K
B
portato a termine una missione dalla quale sembrava
impossibile tornare sani e salvi. Ne avevano dubitato
persino loro, a dirla proprio tu a. Ma rientrati a Ke erdam, non
hanno il tempo di annoiarsi nemmeno un istante perché sono
costre i a rime ere di nuovo tu o in discussione, e a giocarsi ogni
cosa, vita compresa. Questa volta, però, traditi e indeboliti,
dovranno prendere parte a una vera e propria guerra per le buie e
tortuose strade della ci à contro un nemico potente, insidioso e
dalle tante facce. A Ke erdam, infa i, si sono radunate vecchie e
nuove conoscenze di Kaz e dei suoi, pronte a sfidare l’abilità di
Manisporche e la lealtà dei compagni. Ma se i sei fuorilegge
hanno una certezza è questa: dopo tu e le fughe rocambolesche,
gli scampati pericoli, le sofferenze e le inevitabili batoste che
hanno dovuto affrontare insieme, troveranno comunque il modo
di rimanere in piedi. E forse di vincerla, in qualche modo, questa
guerra, grazie alle rivoltelle di Jesper, al cervellone di Kaz, alla
verve di Nina, all’abilità di Inej, al genio di Wylan e alla forza di
Ma hias. Una guerra che per loro significa una possibilità di
vende a e redenzione e che sarà decisiva per il destino del mondo
Grisha.
L’autrice
IL REGNO CORROTTO
GrishaVerse
A Holly e Sarah,
che mi hanno aiutata a costruire;
a Noa, che ha fa o in modo che le mura rimanessero in piedi;
a Jo, che ha tenuto in piedi anche me.
GRISHA
Soldati del Secondo Esercito dominatori della piccola scienza
CORPORALKI
Ordine dei Vivi e dei Morti
Spaccacuore
Guaritori
Plasmaforme
ETHEREALKI
Ordine degli Evocatori
Chiamatempeste
Inferni
Scuotiacque
MATERIALKI
Ordine dei Fabrikator
Tempratori
Alchemi
PARTE PRIMA
ABBANDONATI
1
RETVENKO
Nina non riusciva a fare a meno di fissare Colm Fahey. Era un po’
più basso del figlio, un po’ più largo di spalle, e aveva i tipici colori
Kaelish: i capelli di un bel rosso acceso e la pelle bianca come il la e,
piena di lentiggini per via del sole Zemeni. E anche se i suoi occhi
erano dello stesso grigio chiaro di quelli di Jesper, emanavano una
solennità e una sorta di calore rassicurante che non c’entravano
niente con l’energia scoppie ante di Jesper.
Non era solo il piacere di ritrovare Jesper nei lineamenti del padre
a tenere la sua a enzione fissa sul contadino. Era veramente bizzarro
vedere qualcuno di così sano e integro in piedi dentro un mausoleo di
pietra vuoto, circondato dal peggio di Ke erdam, lei compresa.
Rabbrividì e si avvolse più stre amente dentro la vecchia coperta
da cavallo che stava usando come scialle. Aveva cominciato a
dividere i giorni in buoni e ca ivi, e grazie alla faccenda di Cornelis
Smeet questo si stava rivelando un giorno ca ivissimo. Non poteva
perme ersi di non essere al meglio, adesso che erano così vicini a
salvare Inej. “Andrà tu o bene” le augurò in silenzio, nella speranza
che i suoi pensieri potessero in qualche modo fendere l’aria,
sfrecciare sopra le acque dei porti di Ke erdam e raggiungere
l’amica. “Resta sana e salva e aspe aci.”
Lei non c’era, a Vellgeluk, quando Van Eck aveva preso Inej in
ostaggio. Stava ancora cercando di liberare il proprio corpo dalla
parem, intrappolata nelle nebbie della sofferenza che erano calate sul
suo viaggio di ritorno da Djerholm. Era contenta di ricordarsi tu o
quel supplizio, ogni minuto passato a tremare, a provare dolore, a
vomitare. La vergogna davanti a Ma hias che aveva assistito a tu o,
che le aveva tenuto indietro i capelli, che le aveva tamponato la
fronte, che l’aveva bloccata il più delicatamente possibile mentre lei
p p
litigava, lo lusingava, urlava contro di lui per avere dell’altra parem.
Si costrinse a ricordare ogni cosa terribile che gli aveva de o, ogni
piacere selvaggio che gli aveva offerto, ogni insulto e ogni accusa che
gli aveva scagliato addosso. “Ci godi a vedermi soffrire. Vuoi che ti
supplichi, vero? Da quant’è che aspe avi di vedermi rido a così?
Sme ila di punirmi, Ma hias. Aiutami. Sii buono con me e io sarò
buona con te.” Lui si era sorbito tu o in un silenzio stoico. Lei si
aggrappava saldamente a quei ricordi. Aveva bisogno che fossero il
più possibile vividi e accesi e imbarazzanti per tenere a bada la fame
di droga. Mai e poi mai avrebbe voluto ritrovarsi di nuovo in quello
stato.
Guardò Ma hias, i suoi capelli stavano diventando folti e dorati,
lunghi abbastanza da cominciare ad arricciarglisi sopra le orecchie.
Lei amava la sua vista, e allo stesso tempo la detestava. Perché lui
non le avrebbe dato quello che voleva. Perché lui sapeva quanto lei
ne avesse malede amente bisogno.
Dopo che Kaz li aveva sistemati al Velo Nero, era riuscita a
resistere due giorni prima di cedere e andare da Kuwei a chiedergli
un’altra dose di parem. Una piccola. Giusto un assaggio, per alleviare
questo bisogno incessante. I sudori erano spariti, e anche gli a acchi
di febbre. Era in grado di camminare e di parlare, e di prestare
ascolto a Kaz e agli altri che ordivano le loro trame. Ma quando si
faceva i fa i suoi, beveva le tazze di brodo o di tè piene di zucchero
che Ma hias le me eva davanti, il desiderio era lì, una sega
dentellata che le recideva senza sosta i nervi, avanti e indietro,
minuto dopo minuto. Quando si era seduta accanto a Kuwei, non
aveva agito in modo consapevole. Gli aveva parlato so ovoce in Shu,
lo aveva ascoltato lamentarsi dell’umidità della tomba. E poi la
domanda le era uscita di ge o: “Ne hai dell’altra?”.
Lui non si era preso la briga di chiederle a che cosa si riferisse.
“L’ho data tu a a Ma hias.”
“Capisco” aveva de o lei. “Forse è meglio così.”
Lei aveva sorriso. Lui aveva sorriso. Lei avrebbe voluto ridurgli la
faccia a brandelli.
Perché non poteva andare da Ma hias. Mai e poi mai. E per
quello che ne sapeva, Ma hias aveva ge ato in mare ogni scorta
q p g g
rimasta a Kuwei. Il pensiero l’aveva riempita di un terrore tale che
aveva dovuto correre fuori e vomitare quel poco che aveva nello
stomaco di fronte a uno dei mausolei in rovina. Aveva coperto quello
schifo con della terra, poi si era cercata un posto tranquillo dove
sedersi e, so o un graticcio di edera, era scoppiata a piangere a
diro o.
“Siete un mucchio di inutili stronzi” aveva de o ai sepolcri
silenziosi. A loro non aveva fa o né caldo né freddo. E ciononostante
la quiete del Velo Nero le aveva dato conforto, l’aveva placata. Non
avrebbe saputo spiegare perché. I cimiteri non le avevano mai offerto
alcuna consolazione, prima. Si era riposata per un po’, si era
asciugata le lacrime, e quando fu certa che la pelle chiazzata e gli
occhi gonfi non l’avrebbero tradita, se ne era tornata dagli altri.
“Sei sopravvissuta alla parte peggiore” si era de a. “La parem è
fuori portata, e ora puoi sme ere di pensarci.” E per un po’ c’era
riuscita.
Poi, la no e precedente, mentre si stava preparando per
ingraziarsi Cornelis Smeet, aveva fa o l’errore di usare il proprio
potere. Malgrado la parrucca e i fiori e l’abito e il corse o, non si era
sentita all’altezza del ruolo di sedu rice. Per cui si era trovata uno
specchio al Club Cumulus e aveva provato a modificare i cerchi scuri
che aveva so o gli occhi. Era la prima volta, da quando era guarita,
che si serviva del proprio potere. Per lo sforzo si era ricoperta di
sudore, e non appena il colore livido delle occhiaie si era affievolito,
la fame di parem l’aveva colpita, un calcio forte e veloce nel pe o. Si
era piegata in due, si era stre a forte al lavandino, la mente lanciata
a folle velocità a pensare a come andarsene, a chi chiederne una
dose, con cosa scambiarla. Si era costre a a ricordare la vergogna che
aveva provato sulla barca, il futuro che sarebbe stata in grado di
costruirsi con Ma hias, ma l’unico pensiero che l’aveva riportata in
possesso delle proprie facoltà mentali era stato quello di Inej. Le
doveva la vita, e mai e poi mai l’avrebbe lasciata nelle mani di Van
Eck. Lei non era quel tipo di persona. Si rifiutava di esserlo.
In qualche modo si era ridata un contegno. Si era spruzzata
dell’acqua sul viso e si era pizzicata le guance per farle diventare
rosa. Aveva ancora l’aria sba uta, ma con piglio deciso si era tirata
pg
su il corse o e per un a imo aveva sfoggiato il sorriso più luminoso
che era riuscita a me ere insieme. “Fai le cose per bene e Smeet non
ti guarderà di certo la faccia” si era de a, ed era sfrecciata fuori dalle
porte per acchiappare il suo pollo.
Ma una volta compiuta la missione, dopo che avevano o enuto le
informazioni di cui avevano bisogno e tu i si erano addormentati,
lei si era messa a frugare fra le poche cose di Ma hias, nelle tasche
dei suoi vestiti, con una frustrazione crescente di secondo in
secondo. Lo odiava. Odiava Kuwei. Odiava questa stupida ci à.
Disgustata da se stessa, era scivolata so o le coperte di lui.
Ma hias dormiva sempre con la schiena rivolta al muro,
un’abitudine che risaliva all’Anticamera dell’Inferno. Aveva
insinuato le mani nelle tasche, a caccia, tastando le fodere dei
pantaloni.
“Nina?” aveva mormorato lui mezzo addormentato.
“Ho freddo” aveva de o lei, le mani che continuavano a cercare.
Gli aveva stampato un bacio sul collo, poi so o l’orecchio. Non si era
mai concessa, prima, di baciarlo a quel modo. Non ne aveva mai
avuto la possibilità. Erano stati troppo presi a sbrogliare la matassa
del sospe o, del desiderio e della lealtà che li legava, e dopo che lei
aveva assunto la parem… era l’unica cosa a cui riusciva a pensare,
persino ora. Il desiderio che provava riguardava la droga, non il
corpo di lui che sentiva fremere al conta o delle sue mani. Non gli
aveva baciato le labbra, però. Non voleva che la parem le portasse via
anche questo.
Lui aveva emesso un piccolo gemito. “Gli altri…”
“Dormono tu i.”
A quel punto le aveva afferrato le mani. “Ferma.”
“Ma hias…”
“Non ce l’ho.”
Lei si era tirata indietro di sca o, e la vergogna le era strisciata
sulla pelle come il fuoco che divampa in una foresta. “E allora chi ce
l’ha?” aveva sibilato.
“Kaz.” Lei si era immobilizzata. “Hai intenzione di infilarti anche
nel suo le o?”
Nina aveva sbuffato, incredula. “Mi taglierebbe la gola.” Voleva
urlare tu a la sua frustrazione. Non c’era modo di tra are con Kaz.
Non poteva intimidirlo, come avrebbe fa o con Wylan, o implorarlo,
come avrebbe fa o con Jesper.
La stanchezza era arrivata all’improvviso, come un giogo al collo,
una spossatezza che perlomeno a enuava il suo bisogno disperato.
Aveva appoggiato la fronte sul pe o di Ma hias. “Odio tu o
questo” aveva de o. “E odio un po’ anche te, drüskelle.”
“Ci sono abituato. Vieni qui.” L’aveva circondata con le braccia e
l’aveva fa a parlare di Ravka, di Inej. L’aveva distra a con delle
storie, aveva chiamato per nome i venti che soffiavano su Fjerda, le
aveva raccontato del primo pasto consumato nella sala dei banche i
dei drüskelle. A un certo punto doveva essersi addormentata, perché
subito dopo si stava aprendo un varco dentro un sonno pesante e
senza sogni, interro o dal rumore della porta della tomba che si
apriva sba endo.
Ma hias e Kaz erano tornati dall’università con i vestiti pieni di
buchi bruciacchiati a causa di una bomba che aveva prodo o Wylan.
Jesper e Wylan erano alle loro calcagna, stralunati e fradici per la
pioggia primaverile che aveva iniziato a cadere – e con un muscoloso
contadino Kaelish al seguito. Nina sentì quasi di aver ricevuto una
specie di bel regalo da parte dei Santi, una situazione abbastanza
ma a e sconcertante da riuscire a distrarla.
Sebbene la voglia di parem si fosse affievolita rispe o alla frenesia
della no e precedente, era ancora lì, e lei non aveva idea di come
fare a portare a termine la missione della no e a venire. Sedurre
Smeet era stata solo la prima parte del piano. Kaz contava su di lei,
Inej contava su di lei. Avevano bisogno che fosse una Corporalki,
non una drogata con i tremori che non riusciva a reggere la più
insignificante delle modifiche. Tu avia Nina non riusciva a pensare a
niente di tu o ciò con Colm Fahey lì in piedi a cincischiarsi il
cappello, e con Jesper che, piu osto che affrontarlo, avrebbe
preferito mangiarsi una pila di cialde cosparse di polvere di vetro, e
con Kaz che… Non sapeva cosa aspe arsi da Kaz. Rabbia, forse di
peggio. A Kaz non piacevano le sorprese né le potenziali debolezze,
e il padre di Jesper era una debolezza molto tarchiata e dalla
carnagione pallida.
Ma, dopo aver ascoltato il racconto senza fiato – e, sospe ò Nina,
abbreviato – di com’erano fuggiti dall’università, Kaz si limitò ad
appoggiarsi al bastone e a chiedere: «Vi hanno seguiti?».
«No» rispose Jesper, scrollando con fare sicuro la testa.
«Wylan?»
Colm si innervosì. «Dubiti della parola di mio figlio?»
«Non c’è niente di personale, pa’» disse Jesper. «Lui dubita della
parola di chiunque.»
Kaz rimase impassibile, la voce rauca così calma e gradevole che a
Nina si rizzarono i peli delle braccia. «Le mie scuse, signor Fahey.
Un’abitudine che ho preso nel Barile. Fidarsi è bene, verificare è
meglio.»
«Ma anche fidarsi è bene, non fidarsi è meglio» borbo ò Ma hias.
«Wylan?» ripeté Kaz.
Il ragazzo appoggiò la borsa a tracolla sul tavolo. «Se fossero stati
a conoscenza del passaggio segreto, ci avrebbero seguiti o ci sarebbe
stato qualcuno ad aspe arci nella tipografia. Li abbiamo seminati.»
«Ne ho contati una decina sul te o» disse Kaz, e Ma hias annuì in
segno di conferma.
«Corrisponde» disse Jesper. «Ma non posso esserne certo.
Avevano il sole alle spalle.»
Kaz si sede e, gli occhi neri puntati sul padre di Jesper. «Lei ha
fa o da esca.»
«Come dici, giovano o?»
«La banca le ha chiesto di saldare il prestito?»
Colm sba é le palpebre, sorpreso. «Be’, sì, in effe i, mi hanno
mandato una le era piu osto dura secondo la quale ero diventato
un rischio creditizio. Dicevano che, se non avessi saldato tu o, si
sarebbero visti costre i ad andare per vie legali.» Si voltò verso il
figlio. «Ti ho scri o, Jes.» Il tono era confuso, non accusatorio.
