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Master Universitario annuale di I livello

in
“Metodologie didattiche per
l’insegnamento della lingua italiana a
stranieri - Didattica dell’Italiano L2”

Modulo 1 – Insegnare l’italiano a


stranieri: aspetti generali

Area 2 - La didattica dell’italiano come lingua


straniera

SSD: L-LIN/02 - M-PED/01

Prof. Giuseppe Maccauro


Dottore di ricerca - Docente di Italiano L2
Indice

1. Quadri normativi: il D.P.R. 179/2011 e il Quadro comune europeo di


riferimento per le lingue
1.1. Introduzione
1.2. Il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue
1.3. Il problema delle competenze nel QCE
1.4. La complessità della realtà linguistica secondo il QCE
1.5. Il Decreto del Presidente della Repubblica del 14 settembre 2011, n. 179
1.6. Linee guida per la progettazione dei percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento
della lingua italiana
1.7. Cosa insegnare? Spunti didattici dalle Linee guida per la progettazione dei percorsi di
alfabetizzazione
1.8. Le Linee guida per la progettazione della sessione di formazione civica e di informazione, di cui
all’articolo 3 del DPR 179/2011
1.9. La Sessione di educazione civica: temi ed argomenti

2. I livelli di competenza e le scale di valutazione


2.1. Introduzione
2.2. La competenza secondo il Quadro Comune europeo di riferimento per le lingue
2.3. I livelli di competenza del Quadro comune europeo di riferimento per le lingue
2.4. La scala globale dei livelli del QCE

3. Glottodidattica e didattica dell’italiano L2/LS


3.1. Introduzione
3.2. Quale lingua? Le tipologie e i contesti glottodidattici
3.3. Gli approcci i metodi e le tecniche della glottodidattica
3.4. Lo spazio della azione didattica
3.5. Caratteristiche dell’azione didattica e struttura dell’Unità Didattica
3.6. L’Unità Didattica e il suo funzionamento
3.7. Valutazione degli strumenti didattici
3.8. Le metodologie didattiche

4. Semiotica e didattica dell’italiano L2/LS


4.1. Introduzione
4.2. Il Corso di linguistica generale e i concetti fondamentali della linguistica moderna
4.3. La linguistica e la dimensione temporale
4.4. Come funziona la lingua?
4.5. Gli ambiti della ricerca linguistica
4.6. I tipi linguistici
1. Quadri normativi: il D.P.R. 179/2011 e il Quadro comune europeo di
riferimento per le lingue

Introduzione

Negli ultimi decenni si è imposta l’esigenza di costituire delle cornici


normative all’interno delle quali conferire omogeneità e coerenza alle
numerose articolazioni della didattica delle lingue. Il fenomeno ha
riguardato sia la realtà nazionale, sia quella europea: in Italia si è reso
necessario, ad esempio, fornire un quadro normativo e di indirizzo ai
percorsi di insegnamento della lingua italiana di fronte alla crescita
esponenziale di immigrati; in Europa, invece, il fenomeno dell’unità
monetaria e politica si è tradotto anche nell’esigenza di affermare un punto
di convergenza fra le pratiche di didattica della lingua adottate dai vari
Paesi, soprattutto per quanto concerne le scale di valutazione della
competenza dei parlanti ed i principi della didattica stessa.

Il primo punto da prendere in considerazione, proprio per la sua natura di


“guida europea” nella progettazione, nella erogazione e nella valutazione
delle azioni di didattica della lingua straniera, è il Quadro comune europeo di
riferimento per le lingue.
Il QCE (disponibile in formato elettronico sul sito internet del Consiglio
d’Europa http://www.coe.int)è il frutto di un lungo lavoro di
elaborazione promosso sin dagli ’70 del ‘900 dal Consiglio d’Europa.
Nello Statuto del Consiglio d’Europa, all’art. 1, si legge che esso ha lo
scopo di «attuare un’unione più stretta fra i Membri per tutelare e
promuovere i principi che sono loro comune patrimonio e per favorire il
loro progresso economico e sociale». Nell’ottica, dunque, di promuovere
l’integrazione fra i Paesi membri, senza tuttavia mortificare le loro
specificità culturali, il Consiglio d’Europa ha predisposto ed incentivato,
nel tempo, azioni volte all’individuazione di obiettivi e metodi condivisi
nella pratica dell’insegnamento delle lingue europee. D’altra parte il
principio della “libera circolazione” delle persone, all’interno dei confini
del UE, avrebbe prevedibilmente prodotto un sostanziale
“rimescolamento” della realtà linguistica continentale, ed una crescente
richiesta di accesso alla formazione linguistica da parte dei cittadini dei
Paesi membri. Di fronte a questa prospettiva, del tutto nuova nella storia
del continente europeo, è stata avvertita molto forte l’esigenza di integrare
fra di loro i differenti sistemi nazionali di progettazione e valutazione, che
fino a qual momento avevano agito in maniera sostanzialmente autonoma.

Nel 1971 viene dunque varato dal Consiglio d’Europa il Progetto lingue
moderne (Modern Languages Project). Uno dei primi risultati che la
commissione di esperti riuscì ad ottenere, fu la mappatura e
l’identificazione dei cosiddetti livellisoglia, vale a dire l’insieme delle
competenze linguistiche minime che un cittadino europeo adulto deve
possedere per “sopravvivere” in un Paese straniero. Per “sopravvivenza”
si intende la capacità che, ad esempio, un cittadino italiano a Londra avrà
di compiere azioni di difficoltà elementare adoperando la lingua inglese:
trovare un alloggio, presentarsi in maniera chiara ma concisa, chiedere ed
ottenere semplici informazioni stradali, scegliere ed ordinare un pasto, e
così via. Ma indica anche il livello a partire dal quale si ritiene possibile far
procedere un efficace percorso di formazione linguistica.

Nel corso di qualche anno l’iniziativa del Consiglio d’Europa diede i


primi importanti frutti: nel 1975 fu pubblicato il Threshold level per l’inglese,
nel 1976 il Niveau Seuil per il francese, nel 1979 il Nivel umbral per lo
spagnolo, nel 1980 il Kontactschwelle per il tedesco e infine nel 1981 il Livello
soglia per l’insegnamento dell’italiano come lingua straniera ad opera della linguista
Nora Galli de’ Paratesi. La pubblicazione di questi volumi segna anche un’
importante svolta nell’approccio alla didattica: bisogna infatti segnalare
come il punto intorno a cui ruota l’ipotesi di questi lavori non è più, come
spesso si è soliti pensare in ambito di didattica delle lingue, la competenza
metalinguistica del parlante, ovvero la sua conoscenza delle strutture
grammaticali e sintattiche della lingua straniera, ma la sua capacità di
compiere efficacemente operazioni attraverso la lingua straniera, al di là
della correttezza formale degli enunciati.
Il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue
Il QCEprende la forma attuale solo alcuni anni più tardi (nel 2001 viene
pubblicato in inglese e nel 2006 esce anche in traduzione italiana). Esso
nasce dall’esigenza di conferire unitarietà agli studi sui livelli soglia e,
soprattutto, da quella di indicare agli operatori della formazione linguistica
e ai discenti stessi un riferimento solido e condiviso per la predisposizione
degli interventi didattici e per la valutazione delle competenze.

Un aspetto del QCE è da considerarsi di grande importanza e va


sottolineato: il QCE non vuole restringere il campo dei possibili interventi
didattici e formativi, né stabilisce in modo assoluto delle “mediane” che
distinguano in modo categorico i differenti livelli di competenza della
lingua. Il QCE, piuttosto, si propone come strumento autorevole che
delimita il quadro normativo all’interno del quale predisporre gli
interventi ed effettuare la valutazione delle competenze: è uno strumento
aperto, che intende crescere attraverso la diffusione e le realizzazione delle
pratiche che esso stesso promuove.

L’obiettivo del QCE, inoltre, è anche di tipo “politico”: esso considera il


problema della competenza linguistica come uno dei principi intorno ai
quali costruire il concetto europeo di cittadinanza. Non a caso, come detto,
esso si basa soprattutto sul riconoscimento dei bisogni dell’apprendente: la
lingua, nell’ottica del QCE, è uno strumento di democrazia e la
standardizzazione dei livelli e degli interventi didattici contribuisce a creare
un corpus di norme il più possibile chiare, al centro delle quali ci sono il
cittadino europeo ed i suoi bisogni linguistici. È lo stesso QCE a
sottolineare l’importanza che l’apprendente ed i suoi bisogni comunicativi
devono assumere:

«Di cosa gli apprendenti avranno bisogno per agire con il linguaggio, con la
lingua? Che cosa hanno bisogno di apprendere per diventare capaci di usare la
lingua per raggiungere tali obiettivi? Che cosa li spinge ad apprendere?Che tipo
di persone sono per età, sesso, retroterra sociale e culturale? Quali conoscenze,
abilità, esperienze hanno i loro insegnanti? Quale possibilità di accesso hanno a
manuali didattici, ad altre opere di riferimento (dizionari, grammatiche), a
strumenti audiovisivi, alle tecnologie avanzate? Quanto tempo, infine, posso
impegnare nell’apprendimento linguistico?» (pag. 11)

Un aspetto del QCE, che rappresenta una novità sostanziale rispetto agli
studi degli anni ‘70/’80 sui livelli soglia, è costituito dalla grande attenzione
rivolta agli aspetti “culturali” della lingua. Una lingua non è mai
solamente l’insieme di un vocabolario e di regole sintattiche. La lingua, al
contrario, è un sistema complesso e vivo, in continua trasformazione, che
conosce codici ed usi differenti a seconda del contesto in cui viene
utilizzata e che si modifica col modificarsi della comunità di persone che la
utilizza. La lingua riflette il sistema dei valori dei parlanti, lo influenza e ne
viene a sua volta influenzata: è un fattore antropologico, prima ancora che
un insieme rigido di regole codificate, ed è, come tutti i fenomeni culturali,
un sistema aperto ad infinite sollecitazioni. Per questo motivo il QCE
riconosce l’esistenza di un nesso molto stretto fra l’apprendimento della
lingua e quello della cultura della comunità dei parlanti.
Il problema delle competenze nel QCE
Proprio al riconoscimento del legame inscindibile fra apprendimento della
lingua e apprendimento della cultura è legata l’individuazione, operata nel
QCE, delle competenze generali, e delle competenze linguistico-
comunicative.
Le competenze generali consistono in:
• conoscenza,
• abilità e competenza esistenziale
• abilità ad apprendere.

Il concetto di conoscenza ci consente di individuare uno dei pilastri del


concetto di scambio linguistico, così come è inteso nel QCE: ogni
scambio linguistico, di fatto, si svolge sul terreno comune di forme simboliche
condivise, in mancanza del quale non si può avere vera comunicazione. Le
forme simboliche cui allude il QCE sono i codici comportamentali e sociali,
ovvero le condizioni di possibilità semiotiche, in cui consistono le varie
strategie espressive di ogni lingua. Conoscere determinate abitudini
linguistiche di una comunità di parlanti è il presupposto per una efficace
comunicazione. Lo dimostra il fatto che molto spesso una conoscenza
molto approfondita delle strutture metalinguistiche, ad esempio,
dell’inglese, non significa automaticamente la capacità da parte nostra di
farci comprendere da un madrelingua, che si esprima nel suo lessico
quotidiano.

L’altro aspetto della competenza riguarda la competenza esistenziale: la


lingua risulta essere lo strumento attraverso il quale esprimiamo la nostra
identità, o “tradiamo” il nostro retroterra culturale e regionale (la proprietà
di linguaggio e le inflessioni dialettali, ad esempio). Nella competenza
esistenziale, pertanto, è compresa anche la abilità ad apprendere, ovvero
l’insieme di strumenti culturali che ci agevolano o che ci ostacolano nel
momento in cui ci confrontiamo con l’alterità linguistica e culturale. È
esperienza abbastanza diffusa la difficoltà ed i limiti che persone con un
livello di istruzione non elevato hanno nell’intraprendere un efficace
percorso di apprendimento della lingua straniera, sebbene altrettanto
spesso questo filtro culturale può venire rimosso dalla presenza, nel
discente, di una forte motivazione. In generale, comunque, occorre
sottolineare che la lingua, per il QCE, è uno strumento di affermazione
della propria identità, ovvero permette di esprimere il “proprio modo di
essere”, di fatto dimostrando come il sapersi esprimere modifica e
produce l’identità del parlante e perfino la percezione che il parlante ha di
se stesso.

