Sei sulla pagina 1di 100

Alessandro Carrera

Bob Dylan
Alessandro Carrera

Bob Dylan
Sommario

5 Hibbing
10 Fans
17 Concerti
22 Democrazia
26 Legge
30 Giustizia
34 Brecht
39 Uguaglianza
43 Religione
49 Blues
56 Politica
65 Obama
71 Disimpegno
78 Appropriazione
85 Furto
91 Trasfigurazione
97 Cover
Non può negarsi che quel suo blakiano scrivere “per amore dell’Uomo e in lode di
Dio” abbia trovato accenti e punte laceranti. Forse è un errore volerlo comprendere
troppo; fondamentalmente era un analogista a sfondo religioso, che non avrebbe
scritto un rigo se si fosse davvero chiarito razionalmente. In ciò Dylan fu veramente
“moderno” in tutti i sensi, buoni e men buoni, e chi lo ama non lo vorrebbe diverso.

Eugenio Montale
(Sta parlando di Dylan Thomas, ma va bene lo stesso)

4
Hibbing

Arrivo a Hibbing per la prima volta nell’estate del 1998 su un’utilitaria Ford
noleggiata a Minneapolis. Sono diretto alle sorgenti del Mississippi, che stan-
no più a ovest, sul lago Itasca, e non so bene che cosa aspettarmi da questa
sosta nella città dove Dylan è cresciuto. Dopo essermi fermato a un paio di
passaggi a livello davanti a treni lunghissimi che passano lenti, tagliando
le foreste e portando legname e minerali ferrosi verso il porto di Duluth,
trovo all’ingresso del’abitato, come mi ha informato la mia guida tascabi-
le del Minnesota, il Visitor Center della città. La signora Ylapura, piccola,
capelli bianchi, gentilissima, forse di origine lappone (qui sono moltissimi i
discendenti degli immigrati scandinavi), mi parla della miniera di ferro che
si apre a nord della città, la più grande del mondo a cielo aperto, e del museo
Greyhound dove è possibile seguire la storia della compagnia di autobus, ora
la maggiore degli Stati Uniti, nata proprio a Hibbing nel 1914 per portare
i minatori sul luogo di lavoro. Non mi parla di Dylan, forse non sa chi è, e
quasi ho paura di chiederglielo. Mi pare lontanissimo dal suo mondo, e non
vorrei metterla in imbarazzo.
Mi ricordo di quando, nel 1990, ero stato a Okemah, il villaggio dell’Ok-
lahoma dal quale era venuto Woody Guthrie. La casa dove è nato non c’era
più dagli anni della Depressione, al suo posto stava un praticello vuoto. È
vero, sulla torre dell’acquedotto cittadino (l’edificio più alto dei dintorni)
c’era scritto “Woody Guthrie’s Town”, la città di Woody Guthrie, e questo
mi aveva un po’ confortato, ma alla biblioteca cittadina non avevano nien-
te su di lui, solo un quaderno ad anelli con vecchi articoli ritagliati da vari
giornali e infilati in piccole buste di plastica trasparente. Era un’opera privata
dell’anziana bibliotecaria, guthriana in semi-incognito, che me la mostrò un

5
po’ orgogliosa e un po’ timorosa, perché, come mi disse, a molti in città non
piaceva che il più illustre figlio di Okemah fosse stato un comunista.
A Hibbing non c’è scritto niente nemmeno sull’acquedotto. Il museo
Greyhound, naturalmente, ha un’altra storia da raccontare, e l’altro museo,
quello cittadino che sta nei sotterranei del Civic Center, è dedicato alla gigan-
tesca Hull Mine che riassume l’intera storia della città. I pannelli dimostrativi
scandiscono gli eventi decennio dopo decennio, e quando si arriva agli anni
’60 c’è una copia del giornale locale nel giorno dell’assassinio di Kennedy e
la copertina di un disco dei Beatles in cima alla quale campeggia una foto di
Dylan. Ma è una foto fatta durante la tournée del 1978, e non sta scritto da
nessuna parte che Dylan sia cresciuto lì.
La miniera è impressionante, un paesaggio lunare a tinte rossastre come
il Painted Desert dell’Arizona, con la differenza che qui vedo gente in lonta-
nanza a lavorarci, manovrando autocarri gialli e giganteschi, dalle ruote alte
più di due metri. Arriva la sera e su Dylan non ho trovato nulla. Avrò tempo
domani di dare una controllata alle librerie e alla biblioteca pubblica. Intanto
decido di fermarmi in un ristorante e mi cade l’occhio sull’ingresso di “Zim-
my’s and Atrium Restaurant” al 531 di East Howard Street, la via principale.
Non sapevo neanche che esistesse, sto viaggiando un po’ come viene e non
mi sono preparato a dovere, ma è un ristorante a tema, e il suo tema è “You
may call me Bobby, you may call me Zimmy”. È come un piccolo Hard Rock
Cafe, ma per un artista solo. Foto di Dylan ovunque, manifesti di concerti
e ritagli di giornale. A destra dell’ingresso stanno anche ricordi d’infanzia,
con fotografie di un bambino piuttosto paffutello, guardato amorosamente da
un’orgogliosa mammina. Le cameriere mi fanno firmare il registro del locale,
nel quale leggo i commenti di avventori come me: “Credevo che nessuno a
Hibbing si ricordasse di Dylan finché per fortuna ho trovato voi”. Oppure:
“Bob, lascia la California e torna a Hibbing!”. Al ristorante sono tutti molto
gentili, il che non vuol dire che mi senta di consigliare il loro menu.
Esco e sto per salire in macchina (avevo parcheggiato proprio di fronte, il
traffico a Hibbing non è proprio intenso), quando due anziani signori, seduti
su una panchina che sta davanti al ristorante, stranamente mi chiedono di
che colore è la mia macchina. Argento, gli dico io. Ma che macchina è, mi
chiedono ancora. Forse hanno voglia di fare quattro chiacchiere. Una Ford
Escort, dico io. “Parli con un accento straniero” mi dice uno dei due. “Beh, sì,
sono italiano.” “Allora sei un paesano”, mi dice lo stesso di prima. “Diciamo

6
di sì.” “E come mai sei qui?” “Sto andando a vedere le sorgenti del Mississip-
pi, ma mi interessa molto anche Bob Dylan, e allora...” “Chi?” “Dylan, Bob
Dylan.” “E chi è?” Mi guardano senza espressione. “Il tizio al quale è intito-
lato questo ristorante qui dietro” dico loro. Uno dei due si volta e legge l’inse-
gna “Zimmy’s and Atrium” come se la vedesse per la prima volta. Poi capisce.
“Ah, vuoi dire Bobby Zimmerman, il figlio di Abe. Perché, lo conosci?” “Io
no... Non personalmente. Ma voi lo conoscevate?” “Io lo conoscevo quando
era bambino” dice quello dei due che non ha ancora parlato. Il primo è scuro
e un po’ rotondo. Il secondo che adesso mi ha rivolto la parola è magro, ha
i capelli bianchi e un’aria di squisita cortesia. Si presenta, si chiama Minton
Harris, anzi Mint, inglese di nascita, immigrato anche lui, venuto a fare il
minatore come gli scandinavi e i polacchi. Era amico della famiglia Zim-
merman. Mi dice della madre di Bobby, Beattie Stone: “Gran bella donna!
Voglio dire sveglia, intelligente. E suo padre, così una brava persona!” L’altro
gli fa eco: “Davvero una brava persona”. Si presenta anche lui. Si chiama Tom
Rupas, di origine greca, pure lui minatore. Conosceva bene Abe Zimmerman
e si ricorda di quando Bobby andava a lavorare nel negozio del padre, e mi
indica dov’era, lì a pochi passi, proseguendo su Howard Street in direzione
ovest e girando a destra dopo un paio di incroci.
“Poi un giorno Bob ha preso la sua chitarra, la sua moto, e se n’è parti-
to per New York” dice Mint Harris. “No, prima è andato all’Università del
Minnesota” dice l’altro, puntiglioso.
Gli chiedo se Beattie Stone vive ancora lì. No, mi dicono. Vive a Scottsda-
le in Arizona con la sorella Irene. Si era risposata dopo la morte di Abe ed
era andata a vivere a St. Paul, ma anche Joe Rutman, il secondo marito, poi
è morto. In estate però Beattie e la sorella vanno a Buffalo, vicino a Min-
neapolis, dove abita il figlio David con la famiglia e dove anche Bobby ha
comprato una fattoria. Mi chiedono come mai m’interessa sapere di Bobby.
Gli spiego che sto scrivendo un libro su di lui, ma faccio fatica a farmi
capire. Mint non afferra bene perché mai si dovrebbe scrivere un libro su
qualcuno, e su Bobby Zimmerman in particolare. Poi s’illumina. “Ah, sì,
dicono che sia una specie di poeta.” A quel punto si alza, saluta me e il suo
socio e se ne va. Rupas lo vede andar via di buon passo e osserva che non si
direbbe, ma Mint ha settantotto anni. Si alza anche lui, un po’ più fatico-
samente, e dice che mi porta a una taverna greca che sta vicino a Zimmy’s.
Vorrebbe farmi conoscere un certo professor Boratto, un italoamericano che

7
insegna inglese ai militari americani in Italia, ma alla taverna ci dicono che
quella sera non si è visto. Allora Tom mi presenta un greco di nome Andy che
sta a Hibbing da 27 anni, ha sposato una scandinava biondissima di nome
Debby, e tengono la taverna assieme. Debby sa molto di Hibbing (sa anche
chi è Bob Dylan), e mi dice che a Hibbing c’è di tutto, non è una città tutta
scandinava e luterana come molte altre del Minnesota. Ci sono russi, greci,
italiani, anche gli indiani Ojibwa, appena più a nord. Fin dal 1902 gli agenti
della Mahoning Mine, poi diventata Mahoning Hull Mine, stavano a Ellis
Island a reclutare gli immigrati appena arrivati dall’Europa per impiegarli in
miniera. Durante la Seconda guerra mondiale, quando le fabbriche d’armi
avevano bisogno di ferro, fino a 6000 persone lavoravano nei pits, i pozzi a
cielo aperto. Ora con la tecnologia basta un uomo solo a fare il lavoro che
prima facevano in sedici, e i minatori rimasti non sono neanche mille, ma
la città dipende dall’economia della miniera, che produce ancora moltissima
taconite. Hibbing ha 16.000 abitanti, ma non è una cittadina qualunque.
Basta vedere il numero e la diversità delle chiese, basta vedere quanto è im-
ponente la High School, basta andare alla biblioteca pubblica (ci sarei andato
il giorno dopo e sì, una “Dylan collection” c’era, anche abbastanza fornita).
E qui, aggiunge Debby, la tradizione democratica è fortissima, alle ultime
elezioni i democratici hanno preso il 98%. Hibbing è l’America, dice Debby, e
Tom Rupas le dà ragione. Ma è l’America meno i neri, penso io, che qui sono
pochissimi. È l’America meno il blues e meno il rock and roll, ed era questo
che Bobby Zimmerman cercava e qui non poteva trovare.
Pochi giorni dopo, il 16 agosto, sono alla stazione degli autobus di Min-
neapolis. Le sorgenti del Mississippi le ho viste, anzi mi sono spinto molto
più a ovest, fino alla Devil’s Tower del Wyoming, la montagna conica dove
Spielberg ha girato Incontri ravvicinati del terzo tipo. Ora ho restituito la Ford
Escort e sto aspettando l’autobus per Chicago, quando sento uno che chia-
ma: “Paesano!”. Dev’essere per me, nessun altro si volta o fa mostra di avere
capito. È Tom Rupas. Anche lui sta prendendo l’autobus. Deve andare alla
Mayo Clinic di Rochester, Minnesota, un istituto cardiologico dove, mi dice
orgogliosamente, hanno curato anche il re Hussein di Giordania. È stupito
che io, che secondo lui “ho girato tutto il mondo”, non l’abbia mai sentita
nominare. Deve farsi fare un controllo perché ha dei problemi all’aorta. È
vestito nello stesso, identico modo di una settimana prima a Hibbing. Senza
che io gli chieda niente, è lui che mi parla ancora di Abe Zimmerman. È

8
morto trent’anni fa, nell’estate del 1968. Tom Rupas si ricorda ancora di
quando Abe era tornato da Rochester e gli aveva detto: “Sono stato in clinica,
Tom, e mi hanno detto che sono a posto”, e il giorno dopo è morto. Aveva un
difetto al cuore, ma nel retro, in una posizione dove allora la chirurgia non
poteva arrivare. Adesso è diverso, adesso sarebbe facile, mi dice speranzoso
mentre sale sull’autobus e mi saluta con la mano prima di sparire dietro ai
finestrini oscurati.

9
Fans

È dal 1970 che ascolto Dylan, colleziono Dylan, ritaglio articoli, raccolgo libri
su di lui, aspetto ogni suo nuovo disco e ora copio pagine web, e non mi è
mai capitato, fino all’estate del 2001, di frequentare l’ambiente dei suoi fans.
Non l’ho mai cercato e me ne sono anche tenuto lontano. Dylan era mio, e
non mi era facile dividerlo con altri. I pochi amici che simpatizzavano con
la mia passione li avevo conosciuti prima di scoprire Dylan o per motivi che
con Dylan non avevano nulla a che fare. Dylan era subentrato più tardi, ad
amicizia già consolidata. E poi solo uno di loro, forse, poteva essere definito
un fan. Appassionati sì, gli altri, ma non possedevano nemmeno la discografia
completa, e avevano sì e no qualche bootleg. Troppo poco per entrare nella
gerarchia dei fedeli d’amore. Abbastanza, per me, per poter parlare di Dylan
con loro: moderatamente, senza esagerazioni, trattenendo il fuoco e osten-
tando magari, in loro presenza, quel poco di distanza critica che in privato
escludevo regolarmente dalle mie ore di ascolto, di lettura e di decriptazione
dei testi.
Dico decriptazione perché per anni i suoi testi li avevo guardati, o ma-
gari cantati, ma non li avevo veramente letti. Non è che li capissi molto,
questa era la verità, e le traduzioni in circolazione non mi erano di grande
aiuto. Poi ho cominciato a decifrarli come un archeologo che non ha ancora
trovato la sua stele di Rosetta; infine li ho proprio decodificati, sentendomi
come l’ufficiale di un servizio segreto che deve capire che cosa trasmette una
potenza straniera. Per lo più erano scoperte che avvenivano in privato, delle
quali ero geloso e anche timoroso. Non volevo essere scoperto e additato
come un “dylaniano”. Senza conoscere la teoria provenzale dell’amore, sa-
pevo già che ogni vera passione va tenuta nascosta. I maldicenti, si sa, sono

10
sempre pronti a ridurla a un pettegolezzo o peggio a servirsene contro di te.
Preoccupazione inutile. Maldicenti simili, negli anni settanta, non ce n’e-
rano. Occasionalmente, è vero, mi capitava di fare delle gaffes. A un ragazzo
americano incontrato in Germania nel 1978 avevo confessato il mio peccato
dylaniano, e lui aveva scosso il capo: Dylan non era più nessuno, il futuro
erano Loggins & Messina. Allora non sapevo che Street Legal aveva lasciato
freddi i critici americani e che Dylan stava ancora soffrendo del naufragio di
Renaldo & Clara. Io Renaldo & Clara l’avevo visto in versione ridotta in Italia e
non mi era dispiaciuto. Pauline Kael aveva scritto sul “New York Times” che a
guardare quel film sembrava di assistere al naufragio dell’Invincibile Armata,
tante erano le reputazioni che faceva sprofondare, ma io che ne sapevo? Nel
1975, a Londra, mi ero perfino visto Don’t Look Back senza capire una sola
parola del dialogo tra Albert Grossman e Tito Burns. Bastava che ci fosse
Dylan. Bastava vederlo, in effetti, perché chi l’aveva mai visto? Non si dice
dal vivo, ma nemmeno in televisione. Dylan, poi, non si riusciva a coglierlo
bene neanche in fotografia: troppo sfuggente il suo volto, troppo diverso da
una copertina all’altra, come diversa era la sua voce da disco a disco.
Ho menzionato l’amore cortese. Nel suo tragitto dai paesi d’Arabia al
più gentile sole di Provenza, la teoria del fin’amor distingue quattro livelli di
innamoramento e altrettante figure di innamorati. Il fenhedor, o spasimante,
è colui che non è ancora entrato nemmeno nella più misera grazia dell’amata,
e digiuna fuori dalle porte del castello. Il precador, o supplicante, ha ottenuto,
dopo anni e fatiche inenarrabili, il privilegio di impetrare da lei uno sguar-
do, un cenno, un riconoscimento della sua esistenza e del suo struggimento.
L’entendedor, o amante accettato, ha accesso alle stanze di madonna, può rivol-
gerle la parola, può ascoltare una sua risposta, godendo perfino del privilegio
di essere sottoposto alle durissime prove di fedeltà che lei gli imporrà e che
lui affronterà senza un tremito. Può darsi che a suo modo sia più felice lui
del drut, l’amante carnale, colui che infine ha giaciuto nel letto della dama,
magari tutta la notte senza nulla tentare e alzandosi al mattino rigido come
un palo (come vuole il rito dell’endura), oppure godendo le gioie colpevoli di
quell’amore passionale che, secondo l’illustre parere della contessa di Cham-
pagne, puntualmente riportato nel De amore di Andrea Cappellano, non è
possibile tra coniugi ma solo e unicamente al di fuori dei vincoli coniugali.
Forse, tra queste figure dello spasimo d’amore, l’unica che mi volevo
ritagliare era proprio quella del Cappellano, colui che descrive e discetta di

11
una passione di cui apparentemente non è affetto o, se lo è, non si capisce
in quale misura. Ma ho dovuto riconsiderare la mia presunzione (perché
prima o poi doveva capitare) nel momento in cui sono divenuto compagno
di strada di una corte di pellegrini dylaniani in viaggio verso una Santiago
di Compostela temporaneamente collocata sulle colline di Alba, provincia
di Cuneo. L’occasione era il Never Ending Birthday, il festival dylaniano di
quattro giorni, primo in Italia, che si sarebbe svolto nella città delle Langhe
dal 24 al 27 maggio del 2001, in occasione del sessantesimo compleanno
di Bob Dylan.
Ora, il fenhedor dylaniano, il mero spasimante, è colui che si è bevuto
le leggende dylaniane messe in giro negli anni sessanta e da lì non si è più
mosso. Vuole ancora sapere com’è che Dylan è andato a letto con Joan Baez
e com’è che poi non ci è andato più. Ce l’ha ancora su con Dylan perché con
Nashville Skyline si è messo a fare il country, che come si sa era di destra, e
ci ha perfino fatto cantare Johnny Cash, che come si sa era un fascista (solo
in Italia, beninteso, si sentivano dire simili scemenze). Il precador, il suppli-
cante, è invece quello che sa tutto sul suo oggetto d’amore, ma non l’ha mai
incontrato e non osa nemmeno sperarlo. Vorrebbe almeno toccare un lembo
del mantello di qualcuno che gli è stato vicino, e chi a suo tempo ha fatto
parte dell’entourage dylaniano diviene ai suoi occhi poco meno di un petalo
della rosa mistica.
Per esempio, fra i precadores del Never Ending Birthday corre come un
lampo la notizia che io, nella mia umile persona, ho conosciuto Suze Rotolo,
la fidanzata dylaniana dei suoi primi anni a New York, quella che compare
sulla copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan. Ma è stato un incontro molto
breve, dico, cercando di farmi piccolo piccolo. Ho parlato più con suo figlio
Luca che con lei. Eravamo alla Casa Italiana della New York University dove
lei inaugurava una mostra di suoi dipinti e collages (ne realizzava di picco-
lissimi, lavorati come preziosi ex voto, tra cui una microriproduzione della
copertina di cui sopra, contornata da frammenti, anch’essi rimpiccioliti,
dell’epistolario tra lei e Bob del periodo in cui lei era in Italia e Bob le scri-
veva canzoni, accompagnati da commenti come questo: “Ci occupavamo di
cose serie, allora. Non era vero che fosse tutto sesso, droga e rock and roll”).
Ho parlato con suo figlio perché si portava appresso una splendida chitarra
Martin da seimila dollari con la quale arpeggiava accordi e gli ho chiesto se
me la faceva provare. “Ma non le hai chiesto niente di Bob?” mi chiede il

12
mio accompagnatore da Milano ad Alba, sgomento all’idea che io abbia perso
l’occasione. No, non le ho chiesto niente. Non sono bravo a intervistare la
gente, non ci sono mai riuscito, se ne fossi capace farei il giornalista. Prima di
riuscire a far domande a una persona devo entrare in confidenza, rilassarmi
e farla sentire rilassata. Quello non era il momento. E poi c’era lì suo marito
Enzo, un regista di documentari che era pure grande e grosso, insomma
sarebbe stato imbarazzante.
Non importa. Quello che ho detto è sufficiente per far scattare un tele-
fonino. “Non ci crederai mai,” comunica la mia guida a un precador dall’altra
parte della linea, “Suze Rotolo fa la pittrice, ha sposato l’italiano che aveva
conosciuto in Italia quando aveva mollato Bob la prima volta e suo figlio
suona canzoni di Dylan alla chitarra”. A parte l’improvvisata leggenda finale
(io avevo detto accordi, non canzoni di Dylan), vengo preso da un moto di
ammirazione per la mia guida (intanto stiamo arrivando ad Alba). Alla sua
età avrei avuto la stessa reazione, ma avrei cercato di non farmi scoprire, di
non essere così indifeso. Vedi cosa vuol dire avere un gruppo di supporto di
fondamentalisti dylaniani, quello che a me è mancato quando sarebbe stato
il momento.
A meno che non sia stata una benedizione il non averlo. Quella sera
stessa il precador che aveva ricevuto la telefonata riguardante Suze mi seque-
stra nella sua automobile e mi fa ascoltare una registrazione che gli è appena
arrivata. È l’ultimo concerto del 2000, catturato a Towson, nel Maryland,
il 19 novembre. Il pezzo in questione è Mr. Tambourine Man. Quante volte
l’ho sentito, e in quante vesti? Ma è vero, Dylan riesce a stupirmi ancora. È
un’esecuzione strepitosa, un acoustic hard rock nel quale la voce si mangia
il microfono a ogni fine di verso. È Dylan nella sua migliore interpretazione
del Lupo Cattivo, e il mio precador è strafelice di fare la parte di Cappuccetto
Rosso. “Ma la senti questa roba? Ma la senti?” mi ripete. “E quando tu ascolti
una cosa del genere cosa puoi dire? Cosa ti viene in mente? Puoi solo ringra-
ziare tua madre di essere nato!”.
Il giorno dopo, in una pausa tra i concerti, mi si avvicina un signore che
porta un paio di occhiali fini, molto magro e molto gentile, con un’aria un
po’ fuori posto in quella circostanza, per chiedermi che cosa ne penso dei
rapporti tra Dylan e l’esoterismo. Mi spiega che mi ha sentito parlare alla
tavola rotonda del giorno prima e ha colto una mia osservazione sul “lato
esoterico della voce di Dylan”. Gli è venuto in mente che sul retro copertina

13
di Desire fa bella mostra di sé l’Imperatrice dei tarocchi del mazzo Waite e
che anche in Changing of the Guards si colgono riferimenti ad alcuni degli
arcani maggiori, e vuole sapere se io, insomma, ne so di più.
Confesso di amare molto coloro che vivono perennemente sull’orlo di una
rivelazione alla quale temono di non accedere mai se non troveranno il libro
giusto, il maestro giusto, il malleus che permetterà loro di forzare il grigio
mondo della forza di gravità. Non mi era mai passato per la mente che Dylan
potesse essere un maestro dell’occulto, ma mi piace investigarne la possibili-
tà. In fondo Harry Smith, il compilatore di quella Anthology of American Folk
Music che tanto aveva influenzato il folk-revival, si era davvero interessato di
cosmologie arcane. Aveva meditato sul concetto pitagorico di musica delle sfere
e l’aveva applicato a suo modo. Seguendo il principio della Tabula smaragdina,
in forza del quale ciò che sta in alto non può essere diverso da ciò che sta in
basso, aveva rovesciato la gerarchia musicale. La musica delle sfere, la più alta, la
più inaccessibile e inudibile delle musiche, per Smith coincideva con la musica
popolare, vale a dire la più bassa e volgare, quella prodotta dai corpi e dalle voci
dei mortali. Altrimenti perché avrebbe fatto stampare sulla copertina del suo
cofanetto di folksongs l’immagine di Dio che accorda il monocordo del mondo,
presa dall’Utriusque Cosmi Maioris del pitagorico Robert Fludd?
Dico queste cose al mio interlocutore, e vedo che ne è abbastanza
soddisfatto. Mi rivela che non seguiva più Dylan da molti anni ma che
ultimamente gli si è riavvicinato. Nei suoi anni di esilio dylaniano non è
stato inoperoso. Il giorno dopo, infatti, mi mostra i suoi libri: un trattato
su Antonio Rosmini, un pamphlet su Giovanni Gentile come filosofo dell’a-
more universale, sulla cui copertina campeggia un ritratto di Gentile da
morto, non meno imponente che da vivo. Tutto è puro per i puri, e il mio
interlocutore è un puro. Gentile filosofo dell’amore? In anni non sospetti
aveva concluso un’edizione della Teoria generale dello spirito come atto puro
con un paragrafo sull’amore universale, ma che cosa l’aveva spinto nel 1943,
con tutto quello che gli accadeva intorno, a ribadire nell’ultima revisione
della sua Filosofia dell’arte che tutto si fa per amore, e anche chi va in guerra
ci va per amore? Il mio interlocutore non mi perdonerebbe mai il paragone,
ma anche Charles Manson, ai giudici californiani che lo condannavano per
l’omicidio di Sharon Tate, disse che aveva ucciso per amore e che nessuno fa
nulla se non per amore. “È l’amore che fa girare il mondo”, canta Dylan in
I Threw It All Away, e nessuno capirà mai se anche lui è un puro o se ci sta

14
prendendo in giro. Basta mettersi d’accordo sul tipo di amore di cui stiamo
parlando: se è quello che muove il sole e le altre stelle, o se nel mio desiderio
di te si cela ogni spietatezza, o se i due amori non sono, impensabilmente,
la stessa cosa (Dylan ha cominciato a chiederselo con It Ain’t Me, Babe, e
da allora non ha mai smesso).
Durante il pomeriggio cerco rifugio dal caldo nelle molte stanze che si
affacciano su un lungo porticato. Varie installazioni trasmettono video non-
stop. Mi siedo a guardare Dylan e Springsteen che cantano Forever Young alla
cerimonia della Rock and Roll Hall of Fame del 2 settembre 1995, ma dopo
pochi secondi l’unica altra persona che è con me nella stanza si volta nella
mia direzione e senza nessun preambolo mi fa questo discorso: “L’ho sentita
parlare ieri e c’è una cosa che le volevo chiedere. Mi permetta, sono un co-
struttore di macchine agricole qui della zona e seguo il pensiero positivo. Io
dico questo, Dylan a me è sempre piaciuto, però da quando seguo il pensiero
positivo mi sono accorto che lui è uno che si lamenta, ma si lamenta tanto,
basta sentire come canta, con questo gne gne che fa con la voce e che non
finisce mai. E poi anche questo fatto di fare il cantante di protesta. Se uno
protesta vuol dire che non è contento, no? E allora vuol dire che non segue il
pensiero positivo. Io da quando seguo il pensiero positivo sono diventato più
sereno, insomma vivo meglio, anche sul lavoro sono meno stressato. Invece
Dylan, ecco, mi sembra che sia uno che si lagna troppo, che non è positivo.
Con questo non voglio mica dire, a me piace lo stesso, ma lei mi dica, in
America è seguito il pensiero positivo?”
C’è ragione di tirare un respiro di sollievo. Il dylanista rosminiano (con il
quale sono rimasto in un contatto epistolare che mi è prezioso) e il dylanista
positivo non sono più fenhedores né precadores. Forse sono uscito dall’inferno
degli amanti disperatamente esclusi dalla rivelazione dell’oggetto amato. Ora
mi trovo nel purgatorio di coloro che una rivelazione l’hanno avuta. Forse
non è stato proprio Dylan a mandargliela, forse sono stati Antonio Rosmini o
Anthony De Mello (il filosofo del pensiero positivo che insegna ai polli a cre-
dersi aquile), o magari anche Giovanni Gentile (anche il suo era un pensiero
positivo, perfino troppo), ma almeno l’hanno avuta, ci possono convivere, e
hanno davvero modo di far posto a Dylan nel corso della loro relativamente
serena residenza sulla terra.
Molto meglio loro del dylanista ex massone che avrei incontrato a Min-
neapolis nel marzo del 2007, e che davvero mi pareva qualcuno che stava

15
sulla porta senza mai decidersi a entrare né a uscire, convinto che in Dylan
si celassero profondi segreti dell’arte muratoria. A Hibbing c’era una loggia
massonica, mi dice convinto, ed è vero, anch’io ho visto l’insegna su Howard
Street, ma dubito che Abe ne facesse parte o che avesse passato l’appartenenza
al figlio. Aggiunge che non mi può dire di più ma non è vero, muore dalla
voglia. Riesco a estorcergli che la canzone più massonica di Dylan è I Shall
Be Released, per via dell’accenno alla luce della libertà che viene “from the
West unto the East”, dall’ovest fino all’est. Gli do corda, gli dico che anche
in Isis il narratore dice di venire “from the East with the sun in my eyes”, il
che vuol dire che la luce del tramonto lo illumina da occidente. Lui annuisce,
si prepara a dire qualcosa di grande e di arcano, qualcosa che evidentemente
gli costa fatica, ma proprio a quel punto il dylanologo Michael Gray, che è
con noi e che non sopporta discorsi né mistici né misterici, interviene per
chiedere con decisione di cambiare argomento. Lo spiraglio che mi era stato
aperto si richiude, l’occasione è perduta, e io resterò per sempre escluso
dall’ultimo segreto.

