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Spirito cattivo

Un racconto di Laura Mercuri

Non era stata una gran giornata per Luca, fino a quel momento. Era estate, stava dalla

nonna, eppure non si stava divertendo per niente. Del resto, da quando quel mostro era

entrato nella sua vita portandosi via tutta la felicità, come ci si poteva divertire ancora?

Lì, al lago, Luca poteva andarsene in giro da solo. Così, nel primo pomeriggio,

quando a casa tutti dormivano, lui andava a passeggio per il paese. Faceva sempre lo stesso

percorso: piazza principale, giardini, viale, lago e poi ritorno, passando per il prato giallastro

di erba secca dietro alla scuola. Faceva caldo e lui sudava, il sole gli picchiava sulla testa

scaldandogli i capelli, così quando passava davanti alla fontanella si fermava sempre, a bere

e a bagnarsi la testa. Quel giorno, abbassandosi per bere alla fontanella, vide un ragazzino

nel prato, che buttava acqua sul terreno da una bottiglia. Voleva innaffiarlo, visto che era

secco? Luca si incuriosì e si avvicinò, per guardare meglio.

 Ciao – disse.

L'altro si voltò appena e poi tornò a quel che stava facendo. Quando già Luca stava

girandosi per andarsene, visto che l'altro non gli rispondeva, lo sentì dire:

 Ciao.

Luca fece qualche altro passo e vide che il ragazzino stava buttando acqua dentro a

un formicaio.

 Perchè gli butti l'acqua?

 Così annegano – rispose l'altro.

 Ma perchè le vuoi annegare?

 Perchè è divertente. Vuoi provare? Se mi vai a riempire la bottiglia alla fontanella ti


faccio provare.

 No – rispose Luca – Grazie.

 Cos'è, mamma ti ha detto che non si fa? - disse l'altro, con una sfumatura di disprezzo

nella voce.

 Macchè. È che non mi va.

 Come ti pare.

Il ragazzino si alzò e andò a riempire la bottiglia. Luca guardò il formicaio: il buco al

centro era pieno d'acqua e in mezzo galleggiava qualche formica. Risentì nella testa le parole

della madre:

 Non bisogna far male agli animali, nemmeno alle formiche. Anche loro sono creature

di Dio, come te.

Il ragazzino tornò, con la bottiglia riempita, e ricominciò la sua opera di distruzione.

 Ormai mi sembra pieno, non ne entra più – osservò Luca.

 Allora possiamo andare a cercarne un altro. O magari cercare qualche lucertola.

 Perchè le lucertole?

 Per ammazzarle, no? - replicò l'altro, come se fosse ovvio – Mi sa che tu non l'hai

mai fatto, eh?

Luca non rispose.

 Vabbè, io devo andare a casa – aggiunse il ragazzino – Se torni domani ti insegno ad

ammazzare le lucertole, eh? Ciao.

E se ne andò, sparendo veloce dietro al muro della scuola.

Era vero, lui non aveva mai ammazzato una lucertola, né aveva annegato delle

formiche, insomma non aveva mai fatto cose del genere. Non capiva bene come potesse

essere divertente, ma conosceva ragazzini che andavano a caccia di lucertole per tagliar loro
la coda. In effetti lui non era mai andato con loro, a dire la verità, perchè le lucertole gli

facevano paura. Voltò le spalle al formicaio distrutto e si incamminò per tornare a casa pure

lui, quando vide un altro formicaio, intatto. Le formiche entravano e uscivano dal buco al

centro. D'impulso, col piede, distrusse la piccola montagnola di terra. Rimase qualche istante

a guardare, accucciato, ma non vide formiche. Allora si rialzò e tornò a casa, sentendosi

stranamente soddisfatto.

Il mostro si era già svegliato, e ti pareva... Le urla si sentivano fin dal piano terra.

Luca entrò in casa e si infilò in cucina, spalancò le ante della credenza e ci trovò dentro solo

omogeneizzati, polveri per pappette schifose e biscotti da sciogliere nel latte. Prese i biscotti,

se ne mise in tasca una manciata e uscì di casa dalla porta finestra della cucina. Si sedette a

mangiare i biscotti sui gradini del portico, cercando di non sentire il pianto del mostro dal

piano di sopra. Dicevano che era il suo fratellino, ma lui sapeva che non era così. Non

poteva esserci parentela, fra loro, perchè quel coso che urlava e si attaccava alle tette della

madre non era altro che un mostro. Lui non capiva come facessero gli altri a non

accorgersene: come faceva la madre a mettere il suo seno morbido tra le labbra di quel coso?

Non sentiva i denti aguzzi affondarle nella carne? O forse il mostro stava attento a non

mordere la mamma, perchè voleva il latte, ma di sicuro avrebbe morso lui, se solo si fosse

avvicinato troppo. Così lui non si avvicinava, anche se tutti lo invitavano a farlo.

 Dai, su, vai dal tuo fratellino! Non vedi quanto è bello? Accarezzalo, senti che pelle

morbida che ha!

Luca vedeva solo una bocca che nascondeva zanne appuntite, occhi iniettati di

sangue, dita con unghie lunghe e adunche, pronte a ghermirlo. Si era accorto subito che

quello che volevano far passare per suo fratello era un mostro, in realtà: appena la madre lo

aveva portato a casa dall'ospedale. Era stata lì per cinque giorni, e quando era tornata
camminava curva, come una vecchia. Quando lui le aveva chiesto perchè camminasse in

quel modo, lei gli aveva risposto che i punti sulla pancia le dolevano ancora. Quindi era

proprio come aveva immaginato lui: quel mostro si era fatto strada per uscire strappando la

carne della mamma, al punto che avevano dovuto ricucirla! Come poteva amarlo, sua

madre? Come faceva ad amare qualcosa che l'aveva morsa, squarciata, dilaniata per poter

uscire? Luca proprio non se lo spiegava, ma non ce la faceva a chiederlo a lei. Aveva visto

l'espressione sul suo viso mentre gli porgeva il fagotto che teneva il braccio, perché lui

potesse ammirarlo: era la stessa che aveva un suo compagno di scuola quando la ragazzina

della quinta D gli aveva detto che sì, anche lui le piaceva. Questo lo preoccupava molto:

magari il mostro aveva poteri magici cattivi, aveva fatto un maleficio alla sua mamma così

non si accorgeva che lui era un mostro e quando lo guardava vedeva solo un bel bambino

rosa e morbido. Se davvero la madre lo vedeva così, come avrebbe potuto credere che fosse

un mostro, anche se fosse stato lui a rivelarglielo? E poi, lei non lo ascoltava più come

prima. Fingeva bene, questo glielo doveva riconoscere: quando finalmente il mostro si

addormentava, lei si sedeva su una sedia, lamentandosi per il mal di schiena, poi lo invitava

ad avvicinarsi e gli chiedeva come stava, come era andata a scuola. Lui, però, non si faceva

ingannare, vedeva bene gli occhi della madre che non si fermavano su di lui, che vagavano

per la stanza, sulla faccia l'aria di chi sta allerta, attenta al minimo suono potesse provenire

dal mostro, pronta ad accorrere al più piccolo rumore. Si portava continuamente dietro un

affare, una specie di walkie talkie come quello che avevano regalato a lui quando aveva

compiuto sette anni, e Luca sapeva che un altro, identico, restava sempre acceso nella stanza

del mostro, così se quello piangeva o gridava lei poteva sentirlo sempre, ovunque fosse.

Serviva a sorvegliare il mostro, ma era Luca a sentirsi sorvegliato, come se attraverso quel

coso l'altro potesse ascoltare ciò che diceva, così stava sempre attento a non dire niente che

potesse far capire al mostro che lui aveva capito cos'era. Non voleva che quello se la

prendesse con sua madre, così aveva deciso da subito che non le avrebbe detto niente,
almeno fino a quando il mostro si fosse comportato bene con lei. Quanto a lui, prima o poi

avrebbe dovuto fare qualcosa, anche se non sapeva ancora cosa. Del resto, continuare a

vivere in quella casa col mostro, di lì a chissà quanti anni ancora, era impensabile.

 Ehi, ragazzino! Che stai mangiando?

Sua nonna aveva aperto piano la porta finestra e se ne stava in piedi dietro di lui.

 Biscotti.

 Biscotti del piccolo? Lo sai che non devi!

 Non ci sono altri biscotti in questa casa! Solo robaccia da neonati! - protestò lui.

La nonna non replicò, si avvicinò e gli arruffò i capelli, da dietro.

 È dura per te, lo so – disse, dolcemente – Ritrovarti un fratello a dieci anni non deve

essere facile. Ma sai che la mamma vuole bene ad entrambi, vero?

 Certo – mentì Luca.

 Bene, non dimenticarlo mai. Ti prendo un bicchiere di latte, eh?

La nonna tornò in cucina. Il sapore dei biscotti era diventato orribile. Luca si alzò di

scatto dai gradini, corse in giardino e sputò quel che aveva in bocca dietro a un cespuglio.

Doveva essere stato il mostro: aveva visto che lui aveva preso i suoi biscotti, e li aveva fatti

diventare disgustosi. La situazione peggiorava ogni giorno di più: doveva assolutamente fare

qualcosa.

Il momento che detestava di più, delle sue giornate ormai tutte ugualmente orribili,

era la sera. Verso le sette la madre lo chiamava per aiutarla a fare il bagnetto al mostro.

 Ma perchè devo sempre aiutarti io? Non può pensarci la nonna?- si lamentava lui.

 La nonna sta preparando la cena, e poi ci tengo che ci sia anche tu. Voglio che tu e il

tuo fratellino abbiate modo di conoscervi meglio.

 Ma è un... - stava per dire “mostro”, ma si fermò in tempo – è solo un neonato! Mica
posso mettermi a chiacchierare con un neonato!

 Ora basta, Luca, non discutere. So io perchè voglio che tu ci sia, e fino a prova

contraria sono ancora tua madre, quindi fallo e basta.

Per Luca era davvero un momento tremendo. Non osava guardarlo, ma era costretto a

farlo, e tutte le volte il suo cuore cominciava a battere a mille dalla paura. Il mostro, senza

addosso il solito pagliaccetto, era ancora più ributtante: la pelle era secca, piena di bolle e

pustole da cui usciva un liquido giallo e, a quella vista, all'orrore si sommava il disgusto, al

punto che rischiava sempre di vomitare da un secondo all'altro. Alla fine, quella sera, mentre

la madre se ne stava in ginocchio accanto alla vasca da bagno, al cui interno era sistemata la

vaschetta per il bagnetto del piccolo, lui stava in piedi, rigido e quasi impietrito

dall'angoscia, accanto a lei, che gli chiedeva di porgerle le cose di cui aveva bisogno.

Guardava giù, appena brevi sguardi, solo quando era costretto a farlo, e per il resto del tempo

fissava le mattonelle della parete, mentre la madre non la smetteva di vezzeggiare il mostro,

mentre lo lavava.

 Ma guarda come gli piace l'acqua! E la schiuma, eh? Vedi che bella la schiuma? Il

mio tesoro, guarda come ride!

Un velocissimo sguardo di Luca: la bocca del mostro era spalancata, i denti gialli e

aguzzi erano completamente in mostra, gli occhi arrossati lo fissavano mentre una mano

adunca era poggiata sul braccio della mamma. Luca si sentì quasi venir meno, fissò lo

sguardo davanti a sé e cercò di fare un respiro profondo, senza riuscirci.

 Luca, per favore, prendimi lo shampoo delicato nel mobiletto sotto al lavandino.

