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Gli
eventi
iniziali
dell'aterogenesi
vanno
identificati
nel
danno
dell'endotelio
(danno
funzionale
o
disfunzione
endoteliale)
e
nell'accumulo
e
successiva
modificazione
(aggregazione,
ossidazione
e/o
glicosilazione)
delle
lipoproteine
a
bassa
densità
(LDL)
nell'intima
delle
arterie,
due
eventi
che
si
influenzano
a
vicenda.
L'accumulo
delle
LDL
è
dovuto
non
solo
all'aumento
della
permeabilità
dell'endotelio
funzionalmente
o
anatomicamente
danneggiato,
ma
anche
al
loro
legarsi
ai
costituenti
della
matrice
extracellulare
dell'intima;
questo
legame
aumenta
il
tempo
di
residenza
in
loco
delle
lipoproteine.
Un
fattore
importante
che
causa
un
aumento
della
matrice
connettivale
intimale
(ispessimento
dell'intima)
è
rappresentato
dall'attrito
della
corrente
sanguigna
sulla
superficie
vasale
(stress
emodinamico),
che
è
particolarmente
accentuato
in
corrispondenza
delle
ramificazioni
e
delle
curvature
dei
vasi,
sedi
che
risultano
particolarmente
predisposte
alla
sviluppo
delle
lesioni
aterosclerotiche.
La
disfunzione/attivazione
endoteliale,
ad
opera
dei
fattori
di
rischio
cardiovascolare,
è
seguita
dall'adesione
e
migrazione
di
monociti
e
linfociti
T
nell'intima
in
risposta
all'espressione
sulla
superficie
endoteliale
di
molecole
adesive
e
ai
segnali
chemiotattici
emessi
dall'endotelio
danneggiato.
I
macrofagi
fagocitano
le
lipoproteine
infiltrate
ed
ossidate
nell'intima
e
a
causa
dell'impossibilità
di
metabolizzare
il
colesterolo
contenuto
nelle
LDL
si
trasformano
nelle
cosiddette
cellule
schiumose
(o
spumose),
che
caratterizzano
le
strie
lipidiche
(fatty
streaks).
La
secrezione
di
citochine
e
di
fattori
di
crescita,
principalmente
di
derivazione
macrofagica,
induce
la
migrazione
delle
cellule
muscolari
lisce
dalla
media
nell'intima,
dove
proliferano,
si
differenziano
nel
fenotipo
“sintetico”
e
sintetizzano
matrice
extracellulare,
determinando
la
trasformazione
delle
fatty
streak
nelle
lesioni
avanzate.
Alla
crescita
delle
lesioni
può
contribuire
l'adesione
di
piastrine
all'intima
denudata
e
il
formarsi
di
trombi
intramurali,
conseguenti
alla
erosione/ulcerazione
delle
placche
aterosclerotiche.
Quindi,
nella
patogenesi
dell'aterosclerosi
intervengono
l'endotelio,
i
leucociti,
le
cellule
muscolari
lisce
e
le
piastrine
e
rivestono
un
ruolo
fondamentale
l'infiltrazione
lipidica
della
parete
arteriosa
e
l'azione
meccanica
del
flusso
sanguigno
sulle
pareti
dell'arteria.
Le
modalità
con
le
quali
compare
questa
occlusione,
e
le
sue
conseguenze,
dipendono
dalla
tipologia
della
placca
arteriosclerotica:
esistono
infatti
2
tipi
di
placca,
la
placca
"stabile"
e
la
placca
"instabile",
entrambe
formate
da
lipidi,
cellule
del
sangue
e
da
uno
strato
di
tessuto
fibroso
(il
"cappuccio
fibroso").
Nella
placca
"stabile",
il
cappuccio
fibroso
è
spesso
e
solido,
cosicché
la
placca
continua
a
crescere
fino
a
diventare
occlusiva
per
sé
o
perché
il
rallentamento
del
flusso
è
tale
che
ad
un
certo
punto
si
forma
un
piccolo
trombo
che
completa
l'occlusione
dell'arteria.
Questo
tipo
di
placca,
comunque,
proprio
perché
la
sua
crescita
è
molto
lenta,
da'
il
tempo
alla
circolazione
di
quella
zona
di
"riorganizzarsi",
con
potenziamento
di
una
circolazione
parallela,
cosiddetta
"collaterale".
Se
questa
circolazione
è
efficace,
allora
l'occlusione
del
vaso
colpito
dalla
placca
può
addirittura
passare
asintomatica,
perché
il
flusso
sanguigno
è
comunque
garantito
alla
zona
dalla
circolazione
collaterale.
L'esercizio
fisico
favorisce
lo
sviluppo
della
circolazione
collaterale,
e
questo
è
un
fatto
importante
soprattutto
per
il
cuore
e
gli
AAII.
Le
placche
cosiddette
"instabili",
invece,
sono
delle
placche
relativamente
di
piccole
dimensioni,
anch'esse
formate
da
un
"core"
lipidico,
ma
hanno
un
sottile
cappuccio
fibroso.
Queste
placche,
pur
non
compromettendo
grazie
alle
loro
dimensioni
la
circolazione
in
modo
importante,
sono
le
più
pericolose,
perché
facili
alla
rottura
del
cappuccio
fibroso.
Quando
il
materiale
contenuto
all'interno
della
placca
(il
"core"
lipidico)
entra
in
comunicazione
con
il
sangue,
si
innesca
rapidamente
un
processo
che
porta
alla
formazione
di
un
trombo.
Se
il
vaso
è
molto
piccolo
(come
nei
vasi
del
cuore)
o
il
trombo
è
grosso,
il
vaso
si
occlude
rapidamente.
Poiché
queste
placche
sono
solitamente
di
piccole
dimensioni,
non
provocano
lo
sviluppo
della
circolazione
collaterale,
e
l'ostruzione
del
vaso
non
viene
compensata
dagli
altri
vasi
collaterali:
così
il
flusso
di
sangue
arterioso
in
quella
zona
si
arresta
improvvisamente,
con
conseguente
infarto
della
zona
colpita,
cioè
la
morte
dei
tessuti
che
non
ricevono
più
ossigeno.
Le
manifestazioni
cliniche
dell'aterosclerosi
compaiono
in
genere
dopo
i
quaranta-‐cinquanta
anni
di
età
e
sono
dovute
alla
ischemia
(riduzione
del
flusso
ematico)
nel
letto
vasale
dipendente
dall'arteria
lesa.
La
riduzione
del
flusso
dipende
sia
dal
restringimento
del
lume
arterioso
in
corrispondenza
delle
lesioni
aterosclerotiche
sia
dalla
presenza
di
meccanismi
di
compenso
insufficienti.
Il
principale
meccanismo
di
compenso
è
rappresentato
dall'instaurarsi
di
circoli
collaterali,
che
consentono
al
sangue
di
raggiungere
i
territori
ipoirrorati
attraverso
i
vasi
adiacenti.
Le
manifestazioni
croniche
sono
conseguenti
ad
un
restringimento
stabile
dell'arteria
colpita,
che
rende
il
flusso
ematico
fisso,
cioè
incapace
di
aumentare
quando
le
condizioni
funzionali
lo
richiedono,
come
ad
esempio
durante
gli
sforzi
fisici.
Di
conseguenza
la
sintomatologia,
in
particolare
il
dolore,
tende
ad
essere
assente
a
riposo
e
a
presentarsi
in
occasione
di
esercizio
fisico
più
o
meno
intenso,
a
seconda
della
gravità
dell'ostruzione
arteriosa
e
dell'efficienza
dei
circoli
collaterali.
Tipiche
sindromi
croniche
sono:
angina
pectoris
stabile,
angina
abdominis,
claudicatio
intermittens,
nella
quale
il
dolore
insorge
durante
la
deambulazione
e
scompare
tipicamente
dopo
pochi
minuti
di
riposo.
Le
manifestazioni
acute
sono
invece
il
risultato
di
una
improvvisa
riduzione
del
lume
arterioso,
che
provoca
una
brusca
riduzione
del
flusso
ematico
nel
territorio
dipendente.
In
genere
l'occlusione
arteriosa
è
causata
dalla
rottura
(fissurazione)
di
una
placca
aterosclerotica,
con
conseguente
trombosi
in
corrispondenza
della
ulcerazione.
Sono
sindromi
ischemiche
acute:
angina
pectoris
instabile,
infarto
miocardico,
infarto
intestinale,
ictus
ischemico.
I
fattori
responsabili
della
fissurazione
della
placca
ateromatosa
sono
molteplici
e
complessi,
ma
due
fenomeni
sembrano
di
particolare
importanza:
l'infiammazione
della
placca
e
la
presenza
di
un'abbondante
componente
lipidica,
che
renderebbero
la
placca
meno
resistente
all'urto
della
corrente
ematica.
Le
cellule
infiammatorie
e
soprattutto
i
macrofagi
producono
enzimi
idrolitici
(metalloproteasi),
capaci
di
lisare
il
collagene
della
cappa
fibrosa,
che
diviene
così
meno
resistente
agli
stress
emodinamici.
La
sindrome
coronarica
acuta
(infarto
miocardico
e
angina
pectoris
instabile),
e’
potenzialmente
letale
e
imprevedibile
al
100%.
E’
possibile
pero’
calcolare
la
probabilita’
che
si
sviluppi
mediante
analisi
anatomiche
o
su
campione
di
sangue.
La
radiografia
e
l’ecografia
non
mi
dicono
niente
sullo
stato
delle
coronarie.
Nel
’58
e’
stata
inventata
la
coronarografia
(angiografia):
consiste
nell’inserire
un
catetere
dalla
femorale
fino
al
bulbo
aortico
dove
si
inietta
materiale
di
contrasto;
il
bianco
identifica
il
lume
coronarico
e
e’
possibile
identificare
delle
significative
stenosi,
ossia
“strozzature”
dell’arteria.
Si
parla
di
stenosi
significativa
se
piu’
70%
del
lume
e’
occluso,
altrimenti
si
parla
di
stenosi
non
significativa.
Questo
esame
tuttavia
non
mi
mostra
la
natura
della
placca,
ossia
se
essa
e’
stabile
(la
quale
non
conduce
a
sindrome
coronarica
acuta)
o
instabile.
E’
possibile
monitorare
l’aterosclerosi
anche
mediante
l’utilizzo
di
ultrasuoni:
non
e’
possibile
condurre
la
misurazione
a
livello
delle
coronarie
dato
che
il
cuore
e’
racchiuso
dalle
ossa,
tuttavia
e’
possibile
fare
l’ultrasonografia
della
carotide,
in
quanto
vi
e’
una
correlazione
tra
lo
stato
della
carotide
e
quello
delle
coronarie
(cioe’
se
e’
presente
un
ateroma
a
livello
della
carotide
e’
molto
probabile
che
vi
sia
anche
a
livello
coronarico).
Dal
colore
dell’ateroma
e’
anche
possibile
distinguere
tra
placca
stabile
e
placca
instabile.
Questo
tipo
di
diagnosi
e’
utilizzato
non
solo
in
diagnostica,
ma
anche
nei
trial
per
verificare
l’efficacia
di
un
farmaco.
E’
disponibile
anche
l’ultrasonografia
intravascolare
(IVUS).
Tramite
programmi
computerizzati
e’
possibile
rappresentare
in
3D
quella
che
e’
la
struttura
tridimensionale
della
coronaria.
Uno
dei
fattori
che
ha
permesso
il
declino
delle
malattie
CV
e’
stata
la
definizione
dei
fattori
di
rischio
che
predispongono
allo
sviluppo
di
un
evento
CV
su
base
ischemica.
Un
fattore
di
rischio
è
una
specifica
condizione
che
risulta
statisticamente
associata
ad
una
malattia
e
che
pertanto
si
ritiene
possa
concorrere
alla
sua
patogenesi,
favorirne
lo
sviluppo
o
accelerarne
il
decorso.
Un
fattore
di
rischio
non
è
pertanto
un
agente
causale,
ma
un
indicatore
di
probabilità
che
lo
stesso
possa
associarsi
ad
una
determinata
condizione
clinica;
la
sua
assenza
non
esclude
la
comparsa
della
malattia,
ma
la
sua
presenza,
o
la
compresenza
di
più
fattori
di
rischio,
aumenta
notevolmente
il
rischio
di
malattia.
I
criteri
che
permettono
di
definire
un
fattore
di
rischio
sono:
forza
dell’associazione,
effetto
dose-‐risposta,
temporalita’
(ossia
presenza
del
fattore
di
rischio
prima
della
malattia),
consistenza
dell’evidenza
(tanto
maggiore
e’
il
numero
di
pazienti
che
mostrano
l’associazione
fattore
di
rischio-‐malattia
e
tanto
piu’
la
popolazione
e’
eterogenea,
tanto
maggiore
sara’
l’evidenza),
spiegazione
biologica,
sperimentazione.
Il
punto
di
partenza
per
definire
un
fattore
di
rischio
e’
solitamente
su
base
epidemiologica,
mentre
la
spiegazione
biologica
avviene
successivamente.
Trattamento
basato
sulle
concentrazioni
di
LDL-‐C
(linee
guida
basate
sulla
percentuale
di
rischio
di
sviluppare
una
malattia
CV
in
10
anni):
-‐rischio
alto
(>20%)
per
pazienti
che
hanno
gia’
avuto
un
evento
o
hanno
il
diabete:
la
terapia
inizia
quando
la
concentrazione
di
LDL-‐C
e’
>100
mg/dL
e
l’obiettivo
della
terapia
e’
una
concentrazione
<100
mg/dL;
-‐rischio
moderatamente
alto
(10-‐20%)
per
pazienti
che
presentano
due
o
piu
fattori
di
rischio:
la
terapia
inizia
quando
la
concentrazione
di
LDL-‐C
e’
>130
mg/dL
e
l’obiettivo
della
terapia
e’
una
concentrazione
<130
mg/dL;
-‐rischio
moderato
(<10%)
per
pazienti
che
presentano
zero
o
un
fattore
di
rischio:
la
terapia
inizia
quando
la
concentrazione
di
LDL-‐C
e’
>160
mg/dL
e
l’obiettivo
della
terapia
e’
una
concentrazione
<130
mg/dL.
Terapia
farmacologica
delle
dislipidemie
1)
Statine
a)
Intro
Sono
farmaci
inibitori
del
HMG-‐CoA
riduttasi
che
catalizza
una
tappa
precoce
e
limitante
nella
sintesi
del
colesterolo.
La
prima
statina
fu
la
compactina
(nota
come
mevastatina)
che
non
entro’
pero’
in
commercio;
le
sette
statine
oggi
in
commercio
sono
lovastatina,
simvastatina,
pravastatina,
fluvastatina,
atorvastatina,
rosuvastatina.
Le
statine
possiedono
una
catena
laterale
che
e’
strutturalmente
simile
all’HMG-‐CoA:
sono
inibitori
reversibili
competitivi
del
substrato
naturale
dell’enzima.
Lovastatina
e
simvastatina
sono
profarmaci
nella
forma
lattonica
che
viene
trasformata
dal
fegato
nell’idrossiacido
attivo.
La
pravastatina,
fluvastatina,
atorvastatina
e
rosuvastatina
sono
invece
somministrate
nella
forma
attiva
con
l’anello
aperto.
Per
quanto
riguarda
la
polarita’
la
pravastatina
e’
idrofila,
la
rosuvastatina
e’
una
via
di
mezzo
tra
l’essere
idrofila
e
lipofila,
mentre
tutte
le
altre
sono
lipofile.
b)
Farmacodinamica
Le
statine
esercitano
il
loro
effetto
principale,
la
riduzione
dei
livelli
di
LDL,
attraverso
la
porzione
della
molecola
strutturalmente
simile
all’acido
mevalonico
che
inibisce
competitivamente
l’HMG-‐CoA
riduttasi:
riducendo
la
conversione
di
HMG-‐CoA
a
mevalonato,
le
statine
inibiscono
un
passaggio
precoce
e
limitante
della
sintesi
del
colesterolo.
La
costante
di
affinita’
dell’HMG-‐CoA
per
l’enzima
e’
4μM,
mentre
la
IC50
(concentrazione
che
inibisce
il
50%
dell’enzima)
delle
statine
e’
nell’ordine
dei
nM
dunque
le
statine
sono
inibitori
molto
potenti
(quelle
con
IC50
piu’
bassa
sono
le
piu’
potenti,
rosuvastatina
su
tutte).
Le
statine
regolano
i
livelli
plasmatici
di
colesterolo
inibendo
la
sintesi
di
colesterolo
nel
fegato,
cio’
determina
un
aumento
dell’espressione
del
gene
del
recettore
per
le
LDL.
L’aumentato
numero
di
recettori
LDL
sulla
superficie
degli
epatociti
determina
una
maggior
rimozione
di
LDL
dal
sangue,
abbassando
cosi
i
livelli
di
LDL-‐C.
-‐Effetto
delle
statine
sui
livelli
di
LDL-‐C:
le
statine
sono
in
grado
di
abbassare
i
livelli
di
LDL-‐C
dal
20%
al
55%
a
seconda
del
dosaggio
e
della
statina
utilizzata;
le
diverse
statine
sono
infatti
differenti
in
termini
di
potenza,
ossia
di
riduzione
percentuale
di
LDL
plasmatiche,
in
funzione
della
dose
giornaliera
che
varia
tra
i
5-‐80
mg
al
giorno.
In
vivo
si
parla
di
efficacia
e
non
di
potenza.
L’analisi
delle
relazioni
dose-‐risposta
per
tutte
le
statine
mostra
che
l’efficacia
nel
ridurre
il
LDL-‐C
e’
lineare
e
logaritmica
e
l’effetto
massimo
sui
livelli
di
colesterolo
e’
raggiunto
in
7-‐10
giorni.
Le
statine
sono
efficaci
in
quasi
tutti
i
pazienti
con
elevati
livelli
di
LDL-‐C;
fanno
eccezione
i
pazienti
affetti
da
ipercolesterolemia
familiare
omozigote
poiche’
entrambi
gli
alleli
del
gene
del
recettore
per
le
LDL
codificano
per
LDL-‐R
inattivi,
pertanto
la
risposta
parziale
che
si
osserva
e’
dovuta
ad
una
riduzione
della
sintesi
epatica
di
VLDL
associata
all’inibizione
della
sintesi
di
colesterolo
mediata
dall’HMG-‐CoA
riduttasi.
-‐Effetto
delle
statine
sui
livelli
di
trigliceridi:
la
ridotta
produzione
di
colesterolo
riduce
anche
la
sintesi
di
VLDL
(il
colesterolo
e’
una
componente
fondamentale
delle
VLDL)
da
parte
del
fegato
e
questo
meccanismo
rende
conto
probabilmente
dell’effetto
ipotrigliceridemizzante
delle
statine
(riduzione
consistente
e
in
percentuale
simile
a
quella
di
LDL-‐C
per
livelli
di
trigliceridi
superiori
a
250
mg/dL).
-‐Effetto
delle
statine
sui
livelli
di
HDL-‐C:
in
studi
condotti
su
pazienti
con
livelli
normali
di
HDL-‐C
e’
stato
osservato
un
aumento
del
5-‐10%
indipendentemente
dal
dosaggio
o
dalla
statina
somministrata;
tuttavia
in
pazienti
con
livelli
bassi
di
HDL-‐C
(<35
mg/dL)
le
statine
possono
differire
nel
loro
effetto
sui
livelli
di
HDL-‐C
e
sono
pertanto
necessari
altri
studi
per
verificare
la
significativita’
di
tali
cambiamenti.
Potenziali
effetti
cardioprotettivi
delle
statine:
-‐Miglioramento
della
funzione
endoteliale:
viene
aumentata
la
produzione
di
NO,
vasodilatatore,
da
parte
dell’endotelio
e
cio’
ne
migliora
la
funzionalita’.
-‐Aumento
della
stabilita’
della
placca:
le
statine
sono
in
grado
di
inibire
l’infiltrazione
di
monociti
nella
parete
arteriosa
e
la
secrezione
di
metalloproteasi
da
parte
dei
macrofagi
(le
metalloproteasi
degradano
tutti
i
componenti
della
matrice
extracellulare
e
di
conseguenza
indeboliscono
il
cappuccio
fibroso
delle
placche
aterosclerotiche).
Inoltre
sembra
che
le
statine
possano
modulare
la
cellularita’
della
parete
arteriosa
inibendo
la
proliferazione
delle
cellule
muscolari
lisce
e
stimolando
la
morte
cellulare
per
apoptosi.
-‐Effetto
antiinfiammatorio:
riduzione
del
livello
di
proteina
C-‐reattiva
(resta
da
determinare
se
la
proteina
C-‐reattiva
sia
solo
un
marker
dell’infiammazione
o
contribuisca
alla
patogenesi
dell’aterosclerosi).
-‐Riduzione
dell’ossidazione
delle
LDL:
la
modificazione
ossidativa
delle
LDL
sembra
svolgere
un
ruolo
chiave
nella
mediazione
della
captazione
del
colesterolo
delle
lipoproteine
da
parte
dei
macrofagi
e
in
altri
processi,
compresa
la
citotossicita’
all’interno
della
lesione.
-‐Riduzione
dei
processi
di
trombosi:
le
statine
riducono
l’aggregazione
piastrinica
e
la
deposizione
di
trombi
piastrinici;
inoltre
hanno
effetti
variabili
sui
livelli
di
fibrinogeno
(alti
livelli
di
fibrinogeno
sono
associati
a
un
aumento
dell’incidenza
di
CHD).
Blocco
della
produzione
di
geranil-‐geraniolo-‐PP
sempre
attraverso
il
blocco
dell’HMG-‐CoA
riduttasi
(GG-‐PP):
il
GG-‐PP
deriva
dalla
condensazione
del
farnesil-‐PP
con
l’isopentenil-‐PP
ed
e’
importante
per
la
prenilazione
delle
proteine;
la
prenilazione
fa
si
che
la
proteina
abbia
un’ancora
lipidica
che
la
renda
in
grado
di
ancorarsi
alla
membrana
plasmatica.
Un
esempio
di
proteina
che
deve
essere
prenilata
e’
la
proteina
Rho,
una
proteina
G:
la
mancata
prenilazione
ne
previene
l’ancoraggio
sulla
membrana
e
percio’
vi
e’
un
aumento
o
diminuizione
dei
processi
mediati
da
Rho
(diminuzione
dell’espressione
di
NOS,
aumento
dell’espressione
di
molecole
di
adesione,
aumento
dell’espressione
dei
recettori
per
l’angiotensina,
diminuzione
dell’espressione
del
tPA
(attivatore
tissutale
del
plasminogeno),
aumento
dell’espressione
del
PAI
(inibitore
dell’attivazione
del
plasminogeno).
c)
Farmacocinetica
Le
statine
sono
somministrate
per
OS
con
una
dose
che
varia
tra
i
5-‐80
mg:
l’assorbimento
intestinale
varia
tra
il
30-‐85%
e,
ad
eccezione
di
lovastatina
e
simvastatina
che
sono
somministrate
come
profarmaci
ed
attivati
nel
fegato,
sono
tutte
somministrate
nella
forma
di
beta-‐idrossiacido
attivo.
Sono
assorbite
a
livello
intestinale
o
per
diffusione
passiva
o
tramite
trasportatori
(OATP1);
vi
sono
inoltre,
sempre
a
livello
intestinale,
anche
pompe
di
efflusso
(MDR1)
e
citocromi
P450
in
grado
di
“buttar”
fuori
o
metabolizzare
il
farmaco
(ad
eccezione
di
fluvastatina
e
rosuvastatina
che
non
sono
substrato
di
questi
trasportatori).
Attraverso
la
vena
porta
le
statine
giungono
al
fegato
e
dunque
agli
epatociti:
tutte
le
statine
presentano
un
importante
effetto
epatico
di
primo
passaggio
mediato
principalmente
dal
trasportatore
1
degli
anioni
organici
B1
(organic
anionic
transporter
1,
OATP1B1).
A
causa
dell’esteso
effetto
di
primo
passaggio
epatico
la
biodisponibilita’
sistemica
di
tutte
le
statine
e
dei
loro
metaboliti
epatici
varia
tra
il
5
e
il
30%
delle
dosi
somministrate.
Il
fegato
metabolizza
tutte
le
statine
e
piu’
del
70%
dei
metaboliti
delle
statine
sono
escreti
dal
fegato
tramite
la
bile
con
conseguente
eliminazione
fecale;
ad
eccezione
della
pravastatina,
tutte
le
statine
sono
metabolizzate
dai
citocromi,
in
particolare
CYP3A4
e
CYP2C9.
Dopo
una
dose
per
via
orale,
le
concentrazioni
plasmatiche
di
statine
presentano
un
picco
tra
1
e
4
ore;
le
emivite
delle
forme
originarie
sono
di
circa
1-‐4
ore,
ad
eccezione
di
atorvastatina
e
rosuvastatina
che
presentano
emivite
di
circa
20
ore
e
della
simvastatina
con
emivita
di
circa
12
ore.
E’
da
tenere
in
considerazione
il
fatto
che
la
biosintesi
epatica
di
colesterolo
e’
massima
tra
le
24
e
le
2
del
mattino
pertanto
tutte
le
statine
con
emivita
inferiore
a
4
ore
dovrebbero
esser
assunte
la
sera
durante
il
pasto
serale
o
prima
di
coricarsi,
mentre
quelle
con
emivita
maggiore
possono
esser
assunte
in
qualsiasi
momento
della
giornata.
Inoltre,
essendo
la
terapia
con
statine
una
terapia
cronica,
l’inibizione
dell’enzima
induce
una
risposta
compensatoria
da
parte
dell’organismo
che
produrra’
ancor
piu’
enzima
pertanto
e’
fondamentale
non
scordarsi
di
assumere
il
farmaco
altrimenti
la
produzione
di
colesterolo
sara’
ancor
piu’
elevata.
d)
Effetti
collaterali
e
interazione
tra
farmaci
Le
statine
non
presentano
una
vera
e
propria
tossicita’,
ma
vi
sono
dei
limiti:
1)
fino
al
10%
dei
pazienti
non
rispondono
in
maniera
ottimale
al
trattamento:
o
non
rispondono
gia’
dall’inizio
della
terapia
oppure
rispondono
solo
inizialmente.
I
motivi
sono
da
ricercare
nella
presenza
di
polimorfismi
sia
a
livello
dei
trasportatori
di
membrana
OATP1
(pertanto
la
presenza
di
forme
meno
funzionali
implicano
una
minor
attivita’
della
statina
che
raggiunge
in
minor
quantita’
l’epatocita)
sia
a
livello
dell’enzima
HMG-‐CoA
riduttasi
stesso
(esistono
due
forme
dell’enzima,
l’enzima
lungo
e
l’enzima
corto,
che
si
differenziano
per
l’assenza
nell’enzima
corto
del
sito
di
legame
per
la
statina;
pertanto
maggiore
e’
la
quantita’
di
enzima
corto,
minore
sara’
la
risposta
al
farmaco),
sia
a
livello
dei
CYP450
adibiti
al
metabolismo
delle
statine.
