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a cura di
Simone Magherini
S O M M A R I O
Premessa del curatore, p. 3; Gino Tellini, Fenomenologia storica del mito americano, p. 7; Irene
Gambacorti, «Terra di libertà, o d’esiglio doloroso»: Pietro Borsieri in America, p. 23; David Del
Principe, L’Ecogotico transatlantico e una lettura di «Le Avventure di Pinocchio» di Carlo Collodi,
p. 47; Simone Magherini, «Si sbarca a New York» di Fausto Maria Martini, p. 57; Andrea Dini,
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana», p. 81; Marino Biondi, Sul viaggio e il turismo.
Soldati in viaggio per l’America, p. 123; Marcello Neri, Scrivere fra mondi che collassano. Hein-
rich Böll, p. 137; Marisa Trubiano, «Dobbiamo imparare a vivere come gli emigranti»: Flaiano, gli
Usa e il nostro «vero paese» di destinazione, p. 153; Paolo Valesio, Espatrio e poesia, p. 163; Alber-
to Bertoni, Vittorio Sereni fra due (o più) mondi, p. 175; Teresa Fiore, Builders, Mermaids and
the Bauhaus: New Visions of the Migrant Return in Andrea Camilleri’s «Maruzza Musumeci», p. 183;
Salvino Raco, Poetics and Politics in a Contemporary Theatre Grounded in Today’s Reality, p. 197;
Indice dei nomi, p. 201; Collaboratori, p. 211.
STUDI
ITALIANI
2015
XXVII, 2
Edizioni Cadmo
Andrea Dini
1. «Caro Mario […], tutte le volte che mi sono messo a scrivere di questo
dannato uomo mi sono venute da dire cose diverse e certo quando mi met-
terò a scrivere questo saggio scriverò cose ancora diverse, e adesso bisogna
che conservi la brutta copia di questa lettera se no dimentico tutto»1: con-
clude così Italo Calvino, il 16 gennaio 1950, un lungo paragrafo dedicato a
Hemingway nella replica a Mario Motta, direttore di «Cultura e realtà», che
gli aveva chiesto un articolo per la rivista. D’istinto, Calvino aveva proposto
il riesame a tutto tondo dello scrittore americano, uno dei suoi «pallini» fin
dagli esordi2, termine di un rapporto idiosincratico marcato da tentativi
di definizione interrotti (è il caso di Classe e sesso in Hemingway, ipotizzato
per «Dàrsena Nuova» di Silvio Micheli, al maggio 1946, di cui non si farà
niente)3, da letture polemiche (appare su «l’Unità» Hemingway burbero bene-
fico, su Addio alle armi, quattro mesi più tardi, nel settembre)4 e, soprattutto,
dallo studio del recìt, di cui avrebbe indicato il ruolo d’esempio per la sua
prosa5. D’altronde, ammetterà Calvino, il tirocinio narrativo passa di neces-
* Il presente articolo è parte di un più ampio studio, in corso di elaborazione, sul ruolo di He-
mingway nella prima narrativa di Calvino, in cui il rapporto con Hemingway (anche a livello formale,
qui escluso per ragioni di spazio) è indagato da vicino.
1 Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli con introduzione di Claudio Mila-
nini, Milano, Mondadori, 2000, p. 267 (d’ora innanzi ogni lettera citata dal volume sarà solo indicata
col nome del destinatario seguito dalla data e dalla pagina).
2 A Alfonso Gatto, 23 novembre 1947, p. 204 (cui promette per il quindicinale «Pattuglia» «un
racconto, un profilo di Conrad e d’altri autori ancora: Hemingway, Nievo e altri miei pallini»).
3 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, p. 158.
4 Italo Calvino, Hemingway burbero benefico, in «l’Unità» (Torino), 15 settembre 1946, ora in
Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, ii, Milano, Mondadori, 1995, pp. 2115-2117 (d’ora innan-
zi Saggi, seguito dal numero del tomo e della pagina).
5 «Hemingway è stato uno dei miei primi modelli, forse perché era più facile, come moduli stili-
stici, di Faulkner, che è molto più complesso» (Id, La mia città è New York, in Ugo Rubeo, Mal d’A-
merica. Da mito a realtà, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 157, ora in Sono nato in America… Interviste
1951-1985, a cura di Luca Baranelli, Introduzione di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 2012,
p. 585; d’ora innanzi Interviste, seguito dalla pagina). Oppure: «Ho cominciato a pubblicare dopo la
Liberazione racconti d’azione ispirati alla vita della Resistenza italiana. Erano scritti à la Hemingway,
di cui ammiravo la rapidità dello stile» (intervista concessa a Claude Couffon, Calvino à Paris, in
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Andrea Dini
sità attraverso i libri degli altri: «ogni esperienza di vita per essere interpretata
chiama certe letture e si fonde con esse»6; «quando ho cominciato a scrivere
[storie] […] andavo a sfogliare tutti i narratori contemporanei e passati, per
imparare il miglior modo di raccontarle»7. I libri degli americani tradotti o
raccomandati dai numi tutelari Pavese e Vittorini, sue «guide», gli fanno da
scuola8; e tra essi svetta, fascinosa, l’opera di Hemingway.
All’inizio del 1950, però, dopo anni di frequentazione e discepolato, il
nodo del rapporto è tutt’altro dall’essere risolto (teste quell’impulsivo, «dan-
nato uomo» che spunta a epiteto di Hemingway dall’epistola a Motta). Anzi:
nonostante la fedeltà sbandierata a una prosa riprodotta nelle sue «prime
cose» scritte9, che ne rileva il debito, una definizione conclusiva di chi sia
l’uomo Hemingway, cosa ne rappresenti il mondo poetico (al di là del lin-
guaggio) e come le due siano valutabili assieme rimane tutta da scrivere. «È
un affar serio – riconosce Calvino – non ho ancora le idee chiare»10.
La difficoltà a illustrare la funzione di questo appassionante rapporto
autoriale («non ho amato mai nessun scrittore quanto Hemingway»11)
diventa un invito stimolante a indagarne gli addentellati. Rileggere l’He-
mingway del biennio 1946-1947, precisa Calvino, significa ripercorrere le
modalità dell’incontro storico che un’intera generazione di giovani, uscita
dal conflitto mondiale, ha avuto con i suoi libri. Non soltanto l’appropria-
zione fatta da un “io” aspirante scrittore, ma un più corale “noi” (come sot-
tolineerà del resto, tornando sull’argomento, con il saggio Hemingway e noi
del 195412, i cui semi sono contenuti nella lettera del 16 gennaio). Il riesame
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
i, 1312-1320.
13 A Mario Motta, 16 gennaio 1950, p. 266. Corsivo nostro.
14 Ivi, pp. 265-266.
15 Sul «sogno americano» e la sua fine si veda almeno la sintesi nel volume di Gino Tellini, Il
romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 1998, pp. 348-358. Uno stu-
dio approfondito su quest’argomento è nel volume di Bruno Pischedda, Due modernità. Le pagine
culturali dell’«Unità»: 1945-1956, prefazione di Vittorio Spinazzola, Milano, FrancoAngeli, 1995.
16 Italo Calvino, Introduzione a Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, a cura di
Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1951, p. xiv.
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Andrea Dini
solo una terra d’utopia, un’allegoria sociale che col paese esistente in realtà ha appena
qualche dato in comune. […] la letteratura americana fu […] «il gigantesco teatro
dove con maggior franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti», […]
«noi scoprimmo l’Italia – questo è il punto – cercando gli uomini e le parole in
America, in Russia, in Francia, nella Spagna».
