dell’ordine giuridico e politico dello Stato, anche ad una tra-
sformazione della società»79, sebbene differisca riguardo al quomodo
della trasformazione integrale, individuando nella rivoluzione von oben
un succedaneo della Volks-Revolution80.
La conseguenza giuridica del riconoscimento costituzionale del la-
voro come «elemento fondamentale dell’ideologia politica informa-
trice dell’intero assetto statale», nonché «costitutivo del tipo di re-

Scrive M. Löwy, Il giovane Marx e la teoria della rivoluzione, Massari, Bolsena,


2001, p. 55: «E mentre i giacobino-blanquisti concepivano la presa del potere come
la semplice conquista dell’apparato statale, Marx mostra, a partire dall’esperienza della
Comune, che la rivoluzione comunista, opera degli stessi lavoratori, non può che
spezzare tale apparato – funzionale al dominio parassitario sul popolo – sostituirgli
le istituzioni adeguate per l’autogoverno popolare. Ciò si ricava chiaramente dalla
celebre lettera a Kugelmann del 12 aprile 1871, cfr. K. Marx, Lettere a Kugelmann,
Ed. Riuniti, Roma, 1969, p. 139), in cui parla di ‘spezzare’ ‘ la macchina militare e
burocratica’, come ‘condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare sul
Continente’. Concetto ripetuto nel Primo saggio di redazione’ e nel testo definitivo
del La guerra civile in Francia. ‘La Comune è la riappropriazione del potere statale
da parte della società, di cui diviene la forza viva, invece di essere la forza che la
domina e soggioga. È la sua riappropriazione da parte delle masse popolari che so-
stituiscono la propria forza alla forza organizzata per opprimerli; la Comune è la
forma politica della loro emancipazione sociale’ (La guerra civile in francia (Indi-
rizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori), primo
saggio, in K. Marx, Scritti sulla Comune di Parigi, Samonà e Savelli, Roma, 1971,
p. 122).
76
E. Screpanti, Le basi teoriche di un approccio marxista alla democrazia radi-
cale, cit.
77
Ibid.
78
C. Preve, Democrazia e comunismo: le basi filosofiche di una questione inelu-
dibile, Eretica, 1, 2005, p. 5.
79
E. Bussi (1948), op. cit.
80
Ibid.

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276 Alessandro Tedde

gime»81, cioè «della comunità statuale e pertanto dei fini e dei com-
piti istituzionali della persona statale»82 è la legittimazione della classe
lavoratrice all’esercizio im-mediato della funzione di direzione della
politica nazionale, iuxta propria principia, cioè secondo le forme che,
in origine, la classe operaia poteva esercitare esclusivamente «fuori e
contro lo Stato»83, tentando di
«stabilire un potere, una sovranità, non solo di fatto ma di diritto, e
come unica fonte di ogni diritto sociale […] contrapponendo la propria
autorità e funzione, come quella del solo ente sociale di sovranità au-
tentica, a quella dello Stato; e considerando quindi quest’ultima come ar-
tificiosa sia nella misura giuridica che nella podestà politica[,] dunque
uno Stato nello Stato: una sovranità che vuol considerarsi effettivamente
superiore allo Stato»84.

Le rappresentanze della classe operaia, riconosciuta da un ordina-


mento costituzionale come classe potenzialmente dominante e dun-
que posta nella concreta possibilità di sviluppare la lotta di classe
come lotta per il diritto, non necessitano più di essere integrate or-
ganicamente, quanto piuttosto di essere poste nella condizione di in-
trodurre nel sistema delle fonti del diritto gli strumenti propri del-
l’antagonismo proletario, quali, ad esempio, il contratto collettivo ri-
conosciuto come nuova fonte di diritto pubblico in sostanziale vece
dell’ordinamento corporativo85, a conferma del superamento del mo-
nopolio statale della funzione normativa esercitato dall’attuale classe
dominante.
Infatti, prima ancora di definire le modalità di esercizio di tale po-
tere positivo dei lavoratori riuniti in classe86, il primo comma dell’art.

81
C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, cit., p. 163.
82
V. Crisafulli, Appunti preliminari sul diritto del lavoro nella Costituzione, in
Rivista giuridica del lavoro, 1951, p. 163.
83
Questa dualità dello Stato è esemplificativa della sua ambivalenza, che è di-
mostrata dalla radice «-sta» che deriva dal verbo greco histemi, origine dell’antico
termine stasis, e dunque portatore di un doppio e opposto significato: immobilità,
stabilità e mantenimento dello status quo da un lato; sedizione, rivolta e infine ri-
volgimento politico dall’altro, cfr. G. Agamben, Stasis. La guerra civile come para-
digma politico, Bollati-Boringhieri, Torino, 2015.
84
Autorità e diritto senza controllo, il Giornale d’Italia, 19 luglio 1902.
85
Anch’esso a segnalare come non potesse aversi ordinamento antifascista senza
un rigetto anche delle norme corporative.
86
Il modello costituzionale guardava alla «situazione sindacale nel biennio dei
lavori dell’Assemblea costituente», la quale «era caratterizzata, com’è noto, dalla pre-

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Dentro e contro Weimar 277

39 sancisce il principio, «ritenuto, di immediata applicazione, indi-


pendentemente da un intervento del legislatore ordinario»87, della li-
bertà di organizzazione sindacale che «costituisce la struttura por-
tante dell’intero diritto sindacale italiano»88 e «segna il ripudio della
concezione secondo la quale il sindacato appartiene all’organizzazione
pubblica ed è destinato a perseguire interessi pubblici»89.
Sebbene il modello pubblicistico di contrattazione collettiva possa
ricordare «sia pure da lontano le corporazioni del periodo fascista»90,
in verità, «al contrario di quanto avveniva durante l’ordinamento cor-
porativo – l’organizzazione sindacale è portatrice esclusivamente di
interessi privati, sia pur collettivi, e non già di interessi pubblici»91,
sul presupposto che «l’appartenenza alla struttura pubblica o il per-
seguimento di interessi pubblici sono inconciliabili con la libertà» di
organizzazione sindacale92.
Nel rispetto della libertà di organizzazione sindacale garantita dal
primo comma93, ai lavoratori che si presentino uniti in classe è rico-
nosciuta una enclave di autodeterminazione sociale nel sistema delle
fonti in funzione dello sviluppo dell’ordinamento democratico re-
pubblicano94: dal sistema previsto dai commi 2, 3, 4 dell’art. 39 emerge

senza di un solo rilevante protagonista: la CGIL unitaria, in cui trovavano spazio le


correnti comunista, socialista e cattolica, e rispetto alla quale la disciplina costitu-
zionale sembra ‘cucita addosso’», cfr. D. Morana, Partiti politici e sindacati tra mo-
dello e attuazione costituzionale, in Amministrazione in cammino, 2016, p. 14; cfr.
M. V. Ballestrero, Diritto sindacale, Giappichelli, Torino, 2012, p. 52.
87
Trattandosi di una specificazione della tutela generale della libertà di associa-
zione prevista dall’art. 18 Cost. indirizzata ad una particolare species del genus «as-
sociazioni», cfr. M. Persiani, Diritto sindacale, Cedam, Padova, 2011, p. 21.
88
M. Persiani, op. cit.
89
Ivi, 14.
90
R. Bin, G. Pitruzzella, op. cit., p. 520.
91
M. Persiani, op. cit., p. 14.
92
Ibid.
93
La sussistenza di un ordinamento interno a base democratica, condizione per
poter sottoscrivere «contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti
gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce» (art. 39), è l’unico
elemento espressivo del, comunque implicito, principio di necessaria collaborazione,
che deve preesistere ai fini dell’esercizio di una libera attività negoziale.
94
Nel nuovo sistema, l’organizzazione sindacale assume rilievo pubblicistico, in-
fatti, per la possibilità di stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia norma-
tiva, perché vincolanti tutti gli appartenenti alla categoria cui il contratto stesso si ri-
ferisce, siano o no essi iscritti al sindacato stipulante, cfr. M. Persiani, Diritto sinda-
cale, Cedam, Padova, 2011, pp. 21 s.

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278 Alessandro Tedde

la «funzione cruciale del contratto collettivo» come «atto di autono-


mia negoziale privata» dotato della natura tanto di «fonte materiale
delle regole del rapporto di lavoro»95 quanto di «fonte formale del
diritto obiettivo»96.
La norma prescinde dalla collaborazione di classe o dalla subor-
dinazione dell’’avanzamento delle condizioni materiali dei lavoratori
allo sviluppo della Repubblica, alla quale, anzi, è addossato il com-
pito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che
[…] impediscono […] l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori al-
l’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3,
comma 2): il perseguimento di interessi pubblici è, dunque, un ef-
fetto indiretto del perseguimento di un interesse privato dei lavora-
tori, esercitato collettivamente come classe97.

5. Ripubblicizzazione del conflitto o attuazione della promessa ri-


voluzione von unten? – Ragioni politiche98 e tecniche99 si sono op-

95
Per quanto riguarda l’attività principale dei sindacati, cioè l’azione collettiva
tesa «al fine di tutelare i comuni interessi degli associati, principalmente partecipando,
in veste di rappresentante degli iscritti, alla stipulazione dei contratti collettivi, cioè
accordi intercorrenti tra un sindacato dei lavoratori e un datore di lavoro – o un
sindacato di datori di lavoro – che stabiliscono il trattamento minimo garantito (ad
es. i livelli retributivi) e le condizioni di lavoro (ad es. l’orario di lavoro) alle quali
devono conformarsi i singoli contratti di lavoro» (cfr. A. Celotto, Costituzione ra-
gionata, Nel diritto, Roma, 2013, p. 82).
96
M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 2004, 21.
97
Affinché fosse possibile la stipula di contratti collettivi aventi efficacia erga
omnes, la pluralità dei sindacati doveva avere accesso a rappresentanze unitarie in
modo proporzionale, tali da definire una centrale sindacale: le condizioni, minime,
erano l’adozione di un ordinamento interno di tipo democratico e la registrazione
presso pubblici uffici con il conseguente acquisto della personalità giuridica, cfr. M.
Persiani, op. cit., p. 21 s.
98
Ma esistevano anche motivi inter-sindacali, cioè la volontà di alcuni sindacati
di «evitare di ‘contarsi’ (infatti nelle ‘rappresentanze unitarie’ essi verrebbero rap-
presentati in proporzione ai rispettivi iscritti)», cfr. R. Bin, G. Pitruzzella, op. cit., p.
520: il meccanismo previsto dall’art. 39, se fosse stato attuato, avrebbe sancito for-
malmente il dato della minoritarietà delle confederazioni sindacali distaccatesi dalla
CGIL, assegnando a quest’ultima il comando delle operazioni contrattuali, cfr. Giu-
seppe Pera intervistato in P. Ichino, Intervista a Giuseppe Pera, in Riv. it. dir. lav.,
2006, p. 107.
99
«Ove si fosse verificato un dissenso tra i sindacati registrati con riguardo alla
congruità o no del contratto collettivo da stipulare, due erano le possibili soluzioni:
o si adottava il metodo della maggioranza o quello dell’unanimità. Nel primo caso
– nonostante l’esplicito richiamo nella norma costituzionale al numero degli iscritti

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Dentro e contro Weimar 279

poste all’emanazione di una legge che attuasse i commi 2, 3, 4 del-


l’art. 39100, a partire dal «delicato problema» di una registrazione «co-
munque, condizionata ad un controllo dell’autorità governativa, o am-
ministrativa»101, una «forma di ingerenza pubblica»102 che avrebbe po-
tuto «costituire un attentato alla libertà dell’organizzazione sinda-
cale»103.
Il «congelamento» del modello pubblicistico previsto dall’art.39
Cost. ha favorito l’affermazione di una strategia di privatizzazione
del conflitto sociale, sia dal punto di vista del fenomeno associativo
sindacale, perché gli attuali sindacati sono semplici associazioni di di-
ritto privato, che dei contratti collettivi stipulati, i quali sono disci-
plinati dalla normativa di diritto comune contenuta nel codice civile104
e, «in linea di principio – non sono fonti dell’ordinamento generale,
ma hanno valore vincolante solo per i soggetti (le associazioni sin-
dacali) che l’hanno stipulato e per i loro iscritti»105.
Per tutta la durata della c.d. Prima Repubblica, il modello priva-
tistico ha potuto usufruire della presenza dei partiti di massa, prole-
tari e non, i quali fungevano da riferimento delle istanze del movi-
mento operaio, utilizzando lo strumento della legge per consolidare
le più importanti acquisizioni derivanti dalla lotta sindacale.
Questo modello correlativo tra legge e contrattazione collettiva di
diritto comune, atto ad imitare negli effetti il modello costituzionale,
ha subito un tracollo nel momento in cui si è prodotta la completa
scissione tra lex e foedus, a seguito della scomparsa dei partiti del cd.
arco costituzionale, che traducevano sul piano della politica nazionale

– si ritenne che sarebbe stata attentata la libertà del sindacato registrato dissenziente,
ancorché minoritario; nel secondo caso, si sarebbe resa impossibile di fatto, la sti-
pulazione del contratto collettivo», cfr. M. Persiani, op. cit., p. 28 s.
100
Ivi, p. 27 s.
101
Ivi, p. 28.
102
A. Celotto, op. cit., p. 82.
103
Le associazioni sindacali «paventavano la possibilità di un controllo di me-
rito, e non solo di legittimità, [e] temevano che lo stesso controllo di legittimità –
per la difficoltà di individuare i criteri di valutazione e per l’uso che ne poteva es-
ser fatto – potesse comunque consentire agli organi pubblici preposti alla loro regi-
strazione ingerenze limitatrici della loro libertà», cfr. M. Persiani, op. cit., p. 28.
104
«Con la conseguenza che tali contratti hanno effetto vincolante solo per gli
associati alle organizzazioni sindacali che lo hanno stipulato (non possono, pertanto,
in via di principio, produrre effetti nei confronti dei soggetti non iscritti ai sindacati
stipulanti)», cfr. A. Celotto, op. cit., p. 82.
105
R. Bin, G. Pitruzzella, op. cit., p. 520.

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280 Alessandro Tedde

ex art. 49 gli avanzamenti prodotti nel conflitto industriale: il mo-


dello privatistico non è stato più capace di influire direttamente sul
piano legislativo, con una conseguente notevole riduzione dell’in-
fluenza del lavoro sullo sviluppo della forma di stato-governo re-
pubblicana, lasciato in balia dei rapporti di forza e della consuetu-
dine.
La strategia di affermazione di un modello privatistico di regola-
zione del conflitto sociale, prescindente da un sistema politico e dei
partiti che si riconoscesse nel compromesso costituzionale, ha mo-
strato la propria impotenza nel tutelare l’interesse di classe quando,
in conseguenza di nuovi rapporti di forza, materiali e politici, le leve
dello sviluppo dell’ordinamento sono state acquisite da quanti rite-
nevano di fare dello Stato uno strumento di tutela del capitale na-
zionale, contro il capitale straniero oppure multinazionale.
In questa situazione di sconfitta, sono maturate le condizioni (po-
litiche, non giuridiche) di una nuova sussunzione dell’interesse di
classe nell’interesse nazionale, formalmente sancito dal nuovo mo-
dello della concertazione introdotto nel 1993, seguendo uno schema
neocorporativista nel quale il Governo assumeva un ruolo mediativo
atto a depotenziare (se non a disinnescare) il conflitto sociale in vi-
sta dell’interesse dell’economia pubblica.
Tuttavia, anche la fase della preponderanza dell’economia nazio-
nale ha visto il proprio fallimento e precisamente per mano di quel
capitale autoctono tutelato a discapito del lavoro, il quale, una volta
internazionalizzatosi, ha rifuggito ogni ipotesi di confronto, mediante
i meccanismi delle delocalizzazioni produttive e fino alla vicenda della
mancata adesione di Fiat Chrisler Automotive (FCA) o di Luxottica
dalla propria organizzazione sindacale datoriale di riferimento106 (la
Confindustria, da cui FCA si è distaccata nel gennaio 2012 e Luxot-
tica nel maggio 2018), al fine di derogare al modello di relazioni in-
dustriali esistente, potendo così condurre una autonoma politica con-
trattuale, libera dai vincoli dei CCNL di categoria.
Questa nuova, imprevista situazione, in cui il capitale material-
mente sfugge al conflitto, ha determinato un ripensamento all’interno

106
Generalmente composta dai dai datori di lavoro appartenenti alla stessa cate-
goria, che si estrinseca nel riconoscimento del diritto a «costituire una pluralità di
associazioni sindacali per ogni categoria economica e professionale e del diritto di
scegliere se aderire o meno ad un sindacato o a quale sindacato aderire» (cfr. A. Ce-
lotto, op. cit., p. 82).

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Dentro e contro Weimar 281

del movimento sindacale, nel quale si è sempre più fatta strada l’i-
potesi di un ritorno al modello di contrattazione collettiva dotata di
efficacia erga omnes secondo la previsione dell’art. 39 della Costitu-
zione, al fine di superare l’impasse. Poiché la rinuncia ad una rile-
vanza pubblicistica dei contratti collettivi è stata, di fatto, dovuta alla
rottura dell’unità sindacale nei primi tornanti della storia repubbli-
cana, perciò nel dibattito è ritornato il tema dell’unità sindacale (che
taluno ha voluto leggere come unicità sindacale).
Sono dunque maturi i tempi per un ritorno al modello giuspub-
blicistico, ma conflittuale, cioè dentro ma anche contro il modello di
Weimar?
Sebbene sia diffusa la vulgata che il meccanismo di registrazione
e riconoscimento della personalità giuridica per i sindacati, su cui
si regge il modello costituzionale di regolazione pubblicistica del
conflitto sociale, avrebbe potuto introdurre un controllo dello Stato
non limitato ad aspetti formali e capace di riproporre surrettizia-
mente un modello corporativo, non è solo questo il limite da su-
perare per introdurre un modello di relazioni industriali adeguato
alle modifiche intervenute nel mercato del lavoro dopo la crisi eco-
nomica del 2007-2008.
Oltre ad essere stata spesso avanzata da parte delle organizzazioni
datoriali (in primis, Confindustria), la necessità di introdurre un nuovo
modello di relazioni industriali per controbilanciare la sempre più ac-
centuata tendenza alla disintermediazione presente tanto da parte dei
datori di lavoro quanto del Governo nazionale, con particolare rife-
rimento al platform capitalism, è discussa dal movimento sindacale
nazionale, il quale, però, dimentica il fatto che, essendo depotenziata
la forza di agitazione sindacale, essendo venuti meno i riferimenti al-
l’interno del Parlamento ed essendo notevolmente diminuita tanto la
capacità di intervento dello Stato (meglio: del governo) a causa dei
vincoli sovranazionali, quanto la capacità di negoziazione con alcuni
attori, come appunto le multinazionali ovvero le piattaforme digitali,
le dimensioni del movimento sindacale non sono comunque suffi-
cienti a garantire una forza contrattuale effettiva, che in effetti po-
trebbe essere esclusivame dello Stato inteso quale «capitalista collet-
tivo ideale».
Ma, se tale è la prospettiva nel capitalismo del mercato mondiale
e se si vogliono evitare i ritorni all’organicismo populista e sovrani-
sta, non si può tralasciare l’opportunità della risocializzazione della
funzione di direzione dello sviluppo ordinamentale e conseguente-

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282 Alessandro Tedde

mente della diffusione delle responsabilità pubbliche ad essa connesse


sulla base di una riaffermazione della primazia ontologica del lavoro
sul capitale. L’interesse di classe tutelato dai sindacati per il tramite
della contrattazione collettiva, infatti, può rilevare immediatamente
per la collettività solo se è presupposta la rappresentazione della classe
lavoratrice nella sua interezza e unità.
L’intervento dei lavoratori sulle leve della politica economica na-
zionale, pur indiretto e non espresso primariamente mediante la loro
organica compartecipazione alle direzioni aziendali ex art. 46 Cost.
(che non significa di per sé l’introduzione di uno schema neocorpo-
rativo), presuppone «un articolato rapporto […] inteso a recuperare
il peso dell’azione sindacale su quella politica», ma «sempre nei li-
miti, naturalmente, della compatibilità della prima con la seconda»107.
Come dimostra l’esperienza, il modello costituzionale italiano non
può operare correttamente se inteso come parzialità, poiché la Co-
stituzione è un intero108 e, pertanto, anche il modello ex art. 39 Cost.
deve essere ritenuto un’articolazione funzionale della concezione del
potere e della sovranità popolare che si innerva nell’intero tessuto re-
pubblicano, che non si riduce alle istituzioni dello Stato-apparato, ma
che riguarda tutte le formazioni sociali che compongono lo Stato-co-
munità, di cui può usare la classe universale a fini (auto)emancipa-
tori, ma di cui non possono abusare le proprie rappresentanze, onde
non ricadere, ancora una volta, negli errori del passato.

107
«Da questo punto di vista la prassi socialdemocratica vede anche la necessità
di un controllo politico sull’azione sindacale», pur nel rispetto delle reciproche au-
tonomie, cfr. A. Negri, Dentro/contro il diritto sovrano: dallo stato dei partiti ai mo-
vimenti della governance, cit., p. 129.
108
G. Zagrebelsky, Giustizia costituzionale, il Mulino, Bologna, 2012.

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Marco Rizzuti
DIRITTO DI FAMIGLIA E COSTITUZIONE
NELLA VICENDA DI FIUME

1. L’eguaglianza tra i sessi nella Carta del Carnaro. – All’interno


del complesso scenario di quel nuovo costituzionalismo che si svi-
luppò nel contesto post-austroungarico degli anni immediatamente
successivi alla Grande Guerra, viene a collocarsi anche il peculiaris-
simo episodio della cosiddetta Carta del Carnaro1. Pur nella estrema
brevità della vicenda di un ordinamento locale che non ha sostan-
zialmente nemmeno avuto il tempo di conseguire una piena ed ef-
fettiva vigenza2, questo testo assume tuttavia un’innegabile rilevanza

1
In questa sede seguiamo il testo più propriamente giuridico di A. de Ambris,
che prima di dedicarsi alla vita del rivoluzionario di professione aveva frequentato
per due anni una facoltà di legge, e non quello poetico di G. D’Annunzio. Entrambi
sono reperibili in www.dircost.unito.it/cs/paesi/italia.shtml.
2
Tradizioni autonomistiche municipali fiumane risalgono alle vicende sia del pe-
riodo medievale, quando la città si collocava agli incerti confini del Ducato di Me-
rania, estrema propaggine sudorientale del Sacro Romano Impero, sia soprattutto di
quello moderno, con la sua erezione in Corpus Separatum nell’ambito della parte
ungarica della monarchia asburgica. L’indipendenza de facto della Repubblica, o Reg-
genza Italiana, del Carnaro, proclamata l’8 settembre 1920 in seguito alle vicende
della spedizione dannunziana che aveva raggiunto la città liburnica dal 12 settembre
1919, sarebbe però durata ben poco, sino al “Natale di sangue” del 1920. In seguito,
l’indipendenza internazionalmente riconosciuta dello Stato Libero di Fiume, istituito
sulla base delle previsioni del Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, sarebbe du-
rata sino al Trattato di Roma del 27 gennaio 1924. Non ebbero invece alcun esito i
tentativi del suo Presidente in esilio, R. Zanella, e degli altri autonomisti di chie-
derne la restaurazione ai vincitori della seconda guerra mondiale, i quali ne decreta-
rono invece l’annessione alla Jugoslavia comunista, dopodiché alla stragrande mag-
gioranza degli abitanti della città non sarebbe rimasta che la via dell’Esodo. Non è
questa la sede per tentare di fornire indicazioni bibliografiche esaustive sulla celebre
vicenda: ci limiteremo a rinviare, anche per ogni ulteriore riferimento, ad alcuni re-
centi studi che, nel contesto delle riflessioni suscitate dai centesimi anniversari, hanno
rivisitato sia il contesto della “vittoria mutilata” (R. Pupo (cur.), La vittoria senza
pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra, Laterza, Roma-
Bari, 2014; R. Gerwarth, The Vanquished: Why the First World War Failed to End,

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284 Marco Rizzuti

storico-giuridica, in quanto si è trattato, a ben vedere, della prima


Costituzione italiana che si possa davvero definire «novecentesca», e
non solo per l’ovvio dato cronologico ma anche e soprattutto in ra-
gione di una serie di profili contenutistici che la pongono agli anti-
podi rispetto alle esperienze liberali ottocentesche: basti pensare al
ruolo che vi assumono istituti fondamentali, e per l’appunto tipici del
mondo giuridico del nuovo secolo, quali anzitutto i diritti sociali3 ed
il corporativismo4, nonché la partecipazione e la democrazia diretta5.
Dalla prospettiva del diritto dei rapporti privatistici, altrettanto
fondamentale ed altrettanto dirompente risulta l’inclusione in tale te-
sto di una prima costituzionalizzazione del principio di piena egua-
glianza tra i sessi6. Invero, una così netta presa di posizione sovver-
tiva radicalmente gli assetti familiari tradizionali che erano stati com-
pattamente ribaditi da tutte le legislazioni europee precedenti, sino,
per l’appunto, a quella temperie in cui analoghe innovazioni avevano

1917-1923, London, 2016; S. Valzania, F. Cardini, La pace mancata. La conferenza


di Parigi e le sue conseguenze, Milano, 2018; E. Conze, Die große illusion. Versail-
les 1919 und die Neuordnung der Welt, München, 2018) sia lo specifico episodio
dell’impresa fiumana (P.L. Vercesi, Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia, Milano,
2017; R. Pupo, Fiume città di passione, Roma-Bari, 2018; G.B. Guerri, Disobbedi-
sco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Milano, 2019; L. Villari, La
luna di Fiume. 1919: il complotto, Milano, 2019; M. Mondini, Fiume 1919. Una
guerra civile italiana, Roma 2019).
3
Basti considerare il disposto dell’art. 5 della Carta del Carnaro, per cui “La
Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini senza distinzione di sesso, l’istruzione
primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assi-
stenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vec-
chiaia…”, e solo successivamente i più classici diritti liberali al “l’uso dei beni legit-
timamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeas corpus, il risarcimento dei
danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere”.
4
Per la disciplina del sistema corporativo fiumano si vedano gli artt. 13 e 14
della Carta del Carnaro.
5
La definizione fondamentale della forma di Stato fornita dall’art. 2 recitava in-
fatti: “La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta che ha per base il la-
voro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali.
Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini…”.
6
L’art. 4 proclamava che: “Tutti i cittadini della Repubblica senza distinzione di
sesso sono uguali davanti alla legge”, senza eccezioni o temperamenti di sorta. Anzi, il
rifiuto di ogni distinzione di sesso si ritrovava anche nei ricordati art. 2, con riguardo
alla sovranità collettiva dei cittadini, ed art. 5, per quanto attiene ai diritti costituzio-
nalmente garantiti, nonché persino all’art. 35 con riferimento al dovere del servizio mi-
litare. Invero, una piena eguaglianza tra uomini e donne nella soggezione agli obblighi
di leva si ritrova in ben pochi altri ordinamenti, come ad esempio quello di Israele,
forse non a caso un altro Stato che si presenta come una sorta di utopia realizzata.