Lui schizzò subito verso il lavandino, grato di potersi allontanare dalla vasca. Si accucciò e

aprì le ante dell'armadietto, poi prese lo shampoo, chiuse di nuovo le ante e si sollevò. Nello

specchio vide riflessa l'immagine del fratellino: lo guardava con un ghigno sulla faccia, se si

poteva chiamare “faccia” quell'ammasso informe su cui spiccavano solo gli occhi rossi e la
bocca piena di denti affilati, e per un attimo quegli occhi saettarono da lui alla madre,

malevoli. Gli stava forse dicendo che l'avrebbe uccisa, se lui non fosse stato zitto e buono?

Luca sentì cedere le gambe e, prima di svenire lì, lasciò cadere a terra lo shampoo, spalancò

la porta del bagno e scappò via da lì, scendendo le scale a rotta di collo, inseguito dalla voce

arrabbiata della madre che lo chiamava. Senza che la nonna riuscisse a fermarlo, aprì la porta

di casa e corse via.

Continuò a correre a lungo, perché più correva e più sentiva alleggerirsi dentro il

peso che gli premeva sui polmoni, schiacciandoli, al punto che, invece di sentirsi mancare il

fiato per la corsa, a ogni respiro che faceva si sentiva rinascere. Pian piano rallentò

l'andatura, perchè cominciavano a dolergli le gambe, fino a camminare lungo le stradine del

paese. Era quasi l'ora di cena e dalle finestre aperte arrivavano i rumori consueti: piatti

poggiati sulle tavole, posate che tintinnavano toccandosi, la sigla del telegiornale della sera,

le voci delle madri che chiamavano i figli a mangiare. Luca si sentì triste, solo e spaventato.

Prima dell'arrivo del mostro aveva la mamma tutta per sé, che lo coccolava distesa sul letto

insieme a lui, la sera, giocava a carte con lui, gli chiedeva come stava e ascoltava davvero

quel che lui aveva da raccontarle, al punto che non vedeva l'ora di tornare da scuola per

ritrovarla, in cucina, magari intenta a preparare una torta per la sua merenda. E aveva anche

il papà, che rientrava dal lavoro e, dopo aver salutato la mamma, andava subito a cercarlo e

lo chiamava “ragazzo”, facendolo sentire grande. Il papà con cui, la domenica, andava al

parco a giocare a frisbee, o in bicicletta, e con il quale parlava dei compagni, delle piccole

prepotenze che gli facevano, ascoltando i racconti di quando lui era piccolo, della sua scuola

dove le maestre, che erano suore, quando si arrabbiavano potevano picchiarti sulle mani con

la riga di legno. Ma da quando era arrivato il mostro era come se anche il papà fosse sparito,

perduto in quella terra arida e spaventosa che era la dedizione al mostro, in cui non c'era

posto per lui, Luca, l'unico che vedesse il fratellino per quello che era veramente.
Il sole era ormai quasi del tutto tramontato, lasciando nel cielo scuro uno splendida

scia rosa, e Luca pensò che doveva tornare a casa. Del resto, che alternative aveva? Non

poteva certo scappare, dove sarebbe potuto andare? Nessuno vedeva quel che vedeva lui, e

anche la nonna, la zia e persino i cugini pensavano che lui fosse geloso e invidioso del

fratellino, e lo rimproveravano dicendo che era venuto il momento di crescere, che doveva

voler bene a suo fratello e smettere di comportarsi da bambino viziato. Certe volte Luca si

sorprendeva a desiderare che il mostro facesse il suo incantesimo cattivo anche su di lui, così

che anche lui potesse finalmente vederlo come un bel bambino roseo e paffuto, non avrebbe

più avuto paura di lui e avrebbe potuto magari tenerlo in braccio, fargli qualche carezza, così

sua madre e suo padre sarebbero stati contenti e lo avrebbero amato di nuovo. Eppure,

qualcosa dentro gli si ribellava all'idea, e sentiva che nessun incantesimo sarebbe mai

riuscito a cancellargli dalla memoria l'immagine agghiacciante di quel che c'era nel fagotto

di coperte che la madre aveva riportato a casa dall'ospedale. Non avrebbe mai potuto

dimenticarlo, mai.

Mentre tornava verso casa, lentamente, dando calci a tutti i sassi che i suoi piedi

incontravano sulla strada, vide venirgli incontro il padre. Ricordò che era venerdì, il giorno

che suo padre raggiungeva lui e la mamma a casa della nonna, al lago, per passare lì il fine

settimana. Di sicuro era arrabbiato, dovevano avergli detto cosa aveva fatto e lui era andato

a cercarlo, per riportarlo a casa e punirlo. Rallentando ancora di più l'andatura guardò il

padre, timoroso, ma si tranquillizzò quando vide la sua espressione: corrucciata, ma non

arrabbiata, come quando era alle prese con qualcosa che non capiva e che voleva a tutti i

costi capire. Si fermarono, uno davanti all'altro.

 E allora, ragazzo, che dobbiamo fare con te?

Luca abbassò la testa, senza rispondere.

 Dai, andiamo a fare due passi – propose il padre, mettendogli una mano sulla spalla.

Si incamminarono, affiancati, e Luca avrebbe tanto desiderato tornare indietro nel tempo, a
quando rientravano insieme dal parco, la domenica, proprio così, camminando affiancati, col

padre che gli teneva una mano sulla spalla, troppo stanchi per parlare ma vicini, padre e

figlio che non avevano bisogno di parlare, perché quell'amore lì non ha bisogno di essere

spiegato. Da quando era nato il mostro, invece, sia la mamma che lui cercavano sempre

parole nuove per spiegare a Luca che doveva voler bene al fratellino, chè pure se quello non

fosse stato un mostro, e lo era, Luca ne era certissimo, anche così non capiva come si potesse

pretendere da qualcuno che volesse bene a qualcun altro, visto che voler bene nasceva da

dentro, te lo sentivi o non te lo sentivi, non ti potevi costringere. Prima, se loro gli avessero

detto che, dopotutto, se si impegnava davvero, poteva voler bene a chiunque, lui magari ci

avrebbe anche creduto e ci avrebbe provato davvero. Ora non gli credeva più, niente di

quello che dicevano aveva più un senso, se non vedevano il mostro dietro all'apparenza del

neonato che avevano portato a casa dall'ospedale, dopo che quello si era fatto strada per

uscire dilaniando la pancia della madre. Il padre, lui lo sapeva bene, avrebbe ucciso chiunque

avesse fatto del male alla madre, eppure contro il mostro non aveva pronunciato nemmeno

una parola di rimprovero, anzi, figuriamoci ucciderlo.

 Ci sediamo? - propose il padre, arrivati al parco.

Luca si sedette su una panchina, aspettando.

 La mamma è molto preoccupata per te, ragazzo. E anch'io. Non capiamo proprio

perchè ti comporti così. D'accordo, a nessun bambino fa piacere, all'inizio, che arrivi

un altro bambino in famiglia, ce ne rendiamo conto.

 (Ma non è un bambino! È un mostro!)

 Però la tua reazione ci sembra esagerata. Non solo non stai mai col tuo fratellino, non

lo guardi, non te ne occupi, ma sei anche diventato silenzioso, triste, scontroso.

 (Non sono io, è lui!)

 Tua madre sta pensando di portarti da un medico, uno di quelli con cui devi solo
parlare, che possa aiutarti a capire meglio qual è il problema.

 (E che gli direi, che mio fratello è un mostro?!)

 Però io non sono d'accordo. Credo che sia solo un momento di difficoltà. Che hai

bisogno di tempo per abituarti al fatto che adesso c'è anche lui, in famiglia. E sono

sicuro che presto capirai che gli vuoi bene, e che lui non vuole rubarti il nostro

amore.

 (No, lui vuole uccidervi! Quando non gli servirete più, vi azzannerà con quei suoi

denti aguzzi, vi lascerà agonizzanti e se ne andrà! E poi ucciderà anche me, o forse

ucciderà me per primo...)

 Che ne pensi? Farai il bravo?

Luca ci pensò su, per un attimo. Pensò alla possibilità di dire tutto al padre, magari gli

avrebbe creduto, sarebbe riuscito a togliersi di dosso l'incantesimo cattivo che gli aveva fatto

il mostro, e poi se ne sarebbe liberato e lo avrebbe ringraziato, lui, suo figlio, il suo vero e

unico figlio. Poi si rese conto che non sarebbe mai andata in quel modo, e che se gli avesse

davvero confessato cosa vedeva quando guardava il fratellino, il padre lo avrebbe portato sul

serio dal medico, che lo avrebbe rinchiuso in manicomio, dove stanno i matti, e non avrebbe

rivisto mai più i suoi genitori, né nessun altro.

 Va bene, papà. Ci proverò.

Il padre sorrise, gli fece una carezza sulla testa.

 Bravo il mio ragazzo! Adesso andiamo a casa, ché la cena ci sta aspettando!

Quella sera, a tavola, la madre era stranamente taciturna. Lo sguardo le andava di

continuo al walkie talkie, quello che riceveva il segnale dall'altro, nella stanza dove stava il

mostro.

 Che c'è, tesoro? - le chiese il padre.


 Il piccolo non sta bene, secondo me. Quasi non voleva mangiare, smaniava, si

contorceva...

 Sarà un colica, non ti preoccupare. Adesso dorme, no?

 Sì...

Luca mangiò in fretta anche se non aveva fame, e chiese il permesso di andarsene subito

nella sua stanza. Suo padre disse di sì, quasi senza nemmeno guardarlo. Prima che arrivasse

il mostro, lui non gli avrebbe mai chiesto di andare nella sua stanza subito dopo cena, perché

sperava sempre che si sarebbero messi sul divano, tutti e tre, a guardare un film divertente.

Ma ormai non si parlava più di guardare film insieme, e non c'era più alcun film che Luca

trovasse divertente.

Salì le scale senza fare rumore, non voleva farsi sentire dal mostro, che dormiva nella

camera accanto alla sua, quella dei genitori. Anche solo passando davanti alla porta sentì un

brivido lungo la schiena, e affrettò il passo verso la sua. La luce sul comodino era accesa: la

lasciava sempre accesa lui, perchè aveva paura di entrare nella sua stanza quando era

completamente buia. Si chiuse la porta alle spalle, rimandando il momento di mettere la

spalliera della sedia sotto alla maniglia a dopo che i suoi fossero venuti a dargli il bacio della

buonanotte, e si sedette per terra, sotto alla finestra, da dove poteva vedere la porta senza

essere visto subito da chi entrava. Prese il libro che aveva appena iniziato e cercò di

immergersi nella lettura, anche se non si sentiva affatto tranquillo: se il mostro era inquieto

voleva dire che si stava arrabbiando? Però, forse, stava male davvero, gli venne in mente. E

se stava male magari poteva... morire? Possono morire i mostri, o li puoi solo uccidere?

Sperò, ardentemente sperò che morisse, anche se il senso di colpa lo pungeva da tutte le

parti, gli arrossava le guance e gli mandava in fiamme la testa. “Non si deve mai, mai

augurare la morte a nessuno, nemmeno a chi ti sembra cattivo o ti ha fatto del male – diceva

sempre la madre – È Dio che decide il destino di tutti, noi non abbiamo il diritto nemmeno di
provarci”. Scosse la testa, per scacciare quel pensiero, che però rimase come una filastrocca

a riecheggiare nella sua testa.

Fa che muoia, fa che muoia, fa che muoia...