Le competenze linguistico-comunicative comprendono tre dimensioni:

• linguistica,
• sociolinguistica
• pragmatica.

La competenzalinguistica riguarda la capacità del parlante di prestare


attenzione ad alcuni fattori di rilevanza fonetica e fonologica, come, ad
esempio, la durata delle vocali o la loro pronuncia “aperta” o “chiusa”
(pensiamo al caso emblematico della parola pesca, che può indicare
alternativamente il frutto o la pratica della cattura dei pesci, a seconda che la
vocale e venga pronunciata come “ε” oppure come “e”). Allo stesso modo
non è rara la confusione, fra i parlanti stranieri la lingua italiana, delle
consonanti “brevi” e con quelle “lunghe”, le cosiddette “doppie” (es.
caro/carro; cane/canne). Un’altra componente la competenza linguistica è la
cosiddetta “prosodica”, vale a dire la capacità di fornire alla frase l’intonazione
corrispondente alla sua funzione (interrogativa, esclamativa, conclusiva, ecc.).
La competenza linguistica è fra le abilità più ardue da trasferire ai discenti,
perché la sua acquisizione è legata ad uno studio di tipo manualistico e
astratto, dunque non comunicativo. Una agevolazione è fornita dalla
acquisizione, in contemporanea, di abilità di tipo ortografico, tuttavia questa
possibilità resta preclusa a quei discenti che non abbiano ricevuto
alfabetizzazione nella propria lingua madre o che non parlino lingue
alfabetiche. È infine estremamente problematico per una lingua quale è
l’italiano, ricchissima di sfumature dialettali, venire trasmessa in una forma
standard, che risulterebbe per giunta artificiosa e distante dalla lingua viva,
parlata nei contesti comunicativi autentici.

La competenza linguistica comprende a sua volta la competenza


metalinguistica, ovvero l’insieme di conoscenze sintattiche e
grammaticali. Questo livello di competenza concerne la capacità del
parlante di addentrarsi in maniera consapevole e riflessiva all’interno degli
aspetti strutturali della lingua (ad esempio la sintassi). Tuttavia ai fini della
padronanza dello strumento linguistico, il QCE riconosce alla competenza
linguistica e metalinguistica un ruolo secondario: la mancata conoscenza
delle strutture sintattiche di una lingua, di fatto, non impedisce
necessariamente la comunicazione. Non è un caso che, da un punto di
vista metodologico, le tipologie di didattica delle lingue L2 tendono a
concentrarsi molto poco sulle attività di esercitazione formale, e molto più
sulle attività comunicative vere e proprie.

La dimensione sociolinguistica riguarda gli aspetti sociali dell’atto


comunicativo. Comprende la sensibilità alle convenzioni sociali, alle regole di
cortesia, e a tutto quel ventaglio di codici non definibili “linguistici”, che
comunque entrano in gioco nella comunicazione e determinano la capacità del
parlante di padroneggiare il registro della lingua straniera che sta
apprendendo. Il registroè una modalità di realizzazione del codice in relazione
alla situazione: padroneggiare i registri di una lingua significa la capacità di
adottare scelte linguistiche adeguate al contesto in cui la comunicazione
avviene. All’interno della padronanza dei registri rientra, ad esempio, la
conoscenza e l’utilizzo appropriato delle forme di cortesia (l’utilizzo del Lei,
nel caso ci si rivolga ad un estraneo). L’acquisizione dei registri della lingua
non può avvenire in mancanza di una sufficienza conoscenza dei fattori quali
le convenzioni di una determinata società e la capacità di rispettarle nel gioco
comunicativo.
La terza componente è quella delle competenzepragmatiche, che si
intreccia con la già citata dimensione sociolinguistica: essa riguarda la capacità
di utilizzo delle risorse linguistiche in scenari di scambi interattivi, dunque la
capacità di esprimersi rispettando le regole della coesione e della coerenza. La
competenza pragmatica la acquisisce chi è in grado di realizzare testi (N.B.:
per il QCE “testo” è qualunque produzione linguistica, sia scritta, sia orale)
che espongano in modo equilibrato i contenuti rispetto allo scopo
dell’enunciato e rispetto al contesto. Si evince da questo che la competenza
pragmatica, nell’ottica del QCE, rappresenti l’insieme più grande, che contiene
anche i più piccoli insiemi della competenza linguistica e di quella pragmatica.
Oppure potremmo definire la competenza pragmatica come l’elemento di
raccordo fra la competenza linguistica e quella sociolinguistica, perché
rappresenta la capacità di produzioni discorsive coerenti sia da un punto di
vista formale, sia da un punto di vista delle dinamiche sociali. L’acquisizione
della competenza pragmatica non può non passare, dunque, da una
approfondita conoscenza della lingua e della cultura della comunità dei
parlanti.
La complessità della realtà linguistica secondo il QCE
Iniziamo a trarre alcuni spunti decisivi dalla lettura del QCE: esso non
considera le lingue soltanto come delle cristallizzazioni di regole fisse e
codificate, ma come dei sistemi complessi dentro i quali il parlante (e non
necessariamente il parlante che apprende una lingua straniera) si muove e
modifica le proprie condotte a seconda del contesto. Non a caso nel QCE si fa
sovente riferimento al concetto di dominio.
Esistono differenti domini, per il QCE, che individua:
• il dominio pubblico, vale a dire il contesto dell’interazione sociale
ordinaria, così come svolta nel mondo della amministrazione, degli
affari pubblici, nelle relazioni con le istituzioni, ecc.
• ildominiopersonale, che è il contesto della sfera quotidiana e
familiare.
• il dominio occupazionale, che abbraccia tutto quanto concerne
l’attività professionale e lavorativa della persona.
• il dominio educativo, come luogo della formazione e
dell’apprendimento.

Si intuisce come tutti questi domini non stiano fra loro come dei
compartimenti stagni, separati in modo rigoroso, ma piuttosto rappresentino i
capi di una rete di possibili relazioni comunicative, che finiscono
inevitabilmente per intrecciarsi nella pratica della lingua.

Da quanto detto finora, dobbiamo considerare come l’aspetto principale su cui


il QCE richiama l’attenzione sia costituito dagli aspetti pragmatici della lingua.
Per aspettipragmalinguistici intendiamo il riferimento all’intreccio fra
dimensione non linguistica e dimensione dell’agire comunicativo. Su questo
pilastro teorico si basa la validità e la spendibilità del QCE per le attività di
programmazione di percorsi didattici e per le operazioni di valutazione delle
competenze linguistiche.

Il Decreto del Presidente della Repubblica del 14 settembre 2011, n. 179


Il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue ha avuto importanti ricadute
anche nel panorama italiano. È infatti al QCE che guarda il Decreto del
Presidente della Repubblica del 14 settembre 2011, n. 179, sovente
definito semplicemente Accordo di integrazione, col quale si disciplinano i
rapporti fra lo Stato italiano e la popolazione immigrata residente sul territorio
nazionale.
Il DPR 179/2011 può essere a buon diritto definito nei termini di un accordo
fra due contraenti, che sono da un lato lo Stato italiano e dall’altro il cittadino
straniero. Alcuni dei punti di maggiore interesse del DPR 179/2011 sono i
seguenti, che riportiamo qui:

3. All'atto della sottoscrizione dell'accordo, sono assegnati allo straniero sedici


crediti corrispondenti al livello A1 di conoscenza della lingua italiana parlata ed
al livello sufficiente di conoscenza della cultura civica e della vita civile in Italia,
secondo quanto previsto ai punti 1 e 2 dell'allegato B.
4. Con l'accordo, lo straniero si impegna a: a) acquisire un livello adeguato di
conoscenza della lingua italiana parlata equivalente almeno al livello A2 di cui
al quadro comune europeo di riferimento per le lingue emanato dal Consiglio
d'Europa; b) acquisire una sufficiente conoscenza dei principi fondamentali
della Costituzione della Repubblica e dell'organizzazione e funzionamento
delle istituzioni pubbliche in Italia; c) acquisire una sufficiente conoscenza
della vita civile in Italia, con particolare riferimento ai settori della sanità, della
scuola, dei servizi sociali, del lavoro e agli obblighi fiscali; d) garantire
l'adempimento dell'obbligo di istruzione da parte dei figli minori.
Come si vede, con la sottoscrizione dell’Accordo – che si effettua presso gli
sportelli unici dell’immigrazione delle Prefetture-UTG al momento della
domanda di rilascio del permesso di soggiorno – al cittadino straniero viene
richiesto l’adempimento dell’obbligo di apprendere la lingua italiana e di
conseguire la certificazione che attesti almeno il raggiungimento del livello A2
di competenza linguistica. Nel livello A2 rientra anche un buon numero di
conoscenze concernenti gli aspetti della vita civile italiana (i principi
costituzionali, i diritti del lavoratore e quelli dei minori, la struttura del sistema
politico, e quella del sistema fiscale, scolastico e sanitario).

Per andare incontro alle esigenze di questa particolare utenza di persone


(comprendente non soltanto i destinatari di tali interventi formativi, ma anche
gli eventuali formatori) , il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca ha diramato le Linee guida per la progettazione dei percorsi di
alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana e le Linee
guida per la progettazione della sessione di educazione civica e di
informazione, di cui all’articolo 3 del DPR 179/2011, pensati guardando
alle direttive sulla formazione linguistica contenute nel Quadro comune europeo di
riferimento per le lingue.
Linee guida per la progettazione dei percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento
della lingua italiana

Come specificato sin dall’introduzione, le Linee guida sono state redatte


prendendo come punto di riferimento il Quadro comune di riferimento per le
lingue, che di fatto veniva già adottato dai CTP (oggi CPIA – Centri
Provinciali d’Istruzione per gli Adulti) per la modulazione dei contenuti
dei corsi di lingua italiana erogati ai cittadini stranieri. Ed è
prevalentemente guardando alle esperienze maturate nei CTP che il
documento è stato concepito. Le Linee guida, però, si concentrano
esclusivamente sui livelli di competenza che interessano il DPR 179/2011,
vale a dire il livello A1 (il cosiddetto “livello di contatto”) ed il livello A2
(definito “livello di sopravvivenza”). L’obiettivo delle Linee guida,
pertanto, è quello di fornire strumenti ed indicazioni a chi rivolge corsi di
italiano ad un’utenza straniera, che possa al termine del percorso
formativo esprimersi in lingua italiana nel quotidiano, in condizioni
semplici di vita personale, familiare, sociale e lavorativa. Come il QCE,
dunque, anche le Linee guida individuano l’importanza della lingua come
strumento di cittadinanza attiva e consapevole e come indispensabile
strumento di promozione della propria identità. La lingua, dunque, come
requisito indispensabile per l’integrazione.

Le Linee guida, in ambito di valutazione dei risultati di apprendimento,


individuano sia per il livello A1, sia per il livello A2, quattro aree di
conoscenza: ascolto, lettura, interazione (scritta e orale) e produzione
(scritta e orale). Anche in questo caso, come per il QCE, l’attenzione
dell’azione formativa deve concentrarsi sugli aspetti pragmatici e socio-
linguistici, di fatto valorizzando l’importanza dell’azione comunicativa e
cercando di promuoverne l’efficacia in relazione ai contesti d’uso.
Le Linee guida, come chiarito sin dall’introduzione, non vanno
interpretate come un rigido “programma ministeriale”, ma vengono
presentate come un sostegno agli operatori della formazione che
intraprendono la progettazione di percorsi di didattica della lingua italiana
L2, tenendo ben presenti, però, le esigenze della struttura burocratica che
regolamenta ed applica le leggi sull’immigrazione.