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Diritto di famiglia e Costituzione nella vicenda di Fiume 285

iniziato ad emergere in altri contesti che possiamo considerare para-


gonabili a quello ora in esame, per la loro natura più o meno netta-
mente rivoluzionaria, quali la Russia bolscevica7, la Germania wei-
mariana8, o la Turchia kemalista9.
In ogni caso, si trattava di un esito certamente ben più avan-
zato rispetto alla situazione italiana di quegli stessi anni, pure se-
gnati dall’avvio di processi di emancipazione connessi alle trasfor-
mazioni sociali provocate dagli eventi bellici10, che portarono ad

7
Tra i primi provvedimenti presi da Lenin nel 1918 vi furono le leggi, dirom-
penti rispetto al contesto sociale della Russia zarista, che introdussero l’eguaglianza
tra i sessi ed una piena libertà di divorzio, poi assai ridimensionata in epoca stali-
niana (cfr. M.D. Berger, Soviet Divorce Laws and the Role of the Russian Family,
in BYU Law Review, 1986, 3, pp. 821-833; W.Z. Goldman, Women, the State and
revolution: Soviet family policy and social life, 1917-1936, Cambridge, 1993). Non ci
sembra del tutto irrilevante ricordare che la Russia sovietica, anch’essa all’epoca priva
di riconoscimenti internazionali ed impegnata in una guerra civile dall’esito assai in-
certo contro le Armate Bianche appoggiate dai vincitori del conflitto mondiale, sim-
patizzava per la Reggenza dannunziana.
8
L’art. 119 della Costituzione tedesca del 1919 proclamava che il matrimonio
“beruht auf der Gleichberechtigung der beiden Geschlechter” (nella traduzione di C.
Mortati, La Costituzione di Weimar, Sansoni, Firenze 1946: “è fondato sull’ugua-
glianza dei due sessi”), mentre in forza del successivo art. 121 “Den unehelichen
Kindern sind durch die Gesetzgebung die gleichen Bedingungen für ihre leibliche,
seelische und gesellschaftliche Entwicklung zu schaffen wie den ehelichen Kindern”
(nella citata traduzione: “Ai figli illegittimi sono dalla legge garantite le stesse condi-
zioni dei legittimi, onde assicurare il loro sviluppo corporale, spirituale e sociale”). Cfr.
M. Mouton, From Nurturing the Nation to Purifying the Volk. Weimar and Nazi
Family Policy, 1918-1945, Cambridge MA, 2007.
9
L’emancipazione femminile rappresentò infatti una delle linee fondamentali del
progetto riformatore laicista e repubblicano, portato avanti negli Anni Venti da M.
Kemal, e culminato con l’abolizione radicale del diritto islamico e l’introduzione di
una codificazione occidentalizzante (Türk Medeni Kanunu del 1926).
10
Il contesto socioeconomico sul cui sfondo vanno collocate tali vicende è, come
noto, rappresentato da una crescita del ruolo sociale della donna, dovuto dalla ine-
ludibile necessità, in tempo di guerra, di sopperire in tutte una serie di attività pro-
duttive e sociali all’assenza degli uomini impegnati al fronte. Pertanto, in vari Paesi
occidentali, specie in quelli che già nel periodo subito precedente avevano conosciuto
lo sviluppo di movimenti di emancipazione, una volta concluso il conflitto non fu
più possibile negare il suffragio femminile: valgano per tutti gli esempi delle riforme
approvate in Gran Bretagna, Belgio, Germania e Stati Uniti fra il 1918 ed il 1920.
Ciò nondimeno, tale svolta non implicò necessariamente anche la riforma del diritto
di famiglia, che in buona parte dei casi sarebbe seguita solo a notevole distanza,
dando luogo al paradosso di una donna elettrice ed eleggibile dal punto di vista del
diritto pubblico, ma, al tempo stesso, soggetta a potestà da quello del diritto pri-
vato. In Italia, in questa fase, non si ebbe nemmeno l’estensione dell’elettorato, ma

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286 Marco Rizzuti

alcune riforme11 e ad un inizio di dibattito circa ulteriori prospet-


tive12. A ben vedere, la Carta del Carnaro da questo punto di vista
non solo era in anticipo sui tempi, ma risultava anzi decisamente più
progressista della stessa Costituzione repubblicana del 1948, in cui
l’eguaglianza coniugale e quella tra i figli sarebbero state configurate

la riforma abolitiva dell’autorizzazione maritale sembrò giustificata, anche agli occhi


dei più tradizionalisti, proprio perché “dopo le prove di attiva e capace collabora-
zione date in tutti i rami del lavoro dal sesso femminile, durante questi duri anni di
lotta, non era più possibile tenere la donna sotto tutela come un essere inferiore” (La
Civiltà Cattolica, 19 aprile 1919, pp. 173-174).
11
Il riferimento è alla l., 17 luglio 1919, n. 1176, che aboliva l’autorizzazione ma-
ritale per gli atti negoziali della moglie (ma non l’autorità maritale nei rapporti per-
sonali che sarebbe sopravvissuta sino al 1975), ed apriva alle donne le professioni li-
berali e gli impieghi pubblici con alcune tassative eccezioni (tra cui la magistratura
sino al 1963). Ci sembra significativo ricordare come tale riforma fosse stata prepa-
rata anche dall’opera di L. Poët, Sulla capacità giuridica della donna e l’abolizione
dell’autorizzazione maritale, Roma, 1917, la cui autrice, valdese, fu una delle prime
donne a laurearsi in legge in Italia, nonché la protagonista della celebre vertenza giu-
diziaria seguita al suo tentativo di iscriversi all’albo degli avvocati di Torino (cfr. G.
Alpa, L’ingresso della donna nelle professioni legali, in Sociologia del diritto, 2011, pp.
7-25), e fosse stata poi realizzata da L. Mortara, primo Ministro della Giustizia ita-
liano appartenente a quella confessione ebraica i cui membri sino a pochi decenni
prima erano soggetti nella Roma pontificia a pesanti limitazioni di capacità giuridica
(cfr. M. Boni, Il figlio del rabbino. Lodovico Mortara, storia di un ebreo ai vertici
del Regno d’Italia, Viella, Roma, 2018), ed anche colui il quale da magistrato era stato
protagonista di un tentativo di introdurre in via pretoria il suffragio femminile (cfr.
M. Severini, Giulia, la prima donna. Sulle protoelettrici italiane e europee, Marsilio,
Venezia, 2017) oltre che autore della celebre motivazione di App. Milano, 20 maggio
1911, in Foro it., 1911, I, c. 124, secondo la quale «Elevare la verginità fisica della
donna a qualità essenziale, il cui difetto, se non è stato prima dichiarato, diviene causa
di annullamento delle nozze, significa abbassare il matrimonio al livello di un con-
tratto commutativo… nello stesso modo che si soleva nel medioevo subordinare la va-
lidità dei contratti di compra-vendita delle schiavette di Levante e di Barberia alla
condizione che la giovane fosse ‘non fatta’, ma ‘sana, integra in totis suis membris sine
macula’» (cfr. S. Rodotà, Diritto d’amore, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 8).
12
La proposta del suffragio femminile campeggiava anche nei programmi elet-
torali dei popolari e dei primi fascisti: il Governo Mussolini, per intervento perso-
nale del suo Capo e nonostante la palese ostilità della maggioranza della Camera
(cfr. P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1942), il Mulino, Bolo-
gna, 1974, p. 220) arrivò persino a far approvare la l. 22 novembre 1925, n. 2125,
che ammetteva alcune categorie di donne all’elettorato comunale, ma tale normativa
non venne mai concretamente applicata, in quanto la riforma podestarile del 1926
avrebbe fatto venir meno del tutto quelli che lo stesso B. Mussolini chiamava “ludi
cartacei”, e la questione avrebbe quindi giocoforza finito per perdere ogni rilevanza
pratica.

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Diritto di famiglia e Costituzione nella vicenda di Fiume 287

come derogabili13, e solo per poco non si sarebbe addirittura arrivati


a costituzionalizzare l’indissolubilità del vincolo matrimoniale14.
Del resto, i protagonisti dell’impresa fiumana si erano proposti
obbiettivi ancor più radicali, vagheggiando, in linea con una risalente
tradizione del pensiero utopistico15, financo il totale superamento delle
strutture familiari in favore del libero amore e di una correlativa as-

13
Il generale principio di eguaglianza «senza distinzione di sesso» di cui all’art.
3, comma 1, Cost., subiva una pesante attenuazione in ambito coniugale, in quanto
l’art. 29, comma 2, Cost. consentiva di limitarlo «a garanzia dell’unità familiare»
sino a svuotarne la portata concreta (cfr. F. Santoro Passarelli, Il governo della fa-
miglia, in Iustitia, 1953, p. 377 ss.; F. Carnelutti, La parità dei coniugi e l’ordina-
mento giuridico italiano, in Riv. dir. civ., 1961, p. 115 ss.; G.B. Ferri, Le «egua-
glianze» tra coniugi, in Aa.Vv., Eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, Jovene,
Napoli, 1975, pp. 335-347). Analogamente, l’art. 30, comma 3, Cost. riconosceva ai
figli extramatrimoniali solo quella misura di tutela che risultasse “compatibile con i
diritti dei membri della famiglia legittima”.
14
In tal senso si era espressa la cattolicissima Costituzione irlandese del 1937, il
cui art. 41, comma 3, proibiva l’introduzione del divorzio, nonché il riconoscimento
dei divorzi stranieri, mentre il relativo comma 1 qualificava la famiglia “as the na-
tural primary and fundamental unit group of Society, and as a moral institution pos-
sessing inalienable and imprescriptible rights, antecedent and superior to all positive
law”, ed il comma 2 sanciva l’impegno dello Stato a garantire il ruolo domestico
della donna e quindi a fare sì che “mothers shall not be obliged by economic neces-
sity to engage in labour to the neglect of their duties in the home”. Un’ispirazione
nella sostanza analoga animava una parte non irrilevante dei nostri Costituenti, ma
l’esito compromissorio finale fu nel senso del silenzio circa l’indissolubilità, mentre
l’art. 37 Cost. non considera quella della “donna lavoratrice” come un’ipotesi pato-
logica da evitare, pur prescrivendo che le condizioni di lavoro debbano comunque
“consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”. Tuttavia, l’art. 7,
comma 2, Cost., con formulazione quasi identica a quella dell’art. 8 del Progetto di
Costituzione per la R.S.I. del 1943, aveva costituzionalizzato il riferimento ai Patti
Lateranensi, il che avrebbe poi consentito ad alcuni giudici di dubitare della costi-
tuzionalità della l. 1° dicembre 1970, n. 898, introduttiva del divorzio, per violazione
dei vincoli concordatari, prospettazione rigettata però, in un contesto sociale e cul-
turale ormai nettamente mutato, da una serie di decisioni della Consulta (cfr. ex mul-
tis Corte Cost., 8 luglio 1971, n. 169, in www.giurcost.org).
15
Si allude ad un filone che risale quantomeno alle proposte di Platone, La Re-
pubblica, 457d, e Id., Timeo, 18d, ma anche di altri pensatori dell’antichità (cfr. D.
Dawson, Cities of the Gods: Communist Utopias in Greek Thought, Oxford Univer-
sity Press, Oxford, 1992); P. von Möllendorff, Stoics in the ocean: Iambulus’ novel as
philosophical fiction, in M.P. Futre Pinheiro, S. Montiglio (a cura di), Philosophy and
the Ancient Novel, Groningen 2015, pp. 19-33), favorevoli ad una comunione delle
donne e dei figli, poi fatte proprie da ribelli ed eretici in ambito sia islamico (cfr. P.
Crone, The Nativist Prophets of Early Islamic Iran: Rural Revolt and Local Zoroa-
strianism, Cambridge MA, 2012, pp. 391-438) sia cristiano (basti pensare ai Dolciniani

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288 Marco Rizzuti

sunzione diretta da parte dello Stato delle funzioni genitoriali16. Tutto


ciò ebbe invero un impatto non irrilevante sull’esperienza vissuta dalla
città adriatica nei pochi mesi della vicenda in parola17, ma non ebbe
certamente il tempo di pervenire ad una piena ed effettiva giuridi-
cizzazione né a Fiume né tantomeno nel resto d’Italia.
Di lì a poco, la politica del diritto di famiglia avrebbe assunto ben
altra direzione. È noto come i fascisti, pur con molte ambiguità, aves-
sero visto nella vicenda di Fiume una sorta di precursore18, ma dal

resi celebri da U. Eco, Il nome della rosa, Milano, 1980) sino a T. Campanella, per
quindi conoscere un moderno revival, anche sulla base delle note ricostruzioni antro-
pologiche a proposito della promiscuità primitiva di L.H. Morgan, Ancient Society or
Researches in the Lines of Human Progress from Savagery through Barbarism to Ci-
vilization, Chicago, 1877, e F. Engels, Der Ursprung der Familie, des Privateigenthums
und des Staats, Zurich, 1884, ed arrivare ai teorici del “poliamore” (cfr. C. Fourier, Le
Nouveau Monde Amoureux, Paris, 1816, ma inedito sino al 1967; nonché D.M. Ana-
pol, Love Without Limits. The Quest for Sustainable Intimate Relationships. Respon-
sible Nonmonogamy, San Rafael CA, 1992; E.F. Emens, Monogamy’s Law: Compul-
sory Monogamy and Polyamorous Existence, in New York University Rev. of L. &
Social Change, 2004, p. 277 ss.; E. Grande, L. Pes, a cura di, Più cuori e una capanna.
Il poliamore come istituzione, Giappichelli, Torino, 2018).
16
Si possono leggere in P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, cit., p.
219, testo e nt. 5, i riferimenti alle idee espresse da F.T. Marinetti in un manifesto-
programma del settembre 1918, in «Roma futurista. Giornale del partito politico fu-
turista», che riecheggiavano temi della coeva rivoluzione bolscevica e che sarebbero
state riprese per l’appunto da G. D’Annunzio durante la Reggenza, quando i due
ebbero anche occasione di incontrarsi a Fiume (cfr. S. Bragato, «Figlio di una tur-
binae di D’Annunzio»: Marinetti edipico?, in Archivio D’Annunzio, 2018, pp. 61-
78. D’altronde, le aspirazioni rivoluzionarie, e poi totalitarie, a plasmare un Uomo
integralmente Nuovo, e ad emancipare la donna dai pesi della maternità, si sareb-
bero potute realizzare solo col trasferimento ad organismi pubblici delle funzioni di
cura dei figli sin dalla più tenera età.
17
Nella Fiume dannunziana il libero amore venne ampiamente praticato, in quello
che molti interpreti avrebbero poi visto come una sorta di Sessantotto ante litteram
nel segno della fantasia al potere (cfr. C. Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti
e libertari con D’Annunzio a Fiume, il Mulino, Bologna, 2008). Va peraltro ricor-
dato che, secondo M. Ledeen, The First Duce. D’Annunzio at Fiume, Baltimore-
London, 1977, pp. 59-60, il porto adriatico, per il suo stile di vita e per l’entusia-
smo che vi regnava, era una città già dannunziana anche prima dell’arrivo del Vate.
18
Neanche sul fascismo delle origini è ovviamente possibile fornire in questa sede
indicazioni bibliografiche adeguate, e pertanto, pure a questo proposito, ci si limiterà
a rinviare, anche per ogni ulteriore riferimento, a qualche volume appena pubblicato
a cent’anni dal diciannovismo: M. Franzinelli, Fascismo anno zero. 1919: la nascita dei
Fasci italiani di combattimento, Mondadori, Milano, 2019; E. Gentile, Quando Mus-
solini non era il duce, Milano, 2020. Con specifico riferimento al nostro tema occorre,
ad ogni modo, considerare che, come osservato da M. Cattaruzza, L’Italia e il confine

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Diritto di famiglia e Costituzione nella vicenda di Fiume 289

punto di vista delle relazioni familiari le distanze sono certamente di


tutto rilievo. Per alcuni aspetti, è evidente come dopo essersi costi-
tuito in regime, ed essere venuto a patti con la Monarchia e con la
Chiesa19, il Fascismo abbia nettamente rinnegato determinate istanze,
ed in particolare l’eguaglianza fra i sessi appare del tutto estranea al-
l’assetto gerarchico del Codice Civile del 194220. In una diversa pro-
spettiva si potrebbe, però, ravvisare in taluni sviluppi successivi una
sorta di rielaborazione in senso totalitario della menzionata tendenza
all’assunzione delle funzioni familiari da parte dello Stato, e dunque
in questo senso non tanto un abbandono quanto un’estremizzazione
di certe aspirazioni rivoluzionarie, sullo sfondo della concezione21 che

orientale, il Mulino, Bologna, 2007, p. 59, dal movimento dannunziano il Fascismo


avrebbe ereditato più l’impalcatura esterna, con tutta la sua coreografia rivoluzionaria
e la dichiarata rottura con la legalità liberale, che non i contenuti ideologici. Una più
diretta rilevanza la ebbe semmai il golpe che i fascisti avrebbero posto in essere con-
tro le autorità dello Stato Libero di Fiume il 3 marzo 1922 e che rappresentò, questo
sì, un vero e proprio “campo di esercitazione” per la Marcia su Roma di qualche mese
dopo (M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 165-166).
19
Durante la campagna elettorale del 1924, A. Oviglio, Guardasigilli del Governo
Mussolini, poteva vantare tra i meriti del Fascismo nei confronti dei cattolici anche
quello di aver messo fine, come si dirà meglio fra breve, al fenomeno dei “divorzi
fiumani” (cfr. P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, cit., p. 218). D’altra
parte, per quanto possa sembrare paradossale, è stato di recente ricordato come una
prima ipotesi di conciliazione con la Chiesa fosse stata tentata proprio durante l’im-
presa fiumana, in un contesto dunque tutto men che clericale, quando il Comandante
progettò di contrapporre alla Società delle Nazioni una Lega degli Stati “lesi ingiu-
stamente dalla conferenza di Versailles”, ipotizzando di raccogliervi non solo gli ex
Imperi Centrali e la Russia Sovietica, ma anche la Santa Sede, su espressa richiesta
italiana sempre esclusa da ogni coinvolgimento nelle trattative postbelliche, e l’inizia-
tiva fu molto apprezzata dallo stesso Papa Benedetto XV che, nominando il 30 aprile
1920 monsignor C. Costantini “amministratore apostolico” per Fiume, riconobbe in
un certo senso la stessa Reggenza dannunziana (cfr. F. Margiotta Broglio, Stato vati-
cano, un’idea del Vate, in Corriere della Sera, 6 giugno 2019, p. 43).
20
Basterà ricordare l’icastica formulazione originaria dell’art. 144 c.c., rubricato
“Potestà maritale”, in forza del quale: “Il marito è il capo della famiglia; la moglie
segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompa-
gnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”, nonché il signifi-
cativo parallelismo con l’art. 2086 c.c. sul datore di lavoro come capo dell’impresa
cui faceva riferimento F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 148.
21
Il riferimento è all’impostazione di A. Cicu, Il diritto di famiglia. Teoria ge-
nerale, Roma, 1914 (rist. Bologna 1978, con Lettura di M. Sesta), che concepiva la
famiglia come ente pubblico e quindi configurava il matrimonio come provvedi-
mento amministrativo, emesso dall’ufficiale di stato civile ai fini dell’istituzione di
tale ente, così ravvicinando la potestà familiare all’imperio statale, in quanto potere

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290 Marco Rizzuti

vedeva la famiglia come necessariamente funzionalizzata al persegui-


mento di superiori interessi statali22.

