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ALESSANDRO VOLPI
2009
© BFS edizioni
Biblioteca Franco Serantini
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Libercoop
via I. Bargagna, 60 – 56124 Pisa
tel./fax 050 9711432
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www.bfs-edizioni.it
ISBN 978-88-89413-40-1
INDICE
27 I PREZZI IMPAZZISCONO
33 ARRIVA LO STATO
45 LE POLITICHE COMMERCIALI
69 INCUBI EUROPEI
75 SOLUZIONI NAZIONALI
101 EPILOGO
Ad Anna, perché non abbia paura
1. Tra le opere dedicate agli attuali sviluppi della crisi finanziaria, di particolare interes-
se risulta il contributo di R. SHILLER, Finanza shock, Milano, Egea, 2008. Lo stesso Shiller
aveva dedicato all’analisi delle criticità finanziarie il volume Il nuovo ordine finanziario,
pubblicato in Italia dalla casa editrice Il Sole 24 ore. Ancora molto utili sono poi le notazioni
espresse da L. BINI SMAGHI, Chi ci salva dalla prossima crisi finanziaria?, Bologna, Il
Mulino, 2000; così come assai stimolante è il contributo di M. AGLIETTA, Le capitalisme, de
bulle en bulle, «Le Monde», 1 settembre 2007. Letture molto “singolari” sono invece quelle
di: G. SOROS, Cattiva finanza. Come uscire dalla crisi: un nuovo paradigma per i mercati,
Roma, Fazi, 2008, B. EMMOTT, Asia contro Asia, Milano, Rizzoli, 2008, H.J. CHANG, Cattivi
samaritani. Il mito del libero mercato e l’economia globale, Milano, Università Bocconi,
2008, F. ZAKARIA, L’era post americana, Milano, Rizzoli, 2008, G. SAPELLI, La crisi econo-
mica mondiale, Torino, Bollati Boringhieri, 2008. Decisamente più “ortodossa” l’interpreta-
zione di F. ALLEN, D. GALE, Understanding Financial Crises, Oxford, Oxford University
Press, 2008. Di notevole interesse risulta il dossier dedicato alla “crisi finanziaria 2007-
2008” presente sul sito www.lavoce.info, curato da Massimo Bordigon. Fra le ultime usci-
te: A. BERRINI, Come si esce dalla crisi finanziaria, Torino, Bollati Boringhieri, 2009,
M. GAGGI, La valanga. Dalla crisi americana alla recessione globale, Roma, Laterza,
2009. La casa editrice Garzanti ha pubblicato una nuova edizione aggiornata e ampliata di
P. KRUGMAN, Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008, che di fatto non
aggiunge molto alle precedenti edizioni e in realtà tratta pochissimo della crisi in atto.
10 UNA CRISI TANTE CRISI
to nel 1931 dopo la grande crisi il quale imponeva una netta distin-
zione delle banche commerciali da quelle di investimento. Simili
processi non solo hanno modificato la nozione stessa di rischio per
milioni di utenti bancari, inseriti di fatto senza troppa consapevolez-
za nel mercato finanziario, ma hanno anche alterato la catena di con-
trollo delle società, riproponendo e amplificando a dismisura i con-
flitti di interesse tipici delle “banche miste”2. La stessa ingegneria fi-
nanziaria ha poi permesso a queste banche proprietarie di distribuire
i pericoli delle operazioni aperte creando appositi strumenti-veicolo
che determinano una vera e propria invisibilità delle esposizioni e
delle stesse filiere di controllo. Accanto al nuovo ruolo delle banche
esiste, come è noto, il peso crescente dei fondi hedge e private che
hanno comprato utilizzando un pronunciato effetto leva, destinato a
costringerli a rispondere in termini brevissimi ai loro sottoscrittori,
con la preoccupante conseguenza della “trimestralizzazione” degli
andamenti perseguiti; è sempre più evidente quindi una prospettiva
interamente finanziaria, attratta dalle sirene della speculazione e che
certo mal si concilia con i tempi degli investimenti di natura produt-
tiva. Un fenomeno tutt’altro che trascurabile qualora si tenga presen-
te, solo per citare un dato, che in Inghilterra oltre 3 milioni di lavora-
tori, il 20% degli occupati nel settore privato, erano ancora nel luglio
2008 dipendenti di imprese di proprietà dei fondi o da essi partecipa-
te; si tratta di un comparto ora talmente in crisi da costringere ad un
ripensamento l’intero sistema economico britannico, il quale paga il
peso di una eccessiva terziarizzazione finanziarizzata e il venir meno
di grandi marchi “nazionali”: ormai solo 1/3 del sistema manifattu-
riero britannico è in mani inglesi3.
La distinzione tra fondi “attivisti”, che intendono cioè partecipare
alla gestione delle imprese finanziate, e fondi neutrali pare, in ultima
analisi, abbastanza debole visto che comunque entrambe le tipologie
devono rispondere ai loro sottoscrittori sulla base di scadenze molto
ravvicinate. In particolare i fondi hedge hanno ulteriori controindica-
zioni proprio in relazione alla struttura proprietaria; il fatto di ricor-
rere così massicciamente all’indebitamento per finanziarsi, con
2. Si possono citare fra gli altri i contributi di R. RAJAN, L. ZINGALES, Salvare il capita-
lismo dai capitalisti, Torino, Einaudi, 2004, C. BÉBÉAR, P. MANIÈRE, Uccideranno il capita-
lismo, Milano, Bompiani, 2004, R. R. BOTTLE, Soldi dal nulla, Milano, Il Sole 24 ore, 2006,
J. SACHS, La fine della povertà, Milano, Mondadori, 2005, M. VITALE, America punto a ca-
po. Una lettura non conformista della crisi dei mercati mobiliari, Milano, Scheiwiller, 2002,
S. ANDRIANI, L’ascesa della finanza. Risparmio, banche, assicurazioni: i nuovi assetti del-
l’economia mondiale, Roma, Donzelli, 2006.
3. L. MAISANO, Londra rimpiange le sue fabbriche, «Il Sole 24 ore», 22 gennaio 2009.
Una breve premessa 11
6. N. ROUBINI, Dodici tappe verso la crisi più grave, «La Repubblica», 28 febbraio 2008.
7. M. LONGO, Sarà improbabile assistere al crack di grandi banche, «Il Sole 24 ore», 25
marzo 2008.
14 UNA CRISI TANTE CRISI
11. M. MARGIOCCO, I dieci perché della crisi dei mutui, «Il Sole 24 ore», 16 dicem-
bre 2007.
16 UNA CRISI TANTE CRISI
de, questa volta con la presa in prestito “gratis” del denaro negli Stati
Uniti per impiegarlo altrove. La crisi e i bassi rendimenti generalizzati
in giro per il mondo rendono però difficile trovare soluzioni realmente
alternative; le autorità americane sembrano scommettere sulla perma-
nenza in patria dei capitali presi in prestito e per questo hanno fatto in
dodici mesi quello che il Giappone ha impiegato 12 anni a fare1. In tal
senso, dopo un brusco arresto del processo di globalizzazione sembra
essersi avviata una vera e propria deglobalizzazione. È certo che il
quadro di riferimento internazionale sta mettendo in tensione le valute
più fragili e in una simile ottica le questioni monetarie risultano parti-
colarmente spinose per i “microstati”, per gli Stati di ridottissime di-
mensioni che ormai da tempo dimostrano di soffrire le instabilità delle
proprie valute di riferimento. Le vicende dell’Islanda, che ha cono-
sciuto una vera e propria bancarotta del sistema bancario ed ha avuto
bisogno di ben 10 miliardi di dollari di “aiuti” internazionali, sono em-
blematiche di questa condizione; il cambio è rapidamente crollato,
rendendo molto difficili le importazioni e azzerando le riserve valuta-
rie, con immediata scomparsa degli investitori esteri. Si tratta di realtà
piccole che però, come già è avvenuto in passato, possono innescare
fenomeni di più ampie dimensioni, scatenando reazioni a catena.
Stanno sparendo, in parallelo con i fenomeni sopra ricordati, i pre-
stiti internazionali ad opera delle banche che sono coinvolte in manie-
ra profonda nella crisi: i dati della Banca dei regolamenti internaziona-
li indicano in 1.100 miliardi di dollari, pari al 3%, la riduzione che si è
verificata nel solo 2008; una fuga che, è bene precisarlo, si è avviata
negli ultimi mesi dell’anno con una notevolissima consistenza e non fa
presumere nulla di buono. In maniera analoga, si stima che nel 2009 il
credito ai paesi emergenti crolli da oltre mille miliardi a 150 miliardi
di dollari. Solo le banche americane, che hanno subìto nel terzo trime-
stre 2008 il ritiro dai loro conti correnti di 483 miliardi di dollari da
parte di possessori esteri, hanno erogato 587 miliardi di dollari in me-
no agli investitori non americani. Dopo il noto fallimento del fondo
LTCM, avvenuto nel 1998, il calo dei prestiti bancari internazionali fu
soltanto dell’1,2% mentre in seguito allo scoppio della bolla di inter-
net, nel 2001, la contrazione sfiorò appena l’1%. In questo contesto
particolari preoccupazioni interessano l’Africa subsahariana dove 11
paesi hanno un sistema bancario per oltre il 70% in mani estere e dun-
que subiscono il rischio di un rapido rientro dei capitali. Anche i fondi
hedge, che come le banche d’affari si finanziano sul mercato emetten-
do titoli, hanno scontato enormi difficoltà e per ripagare le proprie
1. R. SORRENTINO, Calo record per il dollaro, «Il Sole 24 ore», 18 dicembre 2008.
I capitali tornano a casa 21
7. R. SORRENTINO, Allarme prestiti nei Paesi poveri, «Il Sole 24 ore», 30 novembre 2008.
I capitali tornano a casa 25
8. R. DA RIN, Il Sudamerica corre ai ripari con un’ondata di tagli ai tassi, «Il Sole 24
ore», 21 gennaio 2009.
26 UNA CRISI TANTE CRISI
I PREZZI IMPAZZISCONO
1. R. CAPEZZUOLI, La crisi riduce i mercati per miniere e fonderie, «Il Sole 24 ore», 19
novembre 2008.
28 UNA CRISI TANTE CRISI
2. Un rilievo di questo tipo è stato espresso dal petroliere russo Valere Golovushkin in
un’intervista concessa a F. FUBINI, “Petrolio, a questi prezzi la produzione si fermerà”,
«Corriere della sera», 11 dicembre 2008.
3. R. CAPEZZUOLI, OPEC verso un rinvio dei tagli, «Il Sole 24 ore», 29 novembre 2008.
4. L. DAVI, Petrolio, investimenti fermi, «Il Sole 24 ore», 18 gennaio 2009.
5. A. GERONI, “Petrolio, prezzi troppo bassi”, «Il Sole 24 ore», dicembre 2008.
30 UNA CRISI TANTE CRISI
6. D. TABARELLI, Dal greggio un anticipo di deflazione, «Il Sole 24 ore», 18 dicembre 2008.
7. R. CAPEZZUOLI, La manovra ribassista altera ancora il mercato, «Il Sole 24 ore», 18
gennaio 2009.
