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Sergio Botta Apizteotl, dio della fame.

Reciprocità e redistribuzione nel sistema festivo mexica 707


XXVIII Convegno Internazionale di Americanistica - Perugia 3, 4, 5, 6, e 7 maggio 2006 / Mérida 25, 26, 27, 28, e 29 ottobre 2006

Apizteotl, dio della fame. Reciprocità e redistribuzione


nel sistema festivo mexica

Sergio Botta
Università di Roma “La Sapienza”, Italia

Introduzione
L’alimentazione, «campo globale dell’esperienza umana» (DI RENZO E. 2005: 9), rappresenta uno degli ambiti
privilegiati per osservare i processi di costruzione del senso nello studio delle culture indigene dell’America
precolombiana e coloniale. Questa breve relazione intende proporre alcuni spunti di ricerca per una lettura
storico-religiosa delle pratiche alimentari indigene attraverso l’analisi di una metafora di tipo agrario e
alimentare che agiva all’interno del sistema festivo mexica e, dando vita a una dialettica tra “fame” e
“abbondanza”(1), dispiegava una complessa produzione di valori culturali. L’obiettivo è mostrare uno dei
luoghi nei quali le piante alimentari (e in particolare il mais) possono essere pensate, usando la nota
espressione di Fernand Braudel, come «piante di civiltà» (BRAUDEL F. 1982 [1979]) ed elevarsi così a
metafore generali dell’autonomo processo di civilizzazione della cultura mesoamericana(2).
Il sesto mese del calendario solare mexica, la festa nota come Etzalcualiztli, «el día en que se permite comer
etzalli» (DURÁN D. 1967: 259), vede svilupparsi una sintassi rituale articolata intorno a una metafora di tipo
alimentare. L’evento centrale delle celebrazioni della ventina era costituito dal consumo di un alimento a base
di mais e fagioli che segnalava il successo del regime agricolo alla conclusione di una fase critica dell’anno. Era
infatti il momento durante il quale, ricorda il domenicano Diego Durán, iniziavano a cadere le prime piogge
abbondanti, le piante iniziavano a crescere e spuntavano le prime pannocchie di mais. La festa di Etzalcualiztli
segnalava dunque l’ingresso nella stagione delle piogge:

«Este día y fiesta solemnizaban por muchos fines y razones. Y la primera razón era que en este
tiempo entraban ya las aguas de golpe, y el maíz, y todas la demas legumbres, iba crecido y
empezaba echar su mazorca» (DURÁN D. 1967: 260).

Il sopraggiungere delle prime precipitazioni era stato attentamente favorito dallo svolgimento di un ciclo
rituale che, durante i mesi precedenti, aveva messo in scena numerosi sacrifici di bambini dedicati alle divinità
acquatiche(3). Al termine di questa fase preparatoria, si svolgevano i rituali del sesto mese che permettevano
alla cultura mexica di fornire una risposta culturale a una condizione di precarietà (LANTERNARI V. 1983: 25).
Una volta scongiurata definitivamente la crisi rappresentata dalla potenziale carenza di acqua, la festa di
Etzalcualiztli edificava un contesto adatto anche a una riorganizzazione complessiva del proprio ordine
culturale.
Il consumo di etzalli
Nella sua Historia de las indias de Nueva España e islas de la tierra firme, Durán ricorda che l’etzalli era considerato
dai Messicani un alimento estremamente appetito tanto che, per questa ragione, gli dedicavano un’intera festa
del ciclo solare:

«Llaman a este primer día del sesto mes etzalcualiztli, que quiere decir ‘el día en que se permite
comer etzalli’. Y porque en mi niñez lo comí muchas veces, es de saber que es unas puchas de
frisol con maíz cocido entero dentro. Una comida tan sabrosa para ellos y tan deseada y
apetecida, que non en balde tenía día partucular y fiesta para ser solemnizada» (DURÁN D. 1967:
259).

