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libro
RICK RIORDAN
Autore per ragazzi e
adulti, è stato premiato
con i riconoscimenti
più importanti del
genere mystery.
Vive a Boston con la moglie e i
due figli. Le saghe “Percy
Jackson e gli dei dell’Olimpo”,
“Eroi dell’Olimpo”, “The Kane
Chronicles” e “Magnus Chase e
gli dei di Asgard” hanno venduto
un milione e mezzo di copie in
Italia e più di quaranta milioni nel
mondo.
Rick Riordan
LE SFIDE DI APOLLO
L’oracolo nascosto
Arriva LEI
Vergogna su vergogna
Stupide bucce!
È disastroso
Non son più numoloso
L’haiku non rima!
A casa Jackson
Non c’è nemmeno un trono d’oro
per gli ospiti
Roba da matti
Salsina super
Biscotti celestiali
Amo questa donna
Guida Aquaman
Peggio di così non si può
Anzi, sì
Acchiapparello!
Preso! Ora sei infetto
Divertiti, LOL
La pesca spacca
Basta, io mi ritiro
Zeus, ti prego!
Sento le voci
Vado fuori di testa
Mai più spaghetti
Tanto malvagia.
Non appena entrammo nella loro
ombra, fu come se gli alberi ci si
facessero intorno. I tronchi si
strinsero, bloccando i sentieri
tracciati e aprendone di nuovi. Le
radici si torsero sotto i nostri piedi,
creando un percorso a ostacoli fatto
di protuberanze, nodi e spirali. Era
come cercare di attraversare un
gigantesco piatto di spaghetti.
Il pensiero degli spaghetti mi fece
venire l’acquolina in bocca. Erano
passate solo poche ore dalla
supersalsa e dai sandwich di Sally
Jackson, ma il mio stomaco mortale
brontolava già dalla fame. Erano
rumori piuttosto seccanti, in quella
foresta buia e spaventosa. Perfino
Pesca cominciava ad avere un
profumino allettante, che mi
suscitava visioni di torte e gelati alla
frutta.
Come già detto, non sono un
grande fan dei boschi. Cercai di
convincermi che gli alberi non mi
stavano guardando malevoli,
scambiandosi commenti a bassa
voce. Erano solo alberi. Anche se
ospitavano delle driadi, quegli spiriti
non potevano ritenermi responsabile
per quanto era accaduto migliaia di
anni prima su un altro continente.
“Perché no?” mi chiesi. “Tu
stesso te ne ritieni responsabile.”
Mi dissi di cucirmi la bocca.
Scarpinammo per ore… molto
più a lungo di quanto avrebbe
dovuto essere necessario per arrivare
alla Casa Grande. Di norma, sarei
stato in grado di orientarmi con il
sole – dopo tutti i millenni trascorsi
a scarrozzarlo in cielo! – ma sotto la
fitta copertura degli alberi la luce era
soffusa e le ombre mi
confondevano.
Quando passammo per la terza
volta davanti allo stesso masso, mi
fermai e ammisi l’evidenza. «Non
ho idea di dove siamo.»
Meg si accasciò su un tronco
caduto. Nella luce verdognola
somigliava più che mai a una driade,
anche se gli spiriti degli alberi non
indossano spesso sneaker rosse e
giacconi di pile smessi.
«Non conosci nessuna tecnica di
sopravvivenza?» mi chiese. «Tipo,
non so… leggere il muschio sulla
corteccia degli alberi? Seguire le
tracce?»
«No. Quello è competenza di mia
sorella» risposi.
«Forse Pesca può aiutarci.» Meg
si voltò verso il karpos. «Ehi, puoi
trovare la strada per uscire dalla
foresta?»
Durante gli ultimi chilometri, il
karpos non aveva fatto altro che
borbottare innervosito, lanciando
occhiate di sghembo. Ora fiutava
l’aria, facendo vibrare le narici.
Inclinò la testa. Arrossì – o, meglio,
inverdì – poi emise un guaito
sofferto e si dissolse in un turbinio
di foglie.