I prezzi impazziscono 31
8. A. SCOTT, La Russia fonda il club del gas, «Il Sole 24 ore», 24 dicembre 2008.
32 UNA CRISI TANTE CRISI
si, numerosi paesi non sono più nelle condizioni di estrarre greggio
perché i loro costi di produzione non rendono più remunerativi gli in-
vestimenti. Di nuovo dunque saranno decisive le aree dove estrarre pe-
trolio costa poco: il Medio Oriente e il Golfo Persico, ora minacciati
da gravissime tensioni. Non bisogna dimenticare infatti che se il fabbi-
sogno globale di idrocarburi dovesse crescere nei prossimi dieci anni
persino di un modesto 1% l’anno, saranno necessari 48 milioni di bari-
li di petrolio in più rispetto al consumo attuale. È probabile quindi che
anche questi prezzi torneranno a crescere in tempi non troppo lunghi.
Per i generi alimentari il declino dei prezzi in realtà non si è ancora
neppure consolidato e i dati ISTAT, relativi al nostro paese, segnalano
che a dicembre (anno?) l’aumento di pane e cereali è stato del 7,8%.
Nonostante la crisi finanziaria tuttavia non sono cessate le tanto depre-
cate cartolarizzazioni; nel 2008 il volume delle nuove operazioni di ta-
le tipo è stato pari a 711 miliardi di euro per il 95% utilizzate come
collaterale per la BCE e con una crescita del 56% rispetto all’anno pre-
cedente. Negli Stati Uniti invece le cartolarizzazioni nel corso del
2008 si sono ridotte, ma hanno continuato ad avere un valore di poco
superiore ai 930 miliardi di dollari. Se anche solo una parte di questa
carta, come è naturale, finisce nel mercato petrolifero, ai primi segnali
di aumento dei prezzi reali può scatenarsi di nuovo una forte specula-
zione rialzista. Una tendenza che la Cina comunque non smetterà di
alimentare, pur nelle difficoltà attuali di cui si tratterà in seguito. «È
un fenomeno strutturale; – ha dichiarato Wei Wang, fondatore della
M&A Association – grazie alla globalizzazione, la Cina è diventata il
principale polo manifatturiero del pianeta. In quanto tale ha bisogno di
una quantità crescente di materie prime per produrre ciò che viene ri-
chiesto dalla domanda mondiale». Dunque la pressione sui prezzi sarà
costante, ben oltre la recessione che rende la deflazione un effetto tan-
to profondo quanto transitorio.
ARRIVA LO STATO
gli spreads pagati dai paesi con debiti maggiori e soprattutto con rating
in forte ribasso, come nel caso di Grecia, Spagna e Portogallo, con un
deficit della bilancia commerciale del 10%. Il rischio insito in questo
contesto è rappresentato dal fatto che molti governi, nella speranza di
far rientrare i capitali finiti nei paradisi fiscali, costruiscano percorsi di
recupero basati sulla sottoscrizione di titoli pubblici, in maniera tale
che la riduzione delle aliquote per il rientro sia legata proprio all’acqui-
sizione di debito pubblico da parte degli evasori di ritorno. In un pano-
rama simile, se i paesi più deboli per finanziarsi dovranno tornare a ri-
alzare i tassi è probabile che conoscano difficoltà analoghe a quelle già
vissute alla fine degli anni Novanta, questa volta senza la necessità di
difendere le proprie monete. Il nuovo statalismo avrà conseguenze an-
che sul piano delle politiche di cooperazione, in termini di disponibilità
di aiuti, e su quello degli accordi commerciali, rafforzando la già decisa
spinta alla conclusione di accordi bilaterali a scapito delle sedi multila-
terali. È evidente inoltre che gli interventi statali faranno lievitare il de-
ficit dei conti pubblici, che dovrebbe crescere dal 2,6% del 2008 al
6,8% del 2009, con punte del 7,7 per le economie più ricche, raggiun-
gendo un livello sconosciuto ormai da cinquant’anni.
Il dato che maggiormente balza agli occhi di tale finanziamento del
debito è costituito dalle sue dimensioni; il governo statunitense aveva
già stanziato, a fine 2008, 8.560 miliardi di dollari a sostegno della
propria economia. Ben 3.800 miliardi erano stati destinati all’acquisto
di azioni e debiti di banche e società, insieme a mutui e quote di credi-
to al consumo, altri 1.700 sono stati indirizzati a fornire liquidità per
garantire prestiti di dubbia solvibilità e altri 3.100 miliardi, emessi con
l’appoggio della Federal reserve, per garantire prestiti interbancari, va-
lori mobiliari e depositi di vario titolo. Si tratta di una somma gigante-
sca pari ad oltre la metà del PIL americano2. Ad essa il presidente
Obama ha aggiunto ulteriori misure riprendendo la strategia degli
sgravi fiscali a famiglie e aziende per oltre 300 miliardi di dollari. Si
tratta di una cifra superiore a quella prevista da George W. Bush, che
aveva contemplato nell’ambito di un programma decennale da 1.350
miliardi di dollari un primo biennio di 174 miliardi. Nell’ottica di
Obama, invece, il piano in due anni dovrebbe superare, come detto, i
300 miliardi. Tuttavia la differenza con la presidenza repubblicana sta
nella natura degli sgravi, non più generalizzati, ma mirati ai ceti medio
bassi e ai lavoratori dipendenti3. Già a marzo 2009 però queste cifre
2. M. MARGIOCCO, Oltre la metà del PIL USA a sostegno dell’economia, «Il Sole 24 ore»,
27 novembre 2008.
3. M. VALSANIA, Obama, tagli fiscali da 300 miliardi, «Il Sole 24 ore», 6 gennaio 2009.
Arriva lo Stato 35
4. D. D I V ICO , “Maastricht non è più un alibi per non investire sulla crescita”,
«Corriere della sera», 30 novembre 2008.
5. A. MERLI, “Servono nuove misure”, «Il Sole 24 ore», 17 dicembre 2008.
36 UNA CRISI TANTE CRISI
bile in simili scelte condotte dall’istituto centrale. Persino gli swaps tra
titoli di Stato e portafogli critici delle banche, annunciati dalla Banca
d’Italia, imporranno selezioni non neutre e potranno dare adito a ri-
schiose preferenze. In estrema sintesi, il massiccio intervento degli
Stati, nelle più diverse forme, apre scenari in cui la discrezionalità e la
valutazione dell’opportunità maturate in sedi ben distinte dal mercato
avranno un peso crescente. Nel rapporto tra politica e mercato, che ne-
gli ultimi decenni ha visto la ritirata della prima, le cose stanno quindi
cambiando con estrema rapidità; una trasformazione a cui contribui-
scono in maniera molto avvertibile i fondi sovrani, che dispongono
complessivamente di quasi 3 mila miliardi di dollari e che hanno dato
già prova di scegliere i propri impieghi abbinando valutazioni econo-
miche e considerazioni politiche. Per capire quanto possano pesare
questi fondi è sufficiente ricordare che le migliori società italiane ave-
vano alla fine del 2008 un valore complessivo di circa 200 miliardi di
euro, poco meno del 7% del portafoglio dei fondi sovrani. A complica-
re le cose contribuisce l’assenza di una definizione comunemente ac-
cettata di cosa sia un fondo sovrano: secondo l’OCSE si tratta di stru-
menti di proprietà dei governi che vengono finanziati dagli scambi con
l’estero, mentre per il Tesoro degli Stati Uniti sono strumenti statali
che gestiscono in maniera separata i propri beni rispetto alle riserve uf-
ficiali delle autorità monetarie. A giudizio del McKinsey Global
Institute i fondi sovrani hanno tale qualità in quanto finanziati dalle ri-
serve della Banca centrale di un paese e hanno l’obiettivo di massimiz-
zare il ritorno finanziario entro certi margini di rischio7. Alla luce di si-
mili differenze risulta assai complesso individuare regole comuni sia in
termini di regolamentazione della operatività dei fondi sia in relazione
alla richiesta di una vera trasparenza. Anche da questo punto di vista
quindi la discrezionalità della politica risulta accresciuta.
In un panorama mondiale così agitato sta cambiando rapidamente
anche il ruolo della Cina, una delle economie più statalizzate del pia-
neta e ormai al terzo posto mondiale per ricchezza generata (le stime
aggiornate del 2007 indicano un PIL di 3.380 miliardi di dollari ). Di
fronte ad un sia pur parziale rallentamento del suo sistema produttivo,
testimoniato dal brusco raffreddamento dell’inflazione, la Cina ha
messo a disposizione di esso e del proprio mercato 585 miliardi di
dollari, investendo nell’edilizia, nelle infrastrutture, nella rete energe-
tica, nella sanità e nell’ambiente. Agli interventi del governo centrale
si affiancano le misure adottate dalle province, che stanno imponendo
alle imprese locali di utilizzare materie prime e semilavorati cinesi.
7. A. DINI, La geografia dei fondi sovrani, «Il Sole 24 ore», 11 novembre 2008.
38 UNA CRISI TANTE CRISI
rante proviene poi dal settore bancario dove si registra la fuga di mol-
ti istituti esteri, solerti nel vendere le proprie partecipazioni alle ban-
che cinesi: Bank of America ha venduto il 2,5% di China
Construction Bank, Ubs ha ceduto l’1,33% di Bank of China, di cui
Royal Bank of Scotland ha a sua volta venduto il 4,3%. L’insieme di
questi dati accentua un fenomeno già visibile costituito dalla progres-
siva fuga di cinesi dalle grandi città in direzione delle campagne; ol-
tre 20 milioni di cinesi, circa il 15% dei 130 milioni di nuovi immi-
grati giunti nei principali centri urbani dalle campagne, stanno tor-
nando rapidamente a casa dopo aver perso il lavoro. Si stima infatti
che il numero dei disoccupati nelle periferie del paese sarà nel 2009
di circa 26 milioni.
L’unico dato che sembra ulteriormente consolidarsi è rappresenta-
to dalla gigantesca mole di titoli di Stato USA acquistati dalla Cina,
pari nel novembre 2008 a 585 miliardi di dollari, poi saliti in poche
settimane a 740 miliardi, una cifra superiore ai 573 miliardi nelle ma-
ni dei risparmiatori, delle istituzioni e delle autorità giapponesi e tale
da fare dell’ex impero celeste il principale possessore planetario di
debito statunitense.