All’interesse per l’alimento concreto dimostrato dal domenicano, si accompagna nella descrizione una
evidente disapprovazione nei confronti dei festeggiamenti che gli erano dedicati. Lo sguardo missionario non

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può far altro che manifestare un giudizio negativo rivolto all’idolatrica celebrazione. La venerazione di un
alimento “profano” doveva infatti essere energicamente rifiutata e Durán finisce così per estendere la
condanna di antropofagia, rivolta abitualmente alle culture indigene della Mesoamerica, anche al consumo di
etzalli, cercando di convincere il lettore che nella preparazione dell’alimento i Messicani erano soliti aggiungere
i corpi di prigionieri sacrificati:

«Hacían en los templos, delante de los ídolos, grandes ofrendas de aquella torpe y sucia comida
que dije de maíz y frisoles, y dentro echaban trozos de aves: de gallos y de gallinas, y de carne
humana; especialmente cuando algún particular quería hacer algún servicio a los dioses, que
nunca faltaba, mataba un esclavo en particular y ofrecía de aquella carne y comíanse las demás»
(DURÁN D. 1967: 261-262).

L’accusa rivolta alla “torpe e sucia comida”, oltre a veicolare uno “scontro” tra gusti alimentari, che agli occhi
di Durán vede “naturalmente” prevalere le scelte europee, produce una sottovalutazione delle valenze
simboliche delle celebrazioni dedicate all’alimento. In primo luogo, è possibile notare che l’etzalli era un cibo
estremamente costoso che non tutta la popolazione messicana poteva permettersi di consumare confidando
esclusivamente sulle proprie risorse. Ricorda infatti il domenicano che durante l’anno i Messicani «si comían
maíz, no comían frijol; si comían frijol, no comían maiz» (DURÁN D. 1967: 260). La sintassi della festa
prevedeva però che, con l’arrivo del sesto mese, ogni abitante della città dovesse nutrirsi di quel alimento nel
quale si realizzava l’inconsueta quanto desiderata aggregazione di mais e fagioli. Lo straordinario avvenimento
festivo che imponeva il consumo contemporaneo dei due alimenti rappresentava una metafora della pienezza;
l’etzalli permetteva infatti l’introduzione di una dieta simbolicamente completa: si trattava del consumo di un
alimento “definitivo” che segnalava il successo del lavoro collettivo e l’arrivo di un anno fertile e abbondante.
Nelle celebrazioni di Etzalcualiztli non era però venerato unicamente l’alimento concreto, e con esso il solo
orizzonte agrario. Il permesso di mangiare etzalli scioglieva infatti una condizione di crisi che sembrava poter
essere scongiurata solamente in termini rituali. Dopo che avevano mangiato l’etzalli, i Messicani ritenevano
infatti essenziale che ogni abitante provvedesse a lavarsi nelle acque dei fiumi e delle fonti. Colui che
trasgrediva questo impegno era considerato un amico del dio della fame che chiamavano Apizteotl:

«Después de haber comido, iban todos, así grandes como chicos, viejos y mozos, a lavarse a los
ríos y a las fuentes, que no quedaba ninguno que no se lavase, y el que no se lavaba, teníanle por
amigo del dios del hambre, que se llamaba Apizteotl, que quiere decir “el dios hambriento”»
(DURÁN D. 1967: 261).