«Io… io non sono riuscito a ritirare la posta.» Jesper, dopo che
aveva smesso di frequentare l’università, era comunque riuscito a
farsi arrivare lì le le ere? Nina si domandò come avesse potuto
tenere in piedi quest’inganno così a lungo. Doveva essere stato
p q g g
facilitato dal fa o che Colm era a un oceano di distanza – e dal suo
desiderio di credere al figlio. “Un bersaglio facile” pensò Nina con
tristezza. A prescindere dai motivi, Jesper aveva truffato suo padre.
«Jesper…» disse Colm.
«Stavo cercando di me ere insieme i soldi, pa’.»
«Minacciano di portarci via la fa oria.»
Gli occhi di Jesper erano fissi immobili sul pavimento della
tomba. «C’ero vicino. Ci sono vicino.»
«Ai soldi?» Nina sentì la frustrazione di Colm. «Siamo seduti in
una tomba. Ci hanno appena sparato addosso.»
«Che cosa l’ha spinta a salire su una nave per Ke erdam?» chiese
Kaz.
«La banca ha anticipato i termini della restituzione» rispose Colm
indignato. «Hanno de o semplicemente che il tempo era scaduto.
Ho cercato di conta are Jesper ma, quando non ho ricevuto risposta,
ho pensato che…»
«Ha pensato di venire fin qui a vedere cosa stava combinando il
suo brillante figliolo nelle strade buie di Ke erdam.»
«Ho temuto il peggio. La ci à ha una bru a fama.»
«Meritata, glielo garantisco» disse Kaz. «E quando è arrivato?»
«Ho fa o un po’ di indagini all’università. Sostenevano che non
era iscri o, così sono andato alla polizia.»
Jesper sussultò. «Oh, pa’. Sei andato dalla stadwatch?»
Colm strizzò il cappello con rinnovato vigore. «E dove sarei
dovuto andare, Jes? Sai quant’è pericoloso per… per quelli come te.»
«Pa’» disse Jesper, finalmente guardando suo padre negli occhi.
«Non gli hai riferito che io…»
«Certo che no!»
Grisha. Perché nessuno dei due lo dice?
Colm ge ò a terra il pezzo di feltro che una volta era stato il suo
cappello. «Non ci capisco niente. Perché mi avete portato in questo
posto orribile? Perché ci hanno sparato? Che cosa ne è stato dei tuoi
studi? Che ti è successo?»
Jesper aprì la bocca e poi la richiuse. «Pa’, io… io…»
«È stata colpa mia» si lasciò scappare Wylan. Tu i gli occhi si
posarono su di lui. «Jesper, ehm… era preoccupato per il prestito
p p p p p p
della banca, per cui ha messo da parte gli studi per lavorare con
un…»
«Armaiolo locale» suggerì Nina.
«Nina» brontolò Ma hias in tono di rimprovero.
«Gli serve una mano» sussurrò lei.
«Per mentire a suo padre?»
«È una bugia bianca. Tu a un’altra cosa.» Non aveva idea di dove
volesse andare a parare Wylan, ma aveva evidentemente bisogno di
aiuto.
«Sì!» disse Wylan con entusiasmo. «Un armaiolo! E poi io… io gli
ho parlato di un affare…»
«Sono stati truffati» disse Kaz. La voce era fredda e ferma come
sempre, ma tra enuta, come se stesse camminando su un terreno
incerto. «Gli hanno proposto un affare che sembrava troppo bello
per essere vero.» Colm crollò su una sedia. «E quando sembra
così…»
«Esa amente» disse Kaz. Nina ebbe la stranissima sensazione che
per una volta fosse sincero.
«Tu e tuo fratello avete perso tu o?» chiese Colm a Wylan.
«Mio fratello?» domandò Wylan, perplesso.
«Tuo fratello gemello» disse Kaz lanciando un’occhiata a Kuwei,
che sedeva in silenzio a osservare il corso degli eventi. «Sì. Hanno
perso tu o. Il fratello di Wylan non ha più de o una parola da
allora.»
«Sembra proprio un tipo tranquillo» disse Colm. «E voi siete
tu i… studenti?»
«Più o meno» rispose Kaz.
«E passate il vostro tempo libero in un cimitero. Non possiamo
rivolgerci alle autorità? Raccontare loro cos’è successo? Questi
truffatori potrebbero fare altre vi ime.»
«Be’…» iniziò a dire Wylan, ma Kaz lo mise a tacere con
un’occhiata. Uno strano silenzio calò nella tomba. Kaz prese posto al
tavolo.
«Le autorità non sono la soluzione del problema» disse. «Non in
questa ci à.»
«Perché no?»
«Perché qui comanda la legge del profi o. Jesper e Wylan hanno
tentato di prendere una scorciatoia. La stadwatch non starà neanche
ad asciugare loro le lacrime. A volte, l’unico modo per o enere
giustizia è farsela da soli.»
«Ed è qui che entri in gioco tu.»
Kaz annuì. «Noi recupereremo il suo denaro. E lei non perderà la
sua fa oria.»
«Ma infrangerai la legge per farlo» obie ò Colm. Scrollò la testa
stancamente. «Sembri a malapena avere l’età per laurearti.»
«Ke erdam è stata la mia università. E posso dirle questo: Jesper
non si sarebbe mai rivolto a me in cerca di aiuto se avesse avuto
qualunque altro posto in cui andare.»
«Non puoi essere così ca ivo, ragazzo» disse Colm con tono
burbero. «Non hai vissuto abbastanza per accumulare la tua fe a di
peccato.»
«Sono uno che impara in fre a.»
«Posso fidarmi di te?»
«No.»
Colm si riprese il cappello accartocciato. «Posso fidarmi del fa o
che aiuterai Jesper a venirne fuori?»
«Sì.»
Colm sospirò. Si girò a guardarli tu i quanti. Nina si ritrovò a
raddrizzare la schiena. «Mi fate sentire vecchissimo.»
«Trascorra un altro po’ di tempo a Ke erdam» disse Kaz «e si
sentirà antico.» Poi piegò la testa di lato, e Nina gli notò sul volto
quell’espressione insieme distante e concentrata. «Lei ha una faccia
onesta, signor Fahey.»
Colm rivolse a Jesper un’occhiata perplessa. «Be’. Lo spero, e
grazie per averlo notato.»
«Non è un complimento» disse Jesper. «E riconosco quello
sguardo, Kaz. Non pensarci nemmeno, ferma quelle rotelle.»
L’unica risposta di Kaz fu un lento ba ito di palpebre. Qualunque
ingranaggio si fosse messo in moto nel suo diabolico cervello, ormai
era troppo tardi per fermarlo. «Dove alloggia?»
«Allo Struzzo.»
«Non è sicuro tornare lì. La sposteremo all’Albergo Geldrenner.
La registreremo so o un altro nome.»
«Ma perché?» farfugliò Colm.
«Perché ci sono delle persone che vogliono Jesper morto, e che già
una volta hanno usato lei per a irare suo figlio allo scoperto. Non ho
dubbi che sarebbero disposti a prenderla in ostaggio, e di ostaggi ne
abbiamo già abbastanza in giro.» Kaz scarabocchiò qualche ordine
per Ro y e consegnò a Colm un bel gruzzolo di kruge. «Si senta
libero di consumare i suoi pasti nella sala da pranzo, signor Fahey,
ma le devo chiedere di rinunciare a visitare la ci à e di restare chiuso
dentro l’albergo finché non la conta iamo. Se qualcuno le chiede
come mai è a Ke erdam, lei risponda che è qui per un po’ di riposo e
di relax.»
Colm soppesò Ro y e poi Kaz. Quindi fece un bel respiro risoluto.
«No. Ti ringrazio, ma questo è un errore.» Si voltò verso Jesper.
«Troveremo un altro modo per ripagare il debito. O ricominceremo
tu o daccapo da un’altra parte.»
«Non rinuncerai alla fa oria» disse Jesper. Abbassò la voce. «Lei è
lì. Non possiamo lasciarla.»
«Jes…»
«Per favore, pa’. Per favore, fammi sistemare le cose. Lo so…»
Deglutì e si strinse nelle spalle ossute. «Lo so che ti ho deluso. Ma
dammi solo un’altra possibilità.» Nina ebbe il sospe o che non si
stesse rivolgendo solo a suo padre.
«Noi non c’entriamo niente qui, Jes. Questo posto è troppo
sfacciato, troppo sregolato. Niente ha senso.»
«Signor Fahey» mormorò Kaz. «Conosce quel de o, quello su
come si fa a camminare in un pascolo di vacche?»
Il sopracciglio di Jesper si alzò, e Nina dove e soffocare una
risatina nervosa. Che cosa ne sapeva il bastardo del Barile di pascoli
e vacche?
«Tieni giù la testa e guarda dove me i i piedi» rispose Colm.
Kaz annuì. «Pensi a Ke erdam come a un enorme pascolo.» Un
sorrisino tracciò un solco tra le labbra di Colm. «Ci dia tre giorni per
recuperare i suoi soldi e spedire sani e salvi lei e suo figlio via da
Kerch.»
«È davvero possibile?»
«Tu o può essere, in questa ci à.»
«Il pensiero non mi riempie di fiducia.» Si alzò, e Jesper sca ò in
piedi.
«Pa’?»
«Tre giorni, Jesper. Poi andiamo a casa. Con o senza soldi.» Posò
una mano sulla spalla del figlio. «E per amor dei Santi, sta’ a ento.
State tu i a enti.»
Nina avvertì un improvviso nodo in gola. Ma hias aveva perso la
sua famiglia in guerra. Lei aveva lasciato la propria per entrare
nell’esercito quand’era solo una ragazzina. Wylan era stato
praticamente scacciato dalla casa paterna. Kuwei aveva perso suo
padre e il suo paese. E Kaz? Non voleva sapere da quale vicolo
oscuro fosse strisciato fuori Kaz. Ma Jesper aveva un luogo in cui
andare, qualcuno che si prendeva cura di lui, qualcuno che gli
diceva: “Andrà tu o bene”. Nina ebbe una visione: campi dorati
so o un cielo senza nuvole, una case a di legno riparata dal vento
da una fila di querce rosse. Un posto sicuro. Nina avrebbe voluto che
Colm Fahey marciasse nell’ufficio di Jan Van Eck e gli intimasse di
restituire Inej, a meno che non volesse prendersi una sfilza di
cazzo i in faccia. Avrebbe voluto che qualcuno in questa ci à li
aiutasse, che non fossero così soli. Avrebbe voluto che il padre di
Jesper li portasse tu i via con sé. Lei non era mai stata a Novyi Zem,
ma il desiderio di quei campi dorati aveva il sapore della nostalgia.
“Sciocca” disse a se stessa, “infantile.” Kaz aveva ragione: se
volevano giustizia, dovevano farsela da soli. Tale pensiero non
alleviò la fame che le straziava il cuore.
Ma Colm si stava già accomiatando da Jesper e si stava già
dileguando tra le tombe di pietra insieme a Ro y e a Specht. Si voltò
a fare un ultimo cenno di saluto e sparì.
«Dovrei andare con lui» disse Jesper, esitando nell’ingresso.
«L’hai già fa o quasi ammazzare una volta» disse Kaz.
«Sappiamo chi ha organizzato l’imboscata all’università?» chiese
Wylan.
«Il padre di Jesper è andato dalla stadwatch» disse Ma hias.
«Sono sicuro che molti ufficiali sono corro i.»
«Vero» concordò Nina. «Ma non può essere una coincidenza che
la banca abbia ritirato il prestito proprio adesso.»
Wylan si sede e al tavolo. «Se le banche sono coinvolte, ci
potrebbe essere dietro mio padre.»
«Anche Pekka Rollins ha un certo ascendente sulle banche» disse
Kaz, e Nina vide le sue mani guantate fle ersi sulla testa di corvo del
bastone.
«Potrebbero lavorare insieme?» domandò Nina.
Jesper si strofinò la faccia con le mani. «Per tu i i Santi e per tua
zia Eva, speriamo di no.»
«Non scarterei nessuna ipotesi» disse Kaz. «Ma niente di tu o ciò
cambia quello che succederà stano e. Tieni.» Infilò la mano in una
delle nicchie del muro.
«Le mie rivoltelle!» esclamò Jesper, stringendosele forte al pe o.
«Oh, ciao, meraviglie.» Il suo sorriso era abbagliante. «Le hai
recuperate!»
«La cassaforte del Cumulus è un gioche o da ragazzi.»
«Grazie, Kaz. Grazie.»
Ogni traccia di calore che Kaz aveva mostrato al padre di Jesper
era sparita, fugace come il sogno di quei campi dorati. «A cosa mi
serve un cecchino senza pistole?» gli chiese, indifferente al modo in
cui il sorriso di Jesper svaniva. «Sei in rosso da troppo tempo. Tu i
quanti lo siamo. Questa è la no e in cui cominciamo a pagare i nostri
debiti.»
Con un sobbalzo, Wylan si rese conto che Jesper lo stava tirando per
la manica. «È la nostra fermata, mercantuccio. Da i una mossa.»
E gli andò dietro di corsa. Sbarcarono sul molo deserto di
Olendaal e risalirono l’argine fino alla sonnolenta strada di un
villaggio.
Jesper si guardò a orno. «Questo posto mi ricorda casa mia. I
campi a perdita d’occhio, il silenzio ro o solo dal ronzio delle api,
l’aria pulita.» Rabbrividì. «Disgustoso.»
Lungo il cammino Jesper lo aiutò a raccogliere dei fiori dal ciglio
della strada. Quando arrivarono alla via principale, aveva messo
insieme un mazze o di tu o rispe o.
«Immagino che dovremo cercare la strada che porta alla cava»
disse Jesper.
Wylan diede qualche colpo di tosse. «No, basta un emporio
qualunque.»
«Ma hai de o a Kaz che il minerale…»
«È presente in qualunque vernice e smalto. Volevo solo avere un
motivo per venire a Olendaal.»
p
«Wylan Van Eck, tu hai mentito a Kaz Brekker.» Jesper gli piazzò
una mano sul pe o. «E l’hai fa a franca! Tieni dei corsi?»
Lui ne fu assurdamente compiaciuto, finché non pensò a Kaz nel
momento in cui l’avrebbe scoperto. A quel punto si sentì come la
prima volta che aveva assaggiato il brandy e aveva finito per
vomitarsi la cena sulle scarpe.
A metà strada trovarono un emporio, e gli ci volle solo qualche
minuto per acquistare il necessario. All’uscita, un uomo che stava
caricando il proprio carro rivolse loro la parola. «Ragazzi, siete in
cerca di lavoro?» domandò sce ico. «Nessuno dei due sembra in
grado di reggere una giornata intera nei campi.»
«Rimarrà sorpreso» disse Jesper. «Abbiamo firmato un contra o
per eseguire dei lavori nei dintorni di Santa Hilde.»
Wylan a ese, nervoso, ma l’uomo si limitò ad annuire. «Dovete
fare delle riparazioni all’ospedale?»
«Già» rispose Jesper con naturalezza.
«Il tuo amico lì non parla molto.»
«Shu» tagliò corto Jesper, alzando le spalle.
Il vecchio fece una specie di grugnito per dimostrarsi d’accordo e
disse: «Saltate su. Sto andando verso la cava. Posso portarvi fino ai
cancelli. Per chi sono i fiori?».
«Lui ha una fidanzatina vicino a Santa Hilde.»
«Una ragazza fortunata.»
«Lasci stare. Il mio amico ha un gusto terribile in fa o di donne.»
Wylan considerò l’idea di scaraventare Jesper giù dal carro.
Ai lati della strada sterrata sfilavano quelli che sembravano campi
di orzo e grano, e la pia a distesa di terra era punteggiata di tanto in
tanto da fienili e mulini a vento. Il carro procedeva spedito. “Un po’
troppo spedito” pensò Wylan mentre sobbalzavano su un solco
particolarmente profondo. Tra enne il fiato.
«La pioggia» disse il contadino. «Non è ancora passato nessuno a
riempire di sabbia le buche.»
«Non fa niente» disse Jesper, mentre il carro colpiva un’altra buca
nel terreno grande abbastanza da far tintinnare le ossa. «Tanto la
milza mica mi serviva tu a intera.»
