Nell’ambito della complessità del discorso evoliano è sempre possibile
scorgere inattese prospettive sorprendentemente tralasciate, soprattutto se più che ricercare quel che l’Autore aveva «realmente» inteso affermare nei numerosissimi ambiti delle sue analisi, si intende utilizzarne spunti per affrontare problematiche del tempo presente. A proposito del quale, e con particolare attenzione al nostro spazio, risulta adatto quanto abusato quel concetto di crisi che aveva accomunato nei primi decenni del XX secolo un nucleo di cosiddetti «storici della decadenza» eredi in parte della critica nietzscheana. Da Spengler a Guénon ad Altheim, ad Evola, con il suo esemplare Rivolta contro il mondo moderno, la cui prima edizione risale al 19341, quindi non molto tempo dopo la pubblicazione del Tramonto dell’Occidente2 di Spengler e della Crisi del mondo moderno di Guénon3. Esponenti questi di una pessimistica autocritica successivamente ripresa da una schiera di epigoni di vario orientamento, non sempre fondata su una coerente visione della storia in grado di evitare che l’accusa si riduca a una generica lamentela nei confronti di un presente inevitabilmente caotico. Scrive in proposito Evola nell’Introduzione alla Rivolta: «Parlare del “tramonto dell’Occidente”, del “pericolo del materialismo”, della “crisi della civiltà” e via dicendo, è divenuto, da un certo tempo, una voga. Del pari, si scrive, qua e là, sul “ritorno alla tradizione”; si forgiano simboli per questa o quella “difesa”; si lanciano profezie per il futuro europeo o mondiale. Di massima, in tutto ciò v’è ben poco oltre un dilettantismo da “intellettuali” o da giornalisti politici» (Evola, 1951: 11). Singolare questo incipit con cui Evola mostra di voler prendere le distanze da quei critici del materialismo che si battono nel nome del recupero di una spiritualità perduta: non è forse egli stesso esponente di primo piano d’una lotta all’imperante materialismo del tempo presente? Solo in parte, considerando che non è costitutiva della sua ideologia né del 1 La prima edizione è della Hoepli, Milano 1934, alla quale seguì l’edizione tedesca della Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1935. La seconda edizione italiana è Bocca, Milano 1951 (quella che prendiamo qui in considerazione), seguita dalle Mediterranee, Roma, 1969. 2 C.H. Bech,sche Verlagsbuchhandlung, Münche, 1923. 3 Gallimard, Paris, 1927. suo lessico la generica antinomia spirito – materia, ovvero spiritualismo – materialismo. La sua coppia antinomia è rappresentata dai termini modernità – tradizione, traducibile nel concetto di «dualismo di civiltà» (Evola, 1951: 14), che vede giustapporsi appunto il mondo moderno e quello della tradizione. Criticare il primo, aggiunge Evola, senza avere una chiara visione del secondo, esprime una posizione puramente reattiva, che si traduce in un insulso emotivo agitarsi. «Si “reagisce”. Come non lo si potrebbe dinanzi a certi aspetti disperati della società, della morale, della politica e della cultura contemporanea? Ma si tratta – appunto e soltanto – di “reazioni”, non di azioni, non di moti positivi che parlano dall’interno e testimoniano il possesso di una base, di un principio, di un centro» (Evola, 1951: 12). Ora conoscere la modernità, delinearne le specificità, è abbastanza agevole, soprattutto dopo aver verificato la stupida erroneità dell’evoluzionismo, di un progressismo romantico-positivista, che si era vestito dei panni politici del socialismo, ovvero di quell’ottuso ottimismo borghese messo alla gogna da Nietzsche. Ma come conseguire compiuta conoscenza del mondo della tradizione? «Occorre saper concepire l’altro, suggerisce Evola – crearsi nuovi occhi e nuove orecchie per cose divenute invisibili e mute nelle lontananze. Solo risalendo ai significati e alle visioni che vissero prima dello stabilirsi della cause della civilizzazione presente è possibile avere un punto assoluto di riferimento, chiave per la comprensione effettiva di tutte le deviazioni moderne …» (Evola, 1951: 12). In queste considerazioni notiamo la compresenza di due approcci critici, l’uno di chiara derivazione nietzscheana, l’altro di carattere antropologico. Nel primo caso cogliamo la ricerca di un valore attraverso un’indagine «genealogica» in grado di evidenziare le volontarie deformazioni apportate da «forze reattive» a un presunto modello originario, che di fatto non è dato di conoscere se non attraverso le sue manifestazioni e quindi le sue deformazioni storiche. Con la differenza, non certo trascurabile, che mentre Nietzsche procede dalla verifica delle deformazioni per neutralizzare la possibilità d’un essere originario e