In questo senso la crisi in atto tende a produrre il duplice effetto di
spingere l’economia cinese ad un maggior ripiegamento su se stessa,
intensificando ancora di più la propria natura pubblica, e al contempo
di rinsaldare il già stretto nesso tra Cina e Stati Uniti. Oltre che sui ti-
toli pubblici, la relazione tra i due paesi è basata sulla mole di azioni
e obbligazioni di società a stelle e strisce nei portafogli cinesi, dove
sono presenti in maniera massiccia titoli di Freddie Mac, Fannie Mae
e alcuni altri investimenti ben poco remunerativi come i 3 miliardi di
dollari impiegati da China Investment Corporation in Blackstone, ac-
quistati con il titolo a 31 dollari e ormai sotto i 69. Su tale legame, che
ha chiari risvolti politici, pesa però la sempre più evidente concorren-
za che stanno facendosi in termini di svalutazione “competitiva” lo
yuan e il dollaro, con un cambio sceso da 8 a 6,8 fra il 2005 e la fine
del 2008, le cui debolezze sono utilizzate dalle rispettive banche cen-
trali come strumenti a sostegno delle esportazioni “nazionali” (per
quanto le autorità cinesi stiano puntando anche a “internazionalizza-
re” la loro moneta a partire da due zone di influenza come Hong
Kong e la macroregione confinante con lo Yunnan). Per ragioni di
competizione Ben Bernanke dimostra quindi di non essere più troppo
preoccupato dal fatto di aver portato i tassi di interesse vicinissimi al-
lo zero10; se infatti lo yuan si indebolisce più del dollaro, oltre che da-
gli effetti di una pericolosa concorrenza svalutativa, il vero pericolo
per il Tesoro USA proviene dalle maggiori difficoltà per l’economia
cinese di continuare a sottoscrivere i buoni del Tesoro americani, tan-
to più in una fase in cui si stanno riducendo le riserve della Banca del
popolo di Pechino – scese da 1.900 miliardi di dollari a settembre
2008 a circa 1.800 solo due mesi dopo – sia per la perdita di valore
degli asset nei quali erano investite sia per una almeno parziale “fu-
ga” di capitali11. Bernanke sembra convinto che la Cina – dotata di
una notevole capacità di reazione in termini di politica monetaria tan-
to da aver messo mano ai tassi cinque volte in tre mesi – non intenda
in alcun modo rinunciare al ruolo di elemento di stabilizzazione mo-
netaria dell’intera area del Sud-Est asiatico, secondo un modello di
comportamento già seguito in occasione della crisi del 1997, quando
le dimensioni dell’economia cinese erano decisamente più limitate. In
tale ottica le dichiarazioni del nuovo segretario al Tesoro Timothy
Geithner, duramente polemiche nei confronti di una “manipolazione”
da parte delle autorità cinesi della moneta nazionale, sembrano ri-
spondere a logiche politiche, finalizzate alla necessità di rivedere la
regolazione del sistema commerciale con la Cina piuttosto che a una
vera preoccupazione di ordine meramente monetario12. Il mercato pe-
rò ha dato subito un segnale chiaro; mentre Wall Street perdeva terre-
no, i buoni del Tesoro americani, invece di trovare facile accoglienza
fra risparmiatori e investitori alla ricerca di un porto sicuro, erano co-
stretti a pagare ben 40 centesimi di più in conto interessi per rendersi
allettanti. Non a caso quindi una delle prime destinazioni estere del
nuovo segretario di Stato, Hillary Clinton, è stata la Cina, dove non
ha esitato a ringraziare il governo per la costante fiducia riposta nei T-
bond USA e dove ha ribadito che il tema dei diritti umani non può in-
terferire nelle relazioni economiche tra i due paesi. È evidente che lo
stretto legame, quasi simbiotico, fra USA e Cina sia fondato in larga
misura su elementi politici che risultano prioritari rispetto alle que-
stioni monetarie e alle strategie di investimento. In termini politici e
di rapporti di forza devono essere probabilmente valutate le ipotesi
poste in essere dalle autorità cinesi che insistono con sempre maggior
forza sull’idea di una valuta di riserva internazionale, senza legami
con alcuna nazione e capace, a differenza del dollaro attuale, di ga-
rantire una stabilità di lungo termine.
10. F. FUBINI, Tonfo delle Borse mondiali, «Corriere della sera», 2 dicembre 2008.
11. R. SORRENTINO, Lo yuan debole? Oggi non piace più, «Il Sole 24 ore», 11 gen-
naio 2009.
12. L. VINCIGUERRA, “Sullo yuan accuse infondate”, «Il Sole 24 ore», 24 gennaio 2009.
Arriva lo Stato 41
13. M. MUCCHETTI, Il nuovo volto delle banche centrali, «Corriere della sera», 14 no-
vembre 2008.
14. M. GAGGI, “Debito pubblico, stiamo diventando tutti italiani”, «Corriere della se-
ra», 7 dicembre 2008, M. MUCCHETTI, Se la banca centrale diventa un hedge fund, «Corriere
della sera», 11 gennaio 2009.
15. R. SORRENTINO, BCE e FED unite nell’esplosione dei bilanci, «Il Sole 24 ore», 21 di-
cembre 2008.
42 UNA CRISI TANTE CRISI
ad un livello mai raggiunto nella sua storia che è sceso a marzo allo
0,5%, avviando la stampa di nuova moneta per fare acquisti di asset
tossici e titoli di Stato. Ciò è avvenuto in un contesto in cui il governo
inglese è dovuto intervenire con 50 miliardi di sterline a disposizione
della Banca d’Inghilterra, mentre il PIL scendeva nell’ultimo trimestre
del 2008 dell’1,5%, segnando di fatto l’inizio della peggiore recessio-
ne dal 1980. La stessa Banca d’Inghilterra ha ricevuto altri 250 miliar-
di di sterline per garantire nuove linee di credito o in scadenza, mentre
l’urgenza del momento ha costretto il governo a salire al 70% in Royal
Bank of Scotland in previsione di una totale nazionalizzazione, a fron-
te di una perdita di 24 miliardi di euro – la più grande mai registrata da
una azienda inglese –, e a pianificare un intervento di 17 miliardi di
sterline nel capitale della banca risultante dalla fusione di HBOS e
Lloyd TSB: ciò ha provocato perdite tali da costringere poi il governo
inglese alla nazionalizzazione anche di Lloyds Bank, con una quota di
capitale pubblica al 77%. Simili impegni sembrano destinati a spinge-
re anche l’Inghilterra in direzione dell’euro, alla luce della necessità di
proteggere meglio una moneta “nazionale” che sta diventando troppo
fragile; un percorso forse condiviso in maniera analoga da Svezia e
Danimarca. Da tempo la pratica del quantitative easing è seguita dalla
Banca del Giappone che con tassi allo 0,1% sta procedendo ad un for-
te aumento degli acquisti di titoli del proprio debito pubblico e di com-
mercial paper delle imprese nipponiche, unendo l’azione monetaria a
sostegni diretti all’economia nazionale con un piano pari al 2% del PIL
destinato a generare un forte disavanzo primario16. Agli inizi di feb-
braio del 2009, poi, la stessa Banca centrale giapponese ha dichiarato
di essere disposta ad acquistare dalle banche del paese azioni in loro
possesso fino ad un ammontare di 11 miliardi di dollari, prefigurando
una linea di condotta del tutto nuova e ben poco ortodossa rispetto ai
suoi tradizionali comportamenti. Le banche centrali, attraverso nuove
condotte spesso ben poco convenzionali, tendono dunque ad acquisire
i caratteri degli strumenti di sostegno alle economie dei loro paesi. In
una situazione così complicata è naturale che emergano ipotesi di bad
banks costruite dalle autorità statali nei diversi contesti per alleggerire
i compiti delle stesse banche centrali; magari persino più bad banks
nello stesso paese, come nelle ipotesi più recenti di Obama, al fine di
collocarvi dentro i titoli “inquinanti” e rimettere così il mercato del
credito in condizioni di almeno parziale normalità.
Oltre la Cina, una serie di difficoltà sta investendo altre economie
statalizzate come l’India, la cui economia dipende meno di quella ci-
16. S. CARRER, Il Giappone segue la FED, «Il Sole 24 ore», 20 dicembre 2008.
Arriva lo Stato 43
nese dalle esportazioni – 22% del PIL, su un totale del 35% garantito
dal commercio nel suo complesso – ma sconta le ristrettezze del credi-
to e il calo degli investimenti diretti esteri, nonostante la scelta del go-
verno di raddoppiare in pochi mesi l’ammontare di bond indiani dete-
nuti da investitori esteri e soprattutto un deficit del bilancio pubblico
pari all’11% del PIL, in gran parte dovuto ad un piano di interventi
pubblici pari a 23 miliardi di euro in un contesto dove solo il 4% della
popolazione paga un’imposta sul reddito. Le stime per il 2009 indica-
no una crescita indiana del 6%, ben al di sotto del 9% preventivato fi-
no a pochi mesi fa – dopo il 9,5 del 2005, il 9,7 del 2006 e il 9 del
2007 – e molto probabilmente insufficiente a garantire il contenimento
della disoccupazione, tanto che si valutano in 10 milioni i posti di la-
voro persi nel 2008 nel settore dell’export, in forte calo da novembre
2008 a febbraio 200917. Lo scandalo Satyam, il colosso indiano del-
l’outsourcing che ha registrato un buco di bilancio di 1,1 miliardi di
dollari a causa di una pessima governance societaria, ha inoltre inde-
bolito molto la fiducia nell’efficienza del sistema indiano dell’It18. Nel
caso indiano si può immaginare una situazione in cui la crisi dell’eco-
nomia reale si trasmetterà al settore finanziario e al credito per effetto
del moltiplicarsi dei prestiti divenuti inesigibili, secondo una dinamica
inversa a quella verificatasi negli Stati Uniti e in Europa. Problemati-
che simili colpiranno Indonesia e Malaysia, duramente penalizzate dal
ribasso del prezzo delle materie prime, mentre la Thailandia è ormai
da tempo preda di una singolare crisi politica.
L’arrivo dello Stato è dunque caratterizzato da molte contraddizio-
ni che si colgono bene alla luce delle diverse cause della crisi in atto
,sintetizzabili per maggiore chiarezza in pochi punti: 1) il sistema eco-
nomico e finanziario è stato a lungo abituato a stare in piedi ricorrendo
ad un massiccio indebitamento; 2) questo indebitamento è avvenuto
grazie al basso costo del denaro praticato in primis dalla Federal reser-
ve; 3) i rendimenti finanziari delle aziende e delle banche indebitate
premiavano i sottoscrittori dei titoli di esse e queste sottoscrizioni con-
sentivano a banche e aziende di aver un alto valore di capitalizzazione
e di disporre di liquidità ulteriore; 4) lo scoppio della bolla immobilia-
re ha avviato una “verifica” globale dei conti delle banche e delle
aziende perché i mercati hanno cominciato bruscamente ad aprire gli
occhi sull’artificiosità del sistema e hanno espresso grandi paure nel
rimettere risorse in circolazione; 5) la mancanza di trasparenza dei
17. T. KHANNA, 2.4 miliardi di imprenditori. Cina e India nel nostro futuro, Milano,
Francesco Brioschi editore, 2008.