Apizteotl, dio della fame


Appare dunque necessario interrogarsi brevemente sulla presenza nel corso della festa di questa singolare
figura. L’identificazione dell’entità extraumana è piuttosto incerta. La citazione della cronaca di Durán appare
infatti isolata all’interno delle fonti di origine coloniale dedicate alla descrizione del ciclo festivo mexica. Si
tratta probabilmente della personificazione di un rischio da scongiurare; il rischio cioè che uno scorretto
svolgimento dei rituali della festa potesse condurre la cultura mexica verso una sorta di complessiva inerzia.
Il termine Apizteotl deriva da teotl, “divinità”, e da apiztli, che nel dizionario di Siméon viene tradotto come
“fame”, ma anche come “ghiotto”, come “colui che mangia in eccesso” (SIMÉON R. 2002). Apizteotl è un
goloso, che mangia con avidità (dal verbo apizti), che si riempie troppo (dal verbo peonia). La minaccia che
incombe sulla cultura mexica non è dunque solamente quella di un dio che porta la fame, come sinteticamente
descritto anche nel dizionario del francescano Molina (MOLINA A. 1994), ma di un essere che personifica un
rischio di dimensioni globali. Nel Libro X del Códice florentino, dedicato da Bernardino de Sahagún alle Virtù e
ai Vizi dei Messicani, il termine appare in un breve paragrafo dedicato alla descrizione dei ladri. In esso il
francescano afferma che i nativi li consideravano poveri, miserabili, inutili, pieni di afflizioni, rovinati, avari,
affamati (apiztli), ghiotti (apizteutl), corrotti (SAHAGÚN B. 1950-1982: X, 38-39).
Apizteotl può quindi essere pensato metaforicamente nei termini di un ladro che espone la cultura mexica a una
“fame culturale” poiché tende ad appropriarsi indebitamente di un alimento che appartiene alla comunità.
Egli non rappresenta semplicemente la mancanza di cibo, ma una “carenza di cultura” che è il prodotto di
una scorretta fruizione dei beni, di un’eccessiva accumulazione. Apizteotl è affamato infatti non solamente a

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causa della scarsità del cibo, ma soprattutto perché il suo modo di alimentarsi appare definitivamente
smisurato. Per scongiurare il rischio che la sua inammissibile condotta rappresenta, è necessario innanzitutto
comportarsi in maniera ritualmente corretta, tanto che, chi non compie gli atti dovuti per vincere la “fame”,
verrà considerato colpevolmente suo “amico”.
Attraverso una strategia simbolica che personifica la crisi potenziale del regime di sussistenza, la cultura mexica
elabora una metafora alimentare che è segno del proprio integrale funzionamento. Attraverso la festa si viene
dunque affermando che l’abbondanza auspicata e un anno fertile sono dovuti in principal modo a un’attività
rituale che permette di rendere controllabili gli eventi naturali: la festa appare, citando Angelo Brelich, come
un «procedimento atto a sottrarre i fenomeni di importanza esistenziale al dominio della natura e della
contingenza e a trasformarli in fenomeni umani (culturali), onde inserirli nell’ordinata esistenza del gruppo
umano» (BRELICH A. 1966: 36). Di fronte alla minaccia di una natura che elargisce con avidità i propri doni, il
corretto rituale appare come l’essenziale e vero alimento della comunità mexica.
Il rituale collettivo come soluzione della crisi
La paventata carenza di cibo può essere così scongiurata dal corpo sociale mettendo a disposizione della
comunità un alimento dalle prepotenti valenze simboliche. Il rischio dell’avvento di un anno “sterile” appare
di conseguenza come segno di una potenziale crisi di tipo “istituzionale”: la mancanza di cibo anche per uno
solo degli abitanti di Tenochtitlan, interrompendo i meccanismi di solidarietà sociale, espone infatti l’intera
cultura a una totale inerzia. E’ l’immagine di un Apizteotl che, accumulando per sé il cibo, lo sottrae alla
comunità che conseguentemente non è in grado di gestirlo in forma corretta. Dal punto di vista simbolico, si
contrappongono dunque l’etzalli, come metafora di un’abbondanza collettiva, e Apizteotl, immagine di una
grave precarietà culturale. Quest’ultimo è infatti contemporaneamente rappresentazione del poco e del troppo
cibo; è al tempo stesso immagine della fame, che è carenza di cibo e di cultura, e immagine dell’eccesso,
dell’ostentazione di ricchezze acquisite in maniera illegittima. Nella figura di Apizteotl, le due forme di
superamento dei limiti culturali finiscono però per annullarsi proprio in ragione della loro coincidenza. La
festa di Etzalcualiztli, come strumento culturale che sottrae la cultura mexica a una minaccia, promuove infatti,
con l’affermazione di una “giusta misura”, un riordinamento dell’esistenza culturale di Tenochtitlan a un più
alto livello. La metafora alimentare si erge a “fatto sociale totale”, campo globale dell’esperienza umana in
relazione al quale la cultura mexica si ripensa, elaborando una profonda strategia di senso.
In primo luogo, nel corso della festa si produce una riorganizzazione complessiva dell’orizzonte agrario e dei
suoi strumenti pratici. Non solamente i partecipanti al rituale dovevano compiere lavaggi, ma anche gli
strumenti del lavoro nei campi dovevano essere ritualmente trattati. I lavoratori e la gente comune si
dedicavano infatti alla cura degli strumenti agricoli ai quali ritenevano di dover concedere un meritato riposo
in segno di riverenza e riconoscimento. Per questa ragione, eseguivano i medesimi lavaggi che ritenevano
necessari per gli uomini e facevano loro offerte di vino ed etzalli:

«Es de saber que todos los indios en general que eran labradores y gente común, hacían una
cerimonia, y era que todos los instrumentos de labrar las tierras, como son las coas y los palos
agudos con que siembran, y las palas con que cavan la tierra, y los mecapales con que se cargan, y
los cacaxtles, que son una tablas atravesadas pequeñas, metidas en unos palos, donde atan la
carga, y el cordel con que las llevan a cuestas, y el cesto en que llevan la carga: todo lo ponían el
día de esta fiesta sobre un estradillo cada indio en su casa, y hacíanles un modo de reverencia y
reconocimiento en pago de lo que en las sementeras y caminos les habían ayudado. Ofrecía ante
ellos comida y bebida de vino y de esta comida que arriba dijimos, que se comían esta día;
ofrecían incienso ante ellos y hacíanles mil zalemas saludándoles y hablándoles. Llamaban a esta
cerimonia “descanso de instrumentos serviles”» (DURÁN D. 1967: 260).

In questa fase del rituale, non erano però venerati e ringraziati solamente gli strumenti “pratici” grazie ai quali
era stato possibile ottenere i beni alimentari, ma anche quegli strumenti “simbolici” che avevano garantito lo
svolgimento ordinato della “liturgia”. Conducevano infatti offerte di etzalli anche di fronte alle statue delle
principali divinità:

«Hacian en los templos, delante de los ídolos, grandes ofrendas de aquella topre y sucia comida
que dije de maíz y frisoles» (DURÁN D. 1967: 260).

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Anche nella descrizione della festa fornita da Bernardino de Sahagún è osservabile una dinamica rituale che
conduce a una rifondazione dell’intero cosmo. Nell’esposizione del francescano, le celebrazioni della ventina
di Etzalcualiztli si svolgevano sotto il controllo del gruppo sacerdotale della città che assumeva una
temporanea ma completa sovranità in un singolare “stato di eccezione”. Al termine di un digiuno preliminare,
infatti, il corpo sacerdotale si recava fuori dai confini di Tenochtitlan per raccogliere canne con le quali
avrebbero costruito stuoie, strumenti rituali che sarebbero stati utilizzati nel corso dei successivi
festeggiamenti.
È estremamente singolare il fatto che il cammino dei sacerdoti si svolgesse in una sorta di clima sospeso;
nessuno, infatti, poteva incrociarne il tragitto ed era anzi loro permesso, con il consenso dello stesso sovrano,
maltrattare e derubare chiunque avessero incontrato lungo la strada, anche se si trattava di coloro che
trasportavano il tributo dovuto al tlatoani:

«Los ministros de los ídolos, cuando iban por estas juncias y cuando volvían con ellas, tenían
por costumbre de robar a cuantos topaban por el camino. Y como todos sabían esto, cuando
iban y cuando volvían nadie parecía por los caminos, nadie osaba caminar. Y si con alguno
topaban, luego le tomaban cuanto llevaba, aunque fuese el tributo del señor. Y si el que tomaban
se defendía, tratábanle muy mal de golpes y de coces, y de arrastrarle por el suelo. Y por ninguna
cosa destas penaban a estos ministros de los ídolos, por tenerlos en mucha estimación y
reverencia, por ser ministros de los ídolos» (SAHAGÚN B. 1988: 122-123).