Le Linee guida per la progettazione dei percorsi di alfabetizzazioneagiscono su un


tessuto sociale e normativo estremamente fluido, che le attuali ondate
migratorie contribuiscono a rendere ulteriormente variegato. Proprio per
questo motivo si presentano come strumento duttile per pensare
l’articolazione di percorsi formativi in funzione della coesione sociale fra le
popolazioni autoctone e quelle immigrate nella prospettiva di un
apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Nelle Linee guida, inoltre, si
tiene ben presente come molto spesso l’azione formativa si rivolga a
persone adulte, con retroterra culturale estremamente differenziato e
talvolta di difficile valutazione, che rende estremamente ardua la
sostenibilità nel tempo dei percorsi formativi. Su questo aspetto
problematico se ne innesta un altro: molto spesso lo studente adulto, ed in
modo particolare l’adulto straniero, si trova di fronte a difficoltà di
molteplice natura che investono vari aspetti della sfera personale e che
potrebbero rappresentare dei seri ostacoli di cui è disseminato il regolare
percorso di apprendimento della lingua e della cultura straniere.

Essi posso essere di carattere psicologico (non di rado gli adulti


considerano la scuola come un luogo dedicato principalmente alle attività
dei “bambini”, e di fatto questo potrebbe innescare dinamiche viziose di
vero e proprio rifiuto ad intraprendere un corso di lingua), o socio-
culturale (pensiamo, ad esempio, alla condizione di difficoltà delle donne,
che in alcune società raramente prendono parte alla vita pubblica, e che
quindi non hanno alcuna attitudine alla scolarizzazione); la stessa attività
lavorativa, d’altra parte, rappresenta una necessità pratica alla quale è
molto difficile venga sottratto il tempo necessario allo studio. Sono questi
i principali motivi per i quali si segnala una statistica piuttosto elevata di
dispersione nei corsi di istruzione per adulti.

Le Linee guida, pertanto, incoraggiano l’implementazione di azioni


formative che modulino i carichi di studio in modo tale da andare incontro
alle esigenze specifiche dell’utenza (preferendo, ad esempio, l’erogazione
delle lezioni negli orari serali o nei fine settimana, anziché nelle ore
scolastiche “canoniche”).
Cosa insegnare? Spunti didattici dalle Linee guida per la progettazione dei percorsi di
alfabetizzazione

Da un punto di vista dei contenuti dell’azione formativa, le Linee guida


incoraggiano la valorizzazione delle competenze acquisite dallo studente
adulto straniero alfabetizzato nel suo Paese d’origine ed il
rafforzamento di quelle acquisite attraverso la rete relazionale attivata nel
contesto di vita quotidiana. Viceversa, nel caso purtroppo non raro di
stranieri scarsamente o per nulla alfabetizzati, sarà opportuno predisporre
azioni di sostegno. Lo stesso dovrà accadere nel caso di destinatari
provenienti da comunità di parlanti lingue che non utilizzano l’alfabeto
latino. Le ultime due tipologie di apprendenti considerate comprendono
un numero abbastanza cospicuo di persone, soprattutto se si guarda, ad
esempio, ai richiedenti asilo ed ai beneficiari di protezione internazionale
ospiti presso le strutture di accoglienza sorte un po’ ovunque sul territorio
nazionale. L’accordo di integrazione, è bene sottolinearlo, non si applica
tuttavia a chi si sia visto riconoscere lo status di rifugiato.

Le Linee guida forniscono indicazioni specifiche anche in merito alle


articolazioni orarie complessive dei corsi di lingua italiana L2: si ritiene,
infatti, che un apprendente già alfabetizzato necessiti di circa 100 ore di
lezione per l’acquisizione delle competenze e delle abilità previste dai livelli
A1 e A2 del QCE. Seguendo quelli che sono gli obiettivi generali del DPR
179/2011 (si vedano soprattutto i punti 3 e 4 citati in precedenza), le Linee
guida stabiliscono in 200 il monte ore complessive necessarie perché il
discente completi un ciclo formativo in grado di portarlo a sostenere
l’esame per la certificazione del livello A2, vale a dire l’obiettivo minimo
entro il quale l’Accordo di integrazione si ritiene rispettato. Di queste 200
ore di didattica, 20 devono essere destinate ad attività di accoglienza e di
orientamento: si intendono, qui, le ore da dedicare alla valutazione delle
competenze in ingresso, alla valutazione ed eventuale riconoscimento dei
titoli precedentemente conseguiti, alla stesura del patto formativo, ossia
del percorso di formazione da concordare col discente a partire dalle
esigenze specifiche e dalla predisposizione degli strumenti atti a
soddisfarle.
Le 180 ore di didattica vengono così distribuite:
• Livello A1 totale 100 ore di cui
Ascolto: n. 20 ore - Lettura: n. 20 ore - Interazione orale e scritta: n. 20
ore - Produzione orale: n. 20 ore - Produzione scritta: n. 20 ore
• Livello A2 totale n. 80 ore di cui
Ascolto: n. 15 ore - Lettura: n. 15 ore - Interazione orale e scritta: n. 20
ore - Produzione orale: n. 15 ore - Produzione scritta: n. 15 ore

Dal momento che, come già anticipato, il livello di dispersione è


statisticamente piuttosto elevato, le Linee guida suggeriscono di
concentrare nel minor tempo possibile le attività didattiche, in modo, se
non altro, da poter sfruttare il livello di motivazione che sul breve periodo
si dimostra essere più alto; le stesse attività, inoltre, dovrebbero essere
predisposte considerando la necessità di offrire un “prodotto didattico”
agile, adeguato anche ai ritmi dei discenti, che nella gran parte dei casi non
abbandonano le proprie attività lavorative durante la frequentazione dei
corsi.

Un aspetto non secondario, che purtroppo nelle “Linee guida nei per la
progettazione dei percorsi di alfabetizzazione” viene affrontato in maniera
soltanto superficiale, riguarda il problema dei discenti del tutto privi di
alfabetizzazione, o dei parlanti lingue analfabetiche, che dunque hanno un
approccio alla lingua quasi esclusivamente di tipo orale. Il tema è emerso
in tutta la sua importanza negli ultimi anni, durante i quali sono apparse
importanti pubblicazioni, mirate a codificare un Livello definito “pre-A1”
nel quale per l’appunto ricade una gran parte della popolazione immigrata
in Italia, specie quella proveniente dalle regioni dell’Africa sub Sahariana.
Recentemente si è avuta la pubblicazione del Sillabo per la progettazione di
percorsi sperimentali dialfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana a livello
Pre A1, un documento di grande interesse (sul quale torneremo in seguito)
stilato a cura degli Enti certificatori dell’italiano L2, che in Italia sono
l’Università per Stranieri di Perugia, l’Università per Stranieri di Siena,
l’Università degli Studi “Roma Tre” e la Società Dante Alighieri.
Le Linee guida per la progettazione della sessione di formazione civica e di
informazione, di cui all’articolo 3 del DPR 179/2011

Come già sottolineato in precedenza, sia a proposito del Quadro comune


europeo di riferimento per le lingue, sia a proposito delle Linee guida per la
progettazione dei percorsi di alfabetizzazione e di apprendimento della lingua italiana,
il problema della formazione linguistica viene considerato strettamente
intrecciato a quello della cittadinanza. Il nodo che tiene insieme i due
capi del problema è rappresentato da quello specifico tipo di competenze
“non linguistiche”, che interessano alcuni importanti aspetti culturali della
comunità di parlanti in cui lo straniero si inserisce: si tratti della
conoscenza dei principi cardine della società, ossia dell’insieme delle
garanzie costituzionali, dei diritti/doveri, dei sistemi di previdenza sociale
e protezione sanitaria che, sebbene non entrino quasi mai all’interno dello
scambio verbale vero e proprio, tuttavia costituiscono la cornice di regole
dentro cui lo scambio sociale avviene. Non a caso, dunque, a corredo del
DPR 179/2011 è stato promulgato dal MIUR un documento che detta le
Linee guida per la progettazione della sessione di formazione civica e di informazione,
di cui all’articolo 3 del DPR 179/2011, da inserire all’interno dei percorsi di
formazione linguistica vera e propria.

Di fatto queste Linee guida sono state redatte proprio allo scopo di
promuovere il processo di integrazione dello straniero ed hanno come
finalità di fornire al discente, in forma sintetica, una serie di competenze in
mancanza della quali, potremmo dire, la “semplice” formazione linguistica
risulterebbe monca e priva di una parte di decisiva importanza.

Le Linee guida sottolineano l’importanza di acquisire:


• Una sufficiente conoscenza dei principi fondamentali della Costituzione
della Repubblica Italiana e dell’organizzazione e funzionamento delle
organizzazioni pubbliche in Italia
• Una sufficiente conoscenza della vita civile in Italia con particolare
riferimento ai settori della sanità, della scuola, dei servizi sociali, del lavoro
e degli obblighi fiscali

Rientrano, fra le competenze da acquisire nei due punti appena citati,


anche le informazioni intorno ai diritti e doveri degli stranieri in Italia,
delle facoltà e degli obblighi inerenti al soggiorno, dei diritti e dei doveri
reciproci dei coniugi e dei doveri dei genitori verso i figli secondo
l’ordinamento giuridico italiano, anche con riferimento all’obbligo di
istruzione.
Le Linee guida fanno riferimento anche ad una parte informativa, che
consiste nel mettere al corrente lo straniero immigrato in Italia delle
principali iniziative a sostegno del processo di integrazione degli stranieri a
cui questi può accedere nel territorio della provincia di residenza e sulle
normative vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Anche le “Linee guida per la progettazione della sessione di formazione


civica”, così come quelle “per la progettazione dei percorsi di
alfabetizzazione”, non devono essere recepite come rigide prescrizioni da
seguire in maniera pedissequa, ma piuttosto come un punto di riferimento
cui guardare al momento della progettazione di eventuali percorsi didattici
che vogliano rispondere ai criteri individuati dal DPR 179/2011.
La Sessione di educazione civica: temi e argomenti
Nelle Linee guida è specificata anche la durata complessiva della Sessione
di formazione civica e informazione, che andrà a completare il
percorso formativo dello straniero. Essa è fissata nel numero di 10ore, ed
ha un valore indicativo. Gli argomenti che dovrebbero essere inseriti nel
percorso formativo sono indicati in modo esplicito nel documento (che è
facilmente reperibile in rete). Noi qui li riprendiamo sommariamente:

Principi fondamentali della Costituzione (artt. 1-12):


• La forma di governo dell’Italia: la Repubblica (art. 1).
• Garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo e doveri di solidarietà (art.2).
• Pari dignità sociale e eguaglianza di fronte alla legge (art. 3).
• Diritto al lavoro (art. 4).
• Libertà di religione (art. 8).
• Condizione giuridica dello straniero (art. 10).
• La bandiera italiana (art. 12).

Organizzazione e funzionamento delle istituzioni pubbliche in


Italia:
• Organi e poteri dello Stato.
• Regioni, Province, Comuni: autonomie locali (art 5 e titolo V).

Sanità:
• Diritto alla salute
• Funzionamento e attribuzione della Tessera Sanitaria.
• Struttura delle ASL e delle Aziende ospedaliere.
• campagne vaccinali.
• attività del consultorio.

Scuola:
• Obbligo di istruzione.
• Il sistema di istruzione italiano: la scuola dell’infanzia, la scuola
primaria, la scuolasecondaria di primo grado, la scuola secondaria di
secondo grado.
• Il sistema di istruzione e formazione professionale.
• Contratti di apprendistato.
• Apprendimento permanente.
• Istruzione degli adulti.
• Iscrizione e frequenza.
• Rapporti con la scuola e colloqui con gli insegnanti.

Servizi sociali
• Sistema integrato di interventi e servizi sociali.
• Iscrizione anagrafica per accedere ai servizi sociali territoriali.
• Organizzazione servizi sociali (uffici di cittadinanza, URP).
• Varie forme di sostegno al reddito territoriali (misure di accesso
all’edilizia residenzialepubblica).

Lavoro
• Diritto al lavoro e diritti del lavoro
• Centro per l’Impiego.
• Tipologie di lavoro (subordinato, autonomo, parasubordinato).
• Organizzazioni sindacali tutele dei diritti dei lavoratori.
• INPS, sistema previdenziale.
• INAIL, prevenzione e sicurezza sul lavoro.

Obblighi fiscali
• Imposte sul reddito, imposte sulla proprietà, IVA.
• Dichiarazione dei redditi.
• Servizi di utilità pubblica soggetti a tariffa.