Il libro non riusciva a distoglierlo dai suoi pensieri, ma ben presto cominciò a sentirsi

assonnato. Quando stava quasi per addormentarsi, però, vide aprirsi la porta della sua stanza:

non era presto per la buonanotte? Per un attimo pensò di avere un'allucinazione e si

stropicciò gli occhi, per riaprirli subito dopo e vedere davanti a sé la stessa cosa: il mostro

era lì, pagliaccetto verde e pannolino compresi, ma era in piedi e lo fissava coi suoi occhi di

brace. La bocca, se si poteva chiamare così il taglio obliquo che aveva al centro della faccia,

era storta in una smorfia, e si vedeva il luccicore dei denti. Luca tentò di gridare, ma non

c'era voce nella sua gola, né respiro nei suoi polmoni, e si sentiva paralizzato, incapace di

muovere anche un solo muscolo.

 Vuoi che muoia, eh? - disse il mostro, con un'assurda voce roca e stridula insieme,

che feriva le orecchie. Luca non poteva rispondere, voleva solo scappare, il cuore gli

batteva a martello nella cassa toracica.

 Io non posso morire – aggiunse il mostro, stranamente ridicolo nel pagliaccetto

verde, con le gambe grassocce che non si capiva come facessero a reggerlo in piedi, e

insieme terrificante – Invece sarai tu, a morire, presto. Ti ucciderò io. Stai attento a

quello che fai...

Lentamente, il mostro gli si avvicinava. Luca boccheggiava, senza riuscire a far arrivare aria

ai polmoni, e una forza invisibile continuava a tenerlo inchiodato a terra. Finalmente, chissà

come, riuscì ad urlare, e urlò più forte che poteva, e poi tutto divenne sfocato, e l'immagine

del mostro svanì, quando lui svenne.

Si svegliò per gli strattoni del padre, e la sua voce nelle orecchie:
 Luca! Luca!

Aprì gli occhi e in un attimo ricordò quello che era appena accaduto, cominciando a tremare.

Il padre era spaventato, continuava a tenerlo stretto, cercando di attirare la sua attenzione.

 Che è successo, Luca? Perchè stavi gridando?

Gli occhi del ragazzino saettarono per la stanza come biglie impazzite: la madre era accanto

al padre e non c'era traccia del mostro. Si decise a rispondere:

 Ho visto... Niente, era un incubo.

 Ti sei addormentato seduto per terra? - gli chiese la madre.

 Sì, penso di sì.

Il padre lo sollevò e lo mise sul letto, carezzandogli il viso.

 Stai bene, adesso? Ci hai fatto prendere un colpo. Si è svegliato pure tuo fratello.

Luca chiuse forte gli occhi e le labbra per impedirsi di gridare ancora. (“Basta con questo

fratello, è un mostro, possibile che non lo vedete, ha detto che mi ucciderà!”). Cercò di

calmarsi, aprì di nuovo gli occhi e si sforzò di respirare lentamente, ma il panico non se ne

andava.

 Ora ti metti il pigiama e dormi, eh? - disse sua madre.

 Resti con me, questa notte?- la implorò - Ti prego!

Da anni Luca non desiderava più dormire con i suoi genitori: amava il suo letto e la sua

stanza, si sentiva al sicuro lì. Ma dopo quello che era appena successo non si sarebbe sentito

al sicuro mai più, non in quella casa.

I suoi si consultarono con lo sguardo, e il padre disse alla madre, sottovoce:

 Resta pure. Se il piccolo si sveglia ti chiamo. Tanto si è riaddormentato...

 Va bene, Luca. Fammi solo andare a mettere la camicia da notte, eh?

Evidentemente, pensò lui, vuole andare a guardare il suo mostro nell'altra stanza,

un'ultima occhiata prima di costringersi a venire a dormire con me. Lo odio, lo odio...
Indossò il pigiama e si mise sotto alle coperte. Doveva fare pipì, ma non osava

allontanarsi da quel letto, e non voleva restare solo. Pensava solo che presto la mamma

sarebbe tornata e, se lei avesse dormito insieme a lui, il mostro non gli avrebbe fatto del

male, almeno per quella notte. Il padre restò ancora un po' con lui, senza dire niente,

accarezzandogli i capelli, e se ne andò quando li raggiunse la madre, che si infilò nel letto.

Luca si strinse a lei, che lo abbracciò. Il padre diede loro la buonanotte e uscì dalla stanza,

accostando la porta.

 Puoi chiuderla, per favore? - gli chiese Luca.

Dopo qualche istante di indecisione il padre chiuse la porta.

 Che ti succede, Luca? Sono anni che dormi da solo, perchè hai voluto che restassi

con te, stanotte? - gli chiese la madre.

Luca si stava lentamente rilassando, con lei accanto, e aveva solo voglia di dormire.

 Non mi succede niente, mamma. Quell'incubo mi ha spaventato.

 Era così brutto? Vuoi raccontarmelo?

 Domani.

 Va bene.

Luca sentì che la sonnolenza lo afferrava e decise che, con la madre vicino, poteva

permettersi di dormire. Desiderò ardentemente non sognare, quella notte.

La mattina dopo, quando si svegliò di soprassalto, la madre non c'era. Sentì subito

che qualcosa non andava e si rese conto di aver bagnato il letto. Il pigiama era zuppo di urina

e anche le lenzuola e il materasso sotto di lui. Si alzò velocemente dal letto e stava andando

verso la porta per raggiungere il bagno, quando questa si aprì.

 Finalmente ti sei svegliato! - disse la madre.

Aveva in braccio il mostro, che lo guardava con occhi cattivi. Luca si immobilizzò al centro
della stanza.

 Ma che è successo...? Hai bagnato il letto? Luca! Non ci posso credere!

Lui abbassò lo sguardo, per non dover fissare gli occhi del mostro e anche un po' per la

vergogna.

 È solo che ieri sera dovevo farla, ma avevo tanto sonno e così...

La madre sospirò, rinunciando a rimproverarlo ancora.

 Va bene. Reggi tuo fratello, che tolgo le lenzuola.

 (No! No! Non posso!) Ma ho il pigiama bagnato, mamma! Voglio andare a

cambiarmi!

 Va bene, allora... vado a lasciare tuo fratello alla nonna e poi ci penso io, qui. Tu vai a

cambiarti.

Luca si rifugiò in bagno e si tolse di dosso gli indumenti bagnati. Si lavò e si mise

addosso il suo accappatoio, poi uscì dal bagno, circospetto. Si affacciò alla balaustra del

piano superiore e guardò giù. Non vide niente, ma sentì la nonna rivolgersi al mostro:

 Eccolo, il mio nipotino! Hai dormito bene, piccolo tesoro?

Respirò di sollievo e andò nella sua stanza. Sua madre aveva tolto le lenzuola bagnate e

stava cercando di pulire il materasso.

 Dovremo lasciarlo così, per qualche ora. Deve asciugarsi.

Luca annuì e poi andò a mettersi degli slip puliti, una maglietta e un paio di calzoncini. Poi

indossò i suoi sandali.

 Posso andare a fare una passeggiata, mamma?

 Ma devi fare colazione, prima!

 Non ho fame. Davvero. Torno presto.

La madre lo guardò con aria preoccupata, e alla fine acconsentì. Lui la salutò e andò verso la

porta, ma lei lo fermò:


 Aspetta, Luca!

Lui si voltò, in attesa.

 Lo so che è un momento difficile per te. Come posso aiutarti?

 (Puoi ucciderlo. No, non puoi, lo so). Stai tranquilla, mamma. Sto bene.

Luca uscì di casa in fretta, senza nemmeno passare a dare il buongiorno alla nonna.

Vide suo padre in giardino, occupato ad innaffiare il prato, ma passò dietro ai cespugli e

riuscì a non farsi vedere. Si incamminò lungo la solita strada, e più camminava più si sentiva

meglio: il peso che gli opprimeva il petto si alleggeriva, man mano che si allontanava dal

mostro. Doveva pensare a quel che era successo la sera prima, anche se farlo lo spaventava e

gli faceva aumentare i battiti del cuore: il mostro si era mosso da solo, aveva raggiunto la sua

stanza sulle sue gambe, che non avrebbero mai potuto reggerlo, dato che aveva solo sei mesi

e Luca non ricordava di aver mai visto un mezzo neonato stare sulle sue gambe. Del resto

quello non era un bambino, quindi... il problema era che adesso lui non poteva più sentirsi al

sicuro, in casa, visto che il mostro avrebbe potuto approfittare di ogni momento in cui non

era sorvegliato dai genitori per andare da lui e fargli del male. Se avesse raccontato ai suoi di

aver visto quello che loro credevano essere il loro figlioletto ritto sulle gambe a sei mesi e di

averlo sentito minacciare suo fratello di morte, lui che ancora, al massimo, davanti a loro

gorgogliava... be', altro che medico avrebbero chiamato. Che poteva fare? si chiese. Doveva

andarsene, ecco cosa. Ma andare dove? Era solo un ragazzino di dieci anni. Non aveva soldi,

non aveva altra casa che quella dei suoi genitori, e nessun parente avrebbe accettato di

ospitarlo. Da chiunque fosse andato gli avrebbero chiesto perchè mai voleva andarsene da

casa sua e abbandonare i suoi genitori, e lui che avrebbe potuto rispondere? “Me ne voglio

andare perchè quello che credete essere il mio fratellino in realtà è un mostro, con gli occhi

rossi come il fuoco, la bocca piena di zanne e le mani come artigli, che già cammina da solo
e ha già ha minacciato di uccidermi”. Lui sapeva bene cosa gli altri pensassero di chi vedeva

mostri che nessun altro vedeva, se ne ricordava da quando il suo amico Andrea gli aveva

raccontato di aver visto un film in cui c'era una ragazza che giurava di essere circondata dai

fantasmi di persone morte, e quando lo aveva detto l'avevano rinchiusa dentro una stanza

tutta bianca, senza finestre e con la porta d'acciaio, da cui non avrebbe mai più potuto uscire.

Passeggiando e pensando, Luca era arrivato sulle sponde del lago. Percorrendo il

camminamento che lo circondava tutto si poteva arrivare a una macchia di verde fitto, alberi

e cespugli che creavano un intrico di rami e foglie che ai ragazzini piaceva esplorare. Luca ci

si infilò dentro, alla ricerca di fresco e solitudine. Il sentiero era in salita, un po' scivoloso, e

lui iniziò a seguirlo, facendo attenzione a non cadere. Nel mezzo della boscaglia, poco più in

là, vide una macchia rossa: la maglietta del ragazzino che, il giorno prima, stava affogando le

formiche nel prato secco. Era di nuovo accucciato, come la prima volta che l'aveva visto, e

Luca si chiese quale animale stesse tormentando. Si avvicinò al ragazzino e lo salutò. Quello

stavolta si girò subito.

 Ehi! Ciao. Fai piano, sennò scappa...

Luca gli si avvicinò ancora, cercando di fare meno rumore possibile, e vide che teneva in

mano un filo d'erba, lavorato in modo che terminasse con un piccolo cappio. Si accucciò

anche lui, per guardare meglio, e vide immobile, a poca distanza dal cappio, una lucertola.

L'altro ragazzino taceva, attento a che il filo d'erba non si muovesse nella sua mano, e Luca

capì che stava aspettando che la lucertola si muovesse per intrappolarla. Tutti e due rimasero

zitti e immobili per alcuni minuti, quasi senza respirare, e mentre Luca non sapeva bene se

augurarsi che la lucertola scappasse o si facesse catturare, quella avanzò velocemente e

l'altro riuscì ad infilarle la testa nel cappio, sollevandolo di scatto.

 E vai che lo l'ho presa, finalmente! - gridò il ragazzino, esultante – Ci ho messo un

sacco di tempo, ma ne è valsa la pena!