Meg balzò in piedi. «Dov’è
andato?»
Scrutai la foresta intorno,
sospettando che Pesca avesse fatto la
cosa più intelligente: aveva
percepito l’arrivo di un pericolo e ci
aveva abbandonato. Non volevo
suggerirlo a Meg, però. Le piaceva
tanto quel karpos. (Ridicolo,
sviluppare attaccamento per una
creaturina pericolosa! Ma, del resto,
noi dei ci affezioniamo agli umani,
perciò chi ero io per criticarla?)
«Forse è andato in
perlustrazione» suggerii. «Forse
dovremmo…»
“APOLLO…”
La voce riecheggiò nella mia
testa, come se qualcuno mi avesse
installato degli amplificatori nelle
orecchie. Non era la voce della mia
coscienza. La mia coscienza non è
femmina, e non parla nemmeno così
forte. Eppure qualcosa in quel tono
femminile mi era familiare in modo
inquietante.
«Che succede?» chiese Meg.
L’aria divenne all’improvviso
dolciastra, quasi nauseabonda. Gli
alberi incombevano su di me come
gli aculei di una pianta carnivora.
Una goccia di sudore mi colò su un
lato del viso.
«Non possiamo stare qui» dissi.
«Scortami, mortale.»
«Come, scusa?» replicò Meg.
«Ehm… volevo dire, andiamo!»
Corremmo, inciampando sulle
radici, fuggendo alla cieca in un
labirinto di rami e massi.
Raggiungemmo un ruscello limpido
che scorreva in un letto di ghiaia.
Quasi non rallentai. Mi addentrai
nell’acqua gelida, affondando fino ai
polpacci.
La voce parlò di nuovo:
“TROVAMI!”.
Stavolta era così forte che mi
trapassò la fronte come un chiodo.
Inciampai e caddi in ginocchio.
«Ehi!» Meg mi prese per un
braccio. «Alzati!»
«Non hai sentito?»
«Sentito cosa?»
“LA CADUTA DEL SOLE”
tuonò la voce. “IL VERSO
FINALE.”
Crollai faccia avanti nel ruscello.
«Apollo!» Meg mi rigirò, la voce
tesa e allarmata. «Muoviti! Non
posso portarti io!» Ma ci provò lo
stesso. Cominciò a tirarmi,
sbraitando e imprecando, finché con
il suo aiuto non riuscii a strisciare
fino a riva.
Rimasi disteso sulla schiena, a
fissare con occhi stralunati la volta
della foresta. I vestiti zuppi erano
così gelidi che me li sentivo quasi
scottare addosso. Tremavo come la
corda del Mi di un basso elettrico.
Meg mi levò il giaccone. Il suo
era troppo piccolo per me, ma lo usò
lo stesso per avvolgermi le spalle
con qualcosa di asciutto.
«Ripigliati» ordinò. «Non mi
diventare matto, okay?»
Risposi con una risata tesa. «Ma
io… ho sentito…»
“I FUOCHI MI
CONSUMERANNO…
AFFRETTATI!”
La voce si frantumò in un coro di
sussurri arrabbiati. Le ombre si
allungarono, facendosi più scure.
Dai miei vestiti si levò un vapore
che aveva lo stesso odore delle
esalazioni vulcaniche di Delfi.
Una parte di me avrebbe voluto
raggomitolarsi e morire. Un’altra
invece avrebbe voluto alzarsi e
correre dietro quelle voci fino a
trovarne la fonte. Ma intuii che, se ci
avessi provato, avrei perso il senno
per sempre.
Meg stava dicendo qualcosa. Mi
scosse per le spalle e mi si piazzò
davanti alla faccia, a pochi
centimetri dal naso, tanto che vidi il
mio riflesso stravolto nelle lenti dei
suoi occhiali a punta. Poi mi mollò
uno schiaffo, forte, e finalmente
riuscii a decifrare quello che diceva:
«ALZATI!».