18. M. MASCIAGA, A Delhi giro di vite sulla governance, «Il Sole 24 ore», 13 gen-
naio 2009.
44 UNA CRISI TANTE CRISI
del Fondo stesso sulla base dell’aumento del fondo NUB, nato dopo la
crisi del 1998, e una terza stabilisce un incremento permanente delle
disponibilità con il coinvolgimento a pieno titolo dei paesi emergenti.
Si discute sempre con maggiore insistenza anche dell’ipotesi di una
nuova moneta internazionale, che si affiancherebbe senza sostituirli ad
euro e dollaro, con funzioni di garanzia dei rapporti di debito-credito
tra i vari paesi e con compiti di stabilizzazione delle riserve delle ban-
che centrali, magari mediante la cessione di titoli di Stato. Nella so-
stanza è in atto dunque un decisivo ripensamento dei contorni fonda-
mentali del mercato che pare muovere in primo luogo dalla riflessione
politica e che ha uno degli aspetti più controversi nelle istituzioni del
commercio internazionale. Senza una rapida e profonda riforma delle
istituzioni “globali”, che sancisca regole in grado di ridurre drastica-
mente la volatilità dei prezzi e delle monete, è molto difficile tuttavia
che il commercio riesca ad assumere una dimensione reale, non sog-
getta a spinte estranee al rapporto tra domanda e offerta di merci, evi-
tando di cadere preda di costanti speculazioni. Si tratta di un’esigenza
tanto più avvertita dopo che il 2008 ha registrato – per la prima volta
da decenni – un regresso del commercio internazionale del 2%. La fi-
nanziarizzazione degli ultimi due decenni ha stravolto il sistema delle
commodities su cui si fonda una porzione importante del mercato e
quindi non avrebbe senso avviare una modifica del World trade organi-
zation o degli istituti commerciali se essa non si lega alla modifica del-
l’ingegneria delle istituzioni finanziarie nate a Bretton Woods.
Ormai finanza e commercio non appaiono disgiungibili; fino a quan-
do saranno possibili futures su ogni tipologia di merci, non avrà alcun
significato definire il commercio internazionale in termini autonomi.
DIFFICOLTÀ A STELLE E STRISCE
1. M. VALSANIA, America, mercato del lavoro a picco, «Il Sole 24 ore», 6 dicembre 2008.
50 UNA CRISI TANTE CRISI
General Motors, del 39% per Ford e quasi del 55% per Chrysler. La
crisi tuttavia non è esclusivamente automobilistica. In un solo giorno,
a metà gennaio 2009, alcune imprese americane hanno annunciato 45
mila licenziamenti: 20 mila Caterpillar, 8 mila Sprint Nextel, 7 mila
Home Depot, 2 mila General Motors, 8 mila dalla fusione di Pfizer e
Wyeth2. A inizio 2009 un’azione di General Electric valeva circa 9
dollari contro i 38 di qualche mese prima e la compagnia di assicura-
zione Aig perdeva 67 miliardi di dollari in un trimestre. Dai massimi
del 2007, l’indice Stoxx ha perso il 59% e lo S&P il 55%, con i ban-
cari USA che hanno cancellato l’85% del loro valore. Che strategia in-
dustriale è possibile immaginare per recuperare una distruzione di va-
lore così gigantesca e repentina persino nella più grande economia
del mondo? Probabilmente nessuna, ed è ovvio che l’unico strumento
concepibile nel breve periodo sia quello citato dal presidente Obama,
capace di fargli vincere le elezioni ed individuato negli aiuti di Stato,
per una nuova tranche di oltre 700 miliardi di dollari che in origine
doveva consentire alle big three di essere ammesse al programma fe-
derale di acquisto delle attività finanziarie “tossiche” e all’interno del
quale è stata definita poi una porzione di circa 130 miliardi destinata
specificatamente alle auto. Si trattava di un programma distinto dal
piano Paulson che, una volta accertata l’impossibilità di stabilire a
quanto ammontino gli asset più rischiosi, si è tradotto nell’ingresso
dello Stato nelle principali banche a stelle e strisce3. All’inizio di di-
cembre, mentre il PIL dell’ultimo trimestre 2008 crollava del 3,8%, è
stato presentato un altro piano di prestiti a Chrysler e General Motors
per 15-17 miliardi di dollari, ad un tasso di interesse del 5% per i pri-
mi cinque anni e in seguito del 9%4. Le resistenze del Congresso, già
duramente critico sul modo con cui sono stati utilizzati i primi aiuti
alle banche5, hanno però convinto la presidenza uscente di tornare al-
l’ipotesi originaria di finanziare le big three con il piano Paulson, an-
che perché da più parti si stima in 125 miliardi il fabbisogno necessa-
rio per superare le difficoltà del settore auto; al fine di salvare le ban-
che si ritiene inoltre necessario creare una bad bank di Stato in cui ri-
versare tutti gli asset tossici per consentire ai mercati di superare la
paura. In un panorama così pericolante non sono praticabili neppure
fusioni che porterebbero comunque costi di ristrutturazione e inevita-
bili eccessi di produzione. Nella patria del liberismo repubblicano
non si tratta tanto di operare attraverso i mercati, di fatto ridotti al-
2. E. DI CARO, USA, 45 mila licenziamenti in un giorno, «Il Sole 24 ore», 27 gennaio, 2009.
3. M. VALSANIA, Paulson, dietrofront sul fondo, «Il Sole 24 ore», 13 novembre 2008.
4. M. LONGO, Il piano Obama fa volare i mercati, «Il Sole 24 ore», 9 dicembre 2008.
5. D. ROVEDA, Banche, attacco al Tesoro USA, «Il Sole 24 ore», 11 dicembre 2008.
54 UNA CRISI TANTE CRISI
6. M. VALSANIA, Uragano Madoff su Wall Street, «Il Sole 24 ore», 14 dicembre 2008.
56 UNA CRISI TANTE CRISI
via giudiziaria almeno una parte delle somme “sottratte” agli ameri-
cani. Sembra profilarsi in maniera sempre più nitida un nesso strin-
gente fra processi di finanziarizzazione e inasprimento duro dei reati
finanziari. È peraltro singolare che quando gli effetti della crisi diven-
gono molto aspri in termini di ricaduta sociale, allora si fa appello al-
la modifica del diritto fallimentare per ammorbidirlo. Così è avvenuto
con i nuovi provvedimenti varati da Obama che, oltre a garantire i ti-
tolari di mutui rispetto a rate troppo onerose, superiori al 31% del
reddito lordo, hanno sancito la possibilità per i giudici di modificare
le condizioni stesse dei mutui. Anche da questo punto di vista risulta
centrale il deflagrare del populismo che, unito all’avvitarsi della crisi,
esige soluzioni semplici, forse semplicistiche, e immediate, con il pe-
ricolo che siano più politiche che tecniche: la politica mette i soldi e
la politica cerca prima di tutto consenso anche a spese di altri effetti.
La difesa degli investitori nei confronti dei rischi appare affidata
alla giustizia penale e assai meno all’individuazione di regole di mer-
cato in grado di contrastare gli eccessi speculativi; alla luce di ciò
Obama ha accompagnato all’inasprimento delle pene un progetto di
riforma dei regolatori con l’affidamento alla Federal reserve del com-
pito di vigilare sugli asset tossici e alla FDIC, l’agenzia che assicura i
depositi bancari, quello di “sorvegliare” più da vicino le società fi-
nanziarie in difficoltà: ma con risorse troppo scarse per rendere la lo-
ro azione efficace. Decisamente deficitarie sono inoltre le forme di
autoregolamentazione delle condotte dei nuovi soggetti finanziari, co-
me i fondi hedge, e i meccanismi di attribuzione dei rating cadono
spesso sotto i colpi dei molteplici conflitti d’interesse e dell’insider
trading. “Malicious mortgage”, mutuo malevolo – questa l’eloquente
e suggestiva denominazione data dall’ FBI all’operazione iniziata a
marzo 2008 – ha costituito la risposta più netta e decisa all’insieme di
simili pericoli e ha teso a fornire una soluzione giudiziaria alla scarsa
eticità dei mercati. Strumenti d’indagine come le intercettazioni tele-
foniche e i controlli sulle mail rappresentano elementi cruciali e inso-
stituibili che la stessa FBI, su sollecitazione della SEC, l’autorità di
Borsa USA, ha disposto nel giro di pochissimi giorni. Se il controllo di
natura giudiziaria diviene uno dei cardini per garantire la regolarità
delle operazioni finanziarie a difesa dei soggetti più deboli, è chiaro
che gli strumenti ad esso necessari, a partire dalle intercettazioni, de-
vono essere potenziati anche se rischiano di essere in contrasto con la
privacy. Senza le intercettazioni e i controlli informatici non sarebbe
stato possibile smascherare i “furbetti del quartierino” e il caso
Parmalat avrebbe avuto probabilmente un’evoluzione molto diversa.
Ciò che è successo negli Stati Uniti offre più di uno stimolo a riflette-
Difficoltà a stelle e strisce 57
Con così tante fibrillazioni ancora in atto, pensare che la FED co-
minci ad emettere propri titoli e che debba poggiare la sua azione su
acquisti di titoli immobiliari e del debito pubblico a lunga scadenza
non appare, neppure questo, tranquillizzante; soprattutto alla luce del
sempre più colossale deficit federale. Le stime compiute a inizio 2009
dall’ufficio di bilancio del Congresso valutavano in 1.200 miliardi tale
disavanzo, pari all’8,5% del PIL, un record assoluto anche rispetto al
precedente picco del 1983, quando il deficit raggiunse il 6%. Questa
stima presenta forse un eccesso di ottimismo perché non contabilizza
gli effetti del piano di intervento straordinario concepito dal presidente
Obama. Se infatti si aggiungessero i costi di esso, il deficit per il 2009
salirebbe a 1.600 miliardi di dollari; una cifra molto pesante per un
paese dove il debito complessivo di famiglie, imprese, banche, finan-
ziarie, amministrazioni pubbliche centrali e periferiche assomma or-
mai a quasi 52 mila miliardi di dollari; se poi a tale somma si aggiun-
gono le esposizioni del Tesoro USA verso i trust funds si raggiungono i
56 mila miliardi, pari al 393% del PIL. In questo senso le ricette propo-
ste dal presidente Obama per fronteggiare quella che lui stesso ha defi-
nito una possibile crisi “irreversibile” mettono in discussione molti de-
gli elementi di fondo del linguaggio politico degli ultimi due decenni.