La 10 ore in cui si articola la sessione di formazione civica e di


informazione dovrebbero essere articolate secondo una struttura
modulare. Il personale incaricato (che nel documento del MIUR è indicato
in personale ATA e corpo docente, essendo le Linee guida pensate
prevalentemente per gli ex CTP) è chiamato a svolgere prevalentemente
attività di progettazione, ricerca di strumenti e materiali,
accoglienza, informazione, ascolto e documentazione.

Da un punto di vista strettamente metodologico, le Linee guida


suggeriscono di adottare una serie di accorgimenti atti a rendere più
facilmente raggiungibile l’obiettivo dell’azione formativa:
1) Qualificare gli scopi della formazione civica, informando i discenti dei
contenuti della Sessione di formazione civica e informazione, allo scopo
di:
• Sollevare l’interesse dei discenti intorno ai temi che si apprestano ad
affrontare e promuovere il loro coinvolgimento per la fruizione dei
contenuti dell’azione formativa;
• Utilizzare il maggior numero possibile di canali di comunicazione,
affiancando, alla tradizionale lezione frontale, filmati, testi cartacei
“autentici”, immagini, o incentivando la discussione attiva e l’interazione
verbale;
• Promuovere il confronto interculturale, attraverso il confronto fra gli
aspetti della vita civile italiana oggetto di studio, e quelli relativi ai Paesi di
origine dei discenti;
• Implementare i contenuti proposti attraverso esempi concreti,
predisponendo un tipo di azione didattica che somigli ad un vero e
proprio scambio comunicativo sui temi di studio, anziché ad un
tradizionale trasferimento di nozioni dal docente al discente.
2) Individuare le modalità di erogazione del corso e determinare
esplicitamente il formato da adottare:
• A monte dell’azione didattica bisogna prevedere la suddivisione della
medesima in una serie di “momenti”, che comprendano la fase di
accoglienza, quella di lezione vera e propria, quella di fruizione di filmati e
somministrazione di altro materiale, lavoro di gruppo (role-play)
3) Strumenti e materiali:
• Le Linee guida ritengono consigliabile dotarsi di strumenti multilingue per
l’erogazione della Sessione di formazione civica e informazione, sebbene è
da ritenersi preferibile l’utilizzo della lingua italiana, al fine di sollecitarne
l’apprendimento e consolidare le eventuali conoscenza già acquisite;
• Invitare gli iscritti a fornire materiali quali documenti personali, che hanno
una grande utilità nella somministrazione dei contenuti di studio,
soprattutto perché costituiscono esempi “autentici” su cui calibrare
l’attività didattica;
• Favorire la narrazione biografica, soprattutto laddove sia possibile contare
sull’aiuto di mediatori interculturali, soprattutto per promuovere la
rimozione dei filtri affettivi che, non di rado, ostacolano il processo di
apprendimento.
4) Personale da coinvolgere al fine di favorire la comunicazione e favorire la
mediazione:
• Docenti con particolari competenze linguistiche e comunicative
• Mediatori professionali e non professionali
• Collaboratori scolastici sensibili ai temi dell’accoglienza
5) Servizi di informazione:
• Le Linee guida sollecitano e suggeriscono che operatori delle istituzioni
locali (medici, funzionari pubblici, forze dell’ordine…) partecipino come
invitati alle lezioni, al fine di costruire all’interno dell’azione formativa
momenti di approfondimento di specifiche tematiche attraverso il
contributo degli attori sociali operanti sul territorio.

2. I livelli di competenza e le scale di valutazione

Introduzione

Il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue si sofferma su un aspetto


che è di importanza capitale per coloro i quali si trovano di fronte al
compito di insegnare una lingua L2 e, di conseguenza, a quello di valutare
l’impatto che l’azione formativa ha prodotto sui discenti. Il tema della
valutazione delle competenze acquisite intreccia la questione
estremamente problematica dei processi di apprendimento. Si potrebbe
sostenere che ad ogni persona corrisponde – in virtù del proprio vissuto,
delle proprie necessità e delle proprie capacità – una specifica modalità di
apprendere e metabolizzare una lingua straniera. Tuttavia il docente non
può quasi mai esimersi dal compito di stilare una griglia di valutazione dei
risultati del proprio operato, in relazione agli input forniti e soprattutto in
relazione agli obiettivi fissati in fase di progettazione dell’intervento
formativo, a maggior ragione nel caso di determinate tipologie di
apprendenti, che hanno frequentato un corso di lingua al fine di sostenere
un esame e conseguire una certificazione.

Prima di avvicinare il tema della valutazione, è indispensabile considerare


in che modo il QCE affronta il tema della competenza: cosa si intende
con questo concetto? Esiste un’unica tipologia di competenza?
Nel corso del tempo si sono affermate numerose tesi, che intendono
spiegare ed esaurire la complessità di questo concetto, rispetto alle quali la
proposta del QCE è una complessiva rivalutazione del problema.
La competenza secondo il Quadro Comune europeo di riferimento per le
lingue

Il QCE si fonda su una idea di progressione di competenza linguistica,


che procederebbe in verticale, dal livello più basso a quello più alto della
piena padronanza. Si tratta di una idea artificiosa del processo di
apprendimento, che infatti non viene presentata, nel QCE, come
un’ipotesi sul funzionamento dei processi cognitivi in senso globale.
Tuttavia risulta essere estremamente funzionale proprio ai fini della
valutazione delle competenze acquisite ed offre un solido strumento per
orientarsi all’interno di un fenomeno di assoluta complessità.

Dall’idea di una progressione verticale della competenza, nel QCE viene


presentata una mappatura secondo livelli dello sviluppo della
competenza. Questa scelta è di grande importanza e si ripercuote a cascata
su una lunga serie di fattori presi in considerazione dal QCE: dalla
organizzazione della didattica per livelli di difficoltà, alla selezione del
materiale da sottoporre ai discenti. La mappatura, inoltre, finisce
inevitabilmente per influenzare gli stessi discenti anche per quanto
riguarda le aspettative che questi nutrono nei confronti del docente e della
struttura esistente alle sue spalle, creando attesa nei confronti di un
intervento didattico che si ritiene adeguato al livello-obiettivo.
Proprio per questo motivo il QCE suggerisce di utilizzare la mappatura
con una certa cautela: essa è senza dubbio, lo vedremo a breve, uno
strumento di indispensabile importanza per il docente e per i discenti, ma
non può rendere conto della infinita serie di variabili che concorrono ad
influenzare il processo di apprendimento, così come quello di
insegnamento e programmazione. La linearità della mappatura non si
riflette sulla ricorsività dell’apprendimento, che è fatto di pause,
accelerazioni, progressi veloci ed altrettanto veloci fasi di regresso. D’altra
parte lo stesso contesto in cui l’insegnamento di una lingua si svolge
determina sia il contenuto del messaggio didattico, sia la velocità e
l’efficacia con cui questo arriva a destinazione: una classe composta di
giovani adulti istruiti che vengono a studiare l’italiano in Italia è esposta ad
una serie di sollecitazioni che sarebbero mancate, ad esempio, se lo stesso
gruppo di persone si fosse dedicato allo studio dell’italiano in patria.

Un altro fattore che predetermina la rapidità con cui uno studente


percorre la strada “verticale” dei livelli di competenza è il tempo dedicato
allo studio, o l’intensità con cui questo tempo viene speso.
Infine l’ipotesi di una “scala verticale” di competenze rischia di veicolare
l’idea che i vari livelli stiano fra loro separati l’uno dall’altro da confini
invalicabili e che dunque sia molto agevole e quasi naturale inserire un
parlante la lingua L2 all’interno di un livello in base alla corrispondenza
immediata fra le sue capacità e quelle richieste dal livello in cui si intende
collocarlo.

Il QCE mostra di avere molto chiara l’idea delle difficoltà che in sede di
valutazione dei livelli di competenza si potrebbero incontrare ed infatti
esplicita i metodi per l’individuazione dei livelli dividendoli in:
• Metodi intuitivi: basati non sui dati, ma sull’esperienza
• Metodi qualitativi: basati sul lavoro su un numero ristretto di persone
• Metodi quantitativi: basati sul sistema della item-analysis, che prende in
considerazione le singole risposte, anziché i test nel loro insieme.
Il QCE ritiene inadatti i metodi intuitivi e quelli qualitativi, per via del
rischio che valutazioni di tipo soggettivo possano interferire nella
assegnazione di un livello. L’analisi basata sul metodo quantitativo, invece,
garantirebbe risultati costanti rispetto ai criteri e agli ordini di
misurazione scelti.

Oltre ai metodi per la loro individuazione, il QCE indica anche i criteri


per la valutazione dei livelli:

• indipendenza dal contesto


• riferimento alla teoria della competenza linguistica
• facile utilizzabilità da parte degli utenti
• rilevanza per la popolazione degli apprendenti.

Sembrerebbe che il QCE, almeno in questo caso, tenda a sganciarsi dal


riferimento al contesto di insegnamento (per il quale prevede la possibilità
di una sostanziale generalizzazione) allo scopo di fornire una piattaforma
trasversale alle esigenze di tutte le tipologie di apprendenti e discenti. Il
punto di vista scelto, dunque, è quello fornito dalle scale di misurazione
(una misurazione di natura prettamente quantitativa), che calibra la scala
dei livelli sugli obiettivi della azione didattica. La teoria dei livelli verticali
di valutazione, dunque, risulta essere stata predisposta soprattutto per
andare incontro alle esigenze dei docenti e a quelle dei certificatori, ossia
degli esperti nella valutazione delle competenze dei discenti, che si stanno
affermando negli ultimi anni come figure di importanza crescente.
I livelli di competenza del Quadro comune europeo di riferimento per le
lingue

Il QCE individua sei livelli di competenza, di seguito esposti rispettando


un principio di ordine crescente:

1. Breackthrough (livello A1)


2. Waystage (livello A2)
3. Threshold (livello B1)
4. Vantage (livello B2)
5. Proficiency (livello C1)
6. Mastery (livello C2)

I sei livelli di competenza corrispondono a tre profili di apprendimento:

1. Basic User (livello A1 – A2)


2. Independent User (livello B1 – B2)
3. Proficient User (livello C1 – C2)
Il criterio adottato dal QCE per definire e graduare i livelli è la
communicative language proficiency (competenza linguistico comunicativa), vale
a dire un principio di competenza pragmatico-comunicativa, attraverso il
quale valutare la capacità del parlante di districarsi nella gestione
dell’azione comunicativa in senso globale (comprensiva sia della parte
strettamente linguistica, sia di quella sociolinguistica e pratica). Tale
capacità pragmatica è misurabile attraverso degli indicatori, che sono
fluenza, flessibilità, coerenza, sviluppo tematico e precisione. Vocabolario, accuratezza
grammaticale, lessico, fonologia e ortografia sono invece gli indicatori della
competenza linguistica.