16
Concerti

Nell’agosto del 2003 la rivista “New Scientist” ha pubblicato uno studio su


una nuova sindrome identificata come CWS o “Celebrity Worship Syndro-
me”, un’infatuazione per la vita di personaggi famosi che può trasformarsi
in una dipendenza totale. Lo studio, condotto su un campione di seicento
intervistati, mostra che per gli infatuati esiste un problema di peggioramento
progressivo, e quello che in origine era un divertimento innocuo si può tra-
sformare in una ossessione pericolosa per sé e per gli altri. La maggior parte,
è vero, riesce a contenersi. La loro passione li rende socievoli, estroversi e
vivaci. Più o meno un terzo di loro, però, finisce per sviluppare una relazio-
ne intensamente personale con il proprio idolo, al punto di credere di avere
stabilito con lui un legame particolare, di natura animica o telepatica. Questo
è il momento in cui l’adorazione si trasforma in dipendenza e il soggetto si
fa nevrotico, ansioso, aggressivo e socialmente disfunzionale. Una piccola
percentuale, circa un decimo, arriva a pencolare sul versante patologico. Sono
coloro che si mettono a seguire il loro idolo dovunque e che fanno del male
a se stessi e ad altri in nome suo. Il loro comportamento si fa antisociale e
totalmente egocentrico. La progressione verso la psicosi è iniziata e non c’è
modo di sapere se potrà essere fermata.
Chi va ai concerti di Bob Dylan? Quale segmento di umanità è disposto
a farsi chilometri e chilometri, attese sotto il sole o sotto la pioggia incipien-
te, come li ho visti ieri sera alla Villa Pisani di Stra, per ascoltare la millesima
versione di canzoni che sanno più che a memoria? Molte altre star della mu-
sica rock chiedono e ottengono dal loro pubblico gli stessi sacrifici e la stessa
adorazione, ma in un concerto di Dylan c’è nell’aria qualcosa che non ha
niente a che fare con lo statuto della rock star o del personaggio degli anni

17
sessanta sopravvissuto alle ingiurie del tempo. Ai suoi appassionati, o per
meglio dire ai suoi devoti (perché Dylan, che lo voglia o no, è il Mosè di una
religione laica), Dylan promette la rivelazione dell’irripetibile, l’occasione di
essere i primi e forse gli ultimi ad ascoltare una variante minima, un cambio
di voce, un nuovo arrangiamento, una strofa riscritta che da sola donerà
una luce del tutto nuova a canzoni che si credeva di avere già sviscerato,
inghiottito e digerito. Dylan, insomma, è la prova vivente che l’arte non può
essere il puro risultato di un freddo processo di comunicazione che procede
da A a B. Dylan sta dimostrando da sempre, ma ancora di più dal 1988,
da quando ha iniziato il suo Neverending Tour di cento-centoventi concerti
ogni anno, che l’arte non è un artefatto, l’arte è azione, prassi, militanza, e
soprattutto conversazione.
Dylan non conversa con il pubblico, non fa l’entertainer. Anche ieri sera
a Villa Pisani, sotto la pioggia, ha parlato solo per ringraziare brevemente
la folla bagnata e per presentare il suo gruppo. Dylan conversa con le sue
canzoni, le ascolta e vi risponde, a distanza di anni e addirittura di decenni,
come l’ho sentito fare nel corso di una Girl of the North Country riarrangiata
un’ennesima volta e che pure aveva ancora qualche cosa da dire. Con questo
suo incessante conversare con la propria opera, Dylan porta la conversazione
tra il pubblico, gliela dona senza preoccuparsi di come il dono verrà accolto,
accende promesse di significato che altri dovranno decifrare, fa i bagagli e
passa al prossimo concerto.
La maggioranza del suo pubblico è costituita da persone cresciute insieme
a lui, ma anche da trentenni e ventenni. Alcuni sono solo curiosi, altri sono
stati trascinati al concerto dal lavaggio del cervello che hanno subito ad opera
di genitori e fratelli maggiori, ma molti altri sono lì perché intuiscono che
l’alone della grandezza, in un mondo così labile come la popular music, è una
cosa rara, e quando si presenta all’orizzonte non la si può mancare. Oppure
vogliono capire che cosa fa di una canzone, questo medium in apparenza così
fragile, qualcosa che può durare decenni, sopravvivere a tutto, fino a trasfor-
marsi nell’equivalente moderno delle ballate popolari che hanno sorvolato
secoli di guerre e rivolgimenti per arrivare fino a noi magari sbrecciate e
incomprensibili, ma il cui mistero è rimasto intatto.
Dylan trasmette la sensazione che dietro ogni grande canzone si nasconda
un mistero profano, uno scrigno che non si esaurirà mai, non importa quante
volte verrà aperto. È una rivelazione intensa, a tratti anche sconvolgente. Può

18
far perdere la testa, come nel caso di quel tale (riportato alcuni mesi fa da
giornali americani) finito all’ospedale per una severa depressione nata dalla
disperazione di non riuscire a decifrare quelli che gli sembravano i messag-
gi cristiano-esoterici nascosti nel disegno che fa da copertina a Slow Train
Coming e che anche all’ospedale, con la flebo nel braccio, smaniava che gli
portassero il disco.
Fulminati di questa sorta, non è un segreto, si trovano sotto il palco di
ogni concerto dylaniano. Sono stati colpiti dal mistero senza le adeguate pro-
tezioni dell’ironia e dell’equilibrio, e se alcuni sono solo innocui ragionieri
della contabilità dylaniana, contenti di computare quante volte ha eseguito
quella particolare canzone o se quel certo verso l’ha cantato con l’ultima nota
che puntava verso l’altro o verso il basso, altri sono più inquietanti. E sono
sempre gli stessi, è un club molto ristretto. Qualunque concerto Dylan dia in
ogni parte del mondo, in prima fila sotto il suo palco, oltre agli appassionati
occasionali che per quella volta sono riusciti a intrufolarsi e sono contenti così,
si possono incontrare sempre le stesse venti-trenta persone. Alcune investo-
no l’intero patrimonio familiare nel seguire Dylan concerto dopo concerto,
città dopo città, albergo dopo albergo. Altri lavorano duramente solo sei mesi
all’anno, mettendo via ogni soldo che possono, per poi seguire Dylan in tutti
i suoi tour. Si dirà che lo facevano anche i Deadheads, i seguaci dei Grateful
Dead, ma c’era una differenza. Molti dei Deadheads non andavano nemmeno
ai concerti. Si accampavano fuori dagli stadi dove suonava il gruppo e com-
binavano i loro affari, comprando, vendendo e barattando, vivendo come una
plebe itinerante, un’armata Brancaleone al seguito del suo corteo di signori. I
Dylanheads, invece, non potrebbero sopportare di non ascoltarlo, di non essere
sotto il palco a qualunque costo, aspettando la prima volta che eseguirà You
Ain’t Goin’ Nowhere dopo settantacinque concerti che non la faceva, pronti a
quel punto a balzare al collo del loro vicino e a strangolarlo dalla gioia.
Pare che una volta sia accaduto questo: c’era un Dylanhead fisso sotto il
palco, sempre alla sinistra, un bretone grande e grosso che assisteva a ogni
concerto incrociando le braccia e non facendo mistero di non gradire per
nulla quello che sentiva, reputandolo forse insufficiente rispetto a un ideale
concerto di Dylan che solo lui aveva in mente. Una volta Dylan, in una pausa
tra una canzone e l’altra, si chinò a dirgli qualcosa. Un brivido corse tra i
Dylanheads presenti. La rivelazione era arrivata, la Voce aveva parlato a uno
di loro. Ma chi gli stava vicino aveva sentito quello che Dylan gli aveva detto.

19
Pare che fosse qualcosa come: “Io a te non ti voglio più vedere, hai capito?”.
In un’intervista rilasciata a Roma il 23 luglio 2001, Dylan ha affermato
con forza di non suonare mai per chi sta nelle prime file, ma solo per chi sta
dietro, possibilmente nelle ultime. È solo al di fuori del semicerchio degli
eletti-condannati che si trovano coloro che da un concerto di Dylan possono
portare a casa qualcosa che non avevano prima. E quando si trovano al loro
fianco qualcuno che è loro figlio o potrebbe esserlo, e che inizia a seguire
perplesso e ammirato quello che sta accadendo sul palco, hanno un solo
rimpianto: vorrebbero essere come lui, scoprire ora Dylan per la prima volta,
e avere tanti anni davanti per esplorare ancora quello stesso continente che
quel giovane ha appena intravisto.
A suo modo, però, lo scorbutico bretone era riuscito ad accedere al ruolo
di entendedor, colui che si è rivolto direttamente all’oggetto d’amore e a ne ha
avuto in cambio un cenno di risposta. Non dei più incoraggianti, è vero, ma
le midons dei poeti cortesi spesso non erano affatto più gentili con i loro spasi-
manti, e imponevano prove peggiori che seguire centoventi concerti all’anno.
Per andare oltre si dovrebbe aprire un capitolo sul drut, drudo o druda che sia,
o amante carnale. Ma qui la cronaca lascia il posto all’ignoto. Uno dei misteri
degli anni sessanta è questo: come mai le centinaia di ragazze che hanno fatto
la fila fuori dai camerini dei Beatles e delle altre rock star non hanno mai
raccontato niente alla stampa? Come mai non c’è nessun resoconto del tipo
“la mia notte con Paul” sul quale i biografi abbiano potuto mettere le mani?
Quale tipo di arcano rispetto sentiva la groupie del momento? Solo le donne
che hanno avuto relazioni più lunghe hanno poi tradito, raccontando tutto ai
giornalisti o cercando di strappare un contratto per un libro di memorie salaci.
L’amante occasionale, bisogna dirlo a suo onore, non l’ha mai fatto. Dobbiamo
quindi accontentarci dei particolari lasciati cadere da famuli e camerlenghi: che
Dylan nelle sue stanze d’albergo chiude le finestre, spegne l’aria condizionata
e vive in un caldo uterino degno di un’incubatrice; che il disordine che lascia
dietro di sé è irrimediabile; che sul comodino tiene Shakespeare o un’edizione
illustrata della Genesi. Di più non dobbiamo né vogliamo sapere.
Anche perché la rivelazione del drut non è affatto la più alta. Ci vuole un
altro testimone, qualcuno che appartiene a gerarchie angeliche più elevate.
Dopotutto “there must be some way out of here“, ci dev’essere un modo per
uscire di qui, via dal compleanno infinito, dalla tournée infinita e da tutte
le ossessive ripetizioni delle dimore terrene. Dylan ha riempito di wind tante

20
sue canzoni, facendole vibrare di ruach ebraico, di pneuma greco e di spiri-
tus latino. E se la rivelazione fosse proprio questa? Se l’amore che fa girare
il mondo fosse proprio questo vento spietato e impersonale che non tollera
defezioni lungo il cammino e che infine coincide con l’ispirazione? D. H.
Lawrence ha scritto, nei suoi Studies in Classic American Literature, parlando
di Whitman: “Se non viviamo solo per mangiare, nemmeno viviamo solo
per amare. Viviamo per stare soli e per ascoltare lo spirito santo che è dentro
di noi, e che è molti dèi. Molti dèi vanno e vengono, alcuni dicono una cosa
e altri ne dicono un’altra, ma noi dobbiamo obbedire al dio che sta dentro
di noi, il dio dell’ora più nascosta dentro di noi. È la molteplicità degli dèi
dentro di noi a costituire lo spirito santo”.

21
Democrazia

Il Weisman Art Museum di Minneapolis sorge a strapiombo sul Mississippi,


qui un fiume ancora selvatico e poco navigabile, all’ingresso del vasto campus
della University of Minnesota. Il lucente rivestimento in acciaio delle pareti,
ora sinuoso, ora angoloso o scaglioso, tradisce la mano di Frank Gehry, che
ne ha fatto una sorta di prova generale del museo Guggenheim di Bilbao. È
qui che è ospitata la mostra “Bob Dylan’s American Journey 1956-1966”, il
viaggio americano di Bob Dylan, che ha già girato altri musei degli Stati Uniti
e la Morgan Library di New York. Dylan ovviamente non si è fatto vedere,
perché di regola sta lontano dai luoghi in cui si parla di lui, soprattutto se
sono scuole o musei. Ma Colleen Sheehy, curatrice della tappa weismaniana
della mostra, grazie a numerosi viaggi tra Minneapolis e Hibbing è riuscita a
raccogliere testimonianze che nessun altro museo è stato in grado di mostra-
re. Una delle prime in cui si imbatte il visitatore è una consunta scrivania di
legno scuro sulla quale molti compiti, si capisce, sono stati corretti.
Proveniente dalla Scuola Superiore di Hibbing, è la scrivania di Boniface
J. Rolfzen, il professore di inglese di Dylan. Su un leggìo giace l’antologia della
letteratura americana, fittamente annotata, che Rolfzen usava per le sue lezio-
ni, aperta alla pagina di Steinbeck. Sopra la scrivania, in una teca, sta l’unico
“tema” sopravvissuto degli anni liceali di Bob Dylan. Il titolo è: Steinbeck prova
simpatia per i suoi personaggi? “Sì, penso che Steinbeck provi simpatia per i suoi
personaggi” inizia il tema Robert Zimmerman, 16 anni, il 24 febbraio 1958,
“e ora cercherò di dimostrare la mia tesi. Naturalmente non prova simpatia
per ognuno di loro in ciascuno dei suoi libri, ma prova simpatia, così credo
io, per molti di loro. Ho esaminato tre dei suoi libri di maggiore successo per
dimostrare ciò”. Il tema continua per ventidue pagine (scritte piuttosto larghe)

22
e i tre testi presi in considerazione sono Cannery Row (che Dylan menzionerà
nel 1966 in Sad-Eyed Lady of the Lowlands), La valle dell’Eden (forse aveva già
visto il film con James Dean, uscito nel 1955) e Furore, che oltre al film di
John Ford aveva ispirato a Woody Guthrie la lunga Ballad of Tom Joad, la stessa
che pochi anni dopo Dylan avrebbe eseguito infinite volte nelle coffehouses di
Dinkytown, il quartiere studentesco di Minneapolis.
Ho incontrato B. J. Rolfzen a Hibbing. Come dieci anni prima, ero a un
tavolo di Zimmy’s, dove mi ero fermato insieme a una comitiva di pellegrini
dylaniani, dylanisti e dylaniati lì giunta in occasione del convegno “Highway
61 Revisited: La strada di Dylan dal Minnesota al mondo” tenuto alla Univer-
sity of Minnesota dal 25 al 27 marzo 2007. La cucina di Zimmy’s nel frattem-
po non è migliorata, e io non so se Dylan abbia fatto la pace con Hibbing, ma
certamente, da quando ci sono stato nel 1998, Hibbing ha fatto la pace con
Dylan. La “Dylan Collection” della biblioteca è cresciuta considerevolmen-
te, la libreria locale affacciata su Howard Street vende libri dylaniani anche
piuttosto rari, conferenze e altri eventi vengono organizzati a ogni comple-
anno, i tour che portano nei luoghi dylaniani sono abbastanza frequenti, e
nessuno si stupisce più dei turisti che vanno al 2425 della 7th Avenue East,
ora ufficialmente nominata “Dylan Drive”, a fotografare la piccola casa az-
zurra dove Dylan è cresciuto (l’attuale proprietario, il signor Gregg French,
a volte li fa anche entrare per far loro fotografare il piano terra). Ma il tutto
è gestito con molto contegno e con molto decoro genuinamente provinciale.
Hibbing è destinata a diventare, nel futuro, uno dei santuari dylaniani, ma
non sarà mai come Graceland, la casa-museo di Elvis Presley a Memphis, nel
Tennessee, che trasmette una sensazione intollerabile di grandezza strozzata,
di genio mescolato a una burinaggine davvero tragica.
Seduto a un tavolo di Zimmy’s, ottantaquattro anni, curvo, costretto a
camminare con un treppiede per via di un ictus, assistito dalla moglie Leona,
radiosa per le attenzioni riservate al marito, Rolfzen vendeva copie della sua
autobiografia dei tempi della depressione, uno scarno “memoir” intitolato The
Spring of My Life, la primavera della mia vita, una storia di povertà assoluta,
sconfitta solo dalla determinazione, altrettanto assoluta, di voler accedere alla
cultura. Rolfzen ha insegnato inglese a Hibbing per trentacinque anni, dalle
medie inferiori fino al Community College. Robert Zimmerman (Rolfzen è
l’unica persona al mondo che lo chiama “Robert”) aveva cominciato a fre-
quentare le sue lezioni nel 1958.

23
Dylan è sempre stato molto guardingo nel confessare le sue passioni lette-
rarie giovanili, ma Rolfzen ha un ricordo preciso del suo allievo: “Ogni giorno
occupava il terzo posto della fila, in prima fila, davanti al mio leggìo. Non
guardava né a sinistra né a destra, guardava dritto in faccia a me. Me lo ricor-
do”. E Dylan stesso, in una delle sue rare visite alla cittadina dove è cresciuto,
ha voluto incontrarlo e pare gli abbia detto: “Lei mi ha insegnato molto”.
Il 4 settembre del 1916, mentre la prima guerra mondiale infuriava
in Europa, il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson pronunciò un
discorso a Hodgenville, nel Kentucky, in occasione dell’inaugurazione del
monumento eretto intorno alla baracca di legno dove il 12 febbraio del 1809
era nato Abraham Lincoln. Alla natura non interessano i titoli nobiliari, disse
Wilson. Il genio non è uno snob. Sceglie i suoi compagni, le sue avventure,
perfino la sua culla, dove più gli aggrada, e questa casupola ne è la prova.
“Non c’è nessun luogo” continuò Wilson, “che sia così remoto, così umile,
che non possa racchiudere la forza dell’animo e del cuore, e della coscienza
alla quale le nazioni si inchinano e a cui la storia sottomette il suo corso. È
qui, nientemeno, che si cela il mistero della democrazia”.
Queste parole sono state evocate da Greil Marcus durante il convegno
dedicato a Dylan, per rispondere a una domanda che si era sentito rivolgere in
California (“Com’è possibile che uno come Dylan venga da un posto sperduto
come Hibbing?”). La risposta, ha osservato Marcus, stava nell’imponente
edificio pubblico che avevamo visitato il giorno prima: la Scuola Superiore
della città, costruita negli anni venti grazie a un sindaco socialista che aveva
imposto alle compagnie minerarie di investire parte dei loro guadagni in
opere pubbliche. La Hibbing High School è impressionante ancora oggi, una
vera fortezza neo-Tudor con pilastri e bagni di autentico marmo di Carrara,
decorazioni rococò sui soffitti, una magnifica biblioteca affrescata e con tanto
di citazioni di Tennyson alle pareti, nonché un auditorium di 1800 posti
illuminato da autentici lampadari di Boemia. È lì che Bobby Zimmerman
diede il suo primo concerto nell’autunno del 1957, prontamente fischiato da
chi non si aspettava che un bravo ragazzo ebreo, figlio di un commerciante
di elettrodomestici, si scatenasse in un rock and roll alla Little Richard.
D. H. Lawrence non amava molto la democrazia americana. La trovava
ridicola nelle sue pretese egualitarie, e amava invece la strada, the road, soste-
nendo che era quello il luogo dove gli americani prima o poi si incontravano
davvero, non nelle loro orgogliose e secondo lui fasulle mitologie politiche.

24
Ci avrebbe pensato il poeta Conrad Aiken a rispondergli per le rime, in una
recensione intitolata Mr. Lawrence: Sensationalist, facendo della sana ironia
americana sul fatto che Studies in Classic American Literature sembrava scritto
da un indemoniato il quale, chissà perché, attribuiva molta importanza a una
certa cosa chiamata spirito santo.
Il mistero della democrazia sta qui, in una scuola pubblica che se fosse
costruita oggi sarebbe accessibile solo a chi può pagare quarantamila dollari
all’anno; che impone rispetto a chi ci entra ma in cambio lo dà, in cui un
insegnante sapeva che cosa vuol dire venire dall’emarginazione più dura e
dove per svolgere un tema di terza liceo bisognava leggere tre romanzi di
Steinbeck. E non è che Rolfzen, il quale mi saluta stringendomi entrambe
le mani, tremando, prima di uscire lentamente da Zimmy’s sorretto dalla
moglie, fosse poi così generoso con il suo Robert. Il tema su Steinbeck meritò
solo un “B”. Che una volta però era un bel voto.
Il mistero della democrazia sta anche on the road, certamente, la road di
Withman e di Guthrie, di Steinbeck e, fatte le debite differenze, di Kerouac.
E di Dylan, che come loro ha unito la democrazia e l’avventura, lo spirito e
l’ironia, il vento che è blowin’ quando i tempi stanno per cambiare e che è un
idiot wind non appena i tempi ristagnano, fino a che torneranno a cambiare
ancora e il compleanno infinito, il convegno infinito, il tour infinito non
avranno raggiunto la curvatura di se stessi e da lì inizieranno il loro lento
ritorno al punto di partenza.

25
Legge

Nel primo bridge di Absolutely Sweet Marie, una delle canzoni di Blonde on
Blonde (1966), Dylan canta: “Infine i sei cavalli bianchi che avevi promesso /
sono stati consegnati al penitenziario, / ma per vivere al di fuori della legge
bisogna essere onesti / anche tu l’hai sempre detto che è così, / ma dove sei
stasera, dolcissima Marie?”.1
I “sei cavalli bianchi” sono una citazione dal blues See That My Grave Is
Kept Clean di Blind Lemon Jefferson (1928), incisa da Dylan nel suo primo
disco, Bob Dylan, del 1962, ma provengono anche dalla filastrocca Comin’
Round the Mountain, che Dylan avrebbe poi registrato nel 1967 durante le ses-
sioni dei Basement Tapes. Nella tradizione del blues sono soprattutto i cavalli
che accompagnano un funerale, e la loro comparsa segnala che qualcuno è
morto o sta per morire. In questo caso, forse, questo qualcuno sta per morire
da fuorilegge, visto che i cavalli vengono consegnati a un penitenziario. Ma il
verso “But to live outside the law, you must be honest” (“Ma per vivere al di
fuori della legge bisogna essere onesti”) non viene dal blues, anche se potreb-
be. È quasi certamente ricavato dal film Crimine silenzioso (The Lineup, Don
Siegel, 1958), nel quale Robert Keith, nella parte di un malinconico filosofo
del crimine, impartisce una lezione di etica a Richard Jaeckel, che interpre-
ta un aspirante criminale. Jaeckel chiede a Keith se era proprio necessario
eliminare un complice che aveva lievemente sgarrato, e Keith gli risponde:
“When you live outside the law you have to eliminate dishonesty” (“Se vivi al
di fuori della legge, devi eliminare la disonestà”). Il verso che Dylan inserisce
in Absolutely Sweet Marie è un atto di disonestà onesta, perché è un furto, o

1 Le traduzioni dalle canzoni di Dylan sono tratte da B. Dylan, Lyrics 1962-2001, trad. e cura di A. Carrera,
Milano, Feltrinelli, 2006. Dove non è altrimenti indicato, le altre traduzioni sono dell’autore.

26
un furto-citazione, ma abbastanza rielaborato da sembrare autonomo. Eli-
minando l’impersonalità dell’originale, che si adatta molto bene a Julian, il
sentenzioso personaggio interpetato da Keith, Dylan lo restringe a “you must
be honest”. Ed è in questo senso che Dylan fa sua la battuta, perché la parola
“honest”, in Dylan, ha un significato preciso.
È più o meno l’equivalente di “heroic”, ma in un senso più particolare.
Si è “honest” quando si è capaci di dire a un altro esattamente quello che si
pensa di lui o di lei, senza nessun riguardo per le convenzioni della cortesia
e del vivere civile. Erano “honest” i feroci attacchi ad personam che Dylan,
a metà degli anni sessanta, scatenava contro amici ed ex-amici del Gre-
enwich Village, colpevoli di voler approfittare del suo successo mettendosi
al suo seguito. Era “honest” la lunga, strepitosa invettiva, originariamente
in poesia, che prese poi la forma di Like a Rolling Stone, rivolta a nessuno in
particolare, o forse da Dylan a se stesso, per non illudersi troppo, come in
un esorcismo preventivo, di quello che il successo gli poteva portare. Ma in
Absolutely Sweet Marie è importante che sia “onesta” la condizione di chi si
pone non tanto fuori dalla legge quanto al di fuori del riparo offerto dalla
legge. Perché alla legge, veramente, non si sfugge mai. Se infatti proseguia-
mo nella visione di The Lineup ci imbattiamo in uno strano momento in cui
Julian, il difensore dell’onestà del crimine, spiega a una donna trattenuta
come ostaggio che in fondo le sta bene, che si merita quello che le sta ca-
pitando, perché le donne sono troppo deboli per essere di alcun aiuto alla
società. “Il crimine è aggressivo, e così è la legge,” pontifica Julian. “Voi
donne non capite il bisogno che il criminale ha della violenza”. La legge e
il crimine sono speculari, hanno le loro categorie morali e i loro principi,
opposti ma complementari. Quello che tiene insieme il rappresentante della
legge e il fuorilegge è la durezza dei rapporti che entrambi instaurano. Ma
una discrepanza sussiste. Se la legge non è onesta, come lo è il criminale, è
perché non ne ha bisogno. Si basa su un testo scritto al quale può sempre
appoggiarsi. Il fuorilegge invece deve essere onesto perché nei suoi rapporti
con gli altri fuorilegge può basarsi solo sulla sua parola. Se viene ingannato
dai suoi simili non può far valere il contratto sottoscritto con loro, perché
si tratterebbe di un contratto contra legem, non valido né per la legge né
per chi sta fuori dalla legge.
Poiché dall’impero della legge non si esce, l’etica del fuorilegge richiede
piuttosto l’accesso a una legge parallela. La genealogia del verso dylaniano

27
dal quale siamo partiti precede di molto il film di Don Siegel, anzi forse ri-
sale a un passaggio fondamentale dei Sotterranei del Vaticano di Gide in cui il
grande truffatore Protos, dopo aver scoperto che Lafcadio Wluiki ha ucciso
Amédée Fleurissoire senza ragione alcuna, commettendo il delitto per puro
“atto gratuito”, lo ammonisce:

Ma quel che stupisce me, invece, è che, intelligente com’è, abbia creduto, Cadio, che
si potesse uscire tanto impunemente da una società senza cadere al tempo stesso in
un’altra; oppure, che una società potesse fare a meno di leggi.2

Ora, magari Dylan ha poco a che fare sia con Don Siegel sia con André Gide,
ma a metà degli anni sessanta, nel momento in cui lasciò la società della
folk music per passare al rock and roll, si accorse che stava lasciando una
comunità retta da leggi di purezza (artistica e politica) forse soffocanti, ma
certamente solide e coerenti, mentre la sua nuova condizione di “fuorilegge”
non gli permetteva di rifarsi a nessun codice che non fosse una terribile me-
scolanza di ferocia artistica e inflessibilità interiore. Alle donne che affollano
le canzoni dylaniane tra Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde (con l’unica
eccezione della futura moglie Sara, per la quale scrive l’estatica Sad-Eyed Lady
of the Lowlands), Dylan non fa altro che ripetere, variandoli, i contenuti del
discorso di Julian: “Se scelgo di essere un fuorilegge, non posso essere meno
aggressivo della legge. E voi donne (le donne di Like a Rolling Stone, One of Us
Must Know, Just Like a Woman e Fourth Time Around, sulla quale torneremo)
non potete capire il mio bisogno di violenza”.
C’è poi un altro livello della condizione di fuorilegge che Dylan esplora
in questo periodo, ed è legato precisamente alla sua decisione di abbandonare
ogni pretesa letteraria (ogni riferimento a un “testo della legge”, se vogliamo)
per concentrarsi unicamente sull’aspetto sonoro della parola e della canzone.
Si sa che, una volta approdato a Like a Rolling Stone, Dylan perde interesse a
continuare i suoi precedenti esperimenti letterari. Scrive sempre meno poesie
e smette di pensare a Tarantula, il libro che avrebbe poi pubblicato nel 1971
così come l’aveva abbandonato tra il ’65 e il ’66, senza ulteriori revisioni. Nel
momento in cui opera la transizione dall’acustico all’elettrico, Dylan si trova
2 A. Gide, I sotterranei del Vaticano, trad. di R. Ortolani, Milano, Garzanti, 1965, p. 220 (“Mais, ce qui m’étonne,
moi, c’est que, intelligent comme vous êtes, vous ayez cru, Cadio, qu’on pouvait si simplement que ça sortir
d’une société, et sans tomber du même coup dans une autre; ou qu’une société pouvait se passer de lois.” Les
Caves du Vatican, 1914).

28
insomma nella situazione del poeta che, per ripetere un detto di Shelley,
deve rinunciare ai piaceri facili a favore di quelli difficili. Molte delle sue
prime canzoni “elettriche” non sono particolarmente poetiche sulla carta
(quelle degli anni precedenti, da Hard Rain’s A-Gonna Fall a Boots of Spanish
Leather, per intenderci, erano molto più “scritte”). Solo nella performance
trovano la loro vera dimensione musicale e teatrale, ormai molto lontana
da qualunque riduzione a puro testo musicato. È anche in questo senso che
Dylan ha bisogno dell’onestà della “parola”, del basarsi sulla “parola”, che
in lui diviene parola cantata, non semplicemente testo cantato. Poiché si è
lasciato alle spalle la scrittura, può contare solo su una parola performata. E
il suo pubblico dovrà credergli “sulla parola”, senza più riferimenti alle leggi
scritte della comunicazione letteraria.