La lucertola si contorceva, pendendo dal filo d'erba, senza però riuscire a liberarsi. Luca si
sorprese a guardarla senza compassione: dopotutto avrebbe potuto scappare, invece si era

lasciata catturare.

 E adesso le diamo fuoco! Vieni! - disse il ragazzino dalla maglietta rossa, sorridendo

soddisfatto.

Sempre tenendo la lucertola sospesa al filo d'erba, quello lo condusse ad un piccola radura,

dove evidentemente aveva predisposto, prima di tentare la cattura, i suoi strumenti di morte

alla lucertola. C'erano un flacone di alcool denaturato, un secchio di latta col coperchio e dei

fiammiferi. Il ragazzino buttò la lucertola dentro al secchio e poi lo chiuse con il coperchio.

 È una cosa fichissima, ma bisogna stare attenti: se il fuoco esce dal secchio qua

brucia tutto, però non dobbiamo farla scappare. Aiutami: tu sollevi appena il

coperchio, e sta attento che quella non scappa, mentre io ci verso sopra l'alcool. Sei

pronto?

Luca cominciò a sentirsi un certo fastidio allo stomaco, come quando beveva il latte troppo

in fretta, ma annuì e afferrò con la mano il coperchio. L'altro gli diede il via e lui lo scostò

appena, per far entrare il beccuccio del flacone dell'alcool. Quando “maglietta rossa” pensò

che poteva bastare gli disse che stava per togliere il flacone e lui doveva tenersi pronto a

richiudere il coperchio. Luca non si sentiva pronto a niente, e la nausea stava aumentando,

ma ancora una volta annuì e, quando l'altro smise di versare l'alcool, allontanando il flacone

dal secchio, subito richiuse il coperchio.

 Bravo! Non l'hai fatta scappare! Lo sai che non sono capaci tutti? L'ultima che ho

preso quel deficiente di mio cugino se l'è fatta scappare da sotto il naso!

Luca provò a sentirsi orgoglioso di essere uno di quelli che non faceva scappare le lucertole,

ma senza riuscirci troppo. Solo un lievissima soddisfazione, appena un velo, che però per un

attimo annebbiò la costante consapevolezza di essere lui quello in trappola, proprio come la

lucertola, chiuso in casa col mostro per tutti gli anni a venire, se quello non lo avesse
ammazzato prima.

 E adesso... tu apri il coperchio, poco, come prima, e io ci butto dentro il fiammifero!

E poi ce la godiamo a vederla arrostire! - disse l'altro.

Un'altra botta di nausea, e per fortuna che aveva lo stomaco vuoto, visto che non mangiava

dalla sera prima. Comunque, nonostante la nausea e la sensazione inquietante di star per fare

qualcosa di molto, molto proibito dalle regole della sua famiglia, Luca si piazzò accucciato

davanti al secchio, pronto a scostare il coperchio. “Maglietta rossa”, ché ancora non si erano

nemmeno scambiati i nomi, si mise dall'altra parte, e Luca gli vide un luccichio selvaggio

negli occhi mentre strofinava il fiammifero contro la scatola, incendiandolo. Lui scostò il

coperchio, l'altro buttò dentro il fiammifero e tutti e due insieme si allontanarono di corsa dal

secchio, da cui si levarono fiamme.

 Forte, eh? Bisogna essere veloci, sennò ti bruci pure tu! - disse il ragazzino, mentre il

crepitio del fuoco diventava sempre più rumoroso, e si cominciava a diffondere

nell'aria puzza di carne bruciata.

Il ragazzino si avvicinò al secchio, quando le fiamme si abbassarono, per “gustarsi lo

spettacolo”. Luca, invece, sentì che il non aver mangiato niente quella mattina non era

sufficiente a tenergli lo stomaco al suo posto: si allontanò di qualche passo, nascondendosi

dietro a un cespuglio, e vomitò.

Quando i conati si calmarono riuscì a tirarsi su e si pulì la bocca con il polso. Avrebbe

dato chissà che per un po' d'acqua che lo aiutasse a mandar via il sapore acido che sentiva in

gola, ma non ne aveva con sé, e non voleva ancora tornare a casa. Sentiva il ragazzino

commentare l'agonia della lucertola.

 Ancora si muove, guardala, la bastarda!

Luca si allontanò di qualche passo ancora, cercando aria pulita da respirare, mentre la nausea

ritornava. L'altro sembrò accorgersi solo in quel momento che Luca non partecipava al suo
divertimento, così gli si avvicinò.

 Che hai? Stai male?

 No. Be'... un po'. Non ho fatto colazione.

 Se hai fame possiamo andare da me. Mio nonno è uscito, e i miei non ci stanno mai.

Dai, vieni!

 E come facciamo con la lucertola?

 La buttiamo – rispose l'altro, afferrando il secchio, dove il fuoco si era ormai spento,

e rovesciandolo.

Il cadavere della lucertola bruciata scivolò via, cadendo sull'erba e provocando un altro

spasmo allo stomaco di Luca, che si affrettò a distogliere lo sguardo. L'altro ragazzino

riprese secchio, alcool e fiammiferi e si incamminò lungo il sentiero. Luca lo seguì.

 Come ti chiami? – gli chiese, mentre scendevano.

 Alex.

 Io sono Luca.

L'altro annuì, continuando a camminare.

 Vivi qui? - gli chiese Luca.

 Sì.

 Io no, sto in vacanza.

 Lo so, a scuola non t'ho mai visto.

 Come mai i tuoi non ci sono mai?

 Hanno un negozio, ci passano tutto il giorno.

 Che negozio?

 Una ferramenta. Ma quante domande che fai!

 Scusa.

Continuarono a camminare in silenzio, fino a raggiungere il lungolago. Da lì Alex si


infilò dentro a un vicoletto, sempre con Luca alle calcagna, poi girò innumerevoli volte fino

ad arrivare ad una casa a due piani, con una scala di ringhiera che portava all'ingresso. Il

ragazzino salì le scale senza guardarsi indietro e poi si accorse che Luca era rimasto giù.

 Che fai, sali? Se hai fame...

Luca si decise a salire. Alex girò semplicemente la maniglia e la porta si aprì. Appena entrati,

Luca fu quasi assalito dall'odore della casa: un misto di cibo cucinato, forse detersivo per

pavimenti e umidità, un odore che non aveva mai sentito. Seguì il nuovo amico lungo il

corridoio spoglio, senza niente alle pareti, né quadri né librerie, fino alla cucina. Sul tavolo

c'era un cestino con dentro delle fette di pane e, accanto, un involto di tela. Alex si sedette e

afferrò una fetta di pane, poi andò a prendere un coltello, aprì l'involto e ne tirò fuori quella

che sembrava una mezza forma di cacio, tagliandone due grossi pezzi e tendendone uno a

Luca. Lui si chiese come si potesse fare colazione in quel modo, senza latte né biscotti, ma

aveva una gran fame e accettò, ringraziando. Il formaggio era forte, per i gusti delicati a cui

lui era abituato, e all'inizio fece uno sforzo per non storcere la bocca per la sgradevole

sorpresa, ma poi continuò a mangiare, alternando un morso al pane e uno al formaggio, come

stava facendo Alex, e si rese conto che quelle due cose insieme erano buonissime. Alla fine

avrebbe voluto chiedere dell'acqua, ma l'altro appena terminati la sua fetta di pane e il suo

formaggio si alzò di scatto dal tavolo, invitando Luca a seguirlo. Lui inghiottì l'ultimo

boccone e gli andò dietro. Arrivarono in quella che, evidentemente, era la stanza di Alex: un

gran disordine, il letto sfatto, vestiti, scarpe e fumetti ovunque e, in un angolo, un tavolino

con sopra uno schermo, attaccato alla console di videogiochi per la quale Luca smaniava da

un anno.

 Lo conosci, questo? - gli chiese Alex, afferrando la custodia di un videogioco che

andava per la maggiore, ambientato in un mondo fantastico pieno di zombies.

 No. Non ce l'ho quella – rispose Luca, indicando la console - L'ho chiesta ai miei,
forse me la fanno per Natale.

 Io ce l'ho già dall'anno scorso, è una figata! Vieni, ti faccio provare!

Il ragazzino spinse vari pulsanti, in successione, e lo schermo si illuminò. Afferrò il

controller e mandò il gioco. Per Luca, fino a cinque mesi prima, sarebbero state immagini

spaventose, di quelle che ti sogni di notte e ti fanno svegliare di colpo, col cuore a mille e in

un bagno di sudore, ma ormai quasi non gli facevano alcun effetto, se non quello di indurlo

al confronto col suo zombi personale, quello che lo aspettava a casa. Perchè che lo stesse

aspettando era una certezza, per lui. Ormai aveva fatto il passo decisivo, quello di presentarsi

da lui, da solo, e se aveva rischiato tanto l'unico motivo era che sapeva quanto lui, Luca,

fosse una minaccia.

Alex sembrava molto concentrato ad ammazzare zombies con la semplice pressione dei tasti

sul controller, e aveva l'aria di non aver fatto altro nella vita, fino a quel momento.

 Vuoi provare? - chiese al nuovo amico.

 Sì.

Passò il controller a Luca, spiegandogli sommariamente come funzionavano i vari tasti.

L'altro non ebbe difficoltà a familiarizzare con i comandi, e in breve gli zombies sullo

schermo ricominciarono a morire definitivamente. Alex lo guardava sorpreso.

 Ehi, ma sei forte! Sei un grande ammazza-mostri!

 Sì, con quelli finti...

 Perchè – disse Alex, ridendo – tu ne hai mai visto uno vero?

Luca smise di uccidere zombies, trattenne il respiro per un attimo e poi si buttò, fissando

l'altro:

 Ci vivo insieme.

Non fu facile spiegare, raccontare e convincere il suo nuovo amico che quello che diceva era
tutto vero, ma alla fine Alex sembrava convinto e impressionato. Del ragazzino audace che

sembrava non aver paura di niente non c'era più traccia, e il pallore del suo viso testimoniava

quanto fosse arrivato a credere all'incredibile. Se ne stavano seduti per terra, la console

ancora accesa alle loro spalle ma ormai dimenticata.

 Voglio vederlo! - disse Alex, passando dalla paura all'eccitazione.

 Non è possibile. Sta sempre in braccio ai miei o nella culla, e poi magari tu non

vedresti niente. Gli altri non se ne accorgono, gli sembra un normale neonato. L'unico

che vede che è un mostro sono io. Penso che li abbia stregati.

 Ma come fai a essere sicuro che quello che vedi tu è vero? - obiettò Alex - Magari

hanno ragione gli altri, e quello stregato sei tu.

L'osservazione non mancava di logica, in effetti, eppure Luca non ci aveva mai pensato,

neanche una volta. Aveva visto i suoi occhi rossi e le zanne e le dita adunche sin dal primo

momento che aveva posato lo sguardo su di lui, quindi non poteva assolutamente dubitare di

quello che i suoi occhi gli dicevano di vedere.

 Io so che quello che vede la verità sono io – affermò – Non posso dirti perchè lo so,

ma è così.

 E che hai intenzione di fare? Se davvero è come dici tu e quello vuole ammazzarti,

devi trovare una soluzione, prima che ti mangi la testa...

L'immagine del mostro intento a spolpare la sua testa provocò a Luca un ennesimo attacco di

nausea.

 E che posso fare, secondo te? I miei lo vedono come mio fratello! Mica posso andare

là e prenderlo a bastonate!

 Be', magari potresti farlo passare per un incidente... - disse Alex, la sua aria temeraria

completamente riacquistata.

 Figurati... Tu non sai quant'è spaventoso! Non riesco nemmeno a guardarlo per più di
due secondi!

