Privacy e blockchain sono due argomenti che negli ultimi anni hanno ottenuto un forte eco
mediatico, da un lato, per via del rialzo delle quotazioni del bitcoin e, dall’altro, per via dell’entrata
in vigore del GDPR (il Regolamento (UE) 2016/679 sul trattamento dei dati personali) che ha
rivitalizzato l’attenzione del pubblico sul tema del trattamento dei dati personali. Il problema che è
sorto nella trattazione di questi due argomenti riguarda il possibile legame tra la legge e la
prima ostacolasse lo sviluppo della seconda. La tecnologia infatti non è mai neutrale: il suo sviluppo
deve essere controllato altrimenti rischia di incidere in maniera negativa nell’esercizio di alcuni
diritti.
Per affrontare la questione appena esposta, bisogna prima di tutto chiarire il significato di dato
qualificate come tali e debbano, pertanto, essere soggette ad un’apposita disciplina di privacy. La
definizione di dato personale fornita dall’art. 4 del GDPR, non dissimile da quella dell’art. 2 della
direttiva 95/46/CE, recita: “il dato personale è qualsiasi informazione riguardante una persona
identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica,
genetica, psichica, economica, culturale o sociale”. A leggere questa definizione, verrebbe da dire
che tutto è un dato personale. E in effetti c’è chi ha sottolineato la possibilità di leggere la
definizione in termini così ampi e ha qualificato la legge europea sulla privacy come la legge del
tutto. Se infatti il dato personale è una qualsiasi informazione che può in qualche modo, attuale o
potenziale, condurre all’identificazione di una persona fisica, non si riesce a fissare un confine. Per
circoscrivere la nozione di dato personale, viene in aiuto il Gruppo di Lavoro ex art. 29, oggi
Comitato europeo per la protezione dei dati, che con il parere WP136 del 2007 ha fornito utili
elementi per l’interprete volti a scongiurare, o quantomeno limitare, il rischio di una definizione di
personale fornita dalla legge, il Gruppo ha individuato le tre parole che forniscono la sua chiave di
è di poco aiuto per circoscrivere la portata della definizione perché, come visto sopra, tutto è
tutto che nella versione in inglese è scritto «related to» che non è proprio «riguardante», ma un
concetto più ampio: vuol dire che l’informazione è connessa in qualche modo ad una persona fisica.
Concetto quindi molto ampio che potrebbe essere appunto tradotto con “connessa a”, sicché il
Gruppo ha fornito un test di verifica del nesso tra informazione e persona fisica basato su una
triplice analisi: un dato è “personale” se, oltre agli altri elementi che pure devono ricorrere, è per
contenuto o per scopo o per risultato riconducibile all’identificazione attuale o potenziale di una
persona fisica. Per il contenuto, vale l’esempio di una cartella clinica il cui contenuto è chiaramente
riferibile ad una persona fisica. Per lo scopo vale l’esempio dell’indirizzo IP di un PC: esso non è
immediatamente percepibile come dato personale, come accade per il contenuto di una cartella
clinica, ma se è utilizzato per rintracciare una persona fisica (per esempio chi commette un illecito
penale o civile mettendo in rete o fruendo abusivamente di materiale coperto da copyright, per cui
dall’IP, incrociando i dati con l’ISP, si risale al titolare del contratto e per presunzione all’identità
del colpevole) allora è anch’esso considerato dato personale, ancorché identifichi direttamente solo
una macchina. Per il risultato, vale l’esempio dei dati di navigazione dei taxi utilizzati solo per
percorsi dei tassisti, loro abitudini e performance. Questa specificazione del concetto di dato
personale fornita dal Comitato europeo per la protezione dei dati è utile per comprendere quali
informazioni contenute nelle blockchain sono funzionali all’identificazione di una persona fisica e
devono, pertanto, essere protette con un’apposita disciplina che si adegui allo sviluppo della
