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MARCHIS (dibattito pubblico a Brescia, con Emanuele Severino e Valerio Castronovo, aprile 2001)

Innanzitutto un ringraziamento agli gli amici della Fondazione Micheletti, al prof. Simoni, al Comune di
Brescia per avermi invitato quest'oggi e mi scuso ancora per la voce rauca, frutto di una ancora non conclusa
influenza. L’occasione era troppo ghiotta e non volevo che si dicesse che avevo trovato una scusa per non
venire a Brescia. E’ questa è un’ulteriore dimostrazione di ottimismo nei confronti di una battaglia che si deve
condurre al fine di eliminare definitivamente quell’assurdo dualismo (pluralismo) tra le culture. Che da una
parte ci stiano i filosofi, dall’altra i tecnici è cosa che proprio non riesco a concepire e l'avermi coinvolto in
una discussione sulle problematiche intorno alla formazione nell'età della tecnica mi coinvolge direttamente e
mi lusinga.

Uno sguardo al contesto in cui si inserisce la mia attività presente forse potrà essere di utilità per meglio
capire le mie argomentazioni. Dopo il liceo classico, ho frequentato i corsi di ingegneria meccanica (la più
reazionaria tra le ingegnerie, quando alla fine degli anni ’60 era l’elettronica a occupare le posizioni più
innovative). Sono quindi seguite le prime attività di ricercatore tra la teoria dei sistemi, la meccanica, le
scienze aerospaziali in cui ho trafficato sino alla fine degli anni ’80. Un coinvolgimento per sei anni al
Comitato di ingegneria e architettura del CNR mi ha permesso di conoscere bene e a fondo gli scenari della
disciplina, allargandoli ben al di fuori del settore di mia pertinenza. Nel 1981 raggiungo la cattedra di
professore associato, nel 1989 vinco un posto di professore ordinario all’Università di Catania, da dove ritorno
a Torino. Durante questo cursus, che è sempre segnato da studi attinenti alla modellazione dei sistemi
dinamici, incomincio a intuire che l’ingegneria non può solo guardare a se stessa, e soprattutto non può
inseguire la chimera di un algoritmo che risolva tutti i suoi problemi. L’attenzione ai problemi dell’uomo, a
problemi che ben difficilmente rientrano nei paradigmi e nelle strutture algoritmiche e deterministiche delle
scienze dure ed esatte, diviene sempre più pressante e finalmente esco allo scoperto, trovando spazio dal 1987
per insegnare Storia della tecnologia presso la Facoltà di architettura del mio Ateneo torinese. E’ la prima
volta che una storia della scienza o della tecnica entra a pieno diritto in un Politecnico: le ricchissime
esperienze condotte con i giovani studenti del Castello del Valentini, le attenzioni ai problemi sociali e
ambientali portano ben presto a consolidare una disciplina che acquista uno status importanate per la
formazione di ingegneri e architetti. Le tesi di laurea, le mostre, le conferenze e i seminari tenuti in numerose
università italiane e straniere confermano che la Storia della tecnologia può e deve avere un suo spazio
all’interno dei curricoli formativi dei futuri tecnici, anzi che essa riesce a trasferire conoscenze anche tra
ambiti culturali che altrimenti sarebbero rimasti tra di loro isolati e impermeabili.
A metà degli anno ’90 nasce al Politecnico di Torino l’Istituto Superiore di Scienze Umane e la Storia della
tecnica diventa una delle materie che costituiscono il pacchetto dell’offerta didattica relativa alle storie, alle
sociologie, alle filosofie. Questa esperienza, che non è ancora del tutto consolidata, di aprire ai futuri
ingegneri alcune prospettive “umanistiche” è certamente nuova e di grande valenza culturale e su di essa
varrebbe la spesa di meditare. Ciò non vuol dire che si voglia trasformare tutti gli ingegneri in atrettanti Carlo
Emilio Gamba, questo non vuol dire che l'ingegnere debba saper comporre opere musicali, poesie o altro. Si
vuole soltanto aprire l’orizzonte a chi, per necessità di professione altrimenti tenderebbe a vivere in una
dimensione troppo deterministica, troppo legata alla estrema fiducia che al ogni problema esita una soluzione
ottimale e che è solo questione di abilità il saperla trovare. La sfida è grossa, anche se le posizioni contrarie a
questa rivoluzione culturale non sono né poche né di poca importanza. E però di alcuni giorni fa, la
comunicazione che uno dei Consigli di laurea del mio Ateneo ha accettato di rendere obbligatorio un corso
presente nel pacchetto delle “scienze umane” tra quelli che gli studenti devono inserire nel loro piano di studi
del primo anno: una scienza umana allo stesso livello della chimica o della geometria.
Ma questi sono dettagli della alchimia burocratica universitaria che forse in questa sede è bene lasciare da
parte per venire più direttamente al centro del problema, quello che mi ha visto recentemente passare – come