Nella
percentuale
di
pazienti
che
non
rispondono
ottimamente
al
trattamento
sono
inclusi
anche
i
pazienti
affetti
da
ipercolesterolemia
familiare,
una
patologia
genetica
derivata
dalla
mutazione
a
livello
del
gene
che
codifica
per
il
recettore
delle
LDL
presente
a
livello
del
fegato
e
degli
organi
steroidogenici
(surrene,
gonadi):
il
colesterolo
quindi
non
puo’
esser
ricaptato
dagli
organi
in
grado
di
utilizzarlo
e
finisce
tutto
a
livello
della
parete
arteriosa.
Questa
patologia
puo’
presentarsi
in
forma
omozigote
(entrambi
gli
alleli
sono
mutati,
presente
in
1
individuo
su
1
milione)
o
in
forma
eterozigote
(1/500).
La
terapia
con
statina
non
e’
funzionale
poiche’
verranno
sí
prodotti
piu’
recettori
LDL-‐R,
ma
non
funzionali.
2)
Le
statine
mostrano
una
rara
tossicita’
epatica
e
muscolare.
Per
quanto
riguarda
l’epatossicita’,
essa
non
deve
sorprendere
dato
che
essendo
il
bersaglio
delle
statine
proprio
gli
epatociti,
il
fegato
puo’
andar
incontro
a
“sofferenza”
dopo
il
trattamento:
un
parametro
utile
per
verificare
la
tossicita’
epatica
e’
il
livello
di
transaminasi
epatiche
e
nel
caso
del
trattamento
con
statine
si
e’
osservato
che
l’incidenza
di
aumento
delle
transaminasi
epatiche
a
valori
3
volte
maggiori
rispetto
al
valore
normale
superiore
e’
stata
tra
l’1
e
il
3%
contro
l’1,1%
dei
pazienti
trattati
con
placebo.
L’effetto
collaterale
di
maggior
significato
clinico
e’
la
miopatia.
Sono
stati
riportati
decessi
per
rabdomiolisi
in
percentuale
di
un
caso
su
un
milione
di
prescrizione
(la
cerivastatina
e’
stata
tolta
dal
mercato
per
l’alto
numero
di
decessi
provocati
proprio
dalla
rabdomiolisi);
per
rabdomiolisi
si
intende
una
patologia
muscolare
tale
che
le
cellule
muscolari
vanno
in
necrosi
liberando
in
circolo
tutto
il
materiale
cellulare
che
finisce
a
livello
renale,
ostruendo
il
glomerulo,
e
causando
quindi
morte
per
insufficienza
renale.
Il
rischio
di
miopatie
e
rabdomiolisi
aumenta
proporzionalmente
con
le
dosi
e
concentrazioni
plasmatiche
delle
statine;
pertanto
qualsiasi
fattore
che
inibisce
il
catabolismo
delle
statine
e’
associato
ad
un
aumento
del
rischio
di
miopatia,
tra
cui
l’eta’
avanzata,
disfunzioni
epatiche
o
renali,
periodi
perioperatori,
patologie
multisistemiche
(come
il
diabete
mellito),
ridotta
taglia
corporea
e
ipotiroidismo
non
trattato.
L’uso
concomitante
di
farmaci
che
diminuiscano
il
catabolismo
delle
statine
e’
associato
a
miopatie
e
rabdomiolisi
nel
50-‐60%
dei
casi.
Anche
la
presenza
di
polimorfismi
nei
trasportatori
OATP1,
tali
per
cui
il
trasportatore
e’
presente
nella
forma
meno
attiva,
tendendo
ad
aumentare
la
concentrazione
plasmatica
di
statine,
induce
un
aumento
del
rischio
di
miopatie
e
rabdomiolisi.
Le
spiegazioni
biologiche
causanti
questa
miotossicita’
sono
varie
e
tuttora
da
verificare.
La
prima
ipotesi
suggerisce
che
la
statina,
finendo
a
livello
muscolare,
inibisce
la
produzione
di
colesterolo
alterando
la
fluidita’
delle
membrane.
La
seconda
ipotesi
e’
che
l’effetto
miotossico
sia
causato
dalla
non
prenilazione
di
Rho.
Ultima
spiegazione
e’
che
inibendo
l’enzima
HMG-‐CoA
si
inibisce
anche
la
produzione
di
mevalonato
che
e’
precursore
non
solo
del
colesterolo,
ma
anche
dell’ubichinone
o
Co-‐Q,
trasportatore
degli
elettroni
a
livello
della
catena
di
trasporto
degli
elettroni
nel
mitocondrio.
Un
parametro
per
verificare
la
tossicita’
muscolare
e’
il
livello
di
creatinchinasi
(CK)
e
si
e’
visto
che
dopo
trattamento
con
statine
l’incidenza
di
aumento
delle
CK
a
valori
10
volte
superiori
al
valore
massimo
normale
e’
stata
dello
0,17%
circa
contro
lo
0,13%
del
gruppo
placebo;
nonostante
la
rarita’
di
questi
aumenti
dei
livelli
di
CK,
si
e’
osservato
che
almeno
un
terzo
dei
pazienti
nel
corso
di
5
anni
di
trattamento
o
con
statina
o
con
placebo
lamentano
dolori
muscolari
(mialgie)
almeno
una
volta.
3)
Altro
limite
delle
statine
e’
rappresentato
dalle
frequenti
interazioni
con
altri
farmaci:
queste
interazioni
avvengono
sia
livello
dell’assorbimento
(competizione
per
gli
stessi
trasportatori
o
pompe
di
efflusso),
sia
a
livello
del
metabolismo
(competizione
per
gli
stessi
sistemi
di
biotrasformazione;
inoltre
alcuni
farmaci
agiscono
da
induttori
o
inibitori
dei
citocromi,
soprattutto
del
CYP3A4),
sia
a
livello
dell’eliminazione
(competizione
per
le
stesse
pompe
di
efflusso,
MDR-‐1,
presenti
non
solo
a
livello
intestinale
ma
anche
a
livello
del
fegato
dove
sono
adibite
all’eliminazione
del
farmaco
metabolizzato
tramite
la
bile).
Alcuni
dei
farmaci
che
mostrano
interazioni
con
le
statine
sono:
il
gemfibrozil,
un
fibrato
che
inibisce
la
captazione
epatica
da
parte
di
OATP1
e
interferisce
anche
con
il
metabolismo
a
livello
dei
citocromi
CYP2C8
(la
cosomministrazione
di
gemfibrozil
raddoppia
quasi
le
concentrazioni
plasmatiche
di
statine,
aumentando
pertanto
il
rischio
di
miopatie;
gli
altri
fibrati
come
il
fenofibrato
non
interferiscono
con
il
metabolismo
delle
statine
e
pertanto
presentano
un
minor
rischio
di
miopatie);
gli
antibiotici
macrolidici,
gli
antifungini
azolici,
la
ciclosporina
(che
compete
anche
per
i
trasportatori
OATP1
e
le
pompe
di
efflusso
MDR1),
l’antidepressivo
nefazodone,
gli
inibitori
delle
proteasi
per
il
trattamento
dell’HIV,
il
warfarin
e
la
digossina
sono
alcuni
dei
farmaci
che
interferiscono
con
il
metabolismo
a
livello
del
CYP3A4
e
CYP2C9
(queste
interazioni
farmacocinetiche
sono
associate
ad
un
aumento
delle
concentrazioni
plasmatiche
delle
statine
e
dei
loro
metaboliti);
il
verapamil,
il
succo
di
pompelmo
e
altri
farmaci
che
inibiscono
i
CYP450
(soprattutto
CYP3A4)
inducono
una
riduzione
del
metabolismo
delle
statine
e
pertanto
ne
aumentano
l’effetto
potenzialmente
tossico,
mentre
farmaci
come
la
rifampicina
che
agiscono
da
induttori
dei
citocromi
aumentano
il
metabolismo
delle
statine
e
quindi
ne
riducono
l’effetto
terapeutico.
2)
Sequestranti
degli
acidi
biliari
a)
Intro
I
sequestranti
degli
acidi
biliari
o
resine
sono
farmaci
ipolipidemizzanti
utilizzati
prevalentemente
in
associazione
con
statine
qualora
la
monoterapia
con
statine
non
riesca
ad
abbassare
sufficientemente
i
livelli
di
colesterolo
LDL.
In
questa
classe
di
farmaci
sono
inclusi
la
colestiramina,
il
colestipolo
e
il
piu’
recente
colesevelam.
b)
Farmacodinamica
e
farmacocinetica
Questi
farmaci
hanno
numerose
cariche
positive
e
sono
in
grado
di
legare
gli
acidi
biliari
carichi
negativamente;
a
causa
delle
loro
dimensioni
elevate
le
resine
non
vengono
assorbite
e
gli
acidi
biliari
legati
vengono
escreti
con
le
feci.
Dato
che
piu’
del
95%
degli
acidi
biliari
viene
normalmente
riassorbito,
l’interruzione
di
questo
processo
depleta
il
pool
di
acidi
biliari
e
aumenta
la
sintesi
epatica
di
acidi
biliari.
Di
conseguenza
diminuisce
il
contenuto
epatico
di
colesterolo,
il
che
stimola
la
produzione
di
LDL-‐R
(effetto
simile
alle
statine).
L’aumento
dei
LDL-‐
R
epatici
induce
l’eliminazione
delle
LDL
e
abbassa
i
livelli
di
LDL-‐C,
ma
questo
effetto
e’
parzialmente
contrastato
dall’induzione
dell’attivita’
dell’HMG-‐CoA
riduttasi;
l’inibizione
dell’attivita’
della
riduttasi
tramite
una
statina
aumenta
quindi
l’efficacia
delle
resine.
La
riduzione
dei
livelli
di
LDL-‐C
tramite
resine
e’
dose-‐dipendente:
le
dosi
massime
possono
ridurre
il
livello
anche
del
25%,
ma
sono
associate
a
fastidiosi
disturbi
a
livello
gastrointestinale,
pertanto
vengono
somministrate
a
dosi
inferiori
in
particolare
quando
cosomministrate
con
le
statine
(la
cosomministrazione
di
una
resina
piu’
una
statina
abbassa
i
livelli
di
LDL-‐C
fino
al
50-‐
60%,
un
abbassamento
maggiore
del
20-‐30%
rispetto
alla
monoterapia
con
statina).
c)
Effetti
collaterali
e
interazioni
tra
farmaci
Le
resine
sono
farmaci
abbastanza
sicuri
non
essendo
assorbiti
a
livello
sistemico.
L’ipertrigliceridemia
grave
e’
una
controindicazione
all’utilizzo
di
questi
farmaci
in
quanto
sono
aumentati
i
livelli
di
trigliceridi
(aumento
della
sintesi
epatica
di
trigliceridi).
L’assunzione
di
questi
farmaci
puo’
causare
nausea,
gonfiore
e
dispepsia
(problemi
nella
digestione)
e
in
certi
casi
stipsi
e
cio’
provoca
una
limitata
adesione
dei
pazienti
al
trattamento.
Inoltre
riducono
l’assorbimento
delle
vitamine
liposolubili
e
di
molti
farmaci
come
alcune
tiazidi,
la
furosemide,
il
propanololo,
alcune
statine,
la
digossina
e
il
warfarin;
per
questo
motivo
e’
prudente
somministrare
questi
farmaci
1
ora
prima
o
3-‐4
ore
dopo
una
dose
di
queste
resine.
3)
Niacina
(acido
nicotinico)
a)
Intro
La
niacina
e’
una
vitamina
idrosolubile
del
complesso
B
che
funziona
come
vitamina
solo
dopo
conversione
a
NAD
o
a
NADP,
nel
quale
e’
in
forma
amidica.
Sia
la
niacina
che
la
sua
amide
possono
essere
somministrate
per
os
per
le
funzioni
vitaminiche,
ma
solo
la
niacina
influenza
i
parametri
lipidici.
Gli
effetti
ipolipidemici
della
niacina
richiedono
dosi
piu’
elevate
rispetto
a
quelle
necessarie
per
avere
l’effetto
vitaminico.
b)
Farmacodinamica
e
farmacocinetica
A
livello
del
tessuto
adiposo
la
niacina
inibisce
la
lipolisi
dei
trigliceridi
da
parte
della
lipasi
ormone-‐sensibile,
di
conseguenza
viene
ridotto
il
trasporto
di
acidi
grassi
liberi
al
fegato
e
la
sintesi
epatica
di
trigliceridi.
La
niacina
e
i
composti
a
essa
correlati
esercitano
i
loro
effetti
lipolitici
inibendo
l’adeniclato
ciclasi
degli
adipociti:
e’
stato
identificato
un
recettore
GPCR
chiamato
GPR109A
che
lega
Gi,
il
cui
mRNA
e’
altamente
espresso
nel
tessuto
adiposo
e
nella
milza,
sedi
di
legame
ad
alta
affinita’
per
la
niacina.
La
niacina
stimola
la
via
della
Gi-‐adenilato
ciclasi
negli
adipociti
inibendo
la
produzione
di
cAMP
e
diminuendo
l’attivita’
della
lipasi
ormono-‐sensibile,
la
lipolisi
dei
trigliceridi
e
il
rilascio
degli
acidi
grassi
liberi.
A
livello
epatico,
la
niacina
diminuisce
la
sintesi
di
trigliceridi
inibendo
sia
la
sintesi
sia
l’esterificazione
degli
acidi
grassi,
effetti
che
diminuiscono
la
produzione
epatica
di
VLDL,
con
conseguente
abbassamento
dei
livelli
di
LDL.
La
niacina
stimola
inoltre
l’attivita’
della
LPL,
che
promuove
la
clearance
dei
trigliceridi
dei
chilomicroni
e
delle
VLDL.
La
niacina
inoltre
innalza
i
livelli
di
HDL-‐C,
effetto
dovuto
a
diminuzione
della
clearance
frazionale
di
apoA-‐I
nelle
HDL,
piu’
che
ad
un
aumento
della
sintesi
di
HDL.
Questo
fenomeno
e’
conseguente
a
una
riduzione
della
clearance
epatica
delle
HDL-‐apoA-‐I,
ma
non
degli
esteri
del
colesterolo,
aumentando
cosi
il
contenuto
di
apoA-‐I
nel
plasma
e
il
trasporto
inverso
del
colesterolo.
Tra
i
farmaci
disponibili
la
niacina
e’
quello
che
aumenta
maggiormente
i
livelli
di
HDL-‐C
(30-‐40%);
inoltre
diminuisce
i
livelli
di
trigliceridi
del
35-‐45%
(con
effetti
pari
ai
fibrati
e
alle
statine
piu’
efficaci)
e
riduce
i
livelli
di
LDL-‐C
del
20-‐30%.
La
niacina
inoltre
e’
l’unico
farmaco
ipolipidemizzante
in
grado
di
abbassare
i
livelli
di
Lp(a)
in
maniera
significativa.
Le
dosi
farmacologicamente
attive
della
niacina,
usate
per
il
trattamento
delle
dislipidemie,
sono
quasi
completamente
assorbite
e
il
picco
di
concentrazione
plasmatica
lo
si
raggiunge
entro
30-‐60
minuti.
Il
tempo
di
emivita
e’
di
circa
60
minuti,
da
cui
la
necessita’
di
somministrare
due
o
tre
dosi
al
giorno.
c)
Effetti
collaterali
L’adesione
al
trattamento
e’
limitata
da
due
effetti
collaterali
della
niacina,
le
vampate
e
la
dispepsia.
Per
ridurre
gli
episodi
di
dispepsia
e
piu’
raramente
di
nausea,
vomito
e
diarrea
e’
opportuno
assumere
il
farmaco
dopo
i
pasti
(i
pazienti
con
ulcera
peptica
pregressa
non
dovrebbero
assumere
niacina).
Gli
effetti
a
livello
cutaneo
comprendono
vampate
e
prurito
al
viso
e
alla
parte
superiore
del
tronco,
eruzioni
cutanee
e
acantosi
nigricans;
le
vampate
ed
il
prurito
sono
conseguenza
del
fatto
che
la
niacina
legandosi
al
suo
recettore
stimola
una
seconda
via
di
trasduzione
del
segnale
a
livello
cutaneo
che
porta
all’attivazione
della
fosfolipasi
A2
con
rilascio
finale
di
prostaglandina
G2
che
agisce
a
livello
vasale
determinando
vasodilatazione.
Studi
hanno
dimostrato
che
la
cosomministrazione
di
niacina
con
un
FANS
riduce
il
fenomeno
di
“flushing”,
in
quanto
i
FANS
inibendo
l’azione
delle
COX
riducono
la
produzione
di
prostaglandine:
la
niacina
viene
dunque
somministrata
in
associazione
al
laropiprant,
un
antagonista
PGD2.
Un’altra
strategia
possibile
e’
quella
di
sviluppare
un
“biased
ligand”,
ossia
un
ligando
preferenziale,
in
questo
caso
per
il
recettore
GPR109A:
quando
il
legame
tra
un
ligando
e
un
recettore
determina
due
risposte,
di
cui
una
e’
voluta
e
l’altra
no,
e’
possibile
“progettare”
un
ligando
preferenziale
ortosterico
che
produce
una
sola
delle
due
risposte;
se
il
ligando
determina
due
risposte
significa
che
induce
due
cambi
conformazionali
a
livello
del
recettore,
quindi
si
puo’
progettare
un
ligando
che
induce
un
solo
cambio
conformazionale.
Un’altra
possibilita’
e’
l’utilizzo
di
un
“biasing
allosteric
modulator”,
ossia
un
modulatore
allosterico
preferenziale
che
in
presenza
dell’agonista
fa
si
che
questo
provochi
una
sola
risposta.
Tra
gli
effetti
collaterali
gravi
piu’
comuni
vi
sono
l’epatotossicita’,
che
si
manifesta
con
aumento
delle
transaminasi
sieriche
e
iperglicemia
(particolare
attenzione
va
prestata
a
pazienti
con
diabete
mellito
e/o
con
anamnesi
di
gotta).
NB
“bias”
(da
leggere
<<baies>>)
e’
usato
spesso
in
clinica
per
indicare
un
errore
sistematico
presente
in
uno
studio
clinico.
Nel
contesto
precedente
si
riferisce
invece
ad
un
farmaco
e
puo’
essere
tradotto
come
una
“deviazione”
nell’attivita’
del
farmaco
stesso
(deviazione
determinata
per
esempio,
come
nel
caso
precedente,
da
una
modifica
strutturale).
d)
Uso
terapeutico
La
niacina
e’
indicata
in
caso
di
ipertrigliceridemia
e
di
elevati
livelli
di
LDL-‐C;
e’
particolarmente
indicata
in
pazienti
con
ipertrigliceridemia
e
bassi
livelli
di
HDL-‐C.
Per
minimizzare
vampate
e
prurito,
oltre
alla
possibilita’
di
coassumere
un
FANS
(laropiprant),
e’
consigliabile
iniziare
la
terapia
a
basse
dosi,
aumentandole
gradualmente;
e’
importante
anche
tenere
misurati
i
valori
delle
transaminasi,
dell’albumina
sierica,
della
glicemia
a
digiuno
e
dell’acido
urico
oltre
che
i
livelli
di
lipidi
plasmatici.
Poiche’
la
somministrazione
concomitante
di
niacina
e
statine
puo’
provocare
miopatia,
la
dose
di
statina
non
deve
superare
il
25%
della
sua
dose
massima
e
la
terapia
dovrebbe
essere
sospesa
qualora
fossero
avvertiti
dolori
muscolari
simili
a
quelli
di
tipo
influenzale.
4)
Fibrati:
attivatori
dei
PPAR
a)
Intro
Sono
molecole
in
parte
idrofile
e
in
parte
lipofile
che
ricordano
la
struttura
degli
acidi
grassi:
il
capostipite
di
questa
classe
di
farmaci
e’
il
clofibrato,
poi
vi
sono
il
bezafibrato,
il
gemfibrozil
ed
il
fenofibrato.
Questi
farmaci
sono
agonisti
del
recettore
PPARα,
uno
dei
tre
isotipi
identificati
di
PPAR
(peroxisome
proliferator-‐activated
receptor;
ci
sono
PPARα,
PPARβ
e
PPARγ).
I
meccanismi
attraverso
i
quali
i
fibrati
determinano
la
riduzione
dei
livelli
di
lipoproteine
o
l’aumento
di
HDL
rimane
tuttora
da
chiarire
con
certezza.
b)
Farmacodinamica
e
farmacocinetica
I
fibrati
si
legano,
come
detto,
a
PPARα,
espresso
principalmente
a
livello
del
fegato
e
del
tessuto
adiposo
ed
in
misura
minore
a
livello
del
rene,
del
cuore
e
della
muscolatura
scheletrica.
I
PPAR
sono
recettori
nucleari,
dunque
sono
fattori
di
trascrizione
che
stimolano
l’espressione
di
determinati
geni
target,
ossia
geni
che
possiedono
sequenze
di
DNA
in
grado
di
legarsi
al
fattore
di
trascrizione.
Come
detto,
esistono
tre
isoforme
di
recettori
PPAR
che
sono
espresse
in
cellule
differenti.
I
ligandi
endogeni
dei
recettori
PPARα
sono
molecole
differenti
tra
cui
alcuni
acidi
grassi
e
alcune
prostaglandine;
questi
ligandi
si
legano
al
recettore
che
si
attiva
e
agisce
da
fattore
di
trascrizione
che
media
l’espressione
di
geni
coinvolti
nella
differenziazione,
proliferazione,
metabolismo
lipidico
e
risposta
immune/infiammatoria.
A
differenza
di
quanto
avviene
nel
topo,
nell’uomo
il
legame
con
il
fibrato
non
determina
una
proliferazione
perossisomiale
(i
perossisomi
sono
organelli
citoplasmatici
deputati
a
diverse
funzioni
tra
cui
l’ossidazione
degli
acidi
grassi;
nell’uomo,
pero’,
l’ossidazione
avviene
prevalentemente
a
livello
mitocondriale).
Nell’uomo
il
legame
del
fibrato
con
il
recettore
PPARα,
localizzato
a
livello
degli
epatociti
e
delle
cellule
muscolari
lisce,
determina,
tra
i
vari
effetti,
una
modulazione
dei
geni
coinvolti
nell’ossidazione
degli
acidi
grassi:
se
si
ha
un
accumulo
di
acidi
grassi
a
livello
dell’epatocita,
questi
si
legano
a
PPARα
e
determinano
un
aumento
dei
processi
che
ne
permettono
la
degradazione.
Aumentando
l’ossidazione
di
acidi
grassi,
diminuisce
la
concentrazione
degli
stessi
e
quindi
si
ha
una
minor
produzione
di
VLDL
e
percio’
di
LDL
(riduzione
tra
il
10-‐20%,
minima
se
paragonata
a
quella
provocata
dalle
statine;
in
certi
pazienti
addirittura
il
LDL-‐C
aumenta).
I
fibrati
inoltre
aumentano
la
sintesi
di
LPL
(che
stimola
la
clearance
delle
lipoproteine
ricche
di
trigliceridi)
e
riducono
l’espressione
dell’apoC-‐III
(il
che
stimola
la
clearance
delle
VLDL).
Ultimo
ma
non
meno
importante,
i
fibrati
aumentano
il
colesterolo
HDL
poiche’
inducono
un’aumentata
espressione
di
apoA-‐I
e
apoA-‐II
che
aumenta
i
livelli
di
HDL
(del
10-‐15%).
Gli
effetti
dei
fibrati
sui
livelli
plasmatici
di
lipoproteine
differiscono
ampiamente
a
seconda
del
quadro
lipoproteico
di
partenza,
della
presenza
o
assenza
di
iperlipoproteinemia
genetica,
dei
fattori
ambientali
associati
e
del
fibrato
usato
nel
caso
specifico.
I
fibrati
sono
in
genere
i
farmaci
di
prima
scelta
per
il
trattamento
dell’ipertrigliceridemia
grave
e
della
chilomicronemia
dato
che
riescono
ad
abbassare
il
livello
di
trigliceridi
fino
al
50%
e
si
sono
dimostrati
inoltre
validi
nei
pazienti
con
bassi
livelli
di
HDL-‐C.
Nonostante
questo
non
e’
ancora
chiaro
se
i
fibrati
hanno
un
effetto
positivo
sulla
riduzione
dell’incidenza
delle
malattie
cardiovascolari.
Bisogna
tenere
in
considerazione
il
fatto
che
i
fattori
di
trascrizione
non
sono
buoni
target
per
i
farmaci
in
quanto
mediano
un
gran
numero
di
processi
che
possono
essere
differenti
anche
a
seconda
del
tipo
di
cellula
su
cui
agiscono
(in
generale
agiscono
su
tutte
le
cellule
poiche’
sono
molecole
lipofile
in
grado
di
attraversare
tutte
le
membrane).
L’assorbimento
dei
fibrati
e’
rapido
ed
efficiente
(>90%),
soprattutto
se
assunti
durante
i
pasti;
l’emivita
varia
tra
1
ora
(gemfibrozil)
e
20
ore
(fenofibrato)
e
l’escrezione
e’
per
il
60-‐90%
a
carica
dei
reni.
c)
Effetti
collaterali
e
interazioni
tra
farmaci
I
fibrati
in
generale
sono
farmaci
ben
tollerati,
si
possono
verificare
effetti
collaterali
nel
5-‐10%
dei
pazienti,
ma
il
piu’
delle
volte
questi
non
sono
tali
da
determinare
un’interruzione
della
somministrazione.
Come
gia’
detto
nel
paragrafo
sulle
statine,
nel
caso
di
una
cosomministrazione
di
una
statina
e
di
un
fibrato
bisogna
prestare
attenzione
al
rischio
di
miopatie;
per
diminuire
il
rischio,
il
dosaggio
delle
statine
dovrebbe
essere
ridotto.
Le
controindicazioni
all’uso
di
fibrati
sono
l’insufficienza
renale,
cosi
come
la
disfunzione
epatica.
5)
Ezetimibe
a)
Intro
L’ezetimibe
e’
il
primo
composto
in
grado
di
inibire
l’assorbimento
del
colesterolo
da
parte
degli
enterociti
dell’intestino
tenue,
approvato
per
l’abbassamento
del
colesterolo
plasmatico
sia
totale
che
legato
alle
LDL.
Esso
diminuisce
i
livelli
di
LDL-‐C
di
circa
il
20%
ed
e’
principalmente
usato
come
terapia
adiuvante
delle
statine.
b)
Farmacodinamica
e
farmacocinetica
L’ezetimibe
inibisce
uno
specifico
processo
di
trasporto
negli
enterociti,
inibendo
la
proteina
di
trasporto
NPC1L1.
Questa
proteina
e’
responsabile
del
trasporto
di
colesterolo
dal
lume
intestinale
all’interno
degli
enterociti,
dove
il
colesterolo
viene
esterificato
dall’enzima
ACAT
(acilcoenzima
A-‐colesterolo
aciltransferasi),
assemblato
nei
chilomicroni,
finisce
nel
circolo
linfatico
e
in
un
secondo
momento
nel
circolo
sanguineo.
Riducendo
l’assorbimento
di
colesterolo
esogeno
(mediamente
si
tratta
di
300
mg/die)
si
riduce
il
contenuto
di
colesterolo
nei
chilomicroni
e
pertanto
diminuisce
l’apporto
di
colesterolo
al
fegato
tramite
i
remnant
dei
chilomicroni.