In qualche modo, ce la feci. Poi
mi piegai in due e vomitai.
Non mi succedeva da secoli.
Avevo dimenticato quanto fosse
sgradevole.
Un attimo dopo, avevamo ripreso
a camminare, con Meg che mi
trascinava quasi di peso. Le voci
bisbigliavano e litigavano,
strappando pezzetti della mia mente
e portandoseli via nella foresta. Ben
presto non mi sarebbe rimasto
granché.
Era inutile. Tanto valeva correre
nella boscaglia e impazzire una volta
per tutte. L’idea mi sembrò
divertente. Cominciai a ridacchiare.
Meg mi costrinse a non
fermarmi. Non riuscivo a capire le
sue parole, ma il tono era insistente
e caparbio, con quel tanto di rabbia
che bastava a farle passare la paura.
Nel mio stato confusionale,
pensai che gli alberi si facessero da
parte per lasciarci passare, aprendoci
controvoglia un sentiero per uscire
dalla foresta. Vidi un falò in
lontananza, e i prati aperti del
Campo Mezzosangue.
Mi saltò in mente che Meg stesse
parlando con gli alberi, che fosse lei
a ordinare loro di togliersi di mezzo.
Era un’idea ridicola, e sul momento
mi sembrò spassosa. A giudicare dal
vapore che mi saliva dai vestiti,
probabilmente avevo un febbrone da
cavallo.
Ridevo istericamente quando
sbucammo dalla foresta e ci
dirigemmo con passo incerto verso il
falò, dove una dozzina di ragazzi
stava arrostendo marshmallow sulle
fiamme. Quando ci videro, si
alzarono. Con i jeans, i giacconi
invernali e le armi assortite al
fianco, erano il gruppo di
campeggiatori più tetro che avessi
mai visto.
Sorrisi. «Ehi, ciao! Io sono
Apollo!» Poi rovesciai gli occhi e
svenni.
10
Un bus in fiamme
Will è più grande di me
Oh, Zeus! Ti prego!
Corsa mortale
Già, non è un bel verso
Oh, dei! No, Meg, no!
Migliorerai
Ah, ah, non credo proprio
Non sto piangendo!
Ci radunammo in un prato a un
centinaio di metri dalla Casa
Grande. Arrivare fin lì senza
rischiare la vita nemmeno una volta
fu un piccolo miracolo. Con la
gamba sinistra legata alla destra di
Meg, mi sentivo come quando ero
nel grembo di Leto, prima che io e
Artemide nascessimo. E sì, me lo
ricordo benissimo. Artemide mi
spingeva sempre, mi ficcava il
gomito nelle costole e in generale
faceva sempre i propri comodi.
Formulai una preghiera in
silenzio: se fossi uscito vivo da
quella corsa, avrei sacrificato un
toro a me stesso e forse mi sarei
perfino eretto un tempio. Vado
pazzo per i tori e i templi.
I satiri ci diedero indicazioni per
sparpagliarci nel prato.
«Dov’è la linea di partenza?»
domandò Holly Victor, spingendosi
con la spalla davanti alla sorella.
«Voglio essere la più vicina.»
«Io voglio essere la più vicina» la
corresse Laurel. «Tu puoi essere la
seconda.»
«Niente paura!» Il satiro
Woodrow però sembrava molto
impaurito. «Vi spiegheremo tutto fra
un momento. Non appena mi…
ehm… dicono cosa spiegare.»
Will Solace sospirò. Lui,
naturalmente, era legato a Nico.
Appoggiò il gomito sulla spalla di
Nico come se il figlio di Ade fosse
un comodo scaffale. «Mi manca
Grover. Organizzava così bene
questo genere di cose.»
«Io mi accontenterei del coach
Hedge.» Nico scansò il braccio di
Will. «E poi, non parlare di Grover
così ad alta voce. Laggiù c’è
Juniper.» Indicò una delle driadi,
una graziosa fanciulla vestita di
verde chiaro.