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attività di ricerca – dalla meccanica alla storia. E’ un passaggio che, lo confesso, è stato non privo di
difficoltà, ma che mi ha dato molte soddisfazioni. Né voglio entrare in polemica con il Prof. Severino, quando
afferma che, forse, la tecnica la vedono meglio i filosofi degli ingegneri: lo ringrazio per la sua intromissione
nei problemi della tecnica. Anche perché ritengo davvero che esista anche per l’ingegneria una sorta di
“teorema di incompletezza” (proprio come quello che Gödel ha formulato per la matematica) e che quindi, per
argomentare sull’ingegneria, si debba uscire da essa. Lo stesso si potrebbe sire per la filosofia…
Mi fa piacere quando altri, che appartenengono ad altri ambiti culturalin hanno la capacità, l'ardire e magari
anche la spensieratezza di andare a calpestare terreni che non sono propri. Questo vuol dire che, al di là delle
proprie ingenuità soprattutto lessicali e di linguaggio (mi scuso per la mia “goffaggine” filosofica) significa
che si ha la capacità di colloquiare, di lanciare dei ponti tra saperi differenti. E’ bello e importante discutere
intorno alla tecnica, a quell’ente che aleggia, quasi come un nume antico, sopra le macchine. Ma, il più delle
volte, e questa è una critica che faccio al mondo dei filosofi, si è confuso il concetto di tecnica con il concetto
di macchina. Tecnica e macchina, sono due entità distinte e spesso le confusioni derivano dal fatto che si passa
da un ambito all’altro con troppa nonchalance.
La tecnica, come “dea tecnica”, la macchina come “dea macchina”. Entriamo in questa nuova mitologia,
spesso e volentieri le due entità sfumano una nell'altra. Solo per chi le traffica direttamente sono cose molto,
ma molto diverse. Al principio, la macchina, e ritorno proprio all'origine della storia, la mêchanê, quella del
deus ex machina, non era lo strumento che intendiamo noi, ma è in realtà una interfaccia un modo per far
comunicare due realtà diverse, il mondo degli dei e il mondo degli uomini. Mondi che non hanno trasparenza.
Quindi la macchina era piuttosto da intendersi come medium. La macchina come tramite, è stato l'oggetto di
una mia comunicazione molti anni fa e così dobbiamo soprattutto oggi considerarla.
Se la macchina pensa di risolvere i propri problemi solo al proprio interno fallisce. Da questo fallimento
arrivano da un lato le ignoranze di chi sta fuori dal mondo delle macchine e dall'altro le paure di ciò che non
si conosce, perché quello che non si conosce non lo si può affrontare, non con la cultura dei tecnici, ma con la
cultura dei filosofi, degli umanisti, forse anche dei visionari.
Io non voglio fornire delle soluzioni a questo dilemma, perché non saprei darle, ma mi pongo di fronte alla
tecnica con lo spirito critico che dovrebbe avere serenamente ogni docente, ognuno che operi nell'ambito della
formazione.
Si è parlato di età della tecnica, ma quando mai è esistita un età che non fosse “della tecnica”? La tecnica – e
qui in sordina abbandono pian piano il mio habitus di meccanico, di tecnico, per prendere quello di storico
-secondo me, è sempre stata un passo più avanti rispetto alla conoscenza media dell'uomo medio. La tecnica
da sempre è stata novità, invenzione, innovazione: proprio per questo a fianco di essa sempre c'è stata la
paura, la superstizione di avere tradito gli dei, perché gli uomini avevano rubato qualcosa che era solo nella
loro conoscenza, perché gli dei stavano al di là del mondo. Quel mondo che soltanto la mêchanê ci aveva
permesso di intuire e non di vedere.

Si sente dire che la società sempre più è coinvolta in affari tecnici e tecnologici (dalla nuova economia ai
“titoli tecnologici”, che sono poi quelli relativi alle nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione): io preferirei dire, “in affari di macchine o di cose inanimate o di cose artificiali”: anche
l’etica e l’estetica, come la politica o l’arte non ne sono indenni. Ma è sempre stato così, dall’inizio della
storia. E’ il destino dell’uomo, della sua stessa sopravvivenza e, lo presagiscono le profezie, della sua stessa
fine.
E’ stata “tecnica”, nel senso storico del termine, la castrazione del bue, perché è un modo artificiale di
intervenire sulla natura per poter permettere a un animale di diventare motore, per tirare il carro e questa è una
tecnica che si fa quasi senza utensili, che si faceva all'inizio della rivoluzione. Una “bio” tecnologia che ha
cambiato il mondo.