Si sarà probabilmente notato che tutti gli indicatori individuati dal QCE
sono particolarmente idonei alla valutazione della “performance”
comunicativa: in quanto veicolo di comunicazione e cultura, la qualità
della lingua deve essere valutata nei suoi aspetti concreti e nel suo utilizzo
pratico. I docenti ed i certificatori devono essere in grado di valutare la
competenza che il parlante ha nella lingua come strumento vivo, di fatto
marginalizzando l’importanza delle competenze teoriche. Si ha una
completa percezione di questo aspetto soprattutto se si guarda in modo
approfondito all’interno dei vari livelli e se ne analizzano le caratteristiche
caso per caso.
La scala globale dei livelli del QCE

La scala globale dei livelli di riferimento del QCE è la seguente:

• Livello A1: il parlante riesce a comprendere e utilizzare espressioni


familiari di uso quotidiana e formule molto comuni per soddisfare
bisogni di tipo concreto. Sa presentare se stesso/a e altri ed è in
grado di porre domande su dati personali e rispondere a domande
analoghe (il luogo dove abita, le persone che conosce, le cose che
possiede). È in grado di interagire in modo semplice purché
l’interlocutore parli lentamente e sia disposto a collaborare
• Livello A2: il parlante riesce a comprendere frasi isolate ed
espressioni di uso frequente relative ad ambiti di immediata
rilevanza (ad. Es. informazioni di base sulla persona e sulla
famiglia, acquisti, geografia locale, lavoro). Riesce a comunicare in
attività semplici e di routine che richiedono solo uno scambio di
informazioni semplice e diretto su argomenti familiari e abituali.
Riesce a descrivere in termini semplici aspetti del proprio vissuto e
del proprio ambiente ed elementi che si riferiscono a bisogni
immediati.
• Livello B1: il parlante è in grado di comprendere i punti essenziali
di messaggi chiari in lingua standard su argomenti familiari che
affronta normalmente al lavoro o a scuola, nel tempo libero, ecc.
Se la cava in molte situazioni che si possono presentare viaggiando
in una regione dove si parla la lingua in questione. Sa produrre testi
semplici e coerenti su argomenti che siano familiari o siano di suo
interesse. È in grado di descrivere esperienze e avvenimenti, sogni,
speranze, ambizioni, di esporre brevemente ragioni e dare
spiegazioni su opinioni e progetti.
• Livello B2: il parlante è in grado di comprendere le idee
fondamentali dei testi complessi su argomenti sia concreti sia
astratti, comprese le discussioni tecniche nel proprio settore di
specializzazione. È in grado di interagire con relativa scioltezza e
spontaneità, tanto che l’interazione con un parlante nativo si
sviluppa senza effettiva fatica e tensione. Sa produrre testi chiari e
articolati su un’ampia gamma di argomenti e esprimere un’opinione
su un argomento d’attualità, esponendo i pro e i contro delle
diverse opinioni.
• Livello C1: il parlante è in grado di comprendere un’ampia gamma
di testi complessi e piuttosto lunghi e ne sa ricavare anche il
significato implicito. Si esprime in modo scorrevole e spontaneo,
senza un eccessivo sforzo per cercare le parole. Usa la lingua in
modo flessibile ed efficace per scopi sociali, accademici e
professionali. Sa produrre testi chiari, ben strutturati e articolati su
argomenti complessi, mostrando di saper controllare le strutture
discorsive, i connettivi e i meccanismi di coesione.
• Livello C2: il parlante è in grado di comprendere senza sforzo
praticamente tutto ciò che ascolta o legge. Sa riassumere
informazioni tratte da diverse fonti, orali e scritte, ristrutturando in
un testo coerente le argomentazioni e le parti informative. Si
esprime spontaneamente, in modo molto scorrevole e preciso e
rende distintamente sottili sfumature di significato anche in
situazioni piuttosto complesse.

3. Glottodidattica e didattica dell’italiano L2/LS

Introduzione

Se nei precedenti due paragrafi si sono analizzati i quadri normativi


nazionali ed europei, che dovrebbero regolare l’erogazione e la
strutturazione dei percorsi di formazione linguistica, adesso ci
concentriamo su alcuni aspetti specifici della teoria glottodidattica.
La glottodidattica è la disciplina che ha per oggetto lo studio della
educazione linguistica, dunque le pratiche, i metodi, le tecniche e le teorie
che rendono possibile quella particolare forma di trasmissione del sapere,
rappresentata dall’insegnamento della lingua.

La glottodidattica, che nella sua accezione più moderna prende a


svilupparsi nella seconda metà del XX secolo, abbraccia un campo di
ricerche molto vasto e complesso, che riflette, d’altra parte, le infinite
sfaccettature di significato del concetto di “lingua”: la lingua è insieme di
strutture sintattiche consolidate, strumento di cultura, prodotto storico di
una determinata comunità di parlanti, schema dinamico di sviluppo dei
processi cognitivi, strumento di comunicazione e di relazione agli altri e al
mondo, e così via. Ne consegue che lo spettro teorico di una disciplina
votata allo studio dei processi di apprendimento della lingua sia
estremamente ampio: esso va dalla sintassi alla psicologia, dalle scienze
della cultura a quelle pedagogiche e della formazione, di fatto incrociando
un ventaglio che comprende molte delle discipline costituenti l’ambito
delle scienze umane.

Trattandosi di una disciplina che tematizza il problema dell’educazione


linguistica, la glottodidattica si confronta innanzitutto con gli aspetti
relativi la pratica dell’insegnamento: i metodi, le tecniche, i modelli
operativi. Ma prima ancora di selezionare le modalità pratiche
dell’insegnamento, occorre definire “quale lingua” bisogna insegnare. Di
seguito le tipologie considerate dalla glottodidattica:

Quale lingua? Le tipologie e i contesti glottodidattici

• Lingua materna (L1): con lingua materna si intende la lingua


che, al momento dell’inizio di un qualunque percorso formativo
o scolastico (normalmente avviato intorno al 5°/6° anno di età),
è già stata acquisita. La L1 è dunque la lingua nella quale il
parlante naturalmente si esprime, apprende, pensa, fa i calcoli,
sogna e getta le basi per il successivo sviluppo del proprio
apparato cognitivo. L’insegnamento della L1, pertanto, sarà
mirato soprattutto all’affinamento della competenza e alla
riflessione sistematica intorno a strutture linguistiche
implicitamente ed inconsciamente già interiorizzate dal parlante.
• Lingua straniera (LS): con questo concetto in glottodidattica si
intende la lingua non materna appresa in un contesto in cui essa
non è presente (ad esempio l’inglese appreso in Italia). In questo
caso il principale (a volte l’unico) elemento di contatto fra il
discente e la LS sarà rappresentato dal docente e dall’insieme di
input testuali, orali o multimediali, che questi selezionerà e
rivolgerà all’apprendente. È quasi inevitabile, in un contesto di
insegnamento di LS, che gli input forniti risentano di una
sostanziale artificiosità, provocata da due fattori in modo
particolare: in primo luogo dalla distanza fra la lingua insegnata e
l’ambiente di cultura circostante; in secondo luogo dalla
condivisione, fra gli studenti, della lingua materna, attraverso la
quale non di rado la comunicazione fra di loro continua a
svolgersi anche, per esempio, nel contesto dei role-play proposti
dal docente.
• Lingua seconda (L2): la lingua seconda è la lingua straniera
studiata nel suo contesto culturale di riferimento (ad esempio lo
studio della lingua inglese in Gran Bretagna). In questo caso, a
differenza di quanto abbiamo appena visto accadere per la LS, il
docente non rappresenta l’unico riferimento e l’unico input
linguistico, perché i discenti vivono letteralmente immersi
nell’atmosfera della lingua che stanno imparando. Il processo di
apprendimento, in questo caso, non è limitato alle canoniche ore
di lezione, ma prosegue in modo spontaneo anche al di fuori del
“contesto-scuola”, in modo autonomo rispetto alle intenzioni del
docente, che non è, in questo caso, l’unico veicolo di
apprendimento linguistico.
• Lingua etnica: la lingua etnica è una forma particolare di L2: si
tratta della lingua della comunità d’origine del parlante (ad
esempio la lingua che parlano i figli di genitori emigrati all’estero).
Si tratta, normalmente, di una lingua carica di connotazioni
regionali, dal momento che il luogo del suo uso abituale non
potrà essere lo spazio pubblico, ma quello privato e familiare.
• Lingua franca: un esempio moderno di lingua franca è l’inglese
di oggi: una lingua per le relazioni fra parlanti L1 diverse, molto
semplificata rispetto allo standard di chi la pratica nella sua
comunità di riferimento. Le stesse modalità di insegnamento
delle lingue franche, proprio come avviene per l’inglese oggi,
sono in massima parte finalizzate ad offrire ai discenti una
conoscenza abbastanza approfondita delle strutture formali, di
fatto trascurando gli aspetti comunicativi (quali la correttezza
della pronuncia o la ricchezza lessicale).
• Lingua classica: con lingue classiche, non di rado erroneamente
considerate “lingue morte”, si intendono le lingue attraverso le
quali il parlante non produce comunicazione, ma la riceve: è il
caso del latino e del greco, che nel sistema liceale italiano
vengono insegnate per dischiudere allo studente l’universo della
cultura classica occidentale.

Gli approcci i metodi e le tecniche della glottodidattica


Uno degli aspetti chiave della glottodidattica e della formulazione di una
teoria dell’educazione linguistica riguarda l’argomento degli approcci e dei
metodi.

Quando in glottodidattica si parla di approccio, si fa riferimento ad una


dimensione liminare rispetto al tema vero e proprio dell’insegnamento
della lingua, che risulta però essere necessario agli operatori della
formazione: l’approccio viene calibrato e definito in base ad una teoria
dell’apprendimento, dunque rispetto ad una riflessione che interessa le
scienze linguistiche, le scienze cognitive, le scienze dell’educazione, la
pedagogia, le scienze della formazione, ecc. L’approccio è precisamente
l’adozione e la traduzione in termini glottodidattici di un modello teorico
derivato dalle discipline sopra elencate. Per definire un approccio bisogna
poter rispondere ad una serie di domande teoriche, che costituiranno la
filosofia di fondo dell’intervento didattico: che cosa è una lingua? come
funzionano i processi di apprendimento? cosa significa insegnamento?
cosa si intende per insegnante e per discente? Le risposte a queste
domande rappresentano altrettante “scelte”, a partire da cui far procedere
la pianificazione vera e propria e la scelta dei metodi e delle tecniche.

L’approccio risulta dunque essere l’individuazione, fra varie opzioni, di


quella più conforme alla percezione che, attraverso la ricerca teorica,
maturiamo a proposito della lingua, del ruolo dell’insegnante e di quello
del discente.

Dalla scelta dell’approccio seguono i metodi dell’insegnamento: si passa


qui ad una sfera di tipo più pragmatico, effettivamente relativa al tema
dell’educazione linguistica, rispetto al quale l’approccio sta come un sorta
di cornice teorica. Il concetto di metodo non va in alcun modo
sovrapposto o confuso con quello di “metodologia” (di cui diremo più
avanti e che riguarda le pratiche dell’insegnamento vero e proprio, ovvero
l’adozione da parte del docente di un “tipo” di atteggiamento nei
confronti dei discenti e della materia trattata) e in un certo senso la
selezione del metodo è propedeutica rispetto a quella della metodologia. Il
metodo concerne le implicazioni pratiche dell’approccio: un approccio che
si fonda, ad esempio, sul principio molto diffuso in glottodidattica per cui
“la lingua è uno strumento per comunicare”, oppure “uno strumento in
continua evoluzione”, dovrà dare vita ad un metodo che tenga conto di
queste riflessioni in sede di scelta dei materiali didattici, definizione dei
programmi, adozione di una metodologia. Non a caso a proposito dei
metodi si parla anche di modelli operativi, proprio per sottolinearne la natura
programmatica e non esclusivamente pratica.
In che modo scegliere un modello operativo? Esiste la possibilità di
valutare l’efficacia di un modello operativo partendo da una griglia di
domande che dovrebbe aiutare ad operare una scelta:
• un modello dovrebbe generare “comportamenti”, dunque nel caso di
un approccio che intende sviluppare nel discente la competenza
comunicativa, si dovrà adottare un modello operativo coerente,
orientato a sviluppare la performance comunicativa in modo eminente;
• un modello deve essere “economico” da usare, nel senso che i
contenuti della azione didattica dovranno essere selezionati evitando
inutili elementi di ridondanza, ma puntando il focus sugli obiettivi
didattici prefissati.