29
Giustizia

In Genius, sorta di libro-strenna dedicato a cento scrittori della letteratura


occidentale, Harold Bloom suddivide gli autori di cui tratta secondo le
dieci enumerazioni o sephiroth della Cabbala ebraica. Leopardi e Lucrezio,
il già ricordato Shelley, R. W. Emerson e Emily Dickinson, Walt Whit-
man e Robert Frost, T. S. Eliot e Wallace Stevens vengono raggruppati
nelle sottodivisioni della quinta sephirah, detta Din o Gevurah, che sta per
“giustizia” e potrebbe essere accostata all’anánke greca, alla necessità, ma
stabilisce anche un particolare rapporto con Hesed, la quarta sephirah in
genere tradotta con “amore” o “gentilezza”. O, come dice lo stesso Bloom,
“la sefirah conosciuta come Din serve da orlo o da orizzonte che traccia il
limite del patto d’amore rappresentato da Hesed”.3 Ma Hesed a sua volta è
l’alleanza dell’amore per gli uomini e le donne stretta da Dio, ed è quindi
ben più di un’affezione casuale e individuale. Cosa di cui Dylan è sempre
stato perfettamente consapevole, al punto da dichiarare, in un’intervista
del 1991:

Io non intendo subire il fatto che sia l’amore a influenzare le mie canzoni. Non più
di quanto abbia influenzato le canzoni di Chuck Berry o di Woody Guthrie o di
Hank Williams. Quelle di Hank Williams non sono canzoni d’amore. È umiliante
chiamarle canzoni d’amore. Sono canzoni che vengono dall’Albero della Vita.
L’amore non sta sull’Albero della Vita. L’amore sta sull’Albero della Conoscenza,
l’Albero del Bene e del Male. Nella musica pop ci sono moltissime canzoni che
parlano d’amore. A chi servono? Né a te né a me. L’amore può essere usato in molti

3 “The Sefirah known as Din serves as the hedge or horizon that marks the limit of Hesed’s covenant love.” H.
Bloom, Genius. A Mosaic of One Hundred Exemplary Creative Minds, New York, Warner Books, 2002, p. 335.

30
modi che si ritorcono contro chi li usa. L’amore è un principio democratico. Una
faccenda greca.4

Lo Etz chaim, o Albero della Vita, è la Torah, ma è anche una raffigurazione


delle Sephiroth. La giustizia dunque delimita i confini, stabilisce i termini del
patto d’amore che lega gli esseri tra di loro, nonché gli esseri a Dio. È preci-
samente su questo confine, dove a volte prevale l’amore e più spesso prevale
la giustizia, che dovremo cercare l’evoluzione dell’idea di giustizia in Dylan.
Aggiungeremo dunque Dylan all’elenco proposto da Bloom, dei poeti della
giustizia, non per istituire paralleli letterari, che difficilmente sarebbero pos-
sibili, ma per la stretta connessione che nell’opera di Dylan viene a stabilirsi
tra la giustizia e gli innumerevoli contratti d’amore tra gli uomini e le donne,
le istituzioni sociali e l’arte, e anche per il fatto che la vera giustizia, in Dylan,
è sempre e soltanto quella divina.
Nei primi anni sessanta, nel cuore della guerra fredda e della lotta per i
diritti civili, Dylan è interessato molto di più all’ingiustizia palese ed evidente
della discriminazione razziale, o alla violenza ingiusta della guerra e dei suoi
profittatori, piuttosto che a stabilire in senso positivo che cosa sia la giustizia.
Per ripercorrere utilmente questo notissimo periodo dell’opera dylaniana
bisogna però scendere a fondo nel cuore nero e apocalittico della stessa lotta
all’ingiustizia, così come Dylan la ingaggia con le sue canzoni di denuncia.
È una crociata che non prevede pietà e che non fa prigionieri. Nella raccolta
dei suoi scritti su Bob Dylan, Greil Marcus riporta che Bruce Springsteen
una volta raccontò di aver visto una strana abitazione nel deserto dell’Arizo-
na, una casa-scultura costruita da un Navajo utilizzando materiali di scarto
raccolti sull’autostrada. All’inizio della pista di terra battuta che conduceva
al monumento un cartello diceva: “Questa è terra di pace, amore, giustizia, e
di nessuna pietà”. Metafora fin troppo perfetta dell’America, osserva Marcus,
e il cui ritmo, aggiungiamo, è certamente lo stesso del Dylan di Masters of
War, The Times They Are A-Changin’ e When the Ship Comes In.5
Vale la pena di insistere su Masters of War, non solo per sfatare la ricorrente
leggenda che la interpreta come una canzone pacifista, ma anche per far notare
come Dylan si esprima, in questa canzone, con un linguaggio la cui violenza
4 Interview with Paul Zollo (SongTalk, 1991), ora in Bob Dylan: The Essential Interviews, a cura di J. Cott, New
York, Wenner Books, 2006, pp. 367-389: 385. Già in P. Zollo, Songwriters on Songwriting, New York, Da Capo,
1997, pp. 69-86.
5 G. Marcus, Bob Dylan by Greil Marcus 1968-2010, New York, Public Affairs, 2010, p.110.

31
non ha paragoni nella letteratura della sinistra o nuova sinistra americana, il
cui tono non deborda mai dalla contraddizione democratica già osservata da
Tocqueville nel corso dell’Ottocento, grazie alla quale anche il più sfrenato indi-
vidualista è sempre pronto a convertirsi prontamente al più ossequioso rispetto
dell’autorità costituita. In Masters of War, al contrario, leggiamo strofe che sono
assolutamente fuori posto nella tradizione del canto politico americano, mentre
sembrano appartenere di più alla tradizione delle canzoni anarchiche italiane o
francesi di fine Ottocento, o delle canzoni di lotta degli anni sessanta, che non
contemplavano né perdono né carità cristiana e non facevano mistero di voler
vedere scorrere il sangue: “Che cosa ne so / per parlare non interrogato, / direte
che sono un ragazzo, / direte che non sono istruito. / Ma una cosa la so, / e sono
più giovane di voi, / che nemmeno Gesù / quello che fate lo perdonerà mai”.
Non bastandogli nemmeno quest’ultima affermazione, che fa intervenire
Gesù in senso palesemente non cristiano (non è l’uomo a decidere ciò che Gesù
può o non può perdonare, e del resto l’unico peccato imperdonabile, secondo
Mt. 12,32, è quello contro lo Spirito Santo, cioè quello di non credere che Gesù
ha il potere di perdonare i peccati e dunque di salvare), Dylan procede nella
strofa conclusiva a desiderare esplicitamente la morte dei fabbricanti d’armi:
“E spero che moriate, / e la morte vi colga ben presto. / Seguirò la vostra bara
/ in un pallido meriggio, / resterò a vedervi calare / nel vostro letto di morte,
/ e rimarrò sul bordo della fossa / finché sarò sicuro che sarete proprio morti”.
Joan Baez non ha mai avuto il coraggio di eseguire l’ultima strofa di
Masters of War, non se l’è mai sentita di cantare: “And I hope that you die”.
Né l’hanno fatto gli Staples Singers, o molti altri che hanno inciso la can-
zone. Se non hanno omesso la strofa l’hanno comunque modificata. Questo
è linguaggio da duello al sole, pura retorica da sfida all’OK Corral. Ma è
anche il linguaggio delle numerose, atroci murder ballads, comunissime nella
tradizione delle ballate narrative risalente al medioevo, o della terrificante
Folsom Prison Blues in cui Johnny Cash ha il coraggio di cantare: “I shot a
man in Reno, just to watch him die” (“A Reno ho sparato a un uomo solo per
vederlo morire”), un verso anch’esso ricavato dalla tradizione, ma che Johnny
Cash riesce a fare suo. La posa di Masters of War sarebbe quasi ridicola se
non fosse inaudita, e suonerebbe ancora assurdamente manichea se, nei suoi
cinquant’anni di vita e nelle sue molte incarnazioni, la canzone non ci avesse
in qualche modo anestetizzato contro se stessa, tanto che ormai raramente
percepiamo la violenza divina dalla quale è animata.

32
L’espressione “violenza divina” va qui intesa nel senso in cui ne parla
Walter Benjamin in Per la critica della violenza, là dove evidenzia la differenza
tra la “giusta” violenza del Dio del monoteismo, che distrugge le leggi esi-
stenti, e la violenza mitica greca (la violenza del dio e dell’eroe), che invece
le fonda.6 Nella sua declinazione moderna, come Benjamin l’ha formulata,
la violenza divina è la violenza rivoluzionaria e messianica, tanto antide-
mocratica e antiparlamentare quanto i movimenti reazionari contro i quali
si leva. La violenza divina esprime la propria giustizia revocando il diritto,
senza necessariamente fornire le premesse per fondarne uno nuovo. Se anche
la profezia di Masters of War si realizzasse, non costituirebbe di per sé le basi
di una società fondata sulla pace.
Io non so che cosa stessero applaudendo i duecento studenti del liceo clas-
sico di Modica, provincia di Siracusa, che nel maggio del 2006 si misero tutti a
battere le mani quando gli lessi l’intero testo della canzone durante un incontro
dedicato a Ginsberg e a Dylan. Non so se applaudissero per pacifismo automa-
tico o se apprezzassero la capacità, da parte di un giovane di ventun anni, di
esprimere un odio senza quartiere, biblico e classico, contro un nemico diffi-
cile da identificare ma abbastanza reale per essere comprensibile anche a loro.
Come è anche difficile capire che cosa pensava, che cosa aveva inconsciamente
percepito quel ragazzo che nel novembre del 2004 a Oshkosh, nel Wisconsin,
tornò a casa da scuola e disse alla madre che nelle prove della recita scolastica
aveva sentito un gruppo musicale cantare “Die, Bush, die” (“Muori, Bush,
muori”) quando in realtà il gruppo stava provando Masters of War e la cantan-
te era arrivata appunto al verso “And I hope that you die”. Arrivarono agenti
dell’FBI che sequestrarono il testo della canzone, ma il Primo Emendamento
della Costituzione (la libertà di espressione) salvò il gruppo, che nonostante lo
scandalo poté eseguire la propria Masters of War in versione post-punk.
Come ha scritto Greil Marcus, quello che ha tenuto in vita Masters of War
è, in fondo, proprio quell’“I hope that you die”, il fatto che la canzone tocca
i limiti oltre i quali nemmeno la libertà di parola potrebbe più proteggerla,
ma dà a chiunque la canti la possibilità di raggiungerli.

6 W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1955, p. 6-28.

33
Brecht

Al di là della violenza divina, che impone la giustizia distruggendo il dirit-


to, è chiaro che nella sua fase di cantante di denuncia Dylan è attratto dal
fascino della giustizia rivoluzionaria, che a sua volta è un caso particolare
del più ampio concetto di giustizia retributiva, un’etica dei rapporti inter-
personali nella quale al male si risponde con il male e al bene si risponde
con il bene, anche se poi non si procede su queste basi a fondare un diritto
attivo, che miri a una società più giusta e non semplicemente alla punizio-
ne delle colpe. Qui è stata fondamentale l’influenza del Brecht delle prime
ballate e dell’Opera da tre soldi, che Dylan ebbe modo di ascoltare, se non
nella sua interezza, almeno per quanto riguardava i brani più importanti,
più volte a New York nel 1963, grazie al fatto che la sua fidanzata di allora,
Suze Rotolo, lavorava per Sheridan Square Playhouse, un minuscolo teatro
su Sheridan Square dove un gruppo di attori stava appunto replicando
Brecht on Brecht, un recital di canzoni di Brecht e Weill che aveva esordito
l’anno prima al Theatre de Lys su Christopher Street.7 La canzone che gli
fece più impressione fu Jenny dei Pirati, in cui una sguattera delira di essere
il comandante segreto di una nave corsara che un giorno attraccherà nel
porto e farà giustizia dell’intera città, uccidendo tutti i suoi abitanti per
ordine della sguattera stessa. Che la canzone fosse un delirio lo diceva il
contesto dell’opera, ma Dylan si concentrò sulla canzone singola, rimanen-
do sbalordito dall’odio di classe che esprimeva:

7 Nella sua autobiografia (si veda la nota successiva) Dylan sostiene, probabilmente per un lapsus di memoria, di
avere assistito allo spettacolo brechtiano al Theatre de Lys. Si veda in merito E. Mochi, “When the Ship Comes
In”. Il rapporto con Brecht, “Storia e problemi contemporanei” XXV, 61, settembre-dicembre 2012, pp. 59-73.

34
Mi sintonizzai sul punto di vista della cameriera, da dov’è che viene, ed è il posto
più arido e freddo che si possa immaginare. Il suo personaggio è duro, bruciante. “I
signori” a cui lei rifà i letti non hanno idea dell’ostilità che le cova dentro, e la nave,
il cargo nero, sembra il simbolo di qualche cosa di messianico che si sta avvicinando
sempre di più e che forse ha perfino messo il suo piede maledetto nella porta. La
donna delle pulizie è potente e sta facendo finta di essere nessuno: sta contando le
teste. (...) Questa è una canzone folle. Grande medicina nei suoi versi. Grande azione
dispiegata (…) È una canzone cattiva, cantata da un agente del male, e quando è
finita non si riesce a dire una parola. Ti lascia senza respiro. In quel piccolo teatro,
dove la sua esecuzione costituiva il culmine dello spettacolo, il pubblico era sbalor-
dito, inchiodato sulle sedie con le mani sul plesso solare. Capivo il perché di quell’ef-
fetto. Il pubblico erano i “signori” della canzone. Erano i loro letti che lei rifaceva.
Era nel loro ufficio postale che lei riceveva la loro posta ed era nella loro scuola che
lei insegnava. Era una canzone che ti stendeva a terra e voleva essere presa sul serio.
Non ti usciva dalla testa. Woody non aveva mai scritto una cosa simile. Non era una
canzone di protesta né di attualità, e non mostrava amore per la gente.8

Dylan cercò ben presto di smontare e ricostruire Jenny dei Pirati. La imitò a
scopo di esercizio in una murder ballad su un fatto di cronaca nera che però
non portò a termine. La rievocò in When the Ship Comes In, in cui è ripresa,
anche se in forma per nulla funebre, anzi tra il crudele e il giocoso, l’imma-
gine della nave che entra in porto per fare giustizia. Il linguaggio di When
the Ship Comes In però non è affatto brechtiano, anzi è apertamente biblico, e
comprende una serie di riferimenti che vanno dal Vangelo di Matteo all’Apo-
calisse, dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi all’Esodo e al libro di Samuele. La
violenza genericamente divina di Masters of War si muta ben presto, in Dylan,
in giustizia biblica e mosaica, nonostante l’inclusione di qualche passaggio del
Nuovo Testamento, e dunque assolutamente retributiva e basata sulla legge
del taglione. Prima che la Bibbia prenda il sopravvento, però, la vera riscrit-
tura di Jenny dei Pirati non è When the Ship Comes In ma The Lonesome Death
di Hattie Carroll, la canzone più brechtiana scritta da Dylan. Anche Hattie
Carroll è la storia di una cameriera. Poiché muore nel primo verso (“William
Zanzinger uccise la povera Hattie Carroll”) non è lei a portare il peso della
canzone, ed è la voce del narratore che si incarica, se non di compiere una
vendetta, perlomeno di avvertire i “signori” del pubblico, ad ogni ritornello,
8 B. Dylan, Chronicles Vol. 1. Trad. di A. Carrera, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 244-245.

35
che la loro risposta alla morte di Hattie Carroll è inadeguata: “Ma voi che
filosofate le disgrazie e criticate chi ha spavento, / levatevi quello straccetto
dalla faccia, / per le lacrime c’è ancora tempo”.
I “signori” ai quali è indirizzata la canzone non sono i responsabili della
morte di Hattie Carroll (i veri responsabili non la ascolterebbero comunque),
bensì proprio il pubblico impegnato e benintenzionato, il quale, ottimista
com’è sul futuro dei diritti civili e della società, tende a filosofare sulle tra-
gedie invece che piangerle. Alla rivelazione finale, che William Zanzinger,
bianco e facoltoso, colpevole di avere ingiuriato, battuto e causato o affret-
tato (sia pure involontariamente), la morte di Hattie Carroll, nera e povera,
solo perché lei non era stata abbastanza svelta a servirgli da bere, è stato
condannato a soli sei mesi di carcere, la voce narrante pronuncia il giudizio
più ironico e più duro: “Ma voi che filosofate le disgrazie e criticate chi ha
spavento, / affondatevi quello straccetto nella faccia, per le lacrime questo è
il momento”.
La fonte del ritornello di Hattie Carroll non va nemmeno cercata in Jenny
dei pirati, quanto piuttosto nei due versi che, con poche varianti, concludono
ogni strofa di un altro testo brechtiano, Della infanticida Maria Farrar: “Ma
voi, di grazia, non vogliate sdegnarvi: ogni creatura ha bisogno dell’aiuto
degli altri”.9 La prospettiva, naturalmente, è rovesciata. Mentre Maria Farrar
è colpevole e sconta con la morte la sua colpa (“Fu grave il suo peccato, ma
grande la sua pena”), la vera ingiustizia che segue la morte di Hattie Carroll
è la levità della condanna: sei mesi di carcere a William Devereux Zantzin-
ger (grafia corretta del nome), poi addirittura ridotti a tre, per omicidio
preterintenzionale.
Basandosi su una prima sommaria ricostruzione dei fatti, così come
l’aveva trovata nella stampa dell’epoca, Dylan afferma erroneamente che
Zantzinger era stato accusato di omicidio volontario, anche se per descrivere
il fatto usa sempre il verbo “kill”, che può anche essere un’azione acciden-
tale, e mai “murder”, che implicherebbe la scelta deliberata di uccidere. Lo
scandalo, comunque, restano i sei mesi di condanna, mentre si sa benissimo
che se fosse stata Hattie Carroll, nera, a uccidere anche involontariamente
William Zantzinger, bianco, sarebbe stata condannata a una pena enor-
memente superiore. Dylan non poteva sapere allora che la decisione della

9 B. Brecht, Von den Kindesmörderin Maria Farrar (Della infanticida Maria Farrar), da Libro di devozioni domestiche,
in Poesie 1918-1933, trad. di E. Castellani e R. Fertonani, Torino, Einaudi, 1968, pp. 16-23.

36
corte era stata motivata dal fatto che una sentenza di durata non superiore
a sei mesi si poteva scontare in un carcere di contea, mentre se era più lunga
doveva essere scontata in un carcere federale, nel quale Zantzinger sarebbe
stato esposto alla vendetta dei detenuti afro-americani. Simili riguardi,
non è il caso di sottolinearlo, non si usavano con i condannati di colore.
Ma ovviamente non è di questo che la canzone può o vuole occuparsi. The
Lonesome Death of Hattie Carroll dice ben altro. È la risposta di Dylan a Joe
Hill, la canzone composta nel 1936 dai militanti politici Earl Robinson e
Alfred Hayes, nella quale il militante sindacale Joe Hill, fucilato nel 1915 per
un omicidio che non aveva commesso, riappare in sogno alla voce narrante
della canzone per ripetergli ossessivamente: “Non sono mai morto, sono
ancora vivo, se continuerete a organizzarvi non morirò mai”.10 Al pubblico
che adorava Joe Hill, cantata da Joan Baez come da molti altri, Dylan dice: voi
che mi ascoltate, voi credete nella giustizia riconciliativa o restitutiva, nella
consolazione della restorative justice grazie alla quale i criminali verranno
puniti, sì, ma riconosceranno anche il loro torto, così che i loro crimini infine
saranno perdonati e si getteranno le basi per una società in cui i sopravvis-
suti al crimine, vittime o colpevoli che siano, potranno convivere. Ma che
ne è di Hattie Carroll, che ne è della sua unicità, della vita che apparteneva
solo a lei e della morte insensata che gliel’ha portata via? Che ne è dei suoi
undici figli lasciati nella miseria (ne aveva undici, anche se la canzone dice
dieci)? Non c’è riconciliazione possibile per questa perdita, così come per
Ivan Karamazov non c’è riparazione possibile alla morte dei bambini, o per
l’Andrej Tarkovskji dell’Infanzia di Ivan l’intera vittoria contro il nazismo
non basta a redimere la morte del piccolo Ivan. Come ha scritto il critico
cinematografico Andrew Sarris dopo aver visto Dylan eseguire Hattie Carroll
nel film Don’t Look Back, “L’intelletto civilizzato trova difficoltà a esprimere
un semplice grido di dolore. O a rispondere alle ingiustizie più palesi. Dylan
è fatto di una stoffa più dura”.11
La giustizia retributiva ha un vantaggio morale sulla giustizia riconcilia-
tiva, sembra dire Dylan in Hattie Carroll. Sa che non tutte le ferite si possono
rimarginare, e forse veramente nessuna. Su questo, almeno, non si illude. Il

10 Dylan espone le ragioni per cui non apprezzava Joe Hill in Chronicles Vol. 1, cit., pp. 49-52. Una citazione ironica
da Joe Hill si trova anche all’inizio di I Dreamed I Saw St. Augustine, inclusa in John Wesley Harding (1967).
11 “The civilized intellect finds it difficult to render a simple cry of pain. Or to respond to the more obvious outra-
ges. Dylan is made of sterner stuff.” A. Sarris, Don’t Look Back (Village Voice, 21 settembre 1967), in The Dylan
Companion, a cura di E. Thompson e D. Gutman, New York, Da Capo Press, 2001, p. 88.

37
messaggio di Dylan al pubblico dei liberal bianchi, che sentono il peso delle
colpe dell’America, è che non si potranno redimere attraverso le sofferenze di
qualcun altro. Hattie Carroll non è e non potrà essere il loro Gesù Cristo. Se
mi viene perdonata la brutalità dell’accostamento, ho pensato a The Lonesome
Death of Hattie Carroll quando tempo fa ho visto in televisione un’intervista
con il fratello di Pat Tillman. Tillman era un campione di football partito
volontario per l’Afghanistan dove morì il 22 aprile 2004. La versione ufficiale
sosteneva che fosse stato ucciso dai talebani. Solo una lunga inchiesta per-
mise di dimostrare che in realtà era stato colpito da “fuoco amico”, e che la
verità era stata nascosta per timore dello scandalo. Al funerale era presente il
senatore John McCain, futuro sfidante di Obama, che in qualità di veterano
volle pronunciare un discorso nel quale affermò che il soldato deceduto ora
godeva le beatitudini del cielo. Quando infine prese il microfono, il fratello
Richard Tillman disse: “Senator McCain, my brother is fucking dead”.

38
Uguaglianza

Nei suoi primi anni Dylan era eccessivo, arrogante, provocatore, ipermoralista
anche quando voleva essere antimoralista, ma se fosse stato meno aggressivo
difficilmente ci ricorderemmo oggi delle sue cosiddette canzoni di protesta.
Vale per Hattie Carroll ciò che Greil Marcus ha scritto a proposito di Masters of
War. Se è proprio l’impossibile verso “E spero che moriate” a tenerla in piedi,
nonostante la sua retorica da Terza Internazionale, nel caso di Hattie Carroll
è proprio l’attacco al pubblico liberal a dare alla canzone un senso che va ben
oltre la contrapposizione tra il bene e il male, per mettere in questione invece
la costante, inspiegabile insufficienza del bene rispetto al male. Non tutti capi-
rono questo lato della canzone. Non tutti la ascoltarono. O forse cercarono di
difendersene, perché la medicina che faceva ingoiare (la “grande medicina” di
Jenny dei Pirati) era veramente troppo amara. Il 20 luglio del 1964 Phil Ochs,
secondo nel Village solo a Dylan (ma che si sarebbe lasciato travolgere ben
presto dall’alcolismo e dalla disperazione), scrisse un articolo su “Broadside”
proprio per difendere The Lonesome Death of Hattie Carroll dalle accuse sbrigati-
ve di essere un’altra canzone manichea, o solo un’altra predica messa in musica.
Dylan avrebbe potuto cavarsela a buon mercato, scrive Ochs, se avesse in-
serito versi come “facciamo sì che non sia morta invano”, o magari terminando
con un richiamo sarcastico all’America come pretesa terra della libertà. Ma
non ha fatto niente del genere, anzi ha costruito uno schema di rime libere e
imprevedibili, basate sul nome dei due protagonisti, e non si è mai soffermato
a descriverli con aggettivi. In Hattie Carroll, scrive Ochs, “non ci sono né vuoti
proclami di vergogna né blandi appelli alla decenza”.12 Il peso dell’ingiustizia

12 “There is no empty cry of shame, or bland pleas for decency.” P. Ochs, The Art of Bob Dylan’s “Hattie Carroll”,
Broadside, 48, July 20, 1964, p. 2.

39
commessa è talmente forte da lasciare il lettore stupefatto. Ochs si accorge appe-
na, quando dice che Dylan descrive Hattie Carroll semplicemente come un’in-
serviente di cucina, e non come una “povera nera”, che The Lonesome Death of
Hattie Carroll è la più grande canzone dell’epoca dei diritti civili proprio perché
non dice nemmeno che Hattie Carroll era nera. Lo dà per scontato, lasciando
che l’ovvio presupposto agisca inconsciamente nella mente dell’ascoltatore.
Ma allora non se ne accorse nessuno; ci sarebbe voluta la lettura ravvicinata di
Christopher Ricks, molti anni dopo, per illuminare questa reticenza rivelatrice.13
Come sappiamo, Dylan si sarebbe presto stancato di essere un bollettino
di tutto quello che andava male nel mondo, e di questa sua lungimiranza non
lo ringrazieremo mai abbastanza, anche se una parte del suo pubblico non
gli perdonò l’apostasia – peraltro già espressa in My Back Pages, composta
non molti mesi dopo The Lonesome Death of Hattie Carroll. My Back Pages è
una canzone confusa, affascinante quanto irritante. Ancora oggi non si può
che restare interdetti davanti a versi come questi: “Troppo seria per indul-
gere in sciocchezze, / una lingua d’insegnante nominatasi da sola / sputava
fuori che la libertà / è soltanto l’uguaglianza nella scuola. / “Uguaglianza”,
pronunciavo la parola / come fossi uno sposo promesso. / Ah, ma allora ero
molto più vecchio, / sono molto più giovane adesso”.
Come tutti, Dylan aveva voluto la giustizia e l’eguaglianza. Ora che i di-
ritti civili erano diventati legge della nazione, precisamente il 2 luglio 1964,
che cosa voleva? Forse l’ineguaglianza e l’ingiustizia? È mai possibile volere l’i-
neguaglianza e l’ingiustizia? Chissà, forse si era messo a leggere Nietzsche, il
campione di tutte le critiche beffarde, hip e cool alla banalità della democrazia,
e che nel capitolo “Delle tarantole” in Così parlò Zarathustra fa dell’insetto
in questione un simbolo del risentimento:

Vendetta si annida nella tua anima: dove tu mordi, si forma una nera schianza; con la
vendetta il tuo veleno fa venir le vertigini all’anima! Così io parlo per similitudine a
voi, che fate venire le vertigini alle anime, voi predicatori dell’uguaglianza! Tarantole
voi siete per me, e in segreto smaniosi di vendetta! (...) Perciò do uno strattone alla
vostra ragnatela, perché la vostra rabbia vi induca a venir fuori dal vostro antro di
menzogne, e la vostra vendetta balzi fuori dietro la vostra parola ‘giustizia’.14

13 C. Ricks, Bob Dylan, in Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, a cura di A. Carrera, Novara, Inter-
linea, 2008, pp. 107-123. Si veda anche il capitolo “Justice. The Lonesome Death of Hattie Carroll”, in C. Ricks,
Dylan’s Visions of Sin, New York, Ecco, 2004, pp. 222-233.
14 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. di M. Montinari, Milano, Adelphi, 1968, p. 118.

40
Tra il 1964 e il 1966, mentre lotta per liberarsi dai sensi di colpa interio-
rizzati dalla nuova sinistra, Dylan (che menziona Nietzsche di passaggio
nelle note a Highway 61 Revisited) può essere stato influenzato dalla critica
nietzschiana delle idee di uguaglianza e di giustizia, tanto da affermare, in
una conversazione del 1966 con il biografo Robert Shelton: “Tutto questo
parlare di uguaglianza (...) L’unica cosa che tutti hanno in comune è che si
muore”. Agli occhi della morale pop che Dylan vuole abbracciare, non tanto
ostile quanto indifferente agli ideali dell’establishment o a quelli della lotta
contro l’establishment, anche la causa della giustizia può rivelarsi tanto carica
di risentimento quanto quella dell’uguaglianza. E, come si legge nel capitolo
10 di Tarantula, l’anti-libro che Dylan scrive tra il 1964 e il 1966 (e il cui titolo
potrebbe anche essere in debito con Nietzsche): “perché mai bisognerebbe
preoccuparsi delle messinscene degli altri? è una cosa che porta soltanto alla
tortura / ma come, è incredibile! il mondo è pazzo di giustizia”.15
Il mondo, è difficile dirlo, ma forse la civiltà americana è tanto pazza
di ingiustizia quanto di giustizialismo. Dylan parla sempre non interrogato,
come lui stesso ammette in Masters of War, sempre sopra le righe, sempre
fuori tono. Non sappiamo (non lo sapremo mai) se sa quello che dice o se
solo gli capita di dirlo, come un sismografo che registra i movimenti tellurici
senza poter spiegare che cosa sono, ma spesso finisce per pronunciare, magari
concentrati in una frase, gli stessi oracoli che intellettuali molto più “struttu-
rati” di lui elaborano in modo maggiormente elegante, e pure non dissimile.
Che l’America fosse “pazza di giustizia” lo pensava anche Jack Butler Yeats,
il pittore irlandese che era anche il padre del poeta William Butler Yeats, e
che in una lettera al figlio scritta dall’America affermò:

In America nessuno capisce che cosa sia la libertà, né quella dell’artista né quella
di nessun altro. Sono così pazzi di giustizia che la libertà viene sempre seconda. Se
avessimo la libertà, chi mai si preoccuperebbe della giustizia? L’Inghilterra è l’unico
paese dove capiscono che cosa sia la libertà, così che di conseguenza a nessuno
importa niente della giustizia.16

15 “why be bothered / with other people’s set ups? it only leads to torture/ why it’s incredible! the world is mad
with justice.” B. Dylan, Tarantula. Testo originale a fronte, trad. e cura di A. Carrera e S. Pettinato, Milano,
Feltrinelli, 2007, pp. 58-59.
16 “In America liberty is not understood, either for the artists or anyone else. They are so mad for justice that li-
berty comes second best. If we had liberty who’d bother about justice. England is the only country where they
understand liberty, and there consequently no one cares about justice.” J. B. Yeats, Letters to His Son and Others,
1869-1922, cit. in C. Ricks, Reviewery, London, Penguin, 2004, p. 56.