autentico, a meno che non si abbia una trasmutazione nel soggetto che si pone su questo camino di ricerca, Evola risale all’autenticità dell’essere attraverso la ricostruzione delle manifestazioni storiche evocanti il principio metafisico della Tradizione. Con il solo ma angosciante dubbio, per lui e per noi, concernente la possibilità che quest’uomo, l’uomo contemporaneo, sia o non in grado di riproporne i valori. Per quanto concerne invece l’alterità in prospettiva antropologica, crediamo che Evola apra un sentiero ancora poco battuto. Se è vero infatti che da più parti si levano critiche alla modernità a causa di un diffuso quanto confuso disagio, è anche vero che le vie di fuga indicate attualmente vanno in una direzione ispirata dai valori della modernità stessa. In termini esplicativi, se oggi si criticano le carenze della democrazia, è per avere più democrazia; se si critica la gestione economica del mondo è nel nome di una più ampia distribuzione dei beni non separata da un incremento della produzione; se ci si pone il problema delle mescolanze razziali e culturali, lo si fa nel generico appello a un approssimativo multiculturalismo che mal cela la visione «universale e giusta» della nostra cultura, da cui una paradossale intolleranza nell’ambito del privato. Nella prospettiva antropologica diciamo allora che per noi, espressione della modernità, la Tradizione costituisce la pura alterità, quella categoria, aggiungerei, che ponendosi come pietra di confronto, può mostrarci come i nostri valori «naturali», «universalmente razionali», «indiscutibilmente positivi», siano prodotto storico di un’epoca del tutto particolare, di una fase di eccezione, volendo operare a semplice livello statistico, nello spazio come nel tempo, riferendoci cioè a civiltà antiche come a culture attuali diverse da quella occidentale. In questo caso la diversità di una serie di istituti tradizionali risulta estremamente utile a evidenziare l’assoluta parzialità dei nostri valori e sovente la loro incoerenza, prova effettiva del nostro stato di crisi. E la Rivolta, considerata in tale prospettiva, costituisce l’enunciazione e l’approfondimento di istituti che oggi, da noi, destano scandalo, nel modo in cui siamo incapaci di leggerli nel loro contesto. Fra questi, di particolare significato, atto cioè a mostrare appieno l’antinomia fra civiltà tradizionali e la nostra, è quello della regalità o ancor più in generale del potere, del comando: da noi considerato come espressione di un puro calcolo fondato sulla convenienza, e quindi sorretto dalla volontà umana, da altre culture e in altre epoche, emanazione di una volontà divina o comunque superiore. Ovviamente, ribadiamo, oggi, nel nostro ambito, la visione di un’attività politica ispirata dalla divinità sarebbe qualcosa di assurdo o ancor più di risibile, a meno che non ci si impegni in un pur elementare excursus storico-geografico. Quali civiltà antiche, o quali civiltà «primitiva», o meglio tradizionali, infatti, non vedono nella conduzione politica della loro gente il prodotto d’una volontà superiore? E quindi non considerano la funzione del comando una prerogativa di pochi, obbligati al gravoso privilegio? Evola dedica varie pagine allo sviluppo di quest’idea, inserite nella prima parte di Rivolta intitolata «Il mondo della tradizione», in cui tra l’altro prende in esame il significato del rito, dell’aristocrazia, dell’Impero, della razza, delle caste, del tempo lineare e ciclico, mostrando la profonda coerenza di comportamenti orientati dal principio che la presenza umana nel mondo non sia prodotto di una casuale Geworfenheit, ma di un preciso disegno. Diciamo allora che si inserisce nell’ambito d’una concezione tradizionale ogni istituto che presuppone l’esistenza d’un superiore ordine cosmico, e che richiede un comportamento consequenziale da parte degli individui e delle culture. Il principio di casta, ad esempio, per noi soltanto espressione di ingiustificabili privilegi, nella sua originaria purezza presuppone che ogni condizione umana non nasca dal caso, ma si inserisca in un sistema compiuto in grado di indicare la nostra provenienza e il nostro destino, senza per questo svilire la libertà di chi potrà operare bene o male all’interno del proprio ambito. Che non è costrizione ma forma, non inibizione ma determinazione. Con ciò ci troviamo dinanzi a due scelte, caratterizzanti due modelli: l’uomo moderno e l’uomo della tradizione, presupponenti entrambi la storicizzazione dell’essere umano. Scrive in proposito Montanari: «Nella revisione di Introduzione alla magia [….] egli [Evola] inserisce una riflessione su un libro di Ernesto De Martino, Il mondo