«La fidanzata di Grover» mi
spiegò Will. «Sente molto la sua
mancanza.»
«Va bene, gente!» gridò
Woodrow. «Sparpagliatevi ancora un
poco, per favore! Vogliamo che
abbiate molto spazio, così se…
ehm… se morirete, non vi porterete
dietro anche le altre squadre!»
Will sospirò. «Muoio di
entusiasmo.»
Lui e Nico saltellarono via. Julia
e Alice della casa di Ermes si
controllarono le scarpe ancora una
volta, e mi lanciarono
un’occhiataccia. Connor Stoll era
accoppiato con Paolo Montes, il
brasiliano figlio di Ebe, e nessuno
dei due sembrava molto contento
della scelta.
Forse Connor era così cupo
perché gli avevano spalmato tanta
pomata in testa che sembrava
appena stato risputato da un gatto. O
forse sentiva solo la mancanza del
fratello, Travis.
Appena nati, io e Artemide non
vedevamo l’ora di prendere le
distanze. Così ci eravamo
impadroniti dei rispettivi territori e
tanti saluti. Ma in quel momento
avrei dato qualsiasi cosa per vederla.
Ero certo che Zeus l’aveva
minacciata di severe punizioni se
avesse cercato di aiutarmi durante la
mia avventura mortale, ma almeno
avrebbe potuto mandarmi un pacco
dono dall’Olimpo: un chitone
decente, una pomata magica per
l’acne e magari una dozzina di
scones ai mirtilli e ambrosia del
Caffè Scilla. Facevano degli ottimi
scones.
Studiai le altre squadre: anche
Kayla e Austin formavano una
coppia, e sembravano due artisti di
strada dall’aria pericolosa, armati
com’erano di arco e sassofono.
Chiara, la bella figlia di Tyche, era
legata alla propria nemesi, Damien
White, figlio di… be’, di Nemesi.
Billie Ng della casa di Demetra era
insieme a Valentina Diaz, che si
stava controllando frettolosamente il
trucco sulla superficie del giaccone
argentato dell’amica. Non sembrò
accorgersi dei due bastoncini che le
spuntavano fra i capelli come
minuscole corna di cervo.
Decisi che la minaccia maggiore
era Malcolm Pace. Non si è mai
troppo prudenti con i figli di Atena.
La cosa sorprendente, però, era che
si era messo in coppia con Sherman
Yang. Non sembrava una scelta
molto ovvia, a meno che Malcolm
non avesse un piano. E i figli di
Atena hanno sempre un piano, che
raramente include l’ipotesi di lasciar
vincere me.
Gli unici semidei a non
partecipare erano Harley e Nyssa,
che avevano organizzato la corsa.
Dopo che i satiri ebbero stabilito
che ci eravamo sparpagliati a
sufficienza e che eravamo tutti legati
come si deve, Harley richiamò la
nostra attenzione battendo le mani.
«Okay!» Saltellava su e giù
eccitatissimo, come i bambini
romani che esultavano per le
esecuzioni al Colosseo. «Ecco la
posta in gioco. Ogni squadra deve
trovare tre pomi d’oro e tornare viva
qui, in questo prato.»
Un brontolio si diffuse fra i
semidei.
«Pomi d’oro» borbottai. «Odio i
pomi d’oro. Non portano altro che
guai.»
Meg fece spallucce. «A me
piacciono.»
Ripensai alla mela marcia che
aveva usato per rompere il naso a
Cade in quel vicolo. Mi chiesi se
potesse usare i pomi d’oro con la
stessa micidiale precisione. Forse,
dopotutto, avevamo qualche
possibilità di vittoria.
Laurel Victor alzò la mano.
«Vuol dire che la prima squadra che
torna ha vinto?»
«Tutte le squadre che tornano
vive hanno vinto!» dichiarò Harley.
«Ma è ridicolo!» protestò Holly.
«Può esserci solo un vincitore. La
prima squadra che torna vince!»
