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Filologia della musica - Lezione 6

14-12-18

Quando si presenta un’edizione critica bisogna tenere conto a chi andrà rivolta, se ad un altro
filologo, a un musicista o ad un appassionato, quindi bisogna elevare dei criteri editoriali che non
complichino la vita al lettore. Il filologo mette delle sigle per indicare che testimoni ha utilizzato e
queste si riferiscono anche al luogo in cui è stato preso il testimone. Un importante filologo ha detto
nel 1965 che per fare un’edizione critica bisogna rispondere a tre domande:
1- Che cosa ha scritto il compositore?
2- Che cosa intendeva scrivere il compositore?
3- Che cosa avrebbe scritto per farsi capire ai giorni nostri?

Quindi l’obiettivo è quello di rendere chiara l’idea del compositore a chi è vissuto 2 o 300 anni
dopo. Questo vale anche per il basso continuo, le edizioni devono venire incontro al fruitore di
musica. Si deve tenere conto anche di come presentare al lettore dell’edizione critica tutta una serie
di cose:
- la scelta delle chiavi, antiche o moderne.
- Precisare anche l’uso dei segni di alterazione, (in molte musiche antiche non si scrivevano
le alterazioni), è quindi il curatore dell’edizione che deve metterli, facendo intendere che
nell’originale non sono scritti, ma vanno comunque eseguiti.
- Presentazione pentagrammi che devono essere adattati perché in originale erano
tetragrammi.
- Risoluzione dei problemi di metrica e ritmica.

VERSIONE DI ULTIMA MANO

La versione di ultima mano è l’ultima volontà dell’autore.


In molti casi abbiamo diverse versioni di un’opera musicale e in molti dei quali non possiamo
considerare definitiva l’ultima voce dell’autore questo dipende da due fattori:
1- il rapporto che aveva il musicista con la propria opera;
2- il tempo storico in cui lui opera.

Una composizione può cambiare (per mano dell’autore) per vari motivi, ed è compito del filologo
indagare le ragioni che hanno spinto il compositore a tornare sul suo lavoro, a volte è un’evoluzione
dell’opera nella quale la seconda è migliore della prima. A volte può essere dovuta ad un
adattamento, cioè adattare la stessa opera per un’altra occasione, in questo caso non è un
miglioramento, ma semplicemente lo spostamento di un pezzo ad un’altra utenza. Oppure per
volere del pubblico, che magari non ha gradito un’aria in particolare, oppure per un cambiamento
dell’organico orchestrale.

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Alcuni autori emblematici di alcune epoche hanno diverse problematiche per quanto riguarda la
versione di ultima mano:
per esempio Bach: fu riscoperto da Mozart e Hyden inizialmente, ma fu nell’800, con il
romanticismo, che si cominciò a suonare la sua musica (Mendelssohn - 1829- Passione secondo
Matteo). Nell’intento di riscoprirlo e di capire la sua musica, si capì che Bach rimaneggiava la sua
musica continuamente; non considerava mai l’opera come conclusa, lasciando l’ultima parola
soltanto all’esecutore. Si cerca quindi di creare una prassi esecutiva fedele al tempo. La scrittura di
Bach lascia molto spazio all’esecutore, per esempio: il fraseggio non è mai indicato, l’andamento
ritmico è spesso sottinteso, quindi nel suo caso ciò che viene scritto non è la realtà che bisogna
eseguire, infatti Bach quando scrive fa riferimento alla prassi del tempo.
Molte melodie che lui compone sono riciclate da musiche preesistenti.
Intertestualità: presenza dei corali luterani nelle sue opere. O adattamento di brani di autori italiani
(Marcello, Albinoni, Vivaldi). Molti brani hanno il basso continuo, in Bach c’è spesso la
numerazione, in altri autori non c’è. Al tempo di Bach, allo stesso tempo della musica scritta o
stampata, esisteva una florida tradizione legata all’improvvisazione, questa costituiva
probabilmente la maggior parte della musica del tempo.
Questo succede anche al tempo di Mozart e se la tradizione dell’improvvisazione era così rilevante,
vuol dire che anche la tradizione scritta né deve tener conto, è importante dare spazio
all’improvvisazione.
Bach impiega molto l’uso della parodia (passaggio di un’opera da un genere a un altro).
Ci sono parodie di secondo, terzo, quarto grado, quindi ricostruire la genesi di un lavoro vuol dire
passare dal sacro al profano, dal vocale allo strumentale e viceversa. Bach apportava spesso
modifiche ai suoi lavori senza specificarle nelle versioni precedenti. Quindi è un lavoro difficile per
il filologo che non riesce a capire le varie fasi di un’opera.
Non esiste l’ultima volontà d’autore con Bach e quelli della sua epoca, l’opera è un qualcosa di
vivo. Tutte le versioni di una stessa opera sono da ritenersi autentiche e la causa, probabilmente, è
che raramente la musica veniva fatta stampare.
Solo in tarda età Bach cerca di raggruppare le sue opere ritenute da lui le più importanti nella
speranza di darle alle stampe.