Alex aveva lo sguardo trasognato, come se stesse pensando intensamente a qualcosa. Dopo

una manciata di minuti di silenzio, esclamò:

 Aspetta! Ecco qui la soluzione: tu mi porti a casa tua, io lo vedo, e se sembra un

mostro anche a me, ci penso io a fartelo fuori!

 E se nemmeno tu riesci a vederlo davvero?

 Non lo so, ma magari in due riusciamo a capirci qualcosa, no?

Luca pensò che forse Alex era solo curioso di vedere con i suoi occhi se quello che

chiamavano il suo “fratellino” era davvero un mostro, e pensò che se anche il suo nuovo

amico non fosse riuscito a vederlo avrebbe pensato che lui era fuori di testa. Del resto, che

alternative aveva? Se tutto fosse andato bene e il mostro si fosse rivelato anche ad Alex per

quello che era, magari l'altro avrebbe avuto una buona idea per liberarsene. All'ipotesi

contraria non voleva nemmeno pensare, tanto aveva problemi più grossi che passare per

matto con uno che aveva appena conosciuto.

 Va bene – rispose, infine – Però adesso io devo tornare a casa.

 Facciamo così: oggi pomeriggio io vengo a trovarti, così mi fai vedere il tuo mostro –

propose Alex.

 Non è il mio. È un mostro e basta.

 Sì, sì... scusa.

 Allora ti aspetto. L'ultima casa sulla via dei Platani.

 Okay.

Mentre tornava a casa, Luca si sentiva strano. Da una parte era sollevato, aver parlato con

qualcuno dell'incubo che aveva invaso la sua vita negli ultimi cinque mesi era stata una

piccola liberazione, ma dall'altra aveva paura. Paura che nemmeno il suo nuovo amico

riuscisse a vedere il vero volto del mostro e magari si prendesse gioco di lui o, peggio,
andasse in giro a raccontare quella storia facendolo passare per pazzo. E poi solo in quel

momento gli venne in mente che, forse, far vedere il mostro a qualcun altro non della

famiglia potesse farlo infuriare ancora di più contro di lui. Se l'avesse risparmiato, fino a

quel momento, solo perchè nessun altro sapeva di lui, a parte i genitori e la nonna?

Entrando in casa, si aspettava che sua madre gli chiedesse dov'era stato per tutto quel

tempo, invece trovò lei e la nonna in salone che guardavano affascinate, ridendo, il mostro

disteso su una sdraietta poggiata sul pavimento. Luca pensò di imboccare le scale e salire

nella sua stanza senza nemmeno farsi vedere, ma in quel momento squillò il telefono e la

madre andò a rispondere, e lui si trovò d'improvviso davanti al mostro. Il ghigno con cui di

solito l'altro lo fissava stavolta era ancora più minaccioso, i denti scoperti e le mani, che

prima reggevano un pupazzo, tese verso di lui con gli artigli bene in vista: il mostro sapeva.

Sapeva di Alex, e sapeva che adesso lui aveva qualcuno dalla sua parte, che lo avrebbe

aiutato ad ucciderlo. Anche la nonna si allontanò, chiamata in cucina dalla madre, e il mostro

ne approfittò per ringhiargli addosso, come il giorno prima:

 Lo so che stai architettando, che credi? Ti sei fatto un amichetto, e credi di farmi

paura? - disse, con la solita voce roca e insieme stridula, ma ancora più terrificante –

Stai attento, o prima di te ammazzerò tua madre...

Stavolta, però, Luca reagì.Tremando, si costrinse a restare fermo dov'era, e rispose:

 Non te lo permetterò! Sei tu che devi stare attento, mostro schifoso!

L'altro si mise a ridere, se quel rumore stridente come una lima su un pezzo di ferro si poteva

chiamare risata, spalancando la bocca e mostrando le zanne gialle e appuntite, spaventose.

La madre tornò, all'improvviso.

 Ah, Luca, sei qui! Stavi dicendo qualcosa a tuo fratello?

 No – rispose lui, cercando di dominare il tremore.

Il mostro aveva minacciato di ucciderla, lei non doveva sapere niente.


 Vuoi aiutarmi a dargli la pappa? Oggi iniziamo con la minestrina! - esclamò, quasi

trionfante.

 No! - gridò, suo malgrado – No, mamma, scusa. Sono un po' stanco, vado in camera

mia.

 Va bene – disse lei, rassegnata.

Luca evitò di guardare ancora il mostro e iniziò a salire le scale, poi si ricordò di Alex e disse

alla madre che, nel pomeriggio, sarebbe venuto a trovarlo un nuovo amico. Lei rispose solo

“Ah, sì, d'accordo”, ma era chiaro che non aveva davvero capito. Come al solito la sua

attenzione era tutta per il mostro.

Luca se ne andò in giardino subito dopo pranzo, ad aspettare Alex. Adesso che il

momento si avvicinava non vedeva l'ora che il suo amico arrivasse. Cominciava a crederci

davvero che l'altro lo avrebbe guardato e riconosciuto, il mostro, e allora lo avrebbe aiutato a

liberarsene. Del resto se uno non si fa problemi ad ammazzare una lucertola inoffensiva,

perchè dovrebbe farsene con un mostro, spaventoso e cattivo?

Il sole era caldo e Luca sudava, ma non aveva la forza di spostarsi dai gradini della

veranda su cui si era seduto. La sua mente tornò all'estate precedente, in quello stesso

giardino: era stato così felice... non sapeva ancora che la madre aspettasse un altro figlio, e

lui e lei stavano sempre insieme. Andavano al mare, poi tornavano a pranzo, e poi si

mettevano a riposare lì, sulle sedie a sdraio. La madre leggeva e lui giocava col modellino di

elicottero radiocomandato che gli avevano regalato al suo compleanno. Di tanto in tanto la

mamma diceva qualcosa e si mettevano a chiacchierare... una volta, mentre lei annaffiava il

prato, aveva diretto il tubo dell'acqua verso di lui e lo aveva bagnato apposta, ridendo, allora

lui glielo aveva rubato e l'aveva bagnata a sua volta e avevano finito per sdraiarsi sull'erba

ridendo a crepapelle, tutti e due fradici... Momenti così non sarebbero mai più tornati: ormai
c'era il mostro, la mamma non aveva più interesse per lui, non ci chiacchierava più, non

rideva, non scherzava con lui, e pretendeva pure che lui si comportasse da “grande”, adesso

che aveva un fratellino di cui prendersi cura. Luca sentì arrivare le lacrime, e si sforzò di

cacciarle via, pensando al mostro e alla forza che avrebbe dovuto trovare dentro di sé per

ucciderlo. Non c'era altro da fare, continuava a ripetersi, non poteva vivere ancora sotto al

suo stesso tetto, specie adesso che aveva minacciato di uccidere anche la mamma.

Finalmente arrivò Alex, Luca lo vide avvicinarsi al cancello e guardare dentro, e

allora si alzò e andò ad aprirgli.

 Sei venuto – disse, come se non ci avesse creduto davvero.

 Certo. Ti ho detto che venivo.

Mentre risalivano il vialetto insieme, verso l'entrata della casa, a Luca sembrò che l'altro

fosse un po' pallido, molto meno vivace delle altre volte che lo aveva incontrato. Che avesse

paura?

 Ehi! - gli disse – Tutto a posto? Te la senti?

 Sì, sì! - rispose l'altro, anche se lo sguardo un po' vacuo tradiva quelle parole di

assenso.

Entrarono dalla porta finestra e Luca chiamò sua madre, che arrivò dalla cucina.

 Mamma, lui è Alex, un mio amico.

 Ciao, felice di conoscerti! - disse la mamma, con in mano uno dei pagliaccetti del

mostro.

Luca si chiese come quello riuscisse a non romperli, con quelle unghie ricurve che aveva...

Alex mormorò qualcosa che suonava come un “Buongiorno, signora”, piuttosto bofonchiato,

e subito dopo arrivò la nonna, col mostro in braccio. Luca diede una gomitata leggera

all'amico e lo guardò guardare quello che agli occhi di tutti, tranne che ai suoi, era solo un

bel bambino di sei mesi. L'altro spalancò gli occhi e si morse il labbro inferiore, abbassando
in fretta lo sguardo. Luca vide l'espressione del mostro, quella delle grandi occasioni: denti

acuminati bene in vista, occhi rossi, mani adunche tese in avanti, come pronte a ghermire.

 Be', noi andiamo a fare un giro – disse, prendendo l'amico per un braccio e

trascinandoselo dietro.

Uscirono seguiti dalla raccomandazione della madre di non fare tardi per la cena, e una volta

fuori dal giardino Luca si voltò verso Alex:

 Allora, l'hai visto?!

L'altro aveva ancora quello strano sguardo, a metà tra la paura e l'eccitazione, e rispose:

 Sì, certo che l'ho visto. È tremendo! È veramente spaventoso!

Luca sentì un calore diffonderglisi dentro, sollievo e forza che lo invadevano. Finalmente

non era più solo! Finalmente qualcun altro vedeva quel mostro per quel che era!

 Capisci adesso che devo sopportare? Non ce la faccio più...

 E ci credo! Io avrei paura pure ad addormentarmi, con quello nella stanza accanto!

 Appunto! Iero ho dovuto chiedere a mia madre di dormire con me, ma come farò

stanotte? Quello torna di sicuro...

 Non puoi continuare così – disse Alex – Te ne devi liberare.

Luca smise di camminare e si girò a guardare l'amico. Aveva avvertito la sicurezza nelle sue

parole, nel tono della voce. Anche l'altro si rendeva conto della necessità di eliminare il

mostro, e si stava offrendo di aiutarlo.

 Ho solo paura che i miei non capiranno. Hai visto mia madre come lo guarda? Ormai

è l'unica cosa che conti, per lei. Non mi perdonerà mai.

 E che alternativa hai? - replicò l'altro – Aspettare che ti ammazzi? O che ammazzi i

tuoi, per primi? Tua madre?

 Non credo che le farà del male davvero, in fin dei conti ha bisogno di lei...

 Che ne sai? Se così piccolo già parla e cammina, che problemi avrebbe ad andarsene
in giro da solo e rubare il cibo, magari ammazzando chi glielo vuole impedire?

 Perchè dovrebbe? A casa mia sta benissimo, nutrito e coccolato. Quello che non

capisco è da che mondo proviene, come è arrivato qui...

 Che te ne importa? È un mostro e ha detto che ti ucciderà! Non ti basta?

I due camminavano lungo la via, affiancati, e parlando erano arrivati al lago.

 Sai – disse Alex – Io saprei come fare.

 Che vuoi dire?

 C'è un pontile, dall'altra parte del lago, nascosto dagli alberi. È vecchio, nessuno lo

usa più.

 E allora?

 Lo buttiamo in acqua – rispose Alex, come fosse la soluzione più ovvia.

 Quello è un mostro! Mica annegherebbe come un bambino vero! - obiettò Luca.

 Possiamo sempre tenerlo sotto... - ribattè Alex.

Aveva negli occhi lo stesso luccichio di quando stava dando fuoco alla lucertola, pensò Luca.

Il caldo aumentava e lui si sentiva stanco, tanto stanco... quella giornata sembrava non finire

mai. Pensò che voleva tornare a casa, e poi che non sarebbe mai più voluto tornare in quella

casa dove c'era il mostro. Come avrebbe potuto dormire, quella notte? Non poteva certo

chiedere a sua madre di restare ancora con lui... eppure avrebbe tanto voluto dormire, per

giorni e giorni, e poi svegliarsi e rendersi conto che era stato solo un incubo, che era ancora

figlio unico e che nessun mostro era mai entrato nella sua vita. All'improvviso, senza che

avesse sentito alcuna avvisaglia dentro, come invece gli succedeva sempre, scoppiò in

lacrime. Si sedette sul prato del lungolago, le braccia sulle ginocchia piegate e la testa sopra,

e pianse singhiozzando piano. Alex gli si sedette accanto e gli mise una mano sulla spalla.