Il contadino scoppiò a ridere. «Guarda che è utile! Stimola il
fegato!»
Wylan si aggrappò al bordo: dopotu o sarebbe stato meglio se
avesse scaraventato Jesper giù dal carro e fosse saltato giù con lui.
Per fortuna, solo un miglio più avanti, il carro rallentò davanti a due
pilastri di pietra che segnalavano l’inizio di un lungo viale o
sterrato.
«Io mi fermo qui» disse il contadino. «È un posto con cui non
voglio avere niente a che fare. Troppa sofferenza. Qualche volta,
quando il vento soffia dalla parte giusta, li puoi sentire, che ridono e
strillano.»
Jesper e Wylan si scambiarono un’occhiata.
«Sta dicendo che è infestato dai fantasmi?» domandò Jesper.
«Immagino.»
Ringraziarono e scesero a terra, contenti di farlo.
«Quando avrete finito qui, risalite la strada per due miglia» disse
il contadino. «Ho due acri di terra ancora senza braccianti. Sono
cinque kruge al giorno, e potete dormire nel fienile anziché all’aperto
nei campi.»
«Niente male» disse Jesper mentre salutava con la mano, ma dopo
essersi voltato per prendere la strada verso la chiesa, borbo ò: «Il
ritorno lo facciamo a piedi. Credo di essermi incrinato una costola».
Quando il conducente sparì dalla vista, si tolsero giacche e berre i
e restarono con gli abiti scuri che Kaz aveva suggerito loro di infilarsi
so o, quindi riposero gli indumenti in più dietro il tronco di un
albero. «Dite che vi ha mandato Cornelis Smeet» aveva de o Kaz.
«Che volete accertarvi, per conto del signor Van Eck, che la tomba
sia in buone condizioni.»
«Perché?» aveva chiesto Wylan.
«Perché se affermerai di essere il figlio di Jan Van Eck, nessuno ti
crederà.»
La strada era costeggiata dai pioppi e, mentre salivano sulla cresta
della collina, apparve alla loro vista un edificio: tre piani di pietra
bianca con una breve scalinata elegante che conduceva a una porta
d’ingresso ad arco. Il viale o era curato, ricoperto di ghiaia e
fiancheggiato su entrambi i lati da basse siepi di tasso.
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«Non sembra una chiesa» disse Jesper.
«Forse prima era un monastero, oppure una scuola» suggerì
Wylan. Rimase ad ascoltare lo scricchiolio della ghiaia so o le
scarpe. «Jesper, tu hai molti ricordi di tua madre?»
Wylan aveva visto Jesper sorridere in tanti modi diversi, ma il
sorriso che in quel momento gli si diffuse sul volto era nuovo, lento,
era come una mano vincente tenuta finora celata. Tu o ciò che disse
fu: «Sì. È stata lei a insegnarmi a sparare».
Erano centinaia le domande che Wylan voleva fargli, ma più si
avvicinavano alla chiesa, meno riusciva a formulare un pensiero e a
tenerselo stre o. Sulla sinistra dell’edificio notò un pergolato
ricoperto di glicine appena sbocciato, e il profumo dolce dei fiori lilla
invadeva l’aria primaverile. Appena oltre il prato della chiesa, sulla
destra, vide un cancello di ferro ba uto e un recinto che circondava
un camposanto, con un’alta figura di pietra al centro: una donna,
suppose, probabilmente Santa Hilde.
«Quello dev’essere il cimitero» disse, stringendo più forte i fiori.
Che cosa ci faccio qui? Di nuovo quella domanda, e tu o d’un tra o
non voleva più sapere. Kaz aveva ragione. Tu o questo era sciocco,
sentimentale. Che senso aveva guardare una lapide con il nome di
sua madre inciso sopra? Non sarebbe neanche stato in grado di
leggerlo. Ma avevano fa o tu a quella strada per arrivare fin lì.
«Jesper…» a accò a dire, ma proprio in quel momento una donna
in abiti grigi da lavoro girò l’angolo spingendo una carriola piena di
terriccio.
«Goed morgen» disse loro. «Posso aiutarvi?»
«E un buon giorno è proprio quel che è» disse Jesper affabilmente.
«Veniamo qui dall’ufficio di Cornelis Smeet.»
La donna corrugò la fronte e Wylan aggiunse: «A nome dello
stimato Consigliere Jan Van Eck».
A quanto pareva non si era accorta del tremolio nella sua voce,
perché spianò la fronte e sorrise. Aveva le guance rosa e rotonde.
«Ma certo. Amme o di essere sorpresa. Il signor Van Eck è stato così
generoso con noi, eppure abbiamo sue notizie così di rado. Non c’è
niente che non va, vero?»
«Nient’affa o!» disse Wylan.
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«Si tra a solo delle nuove procedure» spiegò Jesper. «Più lavoro
per tu i.»
«Non è così che vanno sempre le cose?» La donna sorrise un’altra
volta. «E vedo che avete portato dei fiori.»
Wylan abbassò lo sguardo sul mazzo. Gli sembrava più piccolo e
male in arnese, ora. «Noi… sì.»
Lei si asciugò le mani sul grembiule informe e disse: «Vi
accompagno».
Ma, invece di voltarsi in direzione del cimitero, si diresse verso
l’ingresso. Jesper fece spallucce, e la seguirono. Mentre salivano i
bassi gradini di pietra, qualcosa di freddo strisciò lungo la spina
dorsale di Wylan.
«Ehi» sussurrò. «Ci sono le sbarre alle finestre.»
«Monaci ansiosi?» azzardò Jesper, ma non stava sorridendo.
Il salo o all’ingresso era a un’altezza doppia e aveva il pavimento
di piastrelle bianche immacolate, sulle quali erano dipinti dei delicati
tulipani blu.
Wylan non aveva mai visto una chiesa come questa. Il silenzio
nella stanza era così profondo da risultare quasi soffocante. In un
angolo c’era una grossa scrivania, e sopra la scrivania c’era un vaso
di glicine, lo stesso che aveva visto fuori. Inspirò. Il profumo era
confortante.
La donna aprì con la chiave un armadio capiente e lo passò al
vaglio per un a imo, quindi estrasse un grosso fascicolo. «Eccoci qui:
Marya Hendriks. Come potete vedere, è tu o in ordine. Potete dare
un’occhiata mentre noi la sistemiamo un po’. La prossima volta, se ci
fate sapere in anticipo della vostra visita, eviterete ritardi.»
Un sudore freddo ricoprì Wylan da capo a piedi. Riuscì a fare di sì
con la testa.
La donna estrasse dall’armadio un pesante portachiavi e aprì una
delle porte azzurre che conducevano fuori dal salo o. Wylan la sentì
girare la chiave nella serratura dall’altra parte. Appoggiò i fiori di
campo sulla scrivania. I gambi si erano ro i. Li aveva stre i troppo
forte.
«Che posto è questo?» domandò. «Che cosa vuol dire “la
sistemiamo un po’”?» Il cuore gli ticche ava in modo frenetico, come
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un metronomo impostato al ritmo sbagliato.
Jesper stava sfogliando il fascicolo, e con gli occhi scorreva veloce
le pagine.
Wylan gli sbucò da dietro la spalla e si sentì afferrare da un
terrore disperato e soffocante. Le parole sulla pagina erano uno
sgorbio senza senso, un nero ammasso di zampe d’inse o. Lo ò per
respirare. «Jesper, per favore» lo pregò con una voce so ile, stridula.
«Leggimelo.»
«Scusa» disse Jesper di fre a. «Me n’ero scordato. Io…» L’altro
non riusciva a decifrare l’espressione sul viso di Jesper: tristezza,
confusione. «Wylan… credo che tua madre sia viva.»
«È impossibile.»
«Tuo padre l’ha fa a rinchiudere.»
Scrollò la testa. Non poteva essere. «Si ammalò. Un’infezione
polmonare…»
«Tuo padre qui dichiara che lei è vi ima di isteria, paranoia e
manie di persecuzione.»
«Non può essere viva. Lui… lui si è risposato. E allora Alys?»
«Credo che abbia fa o dichiarare tua madre malata di mente e
abbia usato questa dichiarazione per o enere il divorzio. Questa non
è una chiesa, Wylan. È un manicomio.»
Santa Hilde. Suo padre aveva mandato lì del denaro ogni anno, ma
non come donazione, non per beneficenza. Per le spese di
mantenimento. Per farli stare zi i. La stanza prese a girare
vorticosamente.
Jesper lo mise a sedere sulla sedia dietro la scrivania e gli fece
pressione sulle scapole per spingerlo in avanti. «Me i la testa tra le
ginocchia, fissa il pavimento. Respira.»
Lui si sforzò di inspirare, espirare e guardare quegli incantevoli
tulipani blu dentro le piastrelle bianche. «Dimmi il resto.»
«Devi calmarti o capiranno che c’è qualcosa che non va.»
«Dimmi il resto.»
Jesper sospirò e continuò a sfogliare il fascicolo. «Figlio di
pu ana!» esclamò dopo un minuto. «C’è un passaggio di proprietà
nel fascicolo. È una copia.»
Wylan tenne gli occhi fissi sulle piastrelle del pavimento. «Cosa?
Di cosa si tra a?»
Jesper lesse: «“Questo documento, reda o in totale trasparenza al
cospe o di Ghezen, nel rispe o degli accordi intercorsi tra uomini
onesti, reso vincolante dai tribunali di Kerch e dal suo Consiglio dei
Mercanti, sancisce il trasferimento di tu e le proprietà, eredità e
a ività commerciali da Marya Hendriks a Jan Van Eck, per essere
gestite dal sudde o fino a quando Marya Hendriks sarà nuovamente
capace di intendere, volere e condurre i propri affari”».
«Il trasferimento di tu e le proprietà» ripeté Wylan. Che cosa ci
faccio qui? Che cosa ci faccio qui? Che cosa ci fa lei qui?
La chiave girò nella serratura della porta azzurra e la donna –
un’infermiera, realizzò Wylan – la varcò lisciandosi il grembiule del
camice.
«Siamo pronte per voi» disse. «È piu osto tranquilla oggi. Tu o
bene qui?»
«Il mio amico si sente un po’ debole. Troppo sole dopo tu e
quelle ore al chiuso nell’ufficio del signor Smeet. Potremmo
chiederle un bicchiere d’acqua, se non è troppo disturbo?»
«Ma certo!» disse l’infermiera. «Oh, in effe i sembra un po’ giù di
corda.» E sparì di nuovo dietro la porta, richiudendola a chiave. Per
essere sicura che i pazienti non scappino.
Jesper si inginocchiò di fronte a Wylan e gli mise le mani sulle
spalle. «Wy, ascoltami. Ti devi riprendere. Ce la fai? Possiamo
andarcene. Posso dirle che non ti senti bene, o posso entrare da solo.
Possiamo provare a tornare un’altra vol…»
Wylan fece un bel respiro profondo. Non riusciva a capacitarsi di
quello che stava succedendo, non riusciva a coglierne la portata. Per
cui fai una cosa alla volta. Era la tecnica che uno dei suoi prece ori gli
aveva insegnato per impedirgli di essere sopraffa o dalla pagina.
Non aveva funzionato, in particolare non funzionava mai quando
suo padre incombeva su di lui, ma Wylan era riuscito ad applicarla
in altre situazioni. Una cosa alla volta. Alzati. Si alzò. Stai bene. «Sto
bene» disse. «Non ce ne andremo.» Era l’unica cosa di cui era certo.
Quando l’infermiera tornò, acce ò il bicchiere d’acqua, la
ringraziò e bevve. Poi lui e Jesper la seguirono oltre la porta azzurra.
g p g p
Non riuscì però a raccogliere i fiori di campo sparpagliati sulla
scrivania. Una cosa alla volta.
Passarono davanti ad alcune porte chiuse a chiave e a una specie
di palestra. Udì un lamento provenire da qualche parte. Due donne,
in un salone, stavano divertendosi con quello che sembrava un gioco
di comba imento.
Mia madre è morta. È morta. Ma niente dentro di lui ci credeva. Non
più.
Finalmente l’infermiera li condusse a una veranda che si trovava
sul lato ovest dell’edificio, quello che ca urava tu o il calore dei
raggi del sole al tramonto. Una delle pareti era costituita per intero
da una vetrata, dalla quale si potevano vedere la distesa verde del
prato dell’ospedale e in lontananza il cimitero. Era una bella stanza,
con un pavimento a piastrelle immacolato. Su un cavalle o vicino
alla finestra era appoggiata una tela, e qualcuno aveva iniziato a
dipingerci sopra un paesaggio. Nella mente di Wylan affiorò un
ricordo: sua madre in piedi davanti a un cavalle o nel giardino sul
retro della casa sulla Geldstraat, l’odore dell’olio di lino, i pennelli
puliti in un bicchiere vuoto, il suo sguardo pensieroso che valutava
le linee della rimessa delle barche e del canale.
«Dipinge» disse in tono pia o.
«Tu o il tempo» cingue ò l’infermiera. «È proprio un’artista la
nostra Marya.»
C’era una donna seduta in una sedia a rotelle, la testa le cadeva
come se stesse lo ando per non addormentarsi, aveva delle coperte
sulle spalle stre e. Il viso era segnato, i capelli color ambra sbiaditi,
ormai grigi. “Il colore dei miei capelli” si rese conto Wylan, “se fosse
lasciato fuori so o il sole.” Provò un sollievo immenso. Questa
donna era troppo anziana per essere sua madre. Ma poi lei alzò il
mento e aprì gli occhi. Erano di un color nocciola nitido e puro, e
non erano cambiati, non si erano spenti.
«Sono venuti a farle visita, signora Hendriks.»
Sua madre mosse le labbra, ma lui non riuscì a sentire cosa avesse
de o.
Lei li guardò con occhi a enti. Poi la sua espressione vacillò,
divenne vaga e dubbiosa mentre ogni certezza si dileguava dal suo
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viso. «Dovrei… dovrei conoscervi?»
Wylan aveva la gola chiusa. “Mi riconosceresti” si domandò “se
assomigliassi ancora a tuo figlio?” Riuscì a scrollare la testa per dire
di no. «Ci siamo incontrati… ci siamo incontrati tanto tempo fa.
Quand’ero ancora un bambino.»
Lei sospirò e guardò il prato fuori dalla vetrata.
Wylan si girò impotente verso Jesper. Non era pronto per questo.
Sua madre era un corpo sepolto da tempo, polvere nella terra.
Jesper lo guidò con delicatezza verso una sedia di fronte a Marya.
«Abbiamo un’ora prima che ci tocchi tornare indietro» disse a bassa
voce. «Parlale.»
«Di cosa?»
«Ti ricordi cos’hai de o a Kaz? Non sappiamo quello che ci può
capitare. Il presente è tu o ciò che abbiamo.» Quindi a raversò la
stanza per raggiungere l’infermiera che stava riordinando i colori.
«Mi dica, signorina… sono mortificato ma non ho colto il suo nome.»
Lei sorrise, le guance rosse e tonde come mele caramellate.
«Betje.»
«Un nome incantevole per una ragazza incantevole. Il signor
Smeet mi chiedeva di dare un occhio a tu i i servizi offerti dalla
stru ura mentre eravamo qui. Le dispiacerebbe farmi fare un giro
veloce?»
Lei esitò e rivolse lo sguardo a Wylan.
«Staremo a posto qui» riuscì a dire lui con una voce che gli suonò
troppo alta e troppo cordiale. «Rivolgerò alla signora Hendriks solo
qualche domanda di routine. Fa tu o parte delle nuove procedure.»
L’infermiera rivolse uno sguardo scintillante a Jesper. «Be’, allora
immagino che un’occhiata veloce in giro possiamo darla.»
Wylan si mise a studiare la madre, e i pensieri gli diventarono una
sequenza di accordi suonati male. Le avevano tagliato i capelli corti.
Cercò di raffigurarsela da giovane, nell’elegante abito di lana nera
tipico delle mogli dei mercanti, il pizzo bianco sul colle o, i riccioli
folti e vivaci raccolti dalla cameriera personale in una treccia a
chignon.
«Salve» provò a dirle.