41
A questo mondo “pazzo di giustizia” Dylan vuole insegnare (perché di predicare
e di insegnare, e a suo modo di protestare, a ragione o a sproposito, non ha mai
veramente smesso) che i rapporti umani sono ingiusti. Non solo quelli di classe
o di razza, che nessuna legge può risolvere una volta per tutte, ma proprio quelli
tra le persone più vicine tra loro, amici o amanti che siano. E che in un certo
senso è anche giusto che siano ingiusti, perché solo il sale della disuguaglian-
za e dello squilibrio nei rapporti fa davvero sentire il dolore delle ferite che ci
infliggiamo l’un l’altro, fa capire che solo quando ci facciamo del male ci pren-
diamo davvero sul serio. È la morale di Like a Rolling Stone e di Positively Fourth
Street, di quasi tutto Blonde on Blonde e di Blood on the Tracks. Ma forse questa
anti-morale non ha mai trovato migliore espressione di Fourth Time Around, da
Blonde on Blonde, uno dei più feroci quadretti di vita intima hip che mai siano
stati disegnati, in tutto e per tutto degno di una pièce di Edward Albee.
Come altre canzoni dylaniane, da Visions of Johanna del 1966 a Brownsville
Girl del 1986, Fourth Time Around mette in campo un triangolo implicito, in cui
sembra che il narratore riferisca agli ascoltatori una disavventura amorosa che gli
è capitata, ma in realtà la sta narrando a un’altra donna, che è la vera ascoltatrice,
e non è la donna di cui il narratore sta parlando. Quest’altra donna (l’ascolta-
trice implicita) forse ha già preso il posto della donna della canzone (è il caso
di Fourth Time Around) oppure è perduta, così che la donna della canzone ne è
solo l’insufficiente sostituto (è il caso di Visions of Johanna e di Brownsville Girl),
e il discorso rivolto a lei diviene di colpo lancinante quando comprendiamo,
proprio seguendo lo svolgimento della narrazione, che lei non lo ascolterà mai,
e che l’unica vera ascoltatrice in realtà è assente. A suo modo, Dylan mette in
scena una variante moderna del tema stilnovistico della “donna dello schermo”.
Ma allo stesso tempo mette in scena anche una sorta di trotskysmo dell’amore,
una concezione della coppia come rivoluzione permanente, costante pericolo e
necessità di stare in guardia perché i colpi bassi sono sempre nell’aria e vengono
da dove meno te li aspetti. La paradossale lezione di ingiustizia che Dylan vuole
insegnare in Fourth Time Around è celata nell’ultima strofa, quando la donna
dello schermo viene abbandonata e compare a sorpresa la seconda, che però
viene prontamente ammonita a non scambiare l’amore, questa faccenda troppo
greca e troppo democratica, con una richiesta di uguaglianza o di giustizia nei
rapporti di coppia: “E tu, tu mi hai fatto entrare, / mi hai amato lì sul posto, /
tempo non ne hai perso. / E io, io non ho mai preteso una follia, / la tua stam-
pella non l’ho mai voluta, / tu adesso non chiedermi la mia”.

42
Religione

Nel 1979 Dylan si converte al cristianesimo. Per la precisione, a una versione


californiano-suburbana del cristianesimo, nutrita di millenarismo apocalitti-
co-popolare nonché di interpretazioni bibliche dalla profondità ermeneutica
alquanto sbrigativa (Dylan è sempre stato un miglior lettore della Bibbia di
quanto lo fossero i predicatori dei quali allora si fidava). Per almeno due anni
non fa altro che seguire corsi di lettura dei testi sacri, scrivere ed eseguire
canzoni religiose, predicare la fine del mondo e la seconda venuta di Cristo,
nonché inanellare una serie ragguardevole di love affairs con le sue coriste,
tutte rigorosamente nere e altrettanto rigorosamente Christian. L’impressione
che lascia è sconcertante, indecifrabile, e ancora una volta estrema, intran-
sigente, impensabile in qualunque altro artista. Poi l’afflato predicatorio si
smorza, e nelle canzoni del 1981 tornano a riaffiorare temi lirici e secolari.
Nel 1983, a New York, Dylan si avvicina alla setta ebraica ortodossa (anzi,
apertamente estremista) dei Lubavitchers. Se ne allontana poco tempo dopo,
senza però interrompere i contatti con il mondo ebraico. Nelle interviste degli
anni successivi testimonia un sincretismo ebraico-cristiano che lui stesso
definisce “messianic complex” (“complesso messianico”) e che consiste nel
vivere qui ed ora come se il messia fosse già arrivato. A partire da Infidels
del1983, comunque, benché la Bibbia rimanga una delle sue maggiori fonti
di ispirazione (come lo è sempre stata, fin dagli inizi), ogni letteralismo viene
abbandonato a favore di una complessa costruzione di allegorie e simbolismi
che non sempre riescono a sublimarsi in un prodotto compiuto. L’ultima fase
della produzione dylaniana, che possiamo datare da Oh Mercy (1989) e che
continua tuttora, tenta invece, e spesso con successo, di recuperare una mag-
giore immediatezza di linguaggio, che rimane sempre molto colto e infarcito

43
di citazioni di ogni provenienza, ma senza più la pretesa di realizzare romanzi
biblici in forma di canzone.
Durante il periodo più ortodosso, diciamo così, del suo cristianesimo
californiano, riaffiora il vecchio tema della violenza divina, ora totalmente
sussunta dal concetto di giustizia apocalittica. Con una significativa differen-
za, però: l’intervento divino invocato in Slow Train o in When He Returns, due
delle canzoni del 1979, è ormai sganciato da ogni riferimento alla giustizia
sociale. Dylan protesta ancora, solo che ora la sua protesta è quella, se ci si
permette l’espressione, del “cristiano furioso”: furioso contro il secolarismo
imperante, contro la caduta dei valori, il nichilismo delle società affluenti, gli
sceicchi che controllano l’America con il petrolio, la pornografia nelle scuole
e gli adulteri in chiesa (un bel dispiego di ipocrisia, quest’ultimo, da parte di
chi non aveva mai fatto mistero di godere del privilegio, condiviso da marinai
e da rock star, di avere una ragazza in ogni porto).
Come abbiamo già detto, la fase sgradevole, intollerante, reazionaria, del
cristianesimo dylaniano dura poco, e lui stesso non ha mai cantato dal vivo,
almeno a partire dal 1981, i versi più imbarazzanti delle sue prime canzoni
cristiane. Ma anche in questo periodo della sua carriera che molti appassio-
nati vecchi e nuovi non hanno mai veramente accettato (pur se la musica e
la qualità delle esecuzioni dal vivo sono spesso straordinarie), Dylan esplora
una profonda dimensione dell’America. Una delle correnti fondamentali del
cristianesimo americano è il paolinismo, nella misura in cui pone l’accento
sulla salvezza per fede e assolutamente non per le opere. Ora, il paolinismo
americano (che naturalmente presenta numerose declinazioni, qui impossi-
bili da investigare), in particolare nella sua accezione “suburbana”, non solo
dimostra pochissimo interesse per il social gospel, il vangelo sociale, ma pro-
pone anche un’idea di redenzione sostanzialmente individuale. Il compito
del cristiano, fondamentalmente, consiste nel salvare se stesso, e se i suoi
amici e parenti non lo seguono sulla via della redenzione, optando così per
la dannazione, tanto peggio per loro. Tale concetto della salvezza individua-
le viene puntualmente affrontato in una delle canzoni più aspre che Dylan
abbia mai scritto, potente ma quasi intollerabile, Ain’t Gonna Go to Hell for
Anybody, che non a caso esiste in quattro versioni, tutte dal vivo, nessuna
definitiva, e nessuna incisa in un disco ufficiale. Difficile conciliare con la
carità evangelica versi come “Non andrò all’inferno per nessuno / Né per
un padre né per una madre né per una sorella né per un fratello, no!”, in cui

44
la dimensione dell’agápe, del “diventare l’altro”, anche assumendo su di sé i
suoi peccati, non viene nemmeno presa in considerazione, e il cristianesimo
sembra ridursi a una religione del si salvi chi può.
Non che il tema della salvezza individuale non sia un problema nella
tradizione cattolica. Dante deve spiegarci per filo e per segno che i beati del
paradiso non possono sentire il dolore di chi sta all’inferno, così come Catone,
sulla spiaggia del purgatorio, informa Virgilio di essere impossibilitato, “per
quella legge / che fatta fu quando me n’uscì fora” a provare pena per la moglie
Marzia, confinata nel limbo (Purg. I, 89-90). Ma un simile scudo rispetto alla
pena altrui, che ha il compito di salvaguardare i beati da un cruccio eterno
che renderebbe vana la loro beatitudine, certamente non può essere indossato
da chi è ancora vivo e non può presumere la sua salvezza come già avvenuta
(presunzione invece molto comune nella retorica popolare dei movimenti
evangelici americani, nei quali il secondo battesimo, l’essere “born again”,
coincide spesso con una salvezza data per acquisita). In realtà è proprio questa
presunzione di salvezza (la cui ýbris non può non generare angoscia anche
in chi vi crede) a dar luogo a una religiosità sospettosa, risentita e non poco
paranoica, il cui tono viene perfettamente esemplificato dal signore o dalla
signora di razza bianca, classe media, devotissimi, che dopo averti ascoltato
mentre tu gli spieghi che hai una visione del mondo un poco differente dalla
loro, o magari credi a un’idea diversa di Dio, o a nessuna idea in particolare,
ti dicono con il più sincero dei sorrisi: “Che peccato che una brava persona
come lei dovrà finire all’inferno” (l’episodio non è inventato).
E, d’altra parte, il Dylan cristiano del 1979 è diventato veramente un
altro rispetto a quando scriveva Masters of War? Si è davvero convertito?
Nella sua raccolta di scritti dylaniani, Greil Marcus racconta che all’uscita di
Slow Train Coming un’amica gli chiese com’era il disco. “È arrogante” rispose
Marcus. “Assolutamente convinto di essere nel giusto, senza una briciola di
compassione.” “Beh, che cosa ti aspettavi,” disse lei, “che cambiasse?”
A parte questi aspetti per così dire caratteriali dell’ispirazione religiosa
dylaniana, va notato che la sfiducia nella giustizia umana è costante in Dylan.
Se in Desolation Row il commissario è cieco, se in Lily, Rosemary, and the Jack
of Hearts il giudice che presiede alle impiccagioni entra in scena ubriaco, se in
Hurricane il processo a Rubin Carter viene sbrigativamente definito una farsa
e l’intera giustizia americana è descritta come una partita truccata, allora la
giustizia divina è l’unica alla quale ci si può affidare. Viene quasi in mente

45
la scena del lazzaretto (Promessi sposi XXXV) in cui Fra Cristoforo mostra a
Renzo Don Rodrigo morente, una delle più radicali (e più inquietanti) ne-
gazioni della giustizia umana mai scritte: “- Guarda chi è Colui che gastiga!
Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma
tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia!”
In una conversazione risalente al periodo cristiano, Allen Ginsberg chiese
a Bob Dylan se non gli sembrava che Gesù fosse dopotutto una figura d’a-
more e di perdono, più che di giudizio, ma Dylan insistette a ripetere che
Cristo viene soprattutto per giudicare. Il suo Gesù era quello del Secondo
Avvento, non quello del Primo. Non quello di Matteo o di Luca, ma quello
di Giovanni di Patmos, che giunge camminando sulle nuvole, circondato da
coorti di angeli, a rapire in paradiso i beati e a gettare nel fuoco i peccatori.
È il Christus iudicans di When He Returns: “Fino a quando potrete rinnegare
ciò che è vero? / Fino a quando odierete voi stessi per la debolezza che celate?
/ Di qualunque progetto mondano noto all’uomo, Lui non se ne cura. / Ha
i Suoi piani e inizierà il Suo regno / quando tornerà”.
Quando però le esplosioni di fuoco e lapilli di Slow Train Coming cedono
il posto a una riflessione più sobria, le affermazioni che nel periodo predica-
torio venivano annunciate come un proclama tornano ad essere un problema
da affrontare con le armi della poesia, con allusioni più che con affermazioni
perentorie, con la costruzione di situazioni e profili di personaggi più che con
l’imposizione di certezze dottrinarie. È con I and I, del 1983, che Dylan fa il
punto sul suo concetto di giustizia: “C’è voluta una straniera a insegnarmi
a fissare il bel volto della giustizia / e a vedervi occhio per occhio e dente
per dente. / Io ed io, / in una creazione dove non è nella natura di nessuno
perdonare o dare onore. / Io ed io, / uno dice all’altro, nessuno vede la mia
faccia e vive ancora”.
La “straniera”, nel codice biblico-erotico dylaniano, è una donna di origi-
ne africana, figura della Regina di Saba. “Il bel volto della giustizia” proviene
probabilmente dal Salmo 89, 15 (“Giustizia e diritto sono la base del tuo trono,
grazia e fedeltà precedono il tuo volto”). E forse non siamo sorpresi di scoprire
che, nonostante tutte le professioni di cristianesimo di solo due anni prima,
la giustizia che affascina Dylan con il suo bel volto rimane quella mosaica, la
legge del taglione di Deut. 19, 21 (“Il tuo occhio non avrà misericordia: persona
per persona, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per
piede”). Assente appare invece la giustizia della buona novella di Mt 5, 38-39

46
(“Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di
non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli
anche l’altra”). Il ritornello cita Isaia 2, 9 (“l’uomo sarà umiliato, il mortale
sarà abbassato; tu non perdonare loro”) e le parole di Dio in Esodo 33, 20 (“Un
uomo non può vedere me e restare vivo”). Il tema dell’”occhio per occhio”,
peraltro, è alluso anche nel titolo. “I ‘n’ I” è un’espressione usata dai Rastafari
della Giamaica per dire “noi” o per indicare “The Lord and I”, vale a dire l’u-
nione dei Rasta con Jah (“io ed io” come “io e Dio”). Ma il titolo può essere
inteso anche come “eye and eye”, occhio e occhio, da cui occhio per occhio.
I and I è un brano importante, per lo più sottovalutato perché complesso,
sottile, difficile da interpretare. Ma il suo testo è uno dei pochissimi, tra le
tante canzoni di Dylan, che regge anche alla semplice lettura, indipendente-
mente dalla musica. Qualunque sia l’ideale di giustizia che Dylan persegue
o dalla quale si sente ossessionato, la canzone ne fa problema, lo elabora, lo
include in un frammento di storia, che poi è la storia che Dylan vuole dispe-
ratamente raccontare per tutti gli anni ottanta senza mai riuscirci davvero,
vale a dire la difficile, forse impossibile passione che lega un uomo ebreo e una
donna nera, allegorizzata nella vicenda dell’amore tra Salomone e la Regina
di Saba. Il bel volto della giustizia, come si è visto, è quello di una donna
che non insegna la pietà, e forse non la prova. Ma questa non è la fine della
storia, anzi è solo l’inizio, perché infine anche questa donna dovrà essere
controvoglia abbandonata, e perché il cammino riprende. Nell’ultima strofa
il narratore, che voleva tornare a casa e invece se ne è sempre più allontanato,
dice: “Con la mia bocca sta parlando qualcun altro, ma io presto ascolto solo
al cuore. / Ho fatto calzari per tutti, anche per voi, e vado ancora scalzo”.
Il primo richiamo va a Isaia 51, 16 (“Io ho posto le mie parole sulla tua
bocca”). L’ultimo (“Ho fatto calzari per tutti... “) ricorda il proverbio “Colui
che fa scarpe va scalzo” citato nella Anatomy of Melancholy di Robert Burton
(1621), ma anche i “servi scalzi” di All Along the Watchtower, e infine ancora
Isaia 20, 3, in cui il profeta va “spoglio e scalzo per tre anni”. O forse in quel
verso si è insinuato un ricordo del nonno paterno di Dylan, Zigman Zim-
merman, nato a Odessa nel 1875, venditore ambulante e calzolaio e che nel
1905, a seguito dei pogrom zaristi, iniziò il lungo viaggio che portò la sua
famiglia a Duluth, nel Minnesota, dove Dylan nacque trentasei anni dopo.
Nella già citata intervista con Paul Zollo, l’intervistatore ingaggia Dylan
in una sorta di gioco della verità, sottoponendogli a bruciapelo alcuni versi

47
di canzoni, per vedere quale reazioni suscitano nell’autore. Uno dei versi viene
da Absolutely Sweet Marie, la canzone dalla quale siamo partiti: “Adesso sto
guardando la tua gialla ferrovia / tra le rovine della tua balconata”. “È tutto
vero” dice Dylan. “Ogni singola lettera”. E prosegue spiegando che quando si
viaggia molto, come lui è abituato a fare, bisogna saper osservare, ma a volte
non ce n’è bisogno, perché alcune cose ti colpiscono da sole. La “yellow railro-
ad” potrebbe essere il ricordo di un giorno di luce accecante, con il sole che
scintillava sui binari di una ferrovia. “Non sono immagini forzate,” afferma
Dylan. Poi Zollo gli cita due versi di Slow Train: “Ma il nemico che io vedo /
ha apparenze rispettabili”, e Dylan commenta: “Quel verso, ci risiamo, è un
verso intellettuale (...) Potrebbe mentire. Davvero. Mentre “qui sotto la tua
gialla ferrovia”, quello no, non è mentire”.17
Dalla lettura delle sue migliori interviste si esce con il forte sospetto che,
dopotutto, il miglior critico di Dylan sia Dylan stesso. Magari non se ne ac-
corge all’atto della composizione, ma a distanza di tempo sa benissimo dove
ha lasciato correre l’ispirazione e dove ha forzato la mano. Con le canzoni
che gridano “Morale! Giustizia! Condanna! “ (come quelle di Slow Train) ha
corso il rischio di mentire come poeta, privilegiando l’astrazione di opinioni,
sempre discutibili e modificabili, rispetto alla concretezza delle immagini
provenienti dalla propria esperienza e dunque poeticamente inconfutabili. Il
treno del moralismo è lento, ma la ferrovia gialla è più veloce.
La lotta, come si vede, è quella già perfettamente individuata nell’ultima
strofa di I and I, tra la bocca che sputa sentenze, verità o menzogne, sulla
giustizia, sull’amore o su qualunque cosa, sempre pronunciate da quell’”io” (I/
Eye) che è sempre “qualcun altro” (“io è un altro” diceva Rimbaud, e Dylan,
da attento lettore di Rimbaud, non se lo dimentica mai), e il cuore che dice
tutt’altro e che ha le sue ostinate ragioni, alle quali bisognerebbe dar retta.
Perché non serve a niente insegnare al mondo a fare giustizia, o a fare scarpe,
se poi ci si inoltra nel deserto ingiusti e scalzi.

17 Interview with Paul Zollo (SongTalk, 1991), ora in J. Cott, op. cit., pp. 337-379.

48
Blues

Era la settimana di Natale del 1991 quando chiusi il mio appartamento


ormai vuoto al numero 1601 di South Sheperd Drive a Houston, in Texas,
consegnai le chiavi al supervisor, che in America è più un poliziotto in
borghese che un portinaio, e dopo un paio di giorni iniziai un viaggio in
automobile che mi avrebbe portato dal mite inverno del Texas al gelo del
Canada e alla mia nuova sede di lavoro a Toronto. Allora non immaginavo
che dieci anni dopo, precisamente nel settembre del 2001, per uno “strano
gioco del destino” (che sa di anni sessanta, ma potrebbe anche essere una
traduzione libera della dylaniana A Simple Twist of Fate) sarei tornato a
Houston. Alla fine del 1991 ero convinto che non ci avrei messo più piede
se non per far visita agli amici, così che iniziai la mia trasferta canadese
con un piccolo pellegrinaggio cittadino che avevo sempre rimandato. Una
biografia di Lightnin’ Hopkins alla mano, diedi congedo alla più grande
città del Texas attraversando e fotografando sotto la pioggia i luoghi della
Third Ward, il black neighborhood, uno dei “quartieri neri” di Houston, a
ridosso del centro cittadino, dove Hopkins era vissuto. Nei quattro anni
che avevo trascorso in città non ci ero mai andato, ma non potevo partire
senza rendergli omaggio. Mi dispiace per i colleghi accademici, ma Sam
John Hopkins, detto “Fulmine” (1912-1982), è stato il poeta di Houston
molto più di tutti i dottorandi e professori in creative writing che sforna la
mia università. Ci voleva qualcuno che venisse da lontano per accorgersene,
e non sto certo parlando di me.
Il 19 agosto 1965, all’una di notte, quando i Beatles scesero dalla sca-
letta del loro aereo allo Hobby Airport di Houston, la prima cosa che
John Lennon chiese ai giornalisti fu: “Come sta Lightnin’ Hopkins?”. La

49
domanda li colse di sorpresa, ben pochi avevano idea di chi fosse. Qualcuno
ricordò che era un anziano bluesman che viveva nella Third Ward, allora
un quartiere povero, malconcio e malsicuro (lo è anche adesso, solo un po’
meno). Hopkins incideva dischi qua e là, in Texas e altrove, un po’ di suc-
cesso l’aveva avuto, quanto ne poteva avere un cantante di blues, ma soldi
non ne aveva fatti e nessuno sembrava prenderlo molto sul serio, nemmeno
tra la sua gente. Per i Beatles, però, era lui il genius loci, l’anima della città in
cui avrebbero suonato una volta sola, quella sera stessa al Coliseum (esiste
un bootleg di quel concerto, tutto urla di ragazzine), per ripartire il giorno
dopo e non tornarci mai più.
Il mio viaggio, che allora credevo fosse un congedo dal Texas Blues e dal
sud degli Stati Uniti, partiva dalla Third Ward, attraversava l’East Texas
menzionato da Dylan in Blind Willie McTell per giungere in Louisiana. Da
lì, una volta toccata la Highway 61 (non la nuova autostrada, che non mi
interessava, bensì la storica U.S. Route 61), avrei puntato verso nord. In
2300 chilometri di percorso, la Highway 61 conduce da New Orleans alla
cittadina di Wyoming, Minnesota. Per chi vuole continuare sulla statale
Minnesota 61, arriva a Duluth, città natale di Dylan, e ancora più su al
territorio di Grand Portage, al confine con il Canada. In quella occasione
non intendevo spingermi fin lassù, anzi avrei lasciato la Route 61 dopo St.
Louis per deviare verso Chicago, passare il confine dell’Ontario appena
sopra Detroit e toccare infine Toronto. Ma volevo che il mio viaggio fosse
interamente scandito da tappe musicali, da Houston a Memphis, Tennessee,
dove W. C. Handy fondò la prima casa editrice di blues e dove partendo
dai locali affacciati su Beale Street il blues si diffuse a Chicago, arrivò alle
orecchie di Elvis e al mondo intero. E da Memphis a St. Louis, Missouri,
dove Miles Davis adolescente imparò i rudimenti del blues nella jazz band
della Lincoln High School.
Attraversata la Louisiana, giunsi a notte fonda sulla Highway 61 all’al-
tezza di Vicksburg, Mississippi. Non sarei arrivato a Toronto prima del 26
dicembre, avevo intenzione di prendermela comoda e girare un poco per
il Delta, il colossale labirinto acquifero di fiumi, corsi e isole formato dalla
pianura alluvionale del Mississippi e dello Yazoo River. Soprattutto volevo
fermarmi a Clarksdale, Mississippi, dove esiste l’unico museo del Delta Blues.
La Highway 61 non aveva bisogno di Dylan per essere conosciuta come
l’autostrada che ha portato il blues dal Delta del Mississippi a Chicago.

50
Quando Dylan scrive Highway 61 Revisited (1965) è ancora lui ad aver bi-
sogno della Route 61 e non viceversa. Oggi è impossibile nominarla senza
pensare a Dylan, così come non è possibile pensare alla Route 66 che va da
Chicago a Los Angeles senza risentire Nat King Cole o a Chuck Berry che
cantano (Get Your Kicks on) Route 66 (va’ a divertirti, va’ a provare il gusto
della vita sulla Route 66), anche se magari pochi ricordano che l’autore
della canzone era un certo Robert W. “Bobby” Troup, pianista jazz e atto-
re nella serie televisiva Squadra d’emergenza. Dylan non fa altre menzioni
della Highway 61, ma non sarebbe difficile compilare una lista delle Route
61 Songs che ha composto nel corso della sua carriera.
Sono le canzoni di fuga e di smarrimento, di esposizione alle intem-
perie atmosferiche e spirituali, dove il fulmine (il lightnin’) ti può sempre
colpire, il diluvio ti può sempre travolgere, e da uno squarcio tra le nubi
può sempre risuonare la voce di Dio che chiede ad Abramo il sacrificio di
Isacco, perché in Dylan – il Dylan di quegli anni, poi le cose si complicano
– l’onnipotente non cambia idea, non manda un angelo a fermare la mano
di Abramo, casomai è Abramo che deve scappare se non gli vuole obbedire,
e l’uccisione, se avviene, è brutale come un omicidio di strada.
La porta alla quale batte il vagabondo di It’s All Over Now, Baby Blue
(1965) si affaccia sulla Highway 61, i sentieri di campagna sui quali vaga la
voce narrante di Dirt Road Blues o di Standing in the Doorway (entrambe del
1997) si dipartono dalla Highway 61 per perdersi nell’immensità del Delta.
In Down in the Flood (1967) e in High Water (2001), la biblica alluvione del
1927 che devastò il corridoio del grande fiume, dall’Illinois alla Louisiana,
diviene il metro di misura dell’anomia di cui parla la seconda lettera di S.
Paolo ai Tessalonicesi, la mancanza di leggi, la caduta di ogni legame sociale
e affettivo che prelude alla battaglia finale tra Cristo e l’Avversario. “Non
ti aggrappare a me, non vedi che sto annegando anch’io?”, dice una voce
anonima in High Water, ma sarà bene ricordare quello che Dylan non ha
bisogno di dire, cioè che le squadre di soccorso inviate durante l’alluvione
avevano il mandato implicito di salvare solo i bianchi.
All’altezza di Leland prendo la Statale 82 in direzione di Indianola,
ma mi fermo prima, a Moorhead, un paesino della cui esistenza nessuno si
preoccuperebbe se non che lì si trova il luogo menzionato nel primo blues
di cui si abbia memoria. La leggenda racconta che nel 1903 il compositore
ed editore di musica W. C. Handy, mentre aspettava un treno a Tutwiler,

51
Mississippi, sentì un bracciante di nome Henry Sloan cantare una canzo-
ne che diceva “I’m goin’ where the Southern cross’ the Dog”, vado dove il
Southern incrocia il Dog, su armonie che Handy non aveva mai sentito.
Handy trascrisse a memoria la canzone e la pubblicò nel 1914 con il tito-
lo The Yellow Dog Rag. Quando la ristampò come The Yellow Dog Blues la
canzone divenne un successo, e la preistoria del blues cedette il passo alla
storia discografica.
Il Double E, il treno che percorre lento e solenne il paesaggio dylaniano
di It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry (1965), molto probabilmente
sta attraversando l’intersezione di Moorhead, Mississippi, dove a partire dal
1897 si sono incrociati ad angolo retto i binari della Southern Railway e della
Yazoo-Delta Railroad, meglio nota come Y. D. o Yellow Dog, la linea del
“cane dal pelo biondo”. In senso letterale, “vado dove il Southern incrocia il
Dog” vuol dire vado a Moorhead. Ma l’intersezione oggi è interrotta, la Yazoo
Delta non esiste più e la Southern Railway è stata sostituita dalla Columbus
& Greenville. Ciuffi d’erba si alzano stenti sui binari tranciati e un historical
marker, un’insegna ufficiale, ne ricorda bevemente la storia. In senso allego-
rico, affermare come fa Dylan in Nettie Moore (2006), “I’ve gone where the
Southern crosses the Yellow Dog”, sono stato stato dove il Southern incrocia il
Yellow Dog, significa compiere un viaggio iniziatico alle sorgenti della musica
degli ultimi della terra, ai quali nessuno dava credito di nulla, e che proprio
per questo ha cambiato il mondo. Quella di Dylan non è una posa, sappiamo
che è vero e che ci ha messo una vita per arrivarci.
Là dove finisce la Highway 61 il blues non comparve mai di persona. Si
era fermato prima, nei vicoli della desolazione del South Side di Chicago dove
imparò a inserire la spina e fare la voce grossa. Dove Muddy Waters, mentre
faceva consegne con un camioncino, ebbe l’idea di fermarsi in un juke-joint,
mettere cinque centesimi nel juke-box, scegliere il 45 giri che aveva appena
inciso e andarsene in cerca di un altro joint dove ripetere la stessa operazione.
Presto non ebbe più bisogno di girare a far consegne.
Eccolo, Muddy Waters. Mi sta davanti in una lucida statua di cera, sor-
ridente e marpione nel museo del blues di Clarksdale, mentre da un alto-
parlante viene in continuazione la sua voce che canta I’m a Hoochie-Coochie
Man. Per Muddy Waters, “I’m a man” era un’affermazione. Per tutti i white
boys lost in the blues, i giovanotti di razza bianca che si sono persi nel blues, è
sempre stata una domanda. Sono abbastanza uomo per cantare il blues? Un