Definito il modello operativo, o metodo, il docente può procedere alla


selezione delle tecniche da adottare per la pratica didattica vera e propria.
Sul piano della realizzazione le tecniche vengono definite secondo due
tipologie: esercizi ed attività. Gli esercizi sono delle tecniche mirate più
che altro alla fissazione degli aspetti strutturali della lingua. Non hanno, in
genere, la funzione di stimolare l’apprendente all’utilizzo comunicativo
della lingua che sta studiando. Non di rado, come vedremo, nella didattica
delle lingue straniere l’utilizzo degli esercizi viene ridotto al minimo, a
differenza di quanto accade nei programmi di insegnamento scolastico
delle lingue L1. Il motivo è da ricercarsi proprio nella scarsa utilità di
questa tecnica a stimolare la comunicazione e indurre lo studente
all’utilizzo pratico della lingua. Le attività, invece, si segnalano proprio per
la loro funzione di stimolare la creatività dell’apprendente, che viene
coinvolto in un vero e proprio gioco comunicativo, cui è chiamato a
partecipare ricorrendo alle proprie competenze. Per questi motivi in
glottodidattica si tende a privilegiare le attività rispetto agli esercizi.
In generale, però, è opportuno sottolineare che non esistono tecniche
didattiche migliori o peggiori delle altre: si tratta in ogni momento di
valutarne l’efficacia e la coerenza rispetto al modello operativo scelto a monte.
Una tecnica, dunque, può essere inefficace o inefficiente, ma non può mai
essere ritenuta una tecnica “cattiva” in senso assoluto.
Lo spazio della azione didattica
Uno dei punti di maggiore problematicità della glottodidattica è senza
dubbio rappresentato dalla definizione dello spazio dell’azione
didattica. Con questo concetto non intendiamo limitare la definizione al
luogo “fisico” della lezione, ma ci riferiamo al luogo simbolico in cui
prendono corpo gli intrecci e le interazioni fra docente, discente, e
contesto linguistico-culturale. Lo spazio della azione didattica è uno spazio
di relazioni, che non è assolutamente asettico rispetto al contesto culturale
di riferimento, né rispetto alle infinite variabili costituite dal background
culturale del docente, o da quello dei discenti: lo spazio dell’azione
didattica è l’insieme di queste forze, che contribuiscono a farne un luogo
dalle caratteristiche molto complesse.
La glottodidattica individua tre poli dello spazio della azione didattica:
• docente
• discente
• lingua-cultura
Si può facilmente notare come essi costituiscano i vertici di qualunque
azione didattica: un docente, dei discenti e una lingua compongono i poli
dello spazio dell’insegnamento della storia, o della letteratura, o delle
discipline scientifiche. Tuttavia è soltanto nel caso dell’insegnamento della
lingua (sia L1 che L2) che si realizza la coincidenza fra i contenuti e il
mezzo per veicolarli. Questo aspetto produce una serie di interazioni che
sono peculiari alla formazione linguistica in modo esclusivo. Si avverte
pertanto la necessità di impostare la didattica in modo molto differente
rispetto alle tradizionali forme di trasmissione del sapere: di fatto, come si
vedrà, è proprio l’idea della azione formativa come travaso verticale di
nozioni (dal docente ai discenti) che viene messa in discussione dalla
glottodidattica. Nella pratica di insegnamento della lingua, di fatto, la
parte della riflessione metalinguistica acquisisce un ruolo decisivo e
innesca dei processi che finiscono per coinvolgere lo strumento stesso
dell’azione formativa, a differenza di quanto accade per l’insegnamento di
altre discipline, in cui l’analisi dei contenuti non diventa mai riflessione
intorno al problema della loro comunicazione in quanto tale.

Il primo polo dello spazio della azione didattica è rappresentato dalla


figura dell’insegnante: in realtà dentro questo concetto rientra una lista di
cose e di persone molto vasta. Quando si parla di insegnanti, soprattutto
se il riferimento va a quelli della scuola, in realtà comprendiamo l’intero
apparato tecnico-burocratico che sta alle spalle delle attività formative
offerte dallo Stato alla collettività: dal Parlamento che propone leggi in
materia di educazione e formazione, alle decisioni prese presso i Ministeri
in merito ai programmi delle scuole, fino all’avanguardia di questo enorme
apparato, che è rappresentato dal docente. Il docente è colui il quale nella
pratica quotidiana realizza il lavoro svolto a monte, lo adegua alle esigenze
specifiche dell’utenza (gli studenti), lo arricchisce del proprio contributo
personale, di fatto mettendolo a disposizione degli studenti.
L’altro polo è dunque quello dello studente, che è al centro del sistema, in
quanto destinatario finale della azione formativa: essa si rivolge
interamente a lui, ovvero ai suoi bisogni e alle sue ambizioni, istituendo
una continua negoziazione fra le esigenze della comunità e quelle dello
studente medesimo.
È all’interno di questo spazio simbolico che vanno collocate le tecniche
didattiche selezionate: esse devono essere funzionali all’acquisizione della
lingua (sia essa intesa come L1, L2, LS, e così via), tenendo sempre
presente il fatto che l’interazione fra docente e discente vive immersa in
un campo di forze rispetto al quale le tecniche devo mostrarsi agili ed
adattabili. Senza queste caratteristiche l’azione didattica rischia di fallire.

Caratteristiche della azione didattica e struttura dell’Unità Didattica


Tradizionalmente vengono riconosciuti due modi di “insegnare”: da una
parte la lezionecattedratica, dall’altro il processo maieutico. Si tratta di forme della
didattica tramandate da secoli: la prima rimanda ad una tipologia di
formazione “verticale”, che ricalca la trasmissione dei testi sacri “ad alta
voce” dal sacerdote ai fedeli. Si tratta di una pratica che, probabilmente
proprio in ragione della sua origine, contempla l’esistenza di testi “sacri”, o
l’indubitabilità intorno alla parola del docente/sacerdote: fuor di metafora
parliamo qui di un modo di trasmettere il sapere distintivo di una società
fortemente gerarchizzata, almeno per quanto concerne il rapporto che si
stabilisce fra l’istituzione scolastica e i destinatari finali del suo servizio.
Una simile impostazione della didattica ha poco a che vedere con
l’insegnamento della lingua così come lo si interpreta oggi, fortemente
improntato alla orizzontalità del rapporto fra docenti e discenti.
Probabilmente più attuale è la seconda tipologia di approccio, vale a dire
quello della conversazione maieutica: si tratta della pratica, notoriamente
attribuita al filosofo greco Socrate, del dialogo fra maestro e discepolo,
instaurato al fine di aiutare quest’ultimo a generare da se stesso, attraverso
l’esercizio della ragione, la verità intorno ai problemi fondamentali.
Certamente la conversazione maieutica sembra presentare dei punti di contatto
con quella che vedremo essere l’impostazione generale della moderna
didattica delle lingue. Tuttavia oggi l’insegnamento necessita di modi,
tempi e organizzazione difficilissimi da rispettare all’interno di una pratica
di tipo “socratico”, improntata alla occasionalità. Lo strumento della lezione
comunemente intesa sembra essere insostituibile, ed è per questo che si è
cercato soprattutto di modificarlo ed adeguarlo alle esigenze più moderne.

Nella tradizione glottodidattica è dagli anni Sessanta che si parla di


UnitàDidattica: l’aggettivo chiarisce che è uno schema di riferimento per
il discente e per l’insegnante. In realtà, una UD è composta da una serie di
singole “lezioni”, intese come sessioni di lavoro: se consideriamo queste
sessioni dal punto di vista dello studente, possiamo chiamarle «Unità
d’Apprendimento»: è quello che lo studente percepisce come blocco
unitario e che viene svolto in una sessione di lavoro.
Lungi dall’essere una “semplice” forma di frammentazione ed
organizzazione del materiale didattico, il concetto di UD nasce da
approfondite teorizzazioni relative alle modalità di apprendimento del
cervello umano.
La prima constatazione è di natura neurolinguistica:
• Il cervello umano ha una struttura “bimodale”, ovvero i processi di
apprendimento rispecchiano e vengono condizionati dalla presenza di
due emisferi deputati a svolgere due funzioni complementari, ma
differenti: quello destro preposto alle attività globali, olistiche,
analogiche
e quello sinistro alle attività razionali, sequenziali, logiche.
• Il cervello ha una struttura “direzionale”: i due emisferi agiscono in
maniera integrata, tuttavia le modalità globali ed emozionali del cervello
anticipano l’azione di quelle razionali. Tradotto in termini di
glottodidattica, ciò significa che il contesto precede il testo, la
comprensione globale precede quella analitica, la soddisfazione di
bisogni pragmatici precede il bisogno di accuratezza formale.
La seconda teorizzazione è di natura psicologica:
• In particolare la psicologia della Gestalt promuove una teoria della
percezione strutturata in maniera sequenziale e triadica: globalità –
analisi – sintesi.
Su queste basi teoriche si è sviluppata la scelta di strutturare nella forma
di una Unità Didattica la formazione in ambito linguistico. Più di
recente, negli anni ’90 del XX secolo, dalla UD si è passati alla Unità di
Apprendimento, calibrata sul modello della lezione (infatti una UA
dovrebbe avere una durata massima di 90 minuti). L’UA è in primo
luogo l’unità di misura attraverso cui lo studente percepisce il proprio
lavoro ed i propri progressi, essendo organizzata per argomenti.
Viceversa, l’UD rappresenta un contenitore molto più ampio, dentro il
quale possono trovar posto numerose UA. Normalmente, se ne può
avere facile riscontro sfogliando uno qualunque dei tanti manuali in
circolazione sul mercato, una UD è strutturata per ambiti comunicativi
(ad es: “al bar”, “all’ospedale”, “all’ufficio postale”) o a un contesto
grammaticale molto ampio (ad es. “il soggetto”, oppure “gli aggettivi”).
L’Unità didattica e il suo funzionamento
Un intervento formativo strutturato per Unità di Apprendimento ed
Unità Didattiche seguirà una serie di passaggi, che regolano la sua
progressione. La glottodidattica individua una prima fase di introduzione
alla UD, che consiste in una esposizione dei suoi contenuti. Essa ha
l’utilità di fornire e consolidare la motivazione dei discenti, e di
sintonizzare, contestualmente, la loro attenzione sugli argomenti che si
apprestano a trattare. L’introduzione della UD, inoltre, rappresenta anche
una embrionale fase di negoziazione dei contenuti dell’intervento
formativo, fondamentale nella logica di una didattica non dipendente in
modo esclusivo dalla volontà e dalla iniziativa del discente.
L’introduzione alla UD dovrebbe anche agevolare il processo di sviluppo
della retedelleUA, che essa contiene. Di fatto questa rete non deve
necessariamente procedere seguendo in modo pedissequo il criterio
adottato dal manuale di riferimento: proprio la negoziazione dei contenuti
della azione didattica potrebbe consentire l’aggiunta di alcune UA, o la
loro eliminazione, o ancora la loro modifica, a seconda delle esigenze dei
destinatari. L’organizzazione delle UA, quindi, non dovrebbe mai seguire
in modo letterale uno schema precostituito: essa al contrario dovrebbe
venire arricchita dal rapporto collaborativo fra docente e discenti,
adattandosi alle numerose variabili che, come abbiamo detto, operano nel
“campo di forze” dello spazio didattico.

Per quanto concerne la struttura interna delle singole UA, essa segue in
gran parte il percorso gestaltico di cui si è detto in precedenza, con una
tripartizione che, almeno in superficie, coincide con le «tre P» del modello
inglese presentation / practice / production, ma che nella realtà è
profondamente diversa: le «tre P» erano il prodotto di un insegnamento
molto tradizionale, con l’insegnante che presenta i contenuti o l’input, lo
studente che fa gli esercizi e poi fa vedere quel che ha imparato; il modello
globalità → analisi → sintesi/riflessione non viene dalla pedagogia ma dalla
psicologia e riguarda i meccanismi umani di percezione e rappresentazione
mentale; attraverso concetti diversi ma sostanzialmente paralleli a quelli
gestaltici il modello globalità →analisi →sintesi/riflessione è stato descritto da
Chomsky come meccanismo di funzionamento del LAD (Language
Acquisition Device) in termini di osservazione →creazione e verifica di ipotesi su
quanto osservato → fissazione e uso delle «regole» che sono state osservate,
ipotizzate e confermate. È questo il modello per la maggioranza accettato
in ambito di didattica delle lingue.
Ognuna di queste fasi richiede la scelta di tecniche didattiche adeguate.

La parteconclusivadellaUD dovrebbe invece essere ispirata alla azione di


consolidamento e rafforzamento delle conoscenze acquisite. Questa è la
fase anche di valutazione delle abilità sviluppate dai discenti, che
dovrebbero essere messi in condizione, se si sono dimostrati
particolarmente abili, di accedere a competenze complementari e più
approfondite, rispetto a quelle previste originariamente dalla UD.
Viceversa, nel caso di discenti il cui processo di apprendimento dovesse
procedere più lentamente, sarebbe consigliabile sottoporli ad attività di
recupero, e successivamente affiancarli al gruppo di eccellenza, perché
possano sviluppare insieme le competenze da questi già consolidate.
La fase che precede l’inizio della successiva UD è quella che in
glottodidattica si definisce fase di interludio. Si tratta di una fase non
esplicitamente dedicata allo studio della lingua, ma al riutilizzo (guidato
dalla regia dell’insegnante) delle abilità appena acquisite mediante attività
di tipo comunicativo, stimolando la creatività dei discenti attraverso, ad
esempio, la visione di un film, l’ascolto di un brano musicale, o la
discussione su determinati argomenti trattati nel corso della UD.