 Dai, Luca... vedrai che funziona!

L'altro continuò a piangere, senza rispondere. Lentamente si calmò, e tirò su la testa


pulendosi il naso gocciolante con il polso.

 Mia madre non mi perdonerà mai.

 Ma sì che lo farà! Sarà stato un incidente, no? Mica penserà che l'hai fatto apposta.

 Invece sì. Lo sa che lo odio.

L'altro rimase imbambolato per qualche istante, come se stesse cercando di risolvere un

problema, e alla fine esclamò:

 Allora non hai che una cosa, da fare: fingere di star cominciando a volergli bene,

parlargli, giocare con lui... fino a quando tua madre si convincerà che ti è passata e si

fiderà di te al punto da lasciartelo portare a spasso, e allora noi lo portiamo qui e lo

ammazziamo.

 Non ce la farò mai. Non riesco nemmeno a guardarlo! Ma l'hai visto davvero, tu? Hai

visto che denti aguzzi? E gli occhi rossi? Le unghie?!

 Be', devi fare uno sforzo. Altrimenti non te ne libererai mai, e poi ha detto che ti

ucciderà, no?

Luca sospirò. Alex aveva ragione, ma lui non riusciva nemmeno a pensare di guardarlo più

di due secondi, figuriamoci giocare con lui! E poi... come accidenti si gioca con un mostro?

Alla fine Luca tornò a casa, da solo. Anche il suo amico se ne andò, perchè era ora di

cena. Si accordarono per rivedersi il giorno dopo e ancora una volta Alex insistette, prima di

andarsene:

 Ricordati: devono pensare che ti ci stai affezionando!

Appena entrato in casa, il padre gli chiese dove fosse andato. Luca cominciò a rispondere,

quando sentì dire alla madre, dalla cucina:

 Ma hai proprio fame, oggi, eh?


Luca smise di parlare e il padre sembrò dimenticarsi del tutto della domanda che gli aveva

fatto appena due secondi prima. Si girò e andò in cucina, dicendo:

 Ehi! Voglio vedere anch'io quanto mangia questo bambino!

Lui stava per imboccare le scale che portavano alla sua stanza, al piano di sopra, quando

pensò che, comunque, da qualche parte doveva pur cominciare. Tornò sui suoi passi e andò

anche lui in cucina. Il mostro troneggiava sul seggiolone, mentre la mamma lo imboccava,

seduta di fronte a lui. Il padre, in estasi, lo guardava dall'altra parte del tavolo. Luca si

costrinse ad alzare gli occhi e la scena che vide per poco non lo fece sobbalzare: la madre

teneva il cucchiaio pieno di minestra davanti alla bocca del mostro, che era spalancata

all'inverosimile, le zanne perfettamente in vista, gli occhi fiammeggianti aperti e fissi non sul

cucchiaio, ma su di lui. La madre gli infilò la minestra in quella bocca spaventosa, e l'altro la

inghiottì, continuando a inchiodare lui con lo sguardo. Luca cercò di tenere duro e ricambiò

quello sguardo, fino a quando si sentì osservare anche da suo padre.

 Che c'è, Luca? È tuo fratello, mica un mostro marino! - esclamò, ridendo – Hai una

faccia...

 No – balbettò lui – mi chiedo solo come faccia a piacergli tanto quel pappone... -

disse, coraggiosamente.

I genitori scoppiarono a ridere, e in quella risata si avvertiva tutto il sollievo di mesi di

preoccupazione per il comportamento del figlio maggiore. Finalmente riusciva a stare nella

stessa stanza con suo fratello, lo guardava mangiare e aveva anche fatto una battuta di

spirito! Forse, dopotutto, non ci sarebbe stato bisogno dello psicologo.

Un attimo dopo la nonna chiamò il padre, dal giardino, per fargli vedere qualcosa, e

lui uscì. La mamma, allora, disse a Luca:

 Posso lasciarti un attimo a guardare tuo fratello? Devo andare a prendergli un altro

bavaglino, di sopra.
Luca fece un profondo respiro. Era arrivato il momento.

 Sì.

La mamma gli sorrise con dolcezza e uscì dalla cucina. Ora erano soli: lui e il mostro. Luca

si fece coraggio e alzò gli occhi: l'altro lo guardava. La bocca stavolta era chiusa, sembrava

una ferita insanguinata sulla pelle pallida, e gli occhi rossi non lo perdevano di vista un

attimo. Le mani erano aggrappate ai bordi del seggiolone, le lunghe unghie ripiegate. Un po'

di pastina era caduta sul davanti del pagliaccetto, e Luca pensò che quel mostro sul

seggiolone con la tutina imbrattata di pastina era la cosa più assurda e schifosa che avesse

mai visto.

- Lo so che stai cercando di fare, cosa credi? - disse il mostro, con la sua voce roca e

tagliente.

Luca iniziò a tremare, ma tenne con forza lo sguardo puntato su quel volto orribile.

 Non ci crederanno. Sei solo un ragazzino stupido.

 Non voglio fare niente – si costrinse a rispondere.

 Certo che vuoi farlo, ma non te lo permetteranno.

 Smettila! - intimò al mostro.

L'altro aprì la bocca e si mise a ridere, la solita risata che sembrava un raglio. Con la mano

afferrò il cucchiaio rimasto sul tavolino del seggiolone e lo buttò a terra. Luca pensò che

doveva raccoglierlo o la madre si sarebbe chiesta perchè non lo aveva fatto, visto che l'aveva

lasciato lì apposta per sorvegliare il fratello. Allora si chinò e raggiunse il cucchiaio, lo

raccolse e lo poggiò sul tavolo, lontano dalle mani del mostro. Nel fare questo, sbirciò un

attimo la faccia dell'altro, e per poco non si mise a gridare. Per un secondo, solo un secondo,

vide un bambino seduto sul seggiolone, un bambino dalla pelle rosa e dalle guance paffute,

che lo fissava con occhi ancora dal colore indistinto e sorrideva. Un bambino bellissimo.

Ma fu solo un attimo: la madre rientrò in cucina, e quando Luca lo guardò di nuovo, vide il
mostro al proprio posto, che fissava ora la madre. Si strofinò gli occhi, sentendo ancora la

nausea assalirlo, come quando aveva aiutato Alex a bruciare la lucertola. Disse alla madre

che andava nella sua stanza e uscì dalla cucina senza aspettare la sua risposta. Il bambino che

aveva visto per un attimo, sul seggiolone, scivolò via dalla sua memoria.

Quella notte mise con cura la spalliera della sedia sotto alla maniglia della porta, dopo aver

sentito distintamente chiudersi la porta della stanza dei suoi. Per la prima volta, da quando la

mamma aveva portato a casa il mostro, si sentì a disagio nel barricarsi in quel modo, come se

stesse facendo una cosa stupida. La sua mente gli diceva che non lo era, che da quando il

mostro aveva dimostrato di sapersi muovere da solo ed era arrivato da lui a minacciarlo,

proteggersi era diventato fondamentale, eppure qualcosa dentro gli suggeriva che non aveva

senso farlo. Del resto, non era cambiato niente, anzi. Lui sapeva cosa aveva intenzione di

fare, insieme ad Alex, e questo significava una sola cosa: che doveva accelerare i tempi,

sbrigarsi a far credere ai suoi di aver cambiato opinione a proposito del fratellino, magari di

aver cominciato a considerarlo parte della famiglia, di aver smesso di sentirsi geloso. Passò

in rassegna tutto quello che gli avevano chiesto di fare con lui e che lui si era rifiutato di fare,

o che era riuscito a fare solo con un immenso sforzo, e gli vennero in mente alcune cose che

gli avrebbero provocato, forse, meno disgusto. Tenerlo in braccio nemmeno a parlarne, l'altro

avrebbe potuto approfittarne per morderlo o graffiarlo, ma sorvegliarlo mentre era nella

sdraietta si poteva fare, intanto, magari fingendo di parlare con lui, per farsi sentire dalla

madre o dalla nonna. Anche aiutare la mamma a dargli da mangiare era fattibile, se lo

guardava solo di tanto in tanto senza soffermarsi troppo sui particolari spaventosi della sua

faccia. Poi c'era il bagno... poteva resistere alla vista di quella pelle arida, di quelle pustole

purulenti? Forse, se avesse usato sempre la tecnica dei brevissimi sguardi ripetuti.

Si sentiva stanchissimo. Si sedette sul letto e guardò per un attimo il libro che aveva

iniziato a leggere quando era arrivato dalla nonna, quindici giorni prima: era ancora alle
prime pagine. I suoi giochi preferiti erano nella cesta, rimessi a posto dalla mamma e non più

ripresi da lui, negli ultimi giorni: non aveva più voglia di giocarci, e non aveva più voglia di

giocare, proprio. Resistette alla tentazione di rimettersi a piangere, deglutendo più volte e

facendo un profondo respiro. Si stese nel letto e pregò che il mostro, almeno per quella notte,

lo lasciasse in pace. Un attimo dopo, dormiva.

Si svegliò alle otto del mattino seguente. Andò in bagno e si lavò, come gli aveva insegnato a

fare la mamma già parecchi anni prima, poi indossò una maglietta pulita, dei calzoncini e i

sandali e uscì dalla sua stanza, dopo aver tolto la sedia da sotto la maniglia della porta. Da

quando aveva cominciato a mettercela, qualche giorno prima, nessuno se ne era accorto,

perchè nessuno veniva più la notte a controllare se dormiva, evidentemente. Certo, ormai

c'era il piccolo, e lui era diventato grande all'improvviso, per i suoi genitori. Abbastanza da

non curarsi se dormiva o meno, ma non abbastanza da permettergli di decidere cosa

mangiare o non mangiare a pranzo, per esempio. La porta della stanza dei suoi genitori era

aperta: dentro non c'era nessuno. Luca si sporse dalla balaustra della scala e guardò giù:

l'ingresso della casa era deserto, ma si sentivano voci provenire dalla cucina. Probabilmente

il mostro stava facendo colazione, guardato con adorazione dai suoi e dalla nonna. Scese le

scale senza fare rumore, rammentando a se stesso ciò che si era ripromesso di fare, poi

respirò profondamente un paio di volte e si sforzò di sorridere. Come Luca aveva previsto, il

mostro era in braccio alla madre e stava avidamente succhiando il latte dal biberon.

Succhiava con una tale forza che rivoletti di latte gli uscivano dalla bocca serrata attorno al

cuccio, e quello spettacolo da solo bastò a fargli passare di colpo la fame. Tuttavia riuscì a

sopprimere la smorfia di disgusto che gli era salita spontanea alle labbra e a salutare la madre

e la nonna, che si mise subito a scaldargli il latte. Si sedette al tavolino, di fronte alla

mamma, e decise di esercitarsi a usare i brevissimi sguardi ripetuti che aveva deciso essere

il modo migliore per guardare il mostro senza spaventarsi troppo. Ne azzardò un paio e vide
che quello aveva finito di bere il latte, per fortuna, e lasciava che la madre gli pulisse la

bocca col bavaglino.

 È talmente vorace... - disse lei, sorridendo orgogliosa – Tu, invece – aggiunse, rivolta

a Luca – non avevi mai voglia di mangiare, e spesso ti addormentavi. Dovevo

toccarti il viso più volte, per svegliarti, altrimenti non avresti mangiato abbastanza.