In primo luogo è evidente infatti che il nuovo leader democratico con-
sidera il problema del deficit un vero e proprio tabù a cui prestare ben
poca attenzione. È chiaro quindi che le regole fissate dall’Europa di
Maastricht, il famoso e doloroso limite del 3% deficit-PIL, gli impegni
imposti per anni in giro per il mondo dal Fondo monetario e le politi-
che di rigore dei conti pubblici vengono di fatto rapidamente messe da
parte in nome della necessità di superare la crisi. Allo stesso tempo,
Obama ha dichiarato di condividere la politica monetaria della Federal
reserve di portare il costo del denaro vicinissimo allo zero, con la con-
seguenza di generare un sensibile deprezzamento del dollaro che cer-
tamente favorirà le esportazioni statunitensi ma contribuirà a indeboli-
re altrettanto sicuramente ogni ipotesi di stabilizzazione monetaria a
60 UNA CRISI TANTE CRISI
1. M. MUCCHETTI, USA, la salvezza nel debito pubblico, «Corriere della sera», 7 febbraio
2008. Nel caso del debito pubblico statunitense è necessario distinguere due dimensioni; la
prima è quella del debito pubblico federale pari, al 31 dicembre 2008, a 6.369 miliardi di dol-
lari e dei municipal bonds e altri debiti di amministrazioni locali e federali per ulteriori 2.200
miliardi (al 30 settembre 2008). La seconda è invece una dimensione più complessa che ap-
pare molto più alta dal momento che in essa confluiscono ad esempio gli oltre 4 mila miliardi
di dollari destinati dal Tesoro al finanziamento della guerra in Iraq e sottratti, di fatto, alle ri-
sorse accumulate dalla Social Security e da vari fondi pensione pubblici e parapubblici.
Politiche monetarie afone e crisi di fiducia 61
politica economica “nazionale”, persino per gli Stati Uniti che saranno
costretti a ripensare in profondità la natura internazionale della loro
moneta. Moneta e debito pubblico appaiono i due elementi su cui la
parte più ricca di questo pianeta scommette per la propria tenuta: qua-
lora si abusasse di entrambi tuttavia lo spettro di un brutale passaggio
dalla deflazione all’inflazione galoppante diverrebbe tristemente reale.
Ancora una volta la capacità di riuscita degli strumenti tecnici dell’e-
conomia sembra dipendere dalla fiducia collettiva. Nelle condizioni at-
tuali è solo questa infatti che stabilisce il limite oltre il quale debito e
moneta vengono considerati carta straccia.
Conti pubblici a rischio, moneta debole ed emissioni di titoli di
Stato a dosi massicce, acquistati in primo luogo dalla Federal reserve,
paiono essere i tratti della “nuova frontiera” di Obama che assomiglia
però molto, purtroppo, all’economia italiana della fine degli anni
Settanta. Certo, sono diversi i contesti di riferimento e la forza delle
due realtà; oggi siamo di fronte al pericolo di una grande deflazione,
preludio di una vera e propria depressione, con la disoccupazione ne-
gli USA per la prima volta che si avvicina al 9% e con un intero sistema
produttivo in panne per mancanza di liquidità e di mercati. Quindi oc-
corre una scossa. Gli Stati Uniti inoltre continuano ad essere la più
forte economia del pianeta e il dollaro, nonostante le sue debolezze, la
moneta con cui si fanno l’80% degli scambi mondiali. Tuttavia non
può non colpire il fatto che per uscire dalla crisi si abbandonino in
fretta quasi tutti i princìpi ispiratori di quelle che sono state considera-
te per anni, soprattutto dai governi “progressisti” e di centro-sinistra,
le politiche economiche virtuose e si ritorni all’“allegro” deficit spen-
ding degli anni cupi, foriero di nefaste conseguenze. Così come non
può non colpire che Obama, dopo una campagna elettorale condotta
contro i guasti degli epigoni di Reagan, si appresti a varare il più gran-
de taglio fiscale della storia americana: l’annunciata strategia degli
sgravi fiscali a famiglie e aziende per oltre 300 miliardi di dollari con-
tiene una cifra superiore a quella prevista da George W. Bush, che ave-
va contemplato – nell’ambito di un programma decennale da 1.350
miliardi di dollari – un primo biennio di 174 miliardi. Nell’ottica di
Obama il piano di sgravi, approvato il 29 gennaio 2009 alla Camera
con l’opposizione di tutti i deputati repubblicani, dovrebbe superare in
due anni i 300 miliardi e raggiungere, oltre alle imprese, il 95% delle
famiglie americane, riservando 500 dollari per ogni lavoratore e 1.000
per ogni coppia; neppure Reagan avrebbe immaginato tanto e non po-
teva certo pensare di spendere 2 mila miliardi di denaro pubblico per
sostenere il sistema finanziario. Se si mettono insieme tutti gli stanzia-
menti varati da Bush prima e da Obama poi tra dicembre 2007 e gen-
Politiche monetarie afone e crisi di fiducia 63
del Tesoro forniva cifre da incubo sulla caduta del PIL statunitense, pa-
ri a –6,2% negli ultimi tre mesi del 2008, un dato decisamente peggio-
re di ogni stima possibile e che non si ripeteva da una trentina di anni.
Per capire cosa stia succedendo, questi due aspetti – gigantesco budget
federale e crisi – vanno letti insieme. Di fronte ad una crisi che sembra
non avere più confini, Obama annuncia un bilancio che segna la com-
parsa di un deficit nei conti pubblici vicino ai 1800 miliardi di dollari,
molto più alto quindi dell’intera ricchezza prodotta in un anno dal no-
stro paese; un deficit pari al 12,3% del PIL americano, quindi 4 volte
superiore ai parametri virtuosi imposti all’Europa dal trattato di
Maastricht e al deficit USA dell’anno prima. Un simile disavanzo deri-
va innanzi tutto dalle risorse che continuano ad indirizzarsi verso le
banche, sempre più in affanno, come dimostra la necessità per lo Stato
di salire fino al 36% della proprietà azionaria di Citigroup, la più gran-
de banca del mondo. Dipende poi dalla caccia agli asset tossici che
l’amministrazione statunitense vuole cancellare dai bilanci di banche,
assicurazioni e società con spese miliardarie. Ma oltre al settore finan-
ziario Obama vuole destinare soldi alla sanità, con un piano da 634
miliardi di dollari in 10 anni, ai lavori pubblici, all’ambiente e al setto-
re manifatturiero. Si tratta di un vero e proprio cambio di prospettiva
rispetto al passato, che al fine di reperire le enormi liquidità necessa-
rie, colpisce alcuni gruppi sociali storicamente molto forti, dagli agri-
coltori, con un taglio dei sussidi, ai petrolieri, sottoposti ad una serie
di inasprimenti fiscali, che dovrebbero portare nelle casse USA 31 mi-
liardi di dollari in una decina di anni; dai titolari di redditi superiori ai
500 mila dollari alle imprese che subiranno, per la prima volta, la tas-
sazione dei profitti all’estero. L’America di Obama sembra costretta
dalle difficoltà a concentrarsi su se stessa, mettendosi in discussione
senza avere però certezze circa la riuscita reale dei propri sforzi. Può
vantare tuttavia alcuni elementi di indubbia forza: in questo momento
nessun altro paese al mondo può iniettare nella propria economia 3600
miliardi di dollari e dunque è evidente che una tale prerogativa può
consolidare il primato americano. Per disporre di una simile montagna
di risorse gli Stati Uniti devono però cambiare in profondità la loro
stessa geografia sociale e il loro ruolo internazionale. Per difendere i
redditi degli americani e far ripartire i consumi interni è necessaria una
colossale redistribuzione di ricchezza che ponga fine al crescente e ra-
pido impoverimento del ceto medio verificatosi negli ultimi venti anni.
Bisogna, al tempo stesso, ripensare il peso delle banche e dei mercati
finanziari, a cui non può più essere demandato il compito di produrre
ricchezza per l’intero sistema paese. Soprattutto è indispensabile che
tenga la capacità del governo degli Stati Uniti di indebitarsi per trovare
Politiche monetarie afone e crisi di fiducia 67
Come negli USA, anche in Europa bisogna fare presto; questo sem-
bra essere il monito che scuote i governi europei e le banche centrali.
La crisi industriale ormai è esplosa pure qui e sta colpendo duramente
il settore automobilistico, chimico, minerario e siderurgico, oltre ad
aggravare i ritardi di altri comparti già in affanno. I benefici che pos-
sono derivare dalla decisa e improvvisa riduzione del prezzo del pe-
trolio e delle materie prime sono infatti vanificati dal pesante indebi-
tamento in cui versano molte imprese, dalla loro difficoltà nel reperi-
re liquidità e dalla scomparsa di numerosi mercati di destinazione fi-
nale delle produzioni. La continua distruzione di valore borsistico che
subiscono le società quotate contribuisce a rendere ancora più cupo
tale clima. Di fronte ad una situazione simile è finalmente ripartita in
Europa una politica monetaria volta a dare fiato all’economia reale,
con chiari segnali di abbassamento dei tassi fino all’1,5% e forse ol-
tre; una scelta quasi obbligata che si inserisce in un panorama inter-
nazionale di generale riduzione del costo del denaro, ora decisamente
necessaria per evitare guai peggiori e resa possibile dal repentino ve-
nir meno dei pericoli inflazionistici, sostituiti da tangibili sintomi di
deflazione. In quest’ottica sono assai meno cogenti sia il vincolo
strutturale – che il Trattato di Maastricht impone alla BCE allo scopo
di difendere il potere d’acquisto degli europei, contenendo l’inflazio-
ne al di sotto del 2% – sia la paura di fiammate inflattive legate ai rin-
novi dei contratti nazionali di categoria che anche in Germania hanno
mostrato, al di là delle dichiarazioni bellicose, una sostanziale mode-
razione. Le previsioni per il 2009 registrano che ben 11 dei 16 paesi
di Eurolandia subiranno una decisa recessione e lo sforamento del li-
mite del 3% avverrà in quasi tutta la UE con casi eclatanti come quello
dell’Irlanda, dove si prevede un segno negativo pari all’11%, della
Spagna con un deficit del 6,2%, della Francia con un meno 5,4%1.
Nel caso spagnolo, dove la recessione si è manifestata a partire dal-
1. A. CERRETELLI, UE: nel 2009 PIL italiano al -2%, «Il Sole 24 Ore», 20 gennaio 2009.
70 UNA CRISI TANTE CRISI
2. E. BRIVIO, Bruxelles: 200 miliardi per rilanciare l’economia, «Il Sole 24 ore», 27 no-
vembre 2008. Su questo tema si vedano anche le considerazioni espresse da James A.
Mirrlees in una recente intervista (V. DA ROLD, “Giusti gli aiuti, purché temporanei”, «Il
Sole 24 ore», 23 novembre 2008). Già a inizio dicembre Almunia e Trichet notavano come i
piani di intervento adottati dai governi fossero solo 18 su 27 Stati membri, per una percen-
tuale pari allo 0,7% del PIL continentale (E. BRIVIO, “Governi troppo lenti”, DOV E ?, 9 di-
cembre 2008).