2. La vicenda dei «divorzi fiumani». – Di una maggior rilevanza


pratica, sia dal punto di vista della durata temporale sia per la sua
estrinsecazione in una vera e propria casistica giudiziaria, si può in-
vece parlare per la vicenda dei cosiddetti «divorzi fiumani». Si tratta
di quei divorzi conseguiti da cittadini italiani che approfittarono della
facilità con cui era possibile acquisire la cittadinanza di Fiume per
usufruire delle liberali leggi ungheresi in materia23, che vi erano ri-

derivante non dalla volontà contrattuale ma dal carattere necessario del gruppo, e
pertanto da esercitare discrezionalmente nell’interesse del gruppo stesso. Com’è noto,
tale concezione conobbe un notevole successo sotto il Fascismo, essendo pienamente
funzionale alla strumentalizzazione del diritto di famiglia per il raggiungimento de-
gli obbiettivi politici di incremento demografico e, più avanti, anche di difesa della
razza (cfr. P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, cit., pp. 220-232), ma
occorre pur sempre tenere presente che la sua formulazione iperpubblicistica non fu
mai del tutto egemone nella dottrina dell’epoca (cfr. F. Vassalli, Lezioni di diritto
matrimoniale, Padova, 1932, p. 79; A. Ravà, Lezioni di diritto civile sul matrimonio,
Cedam, Padova, 1935, p. 390).
22
Una piena statalizzazione della famiglia, ancorché di segno del tutto inverso
rispetto al libertarismo fiumano, la ritroviamo nell’art. 71 del Progetto di Costitu-
zione per la R.S.I. del 1943, in base al quale “La Repubblica considera l’incremento
demografico come condizione per l’ascesa della Nazione e per lo sviluppo della sua
potenza militare, economica, civile”, mentre l’art. 72 precisava che “La politica de-
mografica della Repubblica si svolge con tre finalità essenziali: numero, sanità mo-
rale e fisica, purità della stirpe”. A siffatte disposizioni si ricollegava dunque il suc-
cessivo art. 73: “Presupposto della politica demografica è la difesa della famiglia, nu-
cleo essenziale della struttura sociale dello Stato. La Repubblica la attua proteggendo
e consolidando tutti i valori religiosi e morali che cementano la famiglia, e in parti-
colare: col favore accordato al matrimonio, considerato anche quale dovere nazionale
e fonte di diritti, perché esso possa raggiungere tutte le sue alte finalità, prima: la
procreazione di prole sana e numerosa; col riconoscimento degli effetti civili al sacra-
mento del matrimonio, disciplinato nel diritto canonico; col divieto di matrimonio di
cittadini italiani con sudditi di razza ebraica, e con la speciale disciplina del matri-
monio di cittadini italiani con sudditi di altre razze o con stranieri; con la tutela della
maternità; con la prestazione di aiuti e assistenza per il sostenimento degli oneri fa-
miliari. Speciali agevolazioni spettano alle famiglie numerose”. D’altronde, benché
l’art. 29 Cost. abbia poi riaffermato il carattere “naturale”, nel senso di libero dal-
l’etero-determinazione statuale, del rapporto familiare, alcune di queste formulazioni
riecheggiano in quelle dell’art. 31 Cost. circa il favor nei confronti delle famiglie nu-
merose, e quindi anche nel connesso, tuttora assai vivace, dibattito (cfr. F. Farri, Un
fisco sostenibile per la famiglia in Italia, Padova, 2018).
23
Occorre ricordare che Fiume dopo il compromesso austroungarico del 1867
rientrava nella Transleithania, e quindi per il profilo che qui interessa non era sog-

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Diritto di famiglia e Costituzione nella vicenda di Fiume 291

maste in vigore sia durante la breve fase della Reggenza sia poi nello
Stato Libero24, allo scopo di sottrarsi a quell’assoluta impossibilità di
scioglimento del vincolo matrimoniale che si prospettava come una
caratteristica sempre più peculiare del nostro ordinamento interno25.
Alla giurisprudenza italiana si pose quindi il problema della loro ri-
conoscibilità secondo le regole del diritto internazionale privato, e la
questione divenne assai dibattuta, in tutta una ricca casistica, con

getta all’ABGB austriaco, che pure ammetteva il divorzio anche se solo per i non
cattolici, ma alla ancor più liberale legge matrimoniale ungherese n. XXXI del 1894,
che lo consentiva invece a tutti.
24
La vicenda dei “divorzi fiumani” durò dunque ben oltre la fine del periodo
dannunziano, e conobbe anzi una sorta di impennata finale dopo la stipula del men-
zionato Trattato di Roma che poneva fine all’esistenza dello Stato Libero: a quanto
pare proprio il 16 marzo 1924, ultimo giorno di vigenza della legge ungherese a
Fiume, vennero pronunziate ben centosettanta sentenze di scioglimento (cfr. P. Un-
gari, Storia del diritto di famiglia in Italia, cit. p. 218, nt. 3). La chiusura definitiva
della questione si ebbe quando con il r.d. 20 marzo 1924, n. 352, il diritto matri-
moniale italiano fu esteso alle Nuove Province e venne così eliminata ogni deroga
alla regola dell’indissolubilità, con un significativo anticipo rispetto alla generale
uniformazione del diritto privato, che si sarebbe avuta solo col r.d. 4 novembre 1928,
n. 2325, e che avrebbe comunque lasciato in vigore, in via più o meno transitoria,
vari istituti propri dell’ordinamento abrogato, pure in altri ambiti del diritto di fa-
miglia. Peraltro, ancora nel secondo dopoguerra vi fu chi arrivò a paventare che il
problema si riproponesse con ipotizzabili divorzi conseguiti nel costituendo, ed in-
vero mai costituito, Territorio Libero di Trieste previsto dal Trattato di Parigi del 10
febbraio 1947 (cfr. E. Ranieri, F. József, Divorzio degli italiani in Ungheria in rela-
zione alle recenti leggi ungheresi in materia matrimoniale e con riguardo alle even-
tuali leggi sul divorzio nello Stato Libero di Trieste, Roma, 1947).
25
Nella storia moderna d’Italia il divorzio era stato vagheggiato da umanisti anti-
papali e turcofili, che propugnavano il ripristino del ripudio romano ed ammiravano
quello islamico (cfr. M. Cavina, Maometto Papa e Imperatore, Roma-Bari, 2018, p. 52),
ma aveva conosciuto solo un’effimera vigenza durante la parentesi napoleonica (cfr. S.
Solimano, Amori in causa. Strategie matrimoniali nel Regno d’Italia napoleonico (1806-
1814), Torino, 2017); P. Mastrolia, L’ombra lunga della tradizione. Cultura giuridica e
prassi matrimoniale nel Regno di Napoli (1809-1815), Torino, 2018. Nei primi decenni
del Novecento l’eccezionalità della Penisola era ormai evidente, come può dimostrare
un’importante voce enciclopedica degli Anni Trenta in cui si dava atto di come il di-
vorzio fosse vigente in tutta Europa con le sole eccezioni del Portogallo e dell’Italia (A.
Parrella, N. Festa, P. De Francisci, G. Ermini, A. Vitti, Divorzio, in Enciclopedia Ita-
liana, 1932), e l’isolamento sarebbe forse apparso ancora più totale prima dell’abolizione
salazarista dell’istituto nell’ordinamento lusitano, oltre che alla luce della vigenza dello
stesso anche nella gran parte dei diritti extraeuropei, nelle progredite forme nordameri-
cane o in quelle arcaiche del ripudio maritale, tanto che M. Weber, Economia e società,
III Sociologia del diritto, Tübingen, 1922, trad. it., Torino, 2000, p. 44, utilizzava pro-
prio il caso del nostro Paese per discutere il problema della libertà di divorzio.

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292 Marco Rizzuti

orientamenti più o meno oscillanti, che vedeva come protagonisti sia


persone comuni sia anche alcune celebrità dell’epoca26.
In una prospettiva diacronica tale problematica ci appare oggi dop-
piamente significativa. Da una parte, fu in sostanza l’ultima di quelle
ipotesi in cui il Codice Civile italiano d’impronta napoleonica27 ebbe
modo di manifestare, in materia di matrimonio e filiazione, un ca-
rattere assai meno liberale di quelli dell’oppressore asburgico che
avrebbe dovuto soppiantare, come era già accaduto varie volte in pas-
sato28. Dall’altra, però, fu anche il primo importante episodio in cui

26
Si possono vedere, da una parte, App. Casale, 30 giugno 1920, per un caso in
cui veniva negato l’exequatur in Italia di un divorzio fiumano, ravvisandosi nella
condotta dei coniugi un’ipotesi di frode alla legge, e, dall’altra, App. Milano, 24 no-
vembre 1920, per un caso in cui invece lo si concedeva, richiamando la ratifica, con
la l. 7 settembre 1905, n. 523, della Convenzione dell’Aja del 12 giugno 1902 in ma-
teria di divorzio e separazione, che avrebbe fatto venir meno il contrasto con l’or-
dine pubblico delle sentenze straniere di divorzio: entrambe le decisioni sono ri-
portate in Foro it., 1921, c. 209 ss., con nota di A. Cavaglieri. Tra le personalità più
note che fecero ricorso al divorzio fiumano va ricordato l’economista V. Pareto (cfr.
V. Pareto, Epistolario 1890-1923, a cura di G. Busino, Roma, 1973, 1, II, p. 1137).
27
Rispetto agli “eccessi” della Rivoluzione, che aveva conosciuto fermenti pro-
tofemministi e la proclamazione dell’eguaglianza fra tutti i figli, il Code Napoléon si
presentava già piuttosto involuto, anche per effetto di certi diretti interventi del Bo-
naparte, influenzato forse dalle sue “turqueries juridiques”, cioè dalla simpatia per
l’autoritario diritto di famiglia islamico conosciuto durante la campagna d’Egitto (P.
Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, cit., p. 99), e senz’altro da una forma
mentis militarista e gerarchica, per cui «le mari doit avoir un pouvoir absolu et le
droit de dire à sa femme: “Madame, vous ne sortirez pas, vous n’irez pas à la comé-
die, vous ne verrez pas telle ou telle personne”» (cfr. L. Saada, Les interventions de
Napoléon Bonaparte au Conseil d’État sur les questions familiales, in Napoleonica,
2012, 2, p. 46), ma tale tendenza sarebbe stata ulteriormente accentuata allo scopo
di adattare la codificazione al contesto italiano, anzitutto proprio con l’eliminazione
del divorzio.
28
Alcune questioni intensamente dibattute si erano già poste allorché si trattò di
applicare il Codice Civile del 1865 al Lombardo-Veneto, sino ad allora soggetto al-
l’ABGB austriaco del 1811 che, nonostante vari aspetti effettivamente premoderni,
dal divieto dei matrimoni interreligiosi alla disciplina di maggioraschi e fedecom-
messi, era però da altri punti di vista un Codice liberale più avanzato, promulgato
quando anche la monarchia asburgica subiva a sua volta l’influenza napoleonica, e
per di più aveva alle spalle l’esperienza delle riforme giuseppine. Si pensi anzitutto
all’autorizzazione maritale, che in province dove non aveva avuto vigore, né sotto
l’ABGB né prima ancora sotto gli ordinamenti della Serenissima, che avevano rap-
presentato durante l’Ancien Régime una delle poche isole giuridiche in cui la mo-
glie poteva “far carta et sigurtade et alienation sì come li piace, etiam sine consensu
viri” (cfr. P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia, cit., p. 56), finì per es-

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Diritto di famiglia e Costituzione nella vicenda di Fiume 293

l’arretratezza del diritto di famiglia interno si dovette confrontare con


un massiccio utilizzo degli strumenti del diritto internazionale pri-

servi introdotta ex novo con l’annessione all’Italia, suscitando veementi polemiche


contro quella che fu percepita come una “schiavitù domestica” (cfr. P. Ungari, Sto-
ria del diritto di famiglia in Italia, cit., pp. 164-165, p. 170 e p. 182; F. D’Alto, La
capacità negata. Forme giuridiche e complessità della persona nella giurisprudenza tra
Otto e Novecento, Giappichelli, Torino, 2017). Del resto, l’insostenibilità di una
nuova estensione dell’istituto dell’autorizzazione maritale alle Province Redente ne
agevolò la ricordata abolizione nel 1919, quando a molti dovette sembrare oppor-
tuno, in questo come anche nel ben noto caso della pubblicità immobiliare (cfr. A.
Ciatti Càimi, Premesse storiche a un’indagine sulla pubblicità immobiliare, in Prin-
cipi, regole, interpretazione. Contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in
onore di G. Furgiuele, Universitas Studiorum, Mantova, 2017, II, p. 468), conser-
vare, e semmai in prospettiva estendere al resto d’Italia, ordinamenti più progrediti
ed efficienti. Non meno problematica fu la questione del divorzio, in quanto, con
un esito paradossale per la temperie anticlericale del Risorgimento, il Codice Pisa-
nelli, introducendo il matrimonio civile per tutti, finì per togliere la possibilità di di-
vorziare pure ai cristiani acattolici ed agli ebrei, che ne avevano goduto sotto l’ABGB,
come del resto anche nel regime di particolarismo giuridico che caratterizzava la gran
parte degli ordinamenti degli Stati italiani d’Ancien Régime, profilo che non mancò
di essere messo in evidenza durante i lunghi ed inconcludenti dibattiti circa una pos-
sibile introduzione del divorzio nell’Italia liberale (cfr. V. Polacco, La questione del
divorzio e gli israeliti in Italia, Padova, 1894; C. Valsecchi, In difesa della famiglia?
Divorzisti e antidivorzisti in Italia tra Otto e Novecento, Milano, 2004). Ed in que-
sto caso tale scelta venne ribadita anche dopo la Grande Guerra, in quanto, dopo
una fase transitoria non breve (cfr. A. Ascoli, Divorzio di cittadini italiani regnicoli
pronunciato a Trieste, in Riv. dir. civ., 1921, pp. 210-229) e nonostante le proteste
di esponenti dell’ebraismo triestino (cfr. C. Morpurgo, Sulla questione del divorzio
nelle nove Province d’Italia, in Israel, 17 maggio 1923), ogni possibilità di accesso
al divorzio fu definitivamente eliminata nelle Province Redente con il r.d. 20 marzo
1924, n. 352. Altrettanto aspramente dibattuta fu la questione della ricerca della pa-
ternità naturale, che il Codice Pisanelli, seguendo il modello napoleonico, vietava in
maniera pressoché assoluta, a tutela dell’ordine delle famiglie contro gli abusi cui,
data l’incertezza insuperabile con i mezzi tecnici dell’epoca, si erano prestate le più
moralistiche regole dell’Ancien Régime, mentre per l’ABGB dalla filiazione naturale
derivava solo il diritto agli alimenti ma si continuava ad ammetterne con maggior
larghezza la dichiarazione giudiziale. Pertanto, le norme italiane di diritto transito-
rio per il Lombardo-Veneto, e poi anche quelle per le Province Redente, sancirono
che il divieto non si applicasse ai figli nati o concepiti sotto l’imperio della legge
previgente, ma, soprattutto nel primo caso, tale normativa suscitò annosi contrasti
giurisprudenziali circa la spettanza ai figli naturali così dichiarati anche dei maggiori
diritti, soprattutto successori, introdotti dalla nuova codificazione (cfr. M.A. Salom,
Sui diritti dei figli illegittimi nati e concepiti sotto l’impero del codice austriaco in re-
lazione colle disposizioni transitorie per l’attuazione del codice civile italiano, in Arch.
giur., 1875, pp. 586-597; M. Antokolskaia, Harmonisation of Family Law in Europe:
A Historical Perspective. A Tale of Two Millennia, Antwerp-Oxford, 2006, pp. 207-

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294 Marco Rizzuti

vato ai fini di un suo aggiramento, per il tramite di quello che sa-


rebbe stato poi chiamato il «turismo» divorzile.
Com’è noto, il fenomeno ha conosciuto ampi sviluppi nei decenni
seguenti, finché il divorzio è rimasto impossibile o comunque gra-
voso in Italia29, ma successivamente, in un mondo segnato dalla ge-

208; C. Valsecchi, Padri presunti e padri invisibili. Filiazione e ricerca della paternità
nel diritto italiano tra Otto e Novecento, in O. Fumagalli Carulli, A. Sammassimo
(cur.), Famiglia e matrimonio di fronte al sinodo. Il punto di vista dei giuristi, Mi-
lano, 2015, pp. 491-512; C. Valsecchi, La ricerca della paternità deve essere ammessa.
La civilistica postunitaria e le riforme del diritto di famiglia. Questioni di diritto tran-
sitorio, in Italian Review of Legal History, 2015, 1, pp. 1-17). Per quanto riguarda
invece il problema degli abusi della patria potestà, su cui il Code Napoléon in ori-
gine taceva del tutto, il Codice italiano con l’art. 233 c.c. preferì discostarsi dal con-
sueto modello ed avvicinarsi alla soluzione dell’ABGB, che aveva ripreso, come an-
che altri ordinamenti preunitari, dalla tradizione dello ius commune, in cui il pro-
blema era stato particolarmente sentito dato che la potestà durava usque ad mortem
patris, specifiche sanzioni al riguardo, e tendeva anzi ad una efficace protezione della
libertà nelle scelte di vita del figlio minore (cfr. M. Cavina, Il potere del padre, Mi-
lano, 1995, I, p. 152 e pp. 210-229).
29
Beninteso, anche prima del loro incremento quantitativo consentito dalla vi-
cenda fiumana, tentativi più o meno riusciti di far riconoscere divorzi conseguiti al-
l’estero si erano già verificati, specie in seguito alla già ricordata ratifica della Con-
venzione dell’Aja del 12 giugno 1902, com’era del resto inevitabile in ragione dell’i-
solamento dell’Italia sul punto. Analoghe operazioni continuarono quindi ad essere
praticate pure in seguito, da coniugi che miravano ad esempio direttamente all’ac-
quisto della cittadinanza ungherese (cfr. E. Ranieri, F. József, Divorzio degli italiani
in Ungheria, cit.), o cercavano comunque altri canali per conseguire i “divorzi di
contrabbando”, come li troviamo sprezzantemente qualificati sia in una pubblica-
zione cattolica che approvava la legislazione del regime ma criticava le aperture dot-
trinali e giurisprudenziali nei confronti di tale fenomeno (G.B. Migliori, Per una più
attiva difesa giudiziale della famiglia, in Aa.Vv., Difendiamo la famiglia, Roma, 1943),
sia poi in un’interrogazione parlamentare presentata, in data 28 ottobre 1948, dallo
stesso G.B. Migliori divenuto deputato democristiano. Anche dopo che, spezzando
la logica delle “due chiese”, la legge Fortuna-Baslini del 1° dicembre 1970, n. 898,
ebbe introdotto il divorzio in Italia, la previsione di tempi piuttosto lunghi e di pe-
netranti interventi giudiziari ha fatto sì che il fenomeno continuasse a presentarsi, e
forse anzi ad incrementarsi, avvantaggiato dallo sviluppo del diritto dell’Unione Eu-
ropea che agevola il riconoscimento di atti e provvedimenti provenienti da altri Paesi
membri, ed innesca quindi meccanismi di concorrenza tra ordinamenti. Probabil-
mente, infatti, è stata anche la constatazione dello sviluppo di un fiorente mercato
del turismo divorzile, specie in Romania, a favorire le recenti svolte legislative in fa-
vore di uno scioglimento del vincolo degiurisdizionalizzato (d.l. 12 settembre 2014,
n. 132, convertito in l. 10 novembre 2014, n. 162) ed abbreviato (l. 6 maggio 2015,
n. 65), o anche immediato nelle unioni civili e nei contratti di convivenza (l. 20 mag-
gio 2016, n. 76), mentre la prassi giurisprudenziale interna, nonostante la proclamata

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Diritto di famiglia e Costituzione nella vicenda di Fiume 295

neralizzata crescita dei fenomeni di migrazione e mobilità, oltre che


dall’emergere di ulteriori istanze di sviluppo del diritto di famiglia,
ha riguardato e riguarda pure altri ambiti, per cui abbiamo a che fare
con un «turismo» matrimoniale30, ma anche e soprattutto procreativo
o comunque bio-giuridico31. Ritornano, dunque, quei problemi di ri-

natura costituiva delle pronunzia del divorzio, di fatto attribuisce ormai al giudice
la funzione di dichiarare il venir meno del rapporto familiare, rimesso ad un’insin-
dacabile intollerabilità soggettiva della convivenza (cfr., ex multis, Cass., 29 aprile
2015, n. 8713, in www.altalex.com), con il tentativo di conciliazione ridotto a mera
formalità, e di risolvere gli eventuali conflitti relativi alla gestione dei figli e/o ai pro-
fili patrimoniali. Frattanto, persino l’ordinamento canonico sembra aver risentito in
qualche modo di tali fenomeni di concorrenza ordinamentale, ed il Motu proprio
“Mitis Judex Dominus Jesus” del 15 agosto 2015, ha introdotto quello che a livello
giornalistico è stato chiamato “l’annullamento breve”.
30
In un mondo globalizzato fenomeni del genere non riguardano certamente
solo il nostro Paese: basti pensare, ad esempio, all’importanza che ha assunto a Ci-
pro l’afflusso delle coppie che raggiungono l’isola per contrarre un matrimonio in-
terreligioso, o comunque civile, che sarebbe impossibile secondo gli ordinamenti di
Israele, Libano o altri Paesi mediorientali di provenienza. Con riferimento all’Italia
il profilo più rilevante negli anni recenti è stato quello dei matrimoni same-sex ce-
lebrati all’estero e dei dubbi sulla loro riconoscibilità, specie finché nell’ordinamento
interno non esisteva una regolamentazione dei rapporti familiari omosessuali (cfr.
Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, in Dir. fam. pers., 2012, 2, p. 696), ed oggi semmai
su quella che parrebbe una loro necessaria conversione in unioni civili ai sensi del
d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 7 (cfr. O. Lopes Pegna, Riqualificazione del matrimonio
same-sex estero in unione civile «italiana»: una soluzione irragionevole, in Principi,
regole, interpretazione. Contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in onore
di G. Furgiuele, cit., II, pp. 95-103).
31
Anche l’odierno mercato della procreazione assistita presenta un carattere in-
trinsecamente globale, che è spesso ineludibile se non altro per ragioni economiche,
come ad esempio nel caso in cui occorra porre in relazione committenti di Paesi ric-
chi, non soltanto occidentali, e gestanti surrogate di quelli più poveri. Con più spe-
cifico riferimento all’Italia, il turismo procreativo ha conosciuto, com’è noto, un no-
tevole incremento in seguito all’entrata in vigore delle numerose restrizioni previste
dalla l. 19 febbraio 2004, n. 40, alcune delle quali, nonostante la riscrittura giudizia-
ria cui tale disciplina è stata sottoposta, sono ancora in vigore, di talché la nostra
giurisprudenza di legittimità ha avuto recenti occasioni per pronunziarsi su modi e
limiti della riconoscibilità degli status di figli nati in seguito al ricorso alla maternità
surrogata da parte di una coppia omosessuale maschile (Cass., Sez. Un., 8 maggio
2019, n. 12193, in www.articolo29.it) o alla fecondazione post mortem da parte di
una vedova (Cass., 15 maggio 2019, n. 13000, in www.personaedanno.it) in Paesi ove
tali pratiche sono legali. Oltre alle questioni di inizio-vita vanno poi considerate
quelle di fine-vita che possono dar luogo a vicende in un certo senso analoghe: ba-
sti pensare al noto caso di M. Cappato, con riferimento alle complesse problemati-

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296 Marco Rizzuti

conoscibilità degli effetti alla stregua della indefinibile formula del co-
siddetto ordine pubblico32, più o meno costituzionalmente orientato33,
con cui tuttora ci confrontiamo, e che al tempo stesso dobbiamo
combinare con gli analoghi problemi che viene sempre più spesso a
prospettare agli interpreti il contatto con i modelli familiari «alieni»,
tipici dei contesti di provenienza dei flussi migratori34.

che che pone il ricorso al suicidio assistito in un Paese straniero (cfr. Corte Cost.,
22 novembre 2019, n. 242, in www.cortecostituzionale.it).
32
La letteratura sull’indefinibile formula dell’ordine pubblico è vastissima, per
cui, senza pretese di completezza, ci limiteremo a menzionare: G. Badiali, Ordine
pubblico e diritto straniero, Milano, 1963; L. Paladin, Ordine pubblico, in Noviss.
Dig. It., Torino, 1965, XII, p. 130 ss.; G. Barile, I principi fondamentali della co-
munità statale ed il coordinamento fra sistemi (l’ordine pubblico internazionale), Ce-
dam, Padova, 1969; G.B. Ferri, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del con-
tratto, Milano, 1970; A. Guarneri, L’ordine pubblico e il sistema delle fonti nel di-
ritto civile, Cedam, Padova, 1974; N. Palaia, L’ordine pubblico internazionale, Ce-
dam, Padova, 1974; P. Benvenuti, Comunità statale, comunità internazionale e or-
dine pubblico internazionale, Milano, 1977; G. Panza, Ordine pubblico. Teoria ge-
nerale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, p. 1 ss.; L. Lonardo, Ordine pubblico e
illiceità del contratto, Napoli, 1993; F. Mosconi, Qualche considerazione sugli effetti
dell’eccezione di ordine pubblico, in Riv. dir. int. priv. proc., 1994, pp. 5-14; C.F.
Emanuele, Prime riflessioni sul concetto di ordine pubblico nella legge di riforma del
diritto internazionale privato italiano, in Dir. fam., 1996, p. 326 ss.; F. Angelini, Or-
dine pubblico e integrazione costituzionale europea, Cedam, Padova, 2007; O. Fe-
raci, L’ordine pubblico nel diritto dell’Unione europea, Giuffrè, Milano, 2012; V.
Barba, L’ordine pubblico internazionale, in G. Perlingieri, M. D’Ambrosio, a cura
di, Fonti, metodo e interpretazione, Napoli, 2017, p. 409 ss.; P. Perlingieri, Libertà
religiosa, principio di differenziazione e ordine pubblico, in Principi, regole, interpre-
tazione. Contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in onore di G. Fur-
giuele, cit., I, p. 355 ss.; G. Perlingieri, G. Zarra, Ordine pubblico interno e inter-
nazionale tra caso concreto e sistema ordinamentale, ESI, Napoli, 2019.
33
Non ci convince appieno la tesi restrittiva estrema, enunciata per impostare la
soluzione di una celebre causa in materia di omogenitorialità da Cass., 30 settembre
2016, n. 19599, in Corr. giur., 2017, p. 181, con nota di G. Ferrando, in base alla
quale si avrebbe violazione dell’ordine pubblico solo in caso di contrasto con i va-
lori costituzionali primari, inderogabili anche per il legislatore interno e sottratti alla
stessa possibilità di revisione costituzionale. Ciò nondimeno, è chiaro che nel vigente
assetto ordinamentale non possono che essere i principi costituzionali, assieme con
quelli internazionali sovraordinati, a rappresentare, magari non l’unico, ma certo un
fondamentale punto di riferimento per la delimitazione di che cosa sia davvero “d’or-
dine pubblico”.
34
Si tratta di problematiche in gran parte nuove per un Paese come il nostro,
tradizionalmente di emigranti più che di immigrati, ma in prospettiva suscettibili di
assumere una rilevanza quantitativa e sociale anche maggiore di quella delle que-
stioni cui si è fatto cenno nelle note che precedono, e che alle stesse peraltro si ri-

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Diritto di famiglia e Costituzione nella vicenda di Fiume 297

connettono, in quanto è già accaduto che dall’apertura alle unioni omosessuali si sia
tentato di trarre argomenti in favore di quelle poligamiche, mentre la degiurisdizio-
nalizzazione del divorzio pone in nuova luce il tema del ripudio. Si possono vedere
al riguardo, anche per ulteriori riferimenti: M. Rizzuti, Il problema dei rapporti fa-
miliari poligamici. Precedenti storici e attualità della questione, Napoli, 2016; M. Riz-
zuti, Patti prematrimoniali, divorzi privati e multi-coniugalismo, in S. Landini, M.
Palazzo (cur.), Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, in Biblioteca della
Fondazione Italiana del Notariato, 2018, 1, pp. 337-354; G. Perlingieri, In tema di
rapporti familiari poligamici, in Dir. succ. fam., 2018, 3, pp. 821-849; M. Rizzuti, Or-
dine pubblico costituzionale e rapporti familiari: i casi della poligamia e del ripudio,
in Revista de Actualidad Jurídica Iberoamericana, 2019, num. spec. Derecho Privado
y Constitución, pp. 604-627. Per una recentissima vicenda giudiziaria relativa alla que-
stione della riconoscibilità degli effetti del talaq (il ripudio islamico), non ancora de-
cisa nel merito, cfr. Cass., ord. 1° marzo 2019, n. 6161, in www.dirittifondamen-
tali.it.