«È venuto per i miei soldi? Non ne ho.»
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«Nemmeno io» disse Wylan con un filo di voce.
Lei non gli era familiare, non esa amente, ma c’era qualcosa nel
modo in cui piegava la testa, nel modo in cui sedeva, la schiena
ancora dri a. Come se fosse davanti al pianoforte.
«Le piace la musica?» le chiese.
Lei annuì. «Sì, ma non ce n’è molta qui.»
Estrasse il flauto dalla camicia. Aveva viaggiato per tu o il giorno
tenendoselo stre o al pe o come una sorta di segreto, ed era ancora
caldo del proprio corpo. Aveva programmato di suonarlo accanto
alla sua tomba come un povero idiota.
Quanto avrebbe riso di lui Kaz.
Le prime note uscirono incerte, ma poi assunse il controllo del
proprio respiro. Trovò la melodia, una canzone semplice, una delle
prime che aveva imparato. Per un a imo sembrò che lei stesse
cercando di ricordare dove poteva averla sentita. Infine chiuse
semplicemente gli occhi per ascoltare.
Quando lui terminò, lei disse: «Suoni qualcosa di allegro».
E così lui suonò una giga Kaelish e poi una canzone marinaresca
di Kerch che sarebbe stata più ada a per il flauto a fischie o. Suonò
tu e le canzoni che gli vennero in mente, ma niente di malinconico,
niente di triste. Lei non parlava, anche se di tanto in tanto ba eva
appena i piedi a ritmo di musica e muoveva le labbra come se
sapesse le parole.
Alla fine lui si mise il flauto in grembo. «Da quanto tempo si trova
qui?»
Lei rimase in silenzio.
Wylan si sporse in avanti, alla ricerca di qualche risposta in quei
vaghi occhi color nocciola. «Che cosa ti hanno fa o?»
Lei posò una mano gentile sulla sua guancia. Il palmo era freddo
e secco. «Che cosa ti hanno fa o?» Lui non avrebbe saputo dire se
sua madre lo stesse provocando o se stesse soltanto ripetendo le sue
parole.
Wylan avvertì in gola la pressione dolorosa dei singhiozzi e lo ò
per reprimerli.
La porta si spalancò. «Bene, abbiamo fa o una bella visita?» disse
l’infermiera mentre entrava.
In fre a e furia Wylan si rimise il flauto so o la camicia.
«Assolutamente» rispose. «Sembra tu o a posto.»
«Voi due sembrate estremamente giovani per questo tipo di
lavoro» disse lei, sorridendo a Jesper fino a farsi uscire le fosse e.
«Potrei dire lo stesso di lei» replicò lui. «Ma sa come vanno queste
cose, i nuovi impiegati si devono accollare i compiti meno
qualificati.»
«Tornerete presto?»
Jesper le fece l’occhiolino. «Non si può mai sapere.» Fece un
cenno del capo a Wylan. «Abbiamo un traghe o da prendere.»
«Dica arrivederci, signora Hendriks!» la incoraggiò l’infermiera.
Marya mosse le labbra, ma questa volta Wylan era abbastanza
vicino da sentire cosa mormorò. Van Eck.
Nina entrò in alcuni de agli con Zoya e Genya, però Ma hias notò
che non fece alcun accenno a Kuwei e che si tenne alla larga da ogni
riferimento alla Corte di Ghiaccio.
Quando Zoya e Genya salirono al piano di sopra per discutere
della proposta, lasciarono lì Nina e Ma hias con due guardie armate
posizionate all’ingresso della stanza circolare.
Lui bisbigliò in Fjerdiano: «Se le spie di Ravka sanno fare il loro
mestiere, i tuoi amici capiranno che siamo stati noi a far evadere
Kuwei».
«Non bisbigliare» rispose Nina in Fjerdiano, ma a un volume
normale. «Farà solo insospe ire le guardie. Alla fine racconterò tu o
a Zoya e a Genya, ma ricordi che noi non vedevamo l’ora di uccidere
Kuwei? Non sono sicura che Zoya prenderebbe la nostra stessa
decisione di risparmiarlo, perlomeno non prima che lui sia sano e
salvo sul suolo di Ravka. Non ha bisogno di sapere chi c’è su quella
barca finché non a raccano a Os Kervo.»
Sano e salvo sul suolo di Ravka. Quelle parole gli rimasero sullo
stomaco. Era impaziente di portare via Nina dalla ci à, ma la
prospe iva di andare a Ravka non gli sembrava per niente prudente.
Nina doveva aver avvertito il suo disagio perché disse: «Ravka è il
posto più sicuro al mondo per Kuwei. Ha bisogno della nostra
protezione».
«Che aspe o ha esa amente la protezione di Zoya Nazyalensky?»
«Lei non è poi così male.» Lui le scoccò un’occhiata sce ica. «Va
bene, è terribile, ma lei e Genya hanno visto troppi morti durante la
guerra civile. Non credo vogliano altri spargimenti di sangue.»
Lui sperava che fosse vero, ma in ogni caso, avrebbe avuto
importanza? «Ti ricordi cosa mi hai de o, Nina? Che speravi che re
Nikolai marciasse verso nord e radesse al suolo qualunque cosa
lungo il suo cammino.»
«Ero furiosa…»
«Avevi il diri o di esserlo. Tu i l’abbiamo. È questo il problema.
Brum non si fermerà. I drüskelle non si fermeranno. Per loro
distruggere la tua razza è una missione sacra.» Era stata anche la sua
missione, e il sospe o, e l’inclinazione all’odio, erano tu i sentimenti
che riusciva ancora a provare. Si maledisse per questo.
«Allora troveremo il modo di far loro cambiare idea. A tu i loro.»
Lo scrutò per un momento. «Oggi hai usato una bomba
crepuscolare. Te la sei fa a fare da Wylan?»
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«Sì» ammise lui.
«Perché?»
Lei non avrebbe gradito la sua risposta. «Non sapevo in che modo
la parem avesse intaccato il tuo potere. Se avessi dovuto tenerti
lontana dalla droga, dovevo essere in grado di comba erti senza
farti male.»
«E oggi te la sei portata dietro nel caso fossimo finiti nei guai?»
«Sì.»
«Con i Grisha.»
Lui annuì e a ese i suoi rimbro i, ma tu o quello che fece fu
osservarlo, assorta. Gli si avvicinò. Ma hias lanciò un’occhiata
imbarazzata alle schiene delle guardie, visibili sulla soglia. «Fai finta
che non ci siano» disse lei. «Perché non mi hai mai baciata,
Ma hias?»
«Non è il momento.»
«È per via di quello che sono? Perché hai ancora paura di me?»
«No.»
Lei fece una pausa, e lui vide che stava lo ando con quello che
voleva dire. «È per come mi sono comportata sulla nave? Per quello
che ho fa o l’altra no e… quando ho cercato di convincerti a darmi
il resto della parem?»
«Come puoi pensarlo?»
«Mi dici sempre che sono spudorata. Mi sa… mi sa che mi
vergogno.» Rabbrividì. «È come indossare una giacca che non ti sta
bene.»
«Nina, io ti ho fa o un giuramento solenne.»
«Ma…»
«I tuoi nemici sono i miei nemici, e io sarò al tuo fianco contro
qualunque avversario… compresa questa droga malede a.»
Lei scrollò la testa come se lui stesse dicendo delle cose senza
senso. «Io non voglio che tu stia con me a causa di un giuramento, o
perché devi proteggermi, o perché pensi di essere legato a me da
qualche stupido debito di sangue.»
«Nina…» iniziò a dire lui, poi si bloccò. «Nina, io sto con te
perché tu mi perme i di stare con te. Non c’è onore più grande che
essere al tuo fianco.»
«Onore, dovere. Ho capito.»
Lui poteva sopportare il suo cara ere irascibile ma non la sua
delusione: quella gli era inacce abile. È che lui conosceva soltanto il
linguaggio militare. Non aveva le parole per quest’altro tipo di
conversazione. «Incontrarti è stato un disastro.»
Lei alzò un sopracciglio. «Ti ringrazio.»
Djel, era proprio negato. Farfugliò, nel tentativo di farsi capire.
«Però benedico ogni giorno questo disastro. Mi serviva un
cataclisma che mi scuotesse e che mi trascinasse via dalla vita che
conoscevo. Tu sei stata un terremoto, uno smo amento.»
«Io» disse lei, portandosi una mano sul fianco «sono un fiore
delicato.»
«Tu non sei un fiore, sei tu i i boccioli della foresta che si aprono
insieme. Sei un maremoto. Sei una carica che parte di corsa
all’assalto. Tu sei un’invasione inarrestabile.»
«E tu cosa preferiresti?» disse lei, gli occhi in fiamme, la voce
leggermente tremante. «Una ragazza Fjerdiana a modo, che veste
tu a accollata e si immerge nell’acqua fredda ogni qual volta ha il
desiderio di fare qualcosa di eccitante?»
«Non è quello che intendevo!»
Lei gli scivolò più vicino. Di nuovo, lui andò con gli occhi alle
guardie. Erano girate di spalle, ma sapeva che dovevano essere in
ascolto, a prescindere da quale lingua lui e Nina stessero parlando.
«Di che cosa hai così tanta paura?» lo sfidò lei. «Non guardare loro,
Ma hias. Guarda me.»
Lui obbedì. Lo sforzo era non guardarla. La adorava vestita in
abiti Fjerdiani, il piccolo gilè di lana, il movimento delle sue so ane.
Gli occhi verdi di lei erano luminosi, le guance rosa, le labbra
leggermente socchiuse. Era sin troppo facile immaginare di
inginocchiarsi ai suoi piedi come un penitente, perme ere alle
proprie mani di risalire lungo le curve bianche dei suoi polpacci, e
spingere un po’ più in alto quelle so ane, oltre le ginocchia, fino alla
pelle calda delle cosce. E la parte peggiore era che lui sapeva quanto
si sarebbe sentita bene Nina. Ogni fibra del suo essere ricordava la
pressione del corpo nudo di lei, quella prima no e
nell’accampamento dei cacciatori di balene. «Io… non voglio
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nessuna più di quanto voglia te; non c’è niente che io voglia di più
dell’essere travolto da te.»
«Però non vuoi baciarmi.»
Lui inspirò lentamente e cercò di me ere ordine fra i pensieri. Era
tu o sbagliato.
«A Fjerda…» iniziò a dire.
«Non siamo a Fjerda.»
Lui doveva farle capire. «A Fjerda» insiste e «avrei chiesto ai tuoi
genitori il permesso di passeggiare con te.»
«Non vedo i miei genitori da quand’ero una bambina.»
«Saremmo stati accompagnati. Avrei cenato con la tua famiglia
almeno tre volte prima di poter essere lasciati insieme da soli.»
«Siamo insieme da soli adesso, Ma hias.»
«Ti avrei fa o dei regali.»
Nina inclinò la testa di lato. «Vai avanti.»
«Delle rose rosse, se avessi potuto perme ermele, un pe ine
d’argento per i tuoi capelli.»
«Non mi servono quelle cose.»
«Torte di mela con la crema.»
«Pensavo che i drüskelle non mangiassero i dolci.»
«Sarebbero stati tu i per te» disse lui.
«Hai la mia a enzione.»
«Il nostro primo bacio sarebbe stato in un bosco illuminato dal
sole, oppure so o un cielo stellato dopo il ballo del paese, non in una
tomba o in qualche seminterrato buio con delle guardie alla porta.»
«Fammi capire bene» disse Nina. «Tu non mi hai mai baciata
perché l’ambientazione non è mai stata adeguatamente romantica?»
«Non è questione di romanticismo. Un bacio come si deve, un
corteggiamento come si deve. Le cose dovrebbero essere fa e in un
certo modo.»
«Per dei ladri come si deve?» Gli angoli della sua bellissima bocca
si piegarono all’insù e per un a imo Ma hias crede e che avrebbe
riso di lui, invece si limitò a scrollare la testa e a farsi ancora più
vicina. Il corpo di lei era distante dal suo lo spazio di un respiro. E il
bisogno di colmare quella distanza infinitesimale lo stava facendo
impazzire.
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«Il primo giorno in cui ti fossi presentato a casa mia per questo
corteggiamento come si deve, io ti avrei messo con le spalle al muro
nella dispensa» disse lei. «Ma ti prego, dimmi qualcos’altro delle
ragazze Fjerdiane.»
«Parlano a voce bassa. Non si me ono a fare le cive e con tu i gli
uomini che incontrano.»
«Io faccio la cive a anche con le donne.»
«Secondo me faresti la cive a con una palma da da eri, se ti
prestasse a enzione.»
«Se facessi la cive a con una palma, ti posso assicurare che se ne
accorgerebbe e si alzerebbe. Sei geloso?»
«Continuamente.»
«Mi fa piacere. Che cosa stai guardando, Ma hias?» La voce bassa
di lei gli vibrò dentro.
Lui tenne gli occhi fissi al soffi o e sussurrò: «Niente».
«Ma hias, stai pregando?»
«Può darsi.»
«Per mantenere il controllo?» gli chiese dolcemente.
«Sei proprio una strega.»
«Non sono una come si deve, Ma hias.»
«Ne sono consapevole.» Miseramente, intensamente, avidamente
consapevole.
«E mi duole informarti che nemmeno tu sei uno come si deve.»
Lo sguardo cadde su di lei. «Io…»
«Quante regole hai infranto da quando mi hai incontrata? Quante
leggi? E non saranno le ultime. Niente di quello che ci riguarda sarà
mai come si deve» disse lei. Inclinò il viso all’insù, verso quello di
lui. Era così vicina, ora, che era come se si stessero già toccando.
«Non il modo in cui ci siamo conosciuti. Non la vita che abbiamo
condo o. E non il modo in cui ci baceremo.»
Si alzò in punta di piedi, e tu ’a un tra o la bocca di Nina fu sulla
sua. Fu a malapena un bacio: giusto una rapida, sorprendente
pressione delle labbra.
Prima che lei potesse anche solo pensare di spostarsi, lui la
ca urò. Era probabile che stesse sbagliando tu o, ma non riusciva a
preoccuparsene, perché lei era tra le sue braccia, le sue labbra si
p p p
stavano schiudendo, le sue mani gli stavano avvolgendo il collo e,
per amore di Djel, aveva la sua lingua in bocca. Non c’era da
meravigliarsi che i Fjerdiani ci andassero così cauti con il
corteggiamento. Se Ma hias avesse potuto baciare Nina, farsi
mordicchiare l’orecchio da quei suoi dentini ingegnosi, sentire il suo
corpo premuto contro il proprio, ascoltarla eme ere quel piccolo
sospiro in fondo alla gola, perché mai avrebbe dovuto disturbarsi a
fare altro? Perché mai chiunque avrebbe dovuto?
«Ma hias» disse Nina senza fiato, e poi si stavano baciando di
nuovo.
Era dolce come la prima pioggia, rigogliosa come i prati verdi. Le
mani di lui scorrevano sulla schiena di lei, seguivano la sua forma, la
linea della spina dorsale, la curva dei suoi fianchi.
«Ma hias» ripeté lei con più insistenza, spingendolo via.
Lui aprì gli occhi, certo di aver commesso qualche errore terribile.
Nina si stava mordicchiando il labbro inferiore: era rosa e gonfio. Ma
stava sorridendo, e aveva gli occhi che scintillavano. «Ho fa o
qualcosa che non va?»
«Nient’affa o, glorioso babink, solo che…»
Zoya si schiarì la voce. «Sono felice che voi due abbiate trovato un
modo per passare il tempo durante l’a esa.»
L’espressione era di puro disgusto, invece Genya, accanto a lei,
sembrava sul punto di scoppiare di gioia.
«Forse dovresti me ermi giù» suggerì Nina.
La realtà della situazione si abba é su Ma hias: gli sguardi
d’intesa delle guardie, Zoya e Genya sulla soglia, e il fa o che, nel
corso dei suoi baci a Nina Zenik dopo un anno di desiderio represso,
lui l’aveva sollevata da terra fra le sue braccia.
Fu inondato dall’imbarazzo. Che genere di Fjerdiano faceva una
cosa così? Delicatamente, mollò la presa sulle sue formidabili cosce e
la lasciò scivolare a terra.