La
diminuizione
del
colesterolo
contenuto
nei
remnant
puo’
diminuire
l’aterogenesi
direttamente,
dato
che
queste
particelle
sono
altamente
aterogene.
Il
ridotto
apporto
epatico
di
colesterolo
intestinale
da
parte
dei
remnant
riduce
la
produzione
di
VLDL,
e
quindi
di
LDL,
e
stimola
l’espressione
dei
geni
epatici
che
regolano
l’espressione
dei
LDL-‐R
e
la
biosintesi
del
colesterolo
(quest’ultimo
effetto
compensatorio
e’
evitabile
tramite
assunzione
di
una
statina).
L’aumentata
espressione
dei
LDL-‐R
epatici
aumenta
la
clearance
del
LDL-‐C
dal
plasma.
Poiche’
la
riduzione
massima
di
LDL-‐C
e’
del
20%
(riduzione
equivalente
o
minore
rispetto
a
quella
ottenibile
con
10-‐20
mg
della
maggior
parte
delle
statine),
la
monoterapia
con
ezetimibe
sembra
limitata
al
piccolo
gruppo
di
pazienti
intolleranti
alle
statine.
La
doppia
terapia
con
queste
due
classi
di
farmaci
riduce
da
una
parte
l’assorbimento
intestinale
di
colesterolo
e
dall’altra
la
biosintesi
endogena
di
colesterolo;
agiscono
quindi
in
maniera
complementare,
l’uno
annullando
gli
effetti
compensatori
causati
dall’altro
farmaco.
Tale
combinazione
determina
ulteriori
riduzioni
del
LDL-‐C,
indipendentemente
dal
tipo
di
statina
utilizzata.
A
questo
scopo
e’
stato
approvato
il
vytorin
(una
compressa
di
ezetimibe
e
simvastatina):
nonostante
i
trial
clinici
per
i
“surrogate
endpoints”
(riduzione
LDL-‐C)
avessero
dato
esito
positivo,
i
trial
per
gli
“hard
endpoints”
(riduzione
eventi
cardiovascolari
e
della
mortalita’)
effettuati
successivamente
dimostrarono
che
la
placca
anziche’
diminuire
aumentava;
per
questo
motivo,
nonostante
il
vytorin
sia
ancora
in
commercio
per
il
trattamento
delle
dislipidemie,
viene
riportato
il
fatto
che
non
e’
ancora
stata
dimostrata
la
sua
efficacia
sulla
riduzione
degli
eventi
cardiovascolari.
Da
questo
episodio
FDA
e
EMEA
richiedono
sempre
hard
trial
e
non
surrogate
trial
prima
della
messa
in
commercio
di
un
farmaco.
L’ezetimibe
e’
altamente
insolubile
in
solventi
acquosi,
limitando
gli
studi
di
biodisponibilita’;
viene
assorbito
dall’epitelio
intestinale,
entrando
nel
circolo
enteroepatico.
L’eliminazione
e’
prevalentemente
per
via
fecale
(circa
70%)
e
solo
il
10%
per
via
urinaria.
c)
Effetti
collaterali
e
interazioni
tra
farmaci
Non
sono
stati
registrati
altri
effetti
collaterali
specifici
al
di
la’
di
rare
reazioni
allergiche.
L’ezetimibe
puo’
essere
assunto
con
qualsiasi
altro
farmaco
tranne
i
sequestranti
degli
acidi
biliari,
che
ne
inibiscono
l’assorbimento.
6)
Riassunto
clinico
Pazienti
con
ogni
tipo
di
dislipidemia
sono
a
rischio
di
sviluppare
danni
vascolari
indotti
dall’aterosclerosi.
Il
mantenimento
di
un
peso
corporeo
ideale,
l’osservanza
di
una
dieta
a
basso
contenuto
di
acidi
grassi
saturi
e
di
colesterolo,
oltre
ad
un’attivita’
fisica
regolare,
sono
le
pietre
miliari
della
correzione
delle
dislipidemie.
I
pazienti
dovrebbero
essere
trattati
per
raggiungere
valori
lipidici
ottimali,
dopo
aver
valutato
il
loro
rischio
futuro
per
un
evento
cardiovascolare.
E’
stato
dimostrato
tramite
varie
meta-‐analisi
(uno
studio
che
prende
dati
da
vari
altri
studi
e
li
unisce)
come
le
statine
possano
ridurre
il
rischio
di
successivi
eventi
coronarici
maggiori
(sindromi
coronariche
acute
e
angina
stabile)
del
27%,
il
rischio
di
ictus
non
emorragico
del
18%
e
la
mortalita’
totale
del
15%
in
tutti
i
tipi
di
pazienti
dislipidemici,
pertanto
le
statine
sono
i
farmaci
di
prima
scelta
tra
le
varie
classi
di
ipolipidemizzanti.
Sempre
tramite
meta-‐analisi
si
e’
scoperto
che
vi
e’
una
correlazione
lineare
tra
la
percentuale
di
eventi
e
la
concentrazione
di
LDL,
percio’
tanto
maggiore
e’
la
riduzione
delle
LDL
tanto
minore
e’
l’incidenza
di
eventi;
i
valori
registrati
nei
pazienti
arrivavano
fino
a
concentrazioni
di
LDL-‐C
di
90
mg/dL,
ma
la
curva
e’
stata
estrapolata
fino
a
30
mg/dL
dove
il
rischio
e’
vicino
a
zero
(30
mg/dL
e’
la
concentrazione
di
colesterolo
nel
sangue
alla
nascita
e
la
concentrazione
di
LDL-‐C
nel
topo,
animale
nel
quale
questa
concentrazione
non
varia
mai).
Al
fine
di
diminuire
il
piu’
possibile
la
concentrazione
di
LDL-‐C
e’
possibile:
1)
aumentare
la
dose
di
statina
(tuttavia
tutti
i
farmaci
ad
alte
dosi
hanno
un
piu’
alto
rischio
di
tossicita’),
2)
sviluppare
una
statina
piu’
potente
o
3)
utilizzare
una
terapia
combinata
(per
esempio
statina
piu’
ezetimibe
o
un
sequestrante
degli
acidi
biliari).
Per
quanto
riguarda
invece
le
strategie
disponibili
al
fine
di
aumentare
i
livelli
di
HDL-‐C
oltre
alla
somministrazione
delle
molecole
di
sintesi
gia’
descritte
in
precedenza
(fibrati
e
niacina),
e’
possibile
somministrare
HDL
sintetiche:
in
questo
modo
si
va
ad
agire
direttamente
sulla
placca
e
si
ha
una
stabilizzazione
della
stessa.
In
questo
caso
la
somministrazione
non
e’
piu’
per
via
orale
e
cronica,
ma
e’
parenterale
ed
acuta/subacuta.
7)
Trattamento
dell’ipercolesterolemia
familiare
Questa
patologia
genetica,
gia’
descritta
in
precedenza,
prevede
la
somministrazione
di
statina
nonostante
non
si
abbia
un
effetto
marcato,
dato
che
i
LDL-‐R
non
sono
completamente
funzionali
(soprattutto
in
individui
omozigoti),
perche’
si
ha
comunque
una
riduzione
delle
VLDL
prodotte
e
quindi
delle
LDL.
Per
il
trattamento
dell’ipercolesterolemia
familiare
e’
possibile
ricorrere
a
varie
strategie.
a)
LDL
aferesi
Il
sangue
viene
estratto,
centrifugato
e
filtrato
in
modo
da
eliminare
le
LDL
presenti;
una
volta
filtrato,
il
sangue
viene
ripompato
in
circolo.
La
concentrazione
passa
istantaneamente
da
circa
400
mg/dL
a
100
mg/dL,
tuttavia
nel
corso
di
un
paio
di
settimane
i
livelli
tornano
quelli
di
partenza.
Ad
oggi
l’LDL
aferesi
rimane
la
terapia
obbligatoria
per
i
soggetti
con
ipercolesterolemia
familiare
(specialmente
per
quelli
che
presentano
la
patologia
in
forma
omozigote).
b)
Inibizione
dell’assemblaggio
e
della
secrezione
di
VLDL
Per
ridurre
la
produzione
e
secrezione
di
VLDL,
che
si
traduce
in
una
riduzione
delle
LDL,
sono
disponibili
due
tipi
di
farmaci:
apoB
antisenso
e
e
MTP
inibitore.
Le
lipoproteine
sono
costituite
da
lipidi
e
proteine
che
vengono
sintetizzati
in
compartimenti
differenti
nell’epatocita:
a
livello
del
RER
sono
prodotte
le
proteine,
mentre
a
livello
del
REL
sono
sintetizzati
i
lipidi.
E’
possibile
quindi
agire
andando
ad
inibire
la
sintesi
di
lipidi
(difficile
in
quanto
vi
sono
lipidi
molto
diversi)
o
di
proteine,
oppure
agire
sulle
proteine
MTP
(microsomal
transferase
protein)
che
promuovono
l’assemblaggio
delle
lipoproteine.
I
due
possibili
target
sono
quindi
la
proteina
ApoB100
e
MTP.
Un
problema
comune
a
queste
due
classi
di
farmaci
e’
l’accumulo
di
lipidi
a
livello
degli
epatociti
e
quindi
la
possibilita’
di
sviluppare
steatosi
epatica;
e’
stato
pero’
osservato
che
questo
accumulo
di
lipidi
sembra
regredire
spontaneamente.
b1)
Mipomersen
(vs
ApoB100)
Il
mipomersen
e’
un
farmaco
antisenso
(ASO,
AntiSense
Oligonucleotides).
La
sua
sequenza
nucleotidica
e’
complementare
all’mRNA
della
proteina
ApoB100
e
determina
una
riduzione
del
30%
sia
della
produzione
di
ApoB100
sia
della
concentrazione
di
LDL.
La
sequenza
e’
composta
da
20
nucleotidi:
la
parte
centrale
e’
formata
da
nucleotidi
ai
quali
l’OH
in
2’
e’
stato
sostituito
da
un
H
e
il
gruppo
fosforico
da
un
gruppo
fosforotionato;
i
nucleotidi
alle
estremita’
invece
hanno
un
gruppo
etereo
a
livello
dell’OH
in
2’.
Queste
modifiche
conferiscono
al
farmaco
resistenza
alla
degradazione
da
parte
delle
nucleasi,
consentendo
al
mipomersen
di
essere
somministrato
una
volta
alla
settimana,
per
via
sottocutanea.
b2)
Lomitapide
(vs
MTP)
La
proteina
MTP
e’
espressa
a
livello
intestinale
dove
promuove
l’assemblaggio
dei
chilomicroni
e
a
livello
epatico
dove
promuove
l’assemblaggio
delle
VLDL.
Il
lomitapide
inibisce
questa
proteina
e
cio’
comporta
una
riduzione
significativa
della
produzione
di
VLDL
e
conseguentemente
della
concentrazione
di
LDL
in
circolo.
c)
Inibizione
della
degradazione
dei
LDL-‐R
da
parte
di
PCSK9
PCSK9
e’
una
proteina
prodotta
dall’epatocita
a
livello
del
RER:
ha
due
destini
differenti,
o
rimane
all’interno
dell’epatocita
o
viene
escreta.
Quella
escreta
va
a
legarsi
ai
LDL-‐R
formando
un
complesso
che
viene
internalizzato
e
degradato
dai
lisosomi.
Tanto
piu’
la
proteina
e’
espressa
tanto
piu’
i
recettori
per
le
LDL
sono
degradati
e
pertanto
tanto
maggiori
saranno
i
livelli
di
LDL
in
circolo.
La
PCSK9
che
rimane
all’interno
dell’epatocita
va
a
legarsi
ai
LDL-‐R
in
formazione
e
ne
determina
la
degradazione
impedendo
la
loro
espressione
in
membrana.
Se
la
proteina
PCSK9
e’
mutata
e
non
funzionale
saranno
espressi
piu’
LDL-‐R
e
quindi
la
concentrazione
di
LDL
sara’
inferiore.
PCSK9
e’
quindi
diventato
un
target;
le
possibilita’
sono
l’utilizzo
di
un
ASO
per
il
gene
che
codifica
per
PCSK9,
di
un
peptide
interferente
(un
peptide
in
grado
di
legarsi
a
PCSK9
a
livello
del
sito
di
legame
per
i
LDL-‐R
in
modo
da
impedire
il
legame
PCSK9-‐LDL-‐R)
o
di
un
anticorpo
monoclonale.
Un
buon
numero
di
anticorpi
monoclonali,
che
lega
PCSK9
a
livello
del
dominio
catalitico
che
interagisce
con
i
LDL-‐R
e
che
quindi
inibisce
la
funzione
della
PCSK9,
e’
gia’
in
avanzata
fase
di
sviluppo
clinico:
tra
essi
vi
sono
evolocumab,
bococizumab
e
alirocumab.
ASO
e
anticorpi
monoclonali
(in
generale)
a)
Oligonucleotidi
antisenso
(ASO)
Gli
oligonucleotidi
antisenso
(ASO)
sono
brevi
molecole
a
singolo
filamento
di
DNA
(in
alcuni
casi
di
RNA)
complementari
ad
una
determinata
sequenza.
La
sequenza
a
cui
si
legano
solitamente
e’
una
molecola
di
mRNA
che,
legata
da
un
ASO
specifico,
non
e’
piu’
in
grado
di
essere
tradotta.
L’ASO
e’
selettivo
e
non
interferisce
con
altri
mRNA
(una
sequenza
di
15/20
nucleotidi
e’
stato
calcolato
che
compare
una
sola
volta
a
livello
del
genoma
umano).
I
meccanismi
attraverso
cui
puo’
avvenire
il
blocco
della
traduzione
sono
essenzialmente
due:
l’attivazione
di
RNAsi
che
degradano
l’mRNA
prima
della
sua
traduzione
sul
ribosoma
o
il
blocco
meccanico
del
ribosoma
attraverso
la
formazione
di
un
doppio
filamento
sull’mRNA
in
via
di
traduzione.
I
nucleotidi
che
costituiscono
l’ASO
vengono
modificati
in
modo
da
garantire
una
maggior
penetrazione
attraverso
le
membrane
di
cellule
specifiche,
una
maggior
resistenza
alle
nucleasi
e
una
minor
tossicita’;
queste
modifiche
possono
interessare
lo
zucchero
e/o
il
gruppo
fosforico
che
formano
il
nucleotide.
b)
Anticorpo
monoclonale
(mAb)
Gli
anticorpi
monoclonali
(mAb)
costituiscono
un
insieme
di
anticorpi
identici
fra
loro
in
quanto
sono
prodotti
da
linee
cellulari
provenienti
da
un
solo
tipo
di
cellula
immunitaria
(quindi
un
clone
cellulare).
L’anticorpo
e’
una
immunoglobulina
(Ig)
prodotta
dalle
plasmacellule
derivanti
dai
linfociti
B.
E’
costituito
da
due
catene
pesanti
e
due
catene
leggere;
le
estremita’
di
queste
catene
costituiscono
le
porzioni
variabili
che
conferiscono
specificita’
alla
Ig,
mentre
le
restanti
porzioni
sono
quelle
costanti
che
determinano
la
funzione
della
Ig.
Le
porzioni
variabili
sono
in
grado
di
riconoscere
l’epitopo,
ossia
una
regione
specifica
presente
sull’antigene;
le
porzioni
costanti
hanno
il
compito
di
interagire
con
il
recettore
Fc
espresso
sulle
cellule
fagocitarie
in
modo
che
il
complesso
Ab/Ag
venga
internalizzato
e
degradato
e
di
attivare
il
complemento,
ossia
un
sistema
costituito
da
una
serie
di
enzimi
proteolitici
che
attaccano
il
complesso
Ab/Ag.
Esistono
diversi
isotipi
di
Ig
che
si
differenziano
per
forma,
dimensione,
emivita
e
funzione
principale
in
cui
sono
coinvolte
(IgG,
IgM,
IgA,
IgD,
IgE).
L’organismo
umano
possiede
un
sistema
immunitario
che
e’
specifico
per
determinati
antigeni
non-‐self.
Nel
caso
di
una
reazione
immunitaria
l’antigene
va
a
legarsi
ad
un
linfocita
B
specifico
che
esprime
sulla
sua
superficie
una
Ig
specifica
per
un
epitopo
presente
su
quel
determinato
antigene.
Si
verifica
quindi
una
selezione
clonale,
cioe’
il
linfocita
legante
l’antigene
va
incontro
a
maturazione
e
proliferazione.
Il
linfocita
si
differenzia
in
plasmacellule
e
in
cellule
della
memoria;
le
plasmacellule
saranno
in
grado
di
produrre
anticorpi
mentre
le
cellule
della
memoria
rimangono
in
circolo
in
modo
da
intervenire
piu’
rapidamente
nel
caso
di
una
seconda
esposizione
all’antigene.
L’epitopo
e’
una
porzione
dell’antigene
di
circa
7-‐10
aa,
dunque
all’interno
di
un
antigene
e’
possibile
trovare
diversi
epitopi
e
per
ciascuno
di
essi
e’
possibile
produrre
un
anticorpo
specifico.
L’epitopo
puo’
essere
di
due
tipi,
lineare
o
conformazionale:
l’epitopo
lineare
e’
una
sequenza
primaria
di
aa,
mentre
un
epitopo
conformazionale
e’
una
sequenza
di
aa
che
assume
una
conformazione
terziaria,
ossia
tridimensionale.
L’epitopo
lineare
e’
piu’
specifico
in
quanto
non
e’
detto
che
una
determinata
proteina
assuma
la
stessa
conformazione
in
ambienti
differenti.
Le
IgG
sono
le
immunoglobuline
piu’
semplici,
ossia
sono
monomeriche
con
due
catene
pesanti
e
due
catene
leggere;
gli
anticorpi
monoclonali
utilizzati
in
clinica
sono
tutti
IgG
in
quanto
sono
gli
anticorpi
piu’
facili
da
produrre
e
da
somministrare.
La
somministrazione
avviene
per
via
parenterale,
sottocute
o
per
via
endovenosa.
La
tecnologia
per
la
produzione
di
mAb
fu
messa
a
punto
nel
1975
e
fu
chiamata
tecnica
dell’ibridoma.
Iniettando
un
antigene
che
possiede
un
n
numero
di
epitopi,
l’animale
produce
un
n
numero
di
anticorpi
specifici
per
i
diversi
epitopi,
ossia
anticorpi
policlonali
che
saranno
presenti
nel
siero;
purificare
tali
anticorpi
e’
possibile
ma
e’
un
metodo
svantaggioso
per
la
produzione
di
farmaci.
La
tecnica
dell’ibridoma
consiste
nell’isolare
i
linfociti
relativi
ai
diversi
epitopi
e,
poiche’
tali
cellule
hanno
una
vita
molta
ridotta
e
non
sono
in
grado
di
proliferare,
vengono
fuse
con
cellule
immortali,
in
particolare
con
cellule
di
mieloma,
in
modo
da
renderle
immortali
e
capaci
di
proliferare.
Si
formano
cosi’
degli
ibridi
che
mantengono
la
capacita’
dei
linfociti
B
di
produrre
anticorpi
e
al
tempo
stesso
sono
immortali
e
possono
proliferare.
I
diversi
ibridi
vengono
separati
e
posti
in
fermentatori;
qui
i
linfociti
B
si
differenziano
in
plasmacellule
e
producono
anticorpi
monoclonali
ossia
prodotti
da
un
unico
clone
linfocitario
e
specifici
per
un
singolo
epitopo.
Questi
anticorpi
sono
esclusivamente
di
origine
murina
e
pertanto
presentano
alcune
limitazioni:
immunogenicita’
(essendo
una
proteina
estranea
e
non
endogena
essa
e’
potenzialmente
immunogena),
scarsa
interazione
con
il
recettore
Fc
(la
porzione
costante
essendo
anch’essa
di
origine
murina
sara’
meno
facilmente
riconosciuta
dai
recettori
Fc
sulle
cellule
fagocitarie
o
dal
complemento),
bassa
emivita.
Per
ovviare
a
questi
problemi
sono
state
proposte
ed
attuate
due
modifiche,
ossia
la
chimerizzazione
e
l’umanizzazione.
L’mAb
chimerico
possiede
le
regioni
costanti
di
origine
umana,
mentre
le
regioni
variabili
sono
di
origine
murina
(34%
della
proteina
totale):
dal
topo
vengono
estratti
i
geni
che
codificano
per
le
regioni
variabili
e
questi
geni
sono
espressi
e
la
proteina
prodotta
e’
fusa
con
la
porzione
costante
di
origine
umana.
Nei
mAb
umanizzati
solo
le
CDR,
cioe’
le
regioni
ipervariabili
(che
conferiscono
la
piu’
alta
specificita’),
sono
di
origine
murina
(quindi
solo
il
5-‐10%
dell’intera
proteina
e’
di
origine
murina).
L’evoluzione
ulteriore
e’
stata
la
produzione
di
mAb
completamente
umani
e
le
tecniche
oggi
usate
sono
due.
Non
si
puo’
immunizzare
l’uomo
contro
un
target
umano,
tuttavia
esistono
individui
che
sono
venuti
a
contatto
con
un
target
umano
e
hanno
sviluppato
anticorpi
contro
di
esso.
Si
prende
una
popolazione
eterogenea
e
da
ogni
individuo
immunizzato
naturalmente
vengono
estratti
i
linfociti
B
presenti;
a
questo
punto
si
estraggono
da
questi
i
geni
che
codificano
per
le
regioni
variabili
e
si
crea
una
libreria
(cioe’
una
raccolta
di
tutti
i
geni
che
codificano
per
le
regioni
variabili).
A
questo
punto
e’
pero
necessario
individuare
il
gene
specifico
che
codifica
per
la
porzione
variabile
in
grado
di
riconoscere
il
mio
target:
si
procede
quindi
con
il
phage
display
(da
phage,
ossia
fago,
un
virus
che
infetta
i
batteri).
Si
prendono
vari
fagi
e
si
iniettano
i
diversi
geni
che
codificano
per
le
regioni
variabili;
il
fago
sintetizzera’
la
proteina
associata
al
gene
che
sara’
quindi
espressa
in
superficie.
Ne
deriva
una
libreria
di
fagi
che
contengono
al
loro
interno
il
gene
specifico
e
sulla
loro
superficie
la
proteina
espressa.
Si
prende
quindi
una
piastra
Petri
e
in
ciascun
pozzetto
viene
inserito
l’epitopo
che
mi
interessa
e
in
ogni
pozzetto
e’
quindi
inserito
un
fago
differente.
Alcuni
fagi
reagiranno
con
l’epitopo
e
quindi
verra’
selezionato
il
gene
che
codifica
per
le
porzioni
variabili
in
grado
di
reagire
con
il
mio
target
prefissato.
A
questo
punto
si
infetta
il
batterio
con
il
fago
in
modo
che
esso
esprima
la
proteina
desiderata
rivolta
contro
il
target
prefissato.
La
seconda
tecnica
consiste
nell’utilizzo
di
topi
transgenici,
ossia
topi
in
grado
di
sintetizzare
anticorpi
umani
e
non
murini.
Vengono
distrutti
tutti
i
geni
che
codificano
per
le
Ig
murine
(knock
out
del
gene)
e
vengono
inseriti
e
fatti
esprimere
tutti
i
geni
che
codificano
per
le
Ig
umane.
A
questo
punto
si
inserisce
l’epitopo
e
si
ha
immunizzazione
con
produzione
di
anticorpi;
si
sfrutta
quindi
la
tecnica
dell’ibridoma
e
si
ottengono
mAb
completamente
umani.
A
seconda
del
tipo
di
mAb
si
usa
un
suffisso
specifico:
-‐omab
per
mAb
murini;
-‐ximab
per
mAb
chimerici;
-‐zumab
per
mAb
umanizzati;
-‐umab
per
mAb
umani.
Per
quanto
riguarda
il
meccanismo
d’azione
dei
mAb
esso
dipende
sia
dalle
caratteristiche
del
mAb
stesso
sia
dal
target.
Il
target
e’
una
proteina
e
quindi
puo’
essere:
1)
solubile
(es.
PCSK9)
oppure
2)
una
proteina
di
membrana
(non
e’
possibile
avere
una
proteina
citoplasmatica
come
target
poiche’
il
mAb
non
e’
in
grado
di
penetrare
la
membrana).
Se
la
proteina
e’
solubile
e
quindi
presente
in
circolo,
si
inietta
il
mAb
per
via
parenterale
e
questo
riconosce
l’epitopo
formando
un
complesso
che
viene
eliminato
per
proteolisi
o
fagocitosi;
e’
necessario
avere
una
porzione
costante
che
sia
in
grado
di
interagire
con
il
recettore
Fc
al
fine
di
attivare
i
macrofagi
o
il
complemento.
Nel
caso
di
una
proteina
presente
sulla
membrana
essa
puo’
essere
espressa
su
un
solo
tipo
di
cellula
o
su
piu’
tipi
di
cellule;
il
mAb
e’
iniettato
per
via
parenterale,
andando
ad
interagire
con
l’epitopo
presente
nella
proteina
di
membrana.
A
questo
punto
il
mAb
legandosi
al
target
provoca
o
la
fagocitosi
della
cellula
stessa
o
attiva
il
complemento
oppure,
se
il
target
e’
un
recettore
di
membrana,
provoca
l’apoptosi
della
cellula
(in
quest’ultimo
caso
non
e’
importante
la
porzione
costante
Fc
poiche’
non
devono
essere
attivati
ne’
i
macrofagi
ne’
il
complemento).
Esiste
un’ultima
classe
di
farmaci
in
via
di
sviluppo,
i
Fabs,
ossia
frammenti
di
mAb
costituiti
solamente
dalle
regioni
variabili.
Per
quanto
riguarda
la
farmacocinetica
dei
mAb
essi
sono
somministrati
per
via
parenterale,
principalmente
EV
(in
futuro
si
passera’
alla
via
sottocutanea);
l’assorbimento
non
esiste
nel
caso
di
somministrazione
EV,
mentre
nel
caso
di
somministrazione
cutanea
sara’
del
50-‐100%
e
il
mAb
arrivera’
in
circolo
tramite
il
sistema
linfatico.
I
mAb
si
distribuiscono
nel
sangue
e
nei
fluidi
extracellulari
quindi
il
volume
di
distribuzione
sara’
di
3L+12L=15L
(VD).
Essendo
proteine,
il
metabolismo
avviene
per
via
proteolitica;
dato
che
sono
IgG
(con
un
peso
medio
di
150kD)
non
vengono
filtrate
a
livello
del
glomerulo
(il
limite
di
filtrazione
e’
di
20kD)
pertanto
saranno
escrete
per
via
renale
solo
in
caso
di
danno
epatico.
La
clearance
puo’
essere
lineare
o
complessa:
nel
caso
di
clearance
lineare
il
mAb
scompare
dal
sangue
in
modo
lineare
e
cio’
deriva
dall’interazione
tra
Fc
e
FcR;
se
la
clearance
e’
complessa
l’eliminazione
e’
sia
cellulare
che
extracellulare,
cioe’
viene
eliminato
il
complesso
mAb/target
cellulare
(in
questo
caso
la
clearance
dipende
esclusivamente
dalla
regione
variabile
e
non
dalla
regione
costante
Fc).