E davvero, quest’America dei letterati, calda di sangui di popoli diversi,
fumosa di ciminiere e irrigua di campi, ribelle alle ipocrisie chiesastiche, urlante di
scioperi e di masse in lotta, diventava un simbolo complesso di tutti i fermenti e le
realtà contemporanee, un misto d’America, di Russia e d’Italia, con in più un sapore
di terre primitive –una incomposta sintesi di tutto ciò che il fascismo pretendeva
di negare, di escludere17.
Il cuore duro del discorso di Calvino (qui rivolto alla funzione di Pavese
come fabbricatore del mito americano) era già tutto nell’epistola a Motta,
incollato all’immagine di Hemingway e dell’America precisata a «terra d’u-
topia», «allegoria sociale» «mito letterario di un paese proposto come termine
di un confronto» con la storia stessa italiana e ispirazione a un suo nuovo
racconto, a un suo nuovo corso, in cui entrava anche l’idea della Russia
sovietica (che sommata all’America produceva «il grande paese d’utopia»
obiettivo della Resistenza).
L’alleanza Russia-America è stata la condizione fondamentale per la «comu-
nistizzazione» degli intellettuali italiani d’avanguardia, e la sua fine ha contato pure
molto. Ora sia «Russia» che «America» erano un insieme di dati e aspirazioni italia-
ne, erano due paesi di utopia, due utopie incomplete e complementari, e l’addizione
«Russia» + «America» («quella» R. + «quella» A.) dava il grande paese d’utopia
che fu, io credo, per molti, e certo non solo intellettuali, il «vero» obiettivo della
Resistenza. (Fu un fenomeno fine a se stesso, o conteneva una verità storica di cui
bisogna continuare a tener conto?) Quello che si intendeva per «America» c’è un po’
tutto in H[emingway, n.d.r]. La verginità di storia, la tecnica (sapere fare le cose),
la libertà e pienezza dell’amore, l’aria aperta, la democrazia immediata nei rapporti
umani, il coraggio. E, come scrittura, l’ultimo risultato d’approfondimento tecnico:
tecnico-funzionale è il linguaggio di H., in cui nulla è senza utilizzazione raziona-
le immediata, nulla è astrattismo, solipsismo o belluria (come già nel grande ma
fumoso Faulkner)18.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
19 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1319. Ma al 1950, sono «cose difficili da dire» come
l’America tanto sognata e l’Hemingway tanto amato portino (e abbiano portato) con sé aspetti dete-
riori, da rifiutare oggi con fermezza, e come l’idolo della giovinezza sia forse superato. Il riesame della
sua storia conduce alla sensazione della perdita di un padre. Si cfr. ancora la lettera a Motta del 16
gennaio, pp. 266-267, passim: «Ma H. è un’“America” che non trova la sua “Russia”. Trova invece (e il
guaio è che la cerca) la sua “Europa”. Questo è il decadentismo di H. E la trova in base (come diver-
sivo e spiegazione) agli elementi d’America deteriore (e reale almeno quanto l’altra) che ci sono in lui:
alcolismo, ignoranza, vuotaggine. E intuisce, lui barbaro, cose finissime sulla civiltà-barbarie europea;
entra nell’olimpo del nostro irrazionalismo squisito, lui il “tecnico”: ma a noi che ce ne importa più?
[…] Altro era che volevamo da lui, altro ora che sempre più ci tornano agli occhi, fino a coprire gli
aspetti che cercavamo e amavamo in lui e cerchiamo e amiamo, ci tornano dico agli occhi gli altri
aspetti (il contrasto barbarie-civiltà ora superato […]) di cui sempre meno c’importa, altro dunque ora
al di là di lui […] (dove?) ora cerchiamo. Come vedi, cose difficili da dire».
20 Ivi, p. 1313.
21 Emilio Cecchi, Ernest Hemingway, in Scrittori inglesi e americani. Saggi, note e versioni, ii,
Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 217-228 (la citazione è a p. 224).
22 Elio Vittorini, Nota a Ernest Hemingway, Per chi suonano le campane [sic], in «Il Politecnico»,
1, 29 settembre 1945, p. 3 (riprodotta nella n. 1, pp. 385-385, in Id., Letteratura arte e società. Articoli
e interventi 1938-1965, a cura di Raffaella Rodondi, Torino, Einaudi, 2008).
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Andrea Dini
23 Intervista concessa a Jean A. Gili, Italo Calvino et le cinema des annees Trente, in «Positif», 303,
maggio 1986, pp. 46-48, in Interviste, p. 519.
24 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1313.
25 Intricata è la questione dei diritti di traduzione dell’opera di Hemingway in Italia, con versioni
che si accavallano. Già a liberazione di Roma avvenuta, nel 1944, l’editrice Jandi Sapi pubblica una
antologia della raccolta Uomini senza donne (Men Without Women, 1927) e Nel nostro tempo (1925)
col titolo L’ invincibile, dal racconto eponimo: il volume contiene i racconti L’ invincibile (The Unvan-
quished), Cinquantamila dollari (Fifty Grand), Il mio vecchio, Il villaggio indiano (Indian Village), Il
campione, I sicari (The Killers). Per la stessa casa editrice esce ancora nel 1944 E il sole sorge ancora (The
Sun Also Rises, 1926), tradotto da Rosetta Dandolo, e nel 1945, tradotti da Bruno Fonzi, Un addio alle
armi (A Farewell to Arms, 1929) e Chi ha e chi non ha (To Have and Have Not, 1937). Addio alle armi
uscirà per i tipi Mondadori, in una traduzione a più mani di Dante Isella, Giansiro Ferrata e Puccio
Russo, con 8 illustrazioni originali di Renato Guttuso, nel 1946. A cura di Giorgio Monicelli esce
per Einaudi Avere e non avere (1946) e, col titolo Fiesta, la traduzione di Giuseppe Trevisani di The
Sun Also Rises. Sempre nel 1946 escono Verdi colline d’Africa (Green Hills of Africa, 1935), per Jandi
Sapi, nella traduzione di Gaetano Carancini, il dramma La quinta colonna (The Fifth Column, 1938)
per Einaudi con Trevisani e la raccolta integrale di Uomini senza donne per i tipi Elios, tradotta da
Angela Salomone. Ma l’opera che causa più controversie, anche nel campo dei diritti, è Per chi suona
la campana (For Whom the Bell Tolls, 1940), che appare con tagli prima su «Politecnico» di Vittorini
nella traduzione di Bruno Zevi e Vittorio Foà (come Per chi suonano le campane, sic), e poi tra il 1945 e
il 1946 esaurisce sei edizioni per Mondadori, nella traduzione di Maria Napolitano Martone. Sulla vi-
cenda editoriale di Per chi suona la campana, si cfr. la n. 1, pp. 385-385 in Elio Vittorini, Letteratura
arte e società. Articoli e interventi 1938-1965, cit. I racconti Il ritorno del soldato Krebs (traduzione di
Carlo Linati) con Vita felice di Francis Macomber, per poco (The Short Happy Life of Francis Macomber)
e Messicani, la monaca, la radio (The Gambler, the Nun, and the Radio, entrambi su traduzione di Elio
Vittorini) erano apparsi nell’antologia Americana (Milano, Bompiani, 1941).