72 UNA CRISI TANTE CRISI
gli shock interni. Il caso della Germania sta dimostrando che, nono-
stante un piano pubblico di 500 miliardi di euro tra garanzie e ricapita-
lizzazioni, il sistema bancario è ancora in affanno e da più parti si ven-
tila un nuovo intervento da 30 miliardi. A inizio gennaio 2009 il go-
verno tedesco ha iniettato 10 miliardi di euro nel capitale di
Commerzbank: dopo tale intervento e dopo la fusione in atto con
Dresdner Bank, lo Stato ne deterrà il 25%, procedendo al contempo ad
ottenere il 10% di Deutsche Bank, attraverso l’acquisizione da parte di
tale istituto di Postbank, la banca al dettaglio più importante della
Germania, partecipata da Deutsche Post3. A febbraio la presa d’atto
del tracollo di Hypo Real Estate ha spinto il governo di Angela Merkel
a proporre un progetto di legge che consente la nazionalizzazione for-
zata di un istituto di credito in crisi. Tale norma segna un evidente sal-
to di qualità in termini di rilievo dell’intervento statale, soprattutto in
relazione all’ordinamento tedesco dove l’articolo 14 della legge fonda-
mentale stabilisce precisi limiti all’esproprio e contiene solo un gene-
rico rimando alla possibilità di indennizzo per gli azionisti espropriati.
Le difficoltà continuano a caratterizzare anche l’economia della
Francia dove il governo, sottoposto a forti critiche, fin dal 12 ottobre
2008 ha presentato un piano che offriva una garanzia a copertura dei
titoli emessi dalla Société française de financiement de l’économie en-
tro il 31 dicembre 2009, con una scadenza da uno a cinque anni e a
tassi di mercato per un ammontare complessivo pari a 320 miliardi di
euro. Lo Stato francese si è impegnato inoltre a offrire una garanzia
sui finanziamenti concessi alle società del gruppo Dexia, in accordo
con i governi lussemburghese e belga4, quest’ultimo già coinvolto in
maniera massiccia nel difficoltoso salvataggio dell’istituto finanziario
Fortis. In Spagna si è assistito alla parallela creazione di un fondo, con
una dotazione iniziale di 30 miliardi di euro e con la possibilità di ac-
quistare titoli da istituzioni finanziarie operanti in Spagna; pure in
questo caso molte delle criticità continuano tuttavia a permanere seb-
bene in un quadro bancario più solido.
L’esigenza di pronte repliche europee deriva dal fatto che, a diffe-
renza di quanto avveniva in passato, ora la crisi ha origine fuori
dall’Europa e i diversi poli dell’economia mondiale – Stati Uniti,
Cina, Russia, America Latina – stanno attrezzandosi per riportare i
capitali a casa o per trattenerli all’interno dei propri mercati, a cui
fornire – sia pur con esiti incerti stimoli – decisi per rilanciare i con-
sumi. In particolare la Russia, che ha visto crollare l’indice MICEX
3. E.B. ROMANO, Deutsche Bank fa posto allo Stato, «Il Sole 24 ore», 14 gennaio 2009.
4. Banca d’Italia, Bollettino economico, n. 55, gennaio 2009, p. 11.
Incubi europei 73
della Borsa di Mosca da quasi 2.000 a poco più di 213 punti, sembra
intenzionata a utilizzare gran parte dei 330 miliardi di dollari di riser-
ve – erano 450 solo qualche mese fa – e i 200 miliardi del fondo di
stabilizzazione, accumulati nella fase dei prezzi alti del petrolio, per
dare fiato alla propria economia, portando i sussidi di disoccupazione
a 4.900 rubli (circa 175 dollari), aumentando le pensioni del 12% e
introducendo una serie di misure di supporto ai veri settori
produttivi5. Malgrado tutto ciò è probabile che l’economia russa regi-
stri nel 2009 un deficit dei conti pubblici superiore al 6%, un disavan-
zo della bilancia commerciale e una crescita del PIL del 3,5% con se-
gni di inflazione al 12,5%, di svalutazione della moneta e di disoccu-
pazione, resa avvertibile dalla presenza di quasi 5 milioni di senza la-
voro6. A preoccupare Putin è in particolare la sorte del rublo: nel giro
di pochi mesi, tra dicembre e febbraio, è sceso da un rapporto di 29
rubli per un euro ad uno di 46 a 1, mentre l’agenzia di rating Fitch ha
declassato da BBB+ a BBB la valutazione del debito pubblico russo,
seguendo l’esempio di Standard & Poor’s che aveva operato già a di-
cembre 2008 una riduzione analoga.
5. A. SCOTT, Putin: più Stato nelle imprese, «Il Sole 24 ore», 5 dicembre 2008.
6. F. DRAGOSEI, Russia, il governo rompe il tabù “Siamo in recessione”, «Corriere della
sera», 13 dicembre 2008.
74 UNA CRISI TANTE CRISI
SOLUZIONI NAZIONALI
stessa piazza milanese ha subìto perdite pari al 50%. Oggi questi dati
sono messi pesantemente a rischio se si pensa che nell’ultimo trimestre
del 2008 il PIL italiano è crollato del 2,6% rispetto al 2007 e dell’1,8%
nei confronti del trimestre precedente: numeri negativi che non si regi-
stravano dal 1980, tanto più se accompagnati ad una caduta del PIL nel
2008, pari complessivamente allo 0,9%, la peggiore dal 1993.
Le dure proteste espresse dai lavoratori inglesi della raffineria
Lindsey Oil, a Grimsby nel Lincolnshire, contro gli “sporchi immigra-
ti” italiani accusati di accettare salari da fame, costituiscono uno degli
esempi più chiari del nuovo clima determinato dalla recessione econo-
mica. L’origine delle manifestazioni di piazza è riconducibile alla de-
cisione di Total, che gestisce la raffineria di Grimsby, di affidare una
serie di importanti lavori all’azienda siciliana Irem, evitando di ricor-
rere a manodopera inglese. La maggiore sigla sindacale britannica,
Unite, ha giustificato la sollevazione degli operai “nazionali” dichia-
rando che le aziende estere starebbero ormai da tempo discriminando
la manodopera locale, mentre la stampa popolare ha soffiato sul fuoco
della polemica indicando i lavoratori italiani come poco attenti alle
norme di sicurezza e disposti ad un vero e proprio “crumiraggio”. Il
primo ministro Gordon Brown, decisamente imbarazzato, ha criticato
l’iniziativa dei lavoratori inglesi, limitandosi però a definirla soprattut-
to “inopportuna”; il ministro della Sanità Alan Johnson si è spinto ol-
tre, chiedendo una revisione profonda della normativa a tutela dei la-
voratori, indebolita, a suo giudizio, dalle recenti sentenze della Corte
europea. A sostegno dei lavoratori della raffineria Lindsey si sono avu-
te poi numerose manifestazioni in altri impianti a partire da quelli
scozzesi di Grangenouth e del gassificatore di South Hook nel Galles,
a cui ha fatto seguito una aperta dichiarazione di supporto alle ragioni
dei lavoratori inglesi dell’ex leader dei minatori Arthur Scargill, ora
esponente del Socialist Labour Party. «Ben venga il protezionismo –
ha detto – per tutelare salari e occupazione»4. Già queste reazioni fan-
no capire che la vicenda della Lindsey Oil, conclusasi solo dopo l’im-
pegno della Total ad assumere un numero di lavoratori britannici pari a
quello di lavoratori stranieri, rischia di anticiparne molte altre. Se la
possibilità per le singole economie nazionali di uscire dalla crisi, sal-
vando migliaia di posti di lavoro, dipende sempre più dall’intervento
dello Stato, sia sotto forma di aiuti sia attraverso l’adozione di rigide
politiche protezionistiche, è evidente che l’appello all’appartenenza
nazionale come criterio di destinazione delle risorse statali sarà sem-
pre più marcato. I dati certificano però quanto gli appelli alla difesa
4. L. MAISANO, Il leone Scargill torna sulle barricate, «Il Sole 24 ore», 3 febbraio 2009.
Soluzioni nazionali 81
5. M. LONGO, Così è crollato il castello di carta, «Il Sole 24 ore», 1 marzo 2009.
86 UNA CRISI TANTE CRISI
Questa crisi sta colpendo duramente anche alcune zone già molto
fragili come il mercato dei beni agricoli in Africa, che rischia di esse-
re una delle vittime principali delle difficoltà economiche attuali.
Quando si affronta il tema del mercato agricolo africano bisogna di-
stinguere almeno tre diverse dimensioni che lo contraddistinguono.
Esiste infatti un mercato fisico dei beni agricoli, caratterizzato dalla
presenza degli strumenti propri dello scambio formalizzato, dalla mo-
neta alle norme commerciali, che è radicato soltanto in alcune aree
del continente; accanto ad esso convivono una rete di scambi e di
traffici informali – dove il baratto e la territorialità sono largamente
dominanti – e la fortissima influenza della finanziarizzazione dei beni
agricoli. Proprio quest’ultimo aspetto, sul versante della determina-
zione dei prezzi, risulta decisamente prevalente dal momento che so-
no gli scenari internazionali a definire le condizioni per l’attribuzione
del “valore” ai beni primari, rispetto ai quali la domanda interna, sia
per la sua esiguità sia per la sua difficile “formalizzazione” moneta-
ria, ha un peso assai relativo. È naturale dunque che nel corso dell’ul-
timo anno il vero e proprio andamento schizofrenico del mercato fi-
nanziario mondiale dei beni agricoli ha prodotto conseguenze durissi-
me nei confronti delle fragili economie africane.
Fino a luglio 2008 si è assistito al fenomeno della cosiddetta
“agrinflazione”, della marcata crescita cioè del prezzo dei beni agri-
coli, in particolare dei cereali; il prezzo del riso, alimento di base per
numerosissimi paesi, tanto da essere utilizzato come valore di riferi-
mento dei mercati, è aumentato nei primi sei mesi del 2008 di oltre il
50% in Costa d’Avorio, del 50% nella Repubblica Centraficana, del
39% in Camerun, del 45% in Senegal, del 42% in Mauritania, mentre
in Sierra Leone, per le specifiche condizioni politiche e ambientali,
ha raggiunto il 300%. Nel medesimo periodo il grano ha conosciuto
un andamento molto simile a quello del riso e il mais ha visto il pro-
prio prezzo crescere di un terzo. Già negli ultimi giorni di settembre
2007, al Chicago Board of trade il future per consegna vicina del fru-
88 UNA CRISI TANTE CRISI
mento aveva toccato il record dei 9,39 dollari per bushel, più del dop-
pio rispetto ad un anno prima1.