L’emivita
e’
lunga,
nell’ordine
delle
settimane,
e
dipende
dalla
via
fisiologica
a
cui
prendono
parte
i
mAb.
Tale
via,
nota
come
via
di
salvataggio,
prevede
che
cellule
macrofagiche,
epatociti
e
cellule
epiteliari
esprimono
un
recettore
Fc
neonatale
(FcRn)
e
pertanto
se
il
mAb
si
lega
ad
esso
viene
internalizzato
e
riciclato
dalla
cellula
e
dunque
escreto
dalla
cellula
e
riimmesso
in
circolo
mentre
se
il
mAb
non
si
lega
a
FcRn
viene
degradato
per
proteolisi
a
livello
lisosomiale.
La
farmacocinetica
dipendera’
anche
dalle
regioni
costanti
(efficienza
con
cui
vengono
riconosciute
dai
FcR
o
FcRn),
proprieta’
dell’antigene
(solubilita’,
concentrazione;
ricorda
che
i
processi
di
degradazione
sono
saturabili),
fattori
dell’ospite
(es.
efficienza
del
sistema
degradativo),
interazioni
con
altri
farmaci
(per
i
mAb
il
modo
con
cui
avvengono
le
interazioni
differisce
rispetto
ai
farmaci
di
sintesi;
vi
sono
alcuni
farmaci
che
per
esempio
riducono
l’espressione
di
FcRn
e
dunque
riducono
l’emivita
del
mAb).
L’emivita
dipende
anche
dall’origine
del
mAb
che
viene
somministrato:
nel
caso
di
mAb
murino
l’emivita
e’
di
4-‐6
giorni,
mentre
nel
caso
di
mAb
umano
di
21
giorni;
questo
perche’
tanto
piu’
il
mAb
e’
umano
tanto
piu’
sara’
efficiente
la
via
di
salvataggio.
I
possibili
effetti
tossici
associati
all’utilizzo
dei
mAb
sono:
-‐immunogenicita’,
ossia
possono
scatenare
una
risposta
immune;
-‐interazione
del
mAb
con
un
antigene
espresso
su
cellule
non-‐target;
-‐reazioni
nel
sito
di
iniezione
(reazione
infiammatoria
con
produzione
di
citochine
e
necrosi
tissutale);
-‐tossicita’
degli
immunoconiugati:
in
questo
caso
il
mAb
non
e’
usato
come
farmaco,
ma
come
veicolo
per
farmaci
ad
esempio
citotossici;
la
coniugazione
di
questi
con
un
anticorpo
garantisce
che
l’azione
di
questi
e’
confinata
solo
alla
cellula
target
dell’anticorpo.
Terapia
dell’obesita’
Un
altro
importante
fattore
di
rischio
cardiovascolare
e’
l’obesita’
che
puo’
esser
classificata
in
base
al
BMI,
ossia
all’indice
di
massa
corporea,
espresso
in
kg/m2;
il
BMI
viene
calcolato
dividendo
il
peso
corporeo
per
l’altezza
elevata
alla
seconda.
Sulla
base
di
questo
calcolo
un
individuo
puo’
esser
classificato
come
normale
(18,5-‐24,9),
pre-‐obeso
(25-‐29,9)
e
obeso
(>30;
suddivisione
in
vari
livelli
di
obesita’).
Nonostante
il
BMI
venga
sempre
calcolato,
esso
non
e’
un
indice
idoneo
in
quanto
non
mi
da’
informazioni
su
quale
sia
la
componente
corporea
che
determina
un
aumento
di
peso
(un
aumento
di
massa
muscolare
non
determina
un
aumento
del
rischio
di
malattie
CV).
Inoltre
la
massa
grassa
non
e’
sempre
uguale:
si
distingue
tra
obesita’
androide,
tipica
dell’uomo
e
che
si
accumula
a
livello
della
pancia,
e
obesita’
ginoide,
tipica
della
donna
e
che
si
accumula
a
livello
di
fianchi
e
sedere.
Uno
studio
prospettico
mostra
come
varia
la
mortalita’
per
diverse
cause
in
funzione
del
BMI;
si
evidenzia
una
curva
ad
U,
ossia
la
mortalita’
aumenta
sia
all’eccessivo
aumento
di
BMI
sia
alla
sua
eccessiva
diminuzione
(es.
anoressia).
Studi
epidemiologici
dimostrano
che
la
prima
causa
di
morte
in
caso
di
obesita’
e’
la
morte
per
malattie
CV.
E’
necessario
trovare
la
spiegazione
biologica
a
questa
evidenza:
obesita’
e
aterosclerosi
coinvolgono
lipidi
differenti
in
zone
differenti,
percio’
ci
si
chiede
perche’
un
soggetto
che
accumula
trigliceridi
a
livello
del
tessuto
adiposo
tenda
a
formare
placche
a
livello
arterioso
costituite
principalmente
da
esteri
del
colesterolo.
La
spiegazione
biologica
e’
da
ricercare
nel
fatto
che
l’obesita’
causa:
1)
insulino-‐resistenza,
intolleranza
al
glucosio,
diabete
mellito
di
tipo
2
(associazione
tra
diabete
e
obesita’
prende
il
nome
di
diabesity),
2)
ipertrigliceridemia,
3)
ipoalfalipoproteinemia
(riduzione
HDL),
4)
iperlipidemia
post-‐prandiale,
5)
ipertensione,
6)
fibrinolisi
compromessa
e
aumentata
suscettibilita’
alla
trombosi,
7)
disfunzioni
endoteliali
(placca
instabile).
L’obesita’
quindi
predispone
all’evento
CV
poiche’
un
aumento
del
BMI
determina
un
aumento
dei
fattori
di
rischio
come
dislipidemia,
diabete
e
ipertensione;
trattando
l’obesita’
e’
possibile
prevenire
l’insorgenza
di
questi
fattori
di
rischio
successivi
ad
essa.
L’obesita’
e’
una
malattia,
ma
e’
anche
correlata
a
fattori
psicologici,
percio’
sarebbe
opportuno
intervenire
anche
su
questi
fattori.
L’organismo
umano
e’
in
grado
di
mantenere
un
corretto
bilancio
energetico
tra
calorie
assunte
con
la
dieta
e
calorie
consumate;
se
il
BMI
e’
in
difetto
si
ha
che
l’apporto
energetico
e’
inferiore
alla
spesa
energetica,
viceversa
se
il
BMI
e’
aumentato
l’apporto
energetico
supera
la
spesa
energetica.
Per
riportare
il
BMI
a
valori
normali
e’
possibile
o
aumentare
la
spesa
energetica
(metabolismo
basale,
termogenesi,
attivita’
fisica;
i
primi
due
sono
scarsamente
modificabili,
mentre
l’attivita’
fisica
e’
modificabile)
oppure
ridurre
l’intake
energetico
riducendo
la
quantita’
di
cibo
assunta
quotidianamente.
Vi
sono
quindi
tre
possibilita’:
cambio
dello
stile
di
vita
(piu’
attivita’
fisica
e
minor
assunzione
di
cibo),
interventi
chirurgici
(riduzione
dello
stomaco),
terapia
farmacologica.
Terapia
farmacologica
dell’obesita’
L’intake
di
cibo
e’
regolato
da
due
nuclei
ipotalamici,
il
nucleo
dell’appetito
ed
il
nucleo
della
sazieta’;
la
decisione
e’
pero’
presa
a
livello
della
corteccia
e
qui
le
vie
ipotalamiche
si
associano
a
quelle
edonistiche,
percio’
l’assunzione
di
cibo
e’
regolata
sia
da
stimoli
biologici
sia
da
stimoli
psicologici.
I
due
nuclei
ipotalamici
sono
pertanto
due
possibili
target;
a
questi
si
aggiungono
vari
altri
fattori
periferici
che
sono
in
grado
di
agire
sui
due
nuclei
(pancreas,
fegato,
intestino,
stomaco,
tessuto
adiposo).
Per
esempio
vi
sono
la
leptina,
ormone
peptidico
prodotto
dal
tessuto
adiposo,
l’insulina
prodotta
a
livello
pancreatico,
cosi’
come
la
contrazione/dilatazione
dello
stomaco
o
altri
stimoli
provenienti
da
fegato
e
intestino.
Vi
sono
quindi
numerosi
target,
il
che
rappresenta
un
vantaggio
dal
punto
di
vista
farmacologico,
ma
uno
svantaggio
dal
punto
di
vista
della
farmacoterapia
poiche’
agendo
su
un
target
ve
ne
sono
comunque
tanti
altri
in
grado
di
esercitare
lo
stesso
effetto.
Le
strategie
farmacologiche
per
il
trattamento
dell’obesita’
possono
essere:
1)
la
riduzione
dell’assunzione
di
cibo
attivando
il
nucleo
ipotalamico
della
sazieta’
e
inibendo
quello
dell’appetito,
2)
la
riduzione
dell’assorbimento
di
cibo
a
livello
del
tratto
GI,
3)
la
riduzione
del
grasso
corporeo
andando
a
stimolare
la
spesa
energetica
o
inibendo
il
supplemento
energetico
da
parte
del
tessuto
adiposo.
Farmaci
ad
azione
centrale
1)
Farmaci
noradrenergici
e
serotoninergici
A
livello
ipotalamico
esistono
neurotrasmettitori,
come
noradrenalina
e
serotonina,
che
agiscono
potenziando
il
senso
di
sazieta’
e
riducendo
l’apporto
di
cibo.
Erano
stati
introdotti
in
commercio,
ma
poi
ritirati
negli
anni
’90,
farmaci
in
grado
di
aumentare
i
livelli
di
noradrenalina
(fentermina)
e
serotonina
(fenfluramina
e
dexfenfluramina)
nell’ipotalamo
a
livello
presinaptico
(pertanto
vi
era
un
maggior
rilascio
di
neurotrasmettitore
a
livello
sinaptico;
i
picchi
di
neurotrasmettitore
erano
di
breve
durata);
questi
farmaci
sono
stati
ritirati
per
i
loro
numerosi
effetti
collaterali
tra
cui
la
tossicita’
cardiaca.
2)
Farmaci
sia
adrenergici
sia
serotoninergici
Nel
’97
fu
approvato
un
nuovo
farmaco,
la
sibutramina,
in
grado
di
aumentare
contemporaneamente
il
livello
di
noradrenalina
e
serotonina
a
livello
sinaptico
andando
a
inibire
il
reuptake
di
neurotrasmettitore
(effetti
di
maggior
durata
rispetto
ai
tre
farmaci
descritti
in
precedenza).
Nel
2010
il
farmaco
venne
pero’
ritirato
in
quanto
era
stato
dimostrato
che
l’incidenza
di
eventi
CV
aumentava
anziche’
diminuire.
3)
Farmaci
antagonisti
dei
recettori
degli
endocannabinoidi
Gli
endocannabinoidi,
come
l’anandamide,
sono
molecole
simili
ad
acidi
grassi
modificati;
vengono
prodotti
su
richiesta
e
rilasciati
dopo
depolarizzazione
delle
membrane
e
influsso
di
calcio
e
in
seguito
inattivati
tramite
reuptake
o
idrolisi.
Vi
sono
anche
cannabinoidi
esogeni
come
il
THC,
contenuto
nelle
foglie
della
Cannabis,
che
si
legano
agli
stessi
recettori
degli
endocannabinoidi.
Gli
effetti
di
questa
classe
di
molecole
sono:
1)
relax
(riduzione
del
dolore
e
dell’ansia,
modulazione
della
temperatura
corporea,
della
produzione
di
ormoni,
del
tono
della
muscolatura
liscia
e
della
pressione
sanguinea),
2)
riposo
(sedazione
e
inibizione
del
comportamento
motorio),
3)
memoria
(eliminazione
dei
ricordi
avversi),
4)
fame
(inducono
l’appetito
e
determinano
una
sensazione
di
rinforzo).
I
recettori
per
i
cannabinoidi
sono
definiti
CB
e
ve
ne
sono
di
due
tipi,
CB1
e
CB2.
Sono
recettori
a
sette
domini
transmembrana:
i
CB1
sono
espressi
soprattutto
nell’encefalo
a
livello
ipotalamico,
della
corteccia,
dell’ippocampo,
del
tratto
GI,
mentre
i
CB2
soprattutto
a
livello
del
sistema
immunitario.
A
livello
dei
nuclei
ipotalamici
il
legame
tra
il
recettore
CB1
ed
il
ligando
andra’
da
una
parte
ad
inibire
il
nucleo
della
sazieta’
e
dall’altra
ad
attivare
il
nucleo
dell’appetito.
E’
stato
quindi
sviluppato
un
antagonista
del
recettore
CB1,
il
rimonabant.
La
perdita
di
peso
tuttavia
era
pressoche’
irrilevante
(circa
5
kg)
ed
inoltre
l’incidenza
di
eventi
CV
era
uguale
sia
a
seguito
del
trattamento
con
il
farmaco
sia
con
il
placebo.
Altro
grande
problema
era
l’aumento
del
numero
di
suicidi
nei
pazienti
trattati
in
quanto
il
farmaco
induceva
ansia
e
depressione;
cio’
ha
portato
al
ritiro
dal
commercio
del
rimonabant.
E’
ora
in
via
di
sviluppo
un
farmaco
antagonista
dei
CB1
che
agisca
solo
a
livello
periferico
e
non
a
livello
centrale.
4)
Riassunto
clinico
Tutti
i
farmaci
descritti
in
precedenza
e
agenti
a
livello
centrale
sono
stati
quindi
ritirati
dal
commercio.
Nel
2012
l’FDA
ha
approvato
altri
due
farmaci
per
il
trattamento
dell’obesita’
che
agiscono
a
livello
centrale:
fentermina-‐topiramato
(una
combinazione
tra
la
fentermina
ad
azione
noradrenergica
descritta
in
precedenza
e
il
topiramato,
farmaco
usato
nel
trattamento
dell’epilessia;
effetti
avversi
sono
convulsioni,
gusto
alterato,
insonnia,
costipazione,
bocca
secca)
e
lorcaserina
(agisce
da
agonista
dei
recettori
serotoninergici
5-‐HT
presenti
a
livello
ipotalamico;
effetti
collaterali
sono
nausea
e
mal
di
testa).
Entrambi
i
farmaci
si
sono
dimostrati
efficaci
nella
riduzione
del
peso,
ma
non
vi
sono
trial
che
dimostrino
la
loro
efficacia
sulla
riduzione
degli
eventi
CV.
Ad
oggi
l’FDA
approva
farmaci
per
il
trattamento
dell’obesita’
se
almeno
il
35%
dei
pazienti
perde
piu’
del
5%
del
peso
e
se
la
meta’
di
essi
perde
piu’
del
5%
del
peso
rispetto
al
placebo.
Farmaci
ad
azione
periferica
Orlistat
a)
Intro
L’orlistat
e’
un
inibitore
della
lipasi
pancreatica
umana:
e’
un
acido
grasso
modificato
che
viene
assunto
per
os
e
che
lega
irreversibilmente
le
lipasi
pancreatiche
presenti
a
livello
intestinale
inibendole.
b)
Farmacodinamica
ed
effetti
collaterali
L’inibizione
delle
lipasi
blocca
l’idrolisi
dei
trigliceridi
in
acidi
grassi
e
glicerolo
ed
in
questo
modo
non
sono
assorbiti
e
vengono
escreti
con
le
feci
(solo
un
terzo
viene
assorbito).
La
riduzione
dell’assorbimento
dei
lipidi
determina
anche
un
ridotto
assorbimento
di
colesterolo
e
vitamine
liposolubili.
La
perdita
di
peso
tuttavia
non
e’
soddisfacente
(circa
3
kg)
e
sono
numerosi
gli
effetti
collaterali
come
l’incontinenza,
l’aumento
della
defecazione,
feci
grasse
e
molli
e
la
flatulenza.
Le
controindicazioni
sono
gravidanza,
colestasi
(compromissione
del
flusso
della
bile
dal
fegato
al
duodeno)
e
sindrome
da
malassorbimento
cronica.
Altri
target
Leptina
Un
ormone
che
regola
i
nuclei
ipotalamici
coinvolti
nell’appetito
e
nella
sazieta’
e’
la
leptina,
un
ormone
proteico
prodotto
dal
tessuto
adiposo.
Dopo
aver
individuato
una
popolazione
di
topi
naturalmente
obesi,
definiti
ob/ob,
e’
stato
osservato
che
questi
topi
non
producevano
leptina:
e’
quindi
stato
isolato
il
gene
codificante
la
leptina
e
si
e’
visto
che
somministrando
leptina
ricombinante
questi
topo
perdevano
peso.
Cio’
e’
stato
osservato
anche
in
una
famiglia
di
obesi
che
non
producevano
leptina.
Si
e’
quindi
pensato
che
somministrando
leptina
ai
pazienti
obesi
essi
potessero
perdere
peso,
ma,
proprio
per
il
fatto
di
avere
molto
tessuto
adiposo,
la
produzione
di
leptina
e’
gia
aumentata
e
quindi
la
perdita
di
peso
e’
relativa
(circa
6-‐7
kg).
Terapia
del
diabete
mellito
Con
il
termine
di
diabete
mellito
si
identifica
una
serie
di
disordini
metabolici
comuni,
che
derivano
da
molteplici
meccanismi
patogenetici
e
danno
come
risultato
l’iperglicemia
(diverso
dal
diabete
insipido,
caratterizzato
da
assenza
di
ormone
antidiuretico
o
vasopressina,
curato
somministrando
l’ormone).
Sia
fattori
genetici
sia
fattori
ambientali
concorrono
alla
patogenesi
del
diabete,
che
comprende
un’insufficiente
secrezione
di
insulina,
una
ridotta
risposta
all’insulina
sia
endogena
sia
esogena,
aumento
della
produzione
di
glucosio
e/o
alterazioni
del
metabolismo
lipidico
e
proteico.
L’iperglicemia
che
ne
risulta
puo’
indurre
sia
sintomi
acuti
sia
anomalie
metaboliche.
Tuttavia,
la
causa
principale
di
morbilita’
(la
morbilita’
e’
il
numero
di
casi
di
una
determinata
patologia,
registrati
in
un
dato
periodo,
dato
in
rapporto
al
numero
complessivo
delle
persone
prese
in
esame)
nel
diabete
e’
rappresentata
dalle
complicanze
croniche
che
derivano
da
una
prolungata
iperglicemia:
tra
queste
si
annoverano
la
retinopatia,
la
neuropatia,
la
nefropatia
e
le
patologie
cardiovascolari.
In
particolare
il
diabete
mellito
e’,
come
gia’
detto,
un
fattore
di
rischio
molto
rilevante
di
eventi
CV,
al
punto
che
un
soggetto
diabetico
e’
paragonato
in
termini
di
rischio
come
un
soggetto
che
ha
gia’
avuto
un
evento
CV
nel
corso
della
vita.
In
soggetti
sani
la
glicemia
viene
strettamente
controllata
nonostante
le
ampie
fluttuazioni
del
consumo,
dell’utilizzo
e
della
produzione
di
glucosio.
Il
mantenimento
dell’omeostasi
glucidica
e’
un
processo
sistemico
altamente
sviluppato
che
comprende
l’integrazione
di
numerosi
organi:
sebbene
il
controllo
endocrino
della
glicemia,
prevalentemente
attraverso
l’azione
dell’insulina,
rivesta
un
ruolo
di
fondamentale
importanza,
giocano
un
ruolo
chiave
una
miriade
di
altri
livelli
di
comunicazione
inter-‐organo
che
si
avvalgono
di
altri
ormoni,
di
specifiche
reti
nervose,
di
fattori
e
substrati
locali.
La
cellula
β-‐pancreatica
e’
il
fulcro
di
questo
processo
omeostatico,
modulando
i
livelli
di
insulina
secreta
molto
precisamente
al
fine
di
promuovere
la
captazione
di
glucosio
dopo
un
pasto
e
di
regolare
la
secrezione
di
glucosio
dal
fegato
durante
il
digiuno.
In
stato
di
digiuno
la
glicemia
viene
mantenuta
nell’intervallo
4,4-‐5
mM
e
gli
acidi
grassi
intorno
a
400
μM.
In
assenza
dell’assorbimento
di
nutrienti
nel
tratto
GI,
il
glucosio
viene
principalmente
fornito
dal
fegato
e
dagli
acidi
grassi
del
tessuto
adiposo.
Durante
il
digiuno
i
livelli
plasmatici
di
insulina
sono
bassi,
mentre
il
glucagone
plasmatico
(ormone
secreto
dalle
cellule-‐α
pancreatiche)
e’
elevato,
contribuendo
cosi’
all’aumento
della
glicogenolisi
epatica
e
della
gluconeogenesi;
bassi
livelli
di
insulina
inducono
anche
il
recupero
dell’inibizione
degli
adipociti,
permettendo
un
aumento
della
lipolisi.
Molti
tessuti
usano
in
prevalenza
acidi
grassi
durante
il
digiuno,
risparmiando
l’uso
di
glucosio
in
favore
del
SNC.
Nello
stato
post-‐prandiale,
l’assorbimento
di
nutrienti
determina
un
aumento
della
glicemia,
che
determina
un
aumento
delle
incretine
a
livello
gastrointestinale
e
uno
stimolo
nervoso
che
stimola
il
rilascio
di
insulina.
Le
incretine
sono
ormoni
peptidici
insulinotropi
prodotti
da
cellule
endocrine
specializzate
localizzate
nella
mucosa
intestinale:
sono
il
polipeptide
insulinotropo
glucosio-‐dipendente
(GIP)
e
il
peptide
simile
al
glucagone
di
tipo
I
(GLP-‐1);
entrambi
sono
secreti
in
proporzione
al
carico
di
sostanze
alimentari
ingerite
e
trasmettono
questa
informazione
all’interno
dell’isolotto
pancreatico
come
parte
di
un
meccanismo
di
feed-‐forward
volto
a
indurre
una
risposta
insulinica
appropriata
per
l’entita’
del
pasto
consumato.
Sotto
il
controllo
dell’insulina
fegato,
muscolo
scheletrico
e
tessuto
adiposo
assumono
attivamente
glucosio.
La
produzione
epatica
di
glucosio
e
la
lipolisi
sono
inibite,
mentre
aumenta
l’ossidazione
del
glucosio
circolante.
Il
cervello
“sente”
le
concentrazioni
plasmatiche
di
glucosio
e
fornisce
input
regolatori
contribuendo
all’omeostasi
energetica.
L’insulina
viene
inizialmente
sintetizzata
dalle
cellule
β-‐pancreatiche
come
polipeptide
a
singola
catena,
la
preproinsulina
(110
aa)
che
viene
dapprima
processata
a
proinsulina
e
poi
ad
insulina
e
peptide
C.
Questo
processo
richiede
la
partecipazione
del
complesso
di
Golgi,
del
reticolo
endoplasmatico
e
dei
diversi
granuli
secretori
della
cellula
β.
I
granuli
secretori
sono
fondamentali
non
solo
nel
trasportare
l’insulina
a
livello
della
superfice
cellulare
per
l’esocitosi,
ma
anche
nel
controllare
i
tagli
proteolitici
e
il
processamento
del
pro-‐ormone
fino
ad
ottenere
i
prodotti
di
secrezione
finali,
insulina
e
peptide
C.
La
preproinsulina
prodotta
inizialmente
contiene
una
sequenza
segnale
che
viene
rimossa
per
via
proteolitica
formando
la
proinsulina
la
quale
viene
immagazzinata
nei
granuli;
la
proinsulina
e’
formata
dalla
catena
A
e
dalla
catena
B
connesse
da
due
ponti
disolfuro
e
dal
peptide
C
frapposto
tra
le
due
catene.
Una
volta
rimosso
il
peptide
C
(all’interno
dei
granuli),
la
proinsulina
diventa
insulina
costituita
dalla
catena
A
(21
aa)
e
dalla
catena
B
(30
aa).
All’interno
dei
granuli
l’insulina
dimerizza
spontaneamente
mediante
interazioni
elettrostatiche
tra
le
catene
B;
in
presenza
di
ioni
zinco
tre
dimeri
si
associano
a
formare
un
esamero
(avente
struttura
cristallina).
L’insulina
e
il
peptide
C
vengono
cosecreti
in
rapporto
equimolare:
per
questo
motivo
il
peptide
C,
del
quale
non
e’
nota
la
funzione
fisiologica
e
avente
un’emivita
di
circa
30
minuti,
raggiungendo
la
circolazione
periferica
dove
e’
possibile
misurarne
la
concentrazione,
e’
usato
come
parametro
per
determinare
l’entita’
della
secrezione
della
cellula
β
e
per
distinguere
da
un’iperinsulinemia
endogena
da
una
esogena.
La
secrezione
di
insulina
e’
un
processo
altamente
regolato
e
questa
regolazione
e’
ottenuta
mediante
l’azione
di
vari
nutrienti,
ormoni
del
tratto
GI,
ormoni
pancreatici
e
neurotrasmettitori
del
sistema
autonomo.
Alcuni
amminoacidi,
acidi
grassi,
corpi
chetonici
e
soprattutto
il
glucosio
promuovono
tutti
la
secrezione
di
insulina.
Il
glucosio
e’
il
principale
secretagogo
dell’insulina
e
la
secrezione
di
insulina
e’
strettamente
connessa
con
la
concentrazione
extracellulare
di
glucosio
(la
secrezione
di
insulina
e’
molto
maggiore
quando
la
stessa
dose
di
glucosio
e’
assunta
per
via
orale
piuttosto
che
per
via
endovenosa
e
cio’
e’
dovuto
all’effetto
incretinico).
Le
isole
sono
ampiamente
innervate
da
terminazioni
nervose
sia
adrenergiche
sia
colinergiche:
la
stimolazione
di
recettori
adrenergici
α2
inibisce
la
secrezione
di
insulina,
mentre
gli
agonisti
dei
recettori
β2
e
la
stimolazione
vagale
ne
aumentano
il
rilascio.
In
generale
ogni
condizione
che
attiva
il
ramo
simpatico
del
sistema
nervoso
autonomo
(come
ipossia,
ipoglicemia,
esercizio
fisico,
ipotermia)
sopprime
la
secrezione
stimolando
i
recettori
α2
adrenergici;
si
deduce
quindi
che
gli
antagonisti
dei
recettori
α2
aumentano
i
livelli
basali
di
insulina
in
circolo,
mentre
gli
antagonisti
dei
recettori
β2
li
diminuiscono.
Ultimi,
ma
non
meno
importanti,
glucagone
e
somatostatina
inibiscono
la
secrezione
di
insulina.
Gli
eventi
molecolari
che
sono
alla
base
della
secrezione
di
insulina
stimolata
da
glucosio,
hanno
inizio
con
il
trasporto
del
glucosio
nella
cellula
β
attraverso
un
trasporto
facilitato
mediato
da
un
trasportatore
del
glucosio
appartenente
alla
famiglia
dei
trasportatori
GLUT.
Mentre
nel
roditore
questo
trasportatore
e’
il
GLUT2,
nell’uomo
viene
espresso
soprattutto
GLUT1
e
in
minor
misura
GLUT2.
Dopo
esser
entrato
nella
cellula
il
glucosio
viene
rapidamente
fosforilato
dalla
glucochinasi
(GK)
e
tale
passaggio
costituisce
la
tappa
limitante
del
metabolismo
glucidico
all’interno
della
cellula.