tecnologia. La blockchain, che letteralmente significa catena di blocchi, è infatti frutto di
un’evoluzione tecnologica che ha portato alla creazione di un enorme sistema decentralizzato atto a
verificare tutte le transazioni tra gli utenti ed evitare le frodi. Essa è un grande registro digitale
all’interno del quale le operazioni registrate e gestite – che possono andare dal trasferimento di una
specifico, i blocchi possono essere considerati informazione in versione digitale: ciascun blocco
contiene infatti sia una serie di informazioni relative alla transazione che si registra e alle parti
coinvolte, sia una serie di elementi, denominati “hash” and “timestamp”, che rendono il blocco
unico. I diversi blocchi della catena (da qui il ricorso ai termini “block” and “chain”) sono collegati
tra loro nell’ordine in cui sono stati creati e sono immodificabili poiché l’annessione di ogni blocco
deve essere approvata da tutti i nodi alla rete tramite un predeterminato meccanismo di validazione,
anche detto “consenso”. Una copia esatta di tutti i blocchi è infatti sempre sincronizzata e
conservata da ciascun nodo del sistema, il quale può procedere ad un aggiornamento del medesimo
soltanto nel rispetto del meccanismo di consenso prescelto. La tecnologia blockchain ricorre anche
alla crittografia per impedire che soggetti diversi dalle parti di una transazione abbiano accesso alla
medesima: essa utilizza una crittografia asimmetrica che si basa sull'utilizzo di una coppia di chiavi,
questa assicura che un messaggio criptato con una delle due chiavi possa essere decifrato solo
privata viene usata da un ricevente per decifrarle. Dato che le due chiavi sono diverse l’una
dall’altra, la chiave pubblica può essere condivisa senza compromettere la sicurezza di quella
privata. Ciascuna coppia di chiavi asimmetriche è unica, garantendo che un messaggio criptato
usando una chiave pubblica può essere letto soltanto dalla persona che possiede la corrispondente
chiave privata. Questo tipo di crittografia dipende quindi fortemente dal presupposto che la chiave
privata rimanga segreta. Se una chiave privata viene condivisa o esposta accidentalmente, la
sicurezza di tutti i messaggi che sono stati cifrati con la sua chiave pubblica corrispondente sarà
compromessa. Ebbene, in un sistema configurato in questo modo la fiducia nella veridicità di
quanto registrato è riposta non più nell’autorità centrale che ne supervisiona il corretto andamento,
ma nella tecnologia stessa e nei suoi meccanismi di funzionamento interno. Ma se diventa superfluo
il ruolo di una terza parte imparziale che supervisioni, registri e convalidi le transazioni e, più in
generale, garantisca il regolare funzionamento del sistema, allora anche il ruolo delle autorità
centrali (come banche, autorità fiscali, notai, e così via), finora centrale nell’ambito di ogni società,
rischia di entrare in crisi. Si ritiene a questo punto che sia il meccanismo del consenso ad eliminare
il bisogno di una terza parte fidata, rendendo la blockchain una “macchina del tempo”, che crea
fiducia pur in assenza di fiducia, poiché il codice stesso è fiducia. Ma se il codice è fiducia, il codice
è anche legge. In effetti il meccanismo del consenso è tale da richiedere che ogni transazione sia
conforme alla legge sin da principio, ovvero in sede di convalida di ciascuna transazione. Ogni non
conformità è infatti esclusa ex ante. È così che con la tecnologia blockchain si ripropone l’assunto
in base al quale in ambiente digitale è il codice a diventare legge. Peraltro, si deve ricordare che gli
usi della blockchain non si limitano al solo ambito finanziario, ma la tecnologia è già ora impiegata
in numerosi settori. Si rivela infatti particolarmente utile per la registrazione di beni, anche
materiali, per certificare la provenienza di prodotti e, infine, per gestire i diritti di proprietà
registrato fanno sì che la blockchain sia esente da errori, sia immune da manipolazioni, aumentando