«Spudorato» sussurrò Nina, e lui si sentì le guance in fiamme.
Zoya alzò gli occhi al cielo. «Stiamo per stringere un accordo con
una coppia di adolescenti innamorati.»
Ma hias sentì un’altra fiammata scaldargli il viso, ma Nina si
limitò a sistemarsi la parrucca e disse: «Quindi acce ate il nostro
p
aiuto?».
Me ere a punto la logistica della no e a venire non portò via
troppo tempo. Dal momento che per lei non sarebbe stato prudente
tornare alla taverna, una volta recuperate le informazioni su dove e
quando salire a bordo della nave di Van Eck, Nina avrebbe mandato
un messaggio all’ambasciata, probabilmente tramite Inej, visto che lo
Spe ro poteva andare e venire senza essere vista. I rifugiati
sarebbero rimasti nascosti il più a lungo possibile; poi Genya e Zoya
li avrebbero condo i al porto.
«Preparatevi a comba ere» disse Ma hias. «Gli Shu staranno
controllando questa zona della ci à. Non hanno ancora avuto
l’audacia di a accare l’ambasciata o la piazza del mercato, ma è solo
questione di tempo.»
«Saremo pronti, Fjerdiano» disse Zoya, nello sguardo l’acciaio di
un comandante nato.
Mentre uscivano dall’ambasciata, Nina si imba é nella
Spaccacuore dagli occhi dorati che aveva partecipato all’imboscata
alla taverna. Era una Shu, con i capelli neri corti, che portava sui
fianchi un paio di so ili asce d’argento. Nina aveva de o a Ma hias
che la ragazza era l’unica Corporalki tra i rifugiati e i diplomatici
Grisha.
«Tamar?» disse Nina esitando. «Se arrivano i Kherguud, non puoi
perme erti di farti ca urare. Una Spaccacuore in mano agli Shu e
so o l’effe o della parem potrebbe far pendere irrimediabilmente la
bilancia a loro favore. Non puoi immaginare il potere di quella
droga.»
«Nessuno mi prenderà viva» disse la ragazza. Fece scivolare fuori
dalla tasca una minuscola pillola di un giallo pallido e la tenne fra le
dita.
«Veleno?»
«Un’invenzione di Genya. Uccide all’istante. Tu i ne abbiamo
una.» La porse a Nina. «Prendila. Solo per precauzione. Io ne ho
un’altra.»
«Nina…» disse Ma hias.
Ma Nina non esitò. Infilò la pillola nella tasca della gonna prima
che Ma hias potesse dire anche solo un’altra parola di protesta.
p p p
Si avviarono fuori dal se ore governativo, tenendosi lontani dalle
bancarelle del mercato e a debita distanza dalla taverna, dove si era
radunata la stadwatch.
Ma hias si diceva di stare a ento, di concentrarsi per riportare
tu i e due sani e salvi al Velo Nero, ma non riusciva a sme ere di
pensarci. La vista di quella pillola gialla gli aveva reso il proprio
incubo più vivido che mai, il ghiaccio del Nord, Nina sperduta e
Ma hias impossibilitato a salvarla.
Aveva incenerito la gioia incontrollata del loro bacio.
Quel bru o sogno era iniziato sulla nave, quando Nina era nella
fase peggiore della sua sofferta ba aglia contro la parem. Quella no e
era stata una furia, il corpo squassato dagli spasmi, i vestiti fradici di
sudore.
“Non sei un brav’uomo” gli aveva gridato addosso. “Sei solo un
bravo soldato, e la cosa triste è che neanche ti rendi conto della
differenza.” Dopo si era sentita avvilita, aveva pianto, era stata male
per la smania, era stata male per il rimorso. Si era scusata. “Non
dicevo sul serio. Lo sai che non dicevo sul serio.” E il momento
dopo: “Se soltanto mi dessi una mano”. I suoi bellissimi occhi erano
colmi di lacrime, e alla luce soffusa delle lanterne la sua carnagione
pallida sembrava brinata d’oro. “Ti prego, Ma hias, mi sento così
male. Aiutami.” Lui avrebbe fa o qualunque cosa, avrebbe venduto
l’anima per alleggerire la sua sofferenza, ma aveva giurato che non le
avrebbe dato dell’altra parem. Aveva fa o la promessa solenne di
impedire a Nina di diventare schiava della droga, e doveva onorarla,
non importava a che prezzo.
“Non posso, amore mio” aveva sussurrato, premendo una pezza
fredda sulla sua fronte. “Non posso procurarti dell’altra parem. Ho
fa o chiudere a chiave la porta dall’esterno.”
La faccia di lei era cambiata in un baleno, gli occhi obliqui. “Allora
bu a giù quella fo uta porta, inutile stronzo.”
“No.”
Lei gli aveva sputato in faccia.
Ore dopo era divenuta silenziosa, ogni energia consumata, triste
ma ragionevole. Si era distesa su un fianco, aveva le palpebre gonfie
e di una bru a tonalità violacea, il respiro veloce e ansimante, e gli
aveva de o: “Parlami”.
“Di cosa?”
“Di qualsiasi cosa. Parlami degli isenulf.”
Non avrebbe dovuto stupirsi che conoscesse gli isenulf, i lupi
bianchi allevati per andare in ba aglia con i drüskelle. Erano più
grossi dei lupi comuni e, sebbene venissero addestrati per obbedire
ai loro padroni, non perdevano mai il tra o selvaggio e indomabile
che li separava dai loro lontani cugini addomesticati.
Era stata dura ripensare a Fjerda, alla vita che si era lasciato alle
spalle una volta per tu e, ma si era sforzato di parlare, impaziente di
trovare un modo qualsiasi per distrarla. «A volte ci sono più lupi che
drüskelle, a volte più drüskelle che lupi. Sono i lupi a decidere con
chi accoppiarsi, e l’allevatrice ha ben poca influenza su di loro. Sono
troppo testardi.»
Nina aveva prima sorriso e poi sussultato per il dolore.
“Continua” aveva sussurrato con gli occhi chiusi.
“È la stessa famiglia che alleva gli isenulf da generazioni. Vivono
molto a nord vicino a Stenrink, l’Anello di Pietra. Quando arriva una
nuova cucciolata, noi andiamo fin là a piedi e in sli a, e ogni
drüskelle si sceglie un cucciolo. Da quel momento in poi, ognuno è
responsabile dell’altro. Si comba e fianco a fianco, si dorme sulle
stesse pellicce, la tua razione di cibo è la razione del tuo lupo. Non è
il tuo animale da compagnia. È un guerriero come te, un fratello.”
Nina rabbrividì, e Ma hias provò una fi a nauseante di
vergogna. In ba aglia contro i Grisha, l’isenulf poteva invertire le
sorti a favore del drüskelle, addestrato com’era a venire in suo aiuto
e a strappare la gola del suo aggressore. Il potere degli Spaccacuore
sembrava non funzionare sugli animali. Una Grisha come Nina,
a accata da un isenulf, sarebbe stata di fa o inerme.
“E se succede qualcosa al lupo?” aveva domandato Nina.
“Un drüskelle può addestrarne un altro, ma è una perdita
terribile.”
“E cosa succede al lupo se è il suo drüskelle a restare ucciso?”
Ma hias rimase in silenzio per un po’. Non voleva pensarci. Trass
era stata la creatura del suo cuore.
“Sono restituiti alla natura selvaggia, ma non saranno mai più
acce ati da nessun branco.” E che cos’era un lupo senza il branco?
Per gli isenulf non era prevista la vita solitaria.
Quand’è che gli altri drüskelle avevano deciso che Ma hias era
morto? Era stato Brum a portare Trass nei ghiacci del Nord? L’idea
del suo lupo lasciato solo, che ululava a Ma hias di tornare e di
portarlo a casa, scavava un buco di dolore nel suo pe o. Era come se
qualcosa, lì, si fosse spezzato e avesse prodo o un eco, lo schiocco
solitario di un ramo troppo carico di neve.
Quasi avesse percepito il suo strazio, Nina aveva aperto gli occhi,
e il loro colore verde pallido, il colore di una gemma che sta per
schiudersi, lo aveva riportato indietro dal ghiaccio. “Come si
chiamava?”
“Trassel.”
Lei aveva piegato le labbra. “Piantagrane.”
“Non lo voleva nessun altro.”
“Era il più piccolo della cucciolata?”
“No” aveva risposto Ma hias. “Il contrario.”
C’era voluta più di una se imana di duro cammino per
raggiungere l’Anello di Pietra. Ma hias non si era goduto il viaggio.
Aveva dodici anni, era nuovo tra i drüskelle, e ogni giorno pensava
di scappare via. Non era l’addestramento a dispiacergli. Le ore
trascorse a correre e ad allenarsi lo aiutavano a tenere a bada la
nostalgia che provava per la sua famiglia. Voleva essere un ufficiale.
Voleva comba ere i Grisha. Voleva la possibilità di rendere onore
alla memoria dei suoi genitori e di sua sorella. I drüskelle gli
avevano dato uno scopo. Ma tu o il resto? Le ba ute nella mensa?
Le sbruffonerie senza fine e le chiacchiere sciocche? Lui non sapeva
cosa farsene. Ce l’aveva una famiglia. Erano tu i seppelliti so o la
terra nera, le loro anime erano salite a Djel. I drüskelle erano
solamente un mezzo per raggiungere un fine.
Brum l’aveva avvertito: non sarebbe mai diventato un vero
drüskelle se non avesse imparato a vedere gli altri ragazzi come dei
fratelli, ma Ma hias non ci credeva. Lui era il più grosso, il più forte,
il più veloce. Non aveva bisogno di essere popolare per
sopravvivere.
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Aveva fa o tu o il viaggio nel retro della sli a, raggomitolato
nelle pellicce, senza parlare con nessuno e, quando finalmente erano
arrivati all’Anello di Pietra, era rimasto indietro, incerto, mentre gli
altri drüskelle schizzavano dentro il fienile, urlando e spingendosi
l’un l’altro per tuffarsi nel mucchio in cui si contorcevano dei cuccioli
bianchi dagli occhi come scaglie di ghiaccio.
A dire il vero lui desiderava disperatamente un cucciolo di lupo,
ma sapeva che potevano non essercene abbastanza per tu i. Spe ava
all’allevatrice stabilire quali erano i ragazzi da abbinare ai cuccioli, e
quali erano destinati a tornare a casa a mani vuote. Molti di loro
stavano già parlando alla donna anziana per provare a convincerla.
“Vede? Io piaccio a questo qua.”
“Guardi! Guardi! L’ho fa a sedere!”
Ma hias sapeva che avrebbe dovuto sforzarsi di comportarsi in
modo amabile, invece si fece a irare dai canili nel retro del fienile. In
un angolo, in una gabbia metallica, colse un lampo giallo che
proveniva da due occhi diffidenti. Si avvicinò e vide un lupo, non
più un cucciolo ma neanche ancora un adulto. Ringhiò mentre lui
andava verso la gabbia, i peli del collo dri i, la testa bassa, i denti
scoperti. Il giovane lupo aveva una lunga cicatrice che gli
a raversava il muso. Gli aveva tagliato in due l’occhio destro e
modificato il colore dell’iride, da azzurro a marrone screziato.
“Non vuole avere a che fare con nessuno” aveva de o
l’allevatrice.
Ma hias non si era accorto che era sbucata dietro di lui. “Ci
vede?”
“Ci vede, ma non gli piacciono le persone.”
“Perché no?”
“Quando era ancora un cucciolo uscì e se ne andò a zonzo.
A raversò due miglia di campi ghiacciati. Un ragazzino lo trovò e lo
ferì con una bo iglia di vetro ro a. Da allora non ha permesso a
nessuno di stargli vicino, e sta diventando troppo vecchio per essere
addestrato. Presto, probabilmente, dovremo sopprimerlo.”
“Me lo lasci prendere.”
“Ti farebbe a pezzi la prima volta che provi a sfamarlo, ragazzo.
Avrai un cucciolo la prossima volta.”
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Non appena la donna se ne andò, Ma hias aprì la gabbia. E
altre anto velocemente il lupo balzò in avanti e lo morse.
Mentre le zanne della belva affondavano nel suo avambraccio, lui
voleva solo urlare. Cadde a terra, il lupo sopra di lui, un dolore mai
provato prima. Ma non emise un lamento. Sostenne lo sguardo fisso
dell’animale, che gli piantava i denti ancora più in profondità nella
carne, mentre il ringhio gli tuonava nel pe o.
Le mascelle del lupo erano forti abbastanza da spezzargli le ossa,
sospe ò, ma lui non lo ò, non urlò, non abbassò gli occhi. “Non ti
farò del male” giurò, “anche se tu ne farai a me.”
Trascorse così un lungo istante, e poi un altro. Sentiva il sangue
infradiciargli la manica. Pensò che avrebbe potuto perdere i sensi.
Poi, lentamente, le mascelle del lupo mollarono la presa.
L’animale si mise a sedere, il muso bianco impregnato del sangue di
Ma hias, la testa inclinata di lato. La belva si lasciò scappare uno
sbuffo.
“Anche per me è un piacere conoscerti” aveva de o lui.
Si rialzò con prudenza, si fasciò il braccio con il fondo della
camicia e poi lui e il suo lupo, entrambi ricoperti di sangue,
raggiunsero il punto in cui gli altri stavano giocando in un
guazzabuglio di cuccioli e uniformi grigie.
“Questo è mio” aveva de o mentre tu i si giravano a guardare, e
la donna anziana scrollò il capo. Poi svenne.
Quella no e, sulla nave, Ma hias aveva raccontato a Nina di
Trassel, della sua natura fiera, della sua cicatrice a zig-zag. Alla fine,
lei si era assopita e lui si era concesso di chiudere gli occhi. Il
ghiaccio stava aspe ando. Il vento assassino era arrivato armato di
denti bianchi, i lupi ululavano in lontananza e Nina gridava, ma
Ma hias non poteva andare da lei.
Il sogno, da allora, si era ripresentato ogni no e. Era difficile non
vederlo come una specie di presagio e, quando Nina con noncuranza
aveva lasciato cadere quella pillola gialla in tasca, era stato come
veder arrivare la tempesta: il ruggito del vento nelle orecchie, il
freddo nelle ossa, la certezza che stava per perderla.
«La parem potrebbe non funzionare più su di te» disse ora.
Avevano finalmente raggiunto il canale deserto dove avevano
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ormeggiato la gondel.
«Cosa?»
«Il tuo potere è cambiato, non è vero?»
Nina vacillò. «Sì.»
«A causa della parem?»
Nina si fermò. «Perché me lo stai chiedendo?»
Non voleva chiederglielo. Volava baciarla ancora. Invece disse:
«Se venissi ca urata, gli Shu potrebbero non riuscire a renderti
schiava della droga».
«Oppure potrebbe essere lo stesso schifo di prima.»
«Quella pillola, il veleno che ti ha dato Tamar…»
Nina posò una mano sul suo braccio. «Non verrò ca urata,
Ma hias.»
«Ma se fossi…»
«Non lo so cosa mi ha fa o la parem. Voglio credere che con il
tempo gli effe i si esauriranno.»
«E se non lo fanno?»
«Devono farlo» disse lei, la fronte aggro ata. «Non posso vivere
così. È come… essere solo la metà di me. Anche se…»
«Anche se?» la incalzò lui.
«La smania di parem non è più così terribile in questo momento»
disse come rendendosene conto lei per prima. «In effe i, è dallo
scontro alla taverna che ci penso a malapena.»
«Usare questo nuovo potere ti ha aiutata?»
«Forse» disse lei con prudenza. «E…» si accigliò. Ma hias udì un
ringhio basso e gorgogliante.
«Era il tuo stomaco?»
«Sì.» Il viso di Nina si aprì in un sorriso abbagliante. «Ma hias,
sono famelica.»
Stava veramente guarendo? O era stato quello che aveva
compiuto alla taverna a farle tornare l’appetito? Non gli importava.
Era solo felice che lei sorridesse a quel modo. La sollevò e la fece
volteggiare nell’aria.