Il
glucosio
fosforilato
entra
nella
via
glicolitica,
inducendo
cambiamenti
nei
livelli
di
NADPH
e
nel
rapporto
ADP/ATP.
Livelli
elevati
di
ATP
determinano
un’inibizione
dei
canali
del
K+
ATP-‐sensibili
(canali
KATP)
inducendo
una
depolarizzazione
della
membrana
cellulare.
La
depolarizzazione
di
membrana
conduce
quindi
all’apertura
di
un
canale
del
Ca2+
voltaggio-‐dipendente
che
determina
un
aumento
del
Ca2+
intracellulare,
con
il
risultato
di
un
rilascio
per
esocitosi
di
insulina
dai
granuli
di
deposito.
Questi
eventi
intracellulari
sono
modulati
da
molteplici
processi,
quali
cambiamenti
della
produzione
di
cAMP,
del
metabolismo
degli
aa
e
del
livello
di
alcuni
fattori
di
trascrizione.
Il
recettore
per
l’insulina
e’
espresso
pressoche’
in
tutti
i
tipi
cellulari
dei
mammiferi,
ma
i
tessuti
ritenuti
critici
per
la
regolazione
della
glicemia
sono
il
fegato,
il
muscolo
scheletrico
e
il
tessuto
adiposo.
Da
un
punto
di
vista
sistemico
le
azioni
dell’insulina
sono
di
tipo
anabolizzante
e
l’attivazione
delle
vie
di
segnale
dell’insulina
sono
fondamentali
per
promuovere
la
captazione,
l’utilizzo
ed
il
deposito
dei
piu’
importanti
nutrienti:
glucosio,
lipidi
e
amminoacidi.
E’
importante
sottolineare
che
l’insulina
non
solo
stimola
la
glicogenesi,
la
lipogenesi
e
la
sintesi
proteica,
ma
inibisce
il
catabolismo
di
questi
composti.
Da
un
punto
di
vista
cellulare
l’insulina
stimola
il
trasporto
di
substrati
e
ioni
all’interno
delle
cellule,
promuove
la
traslocazione
di
proteine
all’interno
dei
diversi
comparti
cellulari,
regola
l’azione
di
specifici
enzimi
e
controlla
la
trascrizione
e
la
traduzione
dell’RNA
messaggero.
Alcuni
effetti
dell’insulina
si
verificano
dopo
alcuni
secondi
o
minuti
(attivazione
del
glucosio
e
dei
sistemi
di
trasporto
degli
ioni;
fosforilazione
e
defosforilazione
di
specifici
enzimi).
Altri
effetti,
come
la
promozione
della
sintesi
proteica
e
la
regolazione
della
trascrizione
genica,
richiedono
da
alcuni
minuti
a
ore
per
manifestarsi.
Addirittura
gli
effetti
sulla
proliferazione
e
differenziazione
cellulare
richiedono
alcuni
giorni.
Gli
effetti
metabolici
come
l’inibizione
della
lipolisi
o
la
produzione
di
glucosio
epatico
si
verificano
rapidamente
nell’arco
dei
primi
minuti
in
cui
si
assiste
a
un
rialzo
delle
concentrazione
plasmatiche
di
insulina;
un’eliminazione
consistente
del
glucosio
dal
sangue
puo’
richiedere
circa
un’ora.
L’azione
dell’insulina
si
esplica
attraverso
un
recettore
tirosinchinasico
composto
da
dimeri
di
subunita’
α/β
legati
tra
loro
tramite
ponti
disolfuro:
si
forma
quindi
una
glicoproteina
eterotetramerica
transmembrana
composta
di
due
subunita’
α
extracellulari
e
da
due
subunita’
β
che
attraversano
la
membrana.
Le
subunita’
α
inibiscono
l’attivita’
tirosinchinasica
endogena
delle
subunita’
β;
il
legame
dell’insulina
con
le
subunita’
α
rimuove
tale
inibizione
e
permette
la
transfosforilazione
di
una
subunita’
β
da
parte
dell’altra
e
l’autofosforilazione
su
siti
specifici
dalla
regione
transmembrana
fino
alla
coda
intracellulare
del
recettore.
La
regione
dell’insulina
che
si
lega
al
recettore
e’
presente
sulla
catena
A
pertanto
l’insulina
in
forma
di
monomero
o
di
dimero
puo’
legarsi
al
recettore
mentre
l’insulina
in
forma
di
esamero
no,
in
quanto
la
porzione
che
interagisce
con
il
recettore
non
e’
esposta.
Pertanto
lo
ione
zinco,
per
via
non
enzimatica,
deve
dissociarsi
in
modo
da
liberare
i
tre
dimeri.
L’attivazione
del
recettore
insulinico
da’
inizio
alla
trasmissione
del
segnale
fosforilando
un
set
di
proteine
intracellulari
tra
cui,
da
ricordare,
i
substrati
del
recettore
dell’insulina
(proteine
IRS
1-‐4).
Questi
substrati
interagiscono
con
effettori
che
amplificano
ed
estendono
la
cascata
della
via
di
segnale.
Nei
tessuti
bersaglio
quali
il
muscolo
scheletrico
e
il
tessuto
adiposo,
l’evento
piu’
importante
e’
la
traslocazione
del
trasportatore
GLUT4
del
glucosio
dalle
vescicole
intracellulari
sulla
membrana
plasmatica.
GLUT4
e’
uno
dei
piu’
importanti
trasportatori
appartenenti
alla
famiglia
dei
GLUT
essendo
quello
che
dipende
maggiormente
dagli
stimoli
specifici
dell’insulina
e
di
altri
effettori:
allo
stato
basale
infatti
la
maggior
parte
dei
GLUT4
non
e’
esposta
sulla
membrana,
ma
in
seguito
all’attivazione
del
recettore
insulinico
avviene
una
rapida
ed
elevata
traslocazione
in
superficie
dei
GLUT4,
il
che
facilita
l’internalizzazione
di
glucosio
dal
circolo.
I
criteri
per
la
diagnosi
di
diabete
sono:
-‐sintomi
di
diabete
(come
poliuria,
polidipsia
e/o
perdita
inspiegabile
di
peso)
piu’
valutazione
casuale
(senza
tener
conto
del
tempo
trascorso
dall’ultimo
pasto)
della
glicemia
≥11,1
mM
(200
mg/dL)
-‐glicemia
a
digiuno
(nessun
apporto
calorico
per
almeno
8
ore)
≥7,0
mM
(126
mg/dL)
-‐glicemia
a
due
ore
≥11,1
mM
(200
mg/dL)
durante
un
test
di
tolleranza
al
glucosio
somministrato
per
via
orale,
detto
OGTT
(test
effettuato
somministrando
un
carico
di
glucosio
contenente
l’equivalente
di
75
g
di
glucosio
anidro
sciolto
in
acqua)
-‐HbA1c
≥6,5%:
l’esposizione
di
proteine
ad
elevati
livelli
di
glucosio
determina
una
glicazione
non
enzimatica
di
alcune
proteine
tra
cui
l’emoglobina
A1c
pertanto
i
livelli
di
HbA1c
rappresentano
una
misura
della
concentrazione
media
di
glucosio
alla
quale
l’Hb
e’
esposta
(si
e’
visto
che
la
curva
che
mostra
come
varia
la
mortalita’
in
funzione
della
quantita’
di
emoglobina
glicata
e’
una
curva
ad
U,
quindi
la
mortalita’
aumenta
sia
a
livelli
troppo
alti
sia
a
livelli
troppo
bassi
di
HbA1c).
L’alterata
glicemia
a
digiuno
(IFG,
impaired
fasting
glucose)
e
l’alterata
tolleranza
al
glucosio
(IGT,
impaired
glucose
tolerance)
costituiscono
gli
stati
prediabetici
e
rappresentano
un
importante
aumento
del
rischio
di
sviluppare
il
diabete
mellito:
il
primo
stato
e’
definito
per
concentrazioni
di
glucosio
comprese
tra
5,6-‐6,9
mmol/L
(100-‐125
mg/dL)
mentre
il
secondo
per
concentrazioni
comprese
tra
7,8-‐11,1
mmol/L
(140-‐199
mg/dL).
Gli
obiettivi
della
terapia
del
diabete
prevedono
di
alleviare
i
sintomi
correlati
all’iperglicemia
e
prevenire
o
ridurre
le
complicanze
acute
e
croniche
del
diabete.
I
valori
da
raggiungere
sono:
1)
HbA1c
<7%,
2)
glicemia
pre-‐prandiale
(FPG)
tra
70-‐130
mg/dL,
picco
massimo
di
glicemia
post-‐prandiale
(PPG)
<180
mg/dL.
Oltre
alla
terapia
farmacologica,
i
pazienti
diabetici
dovrebbero
essere
educati
in
merito
alla
nutrizione,
all’attivita’
fisica
e
all’approccio
terapeutico,
necessari
per
abbassare
i
livelli
di
glicemia.
Le
quattro
principali
categorie
di
diabete,
nonostante
abbiano
in
comune
uno
stato
d’iperglicemia,
si
differenziano
per
i
meccanismi
patogenetici
alla
base
delle
singole
patologie:
-‐
diabete
di
tipo
1
(derivante
da
una
distruzione
delle
cellule
β
del
pancreas
e
che
conduce
solitamente
ad
una
assoluta
deficienza
di
insulina);
-‐
diabete
di
tipo
2
(derivante
da
un
difetto
progressivo
nella
secrezione
di
insulina
sullo
sfondo
di
una
insulino-‐resistenza);
-‐
diabete
mellito
gestazionale
(GDM);
-‐
altri
tipi
di
diabete
associati
a
cause
differenti
(difetti
genetici
delle
cellule
β,
difetti
genetici
nell’azione
dell’insulina,
malattie
del
pancreas
esocrino,
come
la
fibrosi
cistica,
e
indotto
da
farmaci,
per
esempio
da
farmaci
usati
nel
trattamento
dell’AIDS).
Il
diabete
puo’
causare
disordini
metabolici
o
complicanze
acute
quali
la
chetoacidosi
diabetica
e
lo
stato
iperosmolare
iperglicemico.
Le
complicanze
croniche
del
diabete
sono
suddivise
in
complicanze
micro-‐
e
macrovascolari.
Le
complicanze
microvascolari
si
verificano
solo
in
individui
con
diabete,
mentre
quelle
macrovascolari
si
verificano
piu’
frequentemente
negli
individui
diabetici
ma
non
sono
diabete-‐specifiche.
Le
piu’
comuni
complicanze
microvascolari
sono
la
retinopatia
(il
50%
dei
pazienti
che
sviluppano
cecita’
sono
diabetici
e
cio’
e’
dovuto
a
malformazioni
a
livello
dei
capillari
che
irrorano
la
retina),
la
nefropatia
(vi
e’
una
progressiva
perdita
di
funzionalita’
renale
con
atrofia
renale
e
iperfiltrazione
che
a
sua
volta
causa
proteinuria
e
ipoalbuminemia)e
la
neuropatia.
Tra
le
complicanze
macrovascolari
si
annovera
l’aumento
di
eventi
associati
all’aterosclerosi
come
l’infarto
del
miocardio
e
l’ictus;
non
e’
ancora
nota
la
spiegazione
biologica
alla
base
di
queste
complicanze
macrovascolari,
comunque
molto
spesso
un
paziente
iperglicemico
e’
anche
iperteso
e
dislipidemico
pertanto
presenta
due
fattori
di
rischio
CV.
Dallo
studio
di
Framingham
emerge
che
non
solo
i
pazienti
diabetici,
ma
anche
quelli
prediabetici
hanno
una
probabilita’
di
sopravvivenza
minore
rispetto
ai
soggetti
normali,
quindi
e’
necessaria
una
terapia
anche
per
i
soggetti
prediabetici.
Terapia
farmacologica
del
diabete
di
tipo
1
Il
diabete
di
tipo
1
rende
conto
di
circa
il
5-‐10%
dei
casi
di
diabete
e
deriva
dalla
distruzione
con
meccanismo
autoimmune
delle
cellule
β
delle
isole
pancreatiche
determinando
cosi’
un
deficit
insulinico
totale
o
quasi
totale.
Solitamente
compare
al
di
sotto
dei
40
anni,
soprattutto
durante
l’infanzia
o
l’adolescenza.
E’
causata
da
una
combinazione
di
fattori
ambientali
e
genetici;
non
e’
ancora
ben
noto
quale
sia
lo
stimolo
scatenante
il
processo
autoimmune,
ma
molti
ritengono
che
sia
un’esposizione
a
virus
o
ad
altri
agenti
ambientali
pressoche’
ubiquitari.
Non
esistono
fattori
di
rischio
maggiori
se
non
la
storia
familiare.
I
sintomi
principali
sono
sete,
urinazione
frequente
e
perdita
di
peso
e
questi
sintomi
si
aggravano
rapidamente
nel
corso
di
giorni/settimane.
Solitamente
e’
necessaria
piu’
di
una
somministrazione
al
giorno
di
insulina
ed
e’
difficile
definire
un
range
specifico
di
corretta
glicemia
in
quanto
quest’ultima
viene
influenzata
da
vari
fattori
come
la
dieta
e
l’esercizio
fisico;
la
terapia
insulinica
non
e’
semplice
anche
perche’
le
concentrazioni
di
insulina
sono
estremamente
variabili
nel
tempo
e
finemente
regolare
dall’organismo.
Il
risultato
di
una
mancata
secrezione
di
insulina
e’
un
aumento
della
concentrazione
di
glucosio
nel
sangue
e
quindi
uno
stato
di
iperglicemia.
Terapia
insulinica
a)
Intro
L’insulina
e’
stato
il
primo
farmaco
ricombinante,
ossia
creato
con
la
tecnologia
del
DNA
ricombinante,
e
cio’
permise
di
abbassare
drasticamente
i
problemi
connessi
con
le
insuline
di
origine
estrattiva
(suina
o
bovina)
quali
le
reazioni
allergiche;
l’insulina
umana,
cosi’
come
viene
somministrata,
e’
immunogena
anche
se
questo
non
altera
la
sua
farmacocinetica
o
la
sua
azione.
L’insulina
rimane
il
caposaldo
del
trattamento
di
praticamente
tutti
i
pazienti
con
il
diabete
di
tipo
1
e
di
molti
con
diabete
di
tipo
2.
L’insulina
puo’
essere
somministrata
per
via
endovenosa,
intramuscolare
o
sottocutanea.
I
trattamenti
a
lungo
termine
utilizzano
preferenzialmente
la
via
sottocutanea.
Essa
differisce
dalla
secrezione
endogena
di
insulina
essenzialmente
per
due
motivi:
primo,
la
cinetica
di
assorbimento
non
riproduce
i
rapidi
rialzi
e
le
veloci
riduzioni
dell’insulina
endogena
in
risposta
al
glucosio
dopo
somministrazione
endovena
o
per
via
orale;
secondo,
l’insulina
iniettata
viene
riversata
nella
circolazione
periferica
anziche’
essere
rilasciata
all’interno
del
circolo
portale
(pertanto
la
concentrazione
di
insulina
portale/periferica
non
e’
fisiologica
e
cio’
puo
alterare
l’influenza
dell’insulina
sui
processi
metabolici
a
livello
epatico).
Nonostante
questi
motivi
l’insulina
rilasciata
nella
circolazione
periferica
puo’
portare
a
valori
di
glicemia
normali
o
molto
vicini
alla
normalita’.
L’insulina
umana
e’
solubile
in
soluzioni
acquose
e
la
maggior
parte
delle
preparazioni
e’
fornita
a
pH
neutro,
che
ne
migliora
la
stabilita’
e
permette
la
conservazione
a
breve
termine
a
temperatura
ambiente.
Come
gia’
detto
per
piu’
70
anni
i
pazienti
diabetici
sono
stati
trattati
con
insuline
di
origine
estrattiva,
ma
ora
con
l’avvento
dell’insulina
umana,
quelle
estrattive
non
sono
piu’
usate;
anche
diverse
preparazioni
di
insulina
(lenta,
ultralenta,
protamina
zinco)
oggi
non
sono
piu’
disponibili.
I
dosaggi
e
le
concentrazione
di
insulina
sono
espresse
in
Unita’
Internazionali.
Una
unita’
di
insulina
e’
definita
come
il
quantitativo
richiesto,
in
un
coniglio,
in
condizione
di
digiuno,
per
ridurre
la
concentrazione
di
glucosio
nel
sangue
fino
a
45
mg/dL;
le
preparazioni
commerciali
di
insulina
sono
fornite
in
soluzione
o
sospensione
alla
concentrazione
di
100
unita’/mL
(U-‐100)
pari
a
3,6
mg
di
insulina,
ma
e’
disponibile
anche
insulina
in
soluzioni
piu’
concentrate
(U-‐500).
b)
Formulazioni
di
insulina
Le
preparazioni
di
insulina
sono
classificate
secondo
la
loro
durata
d’azione
in
a
breve
e
a
lunga
durata.
Nel
gruppo
delle
insuline
a
breve
durata
d’azione,
alcuni
fanno
una
ulteriore
distinzione
tra
le
insuline
ad
azione
molto
rapida
(aspart,
glulisina,
lispro)
e
quelle
regolari.
Allo
stesso
modo
qualcuno
distingue
le
formulazioni
a
maggior
durata
d’azione
(detemir,
glargina)
dall’insulina
NPH.
Per
modificare
l’assorbimento
e
il
profilo
farmacocinetico
dell’insulina
sono
stati
utilizzati
due
approcci.
Il
primo,
usato
per
piu’
di
70
anni
per
alterare
il
profilo
dell’assorbimento
dell’insulina
nativa,
e’
basato
su
formulazioni
che
rallentano
l’assorbimento
dopo
somministrazione
cutanea.
L’altro
approccio
prevede
di
alterare
la
sequenza
amminoacidica
o
la
struttura
proteica
dell’insulina
umana
in
modo
che
essa
mantenga
la
capacita’
di
legare
il
recettore
insulinico,
ma
il
suo
comportamento
in
soluzione
o
in
seguito
a
iniezione
sia
accelerato
o
prolungato
rispetto
all’insulina
nativa
o
regolare.
E’
necessario
sottolineare
la
grande
variabilita’
della
cinetica
dell’insulina
non
solo
tra
individuo
e
individuo,
ma
anche
nello
stesso
individuo.
Il
tempo
richiesto
per
avere
il
massimo
degli
effetti
ipoglicemizzanti
e
dei
livelli
di
insulina
puo’
variare
anche
del
50%;
questa
variabilita’
e’
causata,
almeno
in
parte,
dalla
grande
variabilita’
dell’entita’
dell’assorbimento
sottocutaneo.
b1)
Insulina
regolare
a
rapida
azione
Le
molecole
di
insulina
regolare
(o
normale),
rhI,
si
associano
a
formare
esameri
in
soluzione
acquosa
a
pH
neutro
e
questa
aggregazione
rallenta
l’assorbimento
dopo
iniezione
sottocute;
deve
essere
somministrata
30-‐45
minuti
prima
di
un
pasto.
L’insorgenza
dell’effetto
avviene
tra
i
30-‐60
minuti,
il
picco
massimo
si
ha
in
2-‐3
ore
e
la
durata
effettiva
e’
di
4-‐6
ore.
b2)
Analoghi
dell’insulina
a
rapida
azione
Lo
sviluppo
di
analoghi
dell’insulina
a
rapida
azione
che
presentino
configurazioni
monomeriche
o
dimeriche
e’
uno
dei
maggiori
vantaggi
nella
terapia
con
insulina:
questi
analoghi
differiscono
dall’insulina
normale
nella
porzione
C-‐terminale
della
catena
B
e
cio’
ne
evita
o
ne
riduce
l’aggregazione.
L’insulina
lispro
e’
identica
all’insulina
umana
fatta
eccezione
per
due
aa
adiacenti,
lisina
e
prolina,
che
sono
stati
invertiti
di
posizione.
L’insulina
aspart
deriva
dalla
sostituzione,
sempre
sulla
catena
B,
di
una
prolina
con
acido
aspartico.
L’insulina
glulisina
si
forma
per
sostituzione
sulla
catena
B
di
una
lisina
con
acido
glutammico
e
di
una
asparagina
con
lisina.
Questi
analoghi,
nelle
formulazioni
commercialmente
disponibili,
sono
presenti
sottoforma
di
esameri,
i
quali
pero’
si
dissociano
in
monomeri
praticamente
subito
dopo
l’iniezione:
vengono
assorbiti
meglio
dai
siti
di
iniezione
sottocutanea
rispetto
all’insulina
regolare
e
cio’
determina
un
piu’
rapido
aumento
delle
concentrazioni
plasmatiche
di
insulina
e
una
piu’
rapida
risposta;
avendo
un’insorgenza
piu’
rapida,
si
assiste
a
un
picco
maggiore
e
ad
una
durata
minore
dell’effetto.
Sono
emersi
due
vantaggi
terapeutici:
primo,
con
l’utilizzo
di
questi
analoghi
la
prevalenza
dell’ipoglicemia,
soprattutto
notturna,
e’
ridotta;
secondo,
il
controllo
della
glicemia
e’,
anche
se
moderatamente,
significativamente
migliorato.
E’
stato
dimostrato
che
queste
modifiche
a
livello
farmacocinetico
non
hanno
modificato
l’attivita’
biologica
di
questi
analoghi:
per
verificarlo
in
vitro
e’
stata
valutata
l’affinita’
per
il
recettore,
mentre
in
vivo
si
misura
la
GDR
(glucose
disposal
rate).
In
vitro
si
e’
visto
che
le
insuline
rapide
e
ultrarapide
hanno
una
minor
affinita’
per
il
recettore
e
quindi
una
ridotta
attivita’
biologica,
tuttavia
queste
modifiche
sono
piccole
e
poco
importanti
perche’
in
vivo
e’
possibile
modificare
la
posologia
e
gli
intervalli
di
somministrazione.
La
GDR
viene
calcolata
inducendo
sperimentalmente
in
vivo
una
condizione
di
iperinsulinemia;
l’individuo
andrebbe
in
ipoglicemia,
dunque
e’
necessario
somministrare
glucosio
per
mantenere
la
euglicemia,
ossia
la
normale
concentrazione
di
glucosio
nel
sangue.
La
GDR
e’
la
velocita’
con
cui
somministro
glucosio
affinche’
si
mantenga
la
condizione
di
euglicemia;
questa
e’
quindi
una
misura
della
capacita’
dell’individuo
di
rispondere
all’insulina.
Se
l’individuo
risponde
bene
all’insulina
la
GDR
aumenta
poiche’
devo
somministrare
glucosio
in
continuazione,
mentre
se
risponde
meno
la
GDR
sara’
inferiore.
Misurando
la
AUC
in
un
grafico
di
farmacodinamica
(in
ascissa
il
tempo,
in
ordinata
la
GDR)
si
vede
come
le
AUC
(che
in
questo
caso
sono
indice
di
attivita’
e
non
di
concentrazione
come
nel
caso
delle
curve
di
farmacocinetica)
sono
simili
per
l’insulina
regolare
e
i
relativi
analoghi.
La
somministrazione
avviene
fino
a
15
minuti
prima
di
un
pasto,
l’insorgenza
dell’effetto
si
ha
infatti
entro
15
minuti
dall’iniezione.
Il
picco
massimo
e’
entro
i
30-‐90
minuti
e
la
durata
effettiva
e’
di
3-‐4
ore.
b3)
Insuline
a
lunga
durata
d’azione
Oltre
alle
insuline
rapide
ed
ultrarapide,
sono
state
create
insuline
ultralente:
l’insulina
NPH
(neutral
protamine
hagedorn),
l’insulina
glargina
e
l’insulina
detemir.
La
NPH
e’
una
sospensione
di
insulina
umana
nativa
complessata
con
zinco
e
protamina
in
un
tampone
fosfato
e
a
causa
di
questa
formulazione
l’insulina
si
dissolve
piu’
gradualmente
quando
iniettata
sottocute
e
la
sua
durata
d’azione
viene
pertanto
prolungata.
L’insulina
NPH
mostra
un’insorgenza
dell’effetto
tra
1-‐4
ore,
con
un
picco
massimo
tra
6-‐10
ore
e
una
durata
effettiva
di
10-‐16
ore.
Viene
somministrata
o
una
volta
al
giorno
(prima
di
coricarsi)
o
due
volte
al
giorno
in
combinazione
con
l’insulina
a
rapida
azione.
L’insulina
glargina
e
l’insulina
detemir
sono
analoghi
a
lunga
durata
dell’insulina
umana
ai
quali,
tramite
le
tecnologia
del
DNA
ricombinante,
sono
state
introdotte
modifiche
a
livello
dell’estremita’
C-‐terminale
della
catena
B
in
modo
che
esse
si
iperaggreghino.
Alla
glargina
sono
stati
aggiunti
due
residui
di
arginina
e
una
asparagina
e’
stata
sostituita
da
una
glicina.
La
glargina
e’
disponibile
con
un
pH
di
circa
4
che
stabilizza
l’esamero;
quando
viene
iniettata
nello
spazio
sottocutaneo,
avente
pH
neutro,
si
verifica
un’aggregazione
che
rallenta
l’assorbimento.
A
causa
di
questo
pH
acido
la
glargina
non
puo’
essere
somministrata
insieme
alle
preparazioni
di
insulina
rapida
(regolare,
aspart
o
lispro),
in
quanto
le
loro
formulazioni
hanno
un
pH
neutro.
L’insulina
detemir
e’
un
analogo
dell’insulina
modificato
dall’aggiunta
di
un
acido
grasso
saturo
su
di
una
lisina;
quando
la
detemir
viene
somministrata
sottocute,
essa
si
lega
per
mezzo
del
residuo
di
acido
grasso
all’albumina.
Glargina
e
detemir
presentano
un
assorbimento
costante
e
mantenuto
nel
tempo,
con
un’insorgenza
dell’effetto
tra
1-‐4
ore
e
senza
l’evidenza
di
un
picco
fornendo
cosi’
una
copertura
nelle
24
ore,
con
una
sola
somministrazione
giornaliera,
migliore
rispetto
all’insulina
NPH.
E’
emerso
inoltre
che
a
glargina
e
detemir
si
associa
un
minor
rischio
di
ipoglicemia,
soprattutto
durante
la
notte.
Possono
essere
somministrate
in
qualsiasi
momento
della
giornata
con
la
stessa
efficienza
e
non
si
accumulano
dopo
iniezioni
ripetute;
solitamente
pero’,
mentre
la
glargina
richiede
una
sola
somministrazione
giornaliera,
la
detemir
ne
richiede
due.
A
differenza
delle
formulazioni
tradizionali
di
insulina,
il
profilo
della
loro
lunga
durata
d’azione
non
e’
influenzato
dal
sito
di
somministrazione
(es.
braccio
piuttosto
che
addome)
e
allo
stesso
modo
la
cinetica
di
assorbimento
non
e’
influenzata
dall’attivita’
fisica.