Il singolare meccanismo di temporanea sottrazione della sovranità dalle mani del monarca mostra l’esistenza
di una logica simile a quella descritta nella cronaca di Durán. Il corretto svolgimento della festa ha bisogno di
un intervento sacerdotale che favorisca una riorganizzazione dell’intera realtà, condotta e realizzata con
successo attraverso strumenti di tipo rituale(4). Anche la raccolta delle canne con la quale venivano costruite
le stuoie utilizzate nei festeggiamenti mostra una logica rituale comparabile. I gesti compiuti nella raccolta
esibiscono infatti un processo di addomesticamento di una realtà “selvatica”. Le canne raccolte dai sacerdoti
sono infatti nel testo nahuatl del Códice Florentino dette aztapilin o tolmimilli. Se il termine tolmimilli indica
semplicemente il fatto che esse provengono da lagune estremamente ricche, il primo termine, aztapilin, può
essere invece tradotto come “nobile airone”: un uccello acquatico che per le sue fattezze e il suo luogo di
provenienza rievocava un ambiente lacustre. Ha ricordato Philip Arnold, nel suo Eating landscape, che la
raccolta della canne si svolgeva secondo un rituale mimetico che evocava l’atto di cacciare uccelli selvatici
(ARNOLD P. 1999). Le canne venivano dunque associate a esseri che abitavano l’area inospitale della laguna,
stabilendo in questo modo una dialettica con lo spazio esterno alla città: la “caccia” dei sacerdoti trasformava
le canne in strumenti utilizzabili ritualmente e produceva una loro trasformazione dal regno animale, selvatico
ed esterno, al regno vegetale, immagine di un ambito culturalmente “interno”.
Un medesimo procedimento rituale era in atto al momento dei lavaggi compiuti dai sacerdoti che si recavano
sulle sponde del lago per evocare, con suoni, canti e danze, gli uccelli migratori e selvatici della laguna. Dopo
aver terminato questo rituale di tipo evocativo, i sacerdoti consumavano un pasto a base di tacchini: il termine
totolin, che designava in maniera generale animali di tipo domestico (galline, tacchini, guajolotes, ecc.),
individua in nahuatl una opposizione logica con il termine cuauhtotolin, che indica invece quei volatili tipici di
un ambiente selvatico (SAHAGÚN B. 1950-1982: XI, 249). Ai sacerdoti si chiedeva dunque di consumare un
pasto simbolico con le carni di animali domestici a cui erano stati definitivamente sottratti gli aspetti selvatici,
tanto che erano considerati simboli della servitù (ARNOLD P. 1999: 100).
Nella descrizione di Durán, la metafora alimentare che si costruiva intorno al “rischio Apizteotl” aveva
prodotto una completa riaffermazione, attraverso adeguati strumenti rituali, dell’intero orizzonte agrario. Si è
notato che, anche nella narrazione di Sahagún, le metafore agricole e alimentari dispiegate nel corso delle
celebrazioni offrivano un linguaggio privilegiato per i rituali attraverso i quali era realizzato dal corpo
sacerdotale quel addomesticamento della laguna, spazio caotico e “altro”, grazie al quale era possibile
riaffermare l’ordine della città.
Reciprocità e redistribuzione
Al termine dei rituali preparatori, infine, nella descrizione di Sahagún il consumo di etzalli portava a
compimento la dinamica festiva. Il pasto collettivo descritto dal francescano emerge come straordinario
espediente di socialità e segnalatore di status. Da un lato, infatti, il rituale comunitario appare in grado di