26 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1195. Corsivo nostro.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
Jordan che, abbandonate le ragioni della penna, sceglie le ragioni della lotta
armata e combatte a fianco della resistenza repubblicana contro Franco fino
al sacrificio della vita nel tentativo di far saltare un ponte, diventa un irresi-
stibile viatico per la «didassi»27 narrativa del giovane Calvino. Attraverso gli
occhi di questo Hemingway si osserva la realtà della guerra che lo ha formato
e «messo al mondo, anche come scrittore»28, il cui «mondo avventuroso e
tragico»29 gli ha dato «la giustificazione per scrivere»30. Attraverso romanzi
come Addio alle armi (letto nell’estate del 1946) e Per chi suona la campana
(seguìto su «Politecnico» settimanale tra il settembre 1945 e l’aprile 1946,
nonché, si presume, letto nella versione integrale Mondadori) si ritrovano e
soppesano le ragioni (politiche e umanitarie) dell’antifascismo, dell’antimi-
litarismo e dell’impegno liberatore, individuale prima, e collettivo poi, della
Resistenza. Queste opere di Hemingway, in cui «la realtà si configura come
un gran massacro»31 (il «gran massacro» sperimentato in prima persona con
la lotta partigiana), sono ricondotte nella lettura di Calvino a uno slancio
civile: al fare (sinonimo di costruire o ri-costruire) e all’imperativo morale
che richiede allo scrittore di testimoniare la sua condizione di uomo storico
che si adopera, al suo meglio, per «l’integrazione dell’uomo nel mondo, nelle
cose che fa», «in armonia con l’umanità» attraverso «le operazioni del pre-
cise del suo lavoro»32. Il salto originario nello scrivere è legato a processo di
immedesimazione con l’autore americano: «Avevo conosciuto e sperimentato il
mondo che vedevo descritto nei libri di autori americani come Hemingway
e Dos Passos, che leggevo in quel periodo»33. Col suo linguaggio, i suoi
personaggi, e i suoi contenuti anti-retorici l’Hemingway circolante in Italia
nel dopoguerra incarna agli occhi di Calvino l’ideale di una «letteratura dei
fatti» scelta «come primo appiglio polemico nello scrivere» contro «la lette-
ratura dell’intellettualismo»34, che non s’interessa d’incidere sulla realtà del
mondo, «di quel mondo che era per noi il mondo»35; e, «nella polemica let-
teraria» dal fronte interno italiano (sull’impegno etico-civile degli scrittori),
prima che la guerra fredda ne spostasse i termini, il valore degli scrittori
27 Intervista concessa a Marco D’Eramo, Italo Calvino, in «Mondoperaio», xxxii, 6, 1979, pp.
133-138, in Interviste, pp. 283-298 (la citazione è a p. 283).
28 Intervista concessa a Enzo Maizza, La giovane narrativa, in «La Discussione», v, 210, 29 di-
cembre 1957, pp. 8-9, in Interviste, pp. 33-34 (la citazione è a p. 34).
29 Intervista concessa a Alexander stille, An Interview with Italo Calvino, in «Saturday Review»,
xi, 2, marzo-aprile 1985, pp. 37-39, in Interviste, pp. 604-609 (la citazione è a p. 605).
30 Ibidem
31 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1316.
32 Ivi, p. 1319.
33 Intervista concessa a Alexander stille, in Interviste, p. 605. Corsivo nostro.
34 A Carlo Cassola, 12 febbraio 1958, p. 248 (in Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-
1981, a cura di Giovanni Tesio, con una nota di Carlo Fruttero, Torino, Einaudi, 1991).
35 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1187.
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Andrea Dini
36 Id., Introduzione a Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, cit., p. xiv.
37 Si cfr. Id., Umanesimo e marxismo, in «l’Unità», 22 giugno 1946, in Saggi, i, pp. 1470-1471:
«Quest’atteggiamento trovava la sua giustificazione storica nel desiderio, vivo in tutti gli uomini di
cultura, d’opporsi alla società e al costume corrente, posizione che in Italia acquistava il particolare
significato di repulsione al fascismo: ma prendeva vie sbagliate, astoriche […]. Era la via dell’eva-
sione, evasione dal tempo e dalla logica […]», oppure: «La letteratura della testimonianza interiore,
della confessione individuale […] assegnava all’indagine dello scrittore una zona ben delimitata della
coscienza, […] difendendosi il più possibile dalle sollecitazioni esterne. Ma il bilancio di questa lette-
ratura, che ha pure avuto una sua logica interna e una sua giustificazione storica, era inevitabile che
minacciasse di chiudersi in perdita» (in Inchiesta sul realismo, a cura di Carlo Bo, «Quaderni della
Radio», xiii, Eri, Torino, 1951, in Interviste, p. 3).
38 Uno scoglio di cui Cecchi, prima che si scatenassero in Italia le polemiche sul libro, avrebbe
dato un’interpretazione anticipata discutendo le «querele» che da parte spagnola avevano accolto il ro-
manzo: «Non escluderei che, all’origine di quelle querele, sia un senso di delusione perché il libro non
ha una decisa impostatura propagandistica: da una parte tutto il bene, e il male tutto da quell’altra
parte. Ma è artista di gusto troppo realistico, Hemingway, per concedere a tali semplificazioni. […]
Vilipende falangisti e loro capi; benché […] siano figure da lui trattate con piena dignità e umanità. E
d’altro canto non sorvola sulle atrocità e sugli eccidi comandati e commessi da Pablo. […] Si capisce
che, da un angolo visuale rigorosamente propagandistico, un simile ritratto di capo partigiano non
potesse incontrare unanimi approvazioni». Per questo, conclude Cecchi, nel farne il ritratto critico
c’è chi giudica Hemingway «politicamente, di dubbia fede democratica, e pericolosamente antipro-
gressista», definizione tacciate subito come «semplicistiche d’uno scompenso che non pertiene poi allo
scrittore, quanto a tutta l’epoca; e che con un po’ di rettorica ad uso corrente, non gli sarebbe stato
difficile dissimulare. Noi dobbiamo essergli grati d’essersi risolutamente astenuto da cotesta qualità di
rettorica» (Emilio Cecchi, Ernest Hemingway, cit., pp. 226-228, passim).
39 Italo Calvino, Hemingway e noi, cit., p. 1313. Corsivo nostro.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
che fosse tutt’uno con la lotta politica ci si delineava in quei giorni come
una realtà naturale»40, ricorderà Calvino riesaminando il mondo letterario
dell’immediato dopoguerra («gli elementi extraletterari stavano lì tanto
massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci
sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo
che era per noi il mondo»41); ma aggiungerà, subito: «Invece non era affatto
così: coi rapporti tra politica e cultura dovevamo romperci la testa […]»42.
40 Id., Autobiografia politica giovanile, in Saggi, ii, p. 2753 (apparso in origine nel volume collettivo
La generazione degli anni difficili, a cura di Ettore A. Albertoni, Ezio Antonini e Renato Palmieri, Bari,
Laterza, 1962)
41 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1187.
42 Id., Autobiografia politica giovanile, cit., p. 2753.
43 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193.
44 Ibidem: «Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in seguito, qui in Italia,
simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito. Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse
assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria».
45 Giuliano Manacorda, Le polemiche letterarie del dopoguerra, in Storia della letteratura italiana
contemporanea (1940-1975), Roma, Editori Riuniti, 1975, pp. 14-15.
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Andrea Dini
46 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1192.
47 Id., Comisso sentimentale, in «l’Unità», Torino, 6 ottobre 1946, in Saggi, ii, p. 2121.
48 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193.
49 Id., Comisso sentimentale, cit., p. 2123.
50 Giuliano Manacorda, Le polemiche letterarie del dopoguerra, cit., p. 14.
51 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, pp. 158-160. Per l’epistolario edito, è questa la prima corri-
spondenza nota (almeno tra quelle incluse dal curatore) in cui si fa esplicita menzione di Hemingway.
52 Italo Calvino, Adesso viene Micheli, l’uomo di massa, in «l’Unità», Torino, 12 maggio 1946 (in
Saggi, i, pp. 1170-1175).
53 A Silvio Micheli, 22 maggio 1946, p. 158. Una idiosincrasia così spiegata da Calvino stesso: «Io
poi di fronte a un libro non sono contento se non lo sviscero fino in fondo. Sono figlio di scienziati,
padre e madre, e per quanto negato a tutto quello che è scientifico, m’è rimasta in letteratura quest’e-
sigenza d’analisi completa» (a Silvio Micheli, 1° luglio, 1946, p. 161).