magico, uscito nel 1948. De Martino non appartiene alla cerchia degli “spiritualisti” e non era un “filosofo della crisi”. Era un antropologo che in questa ricerca, che diverrà famosa e susciterà molte polemiche, rilevava il carattere storicamente condizionato, del nostro concetto di Io, di natura, di realtà, che tendiamo a considerare come assoluto, mentre invece esso “è sorto e si è reso evidente solo all’interno della civiltà occidentale moderna”. Distinto e quasi contrapposto alla civiltà moderna è invece il “mondo magico”, proprio di culture di tipo sciamanistico, nel quale la nozione di “realtà” sarebbe del tutto diversa. Ciò, secondo De Martino, comporta una relativizzazione dei cosiddetti “poteri magici”, spesso affini ai “fenomeni paranormali”: essi sono reali per il “mondo magico”, proprio perché “il concetto ordinario, moderno, di realtà è una formazion e storica”; fuori dall’attuale civiltà, prima del suo apparire, “esso non ha alcun senso”. Su questo punto Evola è sostanzialmente d’accordo» (Montanari, 2001: 64). Procedendo ora da questa relativizzazione del tipo umano, al quale spetta la determinazione di quel che è o non è reale, e quindi dall’assunzione di questa prospettiva antropologica da parte di Evola, qual è la discriminante che porta De Martino a optare per la civiltà moderna, Evola per quella tradizionale? Per De Martino le culture tradizionali contengono un rischio grave e costante per l’individuo, il quale sostiene la propria definita presenza nel mondo attraverso una tecnica vaga e inefficace, ossia la magia. Questa, secondo l’antropologo, crea false connessioni, attraverso le quali si cerca di operare sulla morbosa incertezza dell’individuo riguardo alla sua collocazione nel mondo. Un individuo sempre timoroso, caratterizzato da uno «stadio dell’anima labile, non individuata ed esposta ad un rischio fondamentale in balia di forze alle quali oppone tecniche inadeguate» (Montanari, 2001: 65), a rischio cioè di quel che De Martino indica come «perdita della presenza». Evola, pur ribadendo la sua adesione alla storicizzazione del reale e dell’individuo indicata da De Martino, come nota appunto Montanari, diverge però da questa valutazione, considerando il grave rischio insito non in un «mondo magico» ma in un «mondo stregonico», differenziazione che l’antropologo non è in grado di compiere. Egli infatti si limita a evidenziare la labilità dell’individuo legato a un generico mondo magico, in cui inserisce ogni componente d’una realtà pre-scientifica senza alcun distinguo. Sì che nella sua acritica adesione a un evoluzionismo progressista di radice marxista, ipotizza l’affrancamento dell’essere umano da questo rischio incombente attraverso i vantaggi offerti dal mondo moderno e delle relative conquiste sociali. La scienza, la consapevolezza politica dei propri diritti, l’integrazione in un lavoro omologante (parità dei sessi), ossia tutti quegli elementi che Evola condanna in quanto espressioni della modernità costituiscono invece per De Martino gli elementi di riscatto da una antica, timorosa ignoranza. Evola ribadisce poi come questi portati della modernità, anziché riscattare l’individuo da una crisi qualificante la condizione umana, sono espressioni di questa: la determinano nel modo in cui «Al superamento spirituale del tempo, che si ottiene elevandosi fino ad una sensazione dell’eterno, oggi sta di contro la retorica di esso: il suo superamento meccanico e illusorio dato dalla velocità […] L’essere, lo stare, al moderno valgono perciò come una morte: egli non vive se non agisce, se non si agita, se non si stordisce» (Evola, 1951: 421 s.). Queste e altre considerazioni contenute nella seconda parte di Rivolta, intitolata «Genesi e volto del mondo moderno», atte a individuare le contraddizioni insite nello stesso, conducono Evola a capovolgere De Martino, utilizzandone i medesimi mezzi, o meglio un dato imprescindibile: il reale come prodotto culturale. Con la differenza che, se De Martino applica questo «sano» relativismo solo parzialmente, nella presupponenza di una linearità evolutiva della storia conducente alla nostra attuale superiorità, Evola è in grado di relativizzare anche o soprattutto la nostra presenza, e di cogliere la nostra «eccezionalità» nell’ambito di un divenire storico non pregiudizialmente lineare e progressivo. Rispetto a un confronto col diverso, fondato sua una dialettica hegeliana intrisa di scientismo, per il quale la sintesi conclusiva si riduce ad una affermazione delle nostre conquiste e allo scarto di quel che da noi viene superato, il confronto dialettico evoliano si risolve in una critica nei confronti dello stesso