L'immagine di se stesso abbandonato tra le braccia calde e protettive della madre, da lei

stessa evocata, rischiò di mandare a monte tutti gli sforzi di Luca di mantenere un

atteggiamento tranquillo e sorridente. Sentì una pietra piazzarglisi al centro dello stomaco,

come se fosse il suo cuore, così pesante da sprofondargli nelle viscere. La nonna arrivò

inconsapevolmente in suo soccorso, mettendogli davanti la tazza di latte e cacao. Lui ci si

nascose dietro, bevendo.

 Che farai di bello, oggi? - gli chiese la mamma.

 Non lo so. Più tardi andrò a trovare Alex.

 Ti sei fatto un nuovo amico, eh? È simpatico?

 Sì.

 Ieri, quando l'hai portato qui, aveva un'aria strana, come se fosse impaurito.

Luca rimase immobile, ma i suoi occhi saettarono verso il mostro. Ridacchiava, fissandolo.

 Probabilmente è solo un po' timido – disse la nonna.

 Io ho finito – disse Luca, balzando su dalla sedia.

Prima di uscire dalla porta finestra, si volse ancora verso il mostro. Non rideva più, ma lo

fissava con odio. Luca avrebbe saputo dire con certezza cosa voleva dire quello sguardo.

 Ti tengo d'occhio, non lo dimenticare.

In giardino incontrò suo padre, intento a ridipingere la porta del capanno degli attrezzi.

 Buongiorno, ragazzo! Dormito bene?

 Benissimo.
 Senti... io e la mamma andiamo in paese, tra poco, a incontrare alcuni amici. Ti va di

restare a casa a fare compagnia alla nonna o hai qualche altro impegno?

 Portate anche...?

Non riusciva a dire il nome del mostro, non ci era mai riuscito.

 Valerio? No, pensavamo di lasciarlo qui. Se resti potrai dare una mano alla nonna, se

vuoi.

Non era forse quello che voleva, far credere ai suoi che si stava affezionando al fratellino?

 Va bene, resto.

 Bene, grazie. Magari nel pomeriggio andiamo a farci una passeggiata al bosco, io e

te, che ne dici?

 Certo.

Anche solo qualche giorno prima, quella proposta da parte del padre gli avrebbe fatto fare i

salti di gioia. Quel giorno, invece, non gli provocò nemmeno una piccola emozione.

I suoi uscirono poco dopo, e Luca accettò di sorvegliare il piccolo che stava nel box

mentre la nonna stendeva i panni appena lavati. Il box era messo al centro del soggiorno,

dentro ci stavano pupazzetti di gomma, giochetti da addentare, formine da manipolare, ma il

mostro non giocava, non toccava niente: stava seduto con la schiena contro la rete e fissava

lui. Il taglio netto rosso al centro della faccia che gli altri consideravano una bocca era

serrato, gli occhi inespressivi, le mani abbandonate sulle cosce grasse.

Luca non sapeva che fare. Anche guardarlo a brevi sguardi ripetuti era difficile, così

si sedette sul pavimento, a distanza di sicurezza, e si mise a fissare il disegno del tappeto.

L'altro restava immobile, ma lui non aveva il coraggio di alzare gli occhi. Ad un certo punto,

però, sentì dentro qualcosa che assomigliava all'esasperazione, alla rabbia, alla furia. Gli

puntò addosso lo sguardo e disse:

 Ma tu come ci sei arrivato qui?


L'altro sembrò sorpreso da quella domanda, o almeno la sua faccia spaventosa, per un

attimo, si contrasse in un una smorfia strana che Luca interpretò come sorpresa.

 Vuoi sapere perchè sono venuto? - gli chiese, avvicinandosi alla rete e facendo così

indietreggiare lui, come una reazione spontanea.

 Sì.

 È stata colpa tua, non lo sai?

 Perchè? Mica ti ho chiamato io!

 Invece sì. Ti ricordi quando tua madre ti ha detto che presto avresti avuto un

fratellino o una sorellina?

 E allora? - rispose Luca, ricordandosi all'improvviso di quelle sue parole, sputate

fuori senza pensarci su nemmeno per un attimo.

 Tu le hai gridato che non volevi un fratello né una sorella, che non volevi nessuno,

che lo avresti odiato. Le hai detto anche che non le volevi più bene. Ti ricordi?

Luca rimase zitto, e riuscì a fissarlo senza distogliere lo sguardo, stavolta. Tanto non vedeva

il mostro davanti a sé, ma se stesso. Era vero, aveva detto quelle parole alla madre, ma l'altro

come faceva a saperlo?

 È come se mi avessi chiamato tu – disse ancora l'altro.

 Non è vero! Non è vero!

 Invece è vero. È stata tutta colpa tua.

 Voglio che te ne vai! Che torni da dove sei venuto!

 Non posso. Io continuo a stare qui proprio perchè tu mi odi. E ci resterò, e prima o

poi sarai tu a dovertene andare. Loro ti cacceranno.

Fu un attimo. Un secondo prima era seduto per terra, immobilizzato dall'orrore, e un secondo

dopo era mezzo infilato nel box, a stringere il collo del mostro, sentendo la pelle viscida di

quello che gli scivolava dalle mani... L'altro si mise a urlare e lui cadde all'indietro. La nonna
accorse.

 Ma che è successo, Luca? Perchè il piccolo piange?

Luca non rispondeva, lo sguardo perso nel vuoto. La nonna sollevò dal box il mostro che

ancora gridava, per consolarlo.

 Luca! Che hai fatto al braccio? - gli chiese la nonna, allarmata e pallida.

Lui si guardò il braccio destro: aveva dei graffi sulla pelle, e solo in quel momento sentì il

dolore. Glieli aveva fatti il mostro!

 Vado a prendere l'acqua ossigenata – disse la nonna, andando verso il bagno, sempre

col mostro in braccio – Dobbiamo disinfettarli.

Quando la nonna tornò, Luca era sparito.

 Non ci riesco, ha detto che è colpa mia, capito, perchè io lo odio e perchè ho detto a

mia madre che l'avrei odiato, ancora prima che nascesse! Non ce la faccio a far finta,

lo voglio uccidere, prima gli ho stretto le mani al collo, che schifo, non puoi capire...

lo potevo ammazzare, non lo voglio più vedere, basta!!

Alex lo guardava perplesso, senza nemmeno capire bene cosa l'altro stesse dicendo, tanto

parlava in fretta. Luca era andato a cercarlo a casa e lui l'aveva subito fatto entrare. Era

domenica, ma i suoi non c'erano comunque, così in casa erano soli e Luca poteva gridare

quanto voleva. E accidenti se gridava!

 Senti, fermati un attimo, non capisco che dici! Parla più piano, ricomincia da capo.

Che è successo?

Luca fece uno sforzo per calmarsi. Si sedette per terra, fece qualche respiro profondo e poi

cominciò a raccontare.

 … e allora sono scappato via, e non sapevo dove andare e ho pensato di venire qui.

 Hai fatto bene – rispose l'altro, che gli si era seduto accanto, mentre parlava.
 Mi ha pure graffiato... - disse Luca, facendogli vedere i segni sul braccio.

 Be', se hai cercato di strozzarlo... ma non avevi detto che non riuscivi nemmeno a

guardarlo?

 Sì, non so come ce l'ho fatta, a toccarlo... Però adesso so che lo posso fare. Lo posso

uccidere. Dobbiamo farlo presto. Tu mi aiuterai, vero?

 Certo, te l'ho detto... Ma adesso come facciamo a prenderlo? Dopo quello che hai

combinato non te lo lasceranno più nemmeno a casa. Figurati portarlo fuori!

 Lo so.

 Però...

 Cosa? Dimmelo!

 Potremmo portarlo via quando nessuno se ne accorge!

 Ma se ci sta sempre qualcuno con lui! Non lo lasciano un secondo!

 Be', i neonati stanno sempre a dormire, no? Dormirà pure lui, durante il giorno.

 E come ci arrivo alla stanza dove sta senza farmi vedere? E come lo porto giù, pure

se riesco a prenderlo? Guarda che mi ha fatto! E poi mia madre ha uno di quei cosi,

un walkie talkie, sentirebbe tutto...

 Quello basta che lo spegni. Dove sta la camera dei tuoi?

 Al piano di sopra, accanto alla mia – rispose Luca.

 Allora mi è venuta un'idea.

Luca rientrò per l'ora di pranzo e trovò i suoi già a tavola. Si sedette, scusandosi per il

ritardo, e vide il solito walkie talkie accanto alla madre. Il mostro doveva essere a letto.

Quello sì che sarebbe stato un momento ideale, ma come avrebbe giustificato la sua assenza?

Gli sembrò di avvertire un'atmosfera strana, a tavola, ma poi concluse che era soltanto una

sua impressione. La madre iniziò a parlare di un amico che avevano incontrato in paese lei e
il padre, e anche la nonna si inserì nella conversazione. Luca sperò che la nonna non avesse

fatto parola di quel che era successo al mattino, e vedendo che il pranzo procedeva senza

differenze rispetto al solito, se ne convinse. Del resto cosa aveva visto lei? Il mostro che

piangeva e lui sul pavimento, tutto lì. Ma c'erano anche i graffi... Sì, ma lui era scappato, lei

non aveva potuto guardarli bene, e ormai quasi non si vedevano più. No, si disse, stai calmo,

è tutto a posto. Poi gli venne in mente che il mostro potesse avere, sul collo, i segni del suo

tentativo di strangolarlo, e un brivido freddo gli attraversò la schiena. Ma se era così perchè i

suoi non lo avevano fermato, subito, per chiedergli spiegazioni? Perchè non lo avevano

ancora punito? Ma certo... non era nemmeno riuscito a stringere, la pelle schifosa gli

scivolava dalle mani, di sicuro non gli aveva lasciato nessun segno. Altra ragione valida per

seguire il consiglio di Alex, più tardi.

Nel primo pomeriggio i genitori di Luca si misero a riposare nella loro stanza,

insieme al mostro che dormiva nel suo lettino. Anche la nonna andò a fare un pisolino, e

Luca rimase da solo nel soggiorno, al piano terra, aspettando e ripassando il piano. Ormai

sapeva a memoria ogni parola che Alex gli aveva detto, e più il tempo passava più sentiva

dentro di sé agitarsi la paura. Ci sarebbe riuscito? E dopo, che sarebbe successo? E se il

mostro si fosse svegliato insieme ai suoi? Avrebbe dovuto rimandare al giorno dopo... Come

resistere un'altra notte? Intanto le lancette dell'orologio sulla parete si spostavano. Le tre si

stavano avvicinando.

La fortuna, se fortuna si poteva chiamare, lo aiutò: i suoi genitori si svegliarono alle

tre meno dieci e uscirono insieme dalla stanza, la mamma portandosi appresso il solito

walkie talkie. Lui chiese notizie del fratellino, chiamandolo per nome per la prima volta. Il

padre gli rispose che dormiva ancora, e speravano che dormisse almeno per un'altra ora.

 Secondo tua madre ha l'aria strana, come se non stesse bene. Se dorme è meglio.