52
bianco può suonare Hoochie-Coochie Man, ma lo può forse cantare? Può can-
tarlo senza far ridere la statua di cera di Muddy Waters che mi guarda qui nel
museo? La risposta è no, non è possibile. Quando Dylan, nella recente Early
Roman Kings (2012), usa la struttura monocorde di Hoochie-Coochie Man,
classicamente West Africa, antecedente allo stesso blues, deve raccontarci
sopra un’altra storia, probabilmente di gang cittadine del Bronx, di ragazzi
insomma che sono convinti di essere già uomini, e per non sfigurare al con-
fronto con Muddy Waters deve chiamare a raccolta tutto il catarro vocale
che ha accumulato in cinquant’anni di devozione al blues.
Sulle colline dell’Iron Range del Minnesota, dove Dylan è cresciuto, il
blues giungeva solo dall’etere, dalle stazioni radio a onde corte che trasmet-
tevano dal Tennessee e dalla Louisiana, dal Texas e dal Messico, facendo
rimbalzare contro la ionosfera le note di Hoochie Coochie Man (che Dylan
ricorda come uno dei suoi primi shock musicali) giusto perché un ragazzino
ebreo del Minnesota, i cui nonni erano emigrati dalla Lituania e dall’Ucraina
per sfuggire ai pogrom zaristi, potesse rimanerne folgorato.
Non c’è molto da vedere nel museo di Clarksdale: i resti della capanna
di legno dove Muddy Waters viveva prima di andarsene a Chicago, quando
ancora guidava i trattori della Stovall Farm; la sua prima chitarra, ricavata
dal legno della capanna stessa; l’unica fotografia esistente di Robert Johnson,
che ride come un dandy della vita e della morte. Johnson è nato a Helena, in
Arkansas, ad ovest del fiume, non molto lontano di qui. Non si è mai spinto
oltre San Antonio, Texas, e credeva che Chicago fosse in California, ma la
foto emana un tale consapevole snobismo che sembra scattata in un bistrot
parigino in attesa di andare a registrare una session con Sidney Bechet (qual-
cuno recentemente ha detto che non è lui, ma è difficile credere che qualcuno
potesse essere così cool, così faccia da schiaffi, senza essere un bluesman).
Dylan capì subito che il blues, nonostante il tono dimesso delle sue scale
doriche ed eoliche, per non dire dell’atteggiamento lamentoso-risentito
prevalente nei testi, era un’arte altamente espressionista. Come disse a Nat
Hentoff nel 1963 per le note di copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan, i
neri non cantavano il blues per crogiolarsi nei loro guai ma per uscirne, per
sentirsene al di fuori. Nonostante il suo attaccamento alla terra, il blues è
uno strumento di elevazione dello spirito (non dell’anima; a quella ci pensa
il gospel). Molti blues di Dylan seguono lo schema accusa-lamento, ma non
sono claustrofobici, non mancano mai di una possibile fuga sulla Highway

53
61 – dove, certo, ti possono aspettare lo sceriffo con la sua posse, il Ku Klux
Klan con i cappucci bianchi e le croci fiammeggianti, o lo spettacolo della
fine del mondo, ma l’Apocalisse suona più credibile sotto il cielo del Missis-
sippi che nelle topaie del Village dove consumano il loro tempo i bohémien
di Visions of Johanna.
In un’intervista apparsa la prima volta su “The Stars and Stripes” il 7
settembre 1988, Dylan riformula quello che aveva già detto a Nat Hentoff
venticinque anni prima: “Io non scrivo di qualcosa. Scrivo dal di dentro di
qualcosa, e canto e suono nello stesso modo. Il punto non è mai quel ‘qualco-
sa’, con la speranza di toccarlo. È piuttosto dall’interno cercando di uscirne”.
Non devi scrivere se non ti accade o, come diceva William Burroughs,
per scrivere devi esserci stato. La scrittura deve nascere da un’esperienza, da
una sensazione, non da una presa di posizione. La visione blues del mondo
adottata da Dylan spiega il suo rifiuto di assimilare i suoi brani socialmente
espliciti al sottogenere della canzone di protesta. In Chronicles Vol. 1 scrive, a
proposito di Robert Johnson: “Uno non se lo immagina a cantare ‘Washing-
ton’s a bourgeois town’, Washington è una città di borghesi. Non se ne sarebbe
neanche accorto, e comunque l’avrebbe trovato irrilevante”.
Dylan si riferisce a Bourgeois Blues, un brano che Leadbelly scrisse nel
1938 mentre si trovava nella capitale degli Stati Uniti, chiamato dal musi-
cologo Alan Lomax a registrare per la Biblioteca del Congresso. Nonostante
l’invito prestigioso e ufficiale, Leadbelly si accorse ben presto che a Washing-
ton lui era solo un “negro”. Nei ristoranti non poteva entrare e c’erano parti
della città dove non poteva mettere piede, sia perché nero, sia perché povero.
E ne concluse che Washington era una bourgeois town.
Ora, nel secondo capitolo di Chronicles Dylan inserisce proprio Bourgeois
Blues tra quelle che considera canzoni di protesta autentiche, sostenendo di
preferirla di gran lunga al più celebre inno sindacale Joe Hill. Ma per Dylan è
ancora più importante stabilire che Robert Johnson non avrebbe mai scritto
una canzone del genere. Johnson non poteva esser cieco di fronte alle di-
scriminazioni di razza e di classe (non gli sarebbe stato possibile in nessun
modo), ma come artista l’ispirazione non gli veniva dalla pura e semplice
protesta contro il razzismo.
Nei testi del blues si mescolano il personale e il politico, il fantastico e il
demonico, il lamento d’amore e la vanteria erotica, ma i blues che si possono
definire di protesta sono relativamente pochi. Perché la protesta possa elaborare

54
la propria retorica, creare comunità e tradursi in azione politica, occorre la pre-
senza di un ambiente ad alta conversazione sociale, cittadino e interclassista.
Occorre insomma l’equivalente della New York del Greenwich Village. Niente
di tutto questo si applicava ai bluesman dell’era eroica. Contro chi potevano
protestare? Contro i bianchi? Ma i padroni delle piantagioni non li ascoltavano
affatto. Preferivano i minstrel shows dove applaudivano i performers bianchi che
imitavano e motteggiavano i neri. Potevano protestare tra loro stessi? E a che
pro? Vivevano in condizioni troppo dure per concedersi simili lussi. La loro
prima necessità era la sopravvivenza. La seconda era venire a capo della inevi-
tabile precarietà dei loro rapporti, la promiscuità insita nel vivere alla giornata,
dell’ombra di Dio e di Satana che si stendeva sulle loro vite.
Si protesta quando si comincia a vedere una via d’uscita, e Robert John-
son di vie d’uscita non ne aveva. Johnson non protesta il fatto che ai neri
fosse imposto il coprifuoco e se si facevano sorprendere fuori dalle loro shanty
towns dopo il tramonto rischiavano il linciaggio. Scrive Crossroads, e quando
canta che non ha ancora trovato un passaggio mentre il sole sta calando i
suoi ascoltatori capiscono benissimo quello che vuol dire. A partire da quel
tacito accordo tra il bardo e la sua comunità Johnson proietta la precarietà
della sua vita su una scala epica. Dylan sapeva di non poter emulare una tale
impassibilità, ma poteva serbarla come obiettivo ideale. Il country, la ballata
folk, il gospel, la parlour song, gli altri generi che ha esplorato, sono anche
metafore dell’inaccessibilità di una delle culture più austere e più snob, nei
suoi risvolti tragici come in quelli ironici, che la modernità abbia prodotto.
Il blues è una musica che dà un piacere feroce, è un minotauro che può
attrarre qualunque white boy nel suo labirinto, senza un filo d’Arianna a
fornirgli vie d’uscita. Per Eric Clapton o John Mayall il blues è la musica di
una vita, ed è già molto, ma per Dylan è carne e sangue. Dylan ha citato,
saccheggiato, rielaborato, estetizzato il blues, ma non l’ha mai imbiancato, e
dalla dolcezza sontuosa di Pledging My Time (1966) è giunto infine alla risata
diabolica di My Wife’s Home Town (2009).
Quando il bluesman Petey Weathstraw si vantava di essere “the Devil’s
son-in-law”, il genero del diavolo, era difficile non credergli. Ma quando
Dylan in My Wife’s Home Town vuole convincerci che con lui c’è poco da
scherzare perché “sua moglie è nata all’inferno”, e ci riesce, realizza una me-
tamorfosi artistica, un mutamento di pelle che non ha equivalenti nella storia
della musica americana.

55
Politica

Una delle pagine che hanno causato più sconcerto ai lettori di Chronicles
Vol. 1, la bizzarra autobiografia dylaniana condotta per frammenti, è quella
in cui Dylan afferma, a proposito del suo rapporto con la politica nei primi
anni sessanta:

Il mio modo di vedere le cose era primitivo, a me piaceva la politica come si faceva
alle sagre di paese, il mio uomo politico preferito era il senatore dell’Arizona Barry
Goldwater, che mi faceva venire in mente Tom Mix, e non c’era modo di far capire
una cosa simile a nessuno” (p. 252).

Coloro che si sono scandalizzati di questa uscita ne hanno concluso che loro
l’avevano sempre saputo che Dylan era “di destra”. Non hanno citato la con-
clusione del paragrafo:

Non mi trovavo a mio agio con tutta la chiacchiera psicopolemica. Non era il mio
piatto preferito. Perfino le notizie dell’attualità mi rendevano nervoso. Mi piacevano
di più le notizie vecchie. Tutte le notizie nuove erano brutte. Meno male che non le
dovevo sopportare per tutta la giornata. Ventiquattr’ore al giorno di notizie continue
sarebbero state un inferno”.

Oltre a dedurne che Dylan non sta con la televisione continuamente sintoniz-
zata su CNN, questa pagina di Chronicles è rivelatrice del carattere “inattuale”
che Dylan attribuisce a se stesso e all’arte che gli interessa. Ma come intende-
re la battuta sul senatore dell’Arizona Barry Morris Goldwater (1909-1998),
la bestia nera della Nuova America, la reazione incarnata, l’uomo che sfidò

56
Lyndon B. Johnson alle presidenziali del 1964 con una piattaforma politica
ostile ai diritti civili e che veniva sostenuto perfino da esponenti del Ku Klux
Klan? Bob Dylan aveva in mente di votare per lui?
Reazionario certamente, ma soprattutto estremista libertario, Barry
Goldwater non era ostile per principio ai diritti civili per gli afroamericani;
sosteneva soltanto che si trattava di un problema che dovevano risolvere i
singoli stati, senza scomodare il governo federale. Naturalmente, in quel
“soltanto” stava tutta la differenza. Se avesse vinto le elezioni, si sarebbe ar-
rivati al paradosso per cui i neri potevano votare nel Massachusetts ma non
nell’Alabama, potevano sedersi ai posti davanti sugli autobus in Pennsylvania
ma dovevano andarsi a sedere negli ultimi posti se l’autobus attraversava il
confine con la Virginia.
Ci sono due vie per capire il senso di quel passo. La prima è che natural-
mente si tratta di una battuta. Scandalizzarsi per qualunque cosa dica Dylan
è sempre stata un’industria fiorente, retta dal presupposto secondo il quale
Dylan è come Gesù, che non rideva mai. La seconda è il contesto mediatico.
Nei primi anni sessanta Goldwater era l’unica vera star del Partito Repubbli-
cano, e lo si trovava dovunque. Si divertiva un mondo ad andare sopra le righe
e a terrorizzare i democratici, finché il suo istrionismo finì per spaventare
anche i repubblicani moderati. A due anni dalla crisi di Cuba non piacevano
a nessuno le sue affermazioni sbrigative sulla possibilità di sganciare qual-
che atomichetta qui e là per risolvere i conflitti internazionali. Goldwater è
una presenza ricorrente nel Dylan dei primi anni sessanta, e la menzione in
Chronicles è solo l’ultimo anello di una catena.
Dylan lo nomina la prima volta in I Shall Be Free No. 10 (1964), riman-
dandogli al mittente la retorica del “non sono razzista, però...”: “Sì, sono un
liberal, ma c’è un limite. / A me va bene se sono liberi tutti, / ma se credete
che uno come Barry Goldwater / me lo tengo per vicino di casa e gli faccio
sposare mia figlia / allora mi prendete per pazzo! / Non se ne parla nean-
che per tutte le fattorie di Cuba”. Nella quarta poesia del ciclo Some Other
Kind of Songs... (1964), Dylan riporta perfino le parole di un vecchio sudista
deluso da Goldwater: “da queste parti, un uomo anziano / e istruito con la
bandiera dei ribelli sopra / l’insegna casa dolce casa dice che non / voterà per
goldwater, ‘parla / troppo. dovrebbe tenere la bocca chiusa’”. E nel capitolo
8 di Tarantula (Maria on a Floating Barge), senz’altro scritto a cavallo delle
elezioni del novembre 1964, leggiamo un passaggio che potrebbe avere un

57
diretto riferimento alla battuta di Chronicles: “caro zanna, come te la passi
vecchio mio? / chi non muore si rivede. indovina un po’? a momenti / vota-
vo per goldwater perché, come / saprai, l’avrebbero trombato ma poi / sono
venuto a sapere della faccenda di jenkins, / e m’immagino che non sia niente
di che, ma è / l’unica cosa sulla quale lui sta puntando / e così ho intenzione
di cambiare il mio voto / in favore di johnson”.
Dylan fa riferimento allo scandalo che coinvolse Walter Jenkins, uno
degli assistenti del presidente Johnson, che nel pieno della campagna elettora-
le dovette dare le dimissioni quando si scoprì una sua relazione omosessuale.
Goldwater cercò di approfittare della situazione ma era comunque troppo
tardi. In Tarantula ci sono almeno altri due riferimenti a Goldwater, uno
esplicito e uno implicito. Il primo compare nel capitolo 20, A Confederate Poke
into King Arthur’s Oakie: “mi spieghi questo fatto, dott. / blorgus: il fatto è
questo: bisogna / essere disposti a morire per / la libertà (fine del fatto) ora,
quello / che voglio sapere del fatto è questo: è possibile / che l’abbia detto
hitler? de gaulle? pinocchio? / lincoln? agnes moorehead? goldwater? barba-
blù?”. E nel capitolo 44, The Vandals Took the Handles (An Opera), è difficile
non pensare a Goldwater quando si legge la descrizione dell’uomo politico
che non ha paura di sganciare bombe atomiche e ha le mani “made of water”
(fatte d’acqua): “lei dice di essere patriottico, di non / aver paura a sganciare
qualche bomba H e a tutti far / vedere che non scherza, però lei non dice
niente tranne / che non ha paura di sganciare qualche bomba H. / come fa a
dire che i miei figli devono imparare dal / buon esempio? possono imparare
dal cattivo esempio / allo stesso identico modo – possono imparare da lei /
come da me. non può tenermi più sotto il suo / tallone – non perché mi sbatto
come un’anguilla, / ma perché lei ha le mani fatte d’acqua…”
(Strano destino quello di Goldwater. Sconfitto da Johnson, quindici
anni dopo fu uno degli artefici dell’ascesa di Ronald Reagan e del ritorno
dei Repubblicani al potere, ma davanti al ruolo crescente giocato dalla de-
stra religiosa ritrovò le sue radici libertarie e si schierò apertamente non solo
contro la commistione di politica e religione – “La destra cristiana mi mette
una paura d’inferno”, disse –, ma anche in difesa dell’aborto e di altri valori
prettamente liberal.)
Intanto dobbiamo aspettare l’11 settembre del 1976, in un’intervista
per “TV Guide Magazine”, perché Dylan faccia il nome di un altro politico.
L’intervistatore gli fa notare che durante la campagna presidenziale in corso

58
quell’anno, Jimmy Carter ha citato spesso Dylan, anche nel suo discorso di
accettazione della candidatura al convegno del Partito Democratico. Dylan
ribatte:

Non so cosa pensarne. Qualcuno mi ha detto che è uno che si candida alla Presi-
denza e che mi cita. Non so se sia un bene o un male. Ma è solo un altro tizio in
corsa per la Presidenza. Qualche volta sogno di dirigere il paese e di dare un incarico
a tutti i miei amici. È così che funziona, del resto. Mi piacerebbe veder tornare
Thomas Jefferson, Benjamin Franklin e qualcun altro dei loro. Se lo facessero, andrei
a votare. Loro sapevano che cosa succedeva.

Nel novembre 1977, però, il suo parere è meno sprezzante. Durante un’inter-
vista che sarebbe uscita su “Playboy” nel marzo del 1978, Ron Rosenbaum
gli dice: “Jimmy Carter ha detto che ascoltando le tue canzoni ha imparato a
vedere in un modo nuovo la relazione tra padrone e affittuario, tra fattore e
mezzadro e cose del genere. Ha anche detto che siete amici”. Dylan conferma:
“Sono suo amico”. Ti piace? “Sì, credo che abbia il cuore al posto giusto.” E
come descriveresti questo posto? “Il posto del destino. Ma spero che la rivista
non faccia venir fuori qualcosa come ‘il cuore di Carter è nel posto giusto
del destino’, perché sembrerebbe... Carter ha il cuore al posto giusto. Sa chi
è. Questo è quello che ho sentito quando l’ho incontrato”. Sei stato a casa
sua? “No, ma chiunque sia un governatore o un leader del senato o in una
posizione di autorità e che trova il tempo di invitare un cantante di folkrock
e il suo gruppo a casa sua deve avere... un po’ di senso dell’umorismo... e la
capacità di sentire il polso della gente. Perché mai dovrebbe farlo? La maggior
parte della gente che si trova nella sua posizione non saprebbe che cosa dire
a chi lavora nel campo musicale, a parte avere qualche interesse egoistico.”
Credi che Carter ti abbia usato invitandoti a casa sua? “No, credo che sia una
persona per bene, senza secondi fini, e che volesse conoscermi. Comunque,
per quanto riguarda i presidenti, a me piaceva Truman.” Perché? “Mi piaceva
il suo modo di fare e le cose che diceva e a chi le diceva. Era una persona di
buon senso, cosa che è rara per un presidente. Forse una volta non era così
raro, ma oggi lo è.”
Bisogna credergli? Come sempre, sì e no. Nell’autunno del 1965, quando
Nat Hentoff gli aveva chiesto, per un’intervista che sarebbe uscita sempre su
“Playboy” nel marzo del 1966: “Hai mai avuto il sogno infantile di diventare

59
presidente?”, un Dylan più giovane e più strafottente aveva risposto: “No.
Quando ero ragazzo il presidente era Harry Truman. Chi vorrebbe essere
Harry Truman?”.
Il 15 luglio del 1979, nel pieno di una improvvisa crisi energetica che
stava rapidamente distruggendo i progressi economici degli ultimi anni, il
presidente Carter pronunciò un discorso televisivo in cui espose una premessa
filosofico-religiosa-esistenziale alla richiesta, rivolta ai cittadini americani,
di risparmiare energia e consumare meno. La nazione, disse Carter, stava
attraversando una crisi:

È una crisi di fiducia. Una crisi che colpisce il cuore, l’anima e lo spirito della volontà
nazionale. La constatiamo nel crescente dubbio sul significato delle nostre vite e
nella perdita dell’unità d’intenti... In una nazione che è sempre stata orgogliosa del
suo lavoro duro, delle famiglie solide, di comunità in cui tutti si sentono parte in
causa, e della sua fede in Dio, troppi di noi tendono ad adorare l’auto-indulgenza e
il consumismo. L’identità umana non è più definita da ciò che si fa ma da ciò che
si possiede. Eppure abbiamo imparato che possedere beni e consumare cose non
soddisfa l’urgenza di dare significato alla vita...

Il discorso, che nei primi giorni era stato accolto favorevolmente, nel giro di
breve tempo provocò un contraccolpo che contribuì non poco, insieme alla
crisi iraniana, alla mancata rielezione di Carter e al trionfo di Reagan. Carter
aveva parlato come un predicatore vecchia scuola, di quelli che ancora credo-
no nel peccato e nel pentimento, non come un prosperity preacher, di quelli
che dicono ai loro fedeli: “Adesso pregate con me: Abbondanza! Abbondanza!
Abbondanza!”. Aveva osato insinuare che se l’America si trovava alle strette
era anche colpa degli americani che non riuscivano a consumare in modo più
sobrio. Invece di celebrare la vettorialità infinita del sogno americano, aveva
prospettato la possibilità di un futuro a crescita ridotta. In altre parole, aveva
dato la colpa della crisi alle vittime stesse della crisi. Nessun presidente, dopo
di lui, ha commesso lo stesso errore.
Carter apparteneva alla Chiesa Battista, la più larga congregazione d’A-
merica, divisa però da uno scisma consumatosi nel 1970. I battisti che ancora
credevano nel vangelo sociale e nel rispetto per la natura come creazione di
Dio (Carter era tra questi), erano stati fronteggiati dagli scissionisti della
Seconda Chiesa Battista con sede a Dallas, in Texas, che sostenevano invece

60
la letteralità della Bibbia, l’autorità carismatica del pastore, i valori famigliari
più conservatori e la salvezza individuale come unico fine del cristiano. Nel
giro di pochi anni, quella che fino ad allora era stata una frangia estremi-
sta, incolta e rurale della religiosità americana, sarebbe diventata una forza
egemonica nella politica americana, almeno fino alla seconda presidenza di
George W. Bush. Era la destra religiosa in armi, quella che aveva spaventato
perfino Goldwater.
Nel 1979, pochi mesi prima del celebre discorso di Carter, quando Dylan
si convertì al cristianesimo evangelico, non sapeva ancora in che mani politi-
che si era messo. Ci mise almeno un anno ad accorgersi che troppi predicatori,
troppe congregazioni, troppi profeti e troppi “uomini di pace” (il termine
sta, antifrasticamente, per l’Anticristo, ed è anche il titolo di Man of Peace
del 1983, una canzone che trasuda sospetto, paranoia e delusione) stavano
cercando di tirarlo per la giacca. E prese le distanze (silenziosamente, senza
dichiarazioni) dagli aspetti più virulenti del credo evangelico.
Ma, finché la sua convinzione di neo-predicatore rimase salda, Dylan
si trovò in un mondo che in parte conosceva già. Come aveva già detto in
un’intervista rilasciata in Australia nel 1966, le sue canzoni non parlavano
che del Secondo Avvento, e l’unica emozione con la quale lui avesse a che fare
era il Terrore. Lo confezionava, lo vendeva, e ci guadagnava. Allora, nessuno
capì di che cosa stesse parlando. Il suo periodo cristiano, in particolare nella
prima fase, 1979-1980, è vera vendita all’ingrosso di Christian terror, un inno
alla jouissance apocalittica e alla politica dell’Apocalisse.
Che è una politica fondata sulla negazione di se stessa, sulla gioia di
annichilirsi nel caos sfolgorante del Giorno del Giudizio. Cioè, non è poli-
tica. Come è stata intesa da Aristotele in poi, la politica implica analisi dei
problemi e tentativi di soluzione. Il Politico è essenzialmente anti-tragico
e anti-apocalittico, non contempla né la propria morte né la possibile fine
della propria capacità di decidere, vuole accedere al potere e con l’arma del
potere gestire i conflitti sociali. Ma l’ispirazione di Dylan è sempre stata più
affascinata dalla dissoluzione delle cose che non dalla loro soluzione. A livello
mondano, Dylan può pensarla o non pensarla come chiunque di noi quan-
do apre il giornale al mattino, ma non è su come “la pensa” che poi scrive
canzoni (e quando l’ha fatto non sono state tra le migliori). Dal suo punto
d’osservazione si possono scorgere i limiti dell’azione politica; certamente
non si possono scorgere i meriti.

61
Come dice una canzone di Jim Anglin, resa nota da Roy Acuff, This World
Can’t Stand Long, questo mondo non può durare. È un classico esempio di
country degli ultimi giorni, un genuino prodotto di quella pastoral Apocalypse
alla quale Gregg M. Campbell già a metà degli anni settanta aveva assimi-
lato anche Dylan, senza neanche sapere quanto il futuro gli avrebbe dato
ragione. (A cavallo del millennio, Dylan ha cantato spesso This World Can’t
Stand Long.)
Ma se questo mondo non può durare, se ogni conflitto interno e ogni
tensione internazionale sono il segno che la fine dei tempi è vicina ed è meglio
oliare il proprio fucile semiautomatico in vista della battaglia finale contro le
forze di Satana, perché mai ci si dovrebbe occupare di proteggere l’ambiente,
migliorare le scuole, organizzare la sanità pubblica, sostenere una forma anche
elementare di giustizia sociale? A che cosa serve la società, se poi ci si salva
o ci si danna da soli? La società non è niente più che un ostacolo sulla via
della salvezza. Gli apocalittici pastorali fanno molto comodo al capitalismo
catastrofico, del quale sono gli alleati più docili. Tra il 1979 e il 1980 Dylan
è caduto a capofitto nella trappola dell’apocalypse du jour quando si è messo
a predicare la fine del mondo perché la Russia aveva invaso l’Afghanistan,
perché c’era la crisi energetica e gli sceicchi d’Arabia si arricchivano a spese
dell’America, perché i suoi amici si convertivano al buddismo invece di di-
ventare evangelici, perché anche l’essere gay stava diventando un problema
politico, e perché la gente preferiva andare all’inferno ad ascoltare il rock
and roll piuttosto che seguirlo in paradiso a ritmo di gospel. Ha smesso di
dire scemenze in pubblico (le sue prediche tra una canzone e l’altra erano
talmente imbarazzanti da far venire in mente Celentano quando cede alla
sua vocazione di prete mancato) quando ha capito che quello stesso apoca-
littismo che per lui era una dimensione esistenziale, una perversa critica del
Politico, ma pur sempre una critica, in mani altrui tornava subito ad essere
un’arma politica.
La maggioranza della popolazione americana non vota, o vota molto
raramente. Poiché non esiste un’anagrafe comunale, il certificato elettorale
non arriva a casa automaticamente. Bisogna compilare un modulo che si trova
negli uffici postali, mandare la richiesta all’ufficio elettorale della contea, e il
certificato arriva in un periodo di tempo tra due e sei settimane. Le elezioni
si svolgono in genere il martedì e chi lavora deve farsi dare un permesso. Ul-
timamente le cose sono un po’ cambiate, ma fino a non molti anni fa vi era

62
anche una larga fascia di giovani istruiti e persone colte per le quali votare era
una cosa un po’ volgare. Voleva dire perdere la propria compostezza, il proprio
cool, farsi insomma delle illusioni. Tra le rock star di una volta, solo Frank
Zappa lanciava ripetutamente appelli ai giovani perché andassero a votare.
In una strofa di Highlands (1997), Dylan riveste la maschera del non-votante
snob: “Attraverso la strada per evitare un cane rognoso, / faccio un mono-
logo con me stesso, / forse ho bisogno di un cappotto di pelle bello lungo,
/ qualcuno mi ha appena chiesto / se mi sono iscritto alle liste elettorali”.
La voce che canta “Somebody just asked me if I registered to vote” è sarcastica-
mente stupita della domanda. In un’esecuzione dal vivo registrata il 16 marzo
del 2000 a Santa Cruz, in California, il tono ancora più cavernoso fa pensare
a Ezechiele Lupo al quale hanno appena chiesto se vuole firmare una petizione
in difesa dei Tre Porcellini. Ma in Highlands Dylan sta anche interpretando un
personaggio, quello del vecchio deluso dalla vita e che non ha intenzione di
farsi distogliere dal suo vagare in un mondo di sogno. In un’intervista rilasciata
a Londra il 4 ottobre 1997 e poi pubblicata da varie riviste, Dylan precisa:

A dire la verità, io non so che cosa sia la politica. Non conosco la differenza tra
destra e sinistra, queste differenze non le conosco. Posso essere quello che viene
definito un conservatore, posso essere del tutto a destra a proposito di qualcosa che
qualcuno pensa sia a destra; e posso essere completamente a sinistra su qualcos’altro.
Vado avanti e indietro. Posso avere la stessa opinione sulla stessa cosa da due o tre
punti di vista diversi.

Nell’ottobre del 2002, però, quando il senatore del Minnesota Paul Wellstone
trova la morte in un incidente aereo a Eleveth, nel Minnesota, a 30 miglia da
Hibbing, il giorno dopo, in un concerto a Denver, Dylan dedica a Wellstone
The Times They Are A-Changin’ con le parole: “Questa è per un grand’uomo e
un grande senatore del Minnesota” (“This is for a great man and a great sena-
tor from Minnesota”). Ora, Wellstone era un eroe populista, il portavoce dei
lavoratori metalmeccanici dell’Iron Range, una sorta di Pietro Ingrao delle
Colline di Ferro, ultimo rappresentante di una sinistra storica americana
ormai scomparsa. Si era nel pieno della campagna elettorale per il congresso
e Dylan avrebbe suonato nel Minnesota pochi giorni dopo. L’atmosfera era
tesa e vari politici repubblicani disertarono il concerto di St. Paul. Dylan può
non sapere che cos’è la politica, ma la politica sa chi è lui.