Deve
esser
sottolineato
che
l’uso
di
insuline
a
lunga
durata
d’azione
da
sole
non
e’
in
grado
di
controllare
l’aumento
della
glicemia
post-‐prandiale
in
pazienti
diabetici
di
tipo
1
o
di
tipo
2
con
deficit
di
insulina,
aumento
per
il
quale
e’
necessario
l’uso
o
di
insulina
regolare
o
di
un
analogo
a
breve
durata
d’azione;
vengono,
quindi,
primariamente
usate
per
la
normalizzazione
dei
valori
di
glicemia
a
digiuno,
garantendo
un
livello
basale
di
insulina
per
tutto
l’arco
della
giornata.
b4)
Forme
alternative
di
insulina
Forme
alternative
sono
l’insulina
inalabile
e
l’insulina
orale.
L’insulina
inalabile
e’
in
termini
di
farmacocinetica
e
farmacodinamica
equivalente
a
quella
iniettabile,
tuttavia
per
avere
questi
effetti
la
dose
da
somministrare
e’
maggiore
e
inoltre
i
costi
per
l’insulina
inalabile
sono
molto
piu’
elevati.
E’
in
atto
anche
la
sperimentazione
dell’insulina
per
via
orale
che
potrebbe
arrivare
per
la
fine
del
decennio.
c)
Regimi
terapeutici
a
base
di
insulina
comunemente
utilizzati
Un
metodo
efficace,
chiamato
basale/bolo,
e’
basato
su
molteplici
iniezioni
giornaliere
che
consistono
di
una
somministrazione
basale
di
insulina
lenta
(glargina
o
detemir)
o
prima
della
colazione
o
al
momento
di
coricarsi
associata
a
iniezioni
pre-‐prandiali
di
insulina
rapida.
Un
altro
regime
utilizzato
e’
lo
split-‐mixed
che
comprende
iniezioni
pre-‐colazione
e
pre-‐cena
di
una
miscela
di
insulina
rapida
(regolare
o
un
analogo
a
rapida
azione)
e
lenta
(NPH).
I
soggetti
diabetici
a
volte
possono
consumare
quantitativi
di
cibo
minore
di
quelli
programmati:
cio’
puo
portare
a
ipoglicemia
post-‐prandiale
pertanto,
con
pazienti
con
gastroparesi
o
perdita
dell’appetito,
l’iniezione
post-‐prandiale
di
un
analogo
a
rapida
azione,
sulla
base
del
cibo
realmente
consumato,
garantisce
un
migliore
controllo
glicemico.
E’
possibile
utilizzare
anche
delle
pompe
per
infusione
sottocutanea
per
la
somministrazione
costante
di
insulina
rapida:
le
pompe
per
insulina
forniscono
un’infusione
basale
costante
di
insulina
e
presentano
l’opzione
di
scelta
tra
diverse
entita’
di
infusione
nell’arco
della
giornata
e
della
notte
in
modo
che
sia
piu’
facile
evitare
il
fenomeno
dell’alba
(aumento
della
glicemia
che
si
verifica
appena
prima
ci
si
sveglia
dal
sonno)
e
permettono
iniezioni
di
boli
di
insulina
che
possono
essere
programmati
in
funzione
della
natura
e
della
quantita’
di
un
pasto.
Sono
disponibili
sensori
del
glucosio
capaci
di
misurare
il
glucosio
interstiziale
e
software
capaci
di
calcolare
la
quantita’
corretta
di
insulina
da
somministrare
in
funzione
della
concentrazione
di
glucosio.
Questo
tipo
di
trattamento
non
e’
applicabile
a
tutti
i
pazienti
poiche’
richiede
particolare
attenzione
e
presenta
alcune
problematiche;
tuttavia
questo
metodo
e’
quello
in
grado
di
produrre
un
profilo
piu’
fisiologico
di
insulina
durante
l’attivita’
fisica
e
una
minore
ipoglicemia
rispetto
alle
tradizionali
iniezioni
sottocutanee.
d)
Effetti
collaterali
Il
piu’
comune
effetto
collaterale
e’
l’ipoglicemia
e
questo
e’
il
principale
rischio
da
valutare
in
rapporto
ai
benefici
dei
tentativi
di
normalizzare
il
controllo
glicemico.
Altri
fattori
che
possono
causare
uno
stato
ipoglicemico
sono
l’attivita’
fisica,
la
gravidanza,
l’allattamento
e
alcuni
farmaci
(come
i
β-‐bloccanti).
L’insulina
e’
un
ormone
anabolizzante
e
il
trattamento
con
insulina
del
diabete
di
tipo
1
e
di
tipo
2
e’
associato
a
un
aumento
di
peso.
Con
l’avvento
dell’insulina
ricombinante
umana
si
e’
assistito
ad
una
drastica
riduzione
dell’incidenza
di
reazioni
allergiche
all’insulina
stessa.
L’insulina
umana
somministrata
e’
comunque
immunogena,
ma
questo
non
altera
la
sua
farmacocinetica
o
la
sua
azione.
e)
Alternativa
alla
terapia
farmacologica
L’alternativa
alla
terapia
farmacologica
e’
di
tipo
chirurgico
e
consiste
nel
trapianto
delle
isole
di
Langerhans
(non
di
pancreas
essendo
un
organo
molto
delicato):
le
isole
vengono
purificate
e
iniettate
nella
vena
porta
dalla
quale
raggiungono
il
fegato
dove
formano
una
sorta
di
neopancreas.
Lo
svantaggio
e’
che
a
questo
intervento
deve
essere
associata
una
terapia
immunosoppressiva.
Terapia
farmacologica
del
diabete
di
tipo
2
Il
diabete
di
tipo
2
determina
un
difetto
progressivo
nella
secrezione
di
insulina
in
seguito
all’instaurarsi
di
una
insulino-‐resistenza.
Il
trattamento
deve
cominciare
quindi
prima
che
la
situazione
si
evolva
in
una
fase
di
insulino-‐dipendenza.
La
malattia
ricorre
maggiormente
negli
adulti
sopra
i
40
anni
di
eta’
e
molti
individui
con
diabete
di
tipo
2
sono
asintomatici
al
momento
della
diagnosi;
tra
i
sintomi
che
possono
svilupparsi
in
maniera
piu’
o
meno
evidente
nel
corso
del
tempo
vi
sono
la
polidipsia,
la
poliuria
e
la
perdita
di
peso.
Una
fase
asintomatica
di
lunga
durata
(circa
un
decennio)
e’
probabilmente
responsabile
del
fatto
che
circa
il
50%
dei
soggetti
arriva
alla
diagnosi
con
una
complicanza
correlata
al
diabete
stesso.
La
diagnosi
e
il
trattamento
precoce
sembrano
ritardare
l’insorgenza
di
complicanze
e
ridurre
la
severita’
della
malattia.
Il
trattamento
solitamente
comincia
con
il
cambio
dello
stile
di
vita
(piu’
attivita’
fisica
e
dieta
migliore)
passando
poi
al
trattamento
farmacologico
e
solo
alla
fine
all’insulina.
La
patogenesi
del
diabete
di
tipo
2
e’
piuttosto
complessa.
L’obesita’
e’
una
caratteristica
comunemente
correlata
con
il
diabete
di
tipo
2
e
si
verifica
nell’80%
circa
degli
individui
affetti
e
questo
e’
uno
dei
motivi
per
cui
si
parla
spesso
di
diabesity.
Per
la
gran
maggioranza
delle
persone
che
sviluppano
diabete
di
tipo
2
non
e’
possibile
individuare
alcun
evento
scatenante,
piuttosto
la
condizione
clinica
sembra
svilupparsi
gradualmente
negli
anni
con
il
passaggio
attraverso
stadi
prediabetici
ben
riconoscibili.
In
poche
parole
il
diabete
di
tipo
2
insorge
quando
l’azione
dell’insulina
e’
insufficiente
per
mantenere
i
livelli
plasmatici
di
glucosio
all’intervallo
di
normalita’.
L’azione
dell’insulina
e’
il
risultato
dell’effetto
combinato
delle
concentrazioni
plasmatiche
di
insulina
(determinate
dalla
funzionalita’
delle
cellule
β)
e
della
sensibilita’
all’insulina
dei
principali
tessuti
bersaglio
(fegato,
muscolo
scheletrico
e
tessuto
adiposo).
Questi
siti
di
regolazione
sono
tutti
alterati
in
varia
misura
in
pazienti
con
diabete
di
tipo
2.
L’eziologia
del
diabete
di
tipo
2
ha
una
forte
componente
genetica
e
si
tratta
quindi
di
una
condizione
ereditabile:
il
diabete
di
tipo
2
sembra
infatti
essere
una
complessa
condizione
multigenica
in
cui
numerosi
loci
di
suscettibilita’
contribuiscono
a
estrinsecare
il
fenotipo
definitivo.
Esistono
4
famiglie
di
farmaci
che
possono
essere
usati
per
il
trattamento
del
diabete
di
tipo
2
(sono
possibili
terapie
combinate):
1)
PPHG
reducers,
ossia
farmaci
che
riducono
l’iperglicemia
post-‐prandiale,
2)
insulin
sensitizers,
ossia
farmaci
che
aumentano
la
sensibilita’
all’insulina,
3)
insulin
enhancers,
ossia
farmaci
che
aumentano
il
rilascio
di
insulina
da
parte
del
pancreas
(usati
solo
nella
fase
in
cui
il
pancreas
funziona
poco
e
non
quando
si
e’
nella
fase
di
iperinsulinemia
o
di
diabete
gia’
conclamato),
4)
insulina
(l’obiettivo
delle
terapie
precedenti
e’
quello
di
non
arrivare
all’insulino-‐dipendenza).
Diabesity
Si
e’
parlato
precedentemente
del
fatto
che
l’80%
circa
degli
individui
obesi
sviluppa
il
diabete
di
tipo
2.
Esiste
una
teoria
sull’eziopatogenesi
del
diabete
in
questi
pazienti:
l’aumento
della
massa
adiposa
determina
un
aumento
nella
produzione
di
molecole
dell’infiammazione,
acidi
grassi,
adinopectine
(citochine
proinfiammatorie
specifiche
del
tessuto
adiposo)
e
ROS;
queste
sostanze
vanno
ad
agire
sulle
cellule
e
ne
modificano
la
loro
capacita’
di
rispondere
all’insulina,
pertanto
si
instaura
un’insulino-‐resistenza.
La
glicemia
di
conseguenza
aumenta
e
per
compensare
cio’
le
cellule
β
del
pancreas
tendono
a
produrre
piu’
insulina;
in
questo
stadio
si
ha
una
condizione
di
iperinsulinemia,
ma
la
glicemia
a
digiuno
e’
normale
(e’
alterata
solo
nel
caso
di
OGTT
o
glicemia
post-‐prandiale).
Il
pancreas
producendo
piu’
insulina
va
incontro
a
stress
e
si
danneggia
perdendo
progressivamente
la
capacita’
di
produrre
insulina
portando
quindi
a
una
situazione
di
ipoinsulinemia
e
iperglicemia.
Vi
sono
evidenze
che
dimostrano
come
l’obesita’
sia
in
grado
di
alterare
il
metabolismo
glucidico
(si
osserva
variazione
della
glicemia
e
dell’emoglobina
glicata)
ed
inoltre
si
e’
visto
che
i
soggetti
obesi,
sottoposti
ad
interventi
chirurgici
come
la
rimozione
di
parte
dello
stomaco,
abbiano
un’incidenza
di
diabete
di
tipo
2
inferiore
ai
pazienti
non
trattati.
Pertanto
la
terapia
dell’obesita’
dovrebbe
essere
la
prima
cosa
da
fare
per
prevenire
la
comparsa
di
diabete
di
tipo
2:
ad
oggi
i
farmaci
per
l’obesita’
pero’
sono
pochi
e
comunque
poco
efficaci
(es.
orlistat).
PPHG
reducers
(PPHG
sta
per
post-‐prandial
hyperglycemia)
1)
Inibitori
dell’α-‐glucosidasi
a)
Farmacodinamica
e
usi
terapeutici
Gli
inibitori
dell’α-‐glucosidasi
riducono
l’assorbimento
intestinale
di
amido,
destrina
e
disaccaridi
inibendo
l’azione
dell’α-‐glucosidasi
a
livello
dell’orletto
a
spazzola
della
mucosa
intestinale.
Sono
oligosaccaridi
e
si
comportano
da
inibitori
suicidi
(si
legano
irreversibilmente
all’enzima);
l’inibizione
dell’α-‐glucosidasi,
determinando
un
minor
assorbimento
di
carboidrati
dal
tratto
GI,
smorza
i
picchi
di
glicemia
post-‐prandiale.
Questi
farmaci
sono
inoltre
in
grado
di
aumentare
il
rilascio
in
circolo
dell’ormone
regolatorio
della
glicemia
GLP-‐1,
contribuendo
anche
con
questo
meccanismo
all’abbassamento
della
glicemia.
Gli
inibitori
dell’α-‐glucosidasi
attualmente
disponibili
sono
acarbosio,
miglitolo
e
voglibosio
(pronuncia
“gl”
allo
stesso
modo
in
cui
dici
glucosio)
e
sono
indicati,
in
associazione
con
dieta
ed
esercizio
fisico,
in
pazienti
con
diabete
di
tipo
2
che
non
raggiungono
un
adeguato
controllo
glicemico;
sono
inoltre
indicati
anche
per
il
trattamento
del
diabete
di
tipo
1.
Possono
venir
utilizzati
anche
in
combinazione
con
altri
antidiabetici
orali
e/o
con
insulina.
Questi
agenti
inoltre
non
causano
aumento
di
peso
e
non
hanno
alcun
effetto
sui
livelli
di
lipidi
plasmatici.
E’
stato
dimostrato
che
questi
farmaci
riducono
la
progressione
dall’intolleranza
al
glucosio
(stadio
prediabetico)
al
diabete
di
tipo
2
conclamato.
b)
Effetti
collaterali
I
piu’
importanti
effetti
collaterali
successivi
al
trattamento
con
questi
farmaci
sono
malassorbimento,
flatulenza,
diarrea
e
gonfiore
addominale.
Sono
tutti
effetti
dose-‐dipendenti
e
correlati
al
meccanismo
d’azione
del
farmaco
che
determina
la
presenza
di
un
maggior
quantitativo
di
carboidrati
nel
piccolo
intestino
disponibile
alla
metabolizzazione
da
parte
dei
batteri.
2)
Pramlintide
a)
Intro,
farmacodinamica,
farmacocinetica
e
usi
terapeutici
La
pramlintide
e’
un
analogo
sintetico
dell’amilina,
un
polipeptide
amiloide
di
37
amminoacidi
prodotto
nelle
cellule
β
pancreatiche
e
rilasciato
insieme
all’insulina
(e
al
peptide
C),
pertanto
anche
la
secrezione
di
amilina
e’
regolata
dalla
glicemia.
L’amilina
va
ad
agire
sulle
cellule
α
del
pancreas
e
inibisce
la
liberazione
di
glucagone,
ormone
iperglicemizzante;
inoltre
ritarda
lo
svuotamento
gastrico,
quindi
il
cibo
rimane
piu’
tempo
nello
stomaco
e
viene
rallentato
l’assorbimento
di
glucosio
a
livello
dell’intestino
(cambia
la
cinetica,
quindi
la
quantita’
assorbita
e’
uguale
ma
e’
diverso
il
picco
dell’AUC).
Dato
che
l’amilina
ha
un’emivita
molto
breve
ed
inoltre
tende
ad
aggregare,
e
quindi
a
precipitare,
e’
stato
sintetizzato
un
peptide
analogo,
la
pramlintide,
che
differisce
per
la
sostituzione
di
tre
aa
con
tre
proline
che
ne
prevengono
l’aggregazione
e
quindi
ne
allungano
l’emivita
(50
minuti
circa).
La
somministrazione
di
pramlintide
avviene
prima
dei
pasti
e
per
via
sottocutanea;
per
quest’ultimo
motivo
viene
somministrata
ai
pazienti
che
gia’
assumono
insulina,
mentre
i
prediabetici
assumono
gli
inibitori
delle
saccaridasi
assunti
per
via
orale.
E’
bene
sottolineare
che
a
causa
del
diverso
pH
delle
soluzioni,
la
pramlintide
non
puo’
essere
somministrata
nella
stessa
siringa
con
cui
e’
iniettata
l’insulina.
La
pramlintide
e’
quindi
approvata
per
il
trattamento
del
diabete
di
tipo
1
e
2
come
adiuvante
in
pazienti
che
assumono
insulina
ai
pasti.
Dato
che
l’assunzione
di
questo
farmaco
fa
perdere
peso,
e’
oggi
allo
studio
come
farmaco
utile
per
la
perdita
di
peso
in
soggetti
non
necessariamente
diabetici.
b)
Effetti
collaterali
I
piu’
comuni
effetti
collaterali
sono
nausea
e
ipoglicemia.
Sebbene
la
pramlintide
da
sola
non
abbassi
la
glicemia,
l’aggiunta
di
insulina
al
momento
del
pasto
causa
aumentata
incidenza
di
ipoglicemia,
pertanto
e’
necessario
ridurre
inizialmente
la
dose
di
insulina
prandiale
anche
del
30-‐50%
e
successivamente
titolare
tali
dosi.
A
causa
dei
suoi
effetti
sulla
motilita’
del
GI,
questo
farmaco
e’
controindicato
in
pazienti
con
gastroparesi
o
con
altri
disordini
della
motilita’
e
si
raccomanda
cautela
qualora
vengano
assunti
altri
farmaci
in
grado
di
influenzare
anch’essi
la
motilita’
GI.
Insulin
sensitizers
1)
Metformina
a)
Intro
La
metformina
e’
l’unico
composto
della
classe
delle
biguanidi
disponibile
oggi
come
ipoglicemizzante
orale.
Altri
composti
di
questa
famiglia
sono
stati
ritirati
per
tossicita’
(fenformina)
o
non
sono
stati
neppure
immessi
in
commercio
(butformina).
b)
Farmacodinamica
La
metformina
aumenta
l’attivita’
della
proteinchinasi
AMP-‐dipendente
(AMPK);
questa
chinasi
e’
attivata
per
mezzo
di
una
fosforilazione
quando
le
riserve
energetiche
della
cellula
sono
ridotte
(cioe’
piu’
basse
concentrazioni
di
ATP
e
fosfocreatina).
La
AMPK
attivata
stimola
l’ossidazione
degli
acidi
grassi,
la
captazione
del
glucosio
e
il
metabolismo
non
ossidativo,
mentre
riduce
la
lipogenesi
e
la
gluconeogenesi.
Il
risultato
netto
di
tutte
queste
azioni
e’
l’aumento
del
deposito
di
glicogeno
nel
muscolo
scheletrico,
una
minor
produzione
di
glucosio
da
parte
del
fegato,
l’aumento
della
sensibilita’
all’insulina
e
piu’
bassi
livelli
di
glucosio
ematico.
Per
quanto
concerne
la
captazione
del
glucosio
da
parte
delle
cellule,
essa
non
e’
regolata
solo
dall’insulina,
infatti
ad
esempio
nel
muscolo
scheletrico
anche
l’esercizio
fisico
stimola,
con
meccanismi
differenti
dall’insulina,
la
traslocazione
dei
GLUT-‐4;
quindi
insulina
e
attivita’
fisica
agiscono
sullo
stesso
bersaglio,
ma
con
meccanismi
differenti.
La
proteina
AS160
si
e’
visto
che
contrasta
la
traslocazione
dei
trasportatori
GLUT-‐4
in
membrana.
Tramite
secondi
messaggeri
l’insulina
oltre
che
promuovere
la
traslocazione
dei
trasportatori
inibisce
la
AS160.
Nel
caso
di
esercizio
fisico
si
ha
un
aumento
della
produzione
di
AMP
e
calcio,
i
quali
determinano
un’attivazione
dei
fattori
che
promuovono
la
traslocazione;
l’AMP
inoltre
attiva
AMPK
che
oltre
ad
essere
un
effettore
va
ad
inibire
AS160.
Gli
effetti
della
metformina
hanno
un
profilo
simile
e
dipendono
dall’attivazione
di
AMPK.
Sebbene
non
sia
noto
il
meccanismo
molecolare
con
cui
la
metformina
attiva
la
AMPK,
si
pensa
che
sia
indiretto,
probabilmente
mediante
la
riduzione
dei
depositi
di
energia
intracellulari.
In
accordo
con
questo
e’
stato
dimostrato
che
la
metformina
inibisce
la
respirazione
cellulare
con
un’azione
specifica
sul
complesso
mitocondriale
di
tipo
I.
La
metformina
presenta
solo
effetti
modesti
sui
livelli
glicemici
nei
soggetti
normoglicemici,
non
influisce
sul
rilascio
di
insulina
e
raramente
causa
ipoglicemia.
Comunque,
anche
in
soggetti
con
iperglicemia
solo
modesta,
questo
farmaco
abbassa
la
glicemia
riducendo
la
produzione
epatica
di
glucosio
e
aumentandone
la
captazione
periferica.
Questo
effetto
e’
mediato,
almeno
parzialmente,
dalla
riduzione
dell’insulino-‐resistenza
a
livello
dei
tessuti
bersaglio.
L’effetto
epatico
e’
probabilmente
il
principale
meccanismo
d’azione
e
coinvolge
prevalentemente
la
soppressione
della
gluconeogenesi.
c)
Farmacocinetica
La
metformina
e’
assorbita
principalmente
a
livello
del
piccolo
intestino;
non
si
lega
alle
proteine
plasmatiche
e
l’eliminazione
e’
prevalentemente
per
via
urinaria.
Ha
un’emivita
in
circolo
di
circa
due
ore.
Il
trasporto
della
metformina
all’interno
delle
cellule
e’
mediato
in
parte
da
trasportatori
di
cationi
organici:
si
ritiene
che
l’OCT1
trasporti
il
farmaco
dentro
cellule
quali
epatociti
e
miociti
dove
e’
farmacologicamente
attivo
mentre
l’OCT2
ne
medierebbe
l’escrezione
a
livello
dei
tubuli
renali.
Recenti
studi
suggeriscono
che
polimorfismi
a
livello
dei
trasportatori
OCT1
possano
essere
responsabili
delle
differenze
di
risposta
alla
metformina.
d)
Effetti
collaterali
e
interazioni
tra
farmaci
I
piu’
comuni
effetti
collaterali
sono
gastrointestinali:
circa
il
10-‐25%
che
inizia
tale
trattamento
lamenta
nausea,
indigestione,
crampi
o
gonfiore
addominale,
diarrea
o
svariate
combinazioni.
Molti
di
questi
effetti
scompaiono
col
proseguire
della
terapia
e
possono
essere
minimizzati
partendo
da
basse
dosi,
aumentandole
gradualmente,
e
assumendo
il
farmaco
durante
i
pasti.
La
metformina
e’
stata
associata
ad
acidosi
lattica,
ascrivibile
probabilmente
al
fatto
che
l’induzione
di
un
maggior
consumo
di
glucosio
nelle
cellule
muscolari
determina
una
iperproduzione
di
lattato
(la
fenformina
e’
stata
ritirata
per
questo
motivo).
L’evidenza
piu’
concreta
appare
nei
casi
di
sovradosaggio
di
metformina,
tuttavia
l’incidenza
stimata
di
acidosi
lattica
attribuibile
a
questo
farmaco
e’
del
tutto
paragonabile
a
quella
riscontrabile
in
pazienti
con
diabete
di
tipo
2
che
non
assumono
metformina.
Inoltre
molte
analisi
recenti
di
questa
associazione
hanno
sollevato
dubbi
in
merito
all’esistenza
di
una
relazione
causale
tra
metformina
e
acidosi
lattica.
La
metformina
non
dovrebbe
essere
utilizzata
in
gravi
malattie
polmonari,
nell’insufficienza
cardiaca
scompensata,
nelle
malattie
epatiche
gravi
o
nell’abuso
cronico
di
alcol.
E’
necessario
prestare
attenzione
qualora
vengano
somministrati
farmaci
cationici,
che
vengono
eliminati
per
mezzo
della
secrezione
a
livello
dei
tubuli
renali,
poiche’
possono
interagire
con
la
metformina
competendo
per
gli
stessi
sistemi
di
trasporto.
e)
Usi
terapeutici
Ad
oggi
la
metformina
e’
il
farmaco
di
prima
scelta
per
la
terapia
del
diabete
di
tipo
2.
Viene
somministrato
due
volte
al
giorno
e
solitamente
le
dosi
vengono
aumentate
gradualmente
per
evitare
i
disturbi
GI.
La
metformina
e’
efficace
sia
in
monoterapia
sia
in
combinazione
con
quasi
tutti
gli
altri
tipo
di
terapia
per
il
diabete
di
tipo
2.
Nella
riduzione
della
glicemia
si
e’
dimostrata
efficace
in
maniera
equivalente
o
superiore
agli
altri
agenti
da
somministrarsi
per
via
orale
nei
pazienti
con
diabete
di
tipo
2.
A
differenza
di
molti
altri
agenti
attivi
per
via
orale,
la
metformina
generalmente
non
causa
un
aumento
di
peso,
anzi
in
alcuni
casi
lo
riduce
(l’AMPK
e’
anche
un
inibitore
della
lipogenesi).
La
metformina
non
e’
efficace
ne
trattamento
del
diabete
di
tipo
1.
Diversi
studi
di
tipo
osservazionale
mostrano
come
la
metformina
riduca
l’incidenza
delle
malattie
cardiovascolari
e
la
mortalita’
ad
esse
correlata,
oltre
che
delle
varie
altre
complicanze
conseguenti
il
diabete
di
tipo
2.
Altri
studi
condotti
su
soggetti
con
alterata
tolleranza
al
glucosio
(stadio
prediabetico)
hanno
dimostrato
come
la
metformina
possa
ritardare
la
progressione
verso
il
diabete
conclamato
(ciononostante
non
viene
arrestato
completamente
il
processo).
2)
Tiazolidinedioni
a)
Intro
I
tiazolidinedioni
sono
ligandi
dei
recettori
attivatori
della
proliferazione
perossisomiale
di
tipo
γ
(PPARγ),
un
gruppo
di
recettori
nucleari
degli
ormoni
coinvolti
nella
regolazione
di
geni
correlati
al
metabolismo
glucidico
e
lipidico.
Ad
oggi
sono
disponibili
due
farmaci
di
questa
classe
il
pioglitazone
e
il
rosiglitazone
(non
in
Europa)
e
sebbene
siano
molto
simili
tra
loro,
in
realta’
presentano
alcune
differenze
importanti.
Altri
due
nuovi
farmaci
sono
ancora
in
fase
di
studio,
il
rivoglitazone
e
il
ciglitazone,
mentre
il
primo
tiazolidinedione
utilizzato,
il
troglitazone,
e’
stato
ritirato
(vedi
dopo).
b)
Farmacodinamica,
farmacocinetica
e
usi
terapeutici
PPARγ
e’
espresso
soprattutto
nel
tessuto
adiposo
e
in
misura
minore
nelle
cellule
cardiache,
nel
tessuto
muscolare,
nelle
cellule
β
pancreatiche,
nei
macrofagi
e
nell’endotelio
vascolare.
Il
rosiglitazone
e
il
pioglitazone
sono
ligandi
sintetici
di
questo
recettore.
La
principale
risposta
all’attivazione
di
PPARγ
e’
la
differenziazione
degli
adipociti;
a
cio’
si
aggiunge
un
aumento
nella
captazione
degli
acidi
grassi
circolanti
nelle
cellule
del
tessuto
adiposo
e
il
trasferimento
dei
depositi
di
grasso
da
tessuti
extra-‐adiposi
al
tessuto
adiposo.