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Quando l'uomo ha cambiato il suo modo di rapportarsi con la natura, da uomo nomade è diventato uomo
stanziale e ha creato la società, ha inventato la scrittura, ha creato i modelli di previsione, ha creato la
divinazione. Le commistioni tra divinazione e tecnologia sono molto antiche e questo rapporto magico che
proietta il nostro vedere nel futuro rimane anche oggi nelle previsioni del tempo come in quelle degli affari
nella finanza. Mircea Eliade ha scritto bellissimi trattati intorno al rapporto tra l’uomo e il “soprannaturale”.
Non lo voglio chiamare soprannaturale, preferirei parlare di “extranaturale”, dove la tecnologia ha una parte
fondamentale, nonostante le apparenze. Divinatori, stregoni e alchimisti, ma anche metallurgisti, erano
identificati nelle stesse persone nella società assiro-babilonese: lo erano ai tempi dei greci e dei romani, fino ai
monaci che svolgevano pratiche apotecarie e metallurgiche nei monasteri, negli “orti dei semplici” Nell’orto
dei semplici, dove si coltivavano le piante officinali, era sempre presente una fornace. Essa era il luogo della
metamorfosi, non una realtà impossibile, ma qualcosa di assolutamente reale, dove la materia si trasformava e
dove il tramutare il piombo in oro non era soltanto una metafora ma piuttosto la “tensione essenziale” di una
scienza che ancora si chiamava al-kemia. Le conseguenze politiche, etiche e sociali non erano allora, come
non lo sono oggi, trascurabili e intorno ad esse si sono fatte grandi battaglie culturali.
Le perplessità e gli “scandali” di oggi intorno alle sostanze transgeniche, alle biotecnologie, sono dello stesso
tipo di quelle che tra Medioevo e Rinascimento hanno agitato tribunali civili ed ecclesiastici.

L'importante è prendere coscienza in maniera corretta dei limiti e dei confini tra il mondo dell'etica e il mondo
della tecnica. Il vero problema non è quello di ricostituire un nuovo “umanesimo” dove tutti sanno tutto, ma
piuttosto di trovare nuove linee di armonizzazione tra i vari saperi, che – come è sempre stato – appartengono
ad una cultura, che evolve nel tempo. Diversificazione dei saperi vuol dire anche specializzazione, ma se i
saperi si diversificano così tanto, da chiudersi all'interno delle loro enclave culturali, all'interno di esse si
raggiunge un grado di grande omogeneità, che porta inevitabilmente a un appiattimento del sapere.
Un mondo fatto di ingegneri, che vogliono risolvere tutti i loro problemi soltanto con i paradigmi degli
ingegneri, è un mondo piatto e banale: ad esso io non voglio appartenere.

Da questo punto di vista l’azione culturale da condurre tramite tutto l'apparato della scuola, tramite tutto
l'apparato della formazione e informazione, è quella di dare la capacità a chi è specialista nel proprio settore di
poter fare quelle incursioni al di fuori dei propri confini, di potere colloquiare con i mondi esterni: gli
integralismi non hanno mai portato a nuove conoscenze. Ma attenzione che gli integralismi non esistono
soltanto dagli ingegneri che, nell'immaginazione collettiva, hanno spessi paraocchi. Chi frequenta una
“categoria professionale” e io la frequento abbastanza spesso, più per necessità che non per piacere, sento dire
spesso dai miei colleghi: “Questo è un problema da ingegneri. Fermi tutti, se volete che si risolva
correttamente il problema, i filosofi, i politici, gli economisti, via dai piedi! Prima si trovi la soluzione
razionale e migliore, poi la si consegni agli altri e solo allora si potrà discutere del resto. Attenzione al
“rumore di fondo” ai disturbi che vengono dall’esterno!”