63
Soprattutto perché nemmeno lui ha mai abbandonato del tutto le sue
radici populiste. Sono tornate alla superficie in Workingman’s Blues #2 (2006)
in versi come “Il potere d’acquisto del proletariato si è dissolto / i soldi sono
una cosa vuota e inconsistente / ... / Dicono che i bassi salari sono la realtà
/ se vogliamo competere all’estero”. Sono sufficienti per dichiarare, come
hanno fatto alcuni critici entusiasti, che Workingman’s Blues #2 è un durissi-
mo testo anticapitalista? Nel clima attuale non ci vuol molto per passare come
anticapitalisti, una volta bisognava impegnarsi un po’ di più, ma è difficile
non provare simpatia per coloro che hanno aspettato dal 1962 al 2006 perché
Dylan pronunciasse la parola “proletariat”. Non solo: è probabilmente l’unico
in grado di cantarla (è talmente arcaica che non suonerebbe giusta nemme-
no in bocca a Bruce Springsteen). Hanno avuto più pazienza di Griselda, la
moglie fedele che nell’ultimo racconto del Decameron sopporta vent’anni di
umiliazioni orribili prima che suo marito le restituisca gli onori che le ha
tolto e le dica: “Meriti di essere mia moglie”.
Forse i versi più politici di Workingman’s Blues #2 sono quelli in cui
Dylan dice: “C’è gente che non ha mai lavorato un giorno in vita sua / non
sanno neanche che cosa vuol dire lavorare”. L’etica del lavoro gli importa più
che non la scelta a favore o contro il capitalismo. Come è più impolitico che
apolitico, allo stesso modo è più a-capitalista che anticapitalista, nel senso
che si pone a lato di una realtà non fondante e non ultimativa, anche se
non irrilevante. La sua è una posizione che si può approvare umanamente o
criticare politicamente (o anche tutte e due le cose insieme), ma è anche un
falso problema. Giuseppe Parini era un poeta serio e impegnato, attaccava la
corruzione dell’aristocrazia e scriveva odi sulla vaccinazione contro il vaiolo,
ma il Canto notturno di Leopardi, che non parla esattamente delle condizioni
di vita dei pastori delle Marche, lo ricordiamo più volentieri.

64
Obama

Ai primi di giugno del 2008, intervistato da Alan Jackson del “Times” di


Londra mentre è in tournée europea, Bob Dylan parla a lungo del suo in-
teresse per la pittura, della sua stima per l’ambiente dell’editoria e dell’arte,
molto superiore a quella che riserva per l’industria musicale (“un mondo di
ipocriti incompetenti”), finché l’intervistatore osa chiedergli che cosa ne
pensa della situazione politica negli Stati Uniti e delle elezioni presidenziali
in corso.
Erano anni che nessuno si azzardava più a rivolgergli domande simili,
temendo di ricevere in risposta il suo famoso sguardo gelido. Questa volta
però risponde. “L’America è in uno stato di grandi rivolgimenti” dice. “La
povertà è demoralizzante. Non ci si può aspettare la virtù della purezza
dalla povera gente. Ma adesso c’è quest’uomo che sta riscrivendo la natura
della politica a partire dalla base... Barack Obama. Sta ridisegnando la figura
dell’uomo politico, per cui dovremo stare a vedere che cosa ne verrà. Ho
speranza? Sì, ho speranza che le cose possano cambiare. Certe cose devono
cambiare. Bisogna prendere sempre il meglio dal passato, lasciarsi il peggio
alle spalle e andare avanti verso il futuro.”
Non è esattamente un endorsement, ma i decifratori dylaniani, tanto
attenti alle sfumature della sua lingua quanto una volta lo erano i crem-
linologi con i messaggi del Soviet Supremo, sanno che Dylan ha già detto
tutto quello che può o vuole dire. Il riferimento alla povertà, oltretutto,
ricorda due versi di Workingman’s Blues #2 (2006), in cui Dylan accenna
al sempre più debole potere d’acquisto del proletariat (usando proprio una
parola così demodé), nonché a quello che tutti quanti ripetono ai prole-
tari di oggi, e cioè che devono restare poveri se vogliono “competere con

65
l’estero”. Più singolare era il riferimento alla purezza. Chi chiede ai poveri
di essere puri? Poveri e puliti, certamente, ma quando mai poveri e puri?
(Beh, il puritanesimo americano chiede anche quello.)
Per lo più, il centinaio di lettori che commentano a caldo la presa di
posizione dylaniana sul sito del “Times” non sono sostenitori né di Dylan
né di Obama. Molti dei commenti, anzi, forniscono un assaggio dell’assalto
che Obama avrà da reggere nei mesi futuri: se Dylan è un ex-hippy drogato,
rincitrullito e venduto, Obama è un socialista, un comunista, un imbro-
glione, un amico di traditori della patria e di ex terroristi. E poi, come osa
Dylan dire che in America c’è la povertà e che i poveri non sono virtuosi?
Questo è un insulto, in America i poveri hanno la televisione e l’automobile,
quindi non sono poveri. Il più deluso di tutti i bloggers deve essere stato
Sean Curnyn, fondatore e gestore di un sito da anni dedicato a dimostrare
che “Bob is Right”, cioè, nei due sensi dell’espressione, “Bob ha ragione” e
“Bob è di destra”. Ma Bob non è di destra per la stessa ragione per cui non
è di sinistra. Non per qualunquismo, ma perché è probabile che nella sua
mente le idee si muovano per onde e particelle più che per direzioni precise.
O meglio, perché si muovono come le blue notes sulla scala cromatica, il
mi bemolle e il si bemolle che non stanno veramente né di qua né di là, nè
sulla scala maggiore né su quella minore, ma abitano piuttosto un mondo
intermedio dal quale mandano messaggi incomprensibili a chi non riesce
ad ascoltare tra le note.
La sera della vittoria di Obama, il 6 novembre 2008, Dylan sta dando
un concerto all’Università del Minnesota, la stessa dove ha passato i suoi
unici quattro mesi da studente, senza finire nemmeno un corso. Arrivata
la notizia che Obama era il nuovo presidente degli Stati Uniti, Dylan dice,
presentando al pubblico i membri del suo gruppo, “Ecco Tony Garnier con
una spilla elettorale di Obama. Tony pensa che una nuova epoca stia per
aprirsi. Un’era di luce. Quanto a me, io sono nato nel 1941, l’anno che Pearl
Harbour è stata bombardata. Da allora non ho fatto che vivere nell’oscurità,
ma sembra proprio che adesso le cose cambieranno”.
Non passa molto tempo, siamo ai primi di aprile del 2009 e Dylan conce-
de a Bill Flanagan un’intervista in anticipazione del suo nuovo disco, Together
Through Life. I media concludono subito che Dylan “ha scaricato Obama”.
Dall’intervista, apparsa dapprima su www.bobdylan.com e poi rim-
balzata sui giornali, appare chiaro che la stima di Dylan nasce soprattutto

66
dall’Obama scrittore e dalla sua autobiografia, I sogni di mio padre, una
scrittura che “agisce a più livelli”, che “dà emozioni e nello stesso tempo
fa pensare”. Il candidato presidenziale gli appare un personaggio da Odis-
sea, una ricerca del padre raccontata da Telemaco in prima persona. Poche
battute prima, comunque, Dylan reitera il suo pressoché totale disinteresse
per la politics, termine che in inglese ha un significato più negativo dell’i-
taliano “politica” (dire “it’s all politics” equivale più o meno a dire “è tutta
una mafia”). La politics, Dylan dixit, è una forma di intrattenimento, uno
sport praticato da chi viene dalle migliori famiglie e che avanza nel mondo
ben vestito, ben calzato e ben appoggiato. Crea più problemi di quelli che
risolve e forse chi davvero comanda non ha nemmeno cariche pubbliche.
In queste posizioni, ingenue o acute che siano (spesso sono entrambe le
cose), torna a galla la postura antisociale della scena hip degli anni sessanta,
fondata sulla radicale contrapposizione tra “noi” (fuori dal sistema) e “loro”
(che sono il sistema). Pare che nel 2004, dopo la seconda elezione di George
W. Bush, lo scrittore Hunter S. Thompson (l’inventore del cosiddetto gonzo
journalism, o giornalismo selvaggio, e che sarebbe morto di lì a poco) si fosse
sfogato amaramente con Dylan della pessima direzione in cui andava l’A-
merica. Dylan si limitò a ribattere: “Ma noi non siamo tenuti a unirci a loro”.
Per comprendere quanto sia radicato l’atteggiamento anti-establishment della
vecchia guardia del rock basta guardare la scena di Shine a Light di Martin
Scorsese in cui Bill Clinton va a salutare i Rolling Stones, ed è lui ad essere al
settimo cielo, non loro, che anzi ostentano un atteggiamento del tipo “Che
cosa vuole costui da noi?”. Tutt’altra cosa da Bono che va a pranzo e cena
con presidenti e primi ministri e che pensa seriamente di salvare il mondo.
Così, quando Flanagan chiede a Dylan se c’è qualcosa, nei Sogni di
mio padre, che possa fargli pensare a Obama come a un buon politico,
Dylan risponde: “In realtà, nulla. Da un certo punto di vista la politica
sembrerebbe l’ultima cosa di cui una persona così vorrebbe occuparsi. Ma
probabilmente saprebbe fare qualunque cosa. Se leggi il suo libro capisci
che è stato il mondo della politica a venire da lui. Il posto era già suo”. E
all’ulteriore domanda: “Credi che sarà un buon presidente?”. Dylan ribatte:
“Non ne ho idea. Sarà il miglior presidente che potrà essere. Molti arrivano
alla presidenza con le migliori intenzioni e se ne vanno sconfitti. Johnson
sarebbe un buon esempio... Nixon, anche Clinton, Truman, tutti gli altri
indietro nel tempo. Volano troppo vicino al sole e rimangono bruciati”.

67
He’ll be the best president he can be. Questa la frase per lo più tralasciata
dai giornali, che si sono fermati al “Non ne ho idea”. Dylan è prudente, dif-
fidente, scettico, pessimista, sarcastico, ma se non ha mai scaricato Obama
è perché non l’aveva mai caricato. Nella stessa intervista Dylan ammette di
considerarsi un mistico, un selvatico e un solitario. E ogni tanto è bene che
qualcuno venga dai boschi a ricordarci, anche brutalmente, che la politica
non è tutto. Che esistono, appunto, le blue notes.
Poi, l’11 febbraio del 2010, ecco che Obama invita Dylan alla Casa
Bianca per una celebrazione musicale della lotta per i diritti civili negli anni
sessanta (“un movimento con una colonna sonora”, come è stato detto).
Dylan viene accompagnato dal suo bassista, Tony Garnier, e dal pianista
Patrick Warren. Mentre Joan Baez, John Mellencamp, Yolanda Adams,
Natalie Cole, Smokey Robinson, Jennifer Hudson, The Freedom Singers
e The Blind Boys of Alabama si ritrovavano nel foyer dell’auditorio, com-
plimentandosi a vicenda, festeggiando e provando i loro brani in totale e
gioiosa confusione, Dylan passa tutta la security solo per un brevissimo
soundcheck, torna subito in albergo e ricompare, ripassando un’altra volta
la security, unicamente per cantare The Times They Are A-Changin’ in forma
di delicato country waltz, una ninna-nanna fluttuante sulla nebbia di un
paese lontano, così come il 15 dicembre del 2009 aveva cantato con un filo
di voce Do Re Mi di Woody Guthrie per il documentario PBS The People
Speak, accompagnato da Ry Cooder alla chitarra e da Van Dyke Parks al
pianoforte. Ascoltandolo, veniva da pensare che se Dylan mettesse in con-
gedo temporaneo la sua band e partisse per una tournée unicamente acu-
stica, riarrangiando le sue canzoni come le due che ha suonato per la PBS
e per la Casa Bianca, avrebbe ancora il mondo ai suoi piedi. Ma forse questo
mondo non gli è mai interessato più di tanto. Un’istantanea di fortuna lo
riprende mentre stringe la mano a Obama abbozzando un sorriso, poi basta.
Nemmeno un parola. Non rimane per il coretto finale Lift Every Voice and
Sing, né per il rinfresco. La demofobia che lo caratterizza, il disagio, anzi la
vera e propria angoscia di dover interagire con gente che non è parte della
sua tribù musicale, era già presente nella sua gioventù. Difficile dire se sia
peggiorato. Certo non è migliorato.
Nell’ottobre del 2010 esce su “Rolling Stone” una lunga intervista con
Obama. Gli chiedono anche di Dylan. Alla domanda, “Lei ha avuto Bob
Dylan alla Casa Bianca. Com’è andata?” Obama risponde: “Questo è quello

68
che mi piace di Bob Dylan. Si è comportato esattamente come ci si aspetta
da lui. Non è venuto alle prove. Di solito tutti vengono a provare prima
del concerto serale. Non ha voluto farsi fotografare con me. Tutti gli artisti
muoiono dalla voglia di comparire in foto con me e Michelle prima dello
spettacolo, ma lui non si è fatto vedere. È venuto e ha suonato The Times
They Are A-Changin’. Una bella versione. È immerso così profondamente
nella sua musica che può sempre venir fuori con un nuovo arrangiamento,
e la canzone suona completamente diversa. Finisce la canzone, scende dal
palco – io sono seduto proprio di fronte a lui – si fa avanti, mi stringe la
mano, fa un cenno con la testa, un mezzo sorriso, e se ne va. Tutto qui, e se
n’è andato. Questa è stata tutta l’interazione che abbiamo avuto con lui. E
io ho pensato: è così che vogliamo Bob Dylan, no? Non ci piacerebbe se ci
stesse intorno tutto sorrisi e moine. Lo preferiamo un po’ scettico su tutta
la faccenda. È stato un grande momento. Anche avere Paul McCartney è
stato incredibile. È una persona di una gentilezza squisita. Mentre era sul
palco a cantare Michelle per Michelle io stavo pensando a Michelle da ra-
gazza che cresceva nel South Side di Chicago, in una famiglia di operai, e
l’idea che un giorno uno dei Beatles avrebbe eseguito quella canzone per lei
alla Casa Bianca... È una cosa che non si riesce nemmeno a immaginare”.
Nel luglio del 1812 Beethoven e Goethe passarono un periodo di va-
canze a Teplitz, una cittadina termale che oggi è parte della Repubblica
Cèca. Un giorno, mentre passeggiavano assieme, si imbatterono in un
corteo di nobili vicini alla corte imperiale. Goethe si pose sul ciglio della
strada, si tolse il cappello e si inchinò con deferenza finché la processione
lo oltrepassò. Beethoven, invece, si mise le mani dietro la schiena, abbassò
la testa e senza cambiare passo né direzione, come se neanche li vedesse,
continuò il suo cammino, così che i nobili dovettero per forza fargli strada.
Quando Goethe gli chiese la ragione di un comportamento così irrispettoso,
Beethoven gli rispose: “Di nobili ce n’è un’infinità. Come noi due non c’è
nessun altro”.
Non sappiamo se l’episodio sia vero. È stato raccontato da Bettina Bren-
tano, la più famosa groupie della storia, che nelle sue memorie, per motivi
di vendetta personale, decise di far apparire Goethe come un cortigiano
e Beethoven come un eroe ribelle. Ma, anche se la storia non è vera, non
suona falsa. E sono vere le lettere che ne seguirono. Quella in cui Beethoven
dice di Goethe: “La Corte gli piace troppo. Non è dignitoso per un poeta”. E

69
quella in cui Goethe dice di Beethoven: “Non dico che abbia torto a trovare
il mondo detestabile, ma il suo atteggiamento non lo rende più tollerabile,
né per sé né per gli altri”.
Non per paragonare nessuno a nessun altro, s’intende, ma a leggere le
cronache comparate dei concerti di Dylan e McCartney alla Casa Bianca è
impossibile non farsi tornare in mente l’incontro di Teplitz...

70
Disimpegno

24 maggio 2011, Dylan compie settant’anni. Credo che a volte gli succeda
come a Mark Twain, che diceva di avere commesso tre buone azioni in tutta
la sua vita e che di notte si svegliava ancora con gli incubi. Le buone azioni
sono le canzoni di protesta che l’hanno definito in gioventù e lo definiranno
per sempre. Per chi ricorda o gli piace fantasticare su che cos’erano gli anni
sessanta, Dylan sarà sempre l’autore di Blowin’ in the Wind e di The Times
They Are A-Changin’. Ma ci sono molti Dylan, e ognuno avrà il suo. Per chi
ascolta le radio che trasmettono i successi del buon tempo che fu, Dylan è
l’autore di Like a Rolling Stone, Lay, Lady Lay e Knockin’ on Heaven’s Door.
Per chi si spinge fino agli anni settanta, Dylan è la voce di Tangled Up in
Blue e Hurricane. Poi, si sa, per molto tempo l’incanto si è spezzato. Sono
una minoranza coloro per i quali Dylan è anche l’autore di Blind Willie
McTell, Brownsville Girl o Man in the Long Black Coat. O magari, per chi
ha ripreso ad ascoltarlo negli ultimi anni, l’autore di Love Sick, Highlands e
Ain’t Talking. Che sono canzoni mature, complete, perfino meglio scritte
e meglio pensate di quelle di allora, ma hanno il profumo della vecchiaia
e non della gioventù, non inventano ma approfondiscono, non incendiano
ma quietano, non sconvolgono ma accompagnano. Saranno sempre pa-
trimonio di un numero più ridotto, di una massoneria più segreta. Ma le
buone azioni, quelle che ti tengono sveglio di notte a chiederti perché mai
le hai fatte, quelle le conoscono tutti, o credono di conoscerle, e tornano
periodicamente a tormentarlo.
Il 6 aprile 2011 Bob Dylan, per la prima volta in Cina, dà un concerto a
Pechino. Dell’evento si parlava da mesi e mesi. Un concerto dell’anno prima
era stato annullato, e la dietrologia ufficiale aveva già deciso che il motivo

71
stava nel fatto che il governo cinese non gli aveva dato il permesso. E ora
perché il permesso invece era stato accordato? Forse Dylan si era piegato a
qualche abominevole condizione imposta dal Politburo cinese? La bomba
esplode sul “New York Times” del 9 aprile con un articolo di Maureen Dowd
che inizia così: “Bob Dylan ha realizzato l’impossibile: raggiungere un livello
di sputtanamento senza precedenti” (dice “sell out”, svendersi, ma il signi-
ficato che gli americani capiscono è quell’altro). Maureen Dowd, pettegola
ufficiale del “New York Times”, esperta in articoli saporiti sugli scandali del
momento, afferma, senza fornire la minima prova, che Dylan, piegandosi
ai voleri del Partito Comunista cinese, ha omesso dal suo repertorio tutte
le canzoni di protesta, si è ben guardato dal dire una sola parola sull’artista
perseguitato Ai Weiwei, non ha cantato Blowin’ in the Wind e The Times They
Are a-Changin’, “che certo non sarebbero piaciute ai 2000 apparatchick pre-
senti al concerto”, anzi “non ha nemmeno cantato Hurricane”, che parla di
una persona incarcerata ingiustamente, “e se n’è andato con il suo mucchio
di contanti comunisti”.
Questa prosa da guerra fredda ha suscitato un rumore notevole. Lo diceva
il “New York Times”, quale fonte più autorevole esiste? Non pochi media si
sono affrettati a dichiarare “disastrosa” la tournée di Dylan in Cina, ripe-
tendo alla lettera, senza verificarle, le accuse di Maureen Dowd. La quale si è
comportata esattamente con un apparatchick: se tu non canti le canzoni che
io ti dico di cantare, tu con me hai chiuso.
Per ragioni di preferenza personale, per non dire di ridotta duttilità
vocale, Dylan esegue poche canzoni degli anni settanta e ottanta. Il suo
repertorio è composto soprattutto da brani degli anni sessanta e dagli anni
novanta in poi. Non canta Hurricane dal concerto di Houston del 25 gennaio
1976. Blowin’ in the Wind e The Times They Are A-Changin’ entrano ed escono
dalle sue scalette più o meno come tutte le altre canzoni. Ma, soprattutto,
pare proprio che non ci sia stata nessuna censura. Molti messaggi arrivati da
americani residenti a Pechino hanno specificato che la televisione di stato
cinese aveva trasmesso Blowin’ in the Wind pochi giorni prima, e che fuori
dalla palestra dove si è tenuto il concerto i baracchini dei souvenir mandavano
Blowin’ in the Wind a tutto spiano.
È vero, il Ministero della Cultura aveva voluto la scaletta e i testi delle
canzoni. Dylan, che per lo più decide all’ultimo momento che cosa suonare,
gliene aveva mandati una cinquantina. Ma quello che preoccupava le autorità

72
cinesi era che ci fossero espressioni volgari o sessualmente esplicite. Non ne
hanno trovate, e la cosa è finita lì. Chissà perché nessuno se l’è presa con i
Rolling Stones, che in occasione del loro concerto in Cina nel 2006 furono
veramente censurati e dovettero omettere canzoni troppo spinte come Honky
Tonk Women.
Ma i Rolling Stones non sono Dylan. Nessuno è Dylan, nemmeno a
settant’anni e con la voce a pezzi. Se fosse andato avanti per tutta la vita a
cantare canzoni di protesta, le Maureen Dowd del mondo intero sarebbero
le prime a considerarlo un relitto del passato. Ma siccome non l’ha fatto, per
molti è l’equivalente del Celestino V di Dante, colui che fece per viltade il
gran rifiuto. Doveva essere il Messia ritornato e invece disse a tutti quanti:
“Ma voi siete pazzi”. Non gli perdoneranno mai di non essere stato il martire
di se stesso. C’è un racconto di D. H. Lawrence intitolato L’uomo che morì,
in cui Gesù, dopo essere risorto, invece di salire in cielo decide di sposare
Maria Maddalena, sparire dalla circolazione e condurre una vita normale.
Ma temo che non sarebbe andata così, che non gliel’avrebbero permesso. Gli
avrebbe dato del venduto anche solo a vederlo incassare il compenso per un
lavoro di falegnameria.
Intanto, Obama non lo molla. Il bardo ufficiale della campagna di Obama
è Springsteen, si sa, e Springsteen dovrebbe bastare. Perché Springsteen è
tutto, tranne che non è Dylan. Così, il 29 maggio 2012 Dylan è invitato di
nuovo alla Casa Bianca a ricevere la Medaglia della Libertà, la più alta ono-
rificenza americana. Ancora una volta, cerimonia breve, nessun discorso, via
come il vento appena possibile. Dylan è grato a Obama, l’ha detto, ma non
fino al punto di appoggiarlo apertamente. Del resto, il capitale politico di
Dylan è largamente inferiore a quello di Springsteen; Dylan è troppo Dylan
per poter parlare “a nome” di qualcuno. In un’intervista uscita su “Rolling
Stone” il 27 settembre del 2012, Dylan si dilunga sul tremendo retaggio
della schiavitù che ancora affligge gli Stati Uniti, ma si rifiuta di rispondere
al giornalista che gli chiede se è per via di questa eredità che Obama, in
quanto primo presidente nero, è stato così osteggiato (“Non ho un’opinione
in merito”). E quando il giornalista insiste per sapere che cosa Dylan pensa
di Obama, la risposta è: “Che cosa penso di lui? Mi piace. Ma l’ho incontrato
solo qualche volta. La domanda dovresti rivolgerla a sua moglie, è lei la più
indicata a rispondere. Io, che cosa vuoi che ti dica? Gli piace la musica. È
cordiale. Veste bene. Che cazzo vuoi farmi dire?”.

73
E quando il giornalista di “Rolling Stone” gli ricorda le parole pronunciate
a Minneapolis quattro anni prima, Dylan cade dalle nuvole, o fa finta, ed
entra in una delle contorsioni linguistiche di cui è maestro: “Non so quello
che ho detto o non ho detto. Forse Tony aveva una spilla di Obama e forse io
ho detto qualcosa perché in quel momento aveva senso dirla. Forse ho detto
che sembrava che le cose stessero cambiando. Non penso che avrei potuto
prevedere in che modo sarebbero cambiate, ma qualunque cosa io abbia detto,
l’ho detta per la gente riunita in quella sala in quella sera. Non l’ho detto
perché venisse incisa in un disco per l’eternità. O forse sono andato giù in
città a fare un discorso?”.
No, eri sul palco, dice il giornalista.
“Ok, ero sul palco. Non so che cosa intendevo dire. Certe volte dici delle
cose e non sai che diavolo vogliono dire. Ma quando le dici sei sincero. Spe-
ravo che le cose cambiassero. Non nego quello che ho detto, ma avrei sperato
che le cose cambiassero. Di sicuro spero che siano cambiate.”
Ho l’impressione, lo incalza il giornalista, che tu sia molto riluttante a
parlare del presidente e a discutere come è stato criticato. “Beh, sai” conclude
Dylan, “ti ho detto quello che potevo.”
Insomma, qualche sospetto di reticenza poteva sorgere. Se invece era
solo prudenza, era la stessa dimostrata con Jimmy Carter (del quale gli
americani di destra e di sinistra hanno un tale brutto ricordo che restro-
spettivamente la prudenza appare più che giustificata). C’è voluto l’ultimo
atto della campagna elettorale del 2012 perché Dylan infine ricambiasse
le cortesie di Obama con un piccolo discorso galleggiante sul mare delle
notizie, ritardato fino all’ultimo perché facesse il maggior effetto e insieme
il minor danno.
Drante la giornata del 5 novembre 2012, il giorno prima delle elezioni di
secondo termine, Obama fa tappa a Madison, Wisconsin, accompagnato da
Bruce Springsteen. È una breve sosta, poi ognuno per la sua strada. Quella
sera stessa è annunciato un concerto di Dylan. È mai possibile che a Dylan
venga un po’ di rimorso per la generosità politica di cui dà prova Springsteen?
In chiusura di concerto, durante un intermezzo parlato inserito in Blowin’
in the Wind, Dylan infine dice qualcosa che qualcuno capisce e altri no, che
qualcuno trascrive in un modo e altri in tutt’altro modo. L’unica frase che i
giornali e il web riportano è l’ultima: “Non credete ai media, sarà una valan-
ga di voti”. Il pubblico, presumibilmente composto da allevatori di bestiame

74
(pochi) e studenti universitari (molti), le due maggiori etnie di Madison,
esplode in applausi.
Ma il mondo dei blog si scatena. Perché non bisogna credere ai media?
Tutti i media, tranne quelli schierati apertamente con i repubblicani, danno
Obama favorito con un leggero margine. È a questo leggero margine che
non bisogna credere? Bisogna credere invece che la vittoria di Obama sarà
molto più netta? O forse Dylan voleva dire che la valanga di voti sarà per il
suo concorrente, il miliardario mormone Mitt Romney? Quindi Dylan è di
destra, quindi Dylan è un venduto. No, finalmente ha visto la luce, anche
Dylan vuole lavorare nella fattoria di Romney.
Nulla che esca dalla bocca di Dylan, che parli o canti, sfugge a un alto
margine di ambiguità. Bisogna essere sintonizzati non solo sui microtoni del
suo blues, ma anche su quelli della sua sintassi. Che è blues anche quella, e
che non deve mai far tornare a casa soddisfatti, senza una preoccupazione,
senza un pensiero da worried man che ti gira nel cervello. Sintassi splendi-
damente esemplificata da un insuperabile distico di B.B. King: “Nessuno mi
ama a parte mia madre, e magari anche lei mi prende per i fondelli” (“Nobody
loves me but my mother, and she may be jivin’ too”). Con tutto il rispetto, Dylan
non potrà mai scrivere un verso così. Ecco perché sta attaccato al blues, perché
è la cosa che sente più vicina e più irraggiungibile.
Così, per una volta decide di spiegarsi. E posta su Facebook un riassunto
del discorsetto di Madison: “Ho detto dal palco che stasera dovevamo dare
il meglio di noi stessi, che il presidente è stato qui oggi e venire dopo di lui
non è facile. Ho anche detto che noi non ci facciamo imbrogliare dai media
e pensiamo che sarà una valanga di voti. Questo è più o meno tutto”.
Tutti vogliono che Dylan “prenda una posizione chiara”, così da criticarlo
con più comodo non appena lo fa. C’è sempre stata una paranoica ansietà di
sinistra intorno a Dylan, cresciuta negli anni 2000 come se davvero potesse
svegliarsi un giorno e dichiararsi a favore di George W. Bush, della guerra in
Iraq e della prigione di Guantánamo. Sarebbe comica, se non fosse che ci si
ricorda benissimo degli illustri tradimenti di altre pop star: Frank Sinatra che
da campione di cause liberal passa dalla parte di Nixon e Reagan; Elvis Presley
che scrive a Nixon di voler diventare un agente antidroga e il 21 dicembre del
1970 si fa fotografare insieme a Nixon con un’espressione stampata in faccia
che più stonata non si può. Ma tutto quello che Dylan ha sempre voluto, è
di non essere costretto, come dice nel capitolo 23 di Tarantula (A Blast of

75
Loser Take Nothing) a cantare canzoni anti-carne ai convegni dei vegetariani,
che è ciò che gli sarebbe accaduto se avesse continuato a scrivere canzoni di
protesta (“salve a tutti. non un granché di nuovo. / cantato al congresso ve-
getariano / la mia nuova canzone contro la carne. è piaciuta / a tutti fuorché
agli idraulici sotto / al palco”).
È sempre in Tarantula, al capitolo 41 (Subterranean Homesick Blues & the
Blond Waltz), che Dylan offre la sua più esplicita spiegazione della rinuncia,
da parte sua, a “prendere posizione”:

io cantavo e l’edificio bruciava. ero lì, in tutta onestà, a cantare di fronte a un


incendio che infuriava e non ero capace di fare niente per quell’incendio, insomma,
non perché fossi svogliato o perché mi piacesse osservare dei bei fuochi, ma piuttosto
perché io e l’incendio ci trovavamo di certo nello stesso Tempo ma non nello stesso
Spazio ... ‘quando sento parlare dei bombardamenti vedo rosso e odio assurdo’ disse
Scoppiato. ‘quando sento parlare dei bombardamenti vedo la testa di una suora
morta’ dissi io.