Harley alzò le spalle. «Come
volete. Le mie uniche regole sono
queste: restate vivi e non
ammazzatevi a vicenda.»
«O quê?» Paolo cominciò a
lamentarsi così forte in portoghese
che Connor dovette coprirsi
l’orecchio sinistro.
«Su, su!» esclamò Chirone. Le
borse che teneva sulla groppa
traboccavano di kit del pronto
soccorso e razzi d’emergenza. «Non
abbiamo bisogno di aiuto per
rendere pericolosa questa sfida.
Fatemi vedere una bella corsa
mortale a tre gambe, onesta e pulita.
E un’altra cosa, semidei, considerati
i problemi che il nostro gruppo di
collaudo ha avuto stamattina…
ripetete dopo di me: Non dobbiamo
finire in Perù.»
«Non dobbiamo finire in Perù»
dissero tutti in coro.
Sherman Yang fece scrocchiare le
dita. «Allora, dov’è la linea di
partenza?»
«Non c’è nessuna linea di
partenza» disse Harley, gongolando.
«Comincerete tutti dal punto in cui
siete.»
I ragazzi si guardarono intorno
confusi. All’improvviso il prato
tremò. Linee scure si impressero
nell’erba, formando una gigantesca
scacchiera verde.
«Divertitevi!» strillò Harley con
la sua vocina acuta.
La terra si aprì sotto i nostri
piedi, e cademmo nel Labirinto.
17
Bowling mortale
Rotolo dal nemico
Chi fa a cambio?
La Bestia chiama
Dite che non ci sono
Ci nascondiamo?
SQUISH!
Il Labirinto aveva decisamente il
senso dell’umorismo. Invece di farci
morire spiaccicati su un pavimento
di roccia, ci depositò su un cumulo
umidiccio di sacchi pieni di
spazzatura.
Se state tenendo il conto, sì, era
la seconda volta che mi schiantavo
tra i rifiuti da quando ero mortale, il
che ammontava a due volte di più di
quelle che un dio dovrebbe mai
sopportare.
Rotolammo giù dal mucchio in
un turbinio di braccia e gambe
intrecciate. Atterrammo in fondo,
sommersi da schifezze, ma
miracolosamente ancora vivi.
Meg drizzò la schiena e si mise a
sedere, ricoperta di fondi di caffè.
Io mi sfilai una buccia di banana
dalla testa e la gettai via. «C’è
qualche motivo per cui continui a
farci atterrare sui mucchi di
spazzatura?»
«Io? Sei stato tu a perdere
l’equilibrio!» Meg cercò di pulirsi la
faccia con una mano, con scarsi
risultati. Nell’altra mano stringeva il
pomo d’oro, con le dita tremanti.
«Stai bene?» chiesi.
«Benissimo.»
Era chiaramente una menzogna.
Sembrava che avesse appena fatto
un giro nella casa infestata di Ade
(vi do una dritta: NON FATELO).
Era pallida. Si era morsa il labbro
così forte che aveva i denti sporchi
di sangue. Percepivo anche un
debole odore di urina, segno che uno
di noi si era spaventato così tanto da
perdere il controllo della vescica, ed
ero sicuro al settantacinque per
cento di non essere io.
«Quell’uomo al piano di
sopra…» dissi. «Hai riconosciuto la
sua voce?»
«Zitto! È un ordine!»
Cercai di rispondere ma, con
sgomento, scoprii che non ci
riuscivo. La mia voce aveva
eseguito l’ordine di Meg di sua
iniziativa, il che non prometteva
affatto bene. Decisi di archiviare le
domande sulla Bestia per un
momento migliore.
Scrutai intorno. Scivoli per i
rifiuti tappezzavano le quattro pareti
del lugubre e piccolo seminterrato in
cui eravamo finiti. In quello stesso
istante, un altro sacco comparve
lungo uno scivolo sulla destra e si
aggiunse al mucchio. Il tanfo era
così forte che avrebbe potuto
scorticare la vernice dalle pareti, se i
blocchi di calcestruzzo grigi fossero
stati dipinti. Eppure, era sempre un
odore migliore delle esalazioni di
Pitone. L’unica uscita visibile era
una porta di metallo con un segnale
di rischio biologico.