quindi non solo la sicurezza della rete ma anche l’affidabilità delle informazioni registrate. Inoltre,
in base al meccanismo di consenso decentrato che viene applicato alla blockchain, è possibile la
alcuna autorizzazione per poter accedere alla rete, eseguire delle transazioni o partecipare alla
struttura completamente decentralizza, in quanto non esiste un ente centrale che gestisce le
autorizzazioni di accesso. Queste sono condivise tra tutti i nodi allo stesso modo. Nessun utente
della rete ha privilegi sugli altri, nessuno può controllare le informazioni che vengono memorizzate
un’autorità centrale che determina chi possa accedervi. Oltre a definire chi è autorizzato a far parte
della rete, tale autorità definisce quali sono i ruoli che un utente può ricoprire all’interno della
connessione Internet di partecipare alla verifica del processo di transazione, affida il compito ad
alcuni nodi selezionati ritenuti degni di fiducia. Oltre a queste due tipologie di blockchain, ne esiste
una terza la quale presenta moltissime caratteristiche in comune con la blockchain permissioned ed
è la blockchain privata. Si tratta di reti private e non visibili, che sacrificano decentralizzazione,
attendibile dagli utenti, che determina chi possa accedere o meno alla rete e alla lettura dei dati in
essa registrati. L’organizzazione proprietaria della rete inoltre, ha il potere di modificare le regole di
normative stabilite. Il fatto che sia necessario essere invitati ed autorizzati per poter accedervi
garantisce un maggior livello di privacy agli utenti e determina la segretezza delle informazioni
quanto le transazioni sono verificate da un numero limitato di nodi riducendo così le tempistiche;
riscuotendo maggior successo di quelle pubbliche tra le società private e le istituzioni finanziare.
L’elencazione appena esposta non è sicuramente esaustiva, ma serve per mettere in evidenza come
nel mercato esistano vari modelli di blockchain atti a garantire che tutte le transazioni siano
trasparenti e che sia certo il momento in cui sono state effettuate. L’esistenza di questa diversità di
blockchain impedisce di introdurre una disciplina generale atta a regolare il trattamento dei dati
personali in esse contenuti in quanto ogni modello si basa su una struttura interna ed una tecnica del
controllo. Nelle blockchain pubbliche, per esempio, non si richiede agli utenti di registrarsi e non si
prevede un controllo ex-ante dei medesimi, offrendo quindi un alto livello di anonimato, anche se
non è proprio utilizzare questo termine. Vale la pena ricordare come la natura della blockchain
pubblica implichi che ogni transazione sia pubblicata e collegata a una chiave pubblica, che
modo che nessuno sia in grado di identificare direttamente l’individuo o l’azienda sottostante
all’utente. Tuttavia, il riutilizzo della chiave pubblica consente ai singoli di essere individuati con
riferimento alla loro chiave pubblica, anche senza poter essere direttamente identificati; questo
poiché lo scopo stesso della chiave pubblica è quello di individuare gli autori di una determinata
transazione, per garantire che le transazioni siano attribuite alle persone (entità) corrette. Attraverso
questo meccanismo si concede alle parti registrate delle operazioni di operare sotto “pseudonimo”.
Già nel 2014, nell’Opinion 05/2014 (WP 216), il Gruppo di lavoro comune delle Autorità garanti
degli Stati membri, abbreviato in Gruppo articolo 29 (WP29), aveva fornito indicazioni sulla
differenza tra dati anonimi e dati pseudonimi (la “pseudonimizzazione” consiste nel “trattamento
dei dati personali in modo tale che i dati personali non possano più essere attribuiti a un interessato
specifico senza l’utilizzo di informazioni aggiuntive, a condizione che tali informazioni aggiuntive
siano conservate separatamente e soggette a misure tecniche e organizzative intese a garantire che
tali dati personali non siano attribuiti a una persona fisica identificata o identificabile” – art. 4 n. 5).