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
54 Ibidem.
55 Ivi, p. 159. È, questo, il metodo di lettura in atto su «l’Unità» di Torino con Gente nel tempo, la
sua «rubrichetta di spunti culturali analizzati marxisticamente» (come specifica a Micheli nella stessa
lettera).
56 Ibidem.
57 Ibidem.
58 Italo Calvino, Adesso viene Micheli, l’uomo di massa, cit., pp. 1172-1173 (corsivi nostri). Di
Classe e sesso in Hemingway, per quanto si sappia, non rimane traccia. Il titolo, alla luce delle considera-
zioni su Freud nell’articolo su Micheli, è tutto un programma. Congetturalmente, si potrebbe pensare
alla lettura critica di Avere e non avere (coniugata, magari, a altri racconti letti): ma è il romanzo di
Harry Morgan che presenta più che in ogni altra opera di Hemingway uscita in quel periodo il falli-
mento, o la problematizzazione, dei rapporti tra i sessi, considerati nel loro meccanismo economico e
di classe. L’angolatura apparentemente ristretta del tema si scontra però in Calvino con la coscienza
che sia necessario conoscere di più dell’opera dell’autore, prima di azzardare «conclusioni generali».
91
Andrea Dini
umano dell’autore che è quello che conta» (e di conseguenza gli sembra che
questo tipo di marxismo «sia appiccicato con la saliva»59). Non basta cioè
una valutazione marxista del contenuto di un’opera per identificarne i pregi
(etici, politici, civili in senso generale) se, a far questo, viene persa di vista
la persona dello scrittore, la sua disponibilità verso la materia narrata, le sue
ragioni umane. Questo il nòcciolo della questione (anche un po’ tautologi-
co): «Bene, per essere marxista credo che importi fino a un certo punto aver
letto poco o tanto. Quel che importa è l’atteggiamento, la mentalità, il saper
impostare i problemi marxisticamente. E questo è il frutto d’una sensibilità
che si può acquistare in tanti modi: anche nell’organizzazione cospirativa o
di partito, anche leggendo tutt’altri libri e interpretandoli da sé»60.
Di questi giudizi calviniani bisogna subito rilevare tutti i “distinguo”, leg-
gervi il rifiuto di un’applicazione pedissequa di ricette normative. E questo
in particolare quando si tratti di valutare l’impegno di scrittori le cui opere
rappresentano la «denuncia» delle contraddizioni della borghesia senza che si
compia il passo ideologico ulteriore dello schieramento verso il proletariato.
(Che sarà l’accusa principe dei suoi compagni di sinistra, come vedremo,
per squalificare il maestro Hemingway.) Il caso di George Bernard Shaw
«bastian contrario» (portatosi a «dimostrare […] nella commedia Fra gli
scogli, che all’Inghilterra occorreva un dittatore di tipo fascista»), proposto il
18 agosto 1946 è lampante:
Ecco il difetto fondamentale di Shaw in politica: il non sapere uscire dalla
borghesia, il non aver abbastanza fiducia nel proletariato. Difetto in politica che
forse è anche difetto in poesia […] Conoscere la crisi della borghesia senza credere
nel proletariato è un grave pericolo. […] Shaw è il figlio di una società piena di con-
traddizioni, è la voce e la denuncia di queste contraddizioni, ma, nato e cresciuto
in mezzo a esse, non può ragionare che per via di contraddizioni e di paradossi61.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
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Andrea Dini
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
ha delle idee ben chiare sulla direzione nella quale deve muoversi, a chi sa – sempre
meglio- quello che vuole, quello che si deve volere; ma più dei successivi punti d’arrivo
conta vedere il mondo trasformarsi per quel tanto che ognuno fa, che ognuno s’ inseri-
sce nel processo per trasformarlo. Per questo il socialismo è uscito dall’«utopia» (dal
«paradiso») quando ha cominciato a essere «scienza» e quindi «pratica»; per questo
il comunista lotta anche se sa che i risultati dei suoi sacrifici saranno goduti solo
dalle generazioni future; per questo non si può immaginare un marxista «contem-
plativo» […]71.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
Addio alle armi è, per il Calvino del settembre 1946, «lettura adatta al
momento», la travagliata età presente. Quel libro, sdegnato fustigatore della
classe dirigente italiana militarista – la quale aveva facilitato, o non ostaco-
lato, la dittatura a venire –, si proietta come specchio di una congiuntura
temporale in cui si riaffacciano allarmanti i pericoli derivati dalla risorgente
«retorica imperialista di cui è imbevuta la piccola borghesia intellettuale»
del nostro paese. Il libro è «utile», è «adatto» perché dimostrazione di una
protesta politica e civile.
L’urgenza di questa lettura hemingwayiana risalta decisa quando si consi-
deri dall’interno della complessiva produzione giornalistica e narrativa calvi-
niana. S’aggancia sintomatico a queste cogitazioni critiche, infatti, il raccon-
to Ragionamento del cugino (pubblicato su «l’Unità» stessa il 29 settembre, e
cartone del più tardo Chi ha messo la mina nel mare?)86, le cui immagini di
ordigni bestiali che tornano a galla, e di morti di cui è ancora pieno il mare
alludono a una pacificazione nazionale non ancora avvenuta, al pericolo di
una nuova guerra civile (di classe), e alla minaccia dello scoppio di una terza
guerra. I colpevoli delle mine riaffiorate dal mare appartengono al complesso
militar-industriale e dell’alta finanza (sono generali e gallonati dell’esercito,
industriali, banchieri), ma l’accusa si estende alla piccola borghesia dell’utile
(i bottegai), ai profitattori di guerra (i borsaneristi) e, elemento da non sot-
tovalutare in quest’insieme di letture e scritture militanti di Calvino, agli
intellettuali. Al pari del rinvio esplicito nella nota su Addio alle armi (là
rivolto, nel contesto della Grande Guerra, agli interventisti della prima ora),
Calvino pone sotto accusa in Ragionamento sia coloro che negli anni della
dittatura fascista «hanno detto troppo» facendosi scudo e strumento della
propaganda militare, sia gli omertosi o i neutrali, «quelli che non hanno
detto nulla», ugualmente colpevoli per il silenzio meschino, attendista o
auto-assolutorio87. Il tanto bistrattato Hemingway, ci dice Calvino per vie
traverse, avrebbe insomma da assolvere col suo coraggio denunciatore all’in-
grato ruolo di scrittore alleato, non di nemico (nonostante i limiti ideologici),
almeno per Addio alle armi, romanzo ostile al militarismo italiano e all’Italia
uscita da Caporetto.
occupazioni militari, am-lire. Ma a sentir parlar male di noi non c’eravamo ancora abituati, perché
allora di noi si parlava sempre bene, e anche i gerarca sentendo Radio Londra si convinceva d’essere
una vittima del fascismo. Invece adesso s’è cominciato con i giudizi severi, con le parole dure, talvolta
meritate, talvolta no. Noi siamo sempre stati un popolo privo di autocritica, sempre pronto a incensare
e a romantizzare se stesso e le sue cose; perciò queste dure parole, giustre e ingiuste, sono i colpi che
più ci dolgono».
86 Id, Ragionamento del cugino, in «l’Unità», Torino, 29 settembre 1946, in Romanzi e racconti, iii,
pp. 840-844.
87 Ivi, p. 843.
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88 Id., Rosenberg dannato, in «l’Unità», Torino, 6 ottobre 1946, in Saggi, ii, p. 2119.