Nel periodo classico, nel 700, cambia l’atteggiamento di musicisti nei confronti dell’opera.
Esempio – Mozart: tra quel che ci è arrivato di suo non ci sono abbozzi e la sua scrittura nei
manoscritti è molto ben leggibile, non ci sono parti tagliate, ne pastrocchi.
Il travaglio della composizione si svolgeva nella sua testa più che sulla carta, quindi sembra che
quando andasse a scrivere, avesse già chiaro il da farsi. Qui il lavoro filologico, è un po’ diverso da
quello del periodo di Bach perché ci sono molte opere che subiscono versioni differenti d’autore,
dovute appunto al mutare delle condizioni esecutive.
Esempio del “Don Giovanni” di Mozart, in due versioni, perché gli interpreti avevano
caratteristiche molto diverse, per cui Mozart le ha adattate alla loro vocalità.

Il caso di Beethoven cambia le cose, perché aveva un progetto estetico molto definito in testa, ma
poi comunque nel corso dei lavori rimaneggiava l’opera, intervenendoci costantemente, non per

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adattarla ad usi diversi, ma per migliorarla “per se stesso”. Quindi le trasformazioni e le correzioni
che accompagnano il processo creativo delle opere di Beethoven, dagli schizzi fino all’autografo,
tendono tutti ad una precisazione di un’idea.
Quindi con Beethoven l’ultima versione è quella definitiva. È il primo autore in cui questo accade.

Ci sono poi le sue stampe, che correggeva lui stesso. Come avveniva il processo di fissazione di
un’opera al tempo di Beethoven?
Beethoven lavorava molto sulle sue opere, poi cercava un editore per farle pubblicare. Non esisteva
ancora una legislazione sul diritto d’autore, quindi in genere l’opera veniva ceduta dall’autore ad un
mecenate, talvolta era questo stesso il committente. Beethoven riceveva una certa somma di denaro
e questo copriva un periodo di tempo definito, cioè circa sei mesi o un anno e per questo tempo i
diritti dell’opera erano del mecenate che l’aveva acquistata. Trascorso questo tempo di cessione
degli enti, il compositore tornava proprietario dell’opera e a quel punto poteva cederla ad un editore
che pagava l’opera una volta sola e a questo punto l’opera era di proprietà di quest’ultimo. Il
compositore non poteva vendere la stessa opera a più editori contemporaneamente.

Ci sono poi le edizioni pirata, cioè quelle edizioni non verificate dall’autore, e che l’editore faceva
magari stampare in diversi stati, mentre era autorizzato a poterlo stampare solo in uno. Queste
versioni venivano vendute ad un prezzo minore.
Un esempio: il “quintetto d’archi” op. 29 di Beethoven, che dette in uso per sei mesi al conte Fries,
e poi lo vendette all’editore Brietkopf. Nel frattempo l’editore viennese Artaria ne aveva fatto
un’edizione pirata, sostenendo di averlo comprato dal conte, quindi di essere in diritto di poterlo
fare.
Quindi qui la questione filologica: per quale versione Beethoven aveva dato il consenso e quale
aveva revisionato? Qual è la versione autorizzata dall’autore?