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Mattia Gambilonghi
DIRITTO DEL LAVORO, CONSIGLI AZIENDALI
E DEMOCRAZIA ECONOMICA
NELL’OPERA DI HUGO SINZHEIMER

1. Introduzione: diritto del lavoro e costituzionalismo weimariano. –


Trattare il tema della costituzione economica weimariana e dell’im-
perfetto sistema consiliare edificato e innalzato al suo interno può
avere, a parere di chi parla, una valenza rilevante nel quadro di un
convegno di studi come questo, che intende, tra le altre cose, af-
frontare il nodo storiografico delle costituzioni democratiche del primo
dopoguerra e del processo di Nation Building che ad esse si ricon-
nette. Questa valenza è addebitabile, principalmente, a due ragioni.
Innanzitutto, al fatto che il diritto del lavoro, così come le inno-
vazioni legislative e istituzionali prodotte rese possibile dal suo dive-
nire una disciplina autonoma, detengono in questa fase storica un in-
credibile valore in termini euristici. Gaetano Vardaro, nell’introdu-
zione al noto volume Laboratorio Weimar – dentro cui sono raccolti
i principali contributi del dibattito giuslavoristico weimariano – par-
lava del diritto del lavoro codificato in seguito alla nascita della Re-
pubblica tedesca, come di un «formidabile caleidoscopio», a partire
dal quale era cioè possibile sviluppare una comprensione profonda
dei limiti e delle novità del costituzionalismo democratico-sociale te-
desco e della costruzione costituzionale weimariana1. Molto più di al-
tre discipline giuridiche, il diritto del lavoro si caratterizzava, anche
per via del suo essere campo di battaglia fra opposte concezioni, di
stampo liberale, socialista o corporativo, essere il settore del nuovo
modello sociale in cui diveniva lampante e emergeva in maniera chiara
il grande compromesso che aveva accompagnato la nascita della Re-
pubblica di Weimar e la sua esperienza costituente. Un compromesso

1
G. Vardaro, Il diritto del lavoro nel “laboratorio Weimar”, in G. Arrigo, G.
Vardaro (cur.), Laboratorio Weimar. Conflitti e diritto del lavoro nella Germania pre-
nazista, Edizioni Lavoro, Roma, 1982, p. 18.

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300 Mattia Gambilonghi

la cui necessità era invocata da più parti, sia da quei settori più schiet-
tamente progressisti del mondo liberale – pensiamo a Weber, che parla
di fine irreversibile della “santità” che aveva fino a quel momento ca-
ratterizzato l’istituto della proprietà, o Naumann, che in sede di As-
semblea costituente teorizza apertamente il bisogno di far convergere,
combinare e portare a mediazione visioni del mondo e progetti di
società radicalmente antitetici2 – sia dalla SPD (anche detta in quella
fase, “socialdemocrazia maggioritaria” per via degli scissionisti radi-
cali dell’USPD, socialdemocrazia “indipendente”), che nella costru-
zione del Volksstaat, del nuovo “Stato popolare”, sceglie di far pro-
prio un elevato sincretismo, al fine cioè di definire un’originale po-
sizione mediana e terza tanto rispetto alle esperienze statuali borghesi
del liberalismo classico, quanto rispetto al socialismo sovietico e ter-
zinternazionalista, considerato come dispotico. Vista questa tensione
quasi strutturale al compromesso e all’amalgama tra interessi e visioni
alternativi, non è un caso se uno tra i maggiori intellettuali e scien-
ziati sociali formatisi in quell’epoca, Otto Kirchheimer, abbia quali-
ficato quella weimariana come una “costituzione senza decisione”3 e
“senza sovrano”. Con questo appellativo il politologo tedesco inten-
deva sottolineare la paralisi e l’incapacità di agire e governare i pro-
cessi sociali che avrebbe caratterizzato la giovane repubblica, e la cui
origine era da rintracciare proprio in quella codificazione costituzio-
nale dell’equilibrio fra le differenti classi sociali in lotta e i loro in-
teressi (oltre che tra la concezioni ideologiche che ne ispiravano l’a-
zione politico-sociale). La democrazia contrattata weimariana vede in-
somma come proprio elemento strutturale la dislocazione su più piani
e livelli del cosiddetto “principio di parità”4.

2. Costituzione economica, democrazia industriale e Stato sociale:


quale rapporto? – In secondo luogo, la ricostruzione della vicenda
del sistema consiliare weimariano – che rappresenta il primo grande
tentativo di dar vita a delle forme di potere democratico all’interno
dell’economia, oltre che di incorporazione di queste forme dentro la

2
S. Mezzadra, Lavoro e Costituzione nel laboratorio Weimar. Il contributo di
Hugo Sinzheimer, in Scienza&Politica, 2000, pp. 22 ss.
3
O. Kirchheimer, Weimar, e poi? (1929), in A. Scalone (cur.), O. Kirchheimer,
Potere e conflitto. Saggi sulla Costituzione di Weimar, Mucchi, Modena, 2017.
4
G. Rusconi, La crisi di Weimar. Crisi di sistema e sconfitta operaia, Einaudi,
Torino, 1977, pp. 5-74.

ISBN 978-88-495-4334-6 © Edizioni Scientifiche Italiane


Diritto del lavoro, consigli aziendali e democrazia economica 301

più globale costruzione costituzionale – ha una sua rilevanza in quanto


ci rimanda a due grandi sfide che accompagneranno tutta l’esperienza
dello Stato sociale. Da un lato, a essere in ballo è la questione della
“funzionalizzazione della proprietà” a finalità di carattere sociale e
generale, ossia, la vicenda delle limitazioni e degli obblighi a cui l’i-
stituto della proprietà, una volta persa la sua «funzione dirigente»,
sarà soggetto5. Dall’altro vi è invece il problema del ruolo che si in-
tende riconoscere istituzionalmente alla rappresentanza degli interessi,
e delle modalità attraverso cui combinare e concatenare questa con
la rappresentanza politica di ispirazione atomistica6.

2.1. I consigli operai e la funzionalizzazione della proprietà. – Del-


l’idea di “funzionalizzazione della proprietà” – che la Costituzione
di Weimar codifica attraverso l’art. 153, che dichiara sì di riconoscere
e garantire la proprietà, ma che al tempo stesso ricorda i debiti e gli
“obblighi” che questa ha nei confronti del “bene comune” – i con-
sigli operai aziendali sono una delle manifestazioni più radicali. È
possibile includerli dentro la categoria di Ergreifung, della “cattura
costituzionale dell’economico” di cui ha parlato Massimo Luciani in
riferimento al costituzionalismo. Una categoria che indica l’estensione
anche alle attività economiche di quell’azione di limitazione e conte-
nimento del potere che il liberalismo aveva applicato solo al potere
politico. Questa dinamica di contenimento del potere verrà però po-
tenziata, a partire dalle costituzioni democratiche del primo dopo-
guerra, ampliando il perimetro su cui la sua potestà è esercitabile e
arrivando così a lambire settori della vita associata fino a quel mo-
mento sconosciuti. Si prendeva atto, insomma, dell’importanza rive-
stita dalla proprietà e dai poteri economici rispetto all’esercizio della
sovranità da parte di quei soggetti, come i lavoratori salariati, carat-
terizzati da una situazione di subordinazione economica e sociale; e
rispetto, conseguentemente, a quei processi decisionali e di forma-
zione della volontà collettiva attraverso cui la sovranità democratica
e popolare trova espressione. Il liberalismo non aveva tenuto conto
dell’impatto esercitato su tutto ciò dalle concentrazioni di potere esi-
stenti in seno alla società civile, della concentrazioni capaci di tra-

5
M. Prospero, Il costituzionalismo e il lavoro, in Democrazia e diritto, 2008, p.
135.
6
A. Scalone, Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, Franco An-
geli, Milano, 1996.

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302 Mattia Gambilonghi

dursi in forme di dispotismo sicuramente differenti da quelle classi-


che e di natura politica, ma non per questo meno lesive della dignità
e della libertà dell’individuo. Ci riferiamo a quelle forme di dispoti-
smo economico che emergono e si sviluppano a partire dal rapporto
di lavoro e dalle relazioni di potere che in esso si delineano. Rispetto
a tutto ciò, il costituzionalismo democratico che esce dal processo di
Nation Building del primo dopoguerra, esprime una propria «ambi-
zione normativa», proponendosi cioè di regolare e governare quelle
dinamiche sociali di fronte a cui i poteri statali avevano sempre as-
sunto una posizione astensionista e di neutralità. Da Weimar in poi,
dunque, vediamo ribaltarsi i ruoli tra Stato e società civile, e il po-
tere economico incarnato nell’istituto della proprietà, fino a quel mo-
mento attore primario e «soggetto attivo della trasformazione costi-
tuzionale», diviene piuttosto l’oggetto su cui questa trasformazione
esercita la propria potestas, ponendo ad esso regole e limiti7.

2.2. I consigli operai e la rappresentanza degli interessi: tra demo-


crazia collettiva e neocorporatismo. – Per ciò che riguarda invece il
rapporto tra rappresentanza degli interessi e rappresentanza politica,
rispetto ad essa la questione dei consigli operai e della loro istitu-
zionalizzazione dentro la cosiddetta “costituzione economica” rive-
ste una sua peculiare importanza, e ciò in quanto i consigli non sono
chiamati a rispondere esclusivamente ad una funzione economica e
gestionale, toccando al contrario il piano più specificatamente poli-
tico. Attraverso la costituzionalizzazione dei consigli trova infatti una
prima momentanea sistemazione una problematica a lungo discussa
dalla giuspubblicistica tedesca di fine Ottocento e inizio Novecento,
destinata ad avere ulteriore seguito e a conoscere delle ulteriori evo-
luzioni all’interno delle “democrazie keynesiane” dei Trenta gloriosi.
Il problema è quello delle modalità con cui far convivere e portare
ad integrazione le due logiche opposte della rappresentanza degli in-
teressi (particolare) e di quella politica (generale), superando cioè l’a-
strattezza dell’atomismo liberale, senza però ricadere, al tempo stesso,
dentro schemi e modelli corporativi e anacronistici. Nonostante in
un primo momento la soluzione caldeggiata sarà quella – dal sapore,
per l’appunto, corporativo – del Consiglio economico del Reich pre-

7
M. Luciani, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Rivista di diritto co-
stituzionale, 1996, pp. 160-161.

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Diritto del lavoro, consigli aziendali e democrazia economica 303

visto all’art. 165, espressione delle differenti parti sociali rappresen-


tate nei consigli economici di distretto, e posto dinnanzi al Parla-
mento con funzioni o di mera consultazione sui progetti di legge at-
tinenti le materie economiche e sociali, o di iniziativa legislativa su
queste questioni, a causa della mancata istituzione dei consigli di-
strettuali – che di quello nazionale dovevano essere il presupposto –
questa camera degli interessi resterà in una situazione di provviso-
rietà, non arrivando mai a “spiccare il volo” e ad esercitare piena-
mente le sue funzioni8. Semmai, la democrazia collettiva di cui avrebbe
parlato alla fine degli anni Venti Ernest Frankael, giurista socialde-
mocratico della scuola di Sinzheimer, si sarebbe definita a partire dalla
combinazione, o meglio, dalla sovrapposizione fra due differenti cir-
cuiti politico-decisionale: il primo è quello classico, ereditato dalla tra-
dizione parlamentaristica, che attraverso la mediazione dell’organo le-
gislativo e rappresentativo connette i cittadini, presi individualmente
nella loro parificazione giuridica, all’esecutivo9; il secondo, inedito e
alternativo, prevede invece una dialettica triangolare tra Stato (e nello
specifico, l’esecutivo), le associazioni padronali e le associazioni sin-
dacali di rappresentanza dei lavoratori. La qualifica di “democrazia
collettiva” data da Frankael è quindi relativa al peso detenuto all’in-
terno di questa dinamica politico-decisionale dalle grandi organizza-
zioni – collettive, per l’appunto – di rappresentanza delle parti so-
ciali, dinamica che sopravviverà a Weimar e che si ripresenterà più o
meno stabilmente nei maggiori sistemi politici dei paesi industrial-
mente avanzati, venendo usata da uno studioso come Schmitter per
coniare la categoria di “neocorporatismo”10.

3. Hugo Sinzheimer, l’ingegnere della costituzione economica wei-


mariana. – Il contesto in cui viene concepita e prodotta la Costitu-
zione di Weimar è segnato al tempo stesso dal crollo della vecchia
autorità politica imperiale, da un’estrema debolezza delle élites tradi-
zionali e da una forte radicalizzazione delle masse popolari in senso

8
G. Arrigo, Teorie ideologie politiche e sindacali nella Repubblica di Weimar.
Dalla “democrazia consiliare” alla “democrazia economica”, in Rivista di Studi Po-
litici “S. Pio V”, 2018, p. 103.
9
E. Frankael, Democrazia collettiva, in G. Arrigo, G. Vardaro (cur.), Laborato-
rio Weimar, cit.
10
P. Schmitter, Ancora il secolo del corporativismo?, in M. Maraffi (cur.), La so-
cietà neocoporativa, il Mulino, Bologna, 1984.

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304 Mattia Gambilonghi

socialista. Il diffondersi, sull’esempio russo, dei “consigli degli operai


e dei soldati”, immette con forza nel dibattito l’alternativa tra de-
mocrazia rappresentativa e democrazia consiliare, costringendo l’in-
tero panorama politico a fare i conti con l’opzione consiliare e a ri-
cercare un qualche compromesso con essa. Negli stessi mesi, l’inse-
diamento, nel dicembre del 1918, della “Commissione per la socia-
lizzazione” da parte del Consiglio dei Commissari del popolo fa sì
che si apra ufficialmente un grande dibattito sulle trasformazioni strut-
turali e dei rapporti di proprietà che, nelle intenzioni delle due for-
mazioni in cui è articolata la socialdemocrazia, SPD e USPD, do-
vrebbero condurre al socialismo11.
Di fronte a questa situazione, il principale obiettivo della social-
democrazia – e in particolar modo di quella maggioritaria raccolta
nella SPD – sarà quello di evitare soluzioni alla sovietica e di inca-
nalare le aspirazioni socialiste diffuse tra le masse all’interno di una
repubblica democratica, rappresentativa nelle sue strutture principali,
ma profondamente rinnovata. La socialdemocrazia tedesca maggiori-
taria si fa insomma in quel frangente portatrice di una linea di poli-
tica-costituzionale volta ad allargare le basi e il perimetro delle strut-
ture statali, combinando e integrando la dimensione rappresentativa
con quella di democrazia diretta ed economica rappresentata dai con-
sigli aziendali degli operai. Si tratta di una linea che punta a com-
pletare gradualisticamente la democrazia politica in quella economica,
attitudine e convinzione fortemente radicata nella cultura politica della
SPD, e che troverà forse la sua più acuta sistematizzazione teorica
nell’elaborazione di Hermann Heller – giurista ed esponente dell’ala
destra del partito, di ispirazione lassalliana, antimarxista e fortemente
statalista – intorno al sozialer Rechtsstaat, lo Stato sociale di diritto12.
Aldilà di Heller, se però si vuole comprendere il ruolo che i con-
sigli operai e, più in generale, la costituzione economica rivestono
nella strategia della socialdemocrazia weimariana e nella visione che

11
E. Weissel, L’internazionale socialista e il dibattito sulla socializzazione, in
Aa.Vv., Storia del marxismo, vol. 3/I, Einaudi, Torino, 1980.
12
Si veda, a tal proposito, C.M. Herra, Hermann Heller, constitutionnaliste so-
cialiste, in C.M. Herrera (cur.), Les juristes de gauche sous la République de Wei-
mar, Éditions Kimé, Paris, 2002; R. Cavallo, Hermann Heller e lo Stato sociale di
diritto, in M. Gambilonghi, A. Tedde (cur.), Tra Stato, economia e sovranità popo-
lare. Momenti e percorsi della democrazia sociale, in corso di pubblicazione; O.
Jouanjan, Hermann Heller: penser l’État de droit démocratique et social en situation
de crise, in Civitas Europa, 2016, pp. 11-25.

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Diritto del lavoro, consigli aziendali e democrazia economica 305

questa ha del processo di trasformazione sociale, è alla figura di Hugo


Sinzheimer che bisogna guardare. Proveniente da una famiglia ebraica,
profondamente influenzato nella sua formazione accademica (e anche
politica) dalla lezione di von Brentano e dei kathedersozialisten, que-
st’ultimo può essere considerato come uno dei principali ingegneri
della sezione della Costituzione di Weimar che punta a regolamen-
tare la “vita economica”. Avvicinatosi alla SPD durante il periodo
bellico dopo alcuni contatti giovanili con gli ambienti della sinistra
liberale, Sinzheimer diverrà uno dei teorici socialdemocratici più vi-
cini e apprezzati dalla componente sindacale del movimento operaio
tedesco, partecipando inoltre attivamente alla composizione di quello
che è considerato come il principale programma costituzionale della
SPD tra la guerra e l’avvento della Repubblica, il volume collettaneo
Nach dem Weltkrieg13.
In un primo momento la ricerca del giuslavorista di Worms si sof-
ferma sulle peculiarità che contraddistinguerebbero il contratto di la-
voro, inassimilabile e incomparabile ai contratti propri del diritto pri-
vato e ai rapporti patrimoniali che in esso vengono contemplati. A
differenza di questi infatti, ad essere in ballo nel contratto di lavoro
è la dipendenza personale del lavoratore, la cui subordinazione mette
in pericolo l’integrità della dimensione sostanziale della sua libertà ed
eguaglianza. Successivamente, muovendosi lungo la strada e l’itinera-
rio di ricerca tracciato da Brentano, l’attenzione di Sinzheimer si fo-
calizza invece sul ruolo che chiamata a svolgere la contrattazione col-
lettiva in seguito al venir meno del tradizionale astensionismo dello
Stato rispetto ai rapporti di lavoro. I contratti collettivi stipulati dalle
organizzazioni sociali possono infatti divenire un canale alternativo
di produzione giuridica, in grado cioè di far vivere e tradurre in am-
bito sociale e sindacale le teorie pluralistiche di von Gierke e Preuss
intorno al diritto sociale. A partire dalla decentralizzazione della pro-
duzione giuridica che la contrattazione collettiva produce, diviene pos-
sibile tener finalmente conto della multiformità della realtà sociale,
sanando in tal modo la scissione che separa una società eccezional-
mente dinamica e varia ed un diritto che al contrario mostra i tratti
della staticità e della centralizzazione. Venendo dunque il diritto, in
prima battuta prodotto, e, successivamente, amministrato dalle stesse
parti sociali, si aprirebbe un vero e proprio spazio per una “produ-

13
G. Vardaro, Il diritto del lavoro nel “laboratorio Weimar”, cit., p. 13.

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306 Mattia Gambilonghi

zione giuridica immediata”, una situazione che Sinzheimer definisce


di “autodeterminazione sociale nel diritto”14. Questa produzione im-
mediata e autogestita, non implica però in alcun modo un atteggia-
mento ostile e diffidente rispetto alla dimensione della statualità, non
diviene mai “antistatalismo”, essendo piuttosto finalizzata all’integra-
zione nello Stato stesso, dei cui strumenti coercitivi viene al contra-
rio riconosciuta l’imprescindibilità. Ciò a cui si mira attraverso la de-
finizione di questo “diritto sociale” è quindi la definizione di un terzo
spazio, intermedio e alternativo tanto alla dimensione privatistica del
diritto, quanto a quella pubblicistica. Tutto ciò riflette alcune con-
vinzioni profondamente radicate nella cultura socialdemocratica del-
l’epoca, come quella secondo cui l’azione di giuridificazione della lotta
di classe agita dal diritto del lavoro avrebbe operato nel senso di una
trasformazione – di carattere socialista – del diritto positivo.

3.1. Il “controllo dei fatti sociali”: la democrazia economica come


punto d’arrivo del diritto del lavoro. – La piena comprensione del
contributo che verrà fornito da Sinzheimer in materia di democrazia
economica durante il periodo di costruzione del sistema consiliare
weimariano, necessita di considerare unitariamente e congiuntamente
questi due aspetti della sua riflessione giuslavoristica. La rivendica-
zione per gli operai di un ruolo di primo piano nella gestione nella
vita dell’azienda è infatti la sintesi di quelle due componenti: da un
lato, l’autodeterminazione sociale nel diritto, in quanto i betriebräte
devono divenire «les organes de production du droit social»15; dal-
l’altro, l’azione di messa in discussione che il diritto del lavoro – ov-
vero, il diritto che assume come centrale la problematica della su-
bordinazione – opera nei confronti dello strapotere e dell’unilatera-
lità delle prerogative imprenditoriali. Il diritto di codecisione dete-
nuto dagli operai organizzati collettivamente a cui si perviene attra-
verso la legge sui consigli d’azienda del 1920, è considerato da Sinzhei-
mer come il punto più avanzato – seppur non ancora risolutivo – di
quel processo evolutivo che aveva condotto il rapporto lavorativo
dalla situazione di totale sottomissione personale vigente ai tempi di
quello che chiama il diritto reale (in cui cioè la persona del lavora-

14
S. Mezzadra, Lavoro e Costituzione nel laboratorio Weimar, cit., p. 31.
15
C. M. Herrera, Constitution et social-démocratie à Weimar. Pour une periodi-
sation, in Id., (cur.), Les juristes de gauche sous la République de Weimar, Éditions
Kimé, Paris, 2002, p. 37.

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Diritto del lavoro, consigli aziendali e democrazia economica 307

tore apparteneva al signore), al temperamento della subordinazione


personale – di cui però non era messa in discussione l’esistenza, quanto,
invece, la misura – realizzata dal giuslavorismo con un’azione di con-
trasto della dottrina del “libero contratto di lavoro”.
Il compito storico portato avanti dal diritto del lavoro è rappre-
sentato per Sinzheimer dal fatto che esso contrapporrebbe alla pro-
prietà – elemento attorno a cui tutto è ruotato fino a quel momento
– l’idea e il principio della persona umana, che viene così a costituire
un «secondo elemento di condizionamento», un «autonomo princi-
pio di diritto» attraverso cui conformare il rapporto di lavoro, in op-
posizione alla semplice logica proprietaria. In tal modo, attraverso
questa de-formalizzazione e umanizzazione del soggetto, l’elabora-
zione giuslavoristica fa irruzione, scardinandoli, negli asimmetrici rap-
porti di potere esistenti tra imprenditori e lavoro, tra operai e datori
di lavoro, limitando e arginando il potere sociale esercitato da que-
sti ultimi, e controbilanciandolo attraverso il potenziamento di quello
della forza-lavoro16. A essere sancita, in tal modo, è una dimensione
inedita, quella umana, destinata ad integrare antagonisticamente quella
economico-contabile attraverso la creazione di diritti e istituti giuri-
dici funzionali alla preservazione della personalità del lavoratore e
della sua integrità fisica. Così facendo, il diritto del lavoro mette a
punto all’unilateralismo e all’assolutismo che avevano fino a quel mo-
mento caratterizzato i datori di lavoro e il loro modo di approcciarsi
ai processi decisionali interni all’azienda e riguardanti le «condizioni
di vita collettive»17.
Affermando il nesso forte che intercorre tra lavoro e persona, a
prodursi è un’autentica costituzionalizzazione soggettiva del lavoro18,
a partire dalla quale si affermerà l’idea secondo cui il rapporto di la-
voro e i diversi elementi che lo compongono non possono essere de-
terminati in maniera eteronoma da una variabile incontrollabile e im-
prescrutabile come quella delle «”leggi naturali” del mercato»19, ma
che, al contrario, su di essi debba essere pesare in maniera quasi vin-

16
H. Sinzheimer, La democratizzazione del rapporto di lavoro (1928), in G. Ar-
rigo, G. Vardaro (cur.), Laboratorio Weimar,cit., p. 68.
17
Ivi, p. 61.
18
A. Cantaro, La costituzionalizzazione del lavoro. Il secolo lungo, in G. Casa-
dio (cur.), I diritti sociali e del lavoro nella Costituzione italiana, Ediesse, Roma,
2006.
19
H. Sinzheimer, La democratizzazione del rapporto di lavoro, cit., p. 62.