Questa distinzione è particolarmente importante in relazione alla blockchain, in quanto la
regolamentazione contenuta nel GDPR non si applica ai dati anonimi, poiché questi non possono
essere ricondotti ad alcun soggetto. A tale stregua, occorre considerare che la soglia per qualificare
un dato come anonimo è molto alta. In effetti, già nella vigenza della Direttiva 95/46/CE si è
affermato che l’anonimizzazione è ciò che risulta dall’elaborazione dei dati personali al fine di
impedire in modo irreversibile l’identificazione; nel fare ciò, i responsabili del trattamento dei dati
devono tenere in considerazione tutti i mezzi che possano ragionevolmente essere usati per
irreversibile, ma non irripetibile - consente di collegare informazioni tra loro, dando luogo ad
attività che potranno essere generalmente considerate alla stregua di una tecnica di
pseudonimizzazione, ma non di anonimizzazione, tanto più ove si consideri che i dati personali
crittografati, spesso, possono ancora essere riferiti ad una persona, qualora il corrispondente
algoritmo sia violato ovvero sia impiegata, legittimamente, la relativa chiave di decifrazione.
Pertanto, i dati crittografati saranno spesso qualificati come dati personali e non come
anonimi. Ciò significa, ancora, che nella maggior parte dei casi il GDPR sarà applicabile ad almeno
Da quanto esposto, sono tre, a livello macro, i punti dove il rapporto tra blockchain e GDPR sembra
incrinarsi:
Dati immodificabili. I dati personali presenti in una blockchain non sono modificabili se
non coinvolgendo tutti i blocchi gerarchicamente adeguati. Ma il GDPR prevede che un utente
possa richiedere la modifica di tali dati.
Dati pubblici e consultabili. I dati personali inseriti in una blockchain sono pubblici e
consultabili da tutti i partecipanti. Ma non è detto che un utente abbia indicato che tali dati
possano essere accessibili.
Dati conservabili per sempre. I dati personali in una blockchain possono essere conservati
illimitatamente. Invece, il GDPR prevede quello che è stato ribattezzato diritto all’oblio.
Probabilmente, il nodo gordiano della cosa sta proprio qui. E, altrettanto probabilmente, riuscire
a dirimerlo permetterebbe, a cascata, di risolvere molte delle questioni aperte tra l’introduzione
di un sistema basato sulla blockchain e la corretta (quanto obbligatoria) applicazione delle norme
presenti nel General data protection regulation.
Come sancisce l’articolo 17 del GDPR: “L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del
trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il
titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali”.
Però l’immodificabilità dei dati è proprio uno degli elementi distintivi della blockchain. Come
coniugare le due cose? In particolare, qui si vuole porre l’attenzione sulla difficoltà di cancellare
dati personali inseriti in una blockchain, alla luce del diritto all’oblio previsto dall’art. 17 del
Regolamento menzionato. Appare opportuno precisare, tuttavia, che, sebbene il
termine blockchain venga declinato sempre al singolare, in realtà, ne esistono vari modelli. Ciò
implica che la conformità dei vari tipi di registri distribuiti al GDPR può essere valutata solo sulla
base di un’analisi caso per caso, che tenga conto della specifica progettazione tecnica e dei modelli
di governance adottati da ciascuno. L’art. 17 del GDPR, intitolato «Diritto alla cancellazione»,
prevede due diritti specifici, che l’interessato può esercitare in presenza di determinate condizioni.