Nell’epoca romantica, dopo Beethoven, l’opera è reputata come sacra, intoccabile, una sorta di
manufatto sul quale non si può intervenire. Si ribalta l’idea barocca del continuo intervento. L’opera
è stata fatta attraverso l’ispirazione.
Secondo Schumann: “La prima concezione di un’opera è sempre la più naturale e la migliore.
La ragione sbaglia, il sentimento no.”
Talvolta il compositore non troppo esperto di orchestrazione magari, può rimettere mano alla sua
opera se durante le prove d’orchestra sente che qualcosa non funziona.

Problema: rapporto tra l’autografo e la prima edizione a stampa.


Cosa collega un autore ad un editore o copista? Il filologo non conosce questo collegamento, perché
è rappresentata dalle bozze, che vengono sempre distrutte.
Normalmente l’autore fa delle revisioni sulle bozze di stampa (cosa che fa anche lo scrittore per il
libro), corregge gli errori, ma può anche cambiare dei contenuti, magari per un ripensamento.
Il compositore di norma non da l’autografo all’editore, gli dà invece una copia, stichvorlage. Dopo
la copia, ci sono le bozze che l’editore produce e le fa controllare al compositore. A noi è rimasta
qualche stichvorlage, ma nessuna bozza (perché distrutte dagli editori).

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Problema! Perché il filologo non può conoscere le ultime modifiche che il compositore aggiunge in
queste bozze. Il problema del risalire all’autografo pur avendo un’edizione a stampa corretta, fatta
sotto la sua supervisione, è un problema che si è posto un grande musicologo tedesco, Heinrich
Schenker (inventore delle edizioni urtext), che fu un sostenitore della superiorità degli autografi
rispetto all’edizione a stampa. Affermò questo studiando gli autografi di Beethoven, perché vide
che spesso la sottigliezza delle sue edizioni veniva snaturata nel edizioni a stampa quindi disse che
l’ultima volontà d’autore è l’autografo. Bisogna risalire all’autografo, quindi bisogna curare una
ristampa fedele a questo.
Esempi di problemi nel rapporto tra autografo e stampa:
 5ª sinfonia di Beethoven: scherzo e primo movimento.

L’autografo della quinta sinfonia di Beethoven è conservato presso la biblioteca di Stato di Berlino.
SCHERZO:
Nel ritornello sembra che ci sia uno sbaglio di Beethoven. Per la prima volta collega due movimenti
di una sinfonia, lo scherzo è una sorta di introduzione del finale ed è direttamente collegato al
finale, non c’è pausa tra lo scherzo e finale, che è in forma sonata. I musicologi si sono posti il
problema perché nell’edizione a stampa quel ritornello è sparito. Nella prima edizione a stampa
redatta sotto la supervisione di Beethoven, non c’è più il ritornello. Noi non abbiamo più le bozze di
stampa che Beethoven corresse, per cui il filologo non può capire se Beethoven ha sbagliato
nell’edizione a stampa oppure ha voluto veramente sopprimere quel ritornello.
Nella stampa: A B A¹
Nell’autografo: A B A B A¹.
La partitura in questione fu pubblicata nel 1809 e dopo quella edizione tutte le edizioni hanno
seguito l’abolizione del ritornello, solo nel 1978 il musicologo Peter Gülke, per conto dell’editore
Peters, pubblicò per la prima volta la versione della quinta sinfonia con il ritornello. Quindi per la
prima volta nel 1978 si vede scritto sulla carta stampata quello che Beethoven aveva scritto
sull’autografo. Nel 1999 esce per conto della Berenreiter l’opera omnia di Beethoven, affidata a
Jonathan Del Mar. Nella prefazione Del Mar afferma che l’ultima volontà di Beethoven è quella
della prima edizione a stampa, quindi quella del A B A¹. Del Mar sostiene questo (cioè l’assenza del
ritornello) dopo aver ascoltato la prima esecuzione assoluta.