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308 Mattia Gambilonghi

colante il punto di vista dei «soggetti collettivi» che fanno capo al


mondo del lavoro subordinato. La “costituzionalizzazione soggettiva”
del lavoro a cui si è appena accennato, determina anche il fatto che
esso, non essendo più considerabile mera merce, smette di essere con-
cepito in maniera meramente atomistica e disgregata, divenendo sem-
pre più un soggetto e un’entità collettiva e aggregata. Come sancito
dallo stesso art. 165 della Costituzione di Weimar, il lavoro, da quel
momento, è inequivocabilmente lavoro organizzato, ed esercita i po-
teri e le funzioni che gli sono riconosciute costituzionalmente attra-
verso la cosiddetta «autonomia collettiva»20. Va sottolineato come l’im-
portanza che il diritto del lavoro riconosce alla dimensione collettiva
non comprime e non svilisce in alcun modo il momento della per-
sonalità e dell’individualità, visto che, come afferma Sinzheimer, con-
trariamente alla figura atomistica, egoistica e irrelata dell’individuo
cara al pensiero liberale, il «concetto di persona è sociale»21, e l’en-
fasi posta sulla dimensione collettiva dell’azione svolta dal mondo del
lavoro organizzato rende possibile – colmando il gap esistente con la
controparte datoriale – un incremento del suo potere sociale, desti-
nato ad avere ripercussioni positive sullo sviluppo della personalità
del singolo lavoratore.
Il legame che nel pensiero e nell’elaborazione di Hugo Sinzhei-
mer unisce il diritto del lavoro e la democrazia economica e indu-
striale, sta proprio qui: nel fatto che, pur mantenendo il proprio po-
tere sociale, il diritto proprietà vede quest’ultimo pesantemente limi-
tato, perdendo così l’assolutezza detenuta in precedenza, e da sog-
getto dotato di caratteristiche proprie della «sovranità», regredisce allo
status di mero diritto privato22. Il diritto del lavoro, essendo infor-
mato e strutturato intorno all’idea secondo cui «gli avvenimenti eco-
nomici» devono essere subordinati all’uomo, contiene in nuce una
tensione verso la democrazia nei luoghi di lavoro e verso la sotto-
missione dei comportamenti individuali in campo economico ad una
«opportuna disciplina sociale». A essere assunto come centrale dalla
dottrina giuslavoristica è quindi il «controllo» dei «fatti sociali», la
regolazione degli effetti prodotti in seno alla società civile dal diritto
privato e dagli istituti giuridici che ad esso si riconnettono – il cui

20
Ivi., p. 63.
21
Ivi., p. 66.
22
Ivi., p. 64.

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Diritto del lavoro, consigli aziendali e democrazia economica 309

principio ordinante sarebbe quello di una attività individuale non con-


dizionata dal punto di vista sociale23.
Per comprendere adesso a fondo la progettualità sinzheimariana a
proposito di democrazia industriale, va ripreso il rapporto, a cui si
accennava in precedenza, che nel pensiero del giuslavorista tedesco si
instaura tra autodeterminazione sociale e potere statale, e, dunque,
della dialettica tra generale e particolare che esso viene ad esprimere.
È possibile infatti rintracciare questa stessa dialettica nel sistema con-
siliare che si forma a partire dal combinato disposto tra l’accordo
Stinnes Legien 1919, lart. 165 della Costituzione e la legge sui con-
sigli d’azienda del 1920, il celeberrimo Betriebrätegesetz. L’intervento
tenuto da Sinzheimer in sede di Assemblea costituente focalizza in-
fatti l’attenzione sulle due logiche, opposte e antitetiche, che attra-
verserebbero, sostanziandolo e dandogli forma, il sistema economico:
la logica del conflitto e la logica della comunità. Dalla logica del con-
flitto tra capitale e lavoro è possibile desumere la necessità di dar vita
degli organi di rappresentanza degli operai – i betriebsräte – attra-
verso cui istituzionalizzare e dar forza alle istanze di questi ultimi.
Dalla logica comunitaria invece, relativa alla comunanza di interessi
tra lavoratori e imprenditori al livello di produzione e produttiva, si
sarebbe spinti ad edificare degli organismi economici su base locale,
entro cui portare a sintesi questi opposti interessi: i mai nati consi-
gli economici distrettuali. Questa logica però, che nelle vicende wei-
mariane – come testimoniato dalle ricerche condotte da Rusconi –
tenderà a prevalere nettamente sulla prima, troverà una possibilità di
concretizzazione nella “comunità di lavoro” (Arbeitgemeinschaft) create
e definite precedentemente dall’accordo Stinnes-Legien. Queste ul-
time, che costituiranno lo scheletro del sistema weimariano di rela-
zioni industriali, si configurano infatti come organi di rappresentanza
paritetica degli interessi, avendo come compiti e funzioni principali
la contrattazione collettiva e la gestione delle «questioni sociali ed
economiche riguardanti le industrie» tedesche24.

3.2. I limiti democratici del potere di co-decisione: il difficile e tor-


tuoso cammino verso la “cittadinanza economica”. – Similmente, la
dialettica fra generale e particolare sta alla base del discorso svilup-

23
H. Sinzheimer, La crisi del diritto del lavoro, cit., p. 84.
24
G. Arrigo, Teorie e ideologie politiche e sindacali,cit., p. 101.

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310 Mattia Gambilonghi

pato da Sinzheimer a proposito dei legami tra democrazia politica e


democrazia economica, e del percorso che dovrebbe condurre dalla
prima alla seconda. Anche nel caso della democrazia è infatti possi-
bile riconoscere due elementi opposti, l’uno assimilabile alla parzia-
lità e l’altro alla generalità. Da un lato, la democrazia è portatrice di
una aspirazione alla libertà individuale e all’indipendenza rispetto al-
l’invasività del potere statale. Dall’altro, in essa si realizza anche una
dinamica comunitaria, nel senso del trasferimento della sovranità e
del potere politico dal singolo signore alla «comunità pubblica». Lo
stesso trasferimento di potere che, a parere di Sinzheimer, deve con-
traddistinguere il passaggio alla democrazia economica: un processo
in cui all’affermazione della libertà individuale (negativa) del lavora-
tore e alla speculare limitazione dello strapotere del datore di lavoro,
deve necessariamente far seguito il trasferimento del potere econo-
mico dai singoli imprenditori ad una «organizzazione comune del-
l’economia»25, nel senso, quindi, di una crescente comunitarizzazione
dell’economia. Il fatto che questo processo non si sia ancora realiz-
zato, porta Sinzheimer a paragonare l’equilibrio di potere esistente
nella dimensione economica e aziendale a quello proprio di un «prin-
cipato patrimoniale»26 o delle «corporazioni di diritto curtense» chia-
mate a limitare il potere del principe27, piuttosto che a quello delle
democrazie politiche repubblicane. Mentre in esse i singoli membri
sono chiamati a partecipare alla «formazione di una volontà gene-
rale», vista la condivisione a cui il potere sovrano è soggetto – la di-
mensione economica e aziendale vede i lavoratori esercitare un po-
tere finalizzato alla co-desione, in base al quale l’autorità dell’im-
prenditore viene limitata e temperata, similmente a quei sistemi po-
litici feudali in cui i differenti ceti partecipavano «all’esercizio di quella
volontà personale», volontà che restava, però nell’ambito della «sfera
privata»28. Malgrado l’innegabile importanza del diritto di co-deci-
sione, frutto non secondario del processo rivoluzionario che aveva
portato alla Repubblica, sarebbe quindi erroneo e sbagliato secondo
Sinzheimer confonderlo con la cittadinanza economica a cui i socia-
listi devono tendere nella loro azione politica quotidiana. Ferma re-

25
Ivi.
26
Ibid.
27
H. Sinzheimer, L’Europa e l’idea di democrazia economica (1925), in Quaderni
di azione sociale, 1994, p. 73.
28
Ivi.

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Diritto del lavoro, consigli aziendali e democrazia economica 311

stando, ovviamente, la sua indubbia funzione pedagogica e di ap-


prendimento democratico che, grazie ad esempio alle attività di au-
togoverno conquistate nell’ambito della politica sociale (termine con
cui il dibattito politico dell’epoca indica campi come le assicurazioni
sociali o il collocamento della manodopera), esso svolge rispetto al
ruolo di governo a cui la classe operaia è chiamata29.
Prendendo insomma atto della limitatezza e dell’insufficienza – da
un punto di vista democratico – del diritto di co-decisione che trova
attuazione nei betriebsräte, Sinzheimer è naturalmente portato a ri-
conoscere la profondità del legame, dal carattere quasi simbiotico, che
connette e tiene insieme diritto del lavoro e (diritto dell’)economia,
sopratutto in un quadro, come quello weimariano, la cui cifra prin-
cipale sul piano delle strutture economiche è rappresentata dai profondi
processi di Rationalisierung e della crescente concentrazione del ca-
pitale in senso monopolistico. La piena coscienza di questo rapporto
e di queste trasformazioni giungerà a compimento forse troppo tardi,
nel momento in cui, sarebbe a dire, la crisi del patto sociale weima-
riano e della democrazia contrattata che esso aveva edificato, era già
troppo profonda. È infatti solo nel 1933, all’interno di un saggio de-
dicato alla crisi del diritto del lavoro weimariano, che questa si esplica
totalmente. Sinzheimer si mostra qui risolutamente consapevole della
necessità, di fronte ai guasti prodotti dalla crisi economica scoppiata
nel 1929, di considerare complementari e simbiotici diritto del lavoro
e diritto dell’economia, e ciò in quanto la capacità del primo di li-
mitare e controbilanciare le prerogative e il potere sociale dei datori
di lavoro dipenderebbe strettamente dalla «esistenza di un’economia
capace di garantire le condizioni di vita dei lavoratori», piegata alle
loro esigenze30.

3.3. Il rapporto biunivoco fra diritto del lavoro e “comunitarizza-


zione dell’economia”: superamento del secondinternazionalismo o sta-
tolatria organicistica? – È forse possibile intravedere il superamento
di un certo ottimismo evoluzionistico – tipico della Seconda Inter-
nazionale e del suo “partito-guida”, la socialdemocrazia tedesca di
Kautsky e Hilferding – nell’idea secondo cui la piena esplicazione del
diritto del lavoro e della sua funzione necessiterebbe di un «ordina-
mento economico complessivo» tale da assicurare e promuovere la

29
H. Sinzheimer, La democratizzazione del rapporto di lavoro, cit., p. 78.
30
H. Sinzheimer, La crisi del diritto del lavoro, cit., p. 86.

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312 Mattia Gambilonghi

forza contrattuale del lavoro organizzato31. Tutto il contrario della


cultura economica – e, conseguentemente, della linea di politica eco-
nomica che da essa deriva – fatta propria dalla SPD (e in maniera
non troppo dissimile dagli stessi comunisti, in una variante crollista
e iperdeterministica), che in base ad lettura meccanicistica del pen-
siero di Marx confidava dogmaticamente nella capacità di correzione
automatica dell’economia capitalistica, leggendo cioè la crisi come un
momento di “purificazione” della struttura produttiva da quegli squi-
libri accumulatisi precedentemente. Una visione dell’economia che,
tragicamente, condurrà i socialdemocratici tedeschi a scartare le pro-
poste di politica economica avanzate dalla componente sindacale della
ADGB e miranti ad arginare la disoccupazione galoppante tramite
piani del lavoro con funzione anticiclica32.
C’è chi, come Vardaro ma soprattutto Mezzadra, ha letto in ma-
niera differente e opposta quest’ultima fase del pensiero sinzheime-
riano, con la sua attenzione per la dimensione comunitaria dell’eco-
nomia. Più che la consapevolezza della necessità di stabilire nessi e
ponti tra il diritto del lavoro e una politica economica orientata in
senso anticiclico, i due studiosi appena citati vedrebbero in essa l’e-
spressione più lampante dell’organicismo – non certo negabile o igno-
rabile – che pervaderebbe l’intera costruzione dottrinaria sinzheime-
riana. Un organicismo, sottolineano entrambi, che finirà per rivelarsi
un boomerang per il movimento operaio tedesco. Nonostante infatti
gli importanti poteri di consultazione, co-decisione e di veto ricono-
sciuti ai comitati di rappresentanza dei lavoratori, nella “comunità di
lavoro” disegnata dall’articolo 165, dalla già citata legge del 1920 e
dal precedente accordo Stinnes-Legien, nei fatti tra la logica del con-
flitto e quella della comunità il pendolo risulterà sbilanciato a favore
della logica comunitaria della pace sociale e dei comuni obiettivi azien-
dali, complice, da un lato, la refrattarietà del mondo imprenditoriale
a delle vere forme di democrazia industriale33; dall’altro l’ispirazione
conservatrice, ferma alle concezioni giuridiche di epoca imperiale, di
una grossa fetta della magistratura e della giurisprudenza da essa pro-
dotta in materia di conflitti di lavoro. L’obiettivo sinzheimeriano del-

31
Ivi.
32
Per i termini di questo dibattito, si rimanda a M. Telò, Teoria e politica del
piano nel socialismo europeo tra Hilferding e Keynes, in Aa.Vv., Storia del marxi-
smo, vol. 3/II, Einaudi, Torino, 1981.
33
S. Mezzadra, Lavoro e Costituzione nel laboratorio Weimar, cit., pp. 37 ss.

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Diritto del lavoro, consigli aziendali e democrazia economica 313

l’allargamento delle basi dello Stato e dell’integrazione in esso delle


forme di autogoverno economico, prestò quindi inconsapevolmente
il fianco alla concezione corporativa dell’azienda, tipica dei fascismi
montanti in Europa e nella società tedesca34. Si può quindi affermare,
richiamando Vardaro, che esiste forse nell’elaborazione sinzheimariana
una simmetria tra la subordinazione organicistica dell’autodetermina-
zione sociale dei sindacati nei confronti dello Stato, e la subordina-
zione organicistica che nei fatti si trovarono ad esercitare i consigli
d’azienda rispetto al “bene comune” dell’impresa e del datore di la-
voro: una simmetrica subordinazione rivelatasi fatale per il movimento
operaio e per l’avanzamento delle condizioni sociali dei lavoratori.

34
G. Vardaro, Il diritto del lavoro nel “laboratorio Weimar”, cit., pp. 22-24.

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Fiore Fontanarosa
IL RUOLO DEI POTERI STATALI NELL’EQUILIBRIO
COSTITUZIONALE DELLA REPUBBLICA CECA

1. Premessa. – La Repubblica Ceca è considerata come un esem-


pio di transizione riuscita da una dittatura comunista ad una demo-
crazia liberale stabile1, il che è testimoniato dall’ingresso del Paese al-
l’interno della NATO, nel 1999, nonché nell’Unione europea, nel
2004. Il sistema politico è regolato dalla Costituzione del 1993 che
ha introdotto, quale forma di governo, una democrazia parlamentare,
il cui funzionamento ha tuttavia prodotto non pochi problemi di na-
tura istituzionale.
L’obiettivo del presente saggio è quello di analizzare il sistema po-
litico-istituzionale della Repubblica Ceca, al fine di verificare se i di-
versi poteri statali possano dirsi in equilibrio. Dopo aver analizzato
la forma di governo che caratterizza il Paese in questione, si darà
conto del sistema politico, in considerazione del fatto che il peculiare
atteggiarsi dei partiti ha certamente influenzato l’operatività del si-
stema istituzionale. Pare opportuno fin d’ora sottolineare come, ol-
tre al sistema partitico, un ruolo chiave è stato svolto dal Presidente
della Repubblica, il quale ha visto accrescere, sempre più, i propri
poteri, con un contestuale indebolimento della posizione del governo
ed un rafforzamento del ruolo del parlamento; insomma, come si
vede fin da queste prime battute, il Paese si caratterizza per uno squi-
librio dei poteri statali. Lo scopo del saggio è dunque quello di va-
lutare le proposte, avanzate soprattutto in dottrina, volte a raggiun-
gere un riequilibrio tra i vari poteri dello Stato.
In una dissertazione avente ad oggetto il funzionamento del si-
stema politico-istituzionale di un Paese comunitario non potevano
mancare talune considerazioni circa il rapporto di quest’ultimo con

1
M. Brunclík, Problem of early elections and dissolution power in the Czech Re-
public, in Communist and Post-Communist Studies, 2013, p. 217.

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316 Fiore Fontanarosa

l’Unione europea. La necessità di valutare i legami tra l’ordinamento


nazionale e quello sovranazionale si impone anche in virtù del pro-
cesso di integrazione comunitaria, il quale obbliga il giurista a tener
conto delle interrelazioni che si instaurano tra i due ordinamenti, an-
ticipando come tali rapporti si esplicano in senso bidirezionale poi-
ché, se è vero che l’attività delle istituzioni comunitarie ha indubbia-
mente inciso sul processo di democratizzazione (o desovietizzazione)
della Repubblica Ceca (ma tale discorso vale per molti altri Paesi del-
l’Est Europa, ora facenti parte dell’UE), bisogna pure tener conto
delle modalità attraverso le quali si esplica tale ‘appartenenza’ al-
l’Unione europea (si pensi alla ratifica dei Trattati comunitari, piut-
tosto che alla ‘propensione’ ad attuare il diritto comunitario all’in-
terno dell’ordinamento nazionale). Su un piano più generale i rap-
porti tra la Repubblica Ceca (e gli altri Stati dell’Europa orientale) e
l’UE non possono considerarsi ‘stabili’ e questo anche in virtù della
‘debolezza’ del regime istituzionale, causato da un sistema politico-
partitico altamente ‘rissoso’, espressione e testimonianza di un Paese
tradizionalmente considerato nazionalista ed euroscettico.

2. La Repubblica Ceca quale forma di governo “ibrida”. – Prima


di analizzare il sistema politico-istituzionale ceco, pare opportuno dar
conto delle principali caratteristiche della legge fondamentale di que-
sto Stato. La Costituzione della Repubblica Ceca, adottata il 16 di-
cembre 1992 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1993, rappresenta il
risultato degli studi portati avanti da una commissione costituita ad
opera del governo, all’epoca presieduta da Vaclav Klaus, leader del
Partito civico-democratico (ODS). Nonostante le evidenti novità, in
termini di razionalizzazione, introdotte dalla Costituzione del 1992,
essa presenta comunque una certa continuità rispetto alla Costitu-
zione del 19202, quantomeno con riferimento ai caratteri della forma
di governo parlamentare3. Già questo costituisce un primo, impor-
tante elemento che vale a differenziare lo Stato ceco rispetto ad altri
Paesi post-socialisti, che hanno invece attinto maggiormente ai mo-

2
La Costituzione del 1920, unica nel suo genere nell’Europa centro-orientale di
quel tempo, ‘riprende’, seppur con diversi meccanismi di razionalizzazione, la forma
di governo della III Repubblica francese.
3
Sul punto v. M. Ganino, Presidenti e governi nell’evoluzione costituzionale del-
l’Europa dell’Est (Polonia, Romania, Ungheria e Russia), in Nomos, 1997, pp. 81 ss.

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Il ruolo dei poteri statali 317

delli occidentali nel momento in cui si è verificata la transizione dal


modello socialista a quello democratico4.
L’art. 1, co. 1, della Carta Costituzionale statuisce che «La Re-
pubblica Ceca è uno Stato di diritto sovrano, unitario e democratico
fondato sul rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo e del citta-
dino». Merita sottolineare che il concetto di Stato di diritto, così come
interpretato dalla giurisprudenza costituzionale, deve essere inteso,
non solo nel suo significato formale, bensì pure in quello materiale.
Quanto appena detto è testimoniato, sia dall’apertura del Paese nei
riguardi del diritto internazionale, sia dal fatto che nella legge fon-
damentale dello Stato mancano riferimenti di carattere nazionalistico
o di limitazioni ideologiche della sovranità5. La volontà di rompere
col passato traspare pure in altre disposizioni costituzionali. Così
come previsto dall’art. 2, infatti, il popolo costituisce la fonte di ogni
potere statale che esercita attraverso gli organi del potere legislativo,
esecutivo e giudiziario. In particolare, la divisione dei poteri e il ve-
nir meno del ruolo guida del partito unico, esplicitato dall’art. 5, che
delinea un sistema politico basato sulla nascita libera e spontanea dei
partiti, rappresentano l’evidente esigenza di superare alcuni dei prin-
cipi che permeavano la precedente forma di Stato socialista.
Dal punto di vista della forma di governo, la Costituzione ceca
del 1993 prevede un regime parlamentare, nel quale il potere esecu-
tivo è conferito al governo ed al Presidente della Repubblica, que-
st’ultimo eletto direttamente dai cittadini6. Il governo è responsabile
nei confronti della Camera dei deputati. Il Primo ministro è nomi-
nato dal Presidente della Repubblica; quest’ultimo nomina anche i
ministri del governo, su proposta del Primo ministro e non è for-
malmente limitato nella nomina del Premier7. Il potere legislativo ri-
siede in un Parlamento bicamerale, che consiste nella Camera dei de-
putati (Camera bassa, dotata dei poteri maggiori) e nel Senato (Ca-
mera alta)8. In pratica, si tratta di un bicameralismo asimmetrico o

4
A. Di Gregorio, I tormenti della forma di governo ceca tra profili europei e
rimescolamenti interni, in federalismi.it, 2010, p. 2 ss. In merito alla fine della ditta-
tura comunista ed alla graduale introduzione di un regime liberal-democratico nello
Stato ceco v. le considerazioni espresse da M. Troisi, Le elezioni europee 2014 in Re-
pubblica ceca: a dilagare è l’astensionismo, in federalismi.it, 2014.
5
M. Troisi, op. cit., p. 2.
6
M. Brunclík, op. cit., p. 221.
7
M. Brunclík, op. loc. cit.
8
La Camera bassa è composta di 200 deputati, è eletta con un sistema propor-

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318 Fiore Fontanarosa

imperfetto, dal momento che le leggi, ad eccezione di quelle riguar-


danti determinate materie (per esempio la disciplina delle elezioni po-
litiche), possono anche essere approvate espressamente soltanto dalla
Camera dei deputati, con il Senato che si limita a manifestare il pro-
prio silenzio-assenso. Inoltre, il voto contrario del Senato può essere
superato dalla Camera dei deputati con il voto favorevole della mag-
gioranza assoluta dei membri di quest’ultima9.
La forma di governo si caratterizza per un parlamentarismo ne-
gativo, la cui caratteristica peculiare consiste nel ruolo ‘negativo’ svolto
dal legislatore nella formazione del governo post-elettorale. In pra-
tica, in presenza del parlamentarismo negativo, il parlamento può solo
‘rifiutare’ ma non ‘scegliere’ un nuovo governo, che viene nominato
dal Capo dello Stato10. In effetti, l’art. 68 della Costituzione della Re-
pubblica Ceca prevede soltanto un ruolo negativo del parlamento nel
processo di formazione dell’esecutivo, specificando che il governo,
nominato dal Presidente della Repubblica, deve ottenere il voto di fi-
ducia della maggioranza assoluta dei membri dalla Camera dei de-
putati entro trenta giorni dalla sua nomina11. Come si vedrà meglio
appresso, proprio la presenza del parlamentarismo negativo fa sì che
la formazione di un governo di minoranza sia tutt’altro che infre-
quente12.
Con riguardo invece allo scioglimento del parlamento, segnata-

zionale per una durata di quattro anni, mentre il Senato, costituito da 81 senatori,
eletti con metodo maggioritario in collegi uninominali, si rinnova ogni sei anni (ma
un terzo dei componenti si rinnova ogni due).
9
L’asimmetria del sistema parlamentare ceco risulta anche dal fatto che, in confor-
mità all’art. 33 della Costituzione, qualora sia stata sciolta la Camera dei deputati, il
Senato può approvare le leggi, fatta eccezione per alcune materie (legge elettorale,
trattati internazionali, bilancio dello Stato, ecc.), realizzando così la c.d. legislazione
di sostituzione o di emergenza.
10
Questa pratica è in netto contrasto con il parlamentarismo positivo, in cui il
parlamento deve approvare, con voto positivo, il nuovo governo che viene sempli-
cemente nominato dal Capo dello Stato.
11
Se il nuovo esecutivo non riesce ad ottenere tale fiducia, allora il Presidente
della Repubblica nomina un nuovo governo, il quale deve seguire la medesima prassi
appena descritta. In caso di fallimento anche di questo secondo governo, il Presi-
dente deve nominare, come Primo ministro, la persona indicata dal Presidente della
Camera dei deputati. Se anche questa nomina fallisce, il Capo dello Stato può scio-
gliere il parlamento e indire nuove elezioni.
12
C. Nikolenyi, Coordination problem and grand coalition: the puzzle of the go-
vernment formation game in the Czech Republic, 1998, in Communist and Post-
Communist Studies, 2003, p. 334.

