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IL VIAGGIO DI E.

Un giorno, un ragazzo di nome E. si allontanò dal suo paese per girare il mondo.

Chiese ospitalità ai girovaghi offrendo tutto ciò che aveva per viaggiare con loro. Imparò

ad adattarsi a ogni luogo, ad orientarsi con le mappe celesti, a contemplare l’alternarsi

delle aurore e dei tramonti, e ad osservare ogni cosa con la chiarezza di uno sguardo

incontaminato.

Trascorsi alcuni anni, decise di tornare al paese, e giunto alle sue porte incontrò un

amico, che quando lo vide si rivolse a lui: “La tua voce e i tuoi occhi sono cambiati in

fretta, in paese non ti riconosceranno e saranno diffidenti”.

“Tu mi hai riconosciuto” replicò E.

“Ti ho riconosciuto perché anche io me ne sto andando, ma gli altri no... non sono mai

cambiati”.

“Sto portando qualcosa per tutti, voglio stare nuovamente con gli uomini”.

“Non lo meritano. Io vado incontro alla natura, a lei offrirò il mio amore”.

I due si salutarono e procedettero in direzioni opposte.

Il paese era in festa e saltimbanchi si esibivano ai bordi delle strade. Alcuni di loro

riconobbero il compagno di carovana e lo accusarono di essere scappato portandosi via

cose che non gli appartenevano; la gente (che invece non aveva riconosciuto E.) lo prese

di mira, ed egli fu costretto ad andarsene subito e nuovamente.

Giorni e notti trascorsero tra strade, sentieri e solitudine. Gli animali del bosco erano i

suoi unici compagni nella veglia e i suoi oscuri nemici nel sonno; piante e pesci il suo

cibo e a volte il suo veleno.

Una sera all’imbrunire, E. scorse tra le cime degli alberi il fumo di un camino isolato,

distante da ogni sentiero, e prese quella direzione.

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Attraversò una fitta sterpaglia prima trovare una casa fatiscente, apparentemente

disabitata, se non per quel comignolo fumante: finestre sbarrate, una porta arrugginita,

colonne di legno marcito.

Girò intorno alla casa in cerca di una luce o un rumore, e sentì un odore intenso venire

da dentro, l’odore della legna che arde.

Da una piccola finestra coperta di polvere scorse un’anziana donna di fronte al fuoco del

camino, e un cane denutrito ai suoi piedi; nella penombra ragnatele stantìe pendevano

dal soffitto.

Tentò invano di attirare l’attenzione battendo le mani sul vetro: la donna rimaneva

impassibile, con lo sguardo fisso sulla luce del fuoco. Allora provò dal portone sul lato

d’ingresso ma non ottenne risposta.

Scesa la notte, il ragazzo si riparò sotto la coperta che portava con sé, sedendosi sugli

scalini di legno della casa, e si addormentò per un tempo indefinito, durante il quale fece

un sogno: si trovava nella stanza insieme alla vecchia, lei era a letto, inferma, e alzò la

testa per parlargli.

“Nessuno è mai entrato qui, chi sei ragazzo?”

“Sto facendo un lungo viaggio e cercavo riparo per la notte. Il mio nome è E., qual è il

vostro?”

“Il mio nome non ha più importanza da tanto tempo… quando avevo la tua giovinezza

me l’hanno tolto e me ne hanno dato un altro; da allora vivo ritirata”. Continuò tra colpi

di tosse: “Manca poco alla mia fine, presto il fuoco brucerà ciò che l’ignoranza e la

cecità degli uomini hanno già ucciso”.

“Non ti capisco”

“Non importa, ora voglio solo morire dolcemente”.

“Non hai paura di morire?”

“Una vita non vissuta si abbandona con meno dolore. L’innocenza e la pazzia non si

lasciano consumare né da un senso né da un destino”.

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E. riaprì gli occhi appena in tempo per accorgersi che, fiamme provenienti dall’interno

della casa lo stavano raggiungendo; cominciò a correre, mentre il frastuono di un

improvviso temporale echeggiava sui bagliori del fuoco.

L’incendio svanì tanto velocemente quanto era divampato, e una nuvola di fumo nero si

allargò fino a scomparire nell’aria.

Tornato sui resti carbonizzati di muri e travi, E. scorse il luccichìo di un oggetto

metallico rimasto intatto. Raccolse un cofanetto che portò via con sé.

Fradicio ed esausto, riprese la strada che aveva percorso prima di entrare nel bosco e

raggiunse una locanda nel paese più vicino, dove i pochi soldi che gli erano rimasti gli

avrebbero permesso di pagare una stanza per la notte.

Dormì fino al pomeriggio del giorno successivo, poi, resosi conto che le sue deboli

forze non gli consentivano di proseguire senza provviste di cibo, pensò di guadagnare

qualcosa con un flauto di legno che si era fabbricato quando viaggiava insieme alle

carovane dei saltimbanchi, e che aveva giorno dopo giorno imparato a suonare.