Mentre per i surrealisti la liberazione dell’inconscio preludeva a una rivo-


luzione in politica, in Dylan accade l’opposto. Lo scatenamento surrealista
delle immagini ha l’effetto di bloccare l’accesso al discorso politico. Non si
può scrivere una canzone di protesta sul Vietnam, comprensibile e diretta,
se al posto dell’indignazione per i bombardamenti si vede la testa di una
suora morta, e se si è convinti che l’arte consiste nel render conto di quella
visione, perché è quella, e non un’altra, che l’artista ha ricevuto. La presa di
posizione appartiene al cittadino nel poeta, che non può tirarsi fuori da ciò
che accade, ma ha altri mezzi per farlo, se vuole, mentre il poeta nel cittadino
deve rimanere fedele a ciò che ha visto.
Nel 1911 Umberto Saba mandò un articolo a “La Voce”, che non lo pub-
blicò. Venne ritrovato molti anni dopo tra le carte del poeta e uscì con il titolo
Quello che resta da fare ai poeti (Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1959). Saba
ha rispetto per Manzoni, autore di “versi mediocri ma immortali” (p. 13),
per via della sua “costante e rara cura di non dire una parola che non corri-
sponda perfettamente alla sua visione”, rispetto ai “magnifici versi” ma “per
la più parte caduchi” di D’Annunzio. La coerenza letteraria che Saba invoca
è anche e soprattutto coerenza morale. È il principio di un’etica della poesia.
Bisogna resistere al verso menzognero “anche quando il verso menzognero

76
è, preso singolarmente, il migliore” (p. 25). Non diversamente, Dylan dice
a Paul Zollo, nel loro lungo colloquio del 1991, che il verso “il nemico che
vedo ha apparenze rispettabili” (da Slow Train) può essere menzognero, men-
tre “sto guardando la tua gialla ferrovia” (da Absolutely Sweet Marie), visione
dei riflessi del sole sui binari, colti in un giorno qualunque in qualche parte
dell’America, non è necessariamente migliore o peggiore, ma è senz’altro vero.

77
Appropriazione

In letteratura, ci sono stati pochi casi di plagio così egregi come The Curious
History of Pope Joan di Lawrence Durrell. E in musica non ci sono molti esem-
pi di appropriazione disinvolta di materiale altrui come le ventuno Danze
ungheresi di Johannes Brahms. Siccome però né Durrell né Brahms erano
degli sconosciuti all’epoca dei loro plagi, né avevano bisogno di rubare nulla
a nessuno per acquisire fama o realizzare un facile guadagno, possiamo scar-
tare l’ipotesi dell’interesse personale e avventurarci invece nel territorio più
complesso dell’appropriazione culturale, lo stesso che ci servirà per discutere
le accuse di plagio che sono state e vengono ancora rivolte a Dylan.
Lawrence Durrell pubblica The Curious History of Pope Joan nel 1954. Il
romanzo, che ripercorre con umorismo e satira la leggenda medievale della
Papessa Giovanna, porta il nome di Durrell in copertina e al pubblico anglosas-
sone appare come un ulteriore capitolo delle bizzarre esplorazioni mediterranee
dell’autore già noto per il suo Alexandria Quartet. Fa un’altra impressione, però,
ai lettori greci che ne vengono a conoscenza e che vi riconoscono la trasposizio-
ne, pur se ricreata in una traduzione libera, di Papissa Ioanna, un romanzo di
Immanuel Roidis pubblicato nel 1866 e il cui piglio anticlericale costò all’autore,
uno dei maggiori scrittori greci dell’Ottocento, la scomunica da parte della
Chiesa Ortodossa. S’intende che una traduzione d’autore è parte integrante
dell’opera del traduttore stesso. Nessuno nega la centralità della traduzione
del Sentimental Journey di Laurence Sterne nel canone foscoliano. Ma Foscolo
non pensò mai di attribuire il libro a se stesso. Dunque perché Durrell lo fece?
Le risposte possibili sono due: un romanzo firmato Immanuel Roidis, autore
sconosciuto al pubblico anglosassone e per giunta greco, in anni in cui Grecia e
Inghilterra erano ai ferri corti, non avrebbe suscitato interesse nemmeno in una

78
traduzione di Durrell; se Durrell ne fosse stato l’autore, però, il libro avrebbe
potuto avere una certa circolazione, e a Durrell interessava soprattutto che la
storia raccontata da Roidis divenisse materia conosciuta in lingua inglese.
Questa è l’interpretazione più generosa. I greci vi videro piuttosto un
ennesimo esempio d’imperialismo inglese, che dopo aver represso nel san-
gue le sollevazioni avvenute in Grecia dopo la Seconda guerra mondiale ora
si appropriava senza problemi del patrimonio culturale di una nazione già
martoriata. Il caso non è mai stato del tutto risolto. Le edizioni tascabili in
lingua inglese di Pope Joan riportano ancora in copertina il nome di Durrell,
riservando Roidis per l’interno del volume.
Veniamo alle Danze ungheresi, che costarono a Brahms l’accusa di plagio
da parte del compositore ungherese Béla Kéler e da altri ancora. Come Dur-
rell conosceva la cultura greca, così Brahms aveva familiarità con la musica
popolare ungherese. Nel 1853 era anche andato in tournée (si fa per dire, visto
che gran parte delle trasferte avvenivano a piedi) per vari villaggi tedeschi
insieme al violinista ungherese Ede Reményi, grande esecutore e compositore
in proprio di melodie popolaresche, e probabile autore di alcune delle danze
che oggi associamo al nome di Brahms. Il caso Brahms però è diverso dal
caso Durrell. Quando Brahms pubblicò le sue danze ungheresi per pianoforte
a quattro mani (la prima serie nel 1869, la seconda nel 1880) non tentò di
farle passare come sue. L’edizione originale diceva “arrangiate da Johannes
Brahms”. Ma con il passare del tempo e il crescere della fama del compositore
gli editori pensarono bene di togliere l’“arrangiate da” sostituendolo con un
“di”. La cosa fece infuriare Kéler e i suoi colleghi ungheresi, anche perché
Brahms non solo si era appropriato delle loro melodie, ma le aveva anche
germanizzate al punto da rendere impossibile l’esecuzione delle versioni ori-
ginali a un pubblico non ungherese, che le avrebbe giudicate troppo rozze a
paragone delle occidentalizzate armonizzazioni brahmsiane.
Per essere precisi, Brahms compose in proprio almeno tre delle ventuno
danze (a parere di Joseph Joachim sono le nn. 11, 14 e 16), inserendo melodie
sue nelle rimanenti. E per le danze già pubblicate sarebbe stato difficile sta-
bilire chi ne fosse l’unico autore, visto che per lo più si trattava di materiale
popolare ampiamente stratificato. I compositori precedenti a Brahms, che
avevano tranquillamente saccheggiato materiale popolare in un’epoca in cui
le partiture venivano pagate a forfait, non avevano avuto di questi problemi.
Ma per lo più si trattava di brani non depositati. Le Danze ungheresi ponevano

79
problemi nuovi, a riflesso di un mercato musicale che prendeva il diritto
d’autore più seriamente che in passato. La controversia durò almeno fino al
1874, quando la “Allgemeine Musikalische Zeitung” di Lipsia pubblicò le
fonti delle prime dieci danze di cui Brahms si era servito.
Anche in questo caso possiamo parlare, se non di plagio, di un’appropria-
zione culturale che ebbe effetti positivi ma anche fuorvianti. Senza l’autorità
di Brahms la musica ungherese (Liszt a parte) avrebbe dovuto aspettare fino a
Bartók e a Kódaly per superare la soglia dei ristoranti con violinisti zigani, ma
gli arrangiamenti brahmsiani erano tedeschi fino all’osso, e quando Brahms
stesso eseguì alcune delle “sue” danze in un concerto a Pest nel 1868 non in-
contrò affatto il favore del pubblico ungherese, che le percepì come stravolte.
L’appropriazione non è plagio, ma non possiamo fare a meno di notare il
disequilibrio su cui si basa, il suo movimento dall’alto verso il basso, e che non
conosce reciprocità. Se Lawrence Durrell si appropria di un romanzo greco, o
se Johannes Brahms si appropria di un tema ungherese, la loro è considerata
un’operazione culturale tinta di imperialismo, ma pur sempre un’operazione
culturale. Se però fosse stato uno scrittore greco ad appropriarsi di un romanzo
di Durrell, o se fosse stato un compositore ungherese ad arrangiare una melodia
di Brahms e a farla passare come sua, nessuno avrebbe esitato a parlare di plagio,
ricorrendo magari ai tribunali (e se non l’avesse fatto l’autore l’avrebbero fatto i
suoi editori). In altre parole, la cultura più potente assimila, e come tale ritiene
di dover essere lodata. La cultura più debole plagia, e come tale va condannata.
Questo, beninteso, è il mondo come appare agli occhi della cultura più forte.18
I due casi citati ci hanno preso spazio, ma sono paradigmatici anche ri-
spetto alle questioni irrisolte che l’opera di Dylan e la sua pratica di intensa
assimilazione da fonti altrui hanno suscitato fin dagli esordi dell’artista, nel
1961-1962.19

18 Tra i più recenti contributi sulla controversia tra plagio e appropriazione si vedano Michael Grossberg, History
and the Disciplining of Plagiarism, in Originality, Imitation, and Plagiarism: Teaching Writing in the Digital Age, a
cura di Caroline Eisner and Martha Vicinus (Ann Arbor, Michigan, The University of Michigan Press, 2008),
pp. 159-172; John Frow, An Ethics of Imitation, “Angelaki: Journal of Theoretical Humanities”, 14.1 (2009): 77-
85; Eleanor Kutz, Wayne Rhodes, Stephen Sutherland, and Vivian Zamel, Addressing Plagiarism in a Digital
Age, “Human Architecture: Journal of the Sociology of Self-Knowledge”, 9. 3 (Summer 2011): 15-35.
19 Tra i più significativi interventi sull’argomento si vedano Robert Polito, Bob Dylan: Henry Timrod Revisited,
[http://www.poetryfoundation.org/article/178703], Jonathan Lethem, The Ecstasy of Influence: A Plagiarism,
Harper’s Magazine, 314 (Feb. 2007): 59-71; Anonymous, If I Was a Master Thief, Perhaps I’d Rob Them: Bob
Dylan, Plagiarism, Freshman Composition, and the “Cult of Originality”, [http://imaginaryboundaries.wordpress.
com/2009/05/21/if-i-was-a-master-thief-perhaps-i%e2%80%99d-rob-them-bob-dylan-plagiarism-freshman-
composition-and-the-%e2%80%9ccult-of-originality%e2%80%9d].

80
Dylan ha dovuto difendersi dalle accuse di plagio fin dall’iniziale successo
di Blowin’ in the Wind (inclusa in The Freewheelin’ Bob Dylan, 1963). Nell’am-
biente del folk revival dei primi anni sessanta, in cui gli artisti speravano tutt’al
più di vendere un numero di dischi sufficiente a pagare affitto e riscaldamento
del loro appartamento al Greenwich Village, l’apparizione di Blowin’ in the
Wind, che soprattutto grazie all’incisione di Peter, Paul and Mary arrivò se-
conda nelle classifiche americane nell’estate del 1963 e si trasformò poi in un
successo mondiale, sconvolse il povero mondo del folk, così come il successo
planetario dei Beatles, di lì a poco, avrebbe sconvolto il mondo del pop. Quando
Dave Van Ronk, il folksinger più autorevole del Village, la sentì, disse a Dylan;
“Bob, ma che canzone stupida!”. Stupida, dumb, per la sua totale vaghezza, per
la mancanza di un chiaro “messaggio”. Se nemmeno Van Ronk si accorse che
era proprio la calcolata naïveté della canzone a renderla utilizzabile da chiunque
e in qualunque situazione, possiamo capire come nessuno riuscisse a spiegarsi
perché una canzoncina scritta in pochi minuti al tavolino di un caffè da un
ragazzo di ventun anni avesse fatto breccia nel mondo intero. Non era possibile,
ci doveva essere sotto qualcosa, un segreto, una congiura.
Iniziò a girare la voce che Dylan non fosse il vero autore, anzi che l’aveva
comprata per pochi soldi da uno studente di liceo del New Jersey, depositan-
dola poi come sua. Il che, se mai, avrebbe dimostrato che Dylan aveva più
acume dell’anonimo studente del New Jersey, ma i complottisti non si fanno
di questi problemi. La notizia del furto operato da Dylan circolò per un paio
d’anni, giunse perfino su “Newsweek” e fu smentita solo quando lo studente
in questione, rintracciato, rivelò che era stato lui stesso a spargere la voce
per farsi bello con gli amici. Si formò un’altra scuola di pensiero, sostenente
che Dylan aveva rubato la musica a Vince Guaraldi, un compositore jazz in
voga negli anni sessanta e autore, tra l’altro, delle colonne sonore dei cartoni
animati dei Peanuts. Nel 2000, in un’intervista concessa al TG1 in occasione
della Mostra del cinema di Venezia, perfino Clint Eastwood, appassionato
di jazz, menzionò come un fatto abbastanza certo che Dylan avesse preso la
melodia di Blowin’ in the Wind da Cast Your Fate to the Wind di Guaraldi, il
che è piuttosto bizzarro perché basta ascoltare i due brani per accorgersi che
l’unica cosa che hanno in comune è la parola wind.
La melodia di Blowin’ in the Wind in realtà è ispirata allo spiritual No More
Auction Block, ma non è affatto una copia, è una variante, mentre il testo è
interamente di Dylan e le citazioni che contiene sono allusioni bibliche, dalla

81
colomba di Noè all’intimazione che l’uomo deve avere orecchie per ascolta-
re. L’idea della verità portata via dal vento come un foglio di giornale viene
probabilmente da un passo di Bound for Glory di Woody Guthrie, ma anche
in questo casa l’appropriazione dylaniana è interamente creativa.
Più interessante ai nostri fini, anche se meno noto, fu il caso di Don’t Think
Twice, It’s All Right (anch’essa inclusa in Freewheelin’ Bob Dylan), che Dylan adat-
tò da Who’s Goin’ Buy Your Ribbons (When I’m Gone) di Paul Clayton, il quale a
sua volta l’aveva ricavata dalla folk song Who Goñ Bring You Chickens. Siccome
l’appropriazione operata da Dylan era più sostanziosa dell’adattamento di Clay-
ton, sembra che Dylan abbia compensato Clayton in via amichevole, evitando
di finire in tribunale. Molto rumore fece invece l’episodio, risalente, al 1961, in
cui Dylan letteralmente rubò a Dave Van Ronk l’arrangiamento della folk song
The House of the Rising Sun. Gliel’aveva sentito eseguire e subito lo incise nel
suo primo album (Bob Dylan, 1961) benché Van Ronk gli avesse raccomandato
di non farlo, visto che di lì a poco l’avrebbe inciso lui. Van Ronk giustamente
si offese, e l’episodio contribuì ad aumentare la fama di ladruncolo che Dylan
stava già accumulando (anni dopo i biografi avrebbero anche indagato, a volte
con toni da grande rapina al treno, la sua propensione a rubare i dischi di mu-
sica folk degli amici – solo i migliori, s’intende – per poterli imparare).
Ciò che ancora una volta fa la differenza è che Dylan, qualunque cosa
facesse, se ne usciva con un prodotto migliore (la sua versione di The House
of the Rising Sun è più bella di quella di Van Ronk, Don’t Think Twice, It’s All
Right è molto al di sopra della canzone di Clayton) e otteneva un successo
molto maggiore di quello dei suoi colleghi.
Prestiti non restituiti o anche furti non erano una novità nel mondo del
folk, e ancora di più in quello del blues e del primo jazz. Si può dire anzi che
fossero la norma. Ma nessuno ci aveva mai guadagnato molto, e il fatto che
ogni riadattamento venisse depositato come una nuova composizione non
suscitava scandalo. L’apparizione di Dylan sconvolse il panorama non solo in
ragione del suo successo, ma anche perché questo nuovo autore-interprete
interveniva sul materiale altrui in maniera più profonda e trasformatrice, e
non sembrava porre limiti a quello che riteneva di poter saccheggiare. Dylan
era una spugna, disse il folksinger irlandese Liam Clancy. Oltre che una
spugna era anche una gazza ladra che non soltanto arraffava idee, temi, versi
e melodie dal folk americano, dalla ballata inglese, dai canti irlandesi e dal
blues, ma s’identificava con le sue fonti al punto di sparire in esse, di farle

82
parlare per lui, di ridursi a una pura voce che le enunciava in forma oracolare.
Il 23 ottobre 1961, in una conversazione annotata da Izzy Young, allo-
ra direttore del Folklore Center del Greenwich Village, Dylan tocca per la
prima volta il tema religioso: “Ho provato un sacco di religioni. Le chiese
sono divise, non riescono a decidersi, nemmeno io riesco a decidermi”. Non
sono parole sue. Vengono quasi alla lettera da Black Cross (Hezekiah Jones),
una poesia di Joseph S. Newman pubblicata nel 1948 e incisa in forma di
monologo da Richard “Lord” Buckley nel 1959. Dylan l’aveva eseguita con
accompagnamento di chitarra sia a Minneapolis che nei locali del Village (la
si ascolta nel cosiddetto Second Gaslight Tape dell’ottobre 1962, ma è tuttora
inedita su dischi ufficiali), e vi si era identificato totalmente.
Dylan, insomma, respirava quello che rubava. Si trattava, da parte sua,
di trovare un linguaggio, una sintassi, una retorica, una gamma di metafore
e prima ancora un lessico nel quale orientarsi e mettere su casa. In seguito,
anche chi si era risentito dei furti operati da Dylan avrebbe avuto modo di
considerare la questione da un altro punto di vista. Anni dopo, al di fuori del
Village (che era un mondo molto ristretto, quattro isolati di New York con una
sorta di succursale amica-nemica a Cambridge, nel Massachusetts), ben pochi
avrebbero sentito parlare di Dave Van Ronk, se non si fosse sparsa la voce che
era lui l’autore dell’arrangiamento dylaniano di The House of the Rising Sun.20
Negli anni del Village, Dylan stava cercando di mettere radici nella folk
music americana in tutte le declinazioni che voce e chitarra gli permetteva-
no. Ma erano radici che doveva inventarsi, perché quella musica non faceva
parte della sua storia personale né di quella della sua famiglia. A Hibbing,
la città mineraria del Minnesota dove era cresciuto, negli anni cinquanta

20 Può sorgere la domanda: ma Dylan non è mai stato vittima di plagio? All’epoca della controversia suscitata
dalla scoperta che Dylan aveva attinto a Henry Timrod (un non esattamente celebre poeta dell’Ottocento) per
il suo album Modern Times (2006), la cantautrice Suzanne Vega scrisse sul “New York Times” che bastava en-
trare in un qualunque locale del Village in una sera di microfono aperto per sentire giovani cantautori intenti a
saccheggiare Dylan (The Ballad of Henry Timrod, September 17, 2006). Due episodi sono comunque significati-
vi. Durante la sua tournée inglese del 1965, Dylan incontrò il cantautore inglese Donovan che gli fece ascoltare
una sua canzone basata sull’identica melodia di Mr. Tambourine Man. Dylan gli fece notare, più stupito che al-
tro, che quella melodia era sua. Donovan pensava che Dylan avesse fatto uso di un tema popolare, si scusò
prontamente e mise da parte la canzone. Trent’anni dopo, nel 1995, il gruppo americano Hootie and the
Blowfish raggiunse le classifiche con il brano Only Wanna Be With You che cita alla lettera cinque versi di Idiot
Wind di Dylan (inclusa in Blood On the Tracks, 1975). Darius Rucker, autore della canzone, si giustificò soste-
nendo di essere ossessionato da Bob Dylan. Il plagio in questo caso era indiscutibile (pur con tutte le sue appro-
priazioni, Dylan non ha mai citato cinque versi alla lettera da materiale protetto da copyright), ma pare che la
cosa sia stata sistemata amichevolmente, come già Dylan aveva fatto con Paul Clayton, senza mettere di mezzo
avvocati e tribunali.

83
era arrivato solo un po’ di rock and roll. E dal rock and roll infatti cominciò
da adolescente, ma non ne possedeva né la tecnica né le capacità vocali. A
Minneapolis imparò chi era Woody Guthrie e lo fece suo, ma senza perde-
re di vista né il country purissimo di Hank Williams né il blues nelle sue
varie incarnazioni, da quello rurale di Robert Johnson (che scoprì una volta
arrivato a New York) a quello urbano di Muddy Waters, che a Hibbing gli
era arrivato solo per radio, di notte. Il blues, anzi, gli apparve fin da subito
come il ricettacolo più capace di soluzioni musicali e testuali intercambiabili,
zeppo di formule così collaudate, ma anche così disponibili all’innovazione,
che costruire una canzone con frammenti tratti da blues precedenti non gli
pareva né un’operazione epigonale né sospettabile di plagio dal momento che
tutti i bluesman, inclusi i più famosi, l’avevano sempre fatto.

84
Furto

Tutti i bluesman l’avevano sempre fatto, di prelevare pezzi da altri blues


precedenti e cucire con quelli nuove canzoni. Negli anni sessanta, però, si
cominciava a non farlo più. Il pubblico afro-americano ormai preferiva il
rhythm and blues e il soul, composti da autori con uno stile troppo nuovo
per essere realizzato con elementi intercambiabili. Il blues divenne così il
pascolo preferito dei musicisti di razza bianca, tutti alla riscoperta di un’i-
dentità arcaicamente nera che stava ormai scomparendo e che in ogni caso
non apparteneva a loro. In Dylan, l’appropriazione culturale arrivò fino al
punto di fargli scrivere una strofa come “Ho una donna che sta a Jackson /
non mi va di fare il nome. / Non ha la pelle proprio nera, ma io / non sto
mica a far questione” (Outlaw Blues, inclusa in Bringing It All Back Home,
1965). Il tema della donna afroamericana dalla pelle chiara (dunque mu-
latta, e probabilmente discendente da una schiava violentata dal padrone
bianco) che però “va bene lo stesso” al suo uomo di pelle più scura, è ben
noto nel blues, ma non si vede perché un bianco dovrebbe interessarsene.
Anche qui, le risposte possibili sono due: da un lato Dylan lancia una sfida
al pubblico bianco al quale si rivolge, rovesciando ironicamente la realtà della
segregazione razziale (la legge sui diritti civili è di pochi mesi prima). Nella
canzone, non sono i neri che “vanno bene lo stesso” anche se sono neri, ma
i neri un po’ troppo bianchi, sui quali i neri chiudono un occhio. Dall’altro,
Dylan è vittima di un serio caso di melanofilia. Anche lui, insomma, come
in quegli anni in Italia cantava Bruno Martino nel suo blues Sono stanco,
avrebbe voluto dire: “Sono stanco di essere un bianco / vorrei dipingermi la
faccia di ner”. O si disperava rendendosi conto che non sarebbe mai riuscito
a cantare come Sam Cooke e Wilson Pickett e avrebbe voluto dire, come

85
il cantante italo-francese Nino Ferrer nella canzone omonima del 1967,
“Vorrei la pelle nera”.
In Italia, dove non c’erano tensioni etniche (se non interne, tra nord e
sud) e i neri erano ancora esotici, queste cose si potevano cantare. In Ameri-
ca no. Ma si potevano “agire”, appropriandosi dell’aggressività sessuale della
musica nera (come aveva fatto Elvis Presley) o di una situazione assolutamente
non-bianca come la diversa pigmentazione della pelle e la gerarchia sociale
che ne conseguiva all’interno della comunità nera (in sostanza: meno sei
nero e meno sei “puro”, per cui l’amore per una donna troppo chiara di pelle
va in qualche modo giustificato). Dylan non partiva da un presupposto di
imperialismo culturale (non c’era niente da guadagnare in America per un
bianco a identificarsi con i neri) soprattutto perché, a differenza di Brahms
che aveva germanizzato la musica ungherese, Dylan ha rispettato il blues fin
nelle viscere. E tuttavia si affacciava anche in Dylan l’amato-odiato spettro
del minstrel, il bianco con la faccia coperta dal nerofumo che mette in scena
orride parodie delle musiche e delle danze dei neri nei minstrel shows, spet-
tacoli di grande successo nella provincia americana fino agli anni trenta e
addirittura immortalati nel primo film sonoro della storia del cinema, The
Jazz Singer (Alan Crosland, 1927). Il protagonista del Cantante di jazz, Al
Jolson, oggi imbarazzante nella sua maschera di nerofumo per le ovvie con-
notazioni razziste che il fenomeno del minstrelsy non poteva evitare, era però
un sincero appassionato della cultura che parodiava. Ebreo di origine russa,
come Dylan, Jolson nel film è il figlio di un cantor che tradisce la musica dei
padri per diventare appunto un cantante di jazz, salvo a tornare alle origini,
e alla rassicurante famiglia ebraica, una volta raggiunta la maturità e messa
la testa a posto. Cosa che Dylan non ha fatto.
Molti compositori ebrei americani, da George Gershwin a Harold Arlen
a Bob Dylan, hanno elaborato nella loro opera il fascino che hanno provato
per la musica nera nonché l’attrazione verso un popolo che come il loro è stato
costretto all’esilio e alla schiavitù. Forse è per questa sotterranea corrente
comune che i musicisti neri (da Sam Cooke a The Staple Singers, da Jimi
Hendrix a The Roots, da Richie Havens a numerosi gruppi gospel) hanno
sempre rispettato ed eseguito le canzoni di Dylan, né l’hanno mai accusato
di aver sottratto alcunché alla loro cultura.
Ma Dylan ha lottato con lo spettro del minstrel ogni volta che si è av-
vicinato al blues o al gospel, fino a intitolare “Love and Theft” il suo album

86
del 2001, da lasciare tra virgolette perché riprende il titolo del più completo
studio esistente sul fenomeno del minstrelsy.21 Anche per Durrell nei con-
fronti della letteratura greca, e anche per Brahms nei confronti delle danze
ungaro-gitane, si potrebbe parlare di “amore e furto”. Dire che non si tratta
di un semplice plagio non è la frettolosa giustificazione di un comportamento
predatorio, bensì il riconoscimento di un dramma culturale in atto, più o
meno avvertito, più o meno capace di dare frutti, ma difficilmente riducibile
a una pura meschinità.
In Dylan, la consapevolezza del suo amore per il furto è cresciuta pa-
rallelamente all’ammontare dei furti commessi, per non parlare del bottino
accumulato. Non tutte le fasi della carriera dylaniana sono caratterizzate
dalla sindrome del topo del deserto che ammassa nella sua tana tutto quello
che trova. Il testo che Dylan ha maggiormente saccheggiato è la Bibbia, ma
rielaborare testi sacri non costituisce plagio. Le canzoni narrative degli anni
settanta sono quasi sempre libere da prestiti ingombranti. Gli anni ottanta
vedono alti e bassi. Molte canzoni di Empire Burlesque (1985) sono affollate
di battute tratte da classici film noir hollywoodiani. Oh, Mercy del 1989 è
tutta farina del sacco di Dylan. Il successivo Under the Red Sky del 1990, con
la sua massiccia presenza di filastrocche infantili, sembra composto avendo
sottomano The Oxford Dictionary of Nursery Rhymes (a cura di Iona e Peter
Opie, 1945). Ma un uso della citazione assolutamente pervasivo – nonché
culturalmente più sofisticato, fino a raggiungere punte di vero manierismo
– si afferma solo con l’ultima serie di album, da Time Out of Mind del 1997
a Tempest del 2012.
Qui non è più solo il repertorio del folk e del blues a essere setacciato,
ma letteralmente qualunque cosa catturi l’attenzione dell’autore e gli possa
servire da subtesto, tanto letterario quanto musicale. Le canzoni dell’ultimo
Dylan sono coperte scozzesi in cui ogni quadrato ha un pattern e colori diver-
si. L’unica regola sembra essere che tout va bien o, per dirla con Cole Porter,
“anything goes”: vanno bene Charley Patton e Bo Diddley, Woody Guthrie
e The Mississippi Sheiks, Ovidio e Shakespeare, Virgilio e Chaucer, Frank
Sinatra e Bing Crosby, Jelly Roll Morton e Guy Lombardo, Henry Timrod e
John Greenleaf Whittier (entrambi poeti dell’Ottocento, uno sudista e l’altro
21 Eric Lott, Love and Theft: Blackface Minstrelsy and the American Working Class (New York: Oxford University
Press, 1995). Si veda anche Robert Reginio, “Nettie Moore”: Minstrelsy and the Cultural Economy of Race in Bob
Dylan’s Late Albums, in Highway 61 Revisited: Bob Dylan’s Road from Minnesota to the World,a cura di Colleen J.
Sheehy and Thomas Swiss (Minneapolis, University of Minnesota Press, 2009), pp. 213-224.