89 Ibidem.
90 Ibidem.
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libro in cui si esprime la sintonia tra lo scrittore e le classi lavoratrici (si pensi
alle discussioni tra il tenente protagonista del libro, Fred Henry, e gli operai
socialisti emiliani suoi attendenti)96 col rifiuto delle vuote parole d’ordine
che chiamano alla guerra («onore», «gloria», «sacrificio»)97 e al suo condono.
L’accenno all’assenza di retorica nella rappresentazione del conflitto porta
in campo, è naturale, il convitato di pietra di queste pagine stampate, la
tanto dibattuta Per chi suona la campana, altra storia di guerra e racconto
sretorizzato di una guerra civile che echeggia, per gli italiani, la propria.
96 Ernest Hemingway, Addio alle armi, a cura di Fernanda Pivano, con un’introduzione della
stessa, Milano, Mondadori, 2014: si cfr. il capitolo ix, in particolare pp. 55-61, passim.
97 In particolare al capitolo xxvii: «Ero sempre imbarazzato dalle parole sacro, glorioso e sacrificio
e dall’espressione invano. Le avevamo udite a volte ritti nella pioggia quasi fuori della portata della
voce, in modo che solo le parole urlate giungevano, e le avevamo lette su proclami che venivano spiac-
cicati su altri proclami, da un pezzo ormai, e non avevo visto niente di sacro, e le cose gloriose non
avevano gloria e i sacrifici erano come i macelli a Chicago se con la carne si faceva altro che seppellirla.
C’erano molte parole che non si riusciva ad ascoltare e si finiva che soltanto i nomi dei luoghi avevano
dignità. Anche certi numeri e certe date, e coi nomi dei luoghi erano l’unica cosa che si potesse dire che
avesse un significato. Parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione erano oscene accanto ai
nomi concreti dei villaggi, ai numeri delle strade, ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti e delle
date» (Id., Addio alle armi, cit., p. 128).
98 Si cfr. a questo proposito Romano Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l’ ideologia della rico-
struzione nel dopoguerra, Roma, Edizione di Ideologie, 1971.
99 Per un quadro storico di questo periodo, si cfr. Giorgio Candeloro, La fondazione della Re-
pubblica e la ricostruzione. Considerazioni finali (1945-1950), Milano, Feltrinelli, 1986, e in particolare
pp. 107-114 e Enzo Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945/1948, Milano,
Feltrinelli, 1975, in particolare le pp. 168-175 sulla ribellione partigiana. Si veda anche Mimmo Fran-
zinelli, L’amnistia Togliatti. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano, Mondadori, 2006.
100 Italo Calvino, E il settimo si riposo, in «l’Unità», Torino, 9 giugno 1946, in Racconti e roman-
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
sto racconto, col suo protagonista ex-partigiano ora muratore, appare per la
prima volta a indice dell’esperienza partigiana il lemma «furore» (termine di
una rabbia, di una rivolta interiore individuale da convogliare concretamente
in azione positiva), usato a segno di una spinta al «fare» della Resistenza che
va ora recuperata – letteralmente “ricostruita” ex-novo – nel dopoguerra101.
Le difficili circostanze politiche e civili in cui versa l’Italia tra il primo anni-
versario della Resistenza e l’autunno 1946 segnano il morale di chi aveva
combattuto e sono così rammentate nella Prefazione 1964 a premessa del
disegno del romanzo:
a poco più d’un anno dalla Liberazione già la «rispettabilità ben pensante»
era in piena riscossa, e approfittava d’ogni aspetto contingente di quell’epoca – gli
sbandamenti della gioventù postbellica, la recrudescenza della delinquenza, la dif-
ficoltà di stabilire una nuova legalità – per esclamare: «Ecco, noi l’avevamo sempre
detto, questi partigiani, tutti così, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo
bene che razza d’ideali…»102.
103
Andrea Dini
che dicevano che con una smorfia di disgusto: “I partigiani? Tutti criminali”. Ma io non descrivevo
certo l’“eroe socialista”. Della Resistenza ho preso quello che c’era di più basso, un gruppo di sottopro-
letari, di reietti: sono loro che ho mostrato, e con loro quello che c’era di buono in tutta la Resistenza»
(in Interviste, p. 49). E: « Era anche un programma morale, fare una letteratura non edificante, ma che
toccasse veramente la realtà dei problemi umani che la Resistenza aveva posto in gioco» (Italo Calvino.
«Il gusto dei contemporanei», Quaderno 3, Banca Popolare Pesarese, Pesaro, 1987, in Interviste, p.
549).
111 È chiaro il caso di come avvenga il salto nella lotta nel racconto autobiografico La stessa cosa del
sangue, in cui i due fratelli, il maggiore e il minore (da identificarsi nei due fratelli Calvino) si trovano a
fronteggiare l’arresto della madre. La scelta è posta prima, apparentemente, in termini anti-ideologici
(in quanto la politica rimane «fuori di loro»), ma viene mostrato anche come l’offesa personale renda
tangibile ciò che prima era astratto, solo studiato nei libri: «Il fratello maggiore […] era capace di
spiegare cos’è la democrazia, il comunismo, sapeva storie di rivoluzioni, poesie contro i tiranni: cose
utili anche a sapersi, ma che c’era tempo a imparare dopo, finita la guerra. […] Ma ora i due fratelli
avevano una cosa in comune, qualcosa era cambiato in loro, l’interesse a quella vita che facevano, la
posta in gioco, non più qualcosa fuori di loro, ma nel fondo di loro, nel sangue. La lotta, l’odio per i
fascisti non erano più come prima, […] una cosa imparata sui libri […], erano ormai la stessa cosa del
sangue, una cosa profonda in loro come il senso della madre, una cosa decisa una volta per tutte, che
li avrebbe accompagnati per la vita» (Italo Calvino, La stessa cosa del sangue, in Ultimo viene il corvo,
Torino, Einaudi, 1949, p. 104).
112 Id., Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1189. In una lettera del 1947 a Franco
Fortini, però, Calvino rivendica questo tipo di narrazione: «in fondo io credo che il vero romanzo sia
sempre qualcosa di un po’ spurio, in cui confluiscono interessi diversi e in cui la poesia è una cosa che
si deve scoprire e conquistare a fatica, senza paura d’infangarsi» (a Franco Fortini, 3 dicembre 1947,
p. 206, a seguito della recensione sull’«Avanti!» del Sentiero, in cui lo scrittore era invitato a «mettersi
a fuoco»). Il problema del racconto-saggio causa anche una polemica con Elio Vittorini: «Fin da
principio, Vittorini pensava che nei miei racconti tutto dovesse essere espresso nella rappresentazione
narrativa, e non nel commento o in una costruzione dettata da ragioni intellettuali, che erano a quei
tempi i famosi doveri politici che credevamo di doverci imporre. Nel mio apprendistato, i giudizi di
Vittorini, anche negativi, mi hanno molto aiutato» (intervista concessa a Maria Craipeau, Entretien
avec… Italo Calvino, cit., in Interviste, p. 49). A questo proposito, si rimanda anche a Andrea Dini, Il
Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, cit., pp. 222-224.
113 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1947. Le citazioni dal testo del
romanzo date in corpus verranno d’ora innanzi accompagnate dall’indicazione del capitolo e del nu-
104
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
105
Andrea Dini
e l’accettazione del sacrificio nella morte), intrapreso nel romanzo partigiano di Vittorini dal partigia-
no Gracco, il quale assolve lo stesso ruolo che sarà di Kim nel Sentiero: è il continuo interrogatore delle
ragioni individuali degli uomini. Gracco è «curioso» dei «perché» (al plurale) gli uomini del Gap si
trovano a combattere, i motivi per cui hanno scelto la violenza: «Perché quei due giovani avevano a che
fare con dei mitragliatori? I loro interessi erano semplici, pacifici; né era accaduto loro personalmente
nulla che li spingesse alla disperazione. Perché prendevano parte a una lotta che esigeva di combattere
con la forza della disperazione? Il Gracco era curioso (xxxiv 44)». Si tratta di un punto importante: e
il lettore è sempre nell’attesa di una rivelazione ufficiale (si lotta per la liberazione del paese dal fasci-
smo, si lotta per il comunismo, si lotta insomma per una giustificazione politica e una parola d’ordine)
che invece non viene mai. Allo stesso tempo, anche se la «lotta» esige di combattere «con la forza della
disperazione» (tradotta da Calvino nel lemma «furore»), chi combatte non è stato in verità spinto da
egoismo, da episodi capitati individualmente che lo hanno portato a reagire perché toccato nel vivo
della sua storia privata. Le domande che Gracco fa a se stesso e ai compagni («Perché, ora, lottavano?