Le cause di tali aumenti sono state molteplici, a cominciare proprio
dalla speculazione finanziaria che ha trasformato per alcuni mesi i be-
ni agricoli in beni rifugio. Nel 2006 i futures sui cereali negoziati alla
Borsa di Chicago hanno superato il valore di 3 mila miliardi di dollari
e sono stati tenuti alti solo in minima parte dalla crescita della doman-
da reale. Nel 2007 e nel 2008 il volume degli scambi è ulteriormente
cresciuto e ad incidere sulle quotazioni ha contribuito anche la deci-
sione di molti fondi di investimento di impiegare gran parte delle pro-
prie risorse di liquidità nel settore delle commodities così che gli inve-
stimenti basati sull’indice delle materie prime sono cresciuti dai 30
miliardi di dollari del 2003 ai 160 miliardi del 2007. In termini finan-
ziari è interessante rilevare che l’Africa subshariana viene ormai inse-
rita negli indici EMEA, i quali mettono insieme, all’interno dei vari fon-
di, i paesi emergenti europei, il Medio Oriente e appunto l’Africa
subshariana. Un accostamento assai forzato, dovuto in parte proprio
alla comune natura di aree produttrici ed esportatrici di materie prime
e commodities sempre più indirizzate verso Cina e India. Questo inse-
rimento ha favorito certamente una maggiore volatilità delle piazze
africane anche in relazione ai prezzi dei beni primari vista la loro cre-
scente scarsità in tali aree. Al definirsi dell’agroinflazione hanno con-
tribuito a lungo poi le debolezze del dollaro che ha messo in difficoltà
alcune valute e ne ha rafforzato altre, come è avvenuto per il rand su-
dafricano, colpito da pronunciata debolezza, al contrario per esempio
del kwacha dello Zambia. In momenti di grande tensione inflazionisti-
ca il ruolo delle monete assume un rilievo centrale rispetto alle bilance
commerciali soprattutto per i paesi dalle economie più fragili e specia-
lizzate in pochi prodotti sottoposti a concorrenza2. Per tali paesi, se
hanno scelto di applicare un controllo sulle proprie valute al fine di
evitare l’inflazione, le operazioni relative al cambio possono risultare
molto costose, come dimostra il caso della Nigeria. Il naira infatti, in
presenza di un forte afflusso di capitale estero e di alti prezzi del pe-
trolio, ha cominciato a salire di prezzo, costringendo la Banca centrale
a stamparlo in gran quantità per venderlo sul mercato dei cambi, accu-
mulando riserve valutarie. Ciò ha finito per stimolare di nuovo l’infla-
zione, che era faticosamente scesa dall’11 al 6%, inducendo la stessa
autorità monetaria a brusche sterilizzazioni. Il grande problema è rap-
1. P. ROBERTS, The end of food. The coming crisis in the world food industry, London,
Bloomsbury Publishing, 2008.
2. FAO, Southern Africa, 2006/2007 Mid-season Update, gennaio 2007.
Un caso specifico 89
africani4. Al di là delle diverse stime che circolano fra gli esperti circa
la reale potenzialità di questi carburanti, è indubbio che la loro “coltiva-
zione” necessita di molta acqua – ottenere un litro di etanolo richiede
da tre a cinque litri di acqua d’irrigazione e genera fino a tredici litri di
acque reflue –, accelera processi di deforestazione e tende a ridurre
l’occupazione (nelle zone tropicali, 100 ettari destinati all’agricoltura
familiare creano 35 posti di lavoro, mentre la palma da olio e la canna
da zucchero solamente una decina)5. Lo sviluppo dei biocarburanti è
stato reso possibile dal prezzo del barile di petrolio ampiamente sopra i
100 dollari; con il greggio tornato a inizio 2009 tra i 40 e i 50 dollari è
molto probabile che tale settore subisca un drastico ridimensionamento,
contribuendo alla già marcata riduzione del prezzo dei beni agricoli.
Alla luce di ciò si tratta di capire quali siano state le conseguenze
di questa fase rialziasta dei prezzi soprattutto per le economie più sen-
sibili ad essi, le più “aperte”, come quella africana. Qualche dato può
essere utile per cogliere le dimensioni del fenomeno: dal 1995 al 2003
le esportazioni agroalimentari dell’Africa dell’Ovest sono cresciute
del 50% (per oltre 6 miliardi di dollari) ma il deficit dei suoi scambi
alimentari è salito in misura maggiore, arrivando al 55% (pari a quasi
5 miliardi). L’Africa occidentale si è ridotta da forte esportatrice a re-
gione importatrice di prodotti alimentari. Dal 1993 al 2002 quest’area
ha aumentato le proprie importazioni di cereali del 60% (per il resto
del mondo l’aumento è stato del 18,2%), mentre la loro produzione è
aumentata solo del 16,3% (6% per la media mondiale). Nell’area di li-
bero scambio dell’Africa occidentale la produzione agricola “specia-
lizzata” è destinata al mercato interno solo per una percentuale com-
presa tra l’8 e il 13%6, mentre assai più ampia è la parte destinata al
consumo domestico costituita dalla produzione non specializzata. In
tutta l’Africa subsahariana la bilancia commerciale agricola è divenuta
passiva dal 2000, con una fortissima crescita dell’importazione dei ce-
reali; questo in un contesto mondiale dove, invece, gli scambi com-
merciali di beni agricoli interessano solo il 5% della produzione agri-
cola mondiale.
Nel corso del 2007 Benin e Burkina hanno presentato un pesante
problema commerciale: il forte aumento del prezzo del grano non è
stato compensato da un analogo incremento del prezzo del cotone; in
Gambia la produzione di cereali ha coperto meno della metà del fabbi-
9. G.T. SCARASCIA MUGNOZZA, Una rivoluzione verde per l’Africa, «30Giorni», n. 2, 2007.
10. J. DIOUF, Lo sviluppo agricolo, una carta che l’Africa può giocare, «Le Monde diplo-
matique», dicembre 2004. Cfr. anche P. COLLIER, L’ultimo miliardo, Roma, Laterza, 2008.
Un caso specifico 93
12. S. CARRER, Il Giappone sprofonda nella recessione, «Il Sole 24 ore», 10 dicem-
bre 2008.
13. R. SORRENTINO, L’Africa cerca unità nell’economia, «Il Sole 24 ore», 2 novem-
bre 2008.
14. J.P. TUQOI, I ricchi sfamati dall’Africa, «La stampa», 21 novembre 2008.
96 UNA CRISI TANTE CRISI
fallimento del Doha round, è molto probabile che le sorti dei mercati
agricoli africani siano schiacciate da una vera e propria frantumazione
localistica: senza monete di riferimento, senza sbocchi internazionali,
con una scarsa remunerazione sui mercati interni e con prezzi dei ter-
reni a picco, gli spazi per un’economia reale, capace di garantire mi-
gliori condizioni di vita e soprattutto una vera sovranità alimentare,
sono molto limitati. Negli scenari di una crisi molto cupa potrebbero
prendere consistenza soluzioni assai particolari come le ipotesi di svi-
luppare la coltivazione del riso OGM: l’esperienza di Nerica, il riso che
resiste alla siccità e fornisce grandi raccolti, costituisce uno degli
esempi più chiari in tal senso15. La possibilità che queste soluzioni si
concilino con la struttura familiare dell’agricoltura africana è tuttavia
quantomeno da verificare. Può essere sfruttata invece l’adattabilità
delle agricolture famigliari per ricostruire una maggiore autonomia re-
gionale anche perché in molti casi le dimensioni delle cosiddette agri-
colture domestiche, in particolare in Africa occidentale, comprendono
sia aziende di 2-3 persone sia quelle con un centinaio di lavoratori,
senza reali differenze di fondo nel loro funzionamento. Fanno infatti
parte del medesimo modello quelli che secondo le definizioni OECD-
DAC sono descritti come “tradizionalisti” (family farms con qualche
rapporto con il mercato) e come “superstiti” (proprietari di piccoli ap-
pezzamenti che producono solo per l’alimentazione famigliare): un
esteso gruppo che dipende dalle fragilità dell’ecosistema e dai raccolti,
sottoposto al rischio di scadere nei ben più precari insiemi dei “sala-
riati” e degli “schiavi”. Migliorare l’efficienza delle agricolture fami-
gliari può pertanto consentire di frenare le migrazioni dalle zone rurali
alle megalopoli, conseguenza del rapido impoverimento di tali aree so-
ciali, favorendo altresì la nascita di “capoluoghi rurali”, snodi che per-
mettono di razionalizzare la mobilità contadina, rendendola meno in-
vasiva e inserendola in una efficace pluriattività, nell’ambito della qua-
le i redditi non agricoli, uniti alle rimesse dall’estero, compongono cir-
ca il 50% dei budget famigliari negli ambienti rurali16. Un’esigenza
rafforzata dal fatto che gli investimenti diretti esteri hanno determinato
in molte zone africane ricadute molto limitate e si sono tradotti soprat-
tutto in profit remittances: nel periodo 1995-2003 su 10,761 milioni di
dollari diretti in Angola questa voce è stata pari a oltre 7 milioni, in
Botswana su 943 mila dollari ben 5 milioni, nella Repubblica demo-
cratica del Congo su 1,6 milioni quasi 3 milioni, in Nigeria su 11 mi-
15. L. DELL’AGLIO, Riso, l’OGM “buono” che salverà l’Africa, «Avvenire», 10 dicem-
bre 2008.
16. F. LOVISOLO, S. VITALE, Povertà, sviluppo e mobilità rurale in Africa occidentale,
«Working papere», n. 13, 2006.
Un caso specifico 97
lioni oltre 1217. Resta ugualmente molto intensa la fuga di capitali dal
continente africano: secondo stime pubblicate da «Jeune Afrique» è
stata superiore nel 2006 ai 30 miliardi di dollari. Il Rapporto UNCTAD
del 2007 relativo agli investimenti diretti esteri ha messo in rilievo co-
me l’unica loro ricaduta reale nei paesi dell’Africa subshariana pro-
venga dalle entrate fiscali; di fronte a prezzi in rialzo di materie prime
e minerali, molti di questi paesi hanno avviato una ridefinizione degli
appalti e dei regimi di concessione accordati alle società transnaziona-
li. Lo stesso rapporto ha insistito sul fatto che nel 2006 gli investimenti
diretti esteri in Africa, saliti a 35 miliardi di dollari, hanno rappresen-
tato una percentuale sul totale più bassa rispetto al 2005, passando dal
3,1 al 2,7%, e si sono soprattutto indirizzati per ben 10 miliardi
all’Egitto. La crescita del valore assoluto è dipesa prevalentemente
dall’aumento del prezzo delle commodities, contrastata dallo sforzo di
riacquisto di azioni di società concessionarie da parte degli Stati titola-
ri delle concessioni. In molti paesi africani gli investimenti diretti este-
ri sono stati attratti in larga prevalenza dal settore minerario; così è av-
venuto in Ghana, Zambia, Tanzania e Mali18. Allo sviluppo rurale en-
dogeno e locale non sembra quindi possano essere sostituite altre for-
me centrate sull’apertura all’esterno, anche se una simile evoluzione
ha bisogno di alcuni elementi ulteriori rappresentati da vere e proprie
politiche sociali per le fasce più deboli, da misure in campo educativo
e sanitario, da politiche di contenimento delle nascite e da un sistema
di interventi infrastrutturali. Vi è bisogno anche di un migliore utilizzo
delle centralissime rimesse degli emigrati che per l’intero continente
africano hanno assommato nel 2007 a quasi 40 miliardi di dollari, di
cui circa 11 nell’Africa occidentale e più di 5 in quella orientale. Una
somma tuttavia limitata dai pesanti costi di trasmissione, compresi fra
il 25-30%, e dalla scarsa sicurezza dei trasferimenti, in relazione alme-
no in parte alle carenze del sistema finanziario dei paesi destinatari.