PRIMO MOVIMENTO:
L’altro problema testuale della quinta sinfonia di Beethoven riguarda un passaggio famoso del
primo movimento cioè il passaggio introduttivo del secondo tema.
Il secondo tema della sinfonia quando va in maggiore riprende la figura ritmica del primo,
facendola suonare forte dai corni, e poi parte il suo vero e proprio tema, non suonabile però dai
corni perché non è scritto per la loro tessitura. Beethoven ovvia al problema assegnando ai fagotti
da parte dei corni, nelle edizioni moderne però il passaggio è stato nuovamente assegnato ai corni.
La decisione di Beethoven quindi di rimaneggiare la partitura è dovuta al fatto che i corni del tempo
non erano in grado di farlo. Così nelle edizioni moderne il passaggio è stato ripreso per i corni
attuali.

Esempi di problemi di identificazione di un’ultima volontà d’autore:

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- Il 1º concerto in si bemolle minore di Pyotr Ilyich Tchaikovsky, c’è giunto in tre diverse edizioni a
stampa, tutte e tre curate dall’autore a distanza di alcuni anni.
Prima versione:
Tchaikovsky compose il suo primo concerto per pianoforte nel 1874, quindi aveva 34 anni, ed era
insegnante al conservatorio di Mosca, conservatorio che era stato fondato da un grande pianista del
tempo di nome Nikolai Rubinstein. Tchaikovsky ebbe l’idea di comporre un concerto per pianoforte
da far suonare a Runistein, sperando che lui lo eseguisse. Glielo fece ascoltare e Rubinstein disse
che questo pezzo gli faceva schifo e che oltretutto era scritto male per pianoforte e che lui non lo
avrebbe mai eseguito scritto in quel modo. Andava praticamente rifatto interamente.
Tchaikovsky che era di carattere piuttosto instabile si arrabbiò e lo volle dare alle stampe
ugualmente, senza modificarlo.
Seconda versione:
Qualche tempo dopo Tchaikovsky si rivolse ad un altro grande pianista del suo tempo, Hans von
Bülow (primo marito di cosima Listz), grande direttore e pianista, allievo di Liszt. A lui piacque
questo concerto e lo eseguì nel 1875 a Boston USA ed ebbe un grande successo. Nello stesso anno
Tchaikovsky dette alle stampe il concerto senza modificare nulla rispetto a quello che aveva scritto,
però nel 1879 ne curò una seconda edizione scrivendoci sopra “riveduta e corretta dal compositore”.
Questa edizione era stata da lui corretta seguendo i consigli del pianista Eduard Dannruether, che lo
esegue nel 1876. Questo disse a Tchaikovsky che gli piaceva molto, ma che non era scritto bene
pianisticamente, cioè era stato pensato da un non pianista, era difficilmente/faticosamente
eseguibile. Stavolta Tchaikovsky accondiscese a queste modifiche, infatti le introdusse
nell’edizione del 79 e lo fece senza citare il pianista che le aveva suggerite.
Terza versione:
La terza versione è stata pubblicata nel 1889 quando Tchaikovsky accettato di revisionare
radicalmente la partitura su suggerimento del grande pianista, Alexander Siloti.
Siloti propose delle modifiche strutturali, per esempio un grande taglio sulla terza sezione tematica
e suggerì anche di far partire il concerto con una bellissima introduzione che conteneva un tema
così pesante ed enfatico che quasi annullava il primo tema, cioè dando quasi più peso
all’introduzione che al primo tema.
Quindi nella versione del 74-75 e 79 la musica risulta melanconica e gentile (molto diversa da
quella conosciuta oggi, cioè la vers. del 76); la versione del 76 invece è più virtuosa e pomposa, il
pianista “mette in mostra i muscoli”, ma proprio questa versione è quella dell’ultima volontà
d’autore perché è stata l’ultima pubblicazione curata dall’autore. Suggerita da Siloti, ma da lui
approvata. D’altra parte Tchaikovsky aveva espresso a Rubinstein l’idea che non avrebbe toccato
neanche una nota del brano, eppure l’ha fatto in ben due casi, e in tutte due casi ne ha curata
l’edizione a stampa.

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