Questi diritto sono il diritto alla cancellazione dei dati da parte del titolare del trattamento e il
«diritto all’oblio» propriamente detto. Quest’ultimo è più ampio del primo, perché prevede
l’obbligo per il titolare che abbia comunicato i dati in oggetto a soggetti terzi non solo di cancellare
questi dati, ma anche di informare gli altri titolari della richiesta dell’interessato, in modo che
anch’essi cancellino qualsiasi link, copia o riproduzione dei suoi dati personali. Il diritto alla
cancellazione viene spesso definito, in maniera sintetica e non del tutto esaustiva, come il diritto
dell’interessato a non vedere più riprodotte nella rete informazioni riguardanti sue vicende
personali, che, decorso un certo periodo di tempo, potrebbero anche non essere più rappresentative
della sua identità personale. Tuttavia, è importante tenere presente che lo scopo dello strumento
predisposto dall’art. 17 del GDPR è più generale e vuole permette all’interessato una maggiore
autodeterminazione nella gestione dei propri dati e, quindi, un maggiore controllo sulle
informazioni che lo riguardano. Tuttavia, come già accennato, i dati inseriti all’interno di
una blockchain costituiscono parte integrante del registro logico e non possono essere modificati.
Perché l’utilizzo di una blockchain possa risultare conforme a quanto previsto dal Regolamento,
quindi, devono essere individuate delle soluzioni che permettano l’intervento sui dati nel caso in cui
ciò risulti necessario. Per chiarezza, possiamo distinguere i dati presenti nelle blockchain in due
grandi famiglie: i dati relativi alle singole transazioni e le chiavi pubbliche degli utenti. Ebbene, per
i primi è possibile trovare delle soluzioni che risultino in linea con quanto previsto dall’art. 17, per i
secondi, la questione risulta più complicata in quanto essi sono indispensabili per il funzionamento
del registro. Per ovviare al problema dell’immodificabilità del registro logico, si possono archiviare
i dati relativi alle transazioni in un database modificabile, inserendo solo un loro riferimento
in blockchain. Alcune società stanno collaborando per lo sviluppo di soluzioni blockchain per
aziende e governi che possano essere conformi al GDPR. Più precisamente, finora è stato
realizzato un servizio per la gestione dei processi aziendali, basato su blockchain, che si sviluppa su
due livelli. Un primo livello è costituito da una blockchain pubblica e un secondo livello è costituito
da una serie di database privati. Infine, si noti come il termine «cancellazione», utilizzato dall’art.
17 del GDPR, non è definito in maniera puntuale all’interno del Regolamento, mancando una
spiegazione tecnica che descriva in cosa debba concretamente consistere tale cancellazione.
Nell’incertezza del significato, alcune Autorità nazionali e sovranazionali hanno fatto notare che
sono possibili delle alternative alla totale distruzione dei dati, che risultano comunque conformi al
disposto dell’art. 17. Ad esempio, l’Autorità austriaca per la protezione dei dati personali ha
riconosciuto una certa flessibilità riguardo all’utilizzo dei mezzi tecnici necessari alla cancellazione,
ritenendo che anche l’anonimizzazione dei dati possa rappresentare un mezzo adatto a realizzare la
cancellazione dei dati. L’Autorità inglese, poi, ha affermato che anche “mettere fuori uso i dati”
può risultare soddisfacente ai fini dell’applicazione dell’art. 17 del GDPR. Allora, i dati personali
sono da considerarsi fuori uso, seppur non effettivamente cancellati, se il titolare del trattamento: (a)
non è in grado di usare tali dati per decisioni che riguardino un certo individuo; (b) non dà a
nessun’altra organizzazione l’accesso a tali dati; (c) prevede delle soluzioni tecniche ed
organizzative per mettere in sicurezza i dati; (d) si impegna a garantire la cancellazione permanente
delle informazioni se e quando ciò diventerà possibile. Ciò detto, sembra che il «diritto all’oblio»
possa considerarsi in parte ridimensionato dallo stesso Legislatore europeo: si noti, infatti, che, nel
secondo comma dell’art. 17 del GDPR, dove si prevede che il titolare è tenuto a informare tutti gli
altri eventuali titolari della richiesta dell’interessato di cancellare ogni dato che lo riguarda,
inserisce l’inciso «tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione». A
conclusione di questa breve analisi, si può ritenere che l’applicazione del diritto all’oblio previsto
dal GDPR non debba scoraggiare l’adozione di una soluzione innovativa come la blockchain.