Perché vivevano come animali inseguiti e ogni giorno esponevano la loro vita? […] Perché lanciavano
bombe? Perché uccidevano?») generano solo imbarazzate risposte reticenti, che in apparenza insistono
sul non-sapere, sulla non-consapevolezza del personaggio interrogato: «Disse Coriolano nella casa del
bastione: «Io non so. Mi sembra che non sarei capace di nulla se non avessi mia moglie con me» | […]
«Non sai! Non sai! » Mambrino disse. «Tu sempre non sai. » | «Io non so,» disse Coriolano. | […] Il
Gracco era curioso, e se lo domandava. | Perché, se non erano terribili, uccidevano? Perché se erano
semplici, lottavano? Perché, senza avere niente che li costringesse, erano entrati in quel duello a morte
e lo sostenevano? (xxxviii, 51). La domanda viene rivolta a Gracco stesso: «E dai! » disse Orazio. […]
«Tu non lo sai perché tu lo hai scelto?» | «Io lo so,» il Gracco disse. «Io ho il mio motivo.» «E lo stesso
motivo abbiamo noi» (xxvi, 47). I motivi sono da riscontrarsi proprio negli «interessi» elementari degli
uomini, che non vanno «molto più in là» della coscienza di avere un famiglia, un luogo dove dormire,
un compagna: «Essi avevano, ognuno, una famiglia: un materasso su cui volevano dormire, piatti e
posate in cui volevano mangiare, una donna con cui volevano stare; e i loro interessi non andavano
molto più in là di questo, erano come i loro discorsi. Perché, ora, lottavano? […]» (xxvi, 46). Interessi
e discorsi, personaggi e motivazioni personali diventano una cosa unica con la lotta (come per Calvino
in La stessa cosa del sangue); l’indagine di Gracco, che « domandava sempre, ma mai trovava l’ultimo
perché delle loro cose» se si rivela insufficiente a cogliere il quid esplicito di questi uomini è forse per
la riluttanza di Gracco a accettare, e a accogliere, quanto d’elementare e irriducibilmente individuale
appare nei loro discorsi (che non riportano nessuna motivazione ufficiale del perché rischiano la vita)
Anzi se ne vergognano quasi, come se la retorica della guerra (di liberazione della patria, per alcuni;
di liberazione dal nazifascismo; di mutamento delle strutture economiche di classe, per altri) debba
far tacere le più intime, più pratiche, più spicciole ragioni, non necessariamente in contrasto con un
grande disegno politico finale. Per le citazioni del romanzo vittoriniano, si cfr. Elio Vittorini, Uo-
mini e no, Milano, Mondadori, 1986, con l’indicazione del capitolo e della pagina in cui la citazione
ha inizio.
106
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
117 Il secondo nucleo testuale del dialogo di Calvino con Vittorini si trova all’interno della famosa
sequenza dei morti di Largo Augusto. Le domande individuali di Gracco trovano finalmente soluzio-
ne – e la trovano proprio partendo da quanto il sacrificio personale, l’impegno dell’uno nella guerra di
resistenza a quanto il nazifascismo rappresenta, diventa automatica risposta per tutti, per l’umanità:
se il nazifascismo, come nell’assioma vittoriniano, fa parte dell’uomo e delle sue miserie, allora la lotta
diventa anche marchio esistenziale di «redenzione» (questo è il lemma calviniano). I morti nella guerra
– sia che combattano come partigiani, siano che vengano uccisi, inermi – insegnano per che cosa sono
morti: non tanto per la letterale «liberazione» del paese e del mondo dalla piaga nazifascista, ma per
la liberazione (leggi: redenzione, il riscatto) «di ognuno nella sua vita», che sarà poi del paese e del
mondo: «“Oh!” il vecchio rispose. “Dobbiamo imparare.” | “Imparare che cosa?” disse Berta. “Cos’è
che insegnano?” | “Quello per cui” il vecchio disse, “sono morti.” | Berta chiese al vecchio che cosa
intendesse dire, e il vecchio disse che intendeva dire quello per cui accadeva ogni cosa, e per cui si
moriva, disse, anche se non si combatteva. | “La liberazione?” disse Berta. | Il vecchio sembrava cer-
casse la risposta migliore, guardava davanti a sè con occhi lieti. “Di ognuno di noi” rispose. | “Come,
di ognuno?” | “Di ognuno, nella sua vita.” | “E il nostro paese, e il mondo?” | “Si capisce” il vecchio
rispose. “Che sia di ognuno, e sarà maggiore nel mondo”» (lxvii-lxviii, 98).
107
Andrea Dini
sfoga in spari contro i fascisti, da solo, non è inutile, bisognerà saperlo inca-
nalare in attività socialmente utile (col conseguente lavoro politico).
[…] Kim è affezionato a questi uomini. C’è il riscatto umano che si muove in
loro. Quel bambino del distaccamento […] Dicono che sia fratello di una prostitu-
ta. Perché combatte? Non sa che combatte per non essere più fratello di una prosti-
tuta. E quei quattro cognati «terroni» combattono per non essere più dei «terroni»,
una gente disprezzata che parla uno strano dialetto. E quel carabiniere combatte
per non sentirsi più carabiniere, sbirro alla costole dei suoi simili. Poi Cugino […]
dicono che sia impotente perché odia le donne e vuole sempre esser lui a uccidere
quelle che fanno la spia…Tutti noi abbiamo un’ impotenza segreta per riscattare la
quale combattiamo (ix 155, corsivi nostri).
118 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1192.
119 Ivi, p. 1193.
120 A Mario Motta, 11 luglio 1950, p. 281.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
L’esame fatto da Kim, tuttavia, non si arresta a scoprire solo quel «quid»
degli uomini «senza coscienza di classe» con la possibile risoluzione dei loro
conflitti individuali – il «riscatto», la «redenzione» esistenziale e storica di
cui c’è la speranza che rimanga presente agli uomini del dopoguerra (ricono-
sciuta, in tempo di pace, in una lotta da condurre con altri mezzi). L’esame
dell’intellettuale Kim è anche un auto-esame.
Di Kim, Calvino mostra gli snodi (dialettici) dell’itinerario verso la piena
coscienza, di come il personaggio stesso assunto a soggetto-esempio, possi-
bilmente universale, di un processo storico concreto arrivi alla «chiarezza»
e sicurezza del suo ruolo all’interno della lotta partigiana. Di Kim vengono
mostrate le «nebbie», i dubbi e le paure interiori, e come essi siano sconfitti
dal raggiungimento di una sicurezza operativa sui «perché» ultimi121, a
modo di finale pregresso valido per l’intero romanzo.