Valutazione degli strumenti didattici


Abbiamo appena visto che il processo di apprendimento della lingua non
avviene attraverso un flusso di nozioni, che dalla cattedra piovono sui
discenti. Il processo di apprendimento, al contrario, vive di fasi, che la
glottodidattica individua e circoscrive, perché sia poi possibile per ciascuna
di esse predisporre degli interventi adeguati. La ricerca glottodidattica
recente ha sviluppato una griglia di valutazione che consente di misurare il
livello di pertinenza delle tecniche didattiche a seconda delle “fasi”
dell’intervento formativo. Si tratta del PACE (acronimo di Pertinenza,
Accettabilità, Comparabilità, Economicità) proposto in PORCELLI G., 1992,
Educazione linguistica e valutazione, Torino, Liviana-Petrini:
• Pertinenza: è il criterio che individua l’oggetto effettivo di una tecnica.
Si tratta di un criterio abbastanza ambiguo, data anche la difficoltà di
definire in modo chiaro il suo obiettivo. Si prenda l’esempio della
tecnica del “dettato”, che spesso si ritiene poco adatta perché limitata a
valutare la correttezza ortografica con cui l’apprendente scrive, ma che
nel caso degli studenti L2 può essere utilissimo anche per stabilire il
loro livello di comprensione del contesto generale del messaggio orale
(si fa a volte l’esempio della dettatura di una frase o di una parola che in
italiano non ha alcun significato: il fatto che il discente trascriva il
messaggio in maniera ortograficamente corretta non dimostra affatto,
in questo caso, che questi abbia “compreso” il suo significato).
• Accettabilità: questo criterio riguarda la previsione dell’effetto che può
avere sui discenti la somministrazione di un determinato tipo di
materiale o la commissione di un certo task. Esistono attività che, per
via della loro struttura interna, mettono in gioco la persona del
discente, lo coinvolgono fino a costringerlo ad esporsi: è un fenomeno
apprezzabile soprattutto nella didattica che applica un approccio di tipo
comunicativo, molto utilizzata soprattutto nell’insegnamento delle
lingue L2. L’effetto che un mancato calcolo intorno all’apprezzabilità, ad
esempio, di un role-play, può provocare, potrebbe essere in alcuni casi
controproducente: uno studente timido, non adeguatamente
rassicurato, potrebbe innalzare le proprie difese affettive e chiudersi,
precludendosi l’opportunità di un progresso nell’acquisizione delle
competenze. Un accurato calcolo della apprezzabilità di una tecnica
didattica è consigliabile soprattutto nel caso di lezioni dedicate ad un
pubblico di immigrati, che non di rado proviene da un contesto di
sofferenze, diaspore e traumatiche separazioni dai propri luoghi e dai
propri affetti.
• Comparabilità: è una caratteristica rilevante per valutare, soprattutto
sulla lunga durata, l’efficacia e la pertinenza delle tecniche adottate.
Attraverso questo indice, potenzialmente il docente potrebbe dotarsi di
un efficace strumento statistico di valutazione delle proprie tecniche, in
relazione ai contesti diversi in cui ha esercitato la propria attività.
• Economicità: è il parametro che consente di valutare il dispendio della
risorsa “tempo” per lo svolgimento di determinate attività. Si tratta di
uno strumento che non valuta l’intrinseca efficacia di una azione sui
discenti, ma, si potrebbe dire, il tempo che occorre perché essa agisca
in modo efficace.

La ricerca in ambito glottodidattico ha suggerito, nel corso degli ultimi


anni, di allargare la griglia inserendo altri indicatori a quelli contenuti nel
PACE:

• Flessibilità: è il parametro che indica la facilità di


somministrazione di una determinata tecnica: la didattica
comunicativa, che si è affermata soprattutto in ambito di
insegnamento L2, stravolge quasi del tutto l’idea tradizionale di
impiego dello spazio fisico dell’aula. La lezione di solito non si
svolge in modo cattedratico, dunque anche le tecniche da utilizzare
dovranno essere adeguate alla disposizione dei banchi e alla
collocazione del docente: la somministrazione di un role-play, ad
esempio, è particolarmente adatta ad un gruppo di studenti disposti
gli uni di fronte agli altri.
• Tipi di relazione e comunicazione che ogni tecnica instaura
in una classe: ogni tecnica è pensata per produrre un esito
specifico. Alcune promuovono la riflessione, dunque prevedono un
lavoro di tipo individuale e la concentrazione del discente su se
stesso; altre invece promuovono lo scambio cooperativo fra
studenti, o (nel caso di soluzioni ludiche) la competizione, di fatto
esponendo al rischio di creare situazioni di rumore, confusione e
possibile distrazione.
• Adattabilità alle caratteristiche degli studenti: l’esito della
applicazione di ogni tecnica non produce delle risposte standard
negli studenti. Alcuni si mostreranno più recettivi nei confronti di
quelle che consolidano le competenze riflessive, su altri invece,
anche soltanto per questioni caratteriali, saranno più efficaci le
tecniche che promuovono la comunicazione. L’abilità del docente
dovrebbe consistere nella capacità di alternarle, in modo da non
mortificare o esaltare le caratteristiche di nessuno dei profili di
apprendenti.
• Autonomia degli studenti: si tratta dell’indice che quantifica la
capacità di ogni studente di sviluppare in modo autonomo il
proprio percorso di apprendimento, trovando soluzioni ai task
proposti dal docente, o cercando autonomamente i materiali
necessari a completare uno studio o una ricerca in lingua.
Naturalmente questo indice non può essere lo stesso per tutte le
fasce di età degli apprendenti, né, all’interno della medesima fascia
di età, si può immaginare che tutti gli studenti siano autonomi allo
stesso modo nel processo di apprendimento. L’autonomia degli
studenti va dunque coltivata ed incentivata, migliorando
innanzitutto la loro autostima.
• Contributo delle tecnologie: alcune tecniche risultano
appesantite dall’utilizzo del computer, o del tutto
decontestualizzate rispetto al mezzo; in altri casi (qualora si
impostasse una lezione sulla comunicazione in chat, o via Skype, ad
esempio), le tecnologie digitali risultano necessarie.

Le metodologie didattiche

La griglia PACE, con le integrazioni che abbiamo appena citato, mostra


come la scelta delle tecniche didattiche debba essere orientata secondo dei
principi di adattabilità e flessibilità, che le rendano funzionali all’azione in
un contesto estremamente variabile. Una delle componenti il contesto di
insegnamento è la metodologia. Di seguito proponiamo una rassegna
delle metodologie più usate in ambito glottodidattico. Si premette sin da
ora che non è corretto, dal punto di vista della ricerca scientifica, definire
migliore o peggiore in termini assoluti una metodologia, la scelta della
quale dipende principalmente dalle valutazioni di chi progetta il percorso
didattico. Bisogna inoltre sottolineare che il discorso intorno alle
metodologie non proviene dal contesto strettamente glottodidattico, ma
da quello psicodidattico, che è di importanza fondamentale per la scienza
dell’insegnamento delle lingua, sebbene non le sia sovrapponibile. La
glottodidattica, di fatto, considera soprattutto la questione degli approcci,
che è una vera e propria filosofia dell’educazione linguistica, mentre la
psicodidattica guarda in particolare alle interazioni fra insegnamento e
strutture cognitive dei discenti.

Tecniche umanistico-affettive: dette anche umanistico-emozionali. La


dimensione umanistica è dovuta alla grande attenzione per i profili di
apprendimento, le capacità cognitive e linguistiche dei discenti, le loro
peculiarità caratteriali ed i tipi di intelligenza. Lo spirito che anima la
metodologia di tipo umanistico-affettivo potrebbe essere riassunta con questa
categorica espressione, che dovrebbe orientare il docente nella scelta dei
materiali e delle tecniche di insegnamento: la scelta delle tecniche con cui si
concretizza la didattica deve essere tale da non privilegiare alcuni studenti, cioè alcune
peculiari combinazioni di dominanza emisferica, di stili cognitivi, di tipi di intelligenza
ecc.,a scapito di altri.
Nella pratica questo atteggiamento si traduce in una accorta scelta del
materiale, che non mortifichi le peculiarità delle due tipologie di studenti
considerati dalla teoria del “cervello bimodale”, di cui si è già detto in
precedenza: alcuni studenti saranno naturalmente dotati di una intelligenza
analitica, e della volontà di conoscere nel dettaglio le strutture formali della
lingua; altri saranno più orientati ad esplorare gli aspetti comunicativi della
lingua, magari trascurandone quelli formali e grammaticali, perché dotati
di una intelligenza intuitiva.
Secondo lo studioso americano Gardner, si possono elencare vari tipi di
intelligenza che concorrono alla formazione del carattere individuale
degli apprendenti:
• Linguistica: è la capacità di cogliere le sfumature della lingua nei suoi aspetti
comunicativi, al di là dell’attenzione a quelli formali e strutturali. Si tratta
della abilità di sfruttare la lingua per esprimere pensieri e riflessioni, o per
creare legami empatici con la persona con la quale si sta conversando. Le
tecniche che privilegiano la discussione, il dialogo o l’espressione di pareri
personali sono quelle più indicate per stimolare questo tipo di intelligenza.
• Logico-matematica: è l’attitudine ad approfondire la lingua nei suoi aspetti
formali. Non di rado questa tipologia di intelligenza tollera molto poco gli
esercizi di lettura globale dei testi, o le attività di role-play, nelle quali allo
studente viene richiesto di portare a termine un compito utilizzando il
materiale linguistico che ha a disposizione e che, nella logica della didattica,
dovrebbe essere ancora poco chiaro allo studente medesimo. Al contrario,
si troverà molto più a suo agio con esercizi del tipo cloze, che attivano la
riflessione sui meccanismi formali della lingua.
• Musicale: viene attivata soprattutto dalle attività che prevedono l’ascolto di
canzoni, filastrocche e materiali musicali in senso lato.
• Spaziale: è l’intelligenza che viene attivata dai materiali didattici quali
dizionari illustrati: si tratta della capacità di cogliere e memorizzare nozioni
o parole attraverso il riferimento ad un contesto (“la casa”, “la strada”,
“l’ospedale”, ecc).
• Personali: riguarda i due differenti tratti della personalità di ciascuno:
introversione o estroversione. Una personalità introversa avrà una
particolare abilità nello esprimere stati d’animo, emozioni, ecc.; mentre il
carattere estroverso verrà sollecitato soprattutto dalle attività che
consentono la comunicazione con gli altri e l’instaurazione di rapporti
empatici con il proprio interlocutore.