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Il ruolo dei poteri statali 319

mente della Camera dei deputati, l’art. 35 della Costituzione stabili-


sce che il Capo dello Stato decreta lo scioglimento della Camera bassa,
in primo luogo se quest’ultima non ha votato la fiducia al nuovo go-
verno, il cui presidente (Premier) sia stato nominato dal Presidente
della Repubblica, su proposta dello speaker della Camera dei depu-
tati. In secondo luogo, vengono in considerazione le varie ipotesi di
inattività della Camera bassa, che possono parimenti condurre al suo
scioglimento da parte del Capo dello Stato, tra le quali si annove-
rano la mancata deliberazione del parlamento entro tre mesi su un
progetto di legge presentato dal governo e sulla cui approvazione era
stata posta dall’esecutivo stesso la questione di fiducia. Nel 2009, in
seguito a una impasse istituzionale, è stata introdotta la possibilità del-
l’autoscioglimento; infatti, l’art. 35 della Costituzione è stato sotto-
posto a revisione ed ora prevede che la Camera dei deputati può ap-
provare, a maggioranza dei tre quinti dei suoi componenti, il suo au-
toscioglimento.
L’analisi dei ruoli, ma soprattutto dei rapporti esistenti tra il po-
tere esecutivo (Presidente della Repubblica e Governo) e quello legi-
slativo (Parlamento) induce a ritenere che la forma di governo dello
Stato ceco sia di tipo parlamentare, ma con alcune caratteristiche ti-
piche della variante semipresidenziale. In effetti, sebbene molti esperti
tendano a classificare la Repubblica Ceca come un regime parlamen-
tare, un numero crescente di Autori ritiene che tale Paese possa es-
sere considerato come una forma di governo “ibrida”, piuttosto che
“semi-presidenziale”, deviando quindi dal “regime parlamentare puro”13.
In altre parole, la forma di governo adottata dalla Repubblica Ceca,
come del resto avvenuto per gli altri Paesi dell’Europa centrale e
orientale, ha assunto una posizione intermedia tra i tradizionali re-
gimi parlamentari nei quali il Capo di Stato detiene un potere debole
ed i sistemi “semi-presidenziali”, esemplificati dalla Francia. Da ciò
deriva che il dualismo esecutivo è molto forte ed il rischio di con-
flitto all’interno del potere esecutivo è aumentato a causa dell’intro-
duzione, nel 2012, delle elezioni presidenziali dirette14. In realtà, le
preoccupazioni maggiori riguardano, non tanto il ruolo del Capo
dello Stato, quanto quello del governo. Invero, le ricerche mostrano
che i governi cechi tendono ad essere di breve durata (così come, del
resto, quelli della maggior parte degli altri Paesi dell’Europa orien-

13
M. Brunclík, op. cit., p. 222.
14
M. Brunclík, op. loc. cit.

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320 Fiore Fontanarosa

tale): si pensi che dal 1992 al 2013 nel Paese si sono succeduti 12 go-
verni, la cui durata media non ha superato i due anni15. Nei para-
grafi che seguono si tenterà di ricostruire le principali ragioni che
hanno determinato questa situazione di debolezza ed instabilità go-
vernativa.

3. Il sistema politico-partitico ceco. – Uno dei principali problemi


concernenti il funzionamento del sistema istituzionale ceco riguarda
il ruolo rivestito dalla politica. Il nodo più importante non riguarda
il (moderato) grado di frammentazione del sistema partitico16, tanto
che la Camera dei deputati ha sempre contato non più di sei par-
titi17. Il problema del sistema partitico risiederebbe, piuttosto, nella
presenza di partiti dotati di uno scarso potenziale di coalizione.
La storia recente (inizio anni ’90) ha visto fare il suo ingresso,
nella scena politica, il partito comunista di Boemia e Moravia, suc-
cessore dell’ex partito comunista della Cecoslovacchia (Komuni-
stickástrana Ceskoslovenska), il quale ha governato il Paese durante
la dittatura comunista18. Il partito comunista di Boemia e Moravia
(Komunistickástrana Cecha Moravy) ha contribuito, in modo signi-
ficativo, a produrre notevoli conflitti all’interno del sistema politico19.
Questo perché il KSCM, in quanto erede del Partito comunista della
Cecoslovacchia (KSC), non ha subito una vera e propria trasforma-
zione ideologica, continuando ad abbracciare l’ideologia marxista-le-
ninista; i suoi rappresentanti, inoltre, dichiaravano, più o meno aper-
tamente, il loro atteggiamento positivo nei confronti dell’era comu-
nista. Ciò è in contrasto con la situazione rinvenibile in altri Stati
dell’Europa centro-orientale, dove sono assenti simili partiti comuni-
sti tradizionali e dogmatici20. Sempre nell’ultimo decennio del secolo
scorso altri due partiti hanno animato la vita politica ceca, vale a dire

15
M. Brunclík, op. loc. cit.
16
C. Nikolenyi, op. cit., p. 327; M. Brunclik, op. cit., p. 221.
17
Il numero medio effettivo di partiti è di 3.86.
18
M. Brunclík, op. loc. cit.
19
L. Kopeček, Dealing with the communist past: Its role in the disintegration of
the Czech Civic Forum and in the emergence of the Civic Democratic Party, in
Communist and Post-Communist Studies, 2010, p. 199 s.; D. Hough, V. Handl, The
post-communist left and the European Union. The Czech Communist Party of Bohe-
mia and Moravia (KS»M) and the German Party of Democratic Socialism (PDS), in
Communist and Post-Communist Studies, 2004, p. 320 ss.
20
L. Kopeček, op. cit., p. 200.

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Il ruolo dei poteri statali 321

il partito socialdemocratico (di sinistra) e il partito repubblicano, en-


trambi senza alcun potenziale di coalizione21. Dal punto di vista dei
contenuti politici, il principale portatore di cambiamento è stato il
Forum civico (OF), un movimento che raggruppava, al suo interno,
ideologie diverse, quali il liberalismo economico, la socialdemocrazia,
il conservatorismo, tutte però unite dal proclamare una opposizione
nei riguardi del comunismo22. La situazione appena descritta ha pro-
dotto un sistema partitico caratterizzato dal pluralismo polarizzato.
Questo significa che il sistema dei partiti è stato caratterizzato da un
basso grado di prevedibilità nella realizzazione di accordi di coali-
zione23.
Nonostante la relativa frammentazione del sistema partitico, favo-
rita dal sistema elettorale, occorre tuttavia sottolineare la sua discreta
stabilità nel corso dei quindici anni di consolidamento democratico,
costruito essenzialmente attorno a quattro partiti principali, seppur
dotati di scarso potenziale di coalizione e in presenza discontinua di
formazioni minori. In ogni caso, dal 2010 si è registrato un aumento
dei partiti rappresentati. Il sistema si è dunque destrutturato, caratte-
rizzandosi per l’affermazione di partiti personalistici ed il consolidarsi
di partiti anti-establishment, sebbene si tratti di due caratteri riscon-
trabili trasversalmente in altri ordinamenti europei24.
L’attuale scenario politico è caratterizzato dalla presenza di due
partiti ‘tradizionali’, vale a dire i social-democratici, collocabili al cen-
tro-sinistra dello schieramento politico e i cristiano-democratici, che
si autodefiniscono centristi, conservatori ed europeisti, considerati un
partito politico di centro-destra; entrambi tali partiti fanno parte della

21
M. Brunclík, op. loc. cit. Sul punto v. L. Kopeček, P. Pšeja, Czech Social De-
mocracy and its “cohabitation” with the Communist Party: The story of a neglected
affair, in Communist and Post-Communist Studies, 2008, p. 318, i quali ricordano
come nei Paesi dell’Europa centro-orientale i partiti di sinistra rappresentano, spesso,
i successori degli ex partiti comunisti, con una importante eccezione: il partito so-
cialdemocratico ceco segue la tradizione storica della socialdemocrazia sin dal pe-
riodo pre-comunista ed è diventato il principale partito della sinistra
22
V. Havlík, A breaking-up of a pro-European consensus: Attitudes of Czech po-
litical parties towards the European integration (1998-2010), in Communist and Post-
Communist Studies, 2011, p. 133.
23
M. Brunclík, op. loc. cit.
24
S. Benvenuti, Sviluppi costituzionali e della forma di governo nella Repubblica
ceca alla luce delle elezioni della Camera dei deputati dell’ottobre 2017. Il persistere
di difficoltà storiche e loro rilevanza europea nell’attuale contesto storico, in Nomos,
2018, p. 4 s.

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322 Fiore Fontanarosa

attuale coalizione di governo25. A tali partiti deve poi aggiungersi,


come si vedrà meglio appresso, il partito ‘ANO 2011’. All’opposi-
zione si colloca il partito comunista di Boemia e Moravia, il partito
‘Tradizione responsabilità prosperità’, raggruppamento di centro-de-
stra con orientamento liberale e conservatore e il partito civico de-
mocratico, anch’esso di orientamento liberal-conservatore e di cen-
tro-destra26.
Nel contesto politico e culturale della Repubblica Ceca i partiti
dell’estrema destra non hanno mai avuto molto peso politico. Dal
punto di vista comparativo con gli altri Stati dell’Europa centro-orien-
tale (area limitata ai Paesi di Visegrad), il caso ceco rappresenta un’ec-
cezione, poiché finora l’estrema destra ha avuto successo solo negli
anni ’90, cioè in un periodo di importante trasformazione politica ed
economica, che ha creato condizioni specifiche per lo sviluppo di
questa corrente politica nei Paesi post-comunisti27. Anche nel primo
decennio del XXI secolo l’estrema destra ceca è rimasta fuori delle
aule parlamentari, non riuscendo comunque ad ottenere successi si-
mili a quelli registrati negli anni ’90 o a quelli incassati dai partiti di
estrema destra in Slovacchia, Ungheria e Polonia28. Invero, l’estrema
destra è stata percepita, per lo più, in maniera negativa nella realtà
sociale, ad onta della relativamente importante attenzione che i me-
dia le hanno riservato. Questo perché il sistema partitico è stato in
grado di produrre alternative anti-establishment non estreme, senza
contare che una posizione forte è occupata dal partito comunista “pa-
triottico”29. L’offerta politica dell’estrema destra ‘sconta’ anche pro-
blemi derivanti dalla vicinanza con alcune correnti minoritarie del

25
In tema v. M. Mazza, La crisi politico-istituzionale nella Repubblica ceca: pro-
fili costituzionalistici, in dpceonline.it, 2017, p. 544.
26
M. Mazza, op. loc. cit.
27
M. Mareš, Czech extreme right parties an unsuccessful story, in Communist
and Post-Communist Studies, 2011, p. 295; C. Williams, Problems of transition and
the rise of the radical right, in S.P. Ramet (cur.), The Radical Right in Central and
Eastern Europe since 1989, The Pensylvania State University Press, University Park,
Pennsylvania 1999, pp. 29 ss.
28
M. Mareš, op. loc. cit.
29
M. Mareš, op. loc. cit. Sul punto v. J. Smolík, Far right-wing political parties
in the Czech Republic: heterogeneity, cooperation, competition, in Slovak Journal of
Political Sciences, 2011, p. 108, (consultabile al Link: www.revue.kpol.ff.ucm.sk/roc-
nik-11/cislo-2/smolik_studia.pdf), secondo il quale il numero di elettori maschi gio-
vani elettori tradizionali è diminuito a causa dei cambiamenti demografici, il che po-
trebbe aver inciso, in negativo, sull’avanzamento dei partiti di destra.

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Il ruolo dei poteri statali 323

pensiero politico ceco (fascismo, fondamentalismo cristiano, neonazi-


smo), nonché dall’incapacità di creare un programma affidabile e at-
traente all’interno del panorama politico. Inoltre, la struttura orga-
nizzativa dei partiti di estrema destra è debole, considerato che la rete
di organizzazioni locali si ritrova solo in alcune regioni; a ciò si ag-
giunga che non esiste un leader di partito forte e carismatico dell’e-
strema destra ceca30.
I risultati delle elezioni dell’ottobre 2017 hanno confermato alcune
caratteristiche del sistema politico-partitico, rinvenibili, per vero, pure
in altri Paesi europei, in primis l’aumento della volatilità elettorale31.
Invero, tale fenomeno caratterizza tutte le democrazie liberali con-
temporanee, incidendo sulla stabilità dei sistemi partitici, dunque sulle
virtù stabilizzatrici della forma di governo32.
In secondo luogo, le ultime elezioni politiche si sono caratteriz-
zate per la scarsa affluenza alle urne, manifestatasi, del resto, già in
occasione delle elezioni politiche del 2013 (inferiore al 60%). Il fe-
nomeno dell’astensionismo caratterizza le democrazie contemporanee
ed è particolarmente evidente negli ordinamenti di democrazia rap-
presentativa di consolidamento più recente dopo esperienze di cen-
tralismo democratico33. A fronte della crescente partecipazione alle
elezioni presidenziali, il tasso di partecipazione alle elezioni per la
Camera è in costante diminuzione, attestandosi al 60,2% delle ele-
zioni dell’ottobre 2017 contro il 66,6% delle presidenziali del gen-
naio 2018.

30
M. Mareš, op. cit., p. 295 s., secondo il quale allo stato attuale si possono solo
fare congetture circa i possibili sviluppi dei partiti di destra: in primis, essi potreb-
bero rimanere nella loro posizione attuale, completamente marginale, a causa delle
continue metamorfosi organizzative; in secondo luogo, l’elettorato di estrema destra
potrebbe “spostarsi” verso altri movimenti estremisti, creati ad hoc per intercettare
tali voti; l’estrema destra potrebbe acquisire maggiore presenza in alcune regioni,
eventualmente diffondendosi anche a livello nazionale, ma questo potrebbe avvenire
solo in un momento di crisi accentuata; infine, un nuovo movimento sovranista po-
trebbe imporsi quale espressione della nuova destra populista, insediandosi così a li-
vello parlamentare, mentre l’estrema destra dogmatica potrebbe rimanere confinata
in una posizione marginale al suo fianco.
31
S. Benvenuti, op. cit., p. 3.
32
Si rammenti che dal 1996, anno delle prime elezioni successive alla dissolu-
zione della Cecoslovacchia, fino alle elezioni del 2013, il partito civico democratico
(ODS, centro-destra liberale) e il partito socialdemocratico (ČSSD) sono stati sta-
bilmente i principali partiti del Paese.
33
In tal senso S. Benvenuti, op. cit., p. 5.

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324 Fiore Fontanarosa

In terzo luogo, le elezioni hanno sancito una crisi generalizzata


dei partiti tradizionali, in particolare dell’ODS, lo storico partito con-
servatore di centro-destra e, al contempo, l’emersione di forze po-
puliste, tra le quali il partito ‘ANO 2011’ (Akce nespokojen_ch občanů,
letteralmente ‘Azione dei cittadini insoddisfatti’), il quale propugna,
secondo quanto affermato dai suoi esponenti, una visione politica cen-
trista e moderata, sebbene permeata di populismo e nazionalismo. Si
tratta, a tutti gli effetti, di un partito nazional-populista, sostenitore
di un approccio liberalista in materia economica e di un orientamento
conservatore in materia di valori tradizionali, quali la famiglia, la re-
ligione, la patria, con l’ulteriore caratteristica di essere orientato in
senso europeista34. Nonostante il partito si dichiari al di fuori della
contrapposizione sinistra-destra, esso viene generalmente considerato
quale partito di centro, ma più frequentemente di centro-destra, se
non addirittura di estrema destra35. Alle recenti elezioni, svoltesi il
20-21 ottobre 2017, per il rinnovo della Camera dei deputati, il par-
tito ‘ANO 2011’ ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti, riu-
scendo a sconfiggere il partito social-democratico (ČSSD). Tale trend
è, del resto, confermato pure dai risultati delle recenti elezioni per il
rinnovo del Parlamento europeo, svoltesi nei giorni 24-25 maggio
2019, che hanno visto il partito del Premier ceco Andrej Babis, ‘ANO
2011’, ottenere la maggioranza dei voti con il 21,18%, seguito dai de-
mocratici civici dell’ODS, principale partito d’opposizione, che ha ri-
portato il 14,54%.
L’attuale sistema partitico si connota per la forte litigiosità che le
forze politiche ceche hanno dimostrato fin dallo scioglimento del Fo-
rum civico, la grande formazione “ombrello“ venuta alla ribalta al
momento della ‘desovietizzazione’ del Paese. Certo, i partiti politici
sono relativamente pochi, in considerazione del fatto che esiste un
sistema proporzionale dotato di diversi correttivi. Il problema è che
si tratta di formazioni politiche dotate di rigide connotazioni ideolo-
giche, il che rende difficile formare coalizioni di governo. In tale con-
testo, una posizione importante è stata rivestita dal partito comuni-
sta il quale, pur essendo stato escluso dal gioco politico attivo, non
si è sciolto, né trasformato, come accaduto in altri Paesi dell’area, ma
è stato anzi in grado di mantenere una posizione importante nell’a-
rena parlamentare. La presenza ingombrante dei comunisti e il rifiuto

34
M. Mazza, op. loc. cit.
35
M. Mazza, op. cit., p. 545.

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Il ruolo dei poteri statali 325

degli altri partiti (compresi i social-democratici) di coalizzarsi con loro


rende alquanto bloccato il quadro politico anche se, sia le forze di
centro-destra, che quelle di centro-sinistra hanno spesso fatto fronte
comune coi comunisti su molte questioni36. Insomma, i partiti hanno
dimostrato una notevole diffidenza reciproca ed una forte rissosità,
oltreché una mancanza di collaborazione; caratteristiche che, in un
certo senso, sembrano ricordare le vicende politiche italiane37.
Le più recenti tendenze politiche sembrano caratterizzarsi per la
presenza di fenomeni di ‘trasformismo’ e di ‘frazionismo’, soprattutto
nell’area politica di centro-destra; tutte tendenze negative che peg-
giorano l’instabilità politica del Paese e che possono, in un certo senso,
essere considerate comuni al nostro Paese: si pensi al ruolo cruciale
dei piccoli partiti, nonché all’assenza di un grande partito di centro.
Nonostante questo background comune, merita osservare che nella
Repubblica Ceca maggioranza ed opposizione, frequentemente, si sono
messe d’accordo (ad esempio per formare un governo tecnico o per
procedere ad una revisione della Costituzione) al fine di risolvere crisi
politiche38. Insomma, nonostante i problemi posti ora in rilievo, deve
pure darsi conto di una certa volontà di stabilità all’interno del si-
stema politico, testimoniata dal fatto che le numerose ‘crisi’ di go-
verno non hanno mai prodotto elezioni anticipate; inoltre, spesso le
due maggiori forze, di centro-destra e di centro-sinistra, hanno dato
prova di voler dialogare e di raggiungere ampi accordi (anche al fine
di realizzare riforme costituzionali o elettorali condivise); ciò testi-
monierebbe il sincero desiderio di porre fine a situazioni di stallo a
beneficio della ‘stabilità’ politica del Paese39.
Certo è che le cause della frammentazione del sistema partitico
ceco, maggiore rispetto a quello polacco o ungherese, inferiore ri-
spetto a quello slovacco, debbono essere ricercate pure nel sistema
elettorale40. Invero, negli anni della transizione, il forte accento po-
sto sul principio del pluralismo, necessario in un momento in cui oc-
correva ‘misurare’ gli orientamenti presenti nella società e dietro l’in-
fluenza dei richiami all’esperienza democratica tra le due guerre, ha
giustificato la cristallizzazione, nell’art. 18 della Costituzione, del-

36
A. Di Gregorio, op. cit., p. 5.
37
A. Di Gregorio, op. cit., p. 24.
38
A. Di Gregorio, op. cit., p. 26.
39
A. Di Gregorio, op. cit., p. 25.
40
C. Nikolenyi, op. cit., p. 327.

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326 Fiore Fontanarosa

l’opzione proporzionale per l’elezione della Camera dei deputati41.


Nonostante il margine di libertà del legislatore sia stato nel tempo
definito in termini rigidi dalla Corte costituzionale, la riforma del si-
stema elettorale ha rappresentato uno dei temi più discussi nell’arco
di vita della Repubblica, sebbene la varietà delle posizioni politiche
non abbia permesso di giungere ad alcuna riforma dell’art. 18 della
Carta Costituzionale42.
Successivamente all’adozione della legge elettorale del 1995, basata
sulla legge cecoslovacca del 1990, il legislatore ceco, dietro la spinta
della riflessione accademica, ha approvato modifiche volte ad accre-
scere la ‘selettività’, agendo sull’ampiezza delle circoscrizioni, sulla
formula elettorale e sulla soglia di sbarramento per accedere alla ri-
partizione dei seggi. Tali modifiche si sono dimostrate, nella sostanza,
inefficaci, pur avendo consentito negli anni una progressiva diminu-
zione dei partiti rappresentati alla Camera bassa43. In particolare, il
nuovo sistema elettorale, entrato in vigore nel gennaio 2002, ha in-
trodotto una serie di modifiche, ciascuna delle quali mirava a ridurre
la proporzionalità del sistema elettorale, rendendo più difficile per i
piccoli partiti conquistare la rappresentanza parlamentare44. Dunque,
il sistema elettorale, pur essendo rimasto proporzionale, risulta oggi
ampiamente corretto, anche grazie alle riforme del sistema elettorale45.
Per quanto concerne la riforma del sistema elettorale, la Corte costi-
tuzionale ha fissato alcuni ‘paletti’, così precludendo, ad esempio, l’in-
troduzione di un sistema misto, così come di un sistema di tipo mag-
gioritario; nello specifico, il passaggio ad un sistema maggioritario è
stato bloccato, sia dalla Corte costituzionale, che dal Capo dello
Stato46. Allo stato attuale, pare doversi escludere l’introduzione del
doppio turno alla francese, che accoglie i favori della dottrina, così
come del sistema maggioritario uninominale secco proposto dal par-
tito ‘ANO’ e in vigore per il Senato, il che richiederebbe, per l’ap-
provazione, una maggioranza qualificata dei tre quinti di ciascuna Ca-

41
Il sistema proporzionale non riguarda il Senato, per le cui elezioni si applica
il principio maggioritario; tra l’altro, il governo non è comunque legato da un rap-
porto di fiducia al Senato.
42
S. Benvenuti, op. cit., p. 8.
43
S. Benvenuti, op. cit., p. 9.
44
C. Nikolenyi, op. loc. cit.
45
A. Di Gregorio, op. cit., p. 3.
46
A. Di Gregorio, op. cit., p. 25.

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Il ruolo dei poteri statali 327

mera; il secondo dei sistemi elettorali proposti dal mondo accademico


non ha comunque frenato, a partire dalle elezioni del 201047, il pro-
cesso di frammentazione nella Camera alta48. In definitiva, tali con-
siderazioni inducono a ritenere che il sistema elettorale non possa es-
sere considerata l’unica causa dell’instabilità politica. Quel che è certo
è che le condizioni politiche attuali di estrema volatilità e di accen-
tuata polarizzazione allontanano la prospettiva di una riforma del si-
stema elettorale in senso selettivo, tanto più attraverso la modifica del
criterio proporzionale consacrato nella Costituzione49.

4. Il ruolo del Presidente della Repubblica. – Il tratto caratteristico


del potere esecutivo nei regimi parlamentari è il suo dualismo nel
senso che, oltre al governo, un ruolo importante è svolto da un Capo
dello Stato, con il quale il governo dovrebbe condividere le compe-
tenze delineate dalla Costituzione50. In molti Paesi, la classica forma
di regime parlamentare deriva da sviluppi storici che hanno portato,
gradualmente, all’indebolimento radicale dei poteri del Capo dello
Stato. Invece, i governi, dopo aver sottratto la maggior parte dei po-
teri a quest’ultima figura, hanno acquisito, nell’ambito della sfera ese-
cutiva, un potere sempre maggiore; tuttavia, al contempo, i governi
sono divenuti responsabili nei confronti dei parlamenti. Questo per-
ché, sebbene il Capo dello Stato possa svolgere un ruolo importante
in ipotesi di crisi istituzionale o di situazioni di ‘stallo’, in condizioni
di ‘normalità’ il governo detiene il reale potere decisionale e si as-
sume la responsabilità delle politiche governative51. Tuttavia, in alcuni
Paesi quali, ad esempio, la Germania e la Finlandia (1919), la Fran-
cia (1958), le Costituzioni hanno conferito al Presidente importanti
poteri formali, il che porta a considerare tali Stati come ‘semi-presi-
denziali’. Pertanto, in queste Repubbliche vi è stata una ‘rinascita’
della figura del Capo dello Stato, dotato di poteri relativamente forti.
Questa tendenza è stata parzialmente confermata in alcuni Paesi del-
l’Europa centrale e orientale dopo il 1989. Invero, i sistemi costitu-
zionali delle nuove democrazie si caratterizzano per una certa “rina-

47
In tema v. M. Stegmaier, K. Vlachová, The parliamentary election in the Czech
Republic, May 2010, Notes on Recent Elections, in Electoral Studies, 2011, pp. 238 ss.
48
S. Benvenuti, op. cit., p. 10.
49
S. Benvenuti, op. loc. cit.
50
M. Brunclík, op. cit, p. 218.
51
M. Brunclík, op. loc. cit.