Cominciò ai bordi di una strada soleggiata: prima solo bambini, poi anche adulti,

incuriositi e incantati da quel suono dolce e suadente, si avvicinarono ad ascoltarlo.

L’indomani poté ripartire con qualche soldo in tasca e prese la direzione dei monti,

seguendo a ritroso la riva del fiume che costeggiava i boschi.

Dopo alcuni giorni di cammino, si ritrovò in un punto in cui il corso d’acqua era

interrotto da un largo ruscello roccioso che si estendeva trasversalmente a perdita

d’occhio, tra piccoli vortici di schiuma.

Mentre percorreva il torrente, una voce sopra di lui risuonò nel frastuono: “Te l’avevo

detto! Solo la natura è in grado di accoglierci”; si girò e scorse tra le foglie di un grosso

albero, in piedi su un ramo come un soldato di guardia, l’amico d’infanzia che aveva

incontrato tornando al proprio paese.

“Questo è il mio regno!” continuò M. compiaciuto.

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“Il tuo regno sembra invalicabile! Mi indicherai il modo per superarlo?” Chiese

ironicamente E. al compagno ritrovato.

“Non prima che tu abbia capito cosa significa essere qui...”, e si abbracciarono ridendo.

M. aveva costruito un rifugio sugli alberi sopra una base di legno fissata saldamente e

protetta da rami robusti e foglie.

I due salirono in quell’angolo sospeso di bosco e mangiarono insieme, circondati dalla

luce morbida di un lento tramonto che si stava consumando lontano, tra macchie rosate

di nuvole attraversate dagli ultimi raggi di sole.

“Come hai scelto questo posto?”

“Mi sono riparato qui in una notte di pioggia e non me ne sono più andato”.

“Dunque hai trovato qui quella natura che cercavi?!”

“Qui ho trovato la vita, il rumore del movimento e il silenzio del pensiero…”.

“Non ti mancano le persone? Non ti manca parlare con qualcuno?”

“La condivisione non mi permette di sentire e di capire davvero ciò che nasce

dall’esperienza intima e solitaria”.

I riflessi della luna cominciavano a filtrare tra le foglie, nella penombra degli sguardi dei

due ragazzi.

“Ho assistito all’incendio di una casa, - riprese E. come se stesse continuando un

discorso interrotto - c’era una donna consumata dal tempo, nei suoi occhi l’orrore della

solitudine e della rassegnazione”.

“Mi stai dicendo che hai visto morire una donna in un incendio?”

“L’ho vista prima che la sua casa bruciasse ma non ho potuto fare nulla per salvarla, il

fuoco mi stava raggiungendo e sono scappato. E’ rimasta una cosa di lei, un cofanetto

metallico che ho raccolto tra i resti carbonizzati; ce l’ho qui con me e non l’ho mai

aperto”.

“Questo il momento migliore per farlo, così potrai condividere con me il segreto del suo

contenuto!”

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E. rovistò tra le tasche del suo zaino e tirò fuori il cofanetto, lo aprì rompendo una

piccola serratura arrugginita e ne uscì un taccuino con pagine ingiallite che lesse ad alta

voce: “Hanno ragione loro, solo un’influenza malvagia può avermi portata a tanto. Solo

in un’anima cattiva si può annidare il desiderio verso un uomo che ha già un’altra donna,

un uomo incolpevole di quella forza che ci ha trascinati contro ogni volontà.

Strega è il nome che mi hanno dato, ora sono per tutti dannata.”

“Una strega moderna” commentò M. con distaccato sarcasmo.

“Una donna condannata dall’ignoranza e dal falso moralismo di piccoli uomini in cerca

di un colpevole per le proprie frustrazioni” replicò amareggiato E.

Continuò a leggere: “Non rimane che andarmene, essere dimenticata, nascondere la mia

dannazione in qualche angolo silenzioso che mi possa accogliere. I cieli notturni che ho

tanto amato saranno il mio unico sguardo verso un mondo in cui non c’è posto per me, in

cui non c’è posto per un amore contro le regole.”

E. credette di intuire, come vedendo una sequenza di immagini che si riavvolgono dalla

fine, che la casa nel bosco era stata per tutta la vita l’eremo della donna che aveva

intravisto prima che il fuoco la strappasse alla sua malattia terrena. Le poche righe di

dolore che aveva letto, ciò che aveva veduto e il sogno che aveva fatto prima

dell’incendio, si confusero nella sua mente.

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Il chiarore del nuovo giorno entrò poco alla volta nel giaciglio sull’albero fino a

penetrarlo completamente, insieme ai suoni e agli odori del risveglio intorno.

Quando E. si svegliò, M. era sulla riva del fiume e trascinava una zattera che egli stesso

aveva costruito per muoversi tra le sponde del fiume.

“Prima di attraversarlo – gli disse M - lo percorreremo in lungo. Voglio che tu veda

quanto è profondo e quante cose si possono scorgere”.