Oltre ai tipi di intelligenza bisogna ricordare che esistono anche degli stili
di apprendimento, e, soprattutto, dei tratti della personalità che
interferiscono con la azione didattica e, inevitabilmente, la condizionano. Li
possiamo elencare per coppie di opposti:
• Cooperativo/competitivo: lo studente che si segnala per l’atteggiamento
cooperativo tende a collaborare con gli altri componenti del gruppo classe,
eventualmente anche abbassando le proprie difese psicologiche (fino ad
esporsi bonariamente al ridicolo) pur di creare un ambiente che sia
confacente alla sua personalità; all’estremo opposto lo studente
competitivo, desideroso di emergere, che è poco disposto ad accogliere le
richieste di aiuto del compagno, o poco incline a collaborare con lui. Le
tecniche didattiche scelte dovrebbero mirare a stemperare le spigolosità di
queste tipologie di carattere, sollecitando lo studente competitivo
attraverso attività di tipo ludico, e indirizzando quello cooperativo a
focalizzarsi in modo più deciso sul proprio percorso.
• Introverso/estroverso:è un’altra variabile ben nota e ha un ruolo essenziale nel
facilitare o complicare tutte le attività in cui si deve parlare in lingua
straniera con i compagni o con l’insegnante; siccome queste attività sono
necessarie per esercitare l’oralità, lo studente introverso tende a esercitarsi
di meno e quindi aggiunge al disagio psicologico dell’uscire dal proprio
guscio protettivo quello linguistico della scarsa padronanza.
• Ottimista/pessimista: anche in questo caso ci troviamo di fronte a degli
atteggiamenti che, se estremizzati, possono inficiare in modo negativo sulla
riuscita della azione didattica. Lo studente pessimista tenderà ad abbattersi
molto facilmente, mentre quello ottimista potrebbe accettare con
faciloneria le proprie mancanze ed i propri ritardi nell’apprendimento, di
fatto generando delle lacune difficili da colmare.
• Dipendenza/autonomia: si tratta della capacità di affrontare in modo
autonomo i problemi legati alle difficoltà e alla lentezza del processo di
apprendimento, oppure della mancanza di “autocontrollo” ed
“autoverifica”, che spinge molti studenti ad adagiarsi sull’insegnante,
lavorando molto poco su se stessi.
Tecniche in prospettiva collaborativa: la scelta delle tecniche didattiche,
in questo caso, procede dall’assunto che la lingua è un fatto sociale: si
tenderà a privilegiare una metodologia che incentivi la comunicazione,
dunque, o l’acquisizione di competenze attraverso lo svolgimento di
compiti in comune con gli altri apprendenti, in modo da promuovere
l’utilizzo orientato della lingua attraverso attività di problem solving. Proprio
per questa ragione le attività selezionate in base alla metodologia
collaborativa privilegiano un approccio di tipo costruttivistico: la
conoscenza della lingua avviene attraverso la elaborazione di percorsi
comuni e non attraverso la trasmissione di conoscenze dall’alto.
Il concetto di prospettiva collaborativa andrebbe in realtà integrato con
quello di prospettiva cooperativa, che introduce una ulteriore chiarificazione
intorno alla scelta delle tecniche didattiche: quelle collaborative riguardano
l’assegnazione agli studenti di obiettivi comuni, che però andrebbero
raggiunti attraverso il lavoro individuale del singolo; quelle cooperative
riguardano vere e proprie forme di lavoro comune fra gli studenti.
Questo tipo di prospettiva può essere una importante risorsa nel caso delle
cosiddette CAD, classi ad abilità differenziate, ad esempio quelle che vedono
una alta percentuale di studenti stranieri, con formazione e retroterra
culturale differente rispetto ai compagni di origine autoctona: le tecniche
collaborative e cooperative potrebbero rappresentare un incentivo ad
accompagnare gli studenti stranieri verso un più agevole percorso di
integrazione con il resto della classe.

La dimensione ludica e le tecniche didattiche: la glottodidattica ludica


non è incentrata sul gioco in quanto tale, ma sulla possibilità di
trasmettere, in un contesto di apprendimento giocoso, contenuti linguistici
e abilità. Il carattere ludico di certe tecniche consiste nella possibilità che
esse offrono di generare una atmosfera più rilassata, in cui la competizione
e la sfida dell’apprendimento (che normalmente potrebbe nuocere ad
alcune tipologie di studenti) vengono stemperate: l’approccio ludico
elimina la contrapposizione docente/discente, così come quella fra
compagni di classe, ed abbassa notevolmente l’ “ansia da prestazione” che
la prospettiva di un brutto voto rischia sempre di portare con sé.
Nelle tecniche di tipo ludico si integrano fra loro varie componenti, che
possiamo ordinare secondo questo elenco:
- cognitive: l’elaborazione di strategie, la comprensione delle regole, la
valorizzazione dei diversi tipi di intelligenza;
- linguistiche: la lettura, la negoziazione, la spiegazione delle regole, la
discussione sulle infrazioni, gli scambi comunicativi necessari allo
svolgimento del gioco, le routine culturali come le conte o le frasi rituali
(«colpito», «affondato»);
- sociali: ad esempio l’interazione con la squadra, la necessità di mediare tra
competitività e collaborazione;
- motorie e psicomotorie nei giochi con una dimensione fisica;
- emotive: ad esempio, la paura, la tensione, il senso di liberazione, il
divertimento, il piacere.

4. Semiotica della didattica dell’italiano L2/LS

Introduzione
Uno dei punti di maggiore novità che è stato introdotto dal QCE, è
rappresentato dalla concezione della glottodidattica come luogo di
convergenza fra diverse scienze del linguaggio.
Come già abbiamo avuto modo di vedere, infatti, la didattica della lingua
L2 segue dei percorsi che le sono del tutto peculiari (abbiamo sottolineato,
ad esempio, come quella linguistica sia l’unica forma di insegnamento in
cui l’argomento della azione formativa, e lo strumento per condurla in
porto, coincidono) e che ne fanno una disciplina ibrida, aperta alle
suggestioni di molti ambiti di ricerca scientifica.
Il QCE, in tale senso, può essere considerato come un notevole sforzo di
risistemazione della didattica della L2, prodotto a partire da una tesi
apparentemente semplice, ma foriera di numerose conseguenze sul piano
della teoria e della prassi: l’apprendimento della lingua è un fatto
comunicativo, che non avviene in un ambiente asettico e impermeabile
agli infiniti condizionamenti culturali di cui la stessa lingua è carica.
Il destinatario dell’intervento didattico è visto pertanto come un agente
sociale, che interagisce con altri soggetti (i compagni di corso, il proprio
insegnante, la struttura formativa, ecc.) attraverso gli stessi codici che
formano l’oggetto del suo studio.

È questo il motivo per cui discipline come la sociolinguistica o la


pragmalinguistica hanno acquisito un’importanza crescente per la
glottodidattica: esse consentono di superare, almeno nell’ambito della
didattica L2, la distinzione (che le teorie recenti considerano
sostanzialmente dannosa) fra contesto didattico e contesto extradidattico.
A lungo, infatti, il contesto didattico è stato considerato come il luogo
dell’utilizzo “non naturale” della lingua, ovvero come il luogo in cui la
competenza in una determinata lingua poteva assumere solo le forme di
una approssimazione alla autentica e reale comunicazione in L2. Che il
luogo della formazione linguistica somigli ad una ricostruzione artificiale
dell’ambiente della lingua L2 è raramente evitabile e, a volte, risulta
necessario. Tuttavia una didattica che non prenda in considerazione la
possibilità di “forzare” questo modello, oggi si ritiene inattuale e
indesiderabile.
Nel QCE, dove l’attenzione per la dimensione sociolinguistica e
pragmalinguistica è molto alta, la realtà comunicativa della classe viene
considerata secondo un modello molto differente, per il quale è
opportuno fare riferimento alla prospettiva semiotica e sociolinguistica.

Il gruppo classe come snodo di relazioni sociali


Il primo punto della riflessione riguarda il gruppo classe. La classe di
lingue non è il luogo della comunicazione artificiale in L2 (come invece a
volte viene considerata negli approcci riduzionistici), ma è un composto di
soggetti inseriti in una retediscambi sociali, che generano a loro volta
contesti di scambi sociali inseriti nella cornice specifica dell’ambiente di
apprendimento. Lo stesso ambiente di apprendimento, d’altra parte,
non è un luogo estraneo a tutto il resto della società, ma è il luogo
deputato alla trasmissione del sapere da parte della società stessa: è una
istituzione, dove leggi, codici e pratiche di varia natura regolamentano gli
scambi sociali e, di conseguenza, quelli linguistici. Esiste ad esempio, nella
scuola, una tipologia di comunicazione, che si definisce comunicazione
didattica, che è specifica di questo tipo di istituzione e che rappresenta una
prima modalità di interferenza fra il contesto e la lingua. All’interno di
questo contesto, poi, avvengono l’interazione sociale fra i soggetti che
vivono all’interno dell’istituzione (studenti, docenti, ma anche funzionari o
altri addetti ai lavori), e lo scambio comunicativo vero e proprio fra i
medesimi soggetti: sono questi i pilastri dell’universo di socialità che il
gruppo classe rappresenta.

È all’interno di questo universo che registriamo le occorrenze


comunicative, come si definiscono tutte le forme di comunicazione che
si verificano in un determinato sistema segnico. In una prospettiva
semiotica, le occorrenze comunicative sono produzioni culturali di un
sistema segnico, cioè di un sistema capace di generare strutture di
identità. La lingua e la cultura di una comunità sono manifestazioni di un
medesimo sistema segnico, e rinviano l’una all’altra: di fatto potremmo
dire che entrambe, per la semiotica, sono generate all’interno dello stesso
sistema, dunque è impossibile che l’occorrenza di una non comporti,
automaticamente, l’occorrenza anche dell’atra. Detto in altri termini, per
riagganciarci al discorso fatto in precedenza, la comunicazione in L2 non
può mai essere considerata come una ripresa artificiosa della lingua e come
una conversazione “simulata” in idioma straniero, ma al contrario anche ai
più bassi livelli di competenza essa è sempre autentica ripresa di una intera
costellazione culturale, che nel contesto della comunicazione didattica
assume un’ulteriore sfumatura di colore. La comunicazione didattica,
dal punto di vista della semiotica, è cultura, ed il processo di
insegnamento/apprendimento è una forma di contatto fra culture, dunque
si nutre dei rinvii che gli apprendenti costruiscono fra la lingua/cultura
materna e quella L2.

La didattica della L2 sa una prospettiva semiotica


Questo aspetto della comunicazione didattica ha una forte influenza anche
sul modo in cui, in ambito semiotico, viene considerato il processo di
apprendimento: lo studente non è un vaso da riempire di nozioni e
conoscenze, ma un soggetto dotato di una ben precisa identità culturale,
che si arricchisce attraverso il contatto con un’altra forma di lingua e
cultura.

La comunicazione didattica dovrebbe dunque promuovere una forma


di insegnamento che sia consapevole delle dinamiche messe in luce dalla
semiotica, riconoscendo che il gruppo classe rappresenta un universo di
socialità dai connotati specifici, sul quale andranno ad incidere i metodi, le
tecniche e le modalità pratiche di realizzazione dell’intervento formativo.

Il ruolo del docente, in un contesto così definito, si carica di funzioni di


regia e controllo degli scambi comunicativi, perdendo al contempo la
funzione tradizionale di unico canale di distribuzione del sapere. Oltre alla
capacità di scelta e adeguamento del materiale didattico, il docente sarà la
persona incaricata di stimolare la comunicazione fra i discenti, di
incentivare gli scambi e le azioni comunicative in senso lato, e di evitare
che l’azione didattica acquisisca i toni di una vivisezione della lingua L2,
messa sotto osservazione e sviscerata.

In che modo realizzare una comunicazione didattica che sia promozione


dello scambio comunicativo, e fornire input adeguati allo scopo? Abbiamo
visto che nel modello di comunicazione didattica indicato dal QCE come
ottimale per l’insegnamento della L2, il ruolo del docente dovrebbe
somigliare pressappoco a quello di un regista, che coordini una equipe di
persone impegnate nella realizzazione di un prodotto culturale. Perché
questo avvenga, il ricorso alla tradizionale lezione di tipo frontale
dovrebbe avvenire solo in alcuni casi. D’altra parte questo tipo di
comunicazione didattica la monodirezionalità del parlato del docente
rappresenta un restringimento della gamma dei generi discorsivi e della
densità comunicativa entro il gruppo classe. Una simile modalità
comunicativa non è negativa in senso assoluto (al contrario può essere
efficacissima nel caso di somministrazione di un dettato, o in tutte quelle
fasi dell’attività formativa in cui è impossibile evitare il ricorso allo
“strumento della spiegazione”). Tuttavia sviluppa solo in parte le
competenze linguistiche dei docenti, concentrandosi in modo particolare
solo sulla comprensione dell’ascolto.

In alternativa alla comunicazione monodirezionale sarebbe preferibile il


ricorso al lavoro per gruppi. Infatti nell’ottica di un’azione formativa
orientata all’insegnamento di una lingua/cultura risulta essere più efficace
la creazione in classe di isole di comunicazione. Piccoli gruppi di
studenti cui vengano assegnati task da completare attraverso la
cooperazione e il confronto “faccia a faccia”, rappresentano un
significativo allargamento della densità comunicativa, delle occasioni di
scambio e una amplificazione dell’input di apprendimento fornito dal
docente.

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