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328 Fiore Fontanarosa

scita” dei Presidenti, i quali sono divenuti attori influenti e persino


potenti all’interno del potere esecutivo52.
Il rapporto (e il raccordo) istituzionale tra parlamento, governo e
Capo dello Stato è stato complessivamente caratterizzato, durante l’e-
voluzione storica dell’ordinamento costituzionale ceco, proprio dal
progressivo rafforzamento, sebbene non intenzionale, del ruolo del
Presidente della Repubblica53 al quale, in realtà, fin dall’inizio non era
stato attribuito un ruolo meramente cerimoniale54. Invero, la Repub-
blica Ceca, diversamente dalla scelta operata da numerosi Stati post-
socialisti dell’Europa centrale e orientale, ha inizialmente optato per
la forma di governo parlamentare e non per il semipresidenzialismo
(nella versione “debole”) prevalente nell’Est europeo dopo la fine del
comunismo. Ciononostante, nella forma di governo parlamentare adot-
tata dalla Repubblica Ceca i poteri conferiti al Capo dello Stato sono
particolarmente importanti: egli dispone del veto legislativo, per su-
perare il quale è necessario la maggioranza assoluta della Camera dei
deputati; può adire la Corte costituzionale; ha la facoltà di parteci-
pare alle sedute di entrambe le Camere ed alle riunioni del Governo;
adotta numerosi atti non soggetti a controfirma ministeriale, quali la
nomina e la revoca del Primo ministro e su proposta di questo i mi-
nistri; può sciogliere la Camera bassa, sebbene solo in talune ipotesi55.
Insomma, il Presidente della Repubblica gode di attribuzioni più si-
gnificative rispetto a quelle detenute dai Capi di Stato di altri Paesi

52
I Paesi che hanno conservato la monarchia parlamentare, quale forma di go-
verno, non hanno dovuto affrontare il problema dell’individuazione di quali poteri
assegnare ai Capi di Stato. In questi Paesi, il potere del monarca è stato sempre più
vincolato da convenzioni costituzionali: si pensi al Regno Unito ed alla Norvegia,
nonché alle ‘nuove’ Costituzioni, quali quelle della Svezia o della Danimarca. In
molti Stati, il monarca possiede solo un potere simbolico, essendo il suo potere si-
gnificativamente ridotto. In tema v. M. Brunclik, op. loc. cit.
53
Il parlamentarismo classico, accolto dalla Costituzione cecoslovacca del 1920,
era stato ovviamente sostituito, durante il periodo socialista, dal modello sovietico
di rappresentanza popolare, pur se con alcune particolarità, quali specialmente la fi-
gura istituzionale del Capo dello Stato monocratico, in luogo della Presidenza col-
legiale tipica dei regimi socialisti. Dopo la conclusione dell’esperienza socialista, la
forma di governo della Repubblica Ceca ha nuovamente assunto le caratteristiche
del parlamentarismo, ricollegandosi idealmente alla tradizione costituzionale del te-
sto del 1920.
54
S. Benvenuti, op. cit., p. 7.
55
In ogni caso, la collaborazione del Capo dello Stato con altri organi, Senato
e Camera dei deputati in primis, è necessaria per l’esercizio di gran parte delle com-
petenze non controfirmate. Sul punto v. S. Benvenuti, op. loc. cit.

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Il ruolo dei poteri statali 329

dotati di forme di governo parlamentari56. La configurazione del ruolo


del Presidente della Repubblica, considerato una delle due ‘teste’ del-
l’esecutivo, potenzialmente “governante”, sia pure in collaborazione
con il Consiglio dei ministri, è piuttosto singolare57. L’ampiezza dei
suoi poteri, alcuni dei quali non soggetti a controfirma ministeriale
(art. 62 Costituzione della Repubblica Ceca), ha condotto parte della
dottrina, non solo ceca, a parlare di “semipresidenzialismo strisciante
o di fatto” o anche di “esecutivo bicefalo”58.
L’importanza del ruolo rivestito dal Presidente della Repubblica è
confermata dal fatto che, sia il primo Capo dello Stato, Václav Ha-
vel, che il secondo, Václav Klaus (unitamente alla Corte costituzio-
nale) si sono spesso inseriti, se non addirittura ingeriti, in questioni
dalla forte connotazione politica, favorendo o spaccando le coalizioni
politiche59. I Presidenti hanno attivamente utilizzato i poteri loro at-
tribuiti al fine di allargare la loro “sfera di influenza”, talvolta svol-
gendo le funzioni presidenziali ai limiti della legittimità costituzio-
nale60; ciò vale soprattutto per il secondo Presidente, l’ex leader del-
l’ODS ed ex premier V. Klaus61.

56
La vaghezza di certe disposizioni costituzionali, che potrebbero avere decli-
nazioni maggiormente favorevoli al Capo dello Stato, è confermata dal frequente in-
tervento della Corte costituzionale, chiamata a dettare la corretta attribuzione di pre-
rogative contese tra governo e Presidente della Repubblica. Talvolta la Corte costi-
tuzionale si è espressa in senso favorevole al Presidente, come nel caso della nomina
del presidente della Banca centrale, mentre altre volte ha dato ragione al governo o
ad altri organi, come nel caso della revoca dei giudici. Sul punto v. A. Di Gregorio,
op. cit., p. 3 s.
57
J. Sawicki, Le elezioni europee nella Repubblica Ceca, in federalismi.it, 13-Spe-
ciale “Elezioni europee 2004”, p. 2.
58
Sul punto v. A. Di Gregorio, op. cit., p. 4.
59
A. Di Gregorio, op. loc. cit.
60
M. Brunclík, op. cit., p. 222.
61
In tal senso A. Di Gregorio, Repubblica ceca: sui tentativi di protagonismo del
capo dello Stato prevale la volontà dei partiti, in Quaderni costituzionali, 2013, p.
994. Sul punto v. anche A. Di Gregorio, I tormenti della forma di governo ceca, cit.,
p. 26, la quale sottolinea come il secondo Presidente ceco, eletto per il suo primo
mandato nel 2003, anche se inizialmente sembrava che avesse accettato la concezione
del ruolo presidenziale limitato secondo una logica strettamente parlamentare, col
tempo, sconfessando una prassi che egli stesso aveva contribuito a creare quando era
Primo ministro (tra il 1992 e il 1997) opponendosi a tutti i tentativi di protagoni-
smo di Havel, ha cercato di imporre una visione diversa del proprio ruolo. Nello
specifico il Presidente Klaus si è rifiutato di nominare un ministro che non gli era
gradito (quello dell’industria, con la scusa che non conosceva l’inglese), ha proce-

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330 Fiore Fontanarosa

Dal punto di vista istituzionale i governi della Repubblica Ceca


sono stati indubbiamente influenzati dal ruolo ricoperto dal Capo
dello Stato. La posizione ‘forte’ del Presidente della Repubblica nel
sistema politico deriva, non solo dai suoi poteri costituzionali e dalla
debolezza dei governi, ma anche dalle aspettative pubbliche e dalla
tradizione storica. Invero, il pubblico ha sempre avuto grandi aspet-
tative nei confronti dei presidenti; gli elettori percepiscono il Capo
dello Stato come un monarca, che è al di sopra dei partiti e dal quale
si aspettano un buon governo e la soluzione di tutti i problemi so-
ciali62. La tradizione del Presidente repubblicano in un regime parla-
mentare risale al 1918, quando fu fondata la Cecoslovacchia63. I Pre-
sidenti hanno sempre esercitato una significativa influenza informale
sugli esponenti dei principali partiti64. Del resto, in Cecoslovacchia i
Presidenti hanno goduto di grande prestigio anche dopo il colpo di
Stato comunista, avvenuto nel 1948. Mentre altri Paesi comunisti so-
stituirono la figura del Presidente della Repubblica con un corpo col-
lettivo, i comunisti cecoslovacchi non seguirono tale esempio e man-
tennero la tradizione del Presidente della Repubblica. La tradizione
di un Presidente formalmente debole ma in realtà forte ha avuto una
‘nuova stagione’ dopo la “Rivoluzione di velluto” del 1989, quando
Václav Havel è stato eletto Presidente65.
La revisione costituzionale dell’ottobre 2012 ha introdotto l’ele-
zione diretta del Capo dello Stato, sebbene le attribuzioni costitu-
zionali del Presidente siano rimaste le medesime. L’opzione in favore
dell’elezione diretta sarebbe stata motivata, non dalla volontà di raffor-
zare la posizione del Presidente, almeno non intenzionalmente, es-
sendo state le sue attribuzioni costituzionali mantenute intatte, quanto

duto a nomine di giudici costituzionali non gradite al Senato, ha fatto un uso attivo
ed ideologico del veto legislativo, ha fatto spesso ricorso alla Corte costituzionale
(che ha dovuto più volte porre dei freni al suo interventismo), ha fatto anche ri-
corso alla possibilità di non firmare una legge adottata dal parlamento.
62
M. Brunclík, op. loc. cit.
63
La Costituzione del 1920 non fornì al Presidente forti poteri formali, ma il
potere e l’influenza politica complessiva superarono ampiamente il ruolo che era
stato inizialmente assegnato al Presidente dalla Costituzione. Il Capo dello Stato re-
pubblicano godette di grande prestigio, in parte ereditato dai monarchi nel periodo
precedente al 1918, in parte rafforzato dal rispetto che venne attribuito ai Presidenti,
i quali furono protagonisti della lotta per la Cecoslovacchia indipendente durante la
Prima guerra mondiale. Sul punto v. M. Brunclik, op. cit., p. 221 s.
64
M. Brunclík, op. cit., p. 222.
65
M. Brunclík, op. loc. cit.

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Il ruolo dei poteri statali 331

piuttosto dal desiderio di recuperare la fiducia dell’elettorato nei con-


fronti dei partiti, smarrita in seguita ai frequenti casi di corruzione,
trasformismo e litigiosità66. Una buona parte della dottrina si è espressa
in senso negativo nei riguardi della revisione costituzionale67, in quanto
l’elezione diretta del Capo dello Stato avrebbe contribuito alla ulte-
riore politicizzazione presidenziale, con conseguente indebolimento
del potere esecutivo, sia del governo, che del Primo ministro68; ciò
sarebbe pienamente confermato dall’esperienza della presidenza Ze-
man (2013-2018)69.

5. Il sistema istituzionale ceco tra forza parlamentare e debolezza


governativa. – Oltre ai problemi di natura partitico-politica che, ine-
vitabilmente, finiscono col ripercuotersi sul funzionamento del sistema
parlamentare, una delle questioni più serie del sistema istituzionale
riguarda la debolezza del governo, il che rappresenta una caratteri-
stica ‘costante’ del regime parlamentare a partire dal 1993, anno in
cui è nata la Repubblica Ceca70. Si è anticipato che il Paese si carat-
terizza per la presenza di un sistema parlamentare, mentre il governo
detiene il potere esecutivo; quest’ultimo, tuttavia, è ‘debole’, sia in
termini di potere politico (a causa delle caratteristiche specifiche del
sistema partitico), sia in termini di poteri formali definiti dalla Co-
stituzione. La debolezza del governo è, tra l’altro, ancora più pro-
nunciata in caso di crisi governative che seguono al voto di sfiducia
dell’esecutivo.
La debolezza dell’esecutivo e lo squilibrio tra questo potere e
quello legislativo si manifestano a diversi livelli. Il primo è nella pro-
cedura di formazione del governo, disciplinata dalla Costituzione.

66
A. Di Gregorio, Repubblica ceca: sui tentativi di protagonismo, cit., p. 994, la
quale rammenta come in caso di crisi politiche che provocano debolezza dell’esecu-
tivo il Capo dello Stato possa comunque ingerirsi nel gioco politico, cosa che ha
sempre fatto, a prescindere dall’elezione diretta.
67
S. Benvenuti, op. cit., p. 17; M. Brunclík, M. Kubát, The Czech Parliamen-
tary Regime After 1989: Origins, Developments and Challenges, in Acta Politologica,
2016, p. 5; M. Kubát, J. Kysela, L’élection du Président au suffrage direct en Répu-
blique tchèque: beaucoup de paroles, peu d’arguments, in Revue Est Europa, 2013,
pp. 231-245; J. Kudrna, The Question of Conducting Direct Elections of the Presi-
dent of the Republic in the Czech Republic, in Jurisprudencija-Jurisprudence, 2011,
p. 1313.
68
M. Brunclík, M. Kubát, op. cit, p. 19 s.
69
S. Benvenuti, op. cit., p. 17 ss.
70
M. Brunclík, op. cit., p. 217.

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332 Fiore Fontanarosa

Nella prima fase vi è la nomina del Primo ministro, la quale spetta


alla Capo dello Stato e costituisce un atto non sottoposto a contro-
firma, sebbene le scelte presidenziali debbano necessariamente rispet-
tare la volontà emersa dai risultati elettorali. Ciò ha implicato la prassi
di nominare, in prima battuta, il leader del partito che abbia otte-
nuto la maggioranza, il che è avvenuto anche con la nomina dell’at-
tuale premier, A. Babiš71. Il punto è che la nomina della compagine
di governo, ma soprattutto le probabilità che quest’ultima ottenga il
voto di fiducia del parlamento dipendono, primariamente, dalle ca-
pacità del Primo ministro incaricato di negoziare i termini di un’e-
ventuale accordo di coalizione o, al limite, anche di un sostegno
esterno72. Il fatto è che l’iter di formazione del governo, avvenendo
in un clima politico fortemente frammentato e polarizzato, ha visto
l’emergere di convenzioni costituzionali quali, su tutte, l’attribuzione
di un pre-incarico da parte del Presidente della Repubblica, prima
della nomina del Primo ministro, il che ha prodotto un coinvolgi-
mento ancor maggiore del Capo dello Stato nei negoziati73. In tale
contesto la formazione dei governi è stata spesso laboriosa e in al-
cuni casi prolungata, anche in considerazione del fatto che la Carta
Costituzionale non contiene disposizioni di ordine temporale che
scandiscano, in maniera precisa, le varie fasi di formazione dell’ese-
cutivo74.
Per quanto concerne le regole costituzionali che disciplinano lo
scioglimento del governo, si è anticipato che quest’ultimo, una volta
designato, è obbligato a presentarsi alla Camera dei deputati per chie-
dere la fiducia entro trenta giorni dalla sua nomina. Se la maggio-
ranza dei membri della Camera bassa non esprime fiducia nel nuovo
governo, quest’ultimo è costretto a dimettersi. Inoltre, la Camera dei
deputati può esprimere, in qualsiasi momento, un voto di sfiducia nei
confronti del governo. Tuttavia, la Costituzione non prevede nulla
nell’ipotesi in cui il governo non si presenti per ottenere la fiducia o

71
S. Benvenuti, op. cit., p. 11.
72
S. Benvenuti, op. loc. cit.
73
Secondo C. Nikolenyi, op. cit., p. 341 s., il caso ceco insegna che anche un
leader di Stato formalmente debole può svolgere un ruolo molto importante nel pla-
smare il risultato finale del gioco di formazione governativa. In virtù del decidere
quale gruppo di parti invitare a partecipare al processo di formazione del governo,
il Presidente è stato in grado di eliminare un certo numero di risultati che, in teo-
ria, potevano emergere come possibili equilibri.
74
S. Benvenuti, op. loc. cit.

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Il ruolo dei poteri statali 333

comunque nel caso di mancato rispetto del prescritto termine75; ecco


perché, in taluni casi, il governo, sebbene sprovvisto di fiducia, è ri-
masto in carica76. La realtà è che spesso le coalizioni, espressione di
maggioranze ridotte, sono state determinate, fondamentalmente, dalla
necessità di ottenere il voto di investitura77. In effetti, la debolezza
dei governi si manifesta soprattutto una volta che essi entrano in ca-
rica, in quanto espressione di coalizioni non omogenee oppure per-
ché si tratta di governi di minoranza, la cui formazione, cioè, è stata
resa possibile dal sostegno esterno o da accordi di “desistenza”. Nel
corso di 22 anni, tra il 1996 e il 2018, si sono susseguiti ben tredici
governi, per una vita media di meno di due anni ciascuno; dei dieci
governi che, in questo periodo, hanno ottenuto la fiducia della Ca-
mera, solo quattro si sono retti su maggioranze di discreta ampiezza,
due dei quali erano però governi tecnici; nella maggior parte dei casi
i governi si sono basati su coalizioni espressione di maggioranze ri-
dotte, determinate esclusivamente dalla necessità di ottenere il voto
di fiducia78. Una volta formato il governo, la sua tenuta sarebbe do-
vuta essere garantita, nelle intenzioni dei costituenti, dall’aggravamento
dei requisiti per l’approvazione della mozione di sfiducia, per la quale
è infatti richiesta la maggioranza assoluta, mentre la Costituzione della
prima Repubblica cecoslovacca (in cui il voto di investitura non era
peraltro obbligatorio) prevedeva, al contrario, la maggioranza sem-
plice. Ciononostante, l’instabilità del governo è rimasta un tratto ti-
pico della Repubblica Ceca, facendola accostare all’esperienza della
prima Repubblica cecoslovacca79.
Secondo alcuni la rigida regolamentazione dello scioglimento del

75
Si tratta, nella sostanza, di un caso di scuola che evidenzierebbe un conflitto
inter-organico e solo in due occasioni tale termine è stato superato di pochi giorni.
Sul punto v. S. Benvenuti, op. cit., p. 12.
76
In un primo caso, si pensi al primo governo Topolánek, il quale, dopo la man-
cata fiducia nell’ottobre 2006, è rimasto in carica con funzioni di ordinaria ammini-
strazione per altri tre mesi, fino alla nomina del nuovo governo di coalizione, an-
ch’esso guidato da Topolánek. In un secondo caso si può ricordare il governo Ru-
snok, il quale, dopo la mancata fiducia nell’agosto 2013, è rimasto in carica sino alle
elezioni anticipate dell’ottobre ed oltre, a causa delle difficoltà di formazione del
nuovo governo Sobotka (che sarebbe entrato in carica solo nel gennaio successivo);
dunque, il governo, al quale la Camera aveva precedentemente negato la fiducia, è
rimasto in carica per oltre sei mesi. Sul punto v. S. Benvenuti, op. cit., p. 13.
77
S. Benvenuti, op. loc. cit.
78
S. Benvenuti, op. cit., p. 14.
79
In tal senso S. Benvenuti, op. loc. cit.

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334 Fiore Fontanarosa

parlamento, a cui fa da contraltare la maggiore ‘facilità’ con la quale


è possibile ‘sfiduciare’ l’esecutivo, costituisce il più grave difetto della
Costituzione, in quanto non rispetta il tradizionale principio dell’u-
guaglianza delle armi tra governo e parlamento80. Nella Repubblica
Ceca, ma questo vale anche per altri Paesi dell’Est Europa, quali
Bulgaria, Ungheria, Macedonia, Moldavia, Slovacchia, Slovenia e Ro-
mania, i governi non hanno alcuna influenza diretta sul processo di
dissoluzione parlamentare81. In questi Stati le disposizioni costitu-
zionali limitano significativamente lo scioglimento del parlamento,
rendendo così improbabili le elezioni anticipate82. In particolare, nella
Repubblica Ceca il governo non dispone di strumenti, in termini di
poteri formali, per ottenere elezioni anticipate attraverso lo sciogli-
mento del parlamento. Questo perché mentre la Camera bassa ha il
diritto di esprimere il voto di sfiducia nei confronti dell’esecutivo,
quest’ultimo non può controbilanciare tale diritto. Invero, il potere
di sciogliere la Camera dei deputati è in ogni caso affidato al Presi-
dente della Repubblica (art. 35 della Costituzione); ovviamente, il
Capo dello Stato, pur esercitando tale potere senza controfirma, non
può sciogliere la Camera in maniera discrezionale, intendendosi tale
meccanismo principalmente come una valvola di sfogo nel caso di
impasse istituzionali, mentre l’unico caso di scioglimento non tec-
nico del parlamento è costituito dall’ipotesi dell’autoscioglimento, in-
trodotto nel 2009, che non ha tuttavia contribuito a risolvere lo squi-
librio tra il potere legislativo e quello esecutivo83. In breve, il go-
verno è completamente eliminato dal processo formale di sciogli-
mento della Camera bassa, mentre il Presidente della Repubblica è
dotato di un potere più forte di quello del governo84. Si tenga conto,
poi, che nel 2012 è stata introdotta l’elezione diretta del Presidente
della Repubblica (l’altra figura del potere esecutivo), il che ha raffor-

80
M. Brunclik, op. loc. cit.
81
Invero, in alcune Repubbliche parlamentari, con Capi di Stato eletti in via di-
retta o indiretta, il diritto di scioglimento parlamentare è concepito esclusivamente
come valvola di sicurezza. In questi Paesi, i governi possono influenzare lo sciogli-
mento parlamentare solo indirettamente, in situazioni di crisi, tramite gruppi parla-
mentari, mentre in Ungheria, Macedonia, Repubblica Ceca e Polonia ciò può avve-
nire tramite la c.d. “auto-dissoluzione” del parlamento
82
M. Brunclik, op. cit., p. 223.
83
S. Benvenuti, op. cit., p. 16.
84
M. Brunclik, op. cit., p. 223.

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Il ruolo dei poteri statali 335

zato il ruolo del Capo dello Stato ed ha potenzialmente indebolito


la posizione del governo85.

6. Il riequilibrio dei poteri statali nel sistema istituzionale della Re-


pubblica Ceca. – Si è detto che la Repubblica Ceca ha una forma di
governo parlamentare sulla quale si sono però innestati elementi di
tipo semi-presidenziale; attualmente essa si caratterizza per tre aspetti:
la frammentazione del parlamento, la debolezza del governo, il ca-
rattere ‘obliquo’ del Capo dello Stato rispetto al modello parlamen-
tare classico. Queste tre caratteristiche, seppur fortemente radicate
nella storia della Cecoslovacchia, prima e della Repubblica Ceca, poi,
si sono particolarmente accentuate negli ultimi decenni86. In partico-
lare, la posizione del governo è stata influenzata dal sistema dei par-
titi e vincolata da una posizione relativamente forte del Presidente
della Repubblica87. Questo impianto, che si pone in parziale conti-
nuità con l’esperienza cecoslovacca tra le due guerre, ha dato luogo
a governi deboli rispetto a legislature frammentate e perlopiù dipen-
denti da coalizioni scarsamente coese88. I governi instabili (principal-
mente a causa del funzionamento del sistema partitico) tendono a re-
stare in carica poco tempo e le crisi governative hanno maggiori pro-
babilità di verificarsi89. L’esperienza finora acquisita ha dimostrato che
in seguito alle dimissioni del governo è stato estremamente difficile,
per i partiti politici, trovare un’alternativa al ‘vecchio’ governo; ecco
perché nella maggior parte dei casi i partiti politici hanno cercato di
andare alle elezioni anticipate. Le disposizioni normative esistenti non
sono in grado di fornire una soluzione armoniosa delle crisi gover-
native.
In dottrina sono state proposte diverse possibili strade al fine di
ottenere un riequilibrio dei poteri statali. Tali opzioni sono state pro-
poste da due diversi orientamenti dottrinali. Invero, secondo una parte
della dottrina è necessario riformare il sistema partitico, mentre la
maggioranza degli studiosi cechi concorda sulla necessità di raffor-
zare la posizione del governo, cioè i poteri dell’organo esecutivo

85
Così M. Brunclik, op. cit., p. 217.
86
S. Benvenuti, op. cit., p. 7.
87
M. Brunclik, op. cit., p. 221.
88
S. Benvenuti, op. cit., p. 6.
89
M. Brunclik, op. cit., p. 223.

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336 Fiore Fontanarosa

agendo sul piano istituzionale90. Il primo gruppo di studiosi ritiene


che la causa primaria della debolezza governativa debba essere ricer-
cata nel sistema dei partiti. Quindi, questo approccio sottolinea la ne-
cessità di operare un cambiamento del sistema elettorale concernente
la Camera bassa del parlamento, al fine di ridurre il grado di pro-
porzionalità, così da consentire la formazione di governi aventi una
maggioranza più forte, che quindi sarebbero più stabili91. Invece, la
seconda corrente di pensiero pone attenzione al rafforzamento isti-
tuzionale del governo, mediante l’indebolimento dei poteri del Pre-
sidente della Repubblica (eventualmente ritornando al sistema delle
elezioni indirette del Capo dello Stato), oppure mediante il rafforza-
mento dei poteri formali del governo da raggiungersi, ad esempio,
mediante l’introduzione del c.d. voto costruttivo di sfiducia, basato
sul modello tedesco92, la possibilità di scioglimento in caso di man-
cata formazione del governo, oppure l’introduzione di un sistema si-
mile a quello in uso in Svezia, vale a dire una sorta di voto di fidu-
cia negativo in virtù del quale è sufficiente che una maggioranza di
deputati non voti contro la nomina dell’esecutivo93.
Le tante proposte avanzate non hanno comunque portato ad una
modifica decisiva degli assetti istituzionali e delle dinamiche consoli-
date della forma di governo. Le vicende relative alla formazione del
nuovo governo dopo le elezioni dell’ottobre 2017 confermano una
sostanziale instabilità del quadro politico-istituzionale, il quale tutta-
via non pare orientato verso sviluppi di natura egemonica, pur pa-
ventato da alcuni costituzionalisti94. Ad oggi, la Repubblica Ceca con-
tinua a caratterizzarsi per un parlamentarismo molto forte95 imper-
niato, come si è avuto modo di dire, sulla Camera bassa, la quale ri-
mane di difficile scioglimento; tra l’altro, la revisione costituzionale
del 2009, che ha introdotto l’ipotesi dell’autoscioglimento, ha finito
col rafforzare il ruolo del potere legislativo, a scapito di quello ese-
cutivo96.