Una
conseguenza
della
risposta
globale
all’attivazione
dei
PPARγ
e’
un’aumentata
sensibilita’
tissutale
all’insulina,
e
questo
rappresenta
la
base
per
l’applicazione
farmacologica
dei
tiazolidinedioni.
Il
pioglitazone
e
il
rosiglitazone
sono
agenti
sensibilizzanti
dell’azione
dell’insulina
e
aumentano
del
30-‐50%
la
captazione
del
glucosio
insulino-‐mediata
in
pazienti
con
diabete
di
tipo
2.
Anche
se
il
tessuto
adiposo
sembra
essere
il
principale
bersaglio
degli
agonisti
PPARγ,
modelli
sia
clinici
che
preclinici
supportano
un
importante
ruolo
del
tessuto
scheletrico,
la
sede
principale
del
deposito
di
glucosio
insulino-‐mediato,
nella
risposta
ai
tiazolidinedioni.
Non
e’
ancora
chiaro
se
il
miglioramento
della
resistenza
insulinica
indotto
dai
tiazolidinedioni
sia
dovuto
a
effetti
diretti
sui
tessuti
bersaglio
(muscolo
scheletrico
e
fegato),
a
effetti
indiretti
mediati
dai
prodotti
secreti
dagli
adipociti
(adinopectina),
o
da
combinazioni
di
tutto
questo.
Oltre
agli
effetti
sulla
sensibilita’
all’insulina,
i
tiazolidinedioni
influenzano
anche
il
metabolismo
lipidico.
Si
assiste
ad
una
diminuzione
dei
livelli
plasmatici
di
acidi
grassi
aumentandone
la
clearance
e
riducendo
la
lipolisi.
Inoltre
causano
anche
il
trasferimento
dei
depositi
di
trigliceridi
da
tessuti
non
adiposi
ad
adiposi
e
dai
depositi
viscerali
di
grasso
a
quelli
sottocutanei.
Si
e’
visto
che
sono
in
grado
di
ridurre
i
trigliceridi
plasmatici
del
10-‐15%
e
aumentare
i
livelli
di
HDL;
questi
effetti
sono
stati
attribuiti
alla
duplice
interazione
con
PPARα
e
PPARγ,
sebbene
siano
quasi
irrilevanti
per
quanto
riguarda
il
rosiglitazone
che
non
interferisce
con
PPARα.
Nonostante
questi
effetti
positivi
anche
sul
metabolismo
lipidico,
si
e’
visto
che
il
pioglitazone
ha
un
effetto
discutibile
sui
principali
eventi
correlati
all’aterosclerosi,
mentre
il
rosiglitazione
non
ha
effetto
o
addirittura
aumenta
il
rischio
di
eventi
cardiovascolari
(motivo
per
il
quale
in
Europa
non
e’
in
commercio).
E’
oggi
in
fase
di
studio
un
nuovo
tiazolidinedione,
l’aleglitazar,
che
si
comporta
da
double-‐agonist,
attivando
sia
i
PPARα
(come
i
fibrati)
che
i
PPARγ.
Rosiglitazone
e
pioglitazone
sono
somministrati
una
sola
volta
al
giorno
e
sono
assorbiti
nell’arco
di
2-‐3
ore
e
la
metabolizzazione
avviene
a
livello
epatico
da
parte
dei
CYP
(bisogna
prestare
attenzione
se
si
co-‐somministrano
farmaci
che
vanno
ad
indurre
o
inibire
i
CYP;
soprattutto
quelli
che
inibiscono
i
CYP,
come
gemfibrozil,
poiche’
aumentano
i
livelli
circolanti
di
tiazolidinedoni);
possono
quindi
essere
utilizzati
in
pazienti
con
insufficienza
renale,
ma
non
con
una
patologia
epatica
in
fase
attiva.
L’aumento
dell’azione
dell’insulina
a
livello
epatico,
nel
tessuto
adiposo
e
nel
muscolo
scheletrico
e’
un
effetto
ormai
del
tutto
dimostrato,
per
questo
i
tiazolidinedioni
sono
usati
nel
trattamento
dei
pazienti
con
diabete
di
tipo
2,
conferendo
un
miglioramento
del
controllo
glicemico
e
provocando
una
riduzione
dell’emoglobina
glicata;
questi
farmaci
richiedono
la
presenza
di
insulina
per
svolgere
la
loro
azione
farmacologica
e
non
sono
quindi
indicati
nel
trattamento
del
diabete
di
tipo
1.
Entrambi
sono
efficaci
in
monoterapia,
ma
possono
essere
anche
co-‐
somministrati
insieme
ad
altri
farmaci
come
metformina,
sulfaniluree
e
insulina.
Si
e’
visto
inoltre
che
il
trattamento
con
tiazolidinedioni
riduce
anche
la
progressione
da
stadi
prediabetici
a
diabete
di
tipo
2
conclamato.
c)
Effetti
collaterali
Gli
effetti
collaterali
piu’
comuni
sono
l’aumento
di
peso
e
l’edema.
L’edema
si
verifica
in
circa
il
10%
dei
pazienti,
in
ugual
misura
sia
usando
il
pioglitazone
che
il
rosiglitazone.
L’aumento
di
peso
e’
l’altro
effetto
collaterale
piu’
comune
(e
prevedibile
considerando
l’azione
di
questi
farmaci
sul
tessuto
adiposo):
vi
e’
un
incremento
generalizzato
dell’adiposita’
e
un
incremento
di
peso
medio
di
2-‐4
kg
nel
primo
anno
di
trattamento.
Un
altro
effetto
collaterale
e’
l’aumentata
incidenza
di
insufficienza
cardiaca
congestizia;
una
controindicazione
all’uso
di
questi
farmaci
e’
la
presenza
di
un’insufficienza
cardiaca
da
modesta
a
severa.
Il
trattamento
con
tiazolidinedioni
puo’
aumentare
il
rischio
di
fratture
ossee
nella
donna
ed
e’
stato
inoltre
associato
a
piccola
ma
consistenti
riduzioni
dell’ematocrito.
Il
primo
farmaco
di
questa
classe
utilizzato
per
il
trattamento
dei
pazienti
diabetici,
il
troglitazone,
e’
stato
ritirato
dal
commercio
a
causa
degli
episodi
di
insufficienza
epatica,
rari
ma
gravi
e
alcune
volte
fatali;
i
tiazolidinedioni
disponibili
oggi
sono
invece
piu’
“sicuri”
sotto
questo
punto
di
vista.
Insulin
enhancers
1)
Sulfaniluree
a)
Intro
Tutti
i
composti
di
questa
classe
di
farmaci
sono
arilsulfaniluree
sostituite
che
differiscono
tra
loro
per
le
sostituzioni
in
posizione
para
dell’anello
benzenico
e
su
di
un
residuo
di
azoto
della
molecola
di
urea.
Le
sulfaniluree
sono
suddivise
in
due
gruppi
o
generazioni
di
molecole.
Le
sulfaniluree
di
prima
generazione,
tolbutamide,
tolazamide
e
clorpropamide,
sono
raramente
usate
oggi
per
il
trattamento
del
diabete
di
tipo
2.
La
seconda
e
piu’
potente
generazione
di
sulfaniluree
ipoglicemizzanti
comprende
la
gliburide
(glibenclamide),
glipizide
e
la
glimepiride.
b)
Farmacodinamica
e
farmacocinetica
Le
sulfaniluree
stimolano
il
rilascio
dell’insulina
legandosi
a
uno
specifico
sito
sul
complesso
di
canali
KATP
della
cellula
β
(sulfonylurea
receptor,
SUR)
inibendone
l’attivita’.
Questo
complesso
di
canali
e’
costituito
da
4
subunita’
Kir6.1
o
Kir6.2,
che
formano
il
poro
del
canale,
e
da
quattro
subunita’
SUR,
ciascuna
costituita
da
tre
domini
transmembrana,
che
rappresentano
le
subunita’
regolatorie.
L’ATP
agisce
sulla
porzione
intracellulare
della
subunita’
Kir,
mentre
le
sulfaniluree
si
legano
alla
porzione
intracellulare
della
proteina
SUR
in
due
posizioni
(le
sulfaniluree
devono
quindi
penetrare
la
membrana
plasmatica).
Le
sulfalniluree
di
prima
generazione
si
legano
solo
a
uno
dei
due
siti
di
affinita’
per
il
farmaco,
pertanto
il
legame
risulta
facilmente
reversibile,
quelle
di
seconda
generazione
invece
si
legano
a
entrambi
i
siti
di
affinita’
e
l’attivita’
risulta
irreversibile.
L’inibizione
di
questi
canali
causa
una
depolarizzazione
di
membrana
e
la
cascata
di
eventi
che
porta
alla
secrezione
di
insulina.
La
somministrazione
acuta
di
sulfaniluree
a
pazienti
diabetici
di
tipo
2
aumenta
il
rilascio
di
insulina
dal
pancreas.
Le
sulfaniluree
riducono
anche
la
clearance
epatica
di
insulina,
aumentando
ulteriormente
le
concentrazioni
ematiche
di
insulina.
Nei
primi
mesi
di
trattamento
i
livelli
di
insulina
plasmatica
a
digiuno
e
la
risposta
insulinica
al
carico
di
glucosio
per
via
orale
vengono
aumentati.
In
seguito
a
somministrazione
cronica,
i
livelli
di
insulina
in
circolo
ritornano
ai
livelli
di
pretrattamento,
ma
nonostante
questo
la
riduzione
della
glicemia
viene
mantenuta
nel
tempo.
Non
vi
e’
una
spiegazione
chiara
a
questo
fenomeno,
ma
sembra
che
un’iperglicemia
cronica,
gia’
da
sola,
altera
la
secrezione
di
insulina;
con
la
correzione
delle
concentrazioni
di
glucosio
circolante,
l’insulina
migliora
gli
effetti
sui
tessuti
bersaglio.
Anche
se
l’entita’
dell’assorbimento
varia
tra
le
diverse
sulfaniluree,
sono
tutte
efficacemente
assorbite
dal
tratto
GI.
L’emivita
e’
di
circa
3-‐5
ore,
ma
i
loro
effetti
ipoglicemizzanti
sono
evidenti
per
12-‐24
ore
e
possono
essere
quindi
somministrate
solo
una
volta
al
giorno.
La
metabolizzazione
avviene
a
livello
epatico
e
l’escrezione
a
livello
renale
(pertanto
attenzione
in
pazienti
con
insufficienza
epatica
e/o
renale).
c)
Effetti
collaterali,
interazioni
tra
farmaci
e
usi
terapeutici
Le
sulfaniluree
possono
causare
reazioni
ipoglicemiche
fino
al
coma
e
cio’
rappresenta
un
particolare
pericolo
per
i
pazienti
anziani
con
una
funzione
epatica
e/o
renale
compromessa.
Un
effetto
collaterale
comune
e’
l’aumento
di
peso
di
1-‐3
kg.
Tra
gli
effetti
collaterali
meno
frequenti
vi
sono
nausea
e
vomito,
ittero
colestatico,
anemie
aplastiche
ed
emolitiche,
reazioni
di
ipersensibilita’
generalizzate.
Raramente
i
pazienti
sviluppano
un
flush
indotto
da
alcol.
L’effetto
ipoglicemizzante
delle
sulfaniluree
puo’
essere
aumentato
tramite
vari
meccanismi
(ridotto
metabolismo
epatico,
ridotta
secrezione
renale
e/o
lo
spiazzamento,
per
esempio
da
parte
di
altri
farmaci,
dai
siti
di
legame
sulle
proteine
plasmatiche).
Di
contro
altri
farmaci
possono
ridurre
l’effetto
ipoglicemizzante
delle
sulfaniluree
per
aumento
del
metabolismo
epatico,
per
aumento
dell’escrezione
renale
o
per
inibizione
della
secrezione
di
insulina.
Il
trattamento
con
le
sulfaniluree
sembra
essere
associato
ad
un
aumento
della
mortalita’
per
problemi
cardiovascolari.
Cio’
e’
probabilmente
correlato
all’espressione
del
recettore
delle
sulfaniluree
sulle
cellule
della
muscolatura
liscia
vascolare
e
sui
miociti
cardiaci,
dove
l’attivazione
da
parte
delle
sulfaniluree
previene
i
benefici
effetti
del
precondizionamento
ischemico.
Nonostante
questo
le
sulfaniluree
vengono
usate
nel
trattamento
dell’iperglicemia
nei
soggetti
con
diabete
di
tipo
2.
Tra
il
50-‐80%
di
pazienti
che
sembrano
adeguati
per
tale
trattamento,
di
fatto,
rispondono
bene
a
questa
classe
di
farmaci.
Un
numero
significativo
di
pazienti
che
rispondono
piu’
lentamente
all’inizio
del
trattamento,
poi
smettono
di
rispondere
alle
sulfaniluree
e
sviluppano
una
iperglicemia
inaccettabile
(insuccesso
secondario).
E’
stato
dimostrato
che
l’iniziale
miglioramento
del
controllo
glicemia
e’
meno
durevole
con
la
monoterapia
di
questi
farmaci
se
paragonato
alla
terapia
con
metformina
o
rosiglitazone.
Tra
le
controindicazioni
vi
sono
il
diabete
di
tipo
1,
la
gravidanza,
l’allattamento
e
per
la
prima
generazione
di
molecole
una
significativa
insufficienza
epatica
o
renale.
2)
Repaglinide
e
nateglinide
a)
Intro,
farmacodinamica
e
farmacocinetica
Sulla
base
della
gliburide
sono
stati
sviluppati
i
glinidi:
nateglinide
e
repaglinide.
Si
tratta
di
ligandi
della
proteina
SUR
che
si
legano,
come
la
gliburide,
ad
entrambi
i
siti
di
legame;
non
sono
sulfaniluree
in
quanto
la
struttura
chimica
e’
differente,
ma
il
meccanismo
d’azione
e’
identico.
Chiudendo
i
canali
KATP
della
cellula
β
viene
stimolato
il
rilascio
di
insulina.
Questi
farmaci
sono
stati
sviluppati
per
esser
piu’
potenti
delle
sulfaniluree,
ossia
devono
arrivare
prima
al
bersaglio
(ton
inferiore)
e
staccarsi
dopo
(toff
superiore).
Queste
caratteristiche
ne
consentono
una
somministrazione
multipla
nel
periodo
preprandiale
(rispetto
alla
somministrazione
di
una
o
due
volte
al
giorno
delle
sulfaniluree);
nonostante
siano
associate
come
le
sulfaniluree
ad
una
progressiva
riduzione
dell’efficacia
(insuccesso
secondario)
dopo
un
iniziale
miglioramento
del
controllo
glicemico,
entrambi
i
farmaci
sono
indicati
per
l’uso
in
pazienti
con
diabete
di
tipo
2.
La
metabolizzazione
avviene
principalmente
a
livello
epatico
da
parte
dei
CYP
pertanto
bisogna
prestare
attenzione
ai
pazienti
con
insufficienza
epatica.
b)
Effetti
collaterali
e
interazioni
tra
farmaci
Il
principale
effetto
collaterale
e’
l’ipoglicemia
(la
nateglinide
mostra
un’incidenza
minore
dei
casi
di
ipoglicemia
rispetto
alla
repaglinide
o
a
altri
secretagoghi
dell’insulina).
Alcuni
farmaci
possono
potenziare
l’azione
di
questi
farmaci,
spiazzandoli
dal
loro
legame
con
le
proteine
plasmatiche
o
alterandone
il
metabolismo,
altri
invece
possono
ridurne
l’effetto
ipoglicemizzante.
3)
Agenti
GLP-‐1
mimetici
Le
incretine
sono
ormoni
GI
rilasciati
dopo
un
pasto
e
capaci
di
stimolare
il
rilascio
di
insulina:
si
e’
visto
infatti
che
a
seconda
della
via
di
somministrazione
di
glucosio,
i
livelli
di
insulina
in
circolo
sono
differenti;
in
particolare
si
e’
visto
che
la
somministrazione
di
glucosio
per
via
orale
determina
un
maggior
rilascio
di
insulina
e
tale
effetto
viene
chiamato
effetto
incretinico.
Le
due
incretine
meglio
conosciute
sono
GLP-‐1
e
GIP:
sebbene
questi
due
peptidi
presentino
alcune
somiglianze,
essi
differiscono
in
quanto
il
GIP
non
e’
in
grado
di
stimolare
efficacemente
il
rilascio
di
insulina
e
la
riduzione
della
glicemia
in
pazienti
con
diabete
di
tipo
2;
GLP-‐1
e’
invece
efficace
e
di
conseguenza
la
via
di
segnale
di
GLP-‐1
ha
rappresentato
un
buon
bersaglio
per
lo
sviluppo
di
nuovi
farmaci.
GLP-‐1
e
glucagone
derivano
entrambi
dal
proglucagone,
un
precursore
proteico
con
cinque
domini
processati
separatamente
e
sintetizzato
dalle
cellule
α
pancreatiche,
dalle
cellule
enteroendocrine
intestinali
e
in
un
sottogruppo
di
neuroni
nel
romboencefalo.
Accanto
a
un
peptide
segnale
N-‐terminale,
si
riconoscono
il
peptide
pancreatico
correlato
alla
glicentina,
il
glucagone,
GLP-‐1
e
il
peptide
simile
al
glucagone
di
tipo
2
(GLP-‐2).
Il
processamento
della
proteina
e’
sequenziale
e
avviene
in
modo
tessuto-‐specifico.
Le
cellule
α
pancreatiche
tagliano
il
proglucagone
in
glucagone
e
in
un
peptide
C-‐terminale
di
grandi
dimensioni
che
comprende
entrambi
i
GLP.
Le
cellule
intestinali
e
gli
specifici
neuroni
processano
il
glucagone
generando
un
peptide
C-‐terminale
di
grandi
dimensioni
e
i
piu’
piccoli
GLP-‐1
e
GLP-‐2.
La
somministrazione
di
GLP-‐1
stimola
la
secrezione
di
insulina,
inibisce
il
rilascio
di
glucagone,
ritarda
lo
svuotamento
gastrico,
riduce
l’assunzione
di
cibo
e
normalizza
la
secrezione
di
insulina
a
digiuno
e
post-‐prandiale.
L’effetto
insulinotropo
di
GLP-‐1
e’
glucosio-‐dipendente
dato
che
la
secrezione
di
insulina
alle
concentrazioni
di
glucosio
in
periodo
di
digiuno
e’
minima,
anche
a
fronte
di
elevati
livelli
di
GLP-‐1
circolanti.
Gli
effetti
di
promozione
di
GLP-‐1
sull’omeostasi
glucidica
e
la
dipendenza
di
questi
effetti
dal
glucosio
sono
aspetti
benefici
di
questo
sistema
di
segnale
utili
per
trattare
il
diabete
di
tipo
2.
GLP-‐1
viene
rapidamente
inattivato
dall’enzima
dipeptidil
peptidasi
IV
(DPP-‐4),
con
un’emivita
plasmatica
di
1-‐2
minuti;
pertanto
il
peptide
naturale
non
e’
un
buon
agente
terapeutico.
Due
sono
le
strategie
intraprese
per
usare
GLP-‐1
in
terapia,
lo
sviluppo
di
agonisti
peptidici
del
recettore
GLP-‐1,
iniettabili,
DPP-‐4
resistenti
e
la
creazione
di
piccole
molecole
dotate
di
capacita’
inibitoria
nei
confronti
di
DPP-‐4.
3a)
Agonisti
del
recettore
di
GLP-‐1
a)
Intro
Ad
oggi
sono
due
gli
agonisti
del
recettore
di
GLP-‐1
disponibili
in
commercio:
l’exenatide
e
la
liraglutide.
L’exenatide
e’
usato
in
monoterapia
o
come
terapia
aggiuntiva
nei
pazienti
con
diabete
di
tipo
2
che
non
raggiungono
il
controllo
glicemico
desiderato
con
gli
altri
ipogliglicemizzanti;
si
tratta
di
un
peptide
di
39
aa
(il
GLP-‐1
ne
ha
30)
prodotto
naturalmente
da
una
lucertola
e
che
ha
un’omologia
del
50%
con
GLP-‐1.
E’
in
grado
di
interagire
col
recettore
di
GLP-‐1
e
non
viene
inattivato
dalla
DPP-‐4
(quindi
emivita
maggiore).
La
liraglutide
strutturalmente
e’
praticamente
identica
al
GLP-‐1
endogeno:
differisce
per
la
sostituzione
di
un
aa
e
per
l’aggiunta
di
uno
spaziatore
accoppiato
a
un
residio
di
acido
grasso
in
C16.
La
catena
laterale
dell’acido
grasso
permette
il
legame
all’albumina
e
rende
conto
dell’allungamento
dell’emivita.
E’
indicata
come
terapia
aggiuntiva
in
pazienti
che
non
raggiungono
il
corretto
controllo
glicemico
con
gli
altri
farmaci
ipoglicemizzanti.
Il
profilo
farmacodinamico
di
exenatide
e
liraglutide
mima
quello
di
GLP-‐1,
si
assiste
ad
un
miglioramento
del
controllo
glicemico
e
anche
perdita
di
peso
(sono
in
corso
studi,
in
particolare
la
liraglutide
potrebbe
divenire
un
farmaco
anche
contro
l’obesita’).
Vi
sono
in
fase
di
avanzata
sperimentazione
altri
agonisti
del
recettore
di
GLP-‐1
come
l’albiglutide,
una
proteina
ricombinante
ottenuta
per
fusione
di
GLP-‐1
e
albumina,
e
la
taspoglutide,
un
GLP-‐1
modificato.
Le
caratteristiche
distintive
di
questi
nuovi
farmaci
rispetto
a
quelli
oggi
presenti
in
commercio
sono
le
proprieta’
farmacocinetiche
e
il
tempo
di
esposizione
al
farmaco
del
recettore
di
GLP-‐1.
b)
Farmacodinamica
e
farmacocinetica
Tutti
gli
agonisti
del
recettore
di
GLP-‐1
hanno
un
meccanismo
d’azione
comune,
l’attivazione
del
recettore
di
GLP-‐1.
I
recettori
del
GLP-‐1
sono
espressi
nelle
cellule
β,
nelle
cellule
del
sistema
nervoso
centrale
e
periferico,
nel
cuore
e
nei
vasi,
nel
rene,
nel
polmone
e
nella
mucosa
GI.
Il
legame
degli
agonisti
con
questo
recettore
determina
l’attivazione
della
via
del
cAMP-‐PKA
e
anche
la
trasmissione
di
segnali
via
PKC
e
PI3K,
alterando
cosi’
l’attivita’
di
molti
canali
ionici.
Nelle
cellule
β
il
risultato
finale
e’
l’aumento
della
biosintesi
e
dell’esocitosi
dell’insulina
in
modo
glucosio-‐dipendente.
Nei
topi
si
e’
anche
osservato
che
l’exenatide
aumenta
l’area
occupata
dalle
isole
di
Langerhans
e
il
numero
di
cellule
β
in
esse
presenti
quindi
potrebbe
avere
anche
un
effetto
positivo
di
protezione
a
livello
pancreatico.
L’exenatide
viene
somministrato
due
volte
al
giorno
per
via
sottocutanea
e
viene
rapidamente
assorbita,
raggiungendo
picchi
di
concentrazione
plasmatica
in
circa
due
ore
ed
avendo
un’emivita
di
circa
60-‐90
minuti.
E’
stato
sviluppata
una
forma
a
rilascio
prolungato
dell’exenatide
(exenatide
LAR)
per
una
somministrazione
di
una
sola
volta
alla
settimana
e
studi
hanno
dimostrato
che
possiede
le
stesse
proprieta’
farmacodinamiche
dell’exenatide,
ma
e’
piu’
potente.
La
liraglutide
viene
somministrata
per
via
sottocutanea
una
volta
al
giorno;
non
si
osservano
picchi
di
concentrazione
a
livello
plasmatico
e
l’emivita
e’
di
circa
12-‐14
ore.
c)
Effetti
collaterali
e
interazioni
tra
farmaci
L’effetto
collaterale
degli
agonisti
del
recettore
di
GLP-‐1
mima
la
farmacologia
del
GLP-‐1
endogeno.
Nel
40-‐50%
dei
pazienti
la
somministrazione
di
questi
farmaci
puo’
causare
nausea
e
vomito
in
modo
dose-‐dipendente,
ma
questi
effetti
tendono
a
svanire
nel
tempo.
Inoltre
si
assiste
ad
un
ritardo
nello
svuotamento
gastrico
(percio’
attenzione
se
si
cosomministrano
altri
farmaci
che
interferiscono
anch’essi
con
lo
svuotamento
gastrico)
e
vi
puo’
essere
un’alterazione
della
farmacocinetica
di
alcuni
farmaci
che
richiedono
un
rapido
assorbimento
GI.
In
assenza
di
altri
farmaci
antidiabetici
che
possono
provocare
un
marcato
abbassamento
della
glicemia,
la
comparsa
di
ipoglicemia
e’
piuttosto
rara.
Nel
caso
dell’exenatide
(non
della
liraglutide)
si
puo’
osservare
la
comparsa
in
circolo
di
anticorpi
e
possono
verificarsi
reazioni
nel
sito
di
iniezione.
Sembra
esistere
una
possibile
associazione
tra
il
trattamento
con
questi
farmaci
e
l’insorgenza
di
pancreatiti,
fatali
o
non
fatali,
sia
di
tipo
emorragico
sia
di
tipo
necrotizzante:
non
si
sa
molto
sul
motivo,
forse
e’
legato
al
fatto
che
aumentano
il
numero
di
cellule
β
bloccandone
la
necrosi
e
quindi
forse
bloccano
l’apoptosi
anche
di
altre
cellule.
3b)
Inibitori
di
DPP-‐4
a)
Intro,
farmacodinamica
e
farmacocinetica
DPP-‐4
e’
una
serino-‐proteasi
largamente
distribuita
in
tutto
l’organismo,
ma
sebbene
i
potenziali
substrati
di
questo
enzima
siano
parecchi,
essa
sembra
avere
un
ruolo
specifico
nell’inattivazione
di
GLP-‐1
e
GIP.
Gli
inibitori
di
DPP-‐4
aumentano
l’AUC
(area
sotto
la
curva)
di
GLP-‐1
e
GIP
quando
la
loro
secrezione
e’
stimolata
da
un
pasto.
Sono
disponibili
5
farmaci
ora:
sitagliptina,
vildagliptina,
saxagliptina,
linagliptina,
alogliptina.
Si
sono
tutti
dimostrati
capaci
di
ridurre
la
piu’
bassa
attivita’
dosabile
di
DPP-‐4
di
piu’
del
95%
per
12
ore.
Cio’
causa
un
aumento
di
piu’
del
doppio
delle
concentrazioni
plasmatiche
di
GIP
e
GLP-‐1
attivi
ed
e’
associato
a
un
aumento
della
secrezione
d’insulina,
ridotti
livelli
di
glucagone
e
miglioramento
dell’iperglicemia
sia
post-‐
prandiale
sia
a
digiuno.
Non
sembrano
mostrare
effetti
diretti
sulla
sensibilita’
all’insulina,
sulla
motilita’
gastrica
o
sul
senso
di
sazieta’;
un
trattamento
cronico
non
interferisce
sul
peso
corporeo.