«Finirai per strapparti qualche muscolo se continui così» disse lei
con un altro sorriso raggiante.
«Sei leggera come una piuma.»
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«Allora non voglio vedere quell’uccellino. Ora lasciami andare a
procurarmi una pila di cialde alta due volte te. Io…» Si interruppe, e
dal viso le sparì ogni traccia di colore. «Oh, per tu i i Santi.»
Ma hias si girò a seguire lo sguardo di lei e si ritrovò a fissare se
stesso negli occhi. C’era un manifesto a accato al muro, con un
disegno del suo viso molto poco fedele. Sopra e so o l’illustrazione,
scri a in se e lingue diverse, c’era una sola parola: RICERCATO .
Nina strappò il manifesto dal muro. «Non dovevi essere morto?»
«Qualcuno deve aver chiesto di vedere il corpo di Muzzen prima
che venisse bruciato.» Forse i Fjerdiani. Forse solo qualcuno della
prigione. C’erano altre parole, stampate in fondo, che Ma hias non
sapeva leggere perché erano in Kerch, ma il proprio nome e la cifra li
comprese piu osto bene. «Cinquantamila kruge. Offrono una
ricompensa per la mia ca ura.»
«No» disse Nina. Indicò il testo so o il numerone e tradusse:
«“Ricercato: Ma hias Helvar. Vivo o morto.” Hanno messo una
taglia sulla tua testa».
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JESPER
Jesper trovò il padre nel salo o viola con una tazza di caffè tra le
manone. Aveva ammucchiato i pia i sul vassoio d’argento.
«Non devi rasse are per noi, pa’.»
«Qualcuno deve pur farlo.» Bevve un sorso di caffè. «Siediti,
Jesper.»
Jesper non voleva sedersi. Il suo corpo era invaso da quella
sensazione di prurito inestinguibile. Tu o ciò che voleva fare era
correre dri o al Barile alla velocità con cui le gambe fossero riuscite a
portarlo e scaraventarsi nella prima bisca che avesse incontrato. Se
non avesse pensato che sarebbe stato arrestato prima di arrivare a
metà strada, avrebbe potuto benissimo farlo. Si sede e. Inej aveva
lasciato sul tavolo le fiale e inutilizzate di tonchio chimico. Ne prese
una e si mise a giocherellare col tappo.
Suo padre si appoggiò allo schienale a osservarlo con quei severi
occhi grigi. Alla luce chiara del ma ino, Jesper gli vide ogni ruga e
ogni lentiggine sul viso.
«Non c’è stata nessuna truffa, vero? Quel ragazzo Shu ha mentito
per te. Tu i hanno mentito.»
Jesper intrecciò le mani per impedire loro di muoversi di
continuo. Sarete entrambi contenti di sapere da che parte stai. Jesper non
era certo che fosse vero, ma non aveva altre opzioni. «Ci sono state
tante truffe, ma perlopiù io stavo dalla parte di chi truffava. Tanti
scontri, e perlopiù stavo dalla parte di chi vinceva. Tante partite a
carte.» Abbassò lo sguardo sulle lune e bianche delle unghie. «E
perlopiù stavo dalla parte di chi perdeva.»
«Il prestito che ho fa o e che ti ho dato per i tuoi studi?»
«Mi sono indebitato con la gente sbagliata. Ho perso ai tavoli da
gioco e ho continuato a perdere, per cui ho iniziato a chiedere soldi
in prestito. Pensavo di riuscire a trovare un modo per tirarmene
fuori.»
«Perché non ti sei fermato e basta?»
Jesper aveva voglia di ridere. Aveva supplicato se stesso di
sme ere, aveva urlato a se stesso di sme ere. «Non funziona così.»
C’è una ferita dentro di te. «Non per me. Non so perché.»
Colm si toccò la gobba del naso. Sembrava così stanco,
quest’uomo che poteva lavorare da quando il sole si alzava a quando
calava senza mai lamentarsi. «Non avrei dovuto lasciarti andar via
da casa.»
«Pa’…»
«Sapevo che non eri fa o per la fa oria. Volevo che avessi
qualcosa di meglio.»
«Perché allora non mi hai mandato a Ravka?» disse Jesper prima
di rifle ere.
Colm rovesciò il caffè fuori dalla tazza. «Era escluso.»
«Perché?»
«Perché avrei dovuto mandare mio figlio in un paese straniero a
comba ere e a morire per una guerra altrui?»
Un ricordo affiorò nella testa di Jesper, potente come il calcio di
un mulo. L’uomo impolverato era di nuovo davanti alla porta. C’era
la ragazza con lui, la ragazza che era vissuta perché la madre di
Jesper era morta. L’uomo voleva che Jesper andasse con loro.
“Leoni è una zowa. Anche lei ha il dono” aveva de o. “Ci sono
insegnanti a ovest, oltre la frontiera. Potrebbero addestrarli.”
“Jesper non ce l’ha” aveva de o Colm.
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“Ma sua madre…”
“Lui non ce l’ha. E tu non hai nessun diri o di venire qui.”
“Sei sicuro? È stato messo alla prova?”
“Torna su questa terra e lo prenderò come un invito a piazzarti
una pallo ola tra gli occhi. Va ene e porta questa ragazza via con te.
Qui nessuno ha il dono e qui nessuno lo vuole.”
E aveva sba uto la porta in faccia all’uomo impolverato.
Jesper ricordò che il padre era rimasto in piedi a fare respiri
profondi.
“Cosa volevano, pa’?”
“Niente.»
“Io sono uno zowa?” aveva chiesto Jesper. “Sono un Grisha?”
“Non pronunciare quelle parole in questa casa. Mai più.”
“Ma…”
“È stata quella roba a uccidere tua madre, lo capisci? È stata
quella roba a portarcela via.” La voce di suo padre era feroce, gli
occhi grigi duri come il quarzo. “Non perme erò che porti via anche
te.” Poi aveva abbassato le spalle. E come se le parole gli fossero state
cavate a forza, aveva de o: “Vuoi andare con loro? Puoi farlo. Se è
quello che vuoi. Non mi arrabbierò”.
Jesper aveva dieci anni. Aveva pensato a suo padre da solo nella
fa oria, che ogni giorno tornava a una casa vuota, che ogni sera si
sedeva al tavolo e non c’era nessuno a fargli i bisco i bruciati. “No”
aveva risposto. “Non voglio andare con loro. Voglio restare con te.”
Adesso si alzò dalla sedia, incapace di rimanere fermo più a
lungo, e si mise a fare avanti e indietro nella stanza. Gli sembrava di
non respirare. Non poteva più stare lì. Il cuore gli faceva male. La
testa gli faceva male. Senso di colpa e affe o e risentimento gli si
erano tu i aggrovigliati nello stomaco, e ogni volta che cercava di
sciogliere il nodo, lo stringeva ancora di più. Si vergognava del
casino che aveva combinato, dei problemi che aveva presentato alla
porta di suo padre. Ma era anche arrabbiato. Però come poteva
essere arrabbiato con suo padre? La persona che lo amava di più al
mondo, che aveva lavorato duro per dargli tu o quello che
possedeva, la persona per cui lui non avrebbe esitato un istante a
farsi sparare addosso?
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Questa azione non avrà eco. «Troverò… troverò il modo di
rimediare, pa’. Voglio diventare una persona migliore, un figlio
migliore.»
«Non ti ho cresciuto per vederti diventare un giocatore d’azzardo.
E di certo non ti ho cresciuto per vederti diventare un criminale.»
Jesper si lasciò scappare una risata amara. «Ti voglio bene, pa’. Ti
voglio bene con tu o il mio cuore bugiardo, ladro e inutile, ma sì,
l’hai fa o.»
«Che cosa?» farfugliò Colm.
«Tu mi hai insegnato a mentire.»
«Per tenerti al sicuro.»
Jesper scrollò la testa. «Avevo un dono. Avresti dovuto
perme ermi di usarlo.»
Colm colpì il tavolo con un pugno. «Non è un dono. È una
maledizione. Ti avrebbe ucciso come ha ucciso tua madre.»
Tu a la verità, nient’altro che la verità. Jesper si avvicinò a grandi
passi alla porta. Se non se ne fosse andato da quel posto, sarebbe
schizzato fuori dalla propria pelle. «Sto morendo comunque, pa’.
Solo che lo sto facendo lentamente.»
Jesper non aveva mai visto Kaz conciato così: il naso ro o, le labbra
spaccate, un occhio gonfio e chiuso. Si stava stringendo il fianco in
un modo che gli faceva supporre che almeno una delle costole fosse
ro a, e quando tossì dentro un fazzole o, fece in tempo a vedere del
sangue sul tessuto bianco prima che Kaz se lo rime esse in tasca.
Zoppicava peggio del solito, ma si reggeva ancora in piedi, e Anika e
Pim erano con lui. A quanto pareva, avevano lasciato alla Stecca una
piccola squadra armata fino ai denti nel caso in cui Pekka avesse
sparso ai qua ro venti la notizia dell’insurrezione di Kaz e avesse
deciso di invadere il loro territorio.
«Per tu i i Santi» disse Jesper. «Devo dedurre che sia andato tu o
bene?»
«Più o meno come ci si poteva aspe are.»
Ma hias scrollò la testa in un gesto a metà tra l’ammirazione e
l’incredulità. «Quante vite hai, demjin?»
«Ancora una, spero.»
Kaz era riuscito a liberarsi della giacca e a strapparsi via la
camicia, appoggiandosi al lavandino del bagno.
«Per amore dei Santi, fa i dare una mano» disse Nina.
Kaz afferrò con i denti un lembo di benda e ne staccò un pezzo.
«Non mi serve il vostro aiuto. Andate avanti a lavorare con Colm.»
«Che cos’ha che non va?» borbo ò Nina mentre tornavano nel
salo o a far esercitare Colm sulla sua storia di copertura.
«Quello che ha sempre» disse Jesper. «È Kaz Brekker.»
Nina era stanca, Kaz lo vedeva. Lo erano tu i. Persino lui non aveva
avuto altra scelta che riposare dopo la rissa. Il suo corpo aveva
smesso di ascoltarlo. Aveva oltrepassato un limite invisibile e si era
spento. Non si ricordava di essersi addormentato. Non aveva
sognato. L’a imo prima stava riposando nella camera da le o più
piccola della suite, ripercorrendo i de agli del piano, e l’a imo dopo
si stava svegliando nell’oscurità, terrorizzato, senza sapere dov’era o
come ci era arrivato.
Quando allungò la mano per accendere la lampada, sentì una fi a
intensa di dolore. Era stato straziante sopportare il tocco delicato di
Genya quando lei si era occupata delle sue ferite, forse però avrebbe
dovuto perme ere alla Plasmaforme di guarirlo un po’ di più. Aveva
ancora una lunga no e davanti a sé, e il piano dell’asta era diverso
da qualunque cosa mai azzardata prima.
Da quand’era con gli Scarti Kaz ne aveva viste e sentite di ogni
genere, ma la chiacchierata con Sturmhond nel solarium le aveva
superate tu e.
Avevano discusso i de agli dell’asta, i contributi necessari al
piano da parte di Genya, le previsioni di Kaz sull’andamento delle
offerte e sui loro rilanci. Kaz voleva che Sturmhond si ge asse nella
mischia arrivati a cinquanta milioni, e sospe ava che gli Shu
avrebbero contra accato rilanciando di dieci milioni o anche di più.
Kaz doveva sapere se i Ravkiani fossero disposti ad assumersi
l’impegno. Dopo che l’asta sarebbe stata annunciata, sarebbero stati
costre i a procedere. Non sarebbe stato possibile fare marcia
indietro.
Il corsaro era stato cauto, premeva per sapere com’erano stati
assoldati per effe uare il colpo alla Corte di Ghiaccio, così come per
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sapere com’erano riusciti a trovare e a liberare Kuwei. Kaz gli aveva
dato informazioni a sufficienza per convincere il corsaro che Kuwei
era davvero il figlio di Bo Yul-Bayur. Ma non aveva nessun interesse
a rivelare la meccanica dei loro piani o le reali capacità della sua
banda. Per quello che ne sapeva, Sturmhond poteva avere qualcosa
che lui un giorno avrebbe voluto rubargli.
Alla fine, Sturmhond si era raddrizzato i risvolti della redingote
turchese e aveva de o: “Be’, Brekker, mi pare ovvio che lei traffica
solamente in mezze verità e bugie palesi, pertanto è chiaramente
l’uomo giusto per questo lavoro”.
“C’è solo una cosa” aveva de o Kaz, scrutando il naso ro o del
corsaro e i capelli rossicci. “Prima di prenderci per mano e saltare
insieme giù da una scogliera, vorrei sapere esa amente con chi sto
correndo.”
Sturmhond aveva sollevato un sopracciglio. “Non abbiamo fa o
un viaggio insieme e non ci siamo scambiati i vestiti, però sono
dell’avviso che le nostre presentazioni siano state abbastanza
esaurienti.”
“Chi è lei veramente, corsaro?”
“È una domanda esistenziale?”
“Nessun pirata vero parla nel modo in cui parla lei.”
“Questo denota scarsa apertura mentale da parte sua.”
«“So che aspe o ha il figlio di un ricco mercante, e non credo che
un re manderebbe un corsaro qualsiasi a gestire delle questioni così
sensibili.”
“Qualsiasi” lo aveva rintuzzato Sturmhond. “È davvero così poco
ferrato in diplomazia?”
“So qual è il mio modo di concludere un accordo. Chi è lei? O
arriviamo alla verità o la mia banda si chiama fuori.”
“È così certo che sarebbe possibile, Brekker? Ormai sono a
conoscenza dei suoi piani. Sono scortato da due delle Grisha più
leggendarie al mondo, e anch’io non me la cavo male in un
comba imento.”
“E io sono il ra o dei canali che ha portato Kuwei Yul-Bo fuori
dalla Corte di Ghiaccio, vivo. Vediamo a quanto ammonta il suo
amore per il rischio.” La sua banda non aveva divise o titoli per
p p
competere con i Ravkiani, ma Kaz sapeva su chi avrebbe puntato i
propri soldi se gliene fossero rimasti ancora.
Sturmhond aveva intrecciato le mani dietro la schiena e Kaz aveva
visto un imperce ibile cambiamento nel suo a eggiamento. Gli
occhi avevano perso il loro scintillio confuso e assunto
un’autorevolezza sorprendente. Alla faccia del corsaro qualsiasi.
“Diciamo” aveva de o Sturmhond, con lo sguardo puntato sulle
strade di Ke erdam so ostanti, “in via del tu o ipotetica,
ovviamente, che il re di Ravka ha una rete di spionaggio che si
estende in profondità fino a Kerch, Fjerda e lo Shu Han, e che sa
esa amente quanto potrebbe essere importante Kuwei Yul-Bo per il
futuro del suo paese. Diciamo che il re non si fida di nessuno, per
negoziare questioni del genere, se non di se stesso, ma il re sa anche
quanto sia pericoloso viaggiare so o il proprio nome dal momento
che il suo paese è in tumulto, lui non ha eredi e la successione dei
Lantsov non è assicurata in alcun modo.”
“Per cui, in via del tu o ipotetica” aveva de o Kaz, “bisognerebbe
rivolgersi a lei chiamandola Vostra Altezza.”
“E con una varietà di nomi più coloriti. In via del tu o ipotetica.”
Il corsaro gli aveva scoccato un’occhiata indagatrice. “Come faceva a
sapere che non ero chi sostenevo di essere, signor Brekker?”
Kaz aveva scrollato le spalle. “Lei parla il Kerch da madrelingua –
un ricco madrelingua. Non parla come qualcuno che è cresciuto
insieme a marinai e ladri di strada.”
Il corsaro si era voltato leggermente e aveva prestato a Kaz la
massima a enzione. La leggerezza era sparita, e ora aveva l’aspe o
di un uomo capace di dare ordini a un esercito. “Signor Brekker”
aveva de o. “Kaz, se mi consente. Mi trovo in una posizione
vulnerabile. Sono un monarca a capo di un paese le cui casse sono
vuote e che è minacciato da nemici su tu i i fronti. Ci sono anche
delle forze, interne al mio paese, che potrebbero cogliere al volo ogni
mia assenza come un’opportunità per candidarsi al trono.”