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Ma M. si accorse che per tutto il tempo del loro remare, lo sguardo di E. era rivolto alle

cime che si intravedevano dall’altro lato, dove il bosco gradualmente scompariva

lasciando il posto alle prime rocce dei monti.

“Sappi che nessuno si avventura su quelle montagne, sono piene di pericoli e per niente

accoglienti”. E. continuava ad osservare senza dire niente.

Rientrarono nel pomeriggio, colmi della vita luccicante e nascosta di cui quei luoghi

erano pervasi, e si accordarono per il giorno seguente: avrebbero raggiunto l’altra riva,

M. avrebbe lasciato là il compagno e sarebbe tornato indietro solo.

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A guardarla dal basso, la cima della montagna che s’intravedeva dopo un giorno di

cammino, appariva come un enorme monumento che ti guarda fissamente, consapevole

della propria eternità; ombre lontane di aquile in volo tra i bagliori del sole

accompagnavano E. nella salita, che si faceva sempre più faticosa.

Il cammino fu interrotto da un incontro inaspettato: un vecchio, con capelli e barba

incolti, apparve da una grotta profonda scavata nella roccia.

L’uomo non si presentò, fece capire di essere l’unico essere umano di quel luogo e gli

offrì ospitalità con un filo di voce, mostrando debolezza fisica e trascuratezza.

E. accettò l’invito a passare la notte al riparo, mangiò qualcosa dalle provviste, seduto a

un piccolo tavolo, mentre il vecchio rimase a terra a gambe incrociate; più conversavano

più la voce di lui si faceva chiara. Gli confidò di non aver parlato con qualcuno ormai da

un tempo che non poteva più ricordare.

“Cosa vai cercando?” Chiese il vecchio sorridendo sotto la folta barba.

“Vorrei oltrepassare il monte e proseguire. Nient’altro”.

“Nient’altro… - gli fece eco mutando il sorriso in perplessità – è pericoloso non avere

una meta che ti guidi, ragazzo”.

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“Io ho uno scopo signore: oltrepassare il monte”.

“Capisco… se ti dicessi che solo le aquile raggiungono e oltrepassano questa cima?”

“E’ cosi?”

“Nessuno può confermarlo, nessuno di vivo, ma ora pensa a riposarti, domani se vorrai

mi racconterai la tua storia.” Mentre pronunciava queste parole, l’uomo fu distratto da un

rumore metallico tra le cose che il suo ospite stava tirando fuori dallo zaino. Era il

cofanetto portato via dalla casa bruciata nel bosco. Lo fissò per alcuni attimi ammutolito,

quasi ipnotizzato, poi si alzò e uscì lentamente dalla grotta senza parlare.

Quando la sua ombra scomparve, E. si stese tentando di dormire, ma echi di voci lontane

e visioni chiaroscure s’insinuavano nellla veglia immobile di quella strana notte: gli

parve di udire la voce del vecchio che gli rivelava una dolorosa vicenda del proprio

passato, legata ad una donna che avrebbe pagato con un’eterna solitudine il prezzo del

loro impossibile amore.

L’attesa del mattino pervadeva corpo e pensieri ad ogni breve risveglio. Passò forse un

intero giorno ed E. ancora non si liberava di quella prigionìa fatta di oscurità. Si alzò e

scoprì che la grotta era chiusa in ogni suo lato; fece luce con dei fiammiferi, e

procedendo a tastoni lungo la parete trovò un punto in cui una grossa pietra poteva

essere rimossa: nascondeva un cunicolo in cui l’eco scompariva, lasciandogli sperare che

ci fosse un’uscita. Entrò e la percorse spingendosi sui gomiti.

Fu per primo il rumore delle onde e poi la luce del sole a infrangere la cecità paralizzante

che stava prendendo il sopravvento su E., ormai esausto.

Il mare e la sabbia sotto le rocce erano l’ultima cosa che si aspettava di trovare fuori di

là, tanto da dubitare di essersi mai svegliato.

Appena fu in piedi però, i sensi gli confermarono la realtà di quel luogo. Una lunga

striscia di spiaggia si estendeva a perdita d’occhio, bagnata appena dalla bassa marea;

due punti lontani si facevano sempre più nitidi e riconoscibili: l’amico M. e il vecchio

incontrato sulle montagne lo stavano raggiungendo come se lo stessero aspettando.

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Un’altra figura si stagliò improvvisa sullo sfondo: la sagoma di una nave ferma a poche

centinaia di metri, dalla quale si stava muovendo una scialuppa.

M. e il vecchio sembravano non fare caso ai marinai che si avvicinavano a riva, e

giunsero a pochi passi da E, per niente sorpresi di vederlo.

“Noi siamo arrivati” disse il vecchio con voce serena e limpida.

“Io devo continuare” sussurrò E. con altrettanta pace negli occhi; e si diresse verso la

scialuppa che lo aspettava, girandosi a guardare i due, rimasti fermi ad osservarlo.

Fu l’ultima volta che si videro.

Paolo Raffellini

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