Su questa concezione razionalistica e positivistica del sapere si fonda la pretesa separazione delle culture. Su
questi presupposti si fondano gli antagonismi tra ingegneri e architetti, tra giuristi e medici. Ma è proprio così
che si raggiungono i fallimenti, le delusioni, in questo modo si giustificano le paure della società.
Se un ponte di Messina, se un progetto di linea ferroviaria alta velocità non decolla – e li prendo solo a titolo
di esempio, con un pizzico di provocazione - non è perché dal punto di vista tecnico non è si è lavorato bene,
ma perché non si è saputo rapportare il progetto finale al contesto che gli sta intorno.
Ecco che allora in questi rapporti il mondo della cultura fornire ciò che i biologi chiamano “anticorpi”. La
capacità di parlare con l'esterno e da questo punto di vista l'apertura “all’altro e all’altrove” tramite la storia o
tramite la filosofia permette un’apertura, magari anche in maniera ingenua, verso altri mondi e fa si che si
possa comunicare. Non voglio fare un’apologia della storia, perché altrimenti sembrerebbe che la storia debba

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avere il sopravvento sulla filosofia (due sono gli storici in questo dibattito e uno solo il filosofo), ma il
problema è davvero questo. Se io devo “comunicare con l'esterno”, non è così essenziale ridurre tutto alla sola
spiegazione dei fatti.
Poiché l'azione dello storico non è quella né del rappresentare né del fare, ma è quella del narrare, il
raccontare diventa il grimaldello per rendere possibile lo scambio di conoscenza.
Se un tecnico deve parlare con un avvocato e devo fargli capire che cosa è un motore, non glielo deve
“spiegare”, perché non lo capirà mai in quanto non ha gli strumenti per farlo, ma deve “raccontare” come è
fatta questa macchina. Se un avvocato deve parlare ad un medico, o viceversa, avviene la medesima cosa,
perché il trasferimento della conoscenza, per essere efficace, deve trasferirsi con protocolli di linguaggio
comuni ai due ambiti specialistici, e quindi, per necessità di cose, deve essere “meno specialistico”.
Da quando l'uomo è entrato nella storia, egli ha fatto della storia il metodo per “fare memoria”, la quale è
soltanto giustificabile e sostenibile solamente in quanto essa è consapevolezza del presente.
Molto si potrebbe dire intorno alla necessità di una storia del passato prossimo, perché non esiste storia se essa
non è legata al presente. Se si riesce a legare la storia antica al presente, ben venga la storia antica, ma se la
storia antica non è legata al presente anche se fosse una storia “gloriosissima”, di poco valore essa sarebbe
portatrice, perché sarebbe cosa “d'altro mondo”, e perciò al di fuori della storia dove è difficile distinguere la
realtà dalla immaginazione. Nell'ambito della formazione e della alfabetizzazione scientifica bisognerà allora
guardare alla sua dimensione storica, in quanto solo se la scienza si inserisce in un processo evolutivo e di
consapevolezza del presente, essa può radicarsi all’interno dei processi formativi della persona umana.
Una cultura scientifica fatta a modo di ricetta o “impressionante e stupefacente” (per intenderci quella delle
“meraviglie della scienza e della tecnica”) non lascia nulla ed è dannosa nei confronti della tecnoscienza di cui
ha parlato il prof. Valerio Castronovo.
Capire che c'è invece da qualche parte nel mondo della scienza, come in quello della letteratura, una porticina
che si può aprire e permette di mettere in comunicazione le diverse realtà è invece cosa fondamentale che
deve essere alla base di ogni processo educativo e formativo.

Giungendo ora alla conclusione, bisogna però ricordare che ci sono responsabilità non solo da parte degli
ingegneri, dei tecnici e degli scienziati, che pensano di essere depositari della conoscenza, che hanno quello
guadagnato un nuovo status di “nuovi sacerdoti”, depositari di un “sapere” che tende ad essere assoluto.
Studiare e ragionare in maniera asettica, operando soltanto in quell’ambiente che potremmo chiamare “la
Stanza della Scienza”, in cui sa che no ci sono finestre verso l'esterno, e poi dopo uscire demandando ad altri
le responsabilità è uno dei più gravi errori della nostra società. Ed è anche necessario che il comune cittadino
sia consapevole delle scelte che si stanno operando. Queste scelte, purtroppo, non si fanno ne con le “pagine
della scienza” presenti sui grandi quotidiani, né con le trasmissioni fatte dalla scienza per la scienza: esse con
la pretesa di un rigore, che non hanno né potrebbero avere, di fatto ghettizzano la scienza. La scienza è fatta
anche di grandi delusioni, di grandi errori, e la vera storia, quella che porta alla consapevolezza, non ha il
pudore di nascondere anche gli errori. Di ciò si parla assai raramente.D'altra parte però altre difficoltà nascono
da parte degli “storici duri” e dei “filosofi duri” perché anch’essi pensano che il loro rigore scientifico sia solo
fondato sulla loro assoluta specificità, e rifuggono il confronto.
In questo senso amo parlare della metafora del contrabbandiere: colui che vive sui confini, che non parla bene
nessuna lingua, ma che riesce a trasferire conoscenza attraverso i confini e le frontiere.
Le vere battaglie, soprattutto culturali, morali e civili, si combattono stando sui confini e non al centro delle
discipline. Solo chi ha questa capacità e non la questa paura di rapportarsi realtà diverse e “straniere”, può
sperare di ottenere nuovi risultati nella propria conoscenza.
La nota conclusiva che pongo al termine di questo intervento riguarda l’ottimismo. Parlare di progresso fa
subito pensare a qualcosa di positivo. Lo stesso succede quando si parla di evoluzione. Non vorrei fissare la
mia attenzione né sul progresso, né sull’evoluzione, ma sulla storia, e sul passare del tempo. Essere ottimisti o