“Quindi mi sta dicendo che lei sarebbe un ostaggio eccellente.”
“Temo che il prezzo del mio risca o sarebbe considerevolmente
più basso della taglia che Kuwei ha sulla testa. Il che è un duro colpo
per la mia autostima.”
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“Non sembra che ne stia soffrendo” aveva de o Kaz.
“Sturmhond è un’invenzione che risale a quand’ero giovane, e la
sua reputazione mi fa ancora comodo. Non posso fare offerte per
Kuwei Yul-Bo come re di Ravka. Spero che il suo piano vada come
lei pensa che andrà. Ma, se così non fosse, la perdita di un trofeo
simile sarà vista come un errore diplomatico e strategico umiliante.
Parteciperò all’asta come Sturmhond o non parteciperò affa o. Se
questo è un problema…”
Kaz aveva appoggiato le mani sul suo bastone. “Finché non prova
a imbrogliare me, per quel che mi riguarda lei può partecipare anche
come Fata Regina di Istamere.”
“È bello avere più opzioni disponibili.” Sturmhond era tornato a
guardare la ci à. “C’è qualche possibilità che funzioni, signor
Brekker? O sto me endo a repentaglio il destino di Ravka e i Grisha
di tu o il mondo basandomi sull’onore e il talento di un moccioso
con la lingua lunga?”
“Un po’ tu e e due le cose” aveva de o Kaz. “Lei sta me endo a
repentaglio una nazione. Noi stiamo me endo a repentaglio le
nostre vite. A me sembra uno scambio equo.”
Il re di Ravka gli aveva teso la mano. “Un pa o è un pa o?”
“Un pa o è un pa o.” E si erano stre i la mano.
“Se solo si potessero firmare i tra ati così velocemente” aveva
de o Sturmhond, e il contegno da corsaro disinvolto era tornato al
suo posto come una maschera acquistata sullo Stave dell’Ovest. “Mi
andrò a fare un bicchiere e un bagno. C’è un limite al fango e allo
squallore che si possono sopportare. Come disse il ribelle al principe,
fa male alla costituzione.” Si era spazzolato via dal bavero un
granello invisibile di polvere ed era uscito passeggiando dal
solarium. Adesso Kaz si lisciò i capelli e si infilò la giacca. Era dura
da credersi, che un umile ra o dei canali avesse stre o un accordo
con un re. Pensò a quel naso ro o che dava al corsaro l’aspe o di
qualcuno che era passato per un discreto numero di risse. Per quello
che ne sapeva Kaz, ci era passato veramente, ma doveva essere stato
modificato comunque per camuffare i suoi lineamenti. Difficile
tenere un profilo basso quando la tua faccia era sulle banconote. Alla
fine, monarchia o no, Sturmhond era solamente un grandissimo
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truffatore, e tu o quello che contava era che lui e la sua gente
facessero la loro parte.
Controllò l’orologio – mezzano e passata, più tardi di quel che
sperava – e andò a cercare Nina. Fu sorpreso di vedere Jesper che lo
aspe ava nel corridoio.
«Cosa c’è?» disse Kaz, e immediatamente fece il calcolo a mente di
tu e le cose che potevano essere andate storte durante il suo
sonnellino.
«Niente» rispose Jesper. «O niente più del solito.»
«Allora che cosa vuoi?»
Jesper deglutì e disse: «Ma hias ha dato a te la parem che restava,
vero?».
«E con questo?»
«Se succede qualcosa… gli Shu saranno all’asta, forse anche i
Kherguud. La posta in gioco è troppo alta, questa volta. Non posso
deludere mio padre un’altra volta. Mi serve la parem, come misura di
sicurezza.»
Kaz lo scrutò per un lungo istante. «No.»
«Perché diavolo no?»
Una domanda sensata. Dare a Jesper la parem sarebbe stata una
mossa intelligente, una mossa pragmatica.
«Per tuo padre sei più importante tu di qualche lo o di terra.»
«Ma…»
«Non lascerò che tu faccia di te un martire, Jes. Se uno di noi cade,
cadiamo tu i.»
«Si tra a di una mia decisione.»
«E invece sarò io a prenderla.» Kaz si diresse verso il salo o. Non
aveva intenzione di discutere con Jesper, specialmente perché non
sapeva fino in fondo perché avesse de o subito di no.
«Chi è Jordie?»
Kaz si fermò. Sapeva che quella domanda sarebbe arrivata, e
tu avia era ancora difficile sentir pronunciare il nome di suo fratello.
«Qualcuno di cui mi fidavo.» Si guardò alle spalle e incrociò gli occhi
grigi di Jesper. «Qualcuno che non volevo perdere.»
Kaz trovò Nina e Ma hias addormentati sulla poltrona nel salo o
viola. Perché mai i due componenti più grandi della banda avessero
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scelto il posto più piccolo che c’era per dormirci sopra, lui proprio
non lo capiva. Diede a Nina un colpe o con il bastone. Senza aprire
gli occhi, lei lo scacciò via.
«È ora di alzarsi.»
«Vai via» disse lei, seppellendo la testa nel pe o di Ma hias.
«Andiamo, Zenik. I morti possono aspe are, io no.»
Alla fine Nina si alzò e si infilò gli stivali. Al posto della kefta
rossa si era messa la giacca e i pantaloni che aveva addosso durante
la disavventura ai silos della Dolce Vena. Ma hias osservò ogni sua
mossa, ma non chiese di andare con loro. Sapeva che la propria
presenza avrebbe solo aumentato il rischio di dare nell’occhio.
Inej apparve sulla soglia, e insieme puntarono al montacarichi in
silenzio. Tra le strade di Ke erdam era in vigore il coprifuoco, e non
c’era modo di evitarlo. Si sarebbero affidati alla fortuna e all’abilità di
Inej nel perlustrare il cammino davanti a loro per evitare la
stadwatch di pa uglia.
Uscirono dal retro dell’albergo e si diressero verso il quartiere
industriale. Procedevano lentamente, un percorso tortuoso intorno ai
posti di blocco, pieno di interruzioni e di ripartenze mentre Inej
spariva e riappariva per segnalare loro di aspe are o per farli
deviare con uno sca o della mano prima di sparire di nuovo.
Alla fine raggiunsero l’obitorio, un’anonima stru ura in pietra
grigia al confine del quartiere industriale, dirimpe o a un giardino
di cui nessuno si prendeva cura da diverso tempo. Soltanto i
cadaveri delle persone abbienti venivano portati lì per essere
preparati al trasporto e alla sepoltura fuori ci à. Non era il
miserabile accumulo umano della Chia a del Mietitore, tu avia Kaz
si sentiva come se stesse affondando dentro un incubo. Ripensò
all’eco della voce di Inej sulle piastrelle bianche. Vai avanti.
L’obitorio era deserto, la pesante porta di ferro ben sigillata. Forzò
la serratura e si girò una volta a guardare dietro di sé le ombre
mutevoli del giardino pieno di erbacce. Non riusciva a vedere Inej
ma sapeva che era lì. Avrebbe controllato l’ingresso finché loro non
avessero concluso quest’impresa disgustosa.
Era freddo dentro, illuminato solo da una lanterna che eme eva la
tipica luce blu associata per convenzione ai cadaveri. C’era una
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stanza adibita a laboratorio per le analisi e oltre a quella una grande
camera ghiacciata rivestita di casse i grandi abbastanza da
contenere i corpi. Il posto puzzava di morte.
Kaz pensò al ba ito del cuore che pulsava so o la gola di Inej, il
calore della pelle di lei sulle sue labbra. Cercò di liberarsi di quel
pensiero. Non voleva che il ricordo venisse contaminato da questo
luogo di putrefazione.
Lui non era mai stato capace di superare l’orrore di quella no e
nel porto di Ke erdam, il ricordo del cadavere di suo fratello stre o
fra le braccia mentre diceva a se stesso di scalciare un po’ più forte,
di prendere un altro respiro, di restare a galla, di restare vivo. Era
riuscito ad arrivare a riva, e si era consacrato alla vende a che
doveva a sé e al fratello. Però l’incubo si rifiutava di sparire.
All’inizio, Kaz era convinto che con il tempo le cose sarebbero
migliorate. Avrebbe smesso di pensarci due volte prima di stringere
una mano, o quando era costre o a un corpo a corpo. Invece, le cose
erano peggiorate al punto che poteva a malapena sfiorare qualcuno
per strada senza tornare di nuovo al porto. Si ritrovava sulla Chia a
del Mietitore e c’era morte ovunque a orno a lui. Stava di nuovo
scalciando nell’acqua, aggrappato alla carne gonfia e scivolosa di
Jordie, troppo terrorizzato di affogare per lasciarla andare.
La situazione era diventata pericolosa. Una volta Gorka era
troppo ubriaco per restare al Paradiso Blu, e Kaz e Teiera avevano
dovuto portarlo a casa. Lo avevano trasportato di peso per sei isolati:
il corpo di Gorka franava avanti e indietro, cadendo addosso a Kaz
in una morsa di pelle e tanfo per poi ricadere su Teiera e liberare Kaz
per qualche a imo – anche se lui continuava a sentire il braccio
peloso dell’uomo sfregargli la nuca.
Più tardi, Teiera aveva trovato Kaz rannicchiato in un gabine o,
tremante e ricoperto di sudore. Lui aveva dato la colpa a
un’intossicazione alimentare, con i denti che gli ba evano e il piede
incastrato contro la porta per tenere Teiera fuori dal bagno. Non
poteva essere toccato di nuovo o avrebbe perso la testa del tu o.
Il giorno dopo si era comprato il primo paio di guanti: neri, di
scarsa qualità, che stingevano tu e le volte che si bagnavano. La
debolezza era letale nel Barile. La gente sentiva che ce l’avevi
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addosso dall’odore, come il sangue, e se lui era davvero intenzionato
a me ere Pekka Rollins in ginocchio, non poteva più perme ersi di
passare altre no i a tremare sul pavimento di un cesso.
Kaz non rispondeva mai alle domande sui guanti e non
rispondeva mai alle provocazioni. Li indossava e basta, giorno dopo
giorno, e se li toglieva solo quand’era da solo. A se stesso diceva che
era un provvedimento temporaneo. Indossare i guanti non gli aveva
impedito di padroneggiare da capo ogni gioco di prestigio, di
imparare a mescolare le carte e di lavorare con i mazzi persino con
più destrezza che a mani nude. I guanti respingevano l’acqua, gli
impedivano di annegare non appena i ricordi di quella no e
minacciavano di trascinarlo so o. Quando se li infilava, si sentiva
come se si stesse armando, ed erano meglio di un pugnale o di una
pistola. Finché non incontrò Imogen.
Lui aveva qua ordici anni, non era ancora il vicecomandante di
Per Haskell, ma si stava facendo un nome a ogni scontro e a ogni
truffa. Imogen era nuova nel Barile, aveva un anno più di lui. Aveva
fa o parte di una banda a Zierfoort, un giro losco di poco conto che,
così diceva lei, l’aveva annoiata. Da quando era arrivata a Ke erdam
si era aggirata per gli Stave, facendo qualche lavore o e cercando di
entrare a far parte di una banda del Barile. Quando Kaz la vide per
la prima volta, lei stava spaccando una bo iglia sulla testa di un
Becco di Rasoio che aveva allungato un po’ troppo le mani. Poi era
spuntata fuori di nuovo quando Per Haskell lo aveva mandato a
gestire le scommesse dei comba imenti a premi primaverili. Lei
aveva le lentiggini e una fessura in mezzo ai denti davanti, e sapeva
cavarsela quando c’era da fare a pugni.
Una no e, mentre erano in piedi accanto al ring ormai deserto a
calcolare l’incasso della giornata, gli aveva posato la mano sulla
manica della giacca e, quando lui aveva sollevato lo sguardo, lei
aveva sorriso lentamente, a labbra chiuse, in modo che lui non le
vedesse la fessura tra i denti.
Più tardi, sdraiato sul materasso bitorzoluto nella stanza che
aveva in condivisione alla Stecca, Kaz aveva fissato il soffi o che
perdeva e aveva ripensato al modo in cui Imogen gli aveva sorriso, e
a come i pantaloni le scivolavano sui fianchi. Quando camminava
p
sterzava leggermente, come se seguisse sempre una traie oria
obliqua. Gli piaceva quel movimento. Gli piaceva quella ragazza.
I corpi non costituivano un mistero nel Barile. Lo spazio era
ristre o e la gente si procurava il piacere dove lo trovava. Gli altri
ragazzi degli Scarti parlavano solo delle loro conquiste. Kaz non
diceva niente. Per fortuna, lui non diceva mai niente di niente, per
cui la coerenza giocava a suo favore. Però sapeva che cosa avrebbe
dovuto dire, le cose che avrebbe dovuto desiderare. E le desiderava
davvero quelle cose, a tra i, a sprazzi: una ragazza che a raversava
la strada dentro un vestito blu cobalto che le lasciava scoperta una
spalla, una ballerina che guizzava come una fiamma in uno
spe acolo sullo Stave dell’Est, Imogen che rideva come se lui avesse
de o la cosa più divertente del mondo quando non aveva de o
granché.
Aveva piegato le dita dentro i guanti, ascoltando il russare dei
suoi compagni di stanza. “Posso farcela” si era de o. Lui era più
forte di questa nausea, più forte dell’a razione dell’acqua. Quando
aveva dovuto imparare come funzionavano le bische, l’aveva fa o.
Quando aveva deciso di studiare economia, aveva imparato anche
quella. Kaz aveva pensato al sorriso di Imogen, fa o a labbra serrate,
e aveva preso una decisione. Avrebbe superato questa debolezza allo
stesso modo in cui aveva superato qualunque cosa lungo il suo
cammino.
Aveva iniziato con cose da poco, gesti a cui nessuno avrebbe fa o
caso. Una partita a Tre Uomo Mora giocata senza guanti. Una no e
passata con i guanti so o il cuscino. Poi, quando Per Haskell mandò
lui e Teiera a dare una lezione a un a accabrighe di bassa lega di
nome Beni che gli doveva dei soldi, Kaz aveva aspe ato che lo
incastrassero in un vicolo e, quando Teiera aveva de o a Kaz di
tenere Beni per le braccia, lui si era sfilato i guanti, giusto per fare
una verifica, qualcosa di semplice.
Non appena era entrato in conta o con i polsi di Beni, un’ondata
di repulsione lo aveva travolto. Ma era preparato e l’aveva
sopportato, ignorando il sudore gelido che lo ricoprì mentre
agganciava i gomiti di Beni dietro la schiena. Kaz si era costre o a
stringere il corpo di Ben contro il proprio mentre Teiera gli faceva
g p p p g
l’elenco dei termini dell’accordo che aveva stre o con Per Haskell,
so olineando ogni frase con un colpo in faccia o in pancia.
“Va tu o bene” si diceva Kaz. “La gestisco.” Poi l’acqua si era
alzata.
Questa volta l’onda era stata alta come le guglie della Chiesa del
Bara o; l’aveva afferrato e l’aveva trascinato giù, un peso da cui non
poteva fuggire. Aveva Jordie fra le braccia, il corpo marcio del
fratello dal ventre di pesce lo avvinghiava. Kaz l’aveva spinto via,
rantolando per respirare.
Subito dopo si era ritrovato appoggiato a un muro di ma oni.
Teiera gli stava urlando addosso mentre Beni se la dava a gambe. Il
cielo era grigio sopra di lui, e il tanfo del vicolo gli riempiva le narici:
era il puzzo della cenere e delle verdure marce dentro la spazzatura,
insieme all’odore intenso del piscio stantio.
“Cosa diavolo hai combinato, Brekker?” aveva strillato Teiera, con
la faccia a chiazze per la furia, il naso che gli fischiava in un modo
che avrebbe dovuto essere divertente. “L’hai lasciato andare! E se
avesse avuto un coltello addosso?”