Luca seguì il padre in cucina, e vide che la mamma stava preparando il caffè. Mancavano
cinque minuti alle tre. Disse ai suoi che pensava di uscire a fare un giro con Alex e che

andava di sopra a prepararsi. Loro annuirono e lui sparì. Fece di corsa le scale fino al piano

di sopra, controllò che sua nonna non fosse in vista, anche se la sua stanza era di sotto e non

gli sarebbe sfuggito se lei fosse salita, poi fece un respiro profondo e aprì la porta della

stanza dei suoi. Le tende erano tirate e l'ambiente era in penombra. Non si sentiva nessun

rumore. Si chiuse la porta alle spalle il più silenziosamente possibile, poi raggiunse il walkie

talkie sul comò e lo spense, pregando che sua madre non se ne accorgesse. Prima di

costringersi a guardare dentro al lettino, andò alla finestra e tirò le tende, poi aprì le due ante

e guardò giù. Alex era là.

 Ci sei? - gli chiese a voce bassa, inutilmente.

 Certo. Vai! - rispose l'altro, sempre sussurrando.

Luca si voltò verso il lettino. Mai un oggetto tanto innocuo gli era parso così minaccioso.

Avanzò, rendendosi conto che doveva sbrigarsi: in ogni momento avrebbero potuto entrare i

suoi o la nonna. Il mostro dormiva, gli occhi erano chiusi e il corpo si muoveva al ritmo del

respiro lento del sonno. Il battito del cuore di Luca accelerò, mentre gli si ghiacciavano le

mani e un brivido di paura lo attraversava. Cosa aveva detto Alex?

“Gli butti addosso una coperta e lo afferri da sotto, così gli blocchi le mani e la bocca e non

può graffiarti o morderti, e anche se grida non si sente”. Lui prese dal letto dei suoi un plaid

che stava sempre appoggiato lì e lo spiegò per bene, poi respirò forte ancora una volta, lo

posò addosso al mostro e prontamente ce lo avvolse dentro mentre quello, svegliato di

soprassalto, cominciava ad agitarsi. Luca lo sentì gridare, mentre con le mani cercava di

liberarsi della coperta, sentiva le unghie aguzze provare a strappare il tessuto, ma lui

stringeva forte e il mostro, dopotutto, era piccolo.

“Poi vai di corsa alla finestra e lo butti giù, tanto ci sto io che lo prendo”.

Tenendo discosto dal suo corpo l'involto che si agitava forsennatamente, Luca raggiunse la

finestra: di sotto Alex era con le braccia tese davanti a sé, pronto ad afferrarlo. Non c'era
tempo di star lì a pensare, così si sporse dal davanzale e lasciò cadere di sotto il suo fardello

che non smetteva di dibattersi. Alex lo prese al volo e gli avvoltolò di nuovo la coperta

intorno, stretta, poi imboccò il sentiero che portava al cancello posteriore del giardino e

sparì. Luca, respirando forte e sentendosi quasi svenire, chiuse la finestra, riaccese il walkie

talkie e aprì la porta di uno spiraglio, per controllare che la via fosse libera. Rivoletti di

sudore gli solcavano il viso, ma lui non se ne curò: imboccò le scale e scese, gridando verso

la cucina che stava uscendo. Sentì la voce del padre:

 Va bene, ho capito, ma non gridare...

“Non ti preoccupare, papà – pensò – tanto è già sveglio. Ancora per poco”.

Secondo i loro accordi, Alex sarebbe corso col mostro in braccio fino al pontile

nascosto del lago, e anche Luca mi mise a correre per arrivarci, col cuore che gli batteva

fortissimo, e non solo per lo sforzo. I suoi si erano già accorti che era sparito? Che sarebbe

successo, dopo? Lui avrebbe detto che non sapeva niente, che qualcuno doveva essere

entrato senza che loro lo vedessero e doveva aver rapito il suo fratellino. Del resto anche se

qualcuno avesse visto Alex col mostro in braccio, nessuno avrebbe mai potuto accusare lui di

niente, e poi il suo amico conosceva quel paese come le sue tasche, aveva detto che avrebbe

percorso le vie più periferiche, che nessuno lo avrebbe visto. Così Luca continuò a correre,

anche se ad un certo punto vide delle persone in giro e rallentò, perchè quelle in seguito non

si ricordassero di lui. Camminò svelto per le strade del paese e quando raggiunse il

lungolago si infilò nella boscaglia e ricominciò a correre.

Furono le grida a guidarlo, strane grida: quelle solite del mostro, stridenti come unghie sulla

lavagna, roche, da far venire i brividi. E, mischiate a queste, una specie di pianto. Luca

arrivò in vista del pontile, e alla fine di questo c'era Alex, che teneva il mostro tra le mani,

sospeso sull'acqua. Quello, senza più addosso la coperta, si agitava, si dibatteva e gridava
mentre il ragazzino lo guardava con una smorfia di disgusto. Luca si avvicinò, rallentando, e

più si avvicinava più le fattezze orribili del mostro si facevano nitide, i suoi occhi rossi che

quasi mandavano fiamme, la bocca spalancata sui denti aguzzi, le mani ad artiglio che

cercavano di afferrare il viso di quello che lo teneva. Luca si fermò del tutto, incapace di

stargli troppo vicino. Alex si accorse che era arrivato e si voltò verso di lui:

 Era ora che arrivassi! È forte, questo mostro! Non riesco quasi più a tenerlo!

Luca taceva, immobilizzato dall'orrore. Non aveva altra scelta, ma quell'unica scelta gli

sembrava terribile.

 Allora, che devo fare? Lo butto? - gli gridò l'altro.

Il mostro, rabbioso, urlava sempre più forte, e ad un certo punto i suoi occhi rossi videro lui.

 Che stai facendo? - disse a Luca – Vuoi uccidermi? Non puoi! I tuoi genitori ti

odieranno!

Quella voce stridula gli ferì le orecchie, mentre finalmente trovò il coraggio di avvicinarsi un

po' ad Alex, che ancora gli chiedeva se doveva decidersi a buttarlo.

 Se mi uccidi non sarai mai più felice, lo sai? - gridò il mostro, smettendo di

dibattersi.

 Stai zitto!! - rispose Luca – Smettila! Non voglio sentirti!

 Non ne hai il coraggio, eh? Sei un ragazzino pauroso, solo un ragazzino fifone!

Lo strazio che gli infuriava dentro fece scoppiare Luca in singhiozzi. Poteva liberarsi di quel

mostro orribile che aveva distrutto la sua vita, ma non riusciva a dire la parola che Alex stava

aspettando, perchè? Nessuno avrebbe mai sospettato di lui, perchè esitava? Il mostro ora lo

fissava e rideva, quella sua risata orribile, che lo scherniva, si prendeva gioco della sua

paura, dei suoi ripensamenti.

 Io non riesco più a tenerlo! - gli gridò Alex – Lo butto giù!

Luca cercò di farsi uscire la voce per chiedergli di aspettare, di dargli ancora un minuto,
quando l'altro aprì le mani. Fu come se Luca vedesse la scena al rallentatore: il mostro che

spalancava le braccia urlando, agitandosi nel vuoto, e poi scivolava nell'acqua, con un

piccolo tonfo. Prima che scomparisse del tutto, però, Luca rivide per un attimo il viso del

bambino, quel bambino che, anche allora solo per un attimo, aveva visto seduto sul

seggiolone, mentre si rialzava in cucina dopo aver raccolto il cucchiaio. Il viso di un

bambino dalla pelle rosa, paffuto e bellissimo.

Non si permise di pensare: si lanciò di scatto verso il pontile, dando una spinta ad

Alex, e si gettò in acqua. Era fredda e melmosa, e i suoi occhi spalancati, per un secondo,

non videro altro che ombre scure. Poi colse un movimento appena sotto di sé e stese la

braccia, raggiungendo il mostro. Mentre i polmoni gli scoppiavano per la mancanza d'aria,

Luca riemerse dall'acqua del lago, spuntando e tossendo, con in braccio un bambino fradicio

ed esanime.

Raggiunse la riva e uscì dall'acqua, lasciandosi cadere a terra, continuando a stringere in

braccio il bambino, poi lo voltò a faccia in giù, battendogli sulla schiena.

 Dai, forza, svegliati, svegliati!

Il bambino sembrava una bambola di pezza, le braccia e le gambette che penzolavano e si

muovevano ad ogni colpo dell'altro. Luca piangeva, piangeva e gridava al bambino di

svegliarsi, mentre sia la forza dei colpi che quella della sua voce diminuiva sempre di più.

Smise di battere sulla schiena del bambino, stringendoselo addosso. Chiuse gli occhi,

disperato. In quel momento sentì il bambino muoversi tra le sue braccia e riaprì di scatto gli

occhi, mentre l'altro cominciava a tossire. Un rivoletto d'acqua uscì dalle labbra del piccolo,

che subito dopo scoppiò a piangere. Luca lo guardava, incredulo, ridendo e piangendo

insieme, stringendoselo addosso per scaldarlo, anche se era fradicio pure lui. Il pianto acuto

del piccolo gli sembrò il canto di un angelo, mentre si voltava verso Alex:

 Dammi la tua maglietta, sbrigati!

L'altro rimase dov'era, immobile.


 Forza! Dammi la tua maglietta! - gli gridò ancora, spogliando il bambino del

pagliaccetto bagnato che aveva addosso.

Alex finalmente si mosse, togliendosi la maglia e lanciandola a Luca, che la prese al volo e

ci avvolse dentro il bambino.

 Ecco, adesso ti asciugo, coraggio, respira... fa che stia bene, fa che stia bene... -

pregava, stringendo e cullando il piccolo che ancora piangeva. Alex, intanto, gli si

avvicinò.

 L'hai capito, eh? Che non era un mostro...

 Solo quando l'hai lasciato cadere – rispose Luca, senza guardarlo – Ma tu, allora...

Si voltò verso l'amico, sconvolto.

 Tu lo sapevi che non era un mostro! - gli gridò - E volevi che morisse! L'hai gettato

nell'acqua! Perchè?!

 Non lo so – rispose l'altro, con la voce che cominciava ad incrinarsi in un accenno di

pianto – Volevo vedere come moriva, come con la lucertola...

 Volevi veder morire mio fratello?! - gli chiese Luca, sentendo per la prima volta il

suono dolce di quella parola pronunciato dalle proprie labbra.

 Va bene, non dovevo, ma sei stato tu a chiedermelo! - si difese Alex.

Luca lo fissava, incredulo, attonito. Ancora cullando il bambino tra le braccia, cominciò a

camminare lentamente all'indietro, allontanandosi dall'altro.

 Mi dispiace, scusa! - gridò Alex, restando fermo.

Luca scuoteva la testa, continuando ad allontanarsi. Che diritto aveva di prendersela con

Alex, in fondo? Aveva ragione, aveva fatto solo quello che lui gli aveva chiesto. Ma come

aveva potuto chiedergli una cosa del genere? E dove era finito il mostro? Abbassò la testa a

guardare il bambino, che non piangeva più e si era addormentato. Era così bello... Forse, un

attimo prima di affogare, il mostro aveva abbandonato il corpo di suo fratello, e magari ora
stava vagando per l'aria come uno spirito cattivo, in attesa di trovare un altro neonato di cui

prendere il posto. Non gli importava, non più.

Mentre il caldo vento estivo soffiava sui suoi vestiti, asciugandoli, Luca si incamminò verso

casa, col bambino addormentato tra le braccia, resistendo al desiderio di stringerlo più forte

per paura di fargli male. Aveva rischiato di ucciderlo, perchè anche se era stato Alex a

lasciarlo cadere, in realtà era come se fosse stato lui a farlo. Be', promise a se stesso, non

solo non gli avrebbe mai più fatto del male, ma lo avrebbe protetto da chiunque volesse

fargliene, da quel momento.

- Valerio – disse, sussurrando all'orecchio del piccolo – Sta tranquillo, adesso torniamo a

casa. Sei al sicuro, ora. Sei con me, tuo fratello.

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