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pessimisti nei confronti del nostro futuro non ha senso: nessuno ha mai postulato l’eternità della specie
umana; non c'è né fede né scienza che abbia mai detto che la specie umana è privilegiata a non prevedere la
propria estinzione nel proprio futuro.

Quindi l'ottimismo sta quindi nel cercare, compatibilmente con i vincoli e con i contesti, quello sviluppo che
sia sostenibile al meglio, nel rispetto dell’uomo e del suo futuro.
Non bisogna però farsi delle illusioni di aspettare i risultati sul fronte delle battaglie culturali con i medesimi
tempi di risposta che si aspettano nelle aziende e nelle imprese. Ritengo che qualcosa si possa fare, che
qualche segnale sul fronte della formazione si stia muovendo e che se qualcosa si farà, i risultati li vedremo
fra 30 anni: queste sono le costanti dell'uomo, che sono legate alla sua biologia. Più l'uomo allunga la sua
vita, più le costanti di tempo aumentano, e pensare di trasferire la mentalità industriale, che vuole un profitto
nell'arco di 6 mesi, sul piano della cultura è assolutamente un’illusione. “Aziendalizzare” la scuola è un
controsenso.

In risposta all’intervento del prof. Severino, nei confronti di cui mi sono riservato una breve risposta, posso
affermare che sono fondamentalmente d'accordo con quello che ha detto. Non vedo una contrapposizione tra
scienza, tecnoscienza e filosofia.
Per quanto si riferisce invece ai cambiamenti della tecnica bisogna ricordare che ciò che si intendeva per
“tecnica” nel mondo antico, non è quello che si intende per tecnica oggi. La tecnica non deve essere guardata
solo con gli occhi del filosofo perché bisogna guardare, cercare di spiegare la tecnica, non soltanto con un
occhio ai suoi caratteri funzionali, ma anche ai suoi caratteri etici. Se il mondo antico guardava alla tecnica
legandola ai suoi miti, ci sarà stata una qualche ragione.
La tecnica nel mondo antico era concepita in una dimensione antropocentrica, singolarmente antropocentrica,
e la tecnica era demandata a chi “sa fare le cose”.
Noi oggi stiamo invece assistendo a una tecnica non più antropocentrica singola, ma antropocentrica
comunitaria: la tecnica è in mano a “chi sa far fare”, e non a chi sa fare.
Se il filosofo, oggi, guarda alla tecnica con i paradigmi con cui esaminava la tecnica del mondo antico fa un
grave errore. Esiste poi infine un secondo punto da non trascurare. La nuova rivoluzione tecnologica che sta
portando la società industriale a trasformarsi nella “società della conoscenza” sposta ulteriormente il punto di
vista con cui si deve affrontare l’atto tecnologico. Esso è sempre meno legato alla operatività manuale e in un
certo senso le sue interazioni con le mappe mentali si stanno fortemente condizionando, travalicando il mondo
concreto e interagendo sempre più pesantemente con la metafisica. A questo punto incominciano i problemi a
cui non so dare risposta, dove il contrasto tra presente e passato si fa più nebuloso. Nuove “tensioni essenziali”
per la scienza stanno preparando probabilmente il terreno a “novissimae scientiae”.
Quei valori in contrasto tra passato e presente a me, e concludo, si fa sempre più nebuloso. Di fronte a queste
incertezze confido di più nella storia, perché la visione della storia è molto più umana e molto meno
scientifica. La storia è molto più "materna e familiare", perché non guarda ai massimi sistemi, ma guarda alle
misere quotidianità dell’uomo.

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