L’appello (retrospettivo – del ’54 e ’64) all’elementarietà e alla chiarezza
logica delle cause del combattimento va dunque tenuto in mente (e verifica-
to) quando si legga, del Sentiero, questo suo cuore duro, il capitolo ix. È lì
che l’argomentazione dimostrativa di Calvino insiste su lemmi quali logicità,
«sicurezza sulle cause e gli effetti (ix 142)», dialettica e evidenza; è lì che si
importano le parole-chiave delle accuse a Hemingway (l’individualismo,
l’impotenza e l’egoismo dei suoi personaggi e dell’autore) al fine di offrirne
una risoluzione costruttiva, mostrando come la memoria della lettura di
Per chi suona la campana – che enfatizza, dell’antifascista Robert Jordan, il
tentativo di arrivare alla giustificazione persuasiva delle sue azioni – entri
cospicua nel capitolo. Di Robert, infatti, Hemingway traccia più volte i
ragionamenti che sempre lo portano a richiedere a se stesso la massima chia-
rezza, a bandire i dubbi e le paure tentando di osservare la propria situazione
più oggettivamente possibile, con la consapevolezza che, dall’interno della
121 Sul percorso «kipliniano» di Kim commissario di Calvino, e la raggiunta sua autocoscienza (che
riflette la raggiunta autocoscienza del personaggio di Kipling nel romanzo eponimo), si veda Andrea
Dini, Il Premio Nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, cit., pp. 231-239 e in particolare le p. 234-
235; e pp. 252-262, in particolare le pp. 259-262.
109
Andrea Dini
guerra partigiana, l’“io” non è mai declinato da solo, è sempre un “noi” che
ha conseguenze collettive:
Senti, disse a se stesso. […] Devo preoccuparmi che le tue idee siano assolu-
tamente chiare. Perché se le tue idee non sono assolutamente chiare, non hai diritto di
fare tutte le cose che fai; poiché sono tutti delitti e nessun uomo ha diritto di togliere la
vita a un altro a meno che non sia per impedire che qualcosa di peggio accada ad
altri uomini. Perciò cerca di avere le idee chiare e non mentire a te stesso (PCSLC
xxvi, 370, corsivi nostri)122.
Quegli ordini lo irritavano per quello che rappresentavano per lui stesso, e
per ciò che rapprensentavano per il vecchio [Anselmo]. Ordini maledettamente
scomodi per quelli che dovevano eseguirli. «Non è questo il modo di pensare» disse
a se stesso; «tu come gli altri, e non esistono persone alle quali queste cose non
debbano capitare. Tu e questo vecchio non contate niente; siete solo strumenti per
fare il vostro dovere. Ci sono degli ordini necessari, di cui non avete colpa, e lì c’è
un ponte, e quel ponte può diventare una svolta definitiva per il futuro di tutta la
razza umana. Come ogni cosa che accade in questa guerra. Tu hai una cosa sola da
fare, e devi farla. Una cosa sola, sì, perdio (PCSLC iii 95).
«Ma tu dovrai far saltare quel ponte» egli sentì a un tratto con convinzione
assoluta. «non avrai contrordini. Perché per un minuto tu hai visto le possibilità
dell’attacco come le vedono quelli che l’hanno ordinato. Sì, tu dovrai far saltare il
ponte: egli sentì ora con piena chiarezza. «Qualunque cosa accada ad Andres, non
importa.» Mentre discendeva solo, al buio, il sentiero con la convinzione consolante
che tutto quello che bisognava fare era a posto per le prossime quattro ore, e con
la fiducia venutagli dall’aver pensato a fatti concreti del suo passato, la certezza che
avrebbe dovuto far saltare il ponte quasi lo confortò. L’incertezza, quella sempre
crescente sensazione di dubbio […] era adesso completamente sparita. «[…] È molto
meglio essere sicuri» pensò. «È sempre molto meglio essere sicuri» (PCSLC xxx, 408,
corsivi nostri).
Con il commissario di brigata Kim (il quale «studia gli uomini» e con-
frontandosi con loro ne «analizza le posizioni», le ragioni) Calvino mostra
il percorso intellettuale che dagli «interrogativi irrisolti» sugli individuali
«perché» porta alla piena rivelazione (la «chiarezza») del «significato vero»,
unico, irriducibile a altro, della lotta: l’accettazione di un destino storico di
«riscatto umano (ix 155)» testimoniato dalla volontà di combattere il nazi-
fascismo, che va inteso come una posizione morale esemplare anche senza
una piena coscienza dei suoi addentellati politici – in altre parole, perché
122 Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, traduzione di Maria Napolitano Martone
[1945], Milano, Mondadori, 1985. Ogni citazioni dal romanzo sarà accompagnata dall’abbreviazione
PCSLC, dal numero del capitolo e della pagina in cui la citazione ha inizio.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
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129 La posizione anti-ortodossa di Robert Jordan è presentata nettamente: «E che ne pensava vera-
mente del nuovo ordine sociale e di tutto il resto? Questo toccava agli altri. Lui, dopo la guerra, aveva
ben altro da fare. Faceva questa guerra perché era scoppiata in un paese che amava, perché credeva
nella Repubblica ed era convinto che la sua caduta avrebbe resa impossibile la vita a tutti quelli che ci
credevano. Per la durata della guerra egli si era sottoposto alla disciplina comunista. Qui in Spagna i
comunisti erano la gente più disciplinata e facevano la guerra nel modo più intelligente e sano. Egli
accettava la loro disciplina per la durata della guerra perché, nella condotta della guerra, il partito
comunista era l’unico il cui programma e la cui disciplina egli potesse rispettare. Quali erano dunque
le sue opinioni politiche? Non ne aveva, disse a se stesso» (PCSLC, xiii, 222, corsivi nostri).
112
Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
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130 Il terzo nucleo testuale di Uomini e no che ha un impatto decisivo sul Sentiero si trova ai capitoli
viii-ix, ed è di nuovo nella forma di un’interrogazione, questa volta di Selva, la vecchia compagna
che offre rifugio a Enne 2 e Berta durante un rastrellamento. Selva pone al centro del senso della lotta
partigiana, come suo fine ultimo, la ricerca della felicità dell’uomo: «Noi lavoriamo perché gli uomini
siano felici. […] Bisogna che gli uomini siano felici. Che senso avrebbe il nostro lavoro se gli uomini
non potessero essere felici? […] Avrebbero senso i nostri giornaletti clandestini? Avrebbero un senso le
nostre cospirazioni? […] E i nostri che vengono fucilati! Avrebbero un senso? Non avrebbero un senso.
[…] C’è qualcosa al mondo che avrebbe un senso? Avrebbero un senso le bombe che fabbrichiamo?
[…] Bisogna che gli uomini possano esser felici. Ogni cosa ha un senso solo perché gli uomini siano
felici. Non è solo per questo che le cose hanno un senso? (viii, 12-13, passim)». La «felicità della gen-
te» passa dalla necessità dell’amore: nella sua accezione, qui, di conoscenza concreta, anche sessuale,
dell’altro. Dell’avere, cioè, una compagna – come condizione di partenza per comprendere quello di
cui gli uomini hanno bisogno (ricordiamo, dunque, il legame che si stabilirà con l’affermazione di
Orazio sulla lotta come mezzo per affrettare il matrimonio, o per Coriolano la necessita di portarsi
dietro la moglie nella clandestinità – l’avere con sè la moglie gli ricorda il perché della lotta, altrimenti
non “saprebbe” perché fa quello fa): «[…] Noi per questo lottiamo. Perché gli uomini siano felici. […]
È molto semplice”, disse Selva. “Un uomo che lotta perché gli uomini siano felici deve sapere tutto
quello che occorre agli uomini per essere felici. E deve avere una compagna. Dev’essere felice con la
sua compagna” (lx, p. 84)».