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salvaguardare la coesione del corpo sociale, che doveva confrontarsi come soggetto attivo e coeso al rischio di
una fame incombente personificata da Apizteotl. La grammatica della festa affermava inoltre esplicitamente
che l’intera popolazione doveva obbligatoriamente cibarsi di etzalli. Per questa ragione i sacerdoti si recavano
di casa in casa e si mettevano nei cortili, chiedendo di consegnare in offerta l’alimento che era stato preparato,
in modo che tutti ne avessero a disposizione (DURÁN D. 1967: 261).
L’etzalli si elevava quindi anche al rango di strumento distintivo capace di riaffermare i ruoli e le gerarchie
sociali. Se infatti l’alimento denotava l’abbondanza e il successo di una cultura che agiva come insieme
coerente e compatto, è anche vero che non tutti possedevano le risorse per comprare l’etzalli, e dunque per
nutrirsene autonomamente. Quegli abitanti della città, che pure erano impegnati a cibarsene (pena l’insuccesso
dell’intero orizzonte culturale), dovevano fare affidamento sui meccanismi di redistribuzione di cui si
facevano carico coloro che possedevano le risorse necessarie per produrne un surplus. Occupandosi della
distribuzione dell’alimento, i signori della città vedevano così, da un lato, prepotentemente riaffermata la
propria condizione privilegiata, mentre, dall’altro, erano chiamati a rigettare il modello negativo personificato
da Apizteotl, rinunciando così a trattenere le ricchezze per le proprie esclusive fortune. Non è dunque casuale
il fatto che la festa di Etzalcualiztli inaugurasse una sorta di sottociclo festivo che proseguiva con le due
successive ventine, Tecuilhuitontli e Huey Tecuilhuitl (la piccola e la grande “festa dei signori”); si trattava di un
trittico di celebrazioni unite tra loro, ancora una volta, da a una metafora di tipo agrario. Nel corso delle feste
erano infatti venerate «tre divinità della sussistenza» (GRAULICH M. 1998: 375): durante Etzalcualiztli era
venerata Chalchiuhtlicue, personificazione delle acque della laguna sulle quali si coltivava il mais; durante
Tecuilhuitontli, era venerata Huixtocihuatl, dea del sale; infine, durante Huey Tecuilhuitl, era celebrato il mais
impersonato dalla dea Xilonen.
Una volta conclusi i rituali di spartizione di etzalli che si erano svolti nel corso del sesto mese, la
redistribuzione degli alimenti proseguiva con le celebrazioni delle ventine dedicate ai signori. Mentre i nobili, e
il sovrano stesso, si occupavano di organizzare banchetti rituali per offrire cibo ai poveri (SAHAGÚN B. 1988:
134), i contadini portavano ai signori un tributo in frutti della terra come forma di ringraziamento per la loro
tutela (GRAULICH M. 1998: 375). I pasti comunitari che si svolgevano nel corso delle tre ventine erano
dunque capaci di riaffermare annualmente gli equilibri e le gerarchie sociali: i meccanismi di reciprocità e
redistribuzione ritualmente sanciti nel corso delle feste assicuravano il riconoscimento di una regola sociale di
moderazione che permetteva allo stesso tempo l’affermazione del prestigio sociale e il netto rifiuto per ogni
forma di ostentazione(5).
Conclusioni
Ogni anno dunque, la cultura mexica, in connessione con un momento di passaggio dei cicli stagionali,
produceva una complessa spettacolarizzazione del rischio rappresentato dalla potenziale carenza di pioggia.
La metafora della “fame”, come crisi dell’orizzonte agrario, diveniva per estensione immagine di una crisi
complessiva dell’ordine, di una “fame culturale” che sembrava investire ogni ambito dell’esistenza. La
sottrazione degli eventi naturali al dominio della contingenza, e la loro trasformazione in fenomeni
controllabili, permetteva un sistematico riordinamento dell’orizzonte culturale.
Con il coinvolgimento dell’intera popolazione, la festa di Etzalcualiztli aveva infatti garantito la possibilità di
fronteggiare, attraverso efficaci strumenti rituali, la crisi personificata da Apizteotl, immagine di
un’alimentazione autoreferenziale e senza limiti. La crisi era stata superata solamente perché la comunità si era
costituita come sistema organico in opposizione a una natura caotica da cosmicizzare. La festa si era svolta
sotto l’egida del corpo sacerdotale che, dopo aver sottratto al re gli strumenti della sovranità, aveva
scrupolosamente preparato lo spazio e il tempo per il consumo di etzalli attraverso una drammatica enfasi
sulla correttezza del rituale. Affinché un abbondante e simbolico pasto potesse essere finalmente fruibile da
tutti gli abitanti della città, era necessario riorganizzare lo spazio in un confronto dialettico con l’alterità della
laguna. L’evocazione degli dèi acquatici, la “caccia” delle canne, il trasporto degli strumenti “selvatici” e il
consumo delle carni “domestiche” concorrevano a una progressiva riorganizzazione del cosmo che, passando
anche attraverso il riposo degli strumenti agricoli, produceva le condizioni necessarie per il superamento della
crisi.
La strategia simbolica grazie alla quale era stata elaborata una dialettica tra “fame” e “abbondanza” era in
grado di favorire una rinnovata affermazione del proprio sistema di valori: dalla “sconfitta” di Apizteotl, il
cosmo e la società mexica uscivano rafforzati. Il corretto funzionamento dell’orizzonte alimentare era dunque
il segno del successo di un’intera cultura; ne risultavano confermati i processi pratici di costruzione del senso
e l’efficacia degli strumenti simbolici, la necessità di una partecipazione collettiva e condivisa allo svolgimento