Kaz aveva registrato le sue parole solo vagamente. Beni l’aveva a
malapena sfiorato, ma chissà come, senza guanti, era tu o molto
peggio. La pressione della pelle, la cedevolezza di un altro corpo
umano così vicino al suo.
“Mi stai almeno ascoltando, piccolo e miserabile stronzo?” Teiera
l’aveva agguantato per la camicia e le nocche delle mani gli avevano
sfiorato il collo, spedendo un’altra ondata di nausea a invaderlo. Poi
aveva scrollato Kaz fino a fargli ba ere i denti.
Teiera gli aveva dato la razione di bo e che aveva in programma
per Beni e l’aveva mollato nel vicolo, sanguinante. Non potevi
rammollirti o distrarti, non sul lavoro, non quando uno della tua
banda faceva affidamento su di te. Kaz aveva ritirato le mani dentro
le maniche e non aveva mai tirato neanche un pugno.
Ci aveva messo quasi un’ora per trascinarsi fuori da quel vicolo, e
se imane per riparare il danno infli o alla sua reputazione. Ogni
scivolone nel Barile poteva condurti a un crollo rovinoso. Aveva
trovato Beni e gli aveva fa o rimpiangere di non essere stato punito
da Teiera. Si era rimesso i guanti e non se li era più tolti. Era
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diventato il doppio più spietato e aveva picchiato il doppio più duro.
Aveva smesso di preoccuparsi di apparire normale, lasciava che le
persone vedessero una scintilla della follia che c’era dentro di lui e
che immaginassero il resto. A chi si avvicinava troppo, tirava un
pugno. A chi osava posargli una mano addosso spezzava il polso,
due costole, la mandibola. “Manisporche” lo chiamavano. Il cane
rabbioso di Haskell. Il furore non sme eva di bruciargli dentro e lui
aveva imparato a disprezzare le persone che si lamentavano, che
imploravano, che proclamavano di aver sofferto. “Lascia che ti
insegni com’è fa o il dolore” gli diceva lui, e poi dipingeva
un’immagine a suon di pugni.
Fuori dal ring, la volta dopo che Imogen aveva posato la mano
sulla sua manica, Kaz aveva tenuto gli occhi fissi in quelli di lei
finché quella bocca chiusa non aveva smesso di sorridere. La ragazza
aveva lasciato cadere la mano. Aveva guardato da un’altra parte. Kaz
era andato avanti a contare i soldi.
Ora ba é il bastone sul pavimento dell’obitorio.
«Facciamola finita» disse a Nina, e udì la propria voce echeggiare
troppo forte sulla pietra fredda. Voleva essere fuori da questo luogo
il prima possibile.
Si misero al lavoro sui due lati opposti della stanza, scorrendo le
date sui casse i, alla ricerca di un cadavere che si trovasse nel giusto
stato di decomposizione. Al solo pensiero, la tensione gli salì in
pe o. Come un urlo in crescendo. Ma era stata la sua mente a
partorire quel piano, pur sapendo che l’avrebbe condo o in quel
posto.
«Qui» disse Nina.
Kaz a raversò la stanza per raggiungerla. Rimasero in piedi
davanti al casse o, nessuno di loro si mosse ad aprirlo. Kaz sapeva
che entrambi avevano visto cadaveri a bizzeffe. Non potevi vivere
per le strade del Barile o fare il soldato nel Secondo Esercito e
pensare di non imba erti nella morte. Ma questo era diverso. Questa
era putrefazione.
«Siamo sicuri che sia una buona idea?» disse Nina.
«Sono disposto a valutarne delle migliori» disse Kaz.
Lei bu ò fuori il fiato e poi sollevò il lenzuolo che copriva il
corpo. A Kaz venne in mente un serpente che cambia pelle.
L’uomo era di mezza età, le labbra già nere e marce.
Da ragazzino, Kaz tra eneva il respiro tu e le volte che passava
davanti a un cimitero, convinto che se avesse aperto la bocca
qualcosa di orribile si sarebbe intrufolato all’interno. La stanza si
inclinò. Kaz cercò di respirare a fondo, sforzandosi di tornare al
presente. Distese le dita dentro i guanti, sentì la pelle tirare, si
aggrappò al peso del bastone stre o in mano.
«Chissà com’è morto» bisbigliò Nina mentre scrutava le pieghe
grigie sulla faccia del cadavere.
«Da solo» disse Kaz, guardandogli la punta delle dita. Qualcosa le
aveva rosicchiate. I ra i dovevano averlo trovato per primi. Oppure
uno dei suoi animali domestici. Kaz estrasse dalla tasca il contenitore
di vetro sigillato che aveva prelevato dalla scatola di Genya. «Prendi
quello che ti serve.»
Il sole era appena sorto quando Pim, passando per il retro, guidò
Wylan e Colm fuori dall’albergo e a raverso una serie di svolte
confuse li condusse fino alla piazza di fronte alla Borsa.
Normalmente il panificio sulla Beurstraat avrebbe aperto a quell’ora
per prepararsi a servire gli agenti e i mercanti di passaggio dire i
alla Borsa. Ma l’asta aveva scombussolato le a ività quotidiane e il
fornaio aveva chiuso il negozio, forse nella speranza di procurarsi un
posto a sedere e assistere di persona allo spe acolo.
Rimasero in piedi davanti alla porta nella piazza deserta per un
momento penosamente lungo mentre Pim armeggiava con la
serratura. Wylan realizzò che si era abituato alla destrezza con la
quale Kaz riusciva a scassinare ed entrare. La porta si aprì con uno
scampanellio troppo forte e subito dopo furono dentro.
«Nessun rimpianto» disse Pim, e svanì uscendo prima che Wylan
potesse replicare.
I ripiani del panificio erano vuoti, ma il profumo del pane e dello
zucchero era rimasto nell’aria. Wylan e Colm si sistemarono sul
pavimento con la schiena contro gli scaffali, cercando di me ersi
comodi. Kaz aveva dato loro istruzioni precise, e Wylan non aveva
alcuna intenzione di ignorarle. Johannus Rietveld non poteva più
farsi vedere in ci à, e Wylan sapeva benissimo cosa gli avrebbe fa o
suo padre se lo avesse trovato in giro per le strade di Ke erdam.
Rimasero seduti in silenzio per ore. Colm si appisolò. Wylan
canticchiò tra sé e sé un motivo che aveva in testa già da un po’.
Avrebbe avuto bisogno delle percussioni, qualcosa con un rat-a-tat-
tat che ricordava gli spari.
Sbirciò con cautela fuori dalla finestra e vide un gruppe o di
persone dirigersi verso la Chiesa del Bara o, gli storni prendere il
volo nella piazza, e là, a sole poche iarde di distanza, l’ingresso della
Borsa. Non aveva bisogno di saper leggere le parole incise nella
pietra sopra l’arco. Aveva udito suo padre ripeterle un’infinità di
volte. ENJENT, VOORHENT, ALMHENT . Industriosità, Integrità,
Prosperità. Jan Van Eck ne aveva gestite piu osto bene due su tre.
Wylan non si accorse che Colm era sveglio finché non gli disse:
«Che cosa ti ha spinto a mentire per mio figlio, quel giorno, nella
tomba?».
Wylan si rimise giù, sul pavimento. Scelse le parole con
a enzione. «So bene cosa vuol dire sbagliare.»
Colm sospirò. «Jesper fa un sacco di cose sbagliate. È incosciente,
sciocco e capace di scherzare quando non è il caso, ma…» Wylan
a ese. «Quello che sto cercando di dire è che mi dà un mucchio di
preoccupazioni, un mucchio grosso. Ma ne vale la pena.»
«Io…»
«Ed è colpa mia se lui è fa o così. Stavo cercando di proteggerlo,
ma forse l’ho zavorrato con qualcosa di più grande di tu i i pericoli
appostati là fuori.» Anche nella debole luce ma utina che filtrava
dalla finestra del panificio, Wylan poteva vedere quanto fosse stanco
Colm. «Ho fa o dei grossi errori.»
Wylan tracciò una riga sul pavimento con il dito. «Lei ha dato a
suo figlio qualcuno da cui tornare. A prescindere da quel che Jesper
ha combinato o quel che è andato storto. Secondo me è roba più
grossa dei grossi errori.»
«Vedi? Ecco perché tu gli piaci. Lo so, lo so: non sono affari miei, e
chissà se lui sarebbe una buona cosa per te. C’è il caso che ti faccia
venire dieci tipi diversi di mal di testa. Però sono convinto che tu
saresti una buona cosa per lui.»
Il viso di Wylan si infiammò. Era evidente quanto Colm volesse
bene a Jesper, lui l’aveva potuto vedere in ogni suo gesto. Il fa o che
p p g g
pensasse che lui era una buona cosa per suo figlio voleva dire tanto.
Dalla porta sul retro sopraggiunse un rumore, ed entrambi si
immobilizzarono.
Wylan si alzò, il cuore in gola. «Si ricordi» sussurrò a Colm.
«Rimanga nascosto.»
Si fece strada tra i forni verso il retro del panificio. I profumi erano
più forti qui, l’oscurità più fi a, ma la stanza era vuota. Un falso
allarme.
«Non è…»
La porta di servizio si spalancò. Delle mani ghermirono Wylan da
dietro. Gli tirarono indietro la testa, gli fecero aprire la bocca a forza
e vi ficcarono dentro uno straccio. Poi gli infilarono un sacco in testa.
«Ehi, giovane mercante» disse una voce profonda che non
riconobbe. «Pronto per ricongiungerti con il tuo papino?»
Gli torsero le braccia dietro la schiena e lo trascinarono fuori dalla
porta di servizio del panificio. Wylan inciampò, a malapena in grado
di reggersi in piedi, impossibilitato a vedere e a orientarsi. Cadde, le
ginocchia urtarono dolorosamente sul selciato, e venne tirato su.
«Non farti portare in spalla, giovane mercante. Non siamo pagati
per questo.»
«Da questa parte» disse uno degli altri, una ragazza. «Pekka è sul
lato a sud della ca edrale.»
«Aspe ate» disse un’altra voce. «Chi avete lì?»
Il tono era invadente. “Stadwatch” pensò Wylan.
«Qualcuno che il Consigliere Van Eck sarà molto felice di vedere.»
«Fa parte della banda di Kaz Brekker?»
«Vai, corri da bravo soldato, e digli che i Centesimi di Leone
hanno un regalo che lo aspe a nella cappella degli armamenti.»
Wylan sentì la folla poco lontano. Erano vicino alla chiesa? Un
istante dopo fu spinto brutalmente in avanti e i rumori cambiarono.
Erano all’interno. L’aria era più fredda, la luce più fioca. Fu
trascinato su per un’altra rampa di scale, gli stinchi gli sba erono
contro i gradini, e poi fu spinto su una sedia, le mani legate dietro la
schiena.
Udì dei passi che salivano le scale, il rumore di una porta che si
apriva.
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«Lo abbiamo preso» disse la stessa voce profonda di prima.
«Dove?» Il cuore di Wylan perse un colpo. Diciamocelo, Wylan. Un
bambino con la metà dei tuoi anni sa leggerlo senza sforzo. Aveva creduto
di essere pronto per questo.
«Brekker lo aveva nascosto in un panificio a pochi isolati da qui.»
«Come avete fa o a trovarlo?»
«Pekka ci ha mandati a perlustrare la zona. Se lo immaginava che
Brekker avrebbe fa o uno dei suoi numeri durante l’asta.»
«Non c’è dubbio che intenda umiliarmi» disse Jan Van Eck.
Gli sfilarono via il sacco dalla testa e Wylan guardò in faccia suo
padre.
Van Eck scrollò il capo. «Tu e le volte penso che tu non possa
deludermi oltre e mi dimostri il contrario.»
Si trovavano in una cappelle a sormontata da una cupola. I
dipinti a olio sulla parete raffiguravano scene di ba aglia e
ammucchiate di armamenti. La cappella doveva essere stata donata
alla chiesa da una famiglia di produ ori d’armi.
Nel corso degli ultimi giorni Wylan aveva studiato la pianta della
Chiesa del Bara o, aveva mappato le nicchie del te o e le alcove
insieme a Inej, aveva schizzato i bozze i della ca edrale e delle
lunghe navate a forma di dita della mano di Ghezen. Sapeva
esa amente dov’era: una delle cappelle all’estremità di un mignolo
di Ghezen. Il pavimento era ricoperto da un tappeto, l’unica porta
che c’era dava sulle scale e le uniche finestre si aprivano sul te o.
Anche se non fosse stato imbavagliato, nessuno a parte i dipinti
sarebbe stato in grado di sentirlo chiamare aiuto. C’erano due tizi in
piedi dietro a Van Eck: una ragazza con i pantaloni a strisce, i capelli
gialli rasati su metà testa, e un ragazzo tarchiato con i pantaloni
scozzesi e le bretelle. Entrambi indossavano la fascia viola sul
braccio, a segnalare che agivano per conto della stadwatch. Entrambi
avevano il tatuaggio dei Centesimi di Leone.
Il ragazzo fece un gran sorriso. «Vuole che vada a chiamare
Pekka?» domandò a Van Eck.
«Non serve. Voglio che tenga d’occhio i preparativi per l’asta. E
questa è una cosa che preferirei gestire da solo.» Van Eck si chinò.
«Ascolta, ragazzo. Lo Spe ro è stato visto insieme a un membro del
g p
Triumvirato Grisha. So che Brekker sta cospirando con i Ravkiani.
Malgrado i tuoi numerosi limiti, sei ancora sangue del mio sangue.
Dimmi che cosa ha archite ato e io vedrò di occuparmi di te. Avrai
un sussidio. Potrai vivere da qualche parte nell’agio. Sto per toglierti
il bavaglio. Se urli, lascerò che gli amici di Pekka ti facciano quello
che vogliono, ci siamo intesi?»
Wylan fece segno di sì con la testa. Suo padre gli tolse lo straccio
dalla bocca.
Wylan si passò la lingua sulle labbra e sputò in faccia al padre.
Van Eck estrasse dalla tasca un fazzole o con le proprie iniziali
ricamate sopra. Era decorato con l’alloro rosso. «La risposta perfe a
per un ragazzo che sa a malapena formulare delle parole.» Si ripulì
la faccia dalla saliva. «Riproviamoci. Dimmi cosa sta tramando
Brekker con i Ravkiani e ti lascio vivere.»
«Come hai lasciato vivere mia madre?»
Van Eck trasalì in modo quasi imperce ibile, come una marione a
tirata una sola volta dai fili e poi rimessa giù a riposare.
Van Eck ripiegò due volte il fazzole o ricamato e lo ripose via.
Annuì in direzione del ragazzo e della ragazza. «Fate quello che
dovete. L’asta inizia fra meno di un’ora, e io voglio delle risposte in
tempo.»
«Tiralo su» disse il ragazzo tarchiato alla ragazza. Lei mise Wylan
in piedi, e il ragazzo tirò fuori di tasca un tirapugni. «Non sarà più
così carino, dopo questo.»
«E a chi importa?» disse Van Eck con una scrollata di spalle. «Fate
in modo che rimanga cosciente. Voglio quelle informazioni.»
Il ragazzo squadrò sce ico Wylan. «Sei sicuro di voler fare in
questo modo, giovane mercante?»
Wylan richiamò alla memoria la spavalderia che aveva visto
esibire da Nina, la determinazione che aveva imparato da Ma hias,
la concentrazione che aveva osservato in Kaz, il coraggio che aveva
appreso da Inej, e la selvaggia, sconsiderata speranza che aveva
assimilato da Jesper, la cieca convinzione che non importava quali
fossero le probabilità, in qualche modo loro avrebbero vinto.
«Non dirò niente.»
Il primo colpo gli spaccò due costole. Il secondo gli fece sputare
sangue.
«Forse dovremmo spezzarti le dita così non potrai più suonare
quel flauto infernale» suggerì Van Eck.
“Sono qui per lei” ricordò a se stesso Wylan. Sono qui per lei.
Alla fine, non fu Nina o Ma hias o Kaz o Inej o Jesper. Fu soltanto
Wylan Van Eck. E disse loro tu o.
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INEJ