soggetto, ossia del mondo occidentale, che, osservandosi attraverso culture tradizionali, misura i propri limiti attuali. Obbiezione a questo più radicale relativismo sorge dal presupposto di una scelta in favore della Tradizione, che però non è scelta aprioristicamente immotivata, bensì è rafforzata dalla verifica di un’intima coerenza delle sue istituzioni e da quella «consapevolezza della presenza» (usiamo l’espressione demartiniana) che essa offre all’individuo. In tal modo la scelta apriori della prospettiva tradizionale viene fornita di valore rispetto alla preconcetta superiorità d’una modernità in sé contraddittoria e rischiosa. Essa ha come presupposto un effettivo relativismo culturale, espletato cioè nei confronti dei nostri preconcetti, che non impedisce poi di compiere delle scelte nelle quali l’alterità, il diverso da noi (moderni e presumibilmente civilizzati) ha un’effettiva vigenza. Se ora dunque la scelta tradizionale da parte di Evola nasce da un compiuto relativismo, viene da chiederci come mai gli attuali critici della modernità (Chiesa di Roma in testa) attacchino proprio il relativismo culturale, considerandolo prodotto nefasto del mondo moderno. Mettendoci nei panni evoliani la risposta è oltremodo semplice: perché la Chiesa di Roma, il suo cattolicesimo, non sono altro che espressione del mondo moderno, o meglio di una modernità ante litteram che da tempo ha scertato gli elementi iniziatici-tradizionali dal suo contesto. Distaccandoci parzialmente dal filosofo, notiamo che gli aspetti del mondo moderno messi al bando dall’istituzione cattolica sono legati alla medesima visione dogmatica della realtà espressa dall’attuale cultura occidentale. Nel suo discorso non pronunciato all’Università di Roma nel gennaio del 2008, Benedetto XVI, pur partendo dalla critica socratica è sfociato nel platonismo, in quell’identificazione fra vero e bene presupponente l’esistenza d’una verità apriori impersonata in Dio. Ragionamento ovvio da parte di un’istituzione che si fonda su una certezza, ma che allo stesso tempo intende fingere l’incertezza del ricercare per trovare un terreno comune con la cultura laica nel nome dell’unicità della Scienza. Gioco alquanto subdolo, visto che la finzione del ricercare si rivela tale dinanzi al fatto che il suo oggetto era già stato trovato.. La pregiudiziale di possedere la verità, nella modernità laica come in quella della Chiesa, è fondata sulla medesima idea evoluzionista, pur se con alcune varianti. Questa si coniuga con una visione etnocentrica, condannata in teoria nei primi anni del nostro secolo, ma di fatto pienamente affermatasi attraverso il progressismo marxista, l’universalismo democratico, un antirazzismo di fatto irrispettoso di altre tradizioni culturali, ossia attraverso un insieme di comportamenti qualificati come “politically correct”, che pertanto non possono essere messi in discussione. A meno che non si attui un reale relativismo, che giunga sino alla possibilità di cogliere le incoerenze di questo tipo umano e la necessità di operarsi per una sua effettiva trasformazione. Cosa che l’attuale Chiesa cattolica non è in grado di fare, visto che o accetta la medesima correttezza politica vigente, oppure ne critica alcuni tratti senza proporre u n effettivo capovolgimento del quale del resto essa stessa potrebbe rimanere vittima. In sintesi la stessa Chiesa è espressione di questa modernità, e la sua posizione etnocentrica corrisponde a quella della nostra democrazia con i suoi valori, elevati a legge universale. Ritornando alla coerenza evoliana, notiamo alfine come una critica non retorica al mondo moderna esiga un radicale relativismo, e quindi in un rifiuto di una trionfalistica dialettica che conduca alla fine alla riaffermazione dell’io agente: la nostra civiltà. Evola è ben chiaro in questo, nel rifiuto del tempo presente non attraverso un progressivo miglioramento dei suoi contenuti, ma solo attraverso un radicale taglio con il passato. Un futuro tradizionale per Evola non nasce dalla mediazione, non è prodotto dialettico fra il kali yuga e una rinascente età dell’oro (che allora saremmo nell’ambito d’un processo evolutivo) ma prodotto di crisi radicale, inerente all’ultimo ciclo della decadenza, del quale non devono rimanere residui. Evola non è dialettico sì che la relativizzazione del presente è radicale, escludente, finalizzata alla soppressione di una realtà e di un individuo inadeguati, oltre i quali è possibile concepire una rinascita, ma non è possibile porci come suoi artefici, a meno che pensiamo di potervi contribuire con il sacrificio del nostro essere.
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