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dei rituali e, infine, la completa organicità e funzionalità di un sistema gerarchico pensato in termini di
solidarietà e giustezza.

Note
(1) In questa prospettiva, il cibo viene osservato non solamente come risposta sociale a bisogni di tipo biologico, ma
come produttore di senso, di «cultura, sovrastruttura, pensiero» (DI RENZO E. 2005: 9). Seguendo l’impostazione delle
analisi di Massimo Montanari, questo breve intervento vuole tentare di ricostruire una storia nella quale «l’immaginario
culturale gioca un ruolo decisivo» (MONTANARI M. 1993: 3).
(2) Nella magistrale analisi dello storico francese, la storia delle piante alimentari fa pesare sulla vita generale degli uomini
un «determinismo di civiltà» organizzandone la vita materiale e psichica fino a diventare strutture quasi irreversibili
(BRAUDEL F. 1982 [1979]: 83).
(3) Per una lettura del ciclo festivo mexica in relazione al culto delle divinità acquatiche e all’alternanza tra stagione secca e
stagione delle piogge, è ancora fondamentale il lavoro di Johanna Broda (1971). Seguendo la prospettiva di questa
studiosa, mi sono occupato della festa di Etzalcualiztli come momento di costruzione simbolica di una crisi (BOTTA S.
2004). Ogni analisi relativa al calendario festivo mexica non può prescindere dalle tesi critiche di Michel Graulich (1998).
(4) Per sottolineare inoltre l’importanza del cammino intrapreso, è possibile notare che per colpire i trasgressori che
incontravano sulla strada, i sacerdoti adoperavano una corda detta tlalmecatl che era solitamente utilizzata per misurare i
terreni: la punizione inflitta ai trasgressori con lo strumento di misura eleva dunque il cammino percorso dai sacerdoti a
evento rituale di centrale importanza nel quale è in atto una vigile ricognizione dello spazio interno ed esterno al centro
urbano.
(5) Dalla descrizione che Sahagún fornisce dei rituali che si svolgevano durante Huey Tecuilhuitl la “fame” emerge
nuovamente come metafora privilegiata per dare espressione alla potenziale crisi: «Ocho días duraba este convite que
hacía el señor a los pobres, porque cada año en este tiempo hay falta de mantenimentos y hay fatiga de hambre. En este
tiempo solían murir muchos de hambre» (SAHAGÚN B. 1988: 135).

Bibliografía
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