Ciò con la precisazione che, chiunque scelga di adottare tale strumento, deve comunque fare il
possibile, in fase di sviluppo e progettazione, per prevedere delle soluzioni che permettano di
modificare i dati in un momento successivo, come nel caso della citata archiviazione dei dati off-
chain.
Dalla tale trattazione di alcuni aspetti critici della nuova tecnologia blockchain, si può comprendere
che il GDPR ci pone di fronte a dinamiche molto differenti: esso prevede che si guardi al dato con
la dovuta attenzione e considerazione; richiede che si arrivi alla consapevolezza del valore del dato,
non solo per l’azienda che lo registra, gestisce, manipola e trasforma ma soprattutto per chi possiede
il dato e per le persone a cui i dati si riferiscono. Questo è il vero obiettivo della normativa, che non
significa semplicemente adeguare il firewall o l’antivirus per non incorrere nelle sanzioni ma
nemmeno, all’estremo opposto, arrivare a tracciare ogni singolo bit a cui l’utente può accedere.
L’approccio al GDPR, per essere corretto, deve iniziare con il prendere consapevolezza di
come il dato viene gestito in azienda, dall’acquisizione fino alla sua cancellazione.
Purtroppo molte volte si tende a sottovalutare l’importanza dei dati, dando per scontato la loro
disponibilità e correttezza, non governando adeguatamente la loro sicurezza nel senso più ampio del
termine. Ci si riferisce all’importanza dei dati come materia prima da cui estrarre conoscenze e
informazioni per il miglioramento del business; all’importanza e al valore dei dati per l’azienda,
agli impatti economici legati alla perdita di informazioni o alla perdita di valore delle informazioni
in essi contenuto; ai CryptoLocker che hanno fermato aziende per intere settimane – se non per
sempre -, alla corruzione dei dati dovuti a problemi hardware che rendono gli stessi non più
attendibili o incompleti, per arrivare alla fuga dei dati nel senso della copia non autorizzata – casi
come Yahoo, ad esempio - . Il valore dei dati in termini di informazione corretta e sicura che
rappresenta un vantaggio competitivo per l’azienda, è solo una faccia della medaglia. L’altra è
quella dei dati personali e dei dati sensibili riferiti a persone. Ma per chi hanno valore queste
informazioni? Per le persone che affidano alle nostre aziende i propri dati personali e sensibili
fiduciosi che verranno custoditi ed utilizzati per gli scopi concordati, vedi i contratti di lavoro, i dati
dei CRM per la profilazione dei clienti, i dati di vendita, i dati legati alle carte fedeltà, i cookies del
browser etc.
Questa nuova consapevolezza richiede alla funzione IT di estendere le proprie competenze e di
spingersi oltre i limiti incontrati fino ad oggi. E’ necessario quindi addentrarsi nei processi
aziendali, capirli, disegnarli ma soprattutto supportare l’implementazione dei nuovi processi per la
sicurezza dei dati. La funzione IT deve diventare “consulente del dato” per l’azienda, proprio in
virtù della sua posizione privilegiata di gestore dei dati. Questa è la sfida che il GDPR sta
lanciando alle nostre aziende: capire l’importanza del dato e della sua integrità garantendo la
sua protezione. Una protezione che, come recita la normativa GDPR, deve essere “by design”
ovvero insita nel processo di gestione del dato. Non dovranno più esistere livelli minimi di
sicurezza ma livelli adeguati in funzione della tipologia del dato trattato. La funzione IT deve quindi
iniziare a padroneggiare nuove competenze, è necessaria la conoscenza approfondita delle
normative vigenti e del flusso che i dati seguono nei processi aziendali. Solo in seguito si potrà
introdurre la corretta gestione del dato, ma tutto deve essere gestito nel quadro di un processo che
entra a far parte dei processi aziendali.
Gdpr, un primo commento sul decreto di adeguamento - 5 settembre 2018, articolo di Maurizio
Reale e Sabrina Salmeri