«Dove siamo?» chiese Meg.
La folgorai con lo sguardo, in
attesa.
«Ora puoi parlare» aggiunse.
«La cosa ti scioccherà, ma a
quanto pare siamo in un deposito dei
rifiuti.»
«Sì, ma dove?»
«Potrebbe essere ovunque. Il
Labirinto si interseca con i
sotterranei di tutto il mondo.»
«Delfi incluso.» Meg mi guardò
torva, come se la nostra piccola
escursione in Grecia fosse stata
colpa mia e non… be’, solo
indirettamente colpa mia.
«Quello non me lo aspettavo»
ammisi. «Dobbiamo parlare con
Chirone.»
«Cos’è Dodona?»
«Io… te lo spiegherò più tardi.»
Non volevo che Meg mi chiudesse
di nuovo la bocca. E non volevo
nemmeno parlare di Dodona mentre
eravamo intrappolati nel Labirinto.
Mi si accapponò la pelle, e dubitavo
che fosse soltanto perché ero coperto
di un liquido appiccicoso,
probabilmente residuo di chissà
quale bibita gassata. «Prima
dobbiamo uscire di qui.»
Meg lanciò un’occhiata alle mie
spalle. «Be’, non è stata una totale
perdita di tempo.» Ficcò una mano
in mezzo ai rifiuti e tirò fuori un
secondo frutto luccicante. «Ci
manca solo un pomo.»
«Perfetto!» Finire l’assurda corsa
di Harley era l’ultimo dei miei
pensieri, ma almeno avrebbe
convinto Meg a darsi una mossa.
«Perché non vediamo quali
meravigliosi rischi biologici ci
attendono dietro quella porta?»
19
Sono spariti?
No, no, no, no, no, no, no
No, eccetera
Non cancellarmi
Se ridipingi casa…
Mi sembra ovvio!
Armato bene
Ukulele da guerra
Sciarpa magica
Quanti punti dà
alla sua brutta morte?
Okay, grazie!
Voti spezzati
E fiaschi assoluti
È colpa del pop!
Gl’imperatori?!
Non si rilassano mai?
Voglio morire
Chiedo perdono
Per quasi tutto quanto
Non sono bravo?
Ossa e pali
Un uomo in porpora
E non è tutto…
Io glielo spiego
È pazzo da legare
Meg non ci sente!
La disco-music
Ti salva il cervello
Y.M.C.A. Yeah!
Triste è l’addio
Non c’è niente da fare
Non infierite
Le campane a vento si
fermarono. Il bosco si quietò, come
se fosse soddisfatto della sentenza di
morte che mi aveva dato.
Si va a piedi? No
Chiamiamo un taxi? No!
Ci porta Mamma
La statua è nuda
Nuda come un verme
E le mutande?
Amo la peste
Quando è su una freccia
Ta-dah! Sei morto?
Guarda! È Percy!
Se non ci aiuta lui…
Mi deve tutto!
Il malanno dilagò.
Fu quello il prezzo della vittoria:
una gigantesca epidemia di febbre
da fieno. Prima del crepuscolo, quasi
tutti i ragazzi del campo erano
storditi, barcollanti e congestionati.
Fui contento però che nessuno si
fosse staccato la testa con uno
starnuto, perché eravamo a corto di
bende e nastro adesivo.
Io e Will Solace trascorremmo la
serata a occuparci dei feriti. Will
prese il comando, e io non ebbi
niente da ridire: ero sfinito. Per lo
più ingessai braccia, distribuii
fazzoletti di carta e farmaci per il
raffreddore e tentai di impedire a
Harley di rubare l’intera scorta di
smile adesivi dell’infermeria per
tappezzarci il lanciafiamme. Fui
grato della distrazione, così evitai di
pensare troppo ai dolorosi eventi
della giornata.