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
[…] e, dimmi, faccio bene ad amare Maria? «Sì» rispose a se stesso. Anche
se una cosa come l’amore non può essere ammessa in una concenzione puramente
materialistica della società? Quando mai hai avuto una simile concezione? Egli
stesso si domandò. Mai. E non avresti nemmeno potuto averla. Tu non sei un vero
marxista e lo sai. Tu credi nella Libertà, nell’Eguaglianza e nella Fraternità. Credi
nella Vita, nella Libertà e nella Ricerca della Felicità. Bada a non confonderti trop-
po con la dialettica. La dialettica va bene per certuni, ma non per te. Bisogna inten-
dersene, per non essere messo nel sacco. Tu hai messo temporaneamente molte cose
in second’ordine per vincere la guerra. Se questa guerra sarà perduta, tutte quelle
cose saranno perdute. Ma in seguito potrai scartare le cose nelle quali non credi.
Ci sono una quantità di cose in cui non credi e una quantità di cose in cui credi.
Un’altra cosa. Non prendere mai alla leggere l’amore. La verità è che la maggior
parte della gente non ha mai avuto la fortuna di amar qualcuno. Tu non l’avevi mai
avuta sinora, questa fortuna, e ora l’hai. Quello che tu e Maria avete, che duri solo
oggi e una parte di domani, o duri tutta una lunga vita è la cosa più importante
che può capitare a un essere umano. Ci saranno sempre persone che diranno che
non esiste perché non possono averla. Ma io ti dico che è vero, che tu la possiedi e
che sei fortunato, anche se domani morrai (PCSLC xxvi 370).
131 È l’espressione con cui nella sua Prefazione 1964 Calvino saluta, appropriatamente, Uomini e
no, il romanzo più hemingwaiano di Vittorini (Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi
115
Andrea Dini
verso delle ragioni che si fanno individuali, personali (l’amore dell’altro) s’il-
luminano e si chiarificano le ragioni della lotta che, di conseguenza, diventa
una «cosa esatta», in cui ogni elemento deve stare al suo posto per la sua
risoluzione a buon fine. Non solo: questa chiarezza porta anche a eliminare
le paure (di cui si riconosce la natura irrazionale, immaginaria); e a conoscere
e accettare il proprio destino, qualsiasi esso sia («Sai quello che potrai fare e
sai quello che può accadere»), nella consapevolezza che l’agire individuale, in
questo contesto, non si ferma all’individuo (che compie le azioni), ma ha una
risonanza collettiva: anche la morte propria («sai quello che può accadere») è
soltanto «una cosa da evitarsi, solo perché avrebbe ostacolato l’adempimento
del proprio dovere».
«Sai che fino a che ti ho incontrata non avevo mai chiesto nulla? Né desiderato
niente? Né pensavo a niente tranne al movimento e a vincere questa guerra? Sono
veramente stato un puro. Ho lavorato molto e ora ti amo» diss’egli abbandonadosi
completamente a tutto ciò che non sarebbe mai stato, «ti amo come amo tutto ciò per
cui abbiamo combattuto. Ti amo come amo la libertà e la dignità e il diritto di tutti gli
uomini di lavorare e di non aver fame. Ti amo come amo Madrid che abbiamo difesa e
come amo tutti i miei camerati che sono morti. E ne sono morti molti. Molti. Molti.
Tu non puoi sapere quanti. Ma io ti amo di più. Ti amo molto, coniglietto. Più che
non possa dirti. Ma ti dico ora questo per dirtelo un poco. Non ho mai avuto una
moglie ed ora ho te per moglie e sono felice» (PCSLC xxxi 416, corsivi nostri)
di ragno, cit., p. 1191). Ma tutti gli interrogativi di Selva andranno a cadere dritti anche nel Sentiero,
dove attraverso Kim si da una risposa analoga alle ragioni del combattere, che sono anche le ragioni
dell’amore: amore di sé (la propria redenzione personale), e amore dell’altro, che letteralmente diventa
l’operare per l’amore della compagna, per la felicità del prossimo (l’inserimento all’interno del suo mo-
nologo del richiamo «Ti amo Adriana», che chiude anche il capitolo, ha senso solo in questo contesto).
Per Uomini e no e la parentela con Per chi suona la campana, si veda almeno Sergio Pautasso, Guida
a Vittorini, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1977, p. 169.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
Qualunque cosa facciano, i partigiani portano, alla gente che offre loro asilo
e collabora con loro, nuovi pericoli e sventure. Perché? Perché un giorno ogni peri-
colo sia vinto e il paese sia un posto dove si viva bene. Questo era vero anche se
suonava banale. Se la Repubblica avesse perduto la guerra non ci sarebbe stato più
posto in Spagna per quelli che ci avevano creduto […] poiché sapeva quello che era
accaduto nelle regioni già prese dai fascisti (PCSLC xiii 222).
132 Italo Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193.
133 Ivi, p. 1192.
134 Ivi, p. 1193.
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
Due gli aspetti qui da rimarcare: una «fede collettiva» trovata dopo la scel-
ta delle armi, combattendo per la «liberazione di tutti», scartando i privilegi
di classe e appartenendo finalmente a «un’organizzazione di combattimento»
dopo la timidezza e i rifiuti individualisti; un’«utilità comune» individuata
al di là della miopia della propria esperienza personale e il fatto che nessun
gesto, nessun impegno concreto di chi combatte sia da scartare «purché non
sia fine a se stesso» (operato esclusivamente per il sè, il proprio tornaconto).
Sta forse qui, in questa lettura, la chiave di volta dell’interpretazione (e
riabilitazione) calviniana dei gesti di Robert Jordan accusato, con il suo
autore, di egoismo, invidualismo, impotenza, di non essere rivoluzionario,
ecc. (dunque, della fondamentale inutilità pedagogica dell’esempio); una
riabilitazione che può avvenire, per quel personaggio, pur nell’assenza del
raggiungimento di «una fede collettiva» (passo ulteriore, non condizione
essenziale dell’impegno partigiano). Il sacrificio di Robert, che deve fare
saltare un ponte con la piena coscienza che «quel ponte può diventare una
svolta definitiva per il futuro di tutta la razza umana» (PCSLC iii 95), avvie-
ne di fatto per una causa accettata (la sopravvivenza della Repubblica). La
quale va, letteralmente, oltre se stesso, in quanto Robert si rifiuta di mettere
la propria salvezza personale per prima e venire meno al proprio dovere.
L’individualismo apparente di Robert trova cittadinanza nella teorizzazione
dell’impegno partigiano del Sentiero perché il suo atto di combattere non ha,
al contrario di quanto sottolineato da Trevisani o Alicata, radici egoistiche
o irresponsabili (come non è atto d’irresponsabilità prendere a protagonista
del romanzo un personaggio che si allontana dalla concenzione del perso-
naggio positivo di allora). Nonostante mostri disinteresse per le teorizzazioni
sul nuovo ordinamento sociale di una vittoriosa Repubblica, il personaggio,
grazie a questo atto altruistico, diventa redimibile. Una volta alle prese col
suo romanzo, Calvino salva anche l’individualismo non rivoluzionario, se
«scende sul terreno dell’utilità comune», in quanto, come sottolineato da
Pintor, «nessun gesto è inutile purché non sia fine a se stesso». La liberazione
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Calvino, Hemingway e «Per chi suona la campana»
abstract
Il saggio esamina il ruolo decisivo che il romanzo di Hemingway Per chi suona la
campana (1938) ha avuto per la concettualizzazione ideologica del primo romanzo
di Calvino Il sentiero dei nidi di ragno (1947), il quale offre una lettura non con-
venzionale e antiretorica della Resistenza italiana sulla scia dell’interpretazione
hemingwaiana della guerra civile spagnola.
This essay examines the influential role that Hemingway’s novel For Whom the Bell
Tolls had in the ideological conceptualization of Calvino’s first novel, The Path to
the Nests of Spiders, which offers an unconventional, anti-rhetorical reading of the
Italian Resistance war following the footsteps of Hemingway’s own interpretation
of the Spanish Civil war.
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