Solo il 20% di tali rimesse si traduce in investimenti per attività eco-
nomiche locali19 e nel 2009 il complesso dei trasferimenti è destinato a
subire una forte contrazione del 13% in Africa del Nord e Medio
Oriente e del 7% in Africa subsahariana.
È sempre più evidente che la globalizzazione ha trasformato in ten-
sioni mondiali condotte politiche ed economiche che hanno origine
nelle singole aree. Eventi come il vertice della FAO a Roma si sono
Non era mai successo. Questa espressione sta diventando ormai fin
troppo ricorrente. Non era mai successo che il tasso di interesse della
BCE raggiungesse livelli così bassi, mai toccati dal 1999, da quando le è
stata affidata la gestione delle politiche monetarie europee. Non era
mai successo neppure che le banche reagissero così male ad un taglio
tanto marcato dei tassi di interesse, a dimostrazione che la politica mo-
netaria è in questa fase un’arma assolutamente spuntata. La Banca
d’Inghilterra, storicamente molto severa nei confronti dei mercati, ha
portato il tasso alla soglia record dello 0,50%, lo stesso della Banca ca-
nadese, procedendo persino a “stampare” sterline per 75 miliardi e a ri-
correre quindi a strumenti “non convenzionali”. Non era mai successo
che il denaro fosse gratis in gran parte del mondo e che le banche non
riuscissero in nessun modo a riprendersi, costituendo, anzi, il principa-
le problema economico contemporaneo. Non era mai successo che
aziende iper capitalizzate e solide fino a pochi mesi prima si siano tro-
vate con tale rapidità sull’orlo del baratro. General Motors è solo l’e-
sempio più evidente di un fenomeno di questo tipo. Non era neppure
mai successo che l’enorme messe di aiuti, peraltro anch’essi senza pre-
cedenti, posti in gioco dal governo degli Stati Uniti guidato dal più ca-
rismatico dei presidenti, non riuscisse a scalfire la perdita di valore del-
le aziende americane e a frenare l’emorragia dei posti di lavoro che
dall’inizio della crisi al marzo 2009 hanno raggiunto la colossale cifra
di 4,4 milioni. In 17 mesi, tra il 2008 e il 2009, l’indice della Borsa USA
ha ceduto il 57%, più di quanto aveva perso con la crisi dei titoli tecno-
logici all’inizio del nuovo millennio, quando la perdita fu del 49%, più
della crisi petrolifera degli anni Settanta che aveva registrato una con-
trazione del 48% e più della crisi del 1929, allorché l’indice era sceso
del 47,9%. Appare evidente che né il libero mercato né il protezioni-
smo paiono ora capaci di invertire gli indici economici. Non era mai
successo che il governo giapponese decidesse di attingere alle riserve
della propria banca centrale per sostenere il sistema bancario; così co-
me non era mai successo che uno stato comunista come la Cina iniet-
tasse in due tranche più di mille miliardi di dollari per alimentare i pro-
102 UNA CRISI TANTE CRISI
superato il picco, nel 2011, per evitare effetti inflattivi determinati pro-
prio dall’eccesso della carta moneta sfornata (PERIODO A ME POCO
CHIARO...). Una condizione resa incerta dal futuro comportamento
della Cina, principale depositaria di dollari, che ha dichiarato di voler
finanziare il Fondo monetario non con un prestito di riserve ma con
l’acquisto di emissioni di bond, utilizzando una prerogativa statutaria
dell’istituzione, di fatto mai applicata. Richiamando alcune delle consi-
derazioni espresse da Keynes proprio a Bretton Woods, sarebbe più op-
portuno invece che il Fondo monetario, una volta chiarita rapidamente
la questione della governance, allargata e resa molto più trasparente e
democratica sulla base delle proposte già a lungo discusse, legasse la
sua azione di vigilanza alla costituzione di una valuta internazionale di
riserva, costruita a partire dai diritti di prelievo, ma svincolata da una
esclusiva dipendenza dal dollaro e agganciata ad un paniere di valute.
Sarebbe forse più facile così stabilizzare il sistema monetario interna-
zionale riducendo le quantità in circolazione di dollari e il bisogno stes-
so di carta moneta realmente circolante, sostituita in parte dalla moneta
di riserva. Il Fondo monetario, reso concretamente più mondiale nella
sua composizione, sarebbe il supervisore e il garante della sostenibilità
monetaria: un obiettivo quindi non troppo ostico sul piano tecnico ma
come è ovvio di grandissimo rilievo politico – e dunque molto com-
plesso – per le ricadute in termini di gerarchie economiche globali.
Superate le inevitabili e forti resistenze, questo nuovo ruolo del Fondo
potrebbe tuttavia essere svolto proficuamente solo ad alcune condizio-
ni. La prima è che nell’interpretare le proprie funzioni di vigilanza, in
un regime di non convertibilità destinato probabilmente a indirizzarsi
verso i cambi fissi, il Fondo utilizzi indicatori delle ricadute della pro-
pria azione di natura realmente nuova, decisamente più attenti agli
aspetti sociali. Anche la quantificazione del rapporto fra diritti di prelie-
vo e moneta di riserva dovrebbe essere pensata in termini sociali, te-
nendo conto finalmente degli effetti più complessivi scatenati dallo
strumento monetario nel definire disuguaglianze socio-economiche nel
pianeta. Il Fondo monetario non può limitarsi a legittimare l’utilizzo
della moneta sulla base di una mera raffigurazione dei rapporti di forza
esistenti, registrando unicamente l’indebolimento del dollaro e la mag-
gior forza dello yuan e dell’euro né a concepire panieri monetari che
penalizzino di fatto le aree prive di valute vere o con valute molto fragi-
li. Non sarebbe sufficiente neppure – per quanto molto semplice –
prendere atto della capacità della Cina di imporre lo yuan come stru-
mento per gli scambi relativi alla propria robusta bilancia commerciale
o negoziare con i grandi fondi sovrani delle economie esportatrici le
valute di riferimento e i relativi prezzi. Simili ricette possono essere in-
108 UNA CRISI TANTE CRISI
terpretate come la strada più rapida e indolore per uscire dalla crisi at-
tuale ma finirebbero molto probabilmente per generare in breve tempo
nuovi squilibri, spostando le tensioni dal dollaro su altre divise. Una
nuova Bretton Woods dovrebbe al contrario obbligare il Fondo moneta-
rio – qualora si decidesse che questo è l’organo prescelto per i controlli
monetari – a mettere in essere una politica sociale della moneta sia in
relazione al già accennato uso dei diritti di prelievo sia in merito alle
strategie dei tassi di interesse praticati dalle banche centrali, le quali
hanno bisogno di un maggiore coordinamento proprio per evitare la
concorrenza internazionale all’accaparramento dei capitali, fonte pri-
maria delle instabilità degli ultimi vent’anni. I parametri utilizzati in
passato e basati sul rigore dei conti pubblici e sul contenimento del de-
bito sono stati ampiamente stravolti dalle dinamiche della crisi in atto,
nella quale in pochi mesi il rapporto debito-PIL si è avvicinato al 100%
in molte economie “sviluppate” del pianeta, scatenando un’aspra con-
correnza mondiale in termini di interessi e, ancora una volta, di quanti-
tà emesse. Se la moneta e il debito hanno modificato la propria natura
anche la vigilanza nei loro confronti deve mutare in profondità; soprat-
tutto bisogna evitare che si inneschino le condizioni di una prossima
crisi molto più grave qualora il costo della tempesta finanziaria sia fatto
pagare alle realtà più deboli sottraendo loro ogni forma di finanziamen-
to e attribuendogli posizioni monetarie ancora più marginali. Il ritorno
in patria dei capitali dei paesi dai redditi più alti, la fine dei carry trade
verso le aree emergenti, il crollo dei prestiti internazionali, i nuovi pro-
tezionismi sono elementi che le autorità monetarie devono e dovranno
adoperarsi per rimuovere. Così come occorre trovare nuovi standard di
garanzia del sistema finanziario mondiale che non siano il portato di un
compromesso al ribasso motivato dalla necessità di salvare il salvabile,
magari limitandosi ad introdurre soltanto nuove procedure. Tuttavia,
quando l’autorità americana di vigilanza sul sistema bancario decide, in
maniera autonoma, di sospendere il mark to market, lo strumento fina-
lizzato a rendere i bilanci più aderenti al valore reale dei titoli possedu-
ti, creando un chiaro vulnus ad ogni ipotesi di maggiore trasparenza e
inducendo gli altri mercati del credito “nazionale” a fare altrettanto, è
evidente che nessun organo di vigilanza potrà in concreto svolgere la
propria azione. I dubbi circa le reali volontà di cambiamento sono resi
più marcati poi dal fatto che all’operato del Fondo monetario si è af-
fiancato di recente quello di un livello intermedio di controlli e di coor-
dinamento costituito dal Financial stability board, il cui scopo è di frap-
porre uno schermo di mediazione nei confronti di norme internazionali
troppo vincolanti. Così come, senza un ripensamento dei livelli di patri-
monializzazione e di capitalizzazione richiesti alle banche e alle società
Epilogo 109
per mettersi alla ricerca di risorse sui mercati vendendo propri titoli, è
altrettanto arduo concepire uno sforzo, da più parti invocato, di “mora-
lizzazione” del sistema finanziario. In questo senso saranno difficili ve-
ri cambiamenti se dalla crisi non emerge prima di tutto una diversa cul-
tura finanziaria che adotti un sistema di valori imperniato sulla rinuncia
alla creazione di ricchezza puramente artificiale e che accetti quindi un
significativo ridimensionamento dell’attuale, infinito strumentario del-
l’ingegneria finanziaria. Ciò significa innanzi tutto individuare sedi
nuove dove scegliere cosa salvare e soprattutto dove trovare vere moti-
vazioni per procedere ai salvataggi; le istituzioni finanziarie internazio-
nali dovrebbero servire a tale scopo ma hanno appunto bisogno di un
modello culturale che rinunci in larga parte alla finanza in se stessa. In
questo momento la discussione sembra investire quasi esclusivamente
il Fondo monetario ed è comunque necessario, vista la gravità della cri-
si, provare a cambiarne la natura per farne un mezzo operativo decisa-
mente più equo. È molto probabile che sia uno sforzo inutile. La cultu-
ra della democrazia economica dovrà allora misurarsi con sfide di gran-
de respiro e per molti versi ancora incognite, affrontabili però solo do-
po la definitiva scomparsa della natura speculativa di CDS, ABS, derivati
e quant’altro.
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