Sherman Yang accettò
garbatamente di non uccidere Nico
per averlo gettato fuori dal carro e
me per averglielo danneggiato,
anche se avevo la sensazione che il
figlio di Ares si riservasse quelle
opzioni per un altro momento.
Chirone fornì impiastri speciali
per i casi più gravi di febbre da
fieno, incluso quello di Chiara
Benvenuti, la cui fortuna, una volta
tanto, l’aveva abbandonata.
Stranamente, Damien White si sentì
male subito dopo aver saputo del
malore di Chiara. I due occupavano
due brande vicine in infermeria,
cosa che trovai un tantino sospetta,
anche se i ragazzi continuavano a
punzecchiarsi tutte le volte che si
accorgevano di essere osservati.
Percy Jackson trascorse diverse
ore a reclutare balene e ippocampi
per trascinare via il Colosso. Decise
che sarebbe stato più semplice
trainarlo sott’acqua nel palazzo di
Poseidone, dove poteva essere
riconvertito in statua da giardino.
Non sapevo cosa pensare.
Immaginai che Poseidone avrebbe
sostituito lo splendido viso della
statua con il suo volto barbuto e
indurito dalle intemperie. Eppure
volevo che il Colosso sparisse, e
dubitavo che sarebbe entrato nei
bidoni per il riciclaggio.
Grazie alle cure di Will e a una
cena calda, i semidei che avevo
liberato nella foresta recuperarono le
forze in breve tempo. (Paolo
sosteneva che fosse merito della
bandana brasiliana che aveva
sventolato sopra di loro, e io non
avevo nessuna intenzione di
obiettare.)
Quanto al campo, i danni
avrebbero potuto essere ben più
gravi. Il molo delle canoe poteva
essere ricostruito. I crateri lasciati
dalle orme del Colosso potevano
essere opportunamente riconvertiti
in tane per le volpi o in piccoli
stagni.
Il padiglione della mensa era un
disastro totale, ma Nyssa e Harley
erano certi che Annabeth Chase
sarebbe stata in grado di
riprogettarlo non appena fosse
tornata al campo. Con un po’ di
fortuna, sarebbe stato ricostruito in
tempo per l’estate.
Gli unici altri danni gravi erano
quelli della casa di Demetra. Non
me n’ero accorto durante la
battaglia, ma il Colosso era riuscito
a schiacciarla prima di dirigersi
verso la spiaggia.
A posteriori, il percorso di
distruzione del Colosso sembrava
quasi studiato, come se l’automa
fosse approdato a riva, avesse
calpestato la casa Quattro e si fosse
diretto di nuovo verso il mare di
proposito.
Visto quanto era accaduto con
Meg McCaffrey, non potei fare a
meno di leggerlo come un brutto
segno. A Miranda Gardiner e Billie
Ng furono assegnate brande
provvisorie nella casa di Ermes, ma
le ragazze trascorsero gran parte
della serata sedute imbambolate tra
le macerie, mentre intorno a loro,
dalla fredda terra invernale,
spuntavano margherite.
Nonostante lo sfinimento, dormii
a singhiozzo. Non mi disturbavano i
continui starnuti di Kayla e Austin,
né il delicato russare di Will. Non mi
disturbavano neppure i giacinti
sbocciati sul davanzale della finestra
che riempivano la stanza del loro
profumo malinconico. Ma non
riuscivo a smettere di pensare alle
driadi che sollevavano le braccia
davanti alle fiamme nella foresta, né
a Nerone o a Meg. La Freccia di
Dodona era muta, appesa nella mia
faretra alla parete, ma sospettavo
che presto mi avrebbe elargito altri
scoccianti consigli shakespeariani.
Non mi piaceva cos’avrebbe potuto
annunciarmi sul mio futuro.