87
nordista), lo scrittore del Mississippi Larry Brown e lo scrittore giapponese
Junichi Saga (autore della biografia romanzata di un membro della yakuza
da cui Dylan ha rielaborato una quindicina di frasi inserendole in “Love and
Theft”), per non dire di altri prelievi che i segugi delle fonti dylaniane sono
ancora impegnati a scoprire.
La mania citazionista raggiunge il parossismo in Chronicles Vol. 1, il
saggio autobiografico che Dylan pubblica nel 2004 e che è effettivamente
un esempio di originalissima prosa finché non si scopre (ma anche se lo si
scopre) che è un incredibile coacervo di riferimenti che non si possono im-
maginare più disparati.22 Dylan cita o rielabora passaggi da Jack London, da
Mark Twain, da Hemingway, da Stevenson, da Proust o da oscuri romanzi
polizieschi dell’inizio del Novecento anche quando non ne ha nessun bisogno,
anche quando sta dicendo cose semplici e che il riferimento letterario non
rende migliori. Più che plagio, parrebbe cleptomania. O forse, scendendo
più in profondità, potremmo dire che proprio nel momento in cui avrebbe
voluto dire, per parafrasare un titolo di W. H. Auden, “la verità, vi prego,
su di me”, Dylan ha confessato indirettamente di essere l’uomo che non c’è,
un superconduttore di segnali culturali più che una sorgente organizzata di
messaggi. Borges diceva che Francisco de Quevedo era più una letteratura che
un uomo. Dylan potrebbe rivelarsi più una semiotica che una letteratura.23
Recentemente, Dylan ha esteso il suo ladrocinio anche alla pittura. La
Asian Series esposta nel settembre-ottobre 2011 alla Gagosian Gallery di New
York doveva essere un diario visivo di impressioni asiatiche dal vero, finché si
è scoperto trattarsi di fotografie storiche, da Dylan ridipinte e colorate (cosa
non rara in pittura, ma in genere appannaggio dei dilettanti). Revisionist Art,
esposta sempre nella stessa galleria dal novembre 2012 al gennaio 2013, de-
nunciava subito la sua natura derivata, essendo una serie di copertine di rivi-
ste degli anni sessanta, rielaborate, parodiate, irrise o inventate. Se in questo
caso l’accusa di plagio non era possibile, è rimasto però il dubbio sul perché
Dylan sprecasse il suo talento in un’operazione così, appunto, dilettantesca.
Lasceremo queste nugae dylaniane al loro destino e ci concentreremo invece

22 Bob Dylan, Chronicles Vol. 1, trad. di A. Carrera (Milano, Feltrinelli, 2005).


23 Si veda Alessandro Carrera, La voce di Bob Dylan, 2a ed. nuova edizione riveduta e ampliata (Milano, Feltrinelli,
2011), pp. 25-45 e 345-362. Per i problemi connessi alla traduzione delle canzoni, di varie poesie e dell’autobiogra-
fia, nonché al reperimento delle fonti, si rimanda anche a Bob Dylan, Lyrics 1962-2001, trad. e cura di A. Carrera
(Milano, Feltrinelli, 2006), Bob Dylan, Tarantula, trad. e cura di A. Carrera e Santo Pettinato (Milano, Feltrinelli,
2007), e Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, a cura di A. Carrera (Novara, Interlinea, 2008).

88
sul risultato più cospicuo da lui raggiunto negli ultimi tempi, vale a dire le
migliori canzoni dell’album Tempest (2012), dove viene in luce meglio che al-
trove il destino (e quindi, implicitamente, l’origine) del citazionismo dylaniano.
Parlare di Tempest è come cercare di recensire l’iceberg che ha affondato
il Titanic. Da qualunque parte lo si prenda, qualunque cosa se ne dica, il
novanta per cento rimane sott’acqua. Comincia come un invito a un ballo
(la prima canzone, Duquesne Whistle, inizia con una citazione letterale da
Each Day di Jelly Roll Morton, un’incisione del 1930), ma non c’è bisogno di
arrivare alla penultima canzone, quella che dà il titolo al disco, per accorgersi
che il ballo è sul ponte di una nave che sta sparendo in mare. Non vi è nulla
di idealistico nella ricostruzione dylaniana del folklore. Le antiche ballate
alle quali si fa riferimento in Tempest sono quelle che dicono la verità sulla
condizione umana, senza contemplare dolcezze né pietà.
Intanto rimane la domanda: chi è oggi Dylan? Che filo fragile o tenace lo
lega ancora al ragazzo che scriveva Blowin’ in the Wind e che, a suo modo, ha
sempre avuto ragione a dispetto di tutti quelli che ne sapevano più di lui, o
che erano più onesti di lui? Le canzoni di Tempest ricordano a volte le epiche
tempeste del passato ma se si prescinde dall’invecchiamento della voce non
si riesce più a capire quale brano sia stato scritto prima e quale dopo.
Una volta Dylan sconcertava perché non si capiva da dove venissero le sue
canzoni. Oggi lo sappiamo, venivano dal futuro. Ogni poeta, si dice, inventa
i suoi precursori, costringendoci a leggerli con altri occhi. Ma Dylan non ci
fa veramente ascoltare Woody Guthrie, Hank Williams, Robert Johnson o
Buddy Holly con altre orecchie. Se speriamo di cogliere in loro le radici di
Dylan sbagliamo direzione. L’unico antenato del Dylan del 1962 è il Dylan
del 2012. Il tempo voleva che Dylan gli si sottomettesse, magari lasciandosi
distruggere da valori dissennati o maturando ambizioni insane (che Dylan
riserva al cinema e alla pittura, ma fortunatamente non alla musica). Dylan
invece ha preso il tempo per il collo, ha truccato le carte del prima e del dopo
o forse le ha proprio ignorate. Come quell’altro inventore di se stesso che a
una platea sbigottita di duemila anni fa disse che ancora prima che Abramo
nascesse lui già era, così Dylan ci sta dicendo dal 1997, da quando è uscito
Time Out of Mind: “Dove voi siete, io sono già stato; dove volete che io ritorni,
è da lì che sono appena venuto; e dove vado io, è dove voi non arriverete”.
Oppure c’è un altro modo di raccontare la vicenda di quest’uomo assurdo
che a settantun anni scrive una canzone di 14 minuti e 45 quartine rimate,

89
basata su una melodia della Carter Family (un vero capolavoro di tortura mi-
nimalista), per raccontarci l’affondamento del Titanic come puro Act of God
– come in inglese si chiamano le catastrofi naturali. Dove stava nascosto, che
musica ascoltava? Rock poco o niente, perché in Tempest del rock and roll c’è
solo l’ombra. Pare ascoltasse solo blues, swing, rhythm and blues, un po’ di
jazz e canzonette melodiche della vecchia Tin Pan Alley, e che leggesse solo
giornali molto vecchi, appassionandosi a fatti successi quando non era ancora
nato. Solo che per lui non erano affatto vecchi. Erano notizie dall’avvenire,
cose che dovevano ancora succedere. Solamente quando le avrebbe cantate,
come l’affondamento del Titanic cent’anni dopo, sarebbero accadute davvero.

90
Trasfigurazione

Pochi giorni dopo l’uscita di Tempest, “Rolling Stone” pubblica un’intervista


condotta da Mikal Gilmore, uno dei giornalisti con i quali Dylan si sente più
a suo agio. E questa volta si lascia andare davvero. Ha sempre detto quello
che pensava, anche quando non si capiva che cosa pensasse, e anche quan-
do non lo sapeva nemmeno lui. Ha sempre sparato a zero contro chi e che
cosa non gli andava, anche quando aveva molto da perdere a non stare zitto.
Adesso che è osannato dalla critica e dalle classifiche come non gli accadeva
da trent’anni, unico artista del rock a trovarsi tra i numeri uno pur avendo
passato i settant’anni, spara a zero ancora e più di prima. Ad esempio, contro
coloro che l’hanno sempre accusato di plagio:
“Chi leggeva Henry Timrod? Chi è che l’ha rimesso in circolazione? Se
credete che sia così facile usare i suoi versi, provateci e vediamo un po’ dove
arrivate. Solo pappemolli e sfigati [wussies and pussies] fanno chiasso su queste
cose. Ci sono perfino quelli che mi hanno dato del Giuda. Giuda, il nome
più odiato della storia! E per che cosa? Perché suonavo una chitarra elettri-
ca? Come se la cosa fosse paragonabile a tradire nostro Signore e metterlo in
croce! Figli di puttana, che vadano a marcire all’inferno! Tutto quello che
dicono di me, lo dicono di loro stessi”.24
Furia vendicatrice a parte, l’ultima osservazione è vera. Chi segue gli
innumerevoli blog che si avventano su ogni nuovo disco dylaniano sa bene
che sono spesso esercizi di autoanalisi tanto esasperata quanto disperata. Il
fondo della depressione è stato probabilmente raggiunto da un certo Peter
24 The Bob Dylan Interview, a cura di Mikal Gilmore, “Rolling Stone”, September 27, 2012. Il nome di “Giuda” si
riferisce al concerto di Manchester del 17 maggio 1966 quando uno degli spettatori, irritato dal passaggio di
Dylan a una strumentazione elettrica, gli gridò “Judas!” prima dell’attacco di Like a Rolling Stone. Lo scambio di
battute tra lo spettatore e Dylan si può ascoltare in The Bootleg Series Vol. 4 – 1966.

91
Higginson che dopo una vita di adorazione dylaniana ha sconsolatamente
concluso che Dylan “forse capisce come vanno le cose del mondo, ma prova
a chiamarlo per vedere se ti aiuta a pagare l’affitto e ti accorgi che lì non c’è
niente, è un meccanismo di adorazione, certamente una valevole forma d’arte
ma che non ha nessun effetto sulla realtà della tua vita”.25
Deprimente. Ma anche illuminante. Fa capire che cosa Dylan ha dovuto
affrontare per tutta la vita. Di quale durezza ha dovuto essere capace per
continuare il suo lavoro mentre il mondo intero in fondo non voleva altro
che lui smettesse.
In questa intervista, però, Dylan si lascia andare anche in un altro modo,
spiegando nella maniera più esaltata, più mistica, più folle, e dunque più
sincera, la giustificazione metafisica che ha trovato per la sua sopravvivenza
artistica. La risposta è questa: è stato trasfigurato.
Nello stesso senso, sembra di capire, in cui è stato trasfigurato Gesù
sul Monte Tabor: “Gesú prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fra-
tello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte; e fu trasfigurato alla
loro presenza: la sua faccia risplendette come il sole e le sue vesti divennero
candide come la luce” (Matteo 17, 1-2). Dylan afferma di aver trovato un
libro sulla trasfigurazione in una libreria o biblioteca di Roma (sarebbe
interessante sapere quale, e quando), così che infine ha capito che cosa gli
è successo dopo l’incidente di moto del 1966 che lo costrinse ad annullare
una tournée dalla quale forse non sarebbe tornato vivo. Anzi, ora afferma
di avere capito che cosa gli era successo ancora prima. Sapeva di un omo-
nimo Robert Zimmerman, uno dei fondatori degli Hell’s Angels, morto in
un incidente motociclistico nel 1964 (lo cita anche in Chronicles Vol. 1; in
realtà quel Zimmerman era morto nel 1961, ma non importa) e già gli era
sembrato un segno del destino: Bobby Zimmerman non c’è più, è morto;
al suo posto è sorto Bob Dylan.
A otto anni di distanza da Chronicles, Dylan rincara la dose: non solo
Bob Dylan è sopravvissuto a Bobby Zimmerman prendendone il posto, ma si
è trasfigurato. Né trasformato né reincarnato, quanto, piuttosto, passato at-
traverso quel processo “che ti permette di strisciare fuori dal caos e fluttuarci
al di sopra” (come nelle trasfigurazioni del Beato Angelico o di Raffaello, si
suppone; o come nel mosaico della Chiesa della Trasfigurazione sul Monte
Tabor, dove Gesù appare leggermente innalzato sopra la roccia). “È per questo
25 [http://peterhigginson.wordpress.com/2012/09/25/reflections-on-tempest-and-bob-dylan-generally].

92
che posso ancora fare quello che faccio, scrivere le canzoni che canto e con-
tinuare per la mia strada”.
Dylan può dirci di tutto, siamo abituati. Ma proviamo a prenderlo sul
serio. È da una vita che Dylan sta “trasfigurando” il repertorio della canzone
americana. Ma forse nessuna trasfigurazione gli è riuscita meglio di Tempest,
la canzone che dà il titolo all’ultimo album. Tempest non sarà mai veramen-
te popolare. Anche il dylaniano più fedele potrà sempre trovarla eccessiva,
prolissa e maniacale nella sua sconcertante semplicità. Ma gli sarà difficile
liberarsi dal sospetto che, pur non essendo la miglior canzone di Dylan, sia
però la più perfetta.
Intervistato da una radio californiana pochi giorni dopo l’uscita del disco,
lo studioso di popular music Greil Marcus ha osservato che giunti al sesto
o settimo minuto si può pensare di uscire a prendere una boccata d’aria o
farsi un caffè, tanto al ritorno non sarà ancora finita. Ma se dopo la metà
si comincia ad ascoltarla attentamente ci si accorge che qualcosa è successo.
Quello che sembrava il racconto demodé di un naufragio avvenuto cent’anni
fa in realtà è una battaglia senza quartiere che si sta svolgendo qui ed ora
per il possesso delle anime di ogni personaggio menzionato nella canzone,
e che il culmine della narrazione, il suo momento più intenso, è raggiunto
alla terza comparsa della vedetta dormiente, il “watchman” che a bordo del
Titanic sta sognando il Titanic che sta affondando, vorrebbe dirlo a qualcuno
ma non riesce a svegliarsi (“He dreamed the Titanic was sinking / and he tried
to tell someone”).
Al commento di Marcus vorrei aggiungere che quando Dylan conclude la
canzone con la quarta comparsa della sentinella, solo a quel punto riprende
uno dei versi originali di The Titanic della Carter Family, la canzone dalla
quale è partito e della quale ha usato, pressoché verbatim, la melodia. La
sentinella sogna che il Titanic sta affondando “nel profondo mare azzurro
(“out on the deep blue sea”), ed è qui che per noi si accende la spia della tra-
sfigurazione operata da Dylan.
Nei suoi primi dischi, Dylan riprendeva melodie folk modificandole quel
tanto che bastava. Raramente prelevava un’intera melodia senza adattarla.
La giovanile The Ballad of Donald White (incisa nel 1962, poi inclusa in un
disco Folkways del 1972) è basata sulla ballata scozzese Come All Ye Tramps
and Hawkers, ma la somiglianza non è immediata. Dylan riprende la stessa
melodia in modo più letterale in I Pity the Poor Immigrant (inclusa in John

93
Wesley Harding, 1967), ma sono sufficienti le microvariazioni della sua voce a
far suonare il tema in modo diverso dall’originale. La somiglianza si fa palese
solo se ascoltiamo la versione vocalmente “pulita” che ne dà Joan Baez in Any
Day Now (1968). Lo stesso discorso vale per canzoni recenti basate su melodie
degli anni venti e trenta, ormai uscite dal diritto d’autore ma che comunque
un autore l’avevano e che molti ricordano ancora nella versione discografica
originale. È il caso di Sugar Baby (inclusa in “Love and Theft”, 2001) la cui
melodia è ripresa integralmente da The Lonesome Road di Gene Austin e
Nathaniel Shilkret (1927). È anche il caso di Beyond the Horizon (inclusa in
Modern Times, 2006), ripresa letteralmente da Red Sails in the Sunset di Hugh
Williams e Jimmy Kennedy, portata al successo tra gli altri da Bing Crosby
nel 1935 e da Nat King Cole nel 1951.
Ora, non si può plagiare un pezzo che tutti conoscono. Viene meno lo
stesso principio del plagio, che è quello di far passare per propria un’opera
altrui. Plagiare Red Sails in the Sunset è come per un italiano plagiare Signori-
nella pallida. Chiunque si accorge che la melodia è la stessa. Dunque il punto,
per Dylan, sta precisamente nell’usare quella melodia, per estrarne con la sua
voce una potenzialità “folk” che le versioni più ripulite e radiofoniche non
possono far emergere. E per adattarvi un testo la cui complessità semiotica
non mira a ingannare l’ascoltatore ma ad attivare una dissonanza cognitiva
capace di far ricordare le radici della musica americana anche a chi non le ha
mai conosciute. Una sorta di memoria del futuro.
Ma perché depositare la musica a nome proprio? Vale ancora la giustifi-
cazione che in passato lo si sarebbe fatto senza problemi, e che in ogni caso
i diritti originali sono scaduti? Non vale più, ma su questo punto dovremo
lasciare Dylan alla sua coscienza, specificando però che nel caso di brani più
recenti Dylan ha incluso nei crediti l’autore originale e si è firmato come
co-autore. My Wife’s Home Town (in Together Through Life, 2009) scritta in-
sieme a Robert Hunter, è basata su un blues di Willie Dixon (che a sua volta
l’ha ripreso da altri, ma quello di Dixon è il copyright più recente) e riporta
Hunter, Dylan e Dixon come autori.
Se però ascoltiamo Red Sails in the Sunset eseguita da Bing Crosby e subito
dopo Beyond the Horizon eseguita da Dylan ci accorgiamo che la melodia can-
tata da Dylan è la stessa dell’originale e insieme non lo è. Dylan è in grado di
scovare la matrice folk pressoché di ogni canzone americana. L’ha fatto con
Soon di George Gershwin, eseguita dal vivo l’11 marzo 1987 in un concerto

94
che celebrava gli ottant’anni di Frank Sinatra. La versione dylaniana di Soon
non è mai stata pubblicata ufficialmente, forse perché piuttosto stonata,
eppure anche le stonature rivelano in una canzone così “Broadway” uno
“spirito della terra” che avrebbe sorpreso il suo stesso autore. L’ha fatto con
You Belong to Me, un classico country di King, Price e Stewart, incluso nella
colonna sonora di Natural Born Killers (Oliver Stone, 1994) in una versione la
cui nudità toglie alla canzone qualunque languore. In Chronicles Vol. 1 Dylan
afferma di aver sempre sentito la matrice folk nelle canzoni di Harold Arlen
(l’autore di Over the Rainbow). Gli si può credere, e se mai si cimentasse con
un brano di Arlen ne avremmo la prova.
Ciò che importa, infine, non è che Dylan sta riscrivendo (o magari pla-
giando) vecchie canzoni ma come le sta riscrivendo o trasfigurando. Teologi-
camente, la trasfigurazione è la manifestazione che là dove si credeva vi fosse
solo l’umano, vi era del divino. Filosoficamente, è l’inserzione immediata del
piano della trascendenza sul piano dell’immanenza. Visivamente, è l’appari-
zione tangibile di un alone, di una corona di Kirlian intorno all’oggetto che
contempliamo, dell’aura di luce che D. W. Griffith e il suo fotografo Billy
Bitzer disegnano sul profilo di Lilian Gish in Agonia sui ghiacci (Way Down
East, 1920). Esotericamente, è la percezione del corpo sottile liberato dalla
costrizione del corpo materiale. Psicanaliticamente (seguendo Lacan), è la
consapevolezza che l’oggetto del desiderio nasconde una parte sublime, un
je ne sais quoi nell’oggetto che è più dell’oggetto stesso.
In The Titanic, la ballata della Carter Family, Dylan ha trovato tale su-
blimità, il “qualcosa di più”, precisamente nel verso “into the deep blue sea”,
proprio perché è quello più ovvio, più cliché, e quindi quello che meno di tutti
si può rubare. Ma se non si può rubare si può trasfigurare.
Come racconta Elio Donato, pare che Virgilio, accusato di essere un pla-
giarius di versi omerici, si sia difeso sostenendo: “È più facile rubare la clava
dalle mani di Ercole che un verso a Omero”. Oggi è più facile ricostruire il
Titanic in studio, come ha fatto James Cameron, che portar via una riga alla
Carter Family. Così come nessuno può più permettersi di scrivere, se non
come citazione ironica, che il mare ha il colore del vino o che l’aurora ha le
bianche braccia, allo stesso modo nell’anno di grazia 2012 per poter cantare
impunemente “nel profondo mare azzurro” bisogna prepararsi per quattor-
dici minuti. Dylan non intende affatto essere ironico o postmoderno. Vuole
poter cantare che il Titanic è affondato nel profondo mare azzurro, ma è

95
abbastanza smagato per sapere che il mondo omerico della Carter Family
è perduto e che un enorme lavoro è necessario per arrivare a poter dire la
stessa, stessissima cosa.
Ora, immaginiamo un pittore che per tutta la vita ha creato opere com-
plesse, originali, aggressive, rivoluzionarie. Ormai è celebre, anziano, e non
ha più doveri verso nessuno. Aveva una visione e l’ha imposta al mondo. Ma
un giorno, in automobile su una strada di campagna, intravede una cappella
diroccata al cui interno è dipinto un affresco ingenuo, popolare, raffigurante
forse l’assunzione di Maria o la trasfigurazione di Gesù. Il pittore scende, la
contempla a lungo, poi torna in macchina, prende i colori e il pennello dai
quali non si separa mai e in un solo tratto aggiunge un minimo particolare
all’affresco, che non lo rende affatto diverso da ciò che era prima, non lo fa
più riconoscibile o originale, l’affresco rimane ciò che era, né più né meno.
Di quel nuovo tratto il mondo potrà accorgersi oppure no. Ma il celebre
pittore sa che gli ci è voluta tutta una vita di esperimenti e controversie per
aggiungere quel minimo sbaffo di colore a un piccolo, dimenticato affresco
di campagna. Questo è il Dylan che alla conclusione di Tempest può infine
cantare: “La vedetta era immersa nel sogno / di tutto ciò che potrebbe mai
essere. / Sognò che il Titanic affondava / nel profondo mare azzurro” (“into
the deep blue sea”).
In Summer Days (inclusa in “Love and Theft”) Dylan riprende un celebre
scambio di battute dal Grande Gatsby di F. S. Fitzgerald: “Dice: ‘Non puoi
ripetere il passato’. Io dico: ‘Non puoi? Cosa vuol dire non puoi? Certo che
puoi’”. Nick Carraway gli ricorda che il passato è perduto ma Jay Gatsby non
ci vuole credere, non ci può credere. Se potrà rivivere il passato conquisterà
finalmente l’amore di Daisy Buchanan che a suo tempo gli è sfuggito, e dirgli
che è impossibile non serve a nulla. La musica americana è la Daisy Bucha-
nan di Dylan. Non l’ha mai conquistata abbastanza, non la conquisterà mai
abbastanza. Ormai che è troppo tardi, e proprio perché è troppo tardi, fino
alla fine cercherà con le sue canzoni di ripetere il passato, anche traendolo
dal nulla se quel passato non c’è mai stato.

96
Cover

La storia dell’unica cover dylaniana incisa da Luigi Tenco è, in gran parte, una
storia mancata. Nel 1964, in Italia, Bob Dylan era un nome noto a pochissi-
mi. Chi aveva seguito lo sviluppo del folk-revival americano sapeva di un gio-
vane autore di straordinarie canzoni contro l’ingiustizia, la discriminazione
razziale, il terrore nucleare e i fabbricanti d’armi, ma pochi avevano sentito i
suoi dischi e ancora meno avevano letto i suoi testi. Grazie al successo delle
versioni incise da Peter, Paul & Mary, da Joan Baez e da altri, Blowin’ in the
Wind era comunque conosciuta. Insieme a We Shall Overcome, Kumbaya, e
The Battle Hymn of the Republic (meglio nota come John Brown o con le parole
del ritornello “Glory, Glory, Halleluiah”) era anzi divenuta una canzone ca-
nonica nelle riunioni con chitarra dei giovani cattolici (del dissenso o meno)
quando si voleva testimoniare la propria solidarietà alla lotta per i diritti civili
dei neri americani. La si cantava in inglese, oppure nella traduzione ritmica
di Mogol. La prima strofa diceva: “Quante le strade che un uomo farà / e
quando fermarsi potrà? / Quanti mari un gabbiano dovrà attraversar / per
giungere e per riposar? / Quando tutta la gente del mondo riavrà / per sempre
la sua libertà? / Risposta non c’è, o forse, chi lo sa, / caduta nel vento sarà”.
La traduzione portava i segni delle convenzioni linguistiche dell’epoca,
quelle delle canzoni scritte in Via del Corso a Milano (sede delle più impor-
tanti case editrici musicali), e dalle quali Mogol non si era ancora liberato:
i tempi verbali accentati alla fine (farà, potrà, libertà) e gli infiniti tronchi
(attraversar, riposar), mentre veniva drasticamente semplificata la semplice
bellezza dei versi dylaniani (“Un uomo quante strade deve fare / prima di
aver nome di uomo? / E una colomba quanti mari deve passare / prima di
dormire sulla sabbia? / E le palle di cannone quante volte dovranno volare /

97
prima di abolirle per sempre? / La risposta, amico mio, vola via nel vento, /
la risposta vola via nel vento”). Un pregio, però, la traduzione di Mogol l’a-
veva. Evitava la trappola di tradurre “blowin’ in the wind” con quell’assurdo
“soffia nel vento” che invece avrebbe tormentato le traduzioni successive (in
italiano è il vento che soffia; le altre cose, casomai, vengono portate via dal
vento). “La risposta è caduta nel vento” rendeva in qualche modo l’idea, anche
rispetto a un commento alla canzone scritto dallo stesso Dylan nel giugno
del 1962 e pubblicato lo stesso anno sul numero di ottobre-novembre della
rivista “Sing Out!”: “Ripeto che [la risposta] sta nel vento e proprio come un
pezzo di carta che non sta mai fermo prima o poi verrà giù... Ma il guaio è
che nessuno raccoglie la risposta quando viene giù, ragione per cui non c’è
molta gente che la vede e che la riconosce...”.
Mogol era allora, tra molte altre cose, il traduttore ufficiale di Dylan.
Aveva iniziato con Blowin’ in the Wind, ma avrebbe poi tradotto anche Mr.
Tambourine Man (Mister Tamburino, incisa da Don Backy), Like a Rolling a
Stone (Come una pietra che rotola, incisa da Gianni Pettenati e dai Wretched)
e, nel 1967, The Mighty Quinn, incisa dai Dik Dik con il titolo L’esquimese e
dai Crazy Boy con il titolo originale.
Blowin’ in the Wind intanto era nell’aria, e Luigi Tenco non fu il solo a
coglierla perché non cadesse nel vento. Nella traduzione di Mogol la incisero
anche Jonathan & Michelle (nel 1967) e The Kings, ma questi nomi sono
omai ricordati solo dagli storici della pop music italiana. Una grande esecu-
zione di Luigi Tenco era ciò che mancava per rendere La risposta è caduta nel
vento un successo non solo “orale” (come in effetti fu), ma purtroppo non
accadde. Tenco era cresciuto ascoltando il bebop jazz, i grandi crooners ame-
ricani e gli chansonniers francesi. Forse non immaginava che per una canzo-
ne come Blowin’ in the Wind sarebbero bastate la sua voce e una chitarra, o
magari un pianoforte. Forse non lo sapevano i suoi produttori, forse non si
fidavano. Sta di fatto che la sua cover version, a parte la voce, che anche se
costretta da un ritmo troppo rigido è pur sempre bella, è quasi inascoltabile.
La canzone è arrangiata in stile assurdamente country-pop, con alternanza
rigida di tonica e dominante nel basso. L’arrangiamento è un po’ rockabilly,
un po’ festa sull’aia con una chitarra elettrica di fortuna, ma soprattutto è
legnoso, burattinesco, comico. Una vera, grande occasione perduta. Non
stupisce che Tenco abbia lasciato il nastro nel cassetto, dal quale sarebbe
emerso solo postumo, nel 1972. Tra il 1964 e il 1967 Tenco sarebbe giunto

98
a padroneggiare alcuni rudimenti del folk-rock, producendo “canzoni di
protesta” come Ognuno è libero che sono comunque datate, ma almeno non
fanno ridere. Non finivano più di ridere, invece, i partecipanti a un convegno
su Dylan alla University of Minnesota, a Minneapolis, nel marzo del 2007,
quando, parlando delle più importanti cover versions dylaniane in Italia, feci
loro sentire, per puro senso di completezza, anche Tenco che cantava La ri-
sposta è caduta nel vento. Mi dispiace ancora di averlo fatto.

99
Alessandro Carrera è direttore dei programmi di Italian Studies e di World Cultures and Lite-
ratures alla University of Houston, in Texas. Ha pubblicato testi di critica filosofica, letteraria e
musicale, romanzi, racconti e poesie. Ha vinto il Premio Montale per la poesia (1993), il Premio
Loria per la narrativa (1998) e il Premio Bertolucci per la critica (2006). È autore di La voce di
Bob Dylan (Feltrinelli 2001, nuova ed. ampliata 2011) e sempre per Feltrinelli ha tradotto, di Bob
Dylan, Chronicles Volume 1 (2005), Lyrics 1962-2001 (2006) e Tarantula (con Santo Pettinato,
2007). Recentemente ha pubblicato La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a
Calvino (Feltrinelli 2010), La distanza del cielo. Leopardi e lo spazio dell’ispirazione (Medusa 2011),
Il ricatto del godimento. Contributo a un’antropologia italiana (QuiEdit 2012) e Musica e pubblico
giovanile. L’evoluzione del gusto dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, nuova edizione (Odoya 2014).

La libreria di doppiozero è un nuovo modo per trovare in rete libri di qualità, scoprire nuovi
autori, rileggere testi dimenticati. doppiozero è un’associazione non-profit impegnata in iniziative
culturali innovative. È una rivista che legge criticamente l’attualità, una comunità di autori
e lettori e ora una casa editrice che offre la possibilità di acquistare libri elettronici in formato aperto,
senza criptazioni proprietarie, cioè liberi di essere usati, oggi e domani. Insieme a tutte
le altre nostre iniziative, la libreria è per doppiozero un’occasione di condivisione e di crescita comune,
un impegno con i lettori, un’anticipazione di futuro per la cultura.
Contribuite con noi a renderlo possibile.

associazione culturale doppiozero / via a. fioravanti 3 / 20154 milano / www.doppiozero.com /


Bob Dylan / © Alessandro Carrera per doppiozero / pubblicato a dicembre 2014 / isbn 9788897685449 / a cura di doppiozero /
redazione Luigi Grazioli / progetto grafico Paola Lenarduzzi (studiopaola) / impaginazione Alice Baraldi /
creazione e-pub Paolo Vigorito

Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla Legge sul
diritto d’autore. doppiozero declina ogni responsabilità per ogni utilizzo del file non previsto dalla legge.

Potrebbero piacerti anche