90
M. Brunclik, op. cit., p. 217 ss.
91
M. Brunclik, op. loc. cit.
92
In tema v. A. Roberts, Czech democracy in the eyes of Czech political scien-
tists, in East European Politics, 2017, p. 566; M. Brunclik, op. cit., p. 218.
93
S. Benvenuti, op. cit., p. 13.
94
In tema v. S. Benvenuti, op. cit., p. 21.
95
Anche la Corte costituzionale (C. cost. Rep. Ceca, sent. del 9 febbraio 2010),
ha più volte affermato la natura parlamentare della forma di governo.
96
A. Di Gregorio, op. ult. cit., p. 996.

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Il ruolo dei poteri statali 337

L’assenza di meccanismi a tutela della stabilità del governo non si


manifesta solo sotto il profilo esterno, ma anche sotto quello interno,
poiché il Primo ministro non dispone di strumenti esclusivi di dire-
zione politica e di coesione della squadra di governo97. Dunque, deve
darsi conto della incapacità, rectius impossibilità, per il Premier, di
mantenere coesa la compagine di governo per via della sua posizione
relativamente debole all’interno di quest’ultima98. Infatti, in base agli
artt. 76 e 77 della Costituzione il governo assume le decisioni col-
lettivamente a maggioranza assoluta dei propri membri, mentre al
Primo ministro, che non ha la funzione di determinare la politica del
governo, è espressamente attribuito il potere di organizzarne le atti-
vità, oltre a quello di svolgere le attività di presidenza; in sostanza,
il Primo ministro corrisponde formalmente alla figura del primus in-
ter pares99. Il Presidente del Consiglio dei ministri, al di là del po-
tere di destituire un singolo ministro e di quello di presentare le di-
missioni dell’intero governo, svolge un ruolo ‘depotenziato’100. La re-
lativa debolezza del ruolo ricoperto dal Primo ministro ha dato vita
ad un dibattito volto a ricercare le possibili soluzioni, tra le quali pare
opportuno ricordare l’introduzione di forme di cancellierato, il che
dovrebbe portare ad un rafforzamento della posizione del Premier101.

7. La posizione della Repubblica Ceca nel contesto europeo. – La


Repubblica Ceca è stato l’ultimo Paese membro dell’Unione europea
(pur in assenza di questioni referendarie) ad aver ratificato, nel 2008,
il Trattato di Lisbona, il quale è stato impugnato per ben due volte,
sia prima che dopo l‘approvazione parlamentare, dinanzi alla Corte
costituzionale. Tale fattore, unito ad altri elementi, ha posto interro-
gativi circa la reale vocazione ‘europeista’ del Paese. Ci si è chiesti,
in particolare, se esso possa considerarsi uno Stato euroscettico ed in
particolare quali siano i motivi che possano spiegare tale posizione
politica che, per vero, accomuna ormai numerosi Paesi membri (non
solo quelli facenti parte dell’Europa orientale). Nello specifico vi è
chi ha puntato il dito conto le élite politiche, le quali non sarebbero
riuscite a persuadere i cittadini sull’importanza del patrimonio euro-

97
S. Benvenuti, op. cit., p. 6.
98
S. Benvenuti, op. cit., p. 15 s.
99
V. amplius S. Benvenuti, op. cit., p. 16.
100
M. Mazza, op. cit., p. 549.
101
S. Benvenuti, op. loc. cit.

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338 Fiore Fontanarosa

peo condiviso e dei suoi valori; il tutto accompagnato da un insuffi-


ciente dibattito in merito alla c.d. ‘questione europea’102. In realtà, il
rapporto della Repubblica Ceca con l’Unione europea è sempre stato
molto complicato, a causa del prevalere di nazionalismo ed orgoglio
nazionale. Alcuni politici e cittadini hanno percepito l’ingresso del
Paese nella UE come una minaccia per l’identità ceca, soprattutto ri-
spetto alla questione della concorrenza, libera e aperta, nello spazio
comune europeo103.
I due principali protagonisti del dibattito sull’Europa sono stati i
due ex presidenti Václav Havel e Václav Klaus. Entrambi concorda-
vano sul carattere europeo dell’identità nazionale e, a parole, erano
favorevoli ad una integrazione nell’Unione europea, sebbene Havel
sottolineava la dimensione europea dell’identità ceca, mentre Klaus
era maggiormente orientato a dare rilievo alla dimensione nazionale
dell’integrazione europea104. In particolare, Havel si presentava come
un federalista, convinto di una integrazione politica ed economica del-
l’Europa, che egli considerava il contesto ‘naturale’ per lo sviluppo
della nazione ceca105. Del resto, la “Rivoluzione di velluto”, guidata
dall’ex dissidente Havel, nel novembre 1989, fu organizzata sotto lo
slogan “ritorno all’Europa”, proprio al fine di sottolineare l’obiettivo
di unire le strutture euro-atlantiche, in particolare l’UE e la NATO106.
Egli considerava l’adesione della Repubblica Ceca all’UE quale testi-
monianza di un processo di democratizzazione compiuto dal Paese107.
Del resto, nel suo discorso tenuto al Parlamento europeo a Stra-
sburgo, nel febbraio 2000108, Havel sottolineò la necessità di una ul-
teriore ‘democratizzazione’ ed ‘europeizzazione’ dell’Europa centro-

102
L. Rovná, Constitutionalizing The European Union: The Lisbon Treaty And
The Czech Republic A Complicated Story With An open ending, in L’Europe en for-
mation, 2011, p. 102.
103
L. Rovná, op. cit., p. 106.
104
P. Drulák, National and European identities in EU enlargement: views from
Central and Eastern Europe, Institute of International Relations, Praga, 2001, p. 15.
105
P. Bugge, České vnímání perspektivy členství v EU - Havel versus Klaus
(Czech Perception of the Perspective of Eu Membership), in Politologická revue, 1998,
p. 103.
106
Sul punto v. S.L. Wolchik, Czechoslovakia in transition: Politics, economics
and society, Pinter Publishers, London, 1991.
107
L. Rovná, op. cit., p. 104.
108
In occasione di tale discorso il Presidente Havel propose la creazione di una
Costituzione europea, idea che fu accolta con grande calore dai membri del Parla-
mento europeo.

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Il ruolo dei poteri statali 339

orientale, quali processi strettamente connessi allo sviluppo della so-


cietà civile109.
L’altro protagonista del dibattito avente ad oggetto il rapporto tra
lo Stato ceco e l’UE è stato Václav Klaus, il quale veniva conside-
rato come un ‘eurorealista’, sebbene in realtà molti lo percepivano
più come un ‘euroscettico’. Klaus, convinto della natura germano-
centrica, accentratrice, collettivista e demagogica delle politiche euro-
pee, ha ostentato indisponibilità a ratificare il Trattato di Lisbona, uti-
lizzando inoltre il pretesto di un ricorso alla Corte costituzionale da
parte di una minoranza di senatori euroscettici e vicini all’ex Presi-
dente stesso110. Klaus considerava l’Unione europea come un’orga-
nizzazione intergovernativa che aveva, quale principale obiettivo, quello
di creare un mercato libero111, mentre egli aveva una visione politica
ancorata alla ‘vecchia’ concezione dello Stato-nazione, così come
emersa alla fine del XIX secolo112.
Al di là delle prese di posizione, più o meno esplicite, nei riguardi
del processo di integrazione comunitaria, assunte dai vari Capi di
Stato che si sono susseguiti al vertice del sistema istituzionale del
Paese, resta il fatto che la Repubblica Ceca è considerata uno degli
Stati maggiormente euroscettici, il che sarebbe testimoniato dalla bassa
affluenza alle urne (18,20%) registratasi alle elezioni europee del
2014113; dato che è lievemente cresciuto in occasione delle recenti ele-
zioni europee del maggio 2019, attestandosi al 28,72%. Il forte asten-
sionismo potrebbe essere interpretato, sia quale manifestazione di sfi-
ducia dei cittadini circa il reale peso politico del Paese all’interno del
complesso meccanismo decisionale dell’Unione europea, sia quale
espressione di un segnale anti-establishment, rivolto dunque nei ri-
guardi dei protagonisti del sistema politico ed istituzionale nazio-
nale114.
Certo è che il rapporto tra la Repubblica Ceca e l’Unione euro-

109
K. Šafaříková, Václav Havel ve Štrasburku opět navrhl některé změny Evro-
pské Unie (Václav Havel again Suggested Some Changes of the EU), in Lidové no-
viny, 17 febbraio 2000, p. 3; L. Rovná, op. loc. cit.
110
J. Sawicki, Repubblica ceca elezioni europee 2009: alla ricerca della ragione
nell’instabilità, in federalismi.it, 2009, p. 2.
111
P. Bugge, op. loc. cit.
112
L. Rovná, op. loc. cit.
113
Il calo dell’affluenza alle urne è stato del 10 % rispetto al dato, pur basso,
manifestatosi in occasione delle elezioni europee del 2009.
114
Sul punto v. amplius M. Troisi, op. cit., p. 9.

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340 Fiore Fontanarosa

pea deve essere considerato in maniera bidirezionale, poiché la tran-


sizione del Paese, caratterizzato da una economia pianificata central-
mente e da un regime totalitario, verso una economia di mercato ed
una democrazia parlamentare pluripartitica, nonché la democratizza-
zione generale della società civile sono andate di pari passo con il
processo di adesione all’UE. Insomma, quest’ultima ha svolto un
ruolo importante, come fattore esterno, accelerando il processo di de-
mocratizzazione del Paese115. L’attuale situazione politico-istituzionale
rinvenibile nel Paese, caratterizzata da frammentazione partitica ed
incongruenze istituzionali, contribuiscono ad aggravare la crisi di con-
senso e ad indebolire la legittimazione delle istituzioni democrati-
che116. Invero, tale situazione, lungi dal costituire un caso isolato al-
l’interno del contesto europeo, pare caratterizzare molti Paesi UE, ri-
verberandosi anche sui processi decisionali europei; questo perché l’o-
peratività della forma di governo di uno Stato membro finisce col-
l’influenzare e condizionare, seppur in via indiretta, pure il funzio-
namento delle istituzioni comunitarie. Tale considerazione riguarda,
non soltanto i Paesi dell’Europa occidentale, bensì pure quelli del-
l’Europa centrale e orientale: si pensi, in tal senso, all’Ungheria o alla
Polonia117.

8. Conclusioni. – Come si è avuto modo di vedere una delle più


gravi carenze del regime parlamentare ceco è rappresentata dalla de-
bolezza del governo, la quale dipende dal particolare funzionamento
del sistema partitico e dallo squilibrio esistente all’interno del duali-
smo esecutivo con il Presidente della Repubblica118. La posizione di
quest’ultimo è stata significativamente rafforzata nel 2012, quando è
stata introdotta, nella Costituzione, l’elezione diretta del Capo dello
Stato. Anche se questo cambiamento non ha aumentato i poteri for-
mali del Presidente, ha sicuramente aumentato la sua legittimità e la
sua posizione di potere nel sistema politico. Ecco perché alcuni hanno

115
Sul punto v. L. Rovná, The European Union as an External factor of the De-
mocratization Process in the Czech Republic, in D. Berg-Schlosser, R. Vetik (cur.),
Perspectives on Democratic Consolidation in Central and Eastern Europe, Columbia
University Press, New York, 2001.
116
S. Benvenuti, op. cit., p. 22.
117
In tal senso S. Benvenuti, op. loc. cit.
118
M. Brunclik, op. cit., p. 225.

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Il ruolo dei poteri statali 341

proposto di rafforzare i poteri del governo, ma non quelli del Capo


dello Stato119.
La posizione forte del Presidente della Repubblica costituisce una
caratteristica peculiare dell’ordinamento giuridico ceco, considerato
che nei Paesi semipresidenziali, anche quelli dell’Europa dell’est quali,
ad esempio, Bulgaria, Croazia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slove-
nia, la figura presidenziale appare ‘debole’, con poteri molto simili a
quelli dei Capi di Stato degli ordinamenti di tipo parlamentare120.
Questo perché la ‘crescita’ dell’Unione europea ha portato ad un
ruolo sempre più centrale dei governi, a scapito del ruolo rivestito
dal Presidente della Repubblica, anche se eletto in via diretta121. Ma,
tant’è, la debolezza e la destrutturazione del sistema partitico ceco
hanno probabilmente giocato un ruolo chiave nel processo di ‘raffor-
zamento’ della posizione del Presidente della Repubblica, a scapito
della posizione rivestita dal governo122.
L’analisi delle regole giuridiche previste in tema di scioglimento
del parlamento ha fatto emergere come il governo ceco sia costitu-
zionalmente debole a questo riguardo. In particolare, i poteri statali
non sono in equilibrio poiché il governo è completamente escluso
dalla procedura di scioglimento parlamentare. In tal senso, i poteri
formali del governo, con particolare riferimento al procedimento di
dissoluzione parlamentare, dovrebbero essere accresciuti. Quindi, il
diritto di sciogliere la Camera dei deputati dovrebbe essere legato al
potere della Camera bassa di esprimere il voto di sfiducia nei con-
fronti del governo: in pratica, l’esecutivo dovrebbe avere il potere di
dare avvio all’iter che porta allo scioglimento della Camera dei de-
putati se essa ha votato la sfiducia nei confronti del governo123. Inol-
tre, quest’ultimo dovrebbe avere tale possibilità anche nelle ipotesi in
cui la Camera dei deputati abbia respinto la richiesta di fiducia pro-
veniente dal governo. In entrambi i casi il Presidente della Repub-
blica sarebbe obbligato a rispettare la richiesta del governo di scio-
gliere la Camera bassa. Al Capo dello Stato non dovrebbe essere con-
cessa una maggiore discrezionalità in questo procedimento, al fine di

119
M. Brunclik, op. loc. cit.
120
Cfr. F. Clementi, Garante o governante?, La figura del Capo dello Stato nella
recente esperienza dei Paesi dell’Unione europea a regime repubblicano, in Dir. pubbl.
comp. eur., 2016, p. 634.
121
In tal senso F. Clementi, op. cit., p. 635 e p. 637 ss.
122
Cfr. F. Clementi, op. cit., p. 637.
123
M. Brunclik, op. loc. cit.

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342 Fiore Fontanarosa

prevenire il rafforzamento del potere presidenziale, così rendendo le


relazioni tra i poteri statali più chiare e prevedibili124. Insomma, il
rafforzamento del ruolo del governo, nel senso cioè di attribuire a
quest’ultimo il diritto di avviare l’iter per lo scioglimento parlamen-
tare, dovrebbe, quantomeno in teoria, facilitare le elezioni anticipate
(così precludendo la nascita di crisi governative di lungo periodo), li-
mitare i tentativi dell’opposizione di rovesciare il governo con il voto
di fiducia (possibilità da ammettersi solo nei casi gravi) e favorire la
tenuta di comportamenti leali e corretti da parte dei partiti governa-
tivi. Tuttavia, fino a quando i sistemi di partito saranno caratterizzati
da una significativa ‘instabilità’ (eccessiva polarizzazione e frammen-
tazione, mancanza di disciplina, imprevedibilità del comportamento),
nessun accordo istituzionale è in grado di garantire la stabilità del go-
verno e di evitare crisi governative125.
Le elezioni parlamentari dell’ottobre 2017, seguite dalle elezioni
presidenziali del gennaio 2018 e i successivi sviluppi costituzionali te-
stimoniano dei problemi interni con cui anche altri ordinamenti co-
stituzionali dell’Unione europea si confrontano in questo frangente
storico, su tutte l’instabilità dei governi126, ma anche altri fattori quali,
ad esempio, la crisi dei partiti, quantomeno di quelli ‘tradizionali’. In
effetti, dal punto di vista prettamente politico occorre sottolineare
come anche la Repubblica Ceca debba “fare i conti” con il diffon-
dersi di orientamenti politici di stampo nazional-populista (‘ANO
2011’)127 nonostante, come si è visto, i partiti di destra non abbiano
avuto, storicamente, un forte peso politico. A proposito di ‘populi-
smo’, da quanto fin qui detto emerge che l’attuale scena politica ceca
sembra mostrare una certa convergenza tra il populismo di destra di
‘ANO 2011’ e il populismo di sinistra propugnato dal Presidente
della Repubblica Zeman, sebbene il partito in discorso abbia una vo-
cazione federale ed europea, mentre il pensiero del secondo si carat-
terizzi in senso nazionalista ed anti-europeo128. Del resto, il Presi-
dente Zeman ha annunciato, fin dall’estate del 2016, la sua intenzione
di indire un referendum popolare sulla permanenza della Repubblica
Ceca nell’Unione europea, ovvero sulla c.d. Czexit. Ovviamente, la

124
M. Brunclik, op. loc. cit.
125
M. Brunclik, op. loc. cit.
126
S. Benvenuti, op. cit., p. 2.
127
M. Mazza, op. cit., p. 543.
128
M. Mazza, op. cit., p. 546.

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Il ruolo dei poteri statali 343

crescente ascesa dei movimenti populisti non costituisce un fenomeno


‘isolato’ nel panorama comunitario, cioè limitato alla sola Repubblica
Ceca riguardando, sostanzialmente, quasi tutti gli Stati europei: il
Fronte nazionale in Francia, il partito per la Libertà nei Paesi Bassi,
il partito della Libertà in Austria. Nonostante la crescente forza po-
litica dei c.d. partiti a vocazione populista, tale da far presagire una
radicale modifica dell’assetto istituzionale dello Stato, deve tuttavia
darsi conto della capacità ‘difensiva’ delle attuali forme di governo
dei citati Paesi mostrata, per vero, sia dal sistema politico-partitico,
che dal corpo elettorale, estrinsecatasi nella volontà di non rovesciare
le ‘vecchie’ strutture istituzionali nazionali129.
In conclusione, i problemi rinvenibili nell’ordinamento giuridico
ceco riguardano, sia aspetti del sistema istituzionale, che politico. I
primi possono riassumersi nel funzionamento della forma di governo
(instabilità governativa), dovuta a limiti del contesto politico (sistema
partitico polarizzato e debole istituzionalizzazione dei partiti) e del
quadro istituzionale (rapporti sbilanciati tra gli organi di indirizzo
politico e debolezza del Primo ministro)130. I problemi di natura squi-
sitamente politica riguardano particolarmente la difficoltà di trovare
maggioranze di governo, a causa non solo del sistema elettorale pro-
porzionale, ma anche della situazione partitica, la quale si caratterizza,
sia per i frequenti scandali politici, causati da fenomeni di corruzione
diffusa che hanno provocato, a loro volta, la caduta di governi e scis-
sioni, sia per l’esistenza di una debole disciplina di partito131. Ai pro-
blemi di natura politico-istituzionale devono aggiungersi altri due fat-
tori: la crescente sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, sia quelle na-
zionali, che quelle comunitarie, come testimoniato dal forte astensio-
nismo che riguarda tutte le ultime elezioni (politiche, europee, presi-
denziali), in ragione del loro inefficiente funzionamento132, nonché
l’incapacità del legislatore di individuare soluzioni istituzionali ade-
guate133.
L’analisi fin qui condotta induce a riflettere circa lo stato dell’arte
del processo di ‘desovietizzazione’ e di contestuale ‘europeizzazione’
dei Paesi dell’Europa dell’est e a domandarsi se l’attività dell’Unione

129
M. Mazza, op. cit., p. 550.
130
S. Benvenuti, op. cit., p. 20.
131
A. Di Gregorio, op. ult. cit., p. 995; S. Benvenuti, op. cit., p. 6.
132
M. Brunclik, op. loc. cit.
133
S. Benvenuti, op. cit., p. 20.

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europea abbia in qualche modo contribuito, seppur indirettamente,


ad ‘allontanare’ i cittadini dalle istituzioni nazionali (ancor prima che
da quelle comunitarie). Invero, l’attuale atteggiarsi del sistema poli-
tico-istituzionale ceco deve necessariamente essere contestualizzato
nello scenario giuridico comunitario. Questo perché all’inizio degli
anni ’90 gli Stati dell’Europa ex socialista hanno adottato nuove Co-
stituzioni o comunque hanno profondamente modificato quelle pre-
cedenti, le quali si sono caratterizzate, sia per l’introduzione dei prin-
cipi del costituzionalismo liberale, sia per la previsione di forti sal-
vaguardie per la sovranità nazionale. Insomma, in poco più di un de-
cennio tali Paesi hanno sperimentato ben due transizioni fondamen-
tali: la prima ha riguardato l’acquisto della sovranità nazionale, a se-
guito dell‘affrancamento dall’Unione Sovietica; la seconda ha riguar-
dato la delega di una parte delle competenze nazionali ad una istitu-
zione sovranazionale (l’Unione europea), nell’ambito di un processo
che si è caratterizzato, particolarmente in questi ultimi anni, per una
spiccata integrazione comunitaria134. In definitiva, le due descritte tran-
sizioni, avvenute nel volgere di pochi anni, sono in grado di spiegare,
almeno parzialmente, il legame, alquanto peculiare, che si è venuto
instaurando tra i vari poteri statali, nonché il rapporto che si è creato
tra i cittadini e le istituzioni politiche, sia quelle nazionali, che quelle
comunitarie. Questo perché la Repubblica Ceca, se da un lato può
essere considerato, unitamente agli altri Stati dell’Europa dell’est, un
Paese che guarda al futuro, quest’ultimo rappresentato da una sem-
pre più forte partecipazione all’Unione europea, dall’altro lato non si
può tacere degli ‘strascichi’ lasciati in eredità dal periodo socialista i
quali, evidentemente, non hanno inciso solo sulla componente istitu-
zionale del Paese, bensì anche e soprattutto su quella identitaria dei
cittadini.
Quanto fin qui detto porta a pensare che, al di là delle ipotizzate
riforme del sistema elettorale o di quello costituzionale, i futuri svi-
luppi politico-istituzionali della Repubblica Ceca, come per gli altri
Paesi ex socialisti, sono inscindibilmente legati all’attività delle istitu-
zioni comunitarie. Le numerose riforme proposte, quali la modifica
del sistema elettorale in senso maggioritario, il ‘ritorno’ alle elezioni
indirette del Capo dello Stato, l’accrescimento dei poteri del governo

134
A. Di Gregorio, Riforme costituzionali e integrazione europea: il caso dei nuovi
membri dell’Est, in Dir. pubbl. comp. eur., 2004, p. 2070.

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Il ruolo dei poteri statali 345

a scapito di quelli del parlamento, la mutazione della forma di go-


verno (da una Repubblica parlamentare ad una semi-presidenziale o
addirittura presidenziale), pur auspicati da una parte della dottrina,
non sono probabilmente in grado di porre rimedio ai tanti e note-
voli ‘squilibri’ del sistema istituzionale. In tal senso, la ‘via comuni-
taria’, quindi il raggiungimento di una maggiore e migliore integra-
zione del Paese all’interno del contesto comunitario che passi per un
approfondito dibattito della ‘questione europea’, tale da permettere
un più ‘informato’ e ‘partecipato’ esercizio della democrazia rappre-
sentativa costituisce, probabilmente, il primo passo per ottenere un
reale rinnovamento della classe politica, dunque di quella parlamen-
tare e, per tale via, di quella governativa.

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ELENCO DEGLI AUTORI

Francesco Caccamo, professore associato di Storia dell’Europa Orien-


tale nell’Università «G. D’Annunzio» di Chieti-Pescara.
Francesco Duranti, professore associato di Diritto pubblico comparato
nell’Università per Stranieri di Perugia.
Angela Ferrari Zumbini, professore associato di Diritto amministrativo
nell’Università «Federico II» di Napoli.
Fiore Fontanarosa, ricercatore di Diritto privato comparato nell’Uni-
versità del Molise.
Mattia Gambilonghi, dottorando in Scienze politiche nell’Università di
Genova.
Andrea Gratteri, professore associato di Diritto costituzionale nel-
l’Università di Pavia.
Mauro Mazza, professore associato di Diritto pubblico comparato nel-
l’università di Bergamo.
Oliver Panichi, dottorando di ricerca in Storia dell’Europa dal Medioevo
all’età contemporanea nell’università di Teramo.
Fabrizio Politi, professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Uni-
versità dell’Aquila.
Marco Rizzuti, ricercatore di Diritto privato nell’Università di Firenze.
Fabrizio Rudi, dottore di ricerca in Storia delle relazioni internazionali.
Giulio M. Salzano, dottore di ricerca in Storia dell’Europa dal Me-
dioevo all’Età contemporanea.
Alessandro Tedde, dottorando di ricerca in Diritto dell’Unione europea
e ordinamenti nazionali nell’Università di Firenze.
Lorenzo Venuti, dottorando di ricerca in Studi Storici nell’Università
di Firenze.
Alessandro Volpato, dottorando di ricerca in Storia dell’Europa nel-
l’Università «La Sapienza» di Roma.

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LA BUONA STAMPA

Questo volume è stato impresso


nel mese di ottobre dell’anno 2020
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