All’alba, mi alzai senza fare
rumore, presi l’arco, la faretra e
l’ukulele da guerra e salii sulla
sommità della Collina
Mezzosangue. Il drago guardiano,
Peleo, non mi riconobbe. Quando mi
avvicinai al Vello d’Oro, Peleo
sibilò, per cui dovetti sedermi a una
certa distanza ai piedi dell’Athena
Parthenos.
Non mi dispiacque non essere
riconosciuto. In quel momento, non
volevo essere Apollo. Tutta la
devastazione che vedevo sotto di
me… era colpa mia. Ero stato cieco
e compiacente. Avevo permesso agli
imperatori di Roma, incluso uno dei
miei discendenti, di salire al potere
nell’ombra. Avevo consentito che la
mia rete di Oracoli, quella rete un
tempo così straordinaria, crollasse,
perdendo perfino Delfi. Avevo quasi
provocato la fine del Campo
Mezzosangue.
E Meg McCaffrey… Oh, Meg,
dov’eri finita?
Ripensai alle sue parole: “Fai
quello che devi fare. È il mio ultimo
ordine”.
Era un ordine abbastanza vago da
permettermi di andare a cercarla.
Dopotutto, ormai eravamo legati.
Quello che dovevo fare era trovarla.
Mi domandai se Meg avesse
formulato il suo ordine in quel modo
di proposito, o se ero soltanto io a
volerlo interpretare così.
Fissai il serafico volto di
alabastro dell’Athena Parthenos.
Nella vita vera, Athena non era così
pallida e distaccata… be’, non la
maggior parte delle volte, in ogni
caso. Pensai al motivo per cui lo
scultore, Fidia, avesse scelto di farla
sembrare così inavvicinabile, e se
Atena fosse d’accordo. Noi dei
discutevamo spesso di quanto gli
umani potessero cambiare la nostra
natura semplicemente
rappresentandoci o immaginandoci
in un certo modo. Nel Settecento,
per esempio, non riuscii a evitare le
parrucche incipriate di bianco,
nonostante tutti i miei sforzi. Tra gli
immortali, la nostra dipendenza
dagli esseri umani era un argomento
scomodo.
Probabilmente mi meritavo la
mia forma attuale. Data la mia
sventatezza e balordaggine, forse
l’umanità doveva vedermi solo come
Lester Papadopoulos.
Trassi un sospiro. «Atena, cosa
faresti al posto mio? Una cosa
saggia e concreta, immagino.»
Atena non rispose. Fissava con
calma l’orizzonte, lungimirante
come sempre.
Non avevo bisogno che la dea
della saggezza mi dicesse cosa fare.
Dovevo lasciare subito il Campo
Mezzosangue, prima che i ragazzi si
svegliassero. Mi avevano accolto per
proteggermi, e io per poco non li
facevo uccidere tutti. Non
sopportavo l’idea di metterli ancora
in pericolo.
Ma, oh, quanto desideravo stare
con Will, Kayla e Austin, i miei figli
mortali. Volevo aiutare Harley a
mettere gli smile sul lanciafiamme.
Volevo flirtare con Chiara e portarla
via a Damien… o forse portare via
Damien a Chiara, non l’avevo
ancora capito. Volevo migliorare le
mie doti di musicista e arciere
attraverso quella strana attività nota
come “esercizio”. Volevo avere una
casa.
“Vattene” mi dissi. “Sbrigati.”
Visto che ero un codardo, aspettai
troppo. Sotto di me, le luci delle
capanne si accesero tremolando. I
ragazzi e le ragazze del campo
uscirono all’aperto. Sherman Yang
si mise a fare stretching. Harley
corse intorno al prato, stringendo il
radiofaro di Leo Valdez nella
speranza che avrebbe finalmente
funzionato.
Alla fine, un paio di figure
familiari mi notarono. Si
avvicinarono da direzioni diverse –
la Casa Grande e la casa Tre – e
risalirono la collina per vedermi:
Rachel Dare e Percy Jackson.
Picchiare Leo?
Scelta comprensibile
Se lo merita
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