Gli
inibitori
di
DPP-‐4
possono
essere
usati
in
monoterapia
o
in
combinazione
con
altri
ipoglicemizzanti
e
vengono
somministrati
una
volta
al
giorno.
Sono
assorbiti
a
livello
intestinale
e
circolano
prevalentemente
in
forma
non
legata
e
vengono
eliminati
immodificati
dalle
urine.
b)
Effetti
collaterali
Non
sono
stati
osservati
particolari
effetti
collaterali,
a
parte
la
possibile
associazione
a
un’insorgenza
di
pancreatiti,
per
lo
stesso
motivo
gia’
enunciato
per
gli
agonisti
del
recettore
di
GLP-‐1.
4)
Inibitori
del
cotrasportatore
2
sodio
glucosio
(SGLT2)
a)
Intro
SGLT2
e’
espresso
nei
tubuli
prossimali
renali
e
la
sua
funzione
e’
quella
di
riassorbire
glucosio
dal
lume
del
tubulo
nelle
cellule
epiteliali;
il
glucosio
viene
poi
rimandato
in
circolo
dai
trasportatori
del
glucosio
1
e
2
(GLUT1
e
GLUT2).
SGLT2
e’
un
cotrasportatore
a
bassa
affinita’
ma
elevata
capacita’
che
trasporta
sodio
e
glucosio
in
rapporto
1:1
e
che
rende
contro
della
maggior
parte
del
recupero
nel
nefrone
del
glucosio
filtrato.
SGLT1,
localizzato
nel
tubulo
distale,
ha
un
ruolo
molto
meno
importante.
Ci
sono
parecchi
inibitori
del
SGLT2
disponibili
per
via
orale,
alcuni
nella
fase
di
sviluppo
clinico:
dapaglifozin,
canaglifozin,
ipraglifozin,
tofoglifozin,
empaglifozin.
b)
Farmacodinamica,
usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
Questi
composti
aumentano
l’escrezione
di
glucosio
tramite
le
urine
andandone
ad
inibire
il
riassorbimento
a
livello
dei
SGLT2.
Viene
ridotta
la
glicemia
e
la
A1C
(livello
di
emoglobina
glicata)
e
si
e’
osservato
un
moderato
aumento
della
perdita
di
peso.
Ad
oggi
vengono
indicati
per
il
trattamento
del
diabete
di
tipo
2,
ma
il
meccanismo
d’azione
suggerisce
che
potrebbero
essere
efficaci
anche
per
quello
di
tipo
1
o
per
altre
condizioni
che
conducono
a
uno
stato
iperglicemico
e
pertanto
sono
in
corso
studi
per
dimostrarne
l’efficacia.
I
dati
degli
studi
clinici
suggeriscono
che
sono
farmaci
generalmente
ben
tollerati:
e’
descritto
un
moderato
effetto
diuretico,
rare
avvisaglie
di
ipoglicemia
e
un
minimo
aumento
delle
infezioni
del
tratto
urinario.
Riassunto
clinico
per
il
trattamento
del
diabete
di
tipo
2
Ci
sono
diversi
utili
algoritmi
o
diagrammi
a
flusso
per
il
trattamento
del
diabete
di
tipo
2;
sono
possibili
numerose
vie
o
combinazioni
di
farmaci
qualora
non
si
raggiunga
un
adeguato
controllo
della
glicemia.
Terapia
dell’ipertensione
La
pressione
generata
dalla
contrazione
ventricolare
e’
la
forza
propulsiva
che
spinge
il
sangue
attraverso
il
sistema
CV.
Sostenendo
la
pressione
propulsiva
del
flusso
sanguigno
durante
il
rilasciamento
ventricolare
le
arterie
sono
responsabili
di
mantenere
un
flusso
continuo
attraverso
i
vasi
sanguigni.
La
pressione
sanguigna
piu’
elevata
e’
quella
presente
nelle
arterie;
essa
decresce
mano
a
mano
che
il
sangue
fluisce
attraverso
il
sistema
circolatorio
conseguentemente
alla
resistenza
al
flusso
offerta
dai
vasi.
Nella
circolazione
sistemica,
l’elevata
pressione
dell’aorta
e’
dovuta
alla
pressione
generata
dal
ventricolo
sinistro.
La
pressione
aortica
raggiunge
in
media
un
valore
massimo
di
120
mmHg
durante
la
sistole
ventricolare
(pressione
sistolica),
poi
scende
costantemente
a
un
minimo
di
80
mmHg
durante
la
diastole
ventricolare
(pressione
diastolica).
E’
importante
precisare
che
la
pressione
nel
ventricolo
scende
a
0
mmHg
quando
esso
si
rilascia,
mentre
la
pressione
diastolica
nelle
grandi
arterie
rimane
relativamente
alta;
cio’
riflette
la
capacita’
delle
grandi
arterie
di
immagazzinare
energia
tramite
distensione
delle
loro
pareti
elastiche.
In
diastole
il
cuore
contiene
100-‐120
mL
di
sangue
(volume
telediastolico)
e
in
sistole
emette
circa
60
mL
di
sangue
quindi
la
frazione
di
eiezione
e’
pari
al
50%.
La
pressione
sanguigna
arteriosa
riflette
l’andamento
della
pressione
creata
dall’azione
di
pompa
del
cuore.
Dal
momento
che
la
pressione
arteriosa
e’
pulsatile
si
usa
un
singolo
valore,
la
pressione
arteriosa
media
(PAM),
per
rappresentare
l’andamento
della
pressione:
PAM=Pdiastolica+1/3(Psistolica-‐Pdiastolica).
La
PAM
e’
piu’
vicina
alla
pressione
diastolica
che
alla
sistolica,
perche’
la
diastole
dura
un
tempo
circa
doppio
della
sistole.
La
pressione
arteriosa
e’
un
equilibrio
tra
il
flusso
sanguigno
che
entra
nelle
arterie
e
quello
che
ne
esce:
se
il
flusso
in
entrata
supera
quello
in
uscita
il
sangue
si
accumula
nelle
arterie
e
la
PAM
aumenta,
viceversa
se
il
flusso
in
uscita
supera
quello
in
entrata.
Il
sangue
che
fluisce
nell’aorta
corrisponde
alla
gittata
cardiaca
del
ventricolo
sinistro.
Il
flusso
sanguigno
che
esce
dalle
arterie
e’
influenzato
prima
di
tutto
dalla
resistenza
periferica,
definita
come
resistenza
al
flusso
offerta
dalle
arteriole.
La
PAM
e’
quindi
proporzionale
alla
gittata
cardiaca
(GC)
moltiplicata
per
la
resistenza
(R)
delle
arteriole.
Altri
due
fattori
possono
influenzare
la
PAM:
il
volume
totale
del
sangue
e
la
distribuzione
del
sangue
nella
circolazione
sistemica.
Sebbene
il
volume
di
sangue
all’interno
del
sistema
cardiocircolatorio
sia
solitamente
relativamente
costante,
le
sue
modifiche
possono
influenzare
la
pressione
arteriosa.
Allo
stesso
modo
anche
la
distribuzione
relativa
del
sangue
fra
i
compartimenti
arterioso
e
venoso
della
circolazione
gioca
un
ruolo
importante
nel
mantenimento
della
pressione
arteriosa;
le
vene
infatti
agiscono
come
riserva
di
volume,
contenendo
il
sangue
che
puo’
essere
ridistribuito
alle
arterie
quando
se
ne
verifichi
la
necessita’.
Si
definisce
gittata
cardiaca
(GC)
il
volume
di
sangue
che
il
ventricolo
destro
e
il
ventricolo
sinistro
riescono
ad
espellere
in
un
minuto
attraverso
l’arteria
polmonare
e
l’aorta,
rispettivamente:
la
GC
e’
determinata
dal
prodotto
tra
frequenza
cardiaca
(la
frequenza
cardiaca
normale
a
riposo
e’
di
circa
72-‐75
battiti
al
minuto)
e
gittata
sistolica
(circa
70mL).
La
gittata
sistolica
e’
la
quantita’
di
sangue
pompato
da
un
ventricolo
ad
ogni
sistole
ventricolare
(si
puo’
applicare
ad
entrambi
i
ventricoli
anche
se
solitamente
e’
riferito
al
ventricolo
sinistro).
La
gittata
sistolica,
o
volume
sistolico,
è
intrinsecamente
controllato
dal
precarico
(il
grado
di
distensione
dei
ventricoli
prima
della
sistole).
Un
aumento
del
volume
o
della
velocità
del
ritorno
venoso
incrementa
il
precarico
e,
aumenterà
il
volume
sistolico.
Una
riduzione
del
ritorno
venoso
avrà
effetti
opposti,
causando
una
riduzione
del
volume
sistolico.
Un
aumento
del
postcarico
(che
corrisponde
alla
pressione
aortica
durante
la
sistole)
riduce
il
volume
sistolico.
Sebbene
esso
non
influenzi
il
volume
sistolico
nei
soggetti
sani,
un
postcarico
aumentato
ostacola
l'eiezione
del
sangue
da
parte
dei
ventricoli,
determinando
una
riduzione
del
volume
sistolico.
Un
aumento
del
postcarico
è
presente,
ad
esempio,
nella
stenosi
aortica
e
nell'ipertensione
arteriosa.
Il
controllo
della
pressione
arteriosa
comprende
risposte
rapide
provenienti
dal
sistema
nervoso
simpatico
e
risposte
piu’
lente
dai
reni.
L’ipertensione
e’
la
piu’
comune
malattia
cardiovascolare;
la
prevalenza
dell’ipertensione
aumenta
con
l’eta’
ed
a
parita’
di
eta’
un
aumento
del
SBP
e
della
DBP
determina
un
aumento
del
rischio
CV
(vi
e’
una
relazione
lineare
tra
mortalita’
e
pressione
arteriosa
e
nei
giovani
le
rette
hanno
una
pendenza
maggiore,
quindi
una
piccola
variazione
di
pressione
si
traduce
in
un
alto
aumento
del
rischio).
Gli
elevati
valori
pressori
determinano
modificazioni
patologiche
a
livello
vascolare
e
ipertrofia
del
ventricolo
sinistro
(poiche’
l’aumento
della
PA
e’
associato
ad
un
aumento
del
postcarico
e
per
garantire
questo
la
parete
del
cuore
si
ispessisce).
Come
conseguenza
l’ipertensione
e’
la
causa
principale
di
ictus
(stroke
ischemico
ossia
dovuto
alla
rottura
di
una
placca
aterosclerotica
a
livello
di
un
vaso
cerebrale
e
stroke
emorragico
ossia
la
rottura
di
capillari
a
livello
dell’encefalo);
e’
uno
dei
principali
fattori
di
rischio
per
la
coronaropatia
e
per
le
sue
complicanze
e
cioe’
infarto
miocardico
e
morte
cardiaca
improvvisa
(il
fluido
ad
alta
pressione
determina
una
maggior
erosione
della
parete
arteriosa
e
quindi
dell’ateroma);
inoltre
e’
uno
dei
principali
fattori
che
contribuiscono
all’insorgenza
di
scompenso
cardiaco
(associato
all’ipertrofia
ventricolare
poiche’
il
collagene
depositato
dai
miociti
per
far
fronte
all’aumentato
postcarico
non
e’
in
grado
di
contrarsi),
di
insufficienza
renale
(si
altera
la
differenza
di
pressione
a
livello
del
glomerulo
e
si
ha
iperfiltrazione
a
livello
renale
con
proteinuria
e
ipoalbuminemia)
e
alla
dissecazione
di
aneurismi
dell’aorta.
L’ipertensione
e’
convenzionalmente
definita
come
la
persistenza
di
valori
di
pressione
arteriosa
(PA)
≥140/90mmHg,
un
criterio,
questo,
che
caratterizza
un
gruppo
di
pazienti
il
cui
rischio
di
malattie
CV
correlate
all’ipertensione
e’
abbastanza
elevato
da
meritare
un
trattamento
medico.
Il
rischio
aumenta
progressivamente
con
valori
pressori
sisto-‐diastolici
maggiori.
I
criteri
per
la
classificazione
dell’ipertensione
negli
adulti
sono
(nota
bene
se
la
SBP
e
la
DBP
ricadono
in
categorie
diverse,
si
assegna
la
categoria
di
livello
piu’
alto):
1)
normale:
SBP
<120
e
DBP
<80
2)
preipertensione:
SBP
120-‐139
o
DBP
80-‐89
3)
ipertensione,
stadio
1:
SBP
140-‐159
o
DBP
90-‐99
4)
ipertensione,
stadio
2:
SBP
≥160
o
DBP
≥100
Sebbene
molti
studi
clinici
classifichino
la
gravita’
dell’ipertensione
in
base
alla
DBP,
il
progressivo
aumento
dei
valori
sistolici
e’
ugualmente
predittivo
di
eventi
CV
avversi.
Superati
i
50
anni
di
eta’
i
valori
di
SBP
sono
meglio
correlati
al
rischio
CV
rispetto
ai
valori
di
DBP.
La
SBP
tende
ad
aumentare
in
maniera
sproporzionatamente
maggiore
negli
anziani
a
causa
della
ridotta
compliance
vascolare
associata
all’eta’
e
all’aterosclerosi.
Vi
sono
due
tipi
di
ipertensione:
1)
Ipertensione
primaria
(essenziale):
rappresenta
il
92-‐94%
dei
casi
ed
e’
sostanzialmente
idiopatica.
Vi
e’
una
predisposizione
genetica
e
i
fattori
di
rischio
sono
rappresentati
da
eta’,
sesso
(maggiore
nell’uomo
e
nella
donna
post-‐menopausa),
obesita’,
vita
sedentaria
e
alimentazione
(sale,
grassi,
alcol).
2)
Ipertensione
secondaria:
e’
presente
nel
5%
dei
casi
ed
e’
determinata
dalla
presenza
di
una
ulteriore
patologia,
quindi
e’
secondaria
all’insorgenza
di
questa.
Puo’
essere
renale
(vascolare,
ossia
associata
ad
una
stenosi
dell’arteria
renale
con
conseguente
variazione
della
pressione
sentita
dai
barocettori,
o
parenchimale,
ossia
associata
ad
ipersecrezione
di
renina),
endocrina
(surrenale,
associata
a
iperaldosteronismo
o
feocromocitoma,
ossia
aumentata
secrezione
di
noradrenalina
da
parte
del
surrene;
iperparatiroidismo,
associata
a
ipercalcemia)
o
associata
alla
coartazione
dell’aorta
(condizione
congenita
in
cui
l’aorta
si
restringe).
Principi
di
terapia
antipertensiva
La
terapia
non
farmacologica
costituisce
un’importante
componente
del
trattamento
di
tutti
i
pazienti
ipertesi:
in
molti
pazienti
ipertesi
in
stadio
1
la
pressione
arteriosa
puo’
essere
adeguatamente
controllata
dall’associazione
di
calo
ponderale
(nei
soggetti
sovrappeso),
restrizione
dell’introito
di
sodio,
incremento
dell’attivita’
fisica
aerobica
e
ridotto
consumo
di
alcol.
Queste
modifiche
dello
stile
di
vita,
sebbene
difficili
da
realizzare
in
molti
soggetti,
possono
facilitare
il
controllo
farmacologico
della
pressione
arteriosa.
Come
spiegato
precedentemente
la
pressione
arteriosa
e’
il
prodotto
della
gittata
cardiaca
e
delle
resistenze
vascolari
periferiche
pertanto
i
farmaci
andranno
ad
agire
su
uno
o
entrambi
questi
fattori.
E’
possibile
andare
a
ridurre
la
gittata
cardiaca
mediante
inibizione
della
contrattilita’
cardiaca
o
per
riduzione
della
pressione
di
riempimento
ventricolare;
quest’ultima
puo’
essere
ottenuta
per
azione
sul
tono
venoso
o,
per
effetto
sui
reni,
sul
volume
ematico.
Per
quanto
riguarda
le
resistenze
periferiche
e’
possibile
agire
sulla
muscolatura
liscia
determinando
il
rilassamento
dei
vasi
di
resistenza
o
interferendo
con
l’attivita’
di
sistemi
che
producono
contrazione
dei
vasi
di
resistenza
(es.
sistema
nervoso
simpatico
o
il
sistema
RAS).
I
farmaci
antipertensivi
possono
essere
classificati
in
base
al
loro
sito
e
meccanismo
d’azione.
Le
conseguenze
emodinamiche
di
un
trattamento
cronico
sono
di
seguito
illustrate
e
viene
fornito
anche
un
quadro
dei
possibili
effetti
complementari
di
una
terapia
di
associazione
con
due
o
piu’
farmaci.
L’impiego
simultaneo
di
farmaci
con
meccanismi
d’azione
ed
effetti
emodinamici
simili
produce
spesso
un
modesto
beneficio
aggiuntivo.
Peraltro,
l’associazione
di
farmaci
che
appartengono
a
classi
diverse
rappresenta
una
strategia
comunemente
utilizzata
per
ottenere
un
controllo
efficace
della
pressione
arteriosa
riducendo
al
minimo
gli
effetti
collaterali
correlati
al
dosaggio.
Terapia
farmacologica
dell’ipertensione
1)
Diuretici
L’unita’
funzionale
deputata
alla
formazione
dell’urina
nel
rene
e’
il
nefrone,
costituito
da
un
apparato
filtrante,
il
glomerulo,
collegato
a
una
lunga
porzione
tubulare
che
riassorbe
e
influenza
le
caratteristiche
dell’ultrafiltrato
glomerulare.
Il
rene
e’
deputato
alla
filtrazione
di
quantita’
elevate
di
plasma,
al
riassorbimento
delle
sostanze
che
l’organismo
deve
conservare
e
all’eliminazione
e/o
secrezione
di
quelle
che
devono
essere
espulse.
Nell’uomo
i
due
reni
producono
circa
120
mL/min
di
filtrato,
ma
soltanto
1
mL/min
viene
escreto
come
urina;
quindi
piu’
del
99%
dell’ultrafiltrato
glomerulare
viene
riassorbito.
Nei
capillari
glomerulari
una
parte
dell’acqua
contenuta
nel
plasma
e’
costretta
a
passare
attraverso
un
filtro
costituito
principalmente
da
tre
strati:
le
cellule
fenestrate
dei
capillari,
la
lamina
basale
sottostante
a
esse
e
i
diaframmi
filtranti
a
fessura
formati
dalle
cellule
epiteliali
che
ricoprono
la
lamina
basale
verso
il
suo
lato
urinario.
Le
sostanze
disciolte
di
piccole
dimensioni
fluiscono
con
l’acqua
filtrata
(trascinamento
da
solvente)
nello
spazio
urinario
(di
Bowman),
mentre
gli
elementi
figurati
e
le
macromolecole
sono
trattenuti
da
questa
barriera.
Per
ogni
singolo
nefrone
la
velocita’
di
filtrazione
glomerulare
e’
funzione
della
pressione
idrostatica
nei
capillari
glomerulari,
della
pressione
idrostatica
nello
spazio
di
Bowman,
della
pressione
osmotica
colloidale
media
nei
capillari
glomerulari
e
nel
tubulo
prossimale,
del
coefficiente
di
ultrafiltrazione.
Questo
coefficiente
e’
determinato
dalle
proprieta’
chimico-‐fisiche
della
membrana
filtrante
e
dall’area
superficiale
disponibile
per
la
filtrazione;
la
differenza
di
pressione
idrostatica
dipende
principalmente
dalla
pressione
arteriosa
e
dalla
proporzione
con
cui
questa
pressione
e’
trasmessa
ai
capillari
glomerulari.
Cio’
e’
regolato
dalle
resistenze
relative
pre-‐
e
postglomerulari.
La
pressione
osmotica
colloidale
nel
tubulo
prossimale
e’
trascurabile
(la
quota
di
proteine
filtrate
di
norma
e’
bassissima),
mentre
quella
nei
capillari
glomerulari
dipenda
dalla
concentrazione
proteica
nel
sangue
arterioso
che
entra
nel
glomerulo
e
dal
flusso
ematico
di
ogni
nefrone.
Il
tubulo
prossimale
e’
contiguo
alla
capsula
di
Bowman
e
segue
un
decorso
tortuoso
fino
a
una
porzione
piu’
rettilinea
che
si
spinge
nella
zona
midollare.
Il
tubulo
contorto
prossimale
in
condizioni
normali
e’
il
responsabile
del
65%
di
Na+
filtrato
e
poiche’
la
permeabilita’
all’acqua
e’
elevata,
il
riassorbimento
e’
essenzialmente
isotonico.
Proseguendo
verso
la
zona
midollare
il
tubulo
forma
un
ansa
ad
U,
l’ansa
di
Henle,
che
poi
ritorna
nella
zona
corticale.
Nel
tratto
discendente
dell’ansa
la
permeabilita’
all’acqua
e’
molto
elevata,
mentre
quella
per
NaCl
e
urea
e’
limitata.
Nel
tratto
ascendente
avviene
un
riassorbimento
attivo
di
NaCl,
ma
non
di
acqua
e
urea,
e
circa
il
25%
del
Na+
filtrato
e’
riassorbito
a
questo
livello.
Il
tratto
ascendente
decorre
poi
tra
le
arteriole
afferenti
ed
efferenti
ed
e’
in
contatto
con
l’arteriola
afferente
grazie
a
un
gruppo
di
cellule
specifiche
noto
come
macula
densa.
La
macula
densa
ha
il
compito
di
tenere
controllata
la
concentrazione
di
NaCl
in
uscita
dall’ansa:
se
la
concentrazione
e’
troppo
alta,
la
macula
densa
invia
un
segnale
all’arteriola
afferente
del
nefrone,
causandone
la
costrizione.
Cio’
permette
una
riduzione
della
velocita
di
filtrazione
glomerulare,
consentendo
all’organismo
di
proteggersi
dalla
perdita
di
sali
ed
acqua.
Inoltre
la
macula
densa
regola
il
rilascio
di
renina
dalle
cellule
iuxtaglomerulari
adiacenti
nella
parete
dell’arteriola
afferente.
Dopo
la
macula
densa
il
tubulo
cambia
morfologia
diventando
tubulo
contorto
distale
il
quale,
analogamente
al
tratto
ascendente
dell’ansa,
puo’
trasportare
attivamente
NaCl
e
risulta
impermeabile
all’acqua.
Queste
caratteristiche
permettono
di
avere
un’urina
diluita
e
il
fluido
nel
tubulo
a
livello
del
tubulo
contorto
distale
risulta
ipotonico
indipendentemente
dallo
stato
di
idratazione.
Il
sistema
dei
dotti
collettori
e’
un’area
di
controllo
fine
della
composizione
e
del
volume
dell’ultrafiltrato:
a
questo
livello
avvengono
le
ultime
modifiche
nella
composizione
di
elettroliti
in
un
processo
mediato
dall’aldosterone.
L’ormone
antidiuretico
(ADH),
inoltre,
regola
la
permeabilita’
all’acqua
di
questo
tratto
del
nefrone.
I
tratti
piu’
distali
del
dotto
collettore
attraversano
la
zona
midollare,
dove
il
fluido
interstiziale
e’
notevolemente
ipertonico.
In
assenza
di
ADH
il
sistema
dei
dotti
collettori
e’
impermeabile
all’acqua
e
l’urina
risulta
pertanto
diluita.
In
presenza
di
acqua
il
tratto
e’
invece
permeabile
permettendo
cosi’
all’acqua
di
esser
riassorbita
grazie
all’elevato
gradiente
di
concentrazione
esistente
tra
il
liquido
tubulare
e
l’interstizio
midollare
(producendo
quindi
urina
piu’
concentrata).
Vi
sono
vari
meccanismi
di
trasporto
grazie
ai
quali
i
soluti
sono
in
grado
di
attraversare
le
membrane
delle
cellule
epiteliali
renali:
I
diuretici
sono
farmaci
che
per
definizione
aumentano
la
velocita’
del
flusso
urinario;
tuttavia
essi
possono
essere
utili
anche
per
la
loro
capacita’
di
aumentare
la
velocita’
di
escrezione
di
Na+
e
di
un
anione
ad
esso
accoppiato,
generalmente
Cl-‐.
Nell’organismo
NaCl
e’
il
principale
responsabile
del
volume
dei
liquidi
extracellulari
e
la
maggior
parte
delle
applicazioni
cliniche
dei
diuretici
e’
finalizzata
alla
riduzione
del
volume
del
liquido
extracellulare
attraverso
la
riduzione
del
contenuto
corporeo
totale
di
NaCl.
Una
concentrazione
eccessiva
di
Na+
determina
un
accumulo
di
liquidi
con
conseguente
edema
polmonare
e,
d’altra
parte
una
concentrazione
troppo
bassa
di
Na+
provoca
perdita
di
fluidi
e
collasso
cardiovascolare.
Anche
se
la
somministrazione
cronica
di
un
natriuretico
provoca
una
notevole
carenza
di
Na+
corporeo,
la
natriuresi
tende
ad
esaurirsi
nel
tempo
tramite
meccanismi
di
compensazione
che
fanno
in
modo
che
l’escrezione
di
sodio
sia
adeguata
al
suo
apporto.
I
diuretici
non
solo
alterano
l’escrezione
di
sodio,
ma
possono
modificare
anche
il
comportamento
di
altri
cationi
(es.
K+,
H+,
Ca2+,
Mg2+),
di
anioni
(es.
Cl-‐,
HCO3-‐
e
H2PO4-‐)
e
dell’acido
urico.
Tieni
a
mente
che
un
natriuretico
e’
sempre
anche
un
diuretico
perche’
il
movimento
di
acqua
e’
associato
a
quello
di
altri
soluti,
mentre
non
vale
il
viceversa.
E’
possibile
effettuare
una
classificazione
in
base
al
meccanismo
d’azione
dei
diuretici:
1a)
Inibitori
dell’anidrasi
carbonica
a)
Intro
Le
cellule
epiteliali
del
tubulo
contorto
prossimale
sono
ampiamente
dotate
di
anidrasi
carbonica,
un
enzima
che
si
trova
sia
nelle
membrane
luminali
e
basolaterali
sia
nel
citoplasma.
Questo
enzima
svolge
un
ruolo
chiave
nel
riassorbimento
di
NaHCO3
(bicarbonato
di
sodio)
e
nella
secrezione
degli
acidi.
I
tre
inibitori
dell’anidrasi
carbonica
sono
l’acetazolamide
(il
piu’
importante),
la
metazolamide
e
la
clorfenamide.
L’elemento
in
comune
nella
struttura
chimica
e’
la
presenza
di
un
gruppo
sulfammidico
non
sostituito.
b)
Farmacodinamica
Nel
tubulo
prossimale
l’energia
libera
del
gradiente
di
Na+
determinato
dalla
pompa
basolaterale
del
Na+
e’
utilizzata
da
un
antiportatore
Na+-‐H+
della
membrana
luminale
per
trasportare
H+
nel
lume
tubulare
in
cambio
di
Na+.
Nel
lume
gli
H+
reagiscono
con
il
HCO3-‐
(ione
idrogenocarbonato)
filtrato
a
formare
H2CO3
(acido
carbonico)
che
in
presenza
di
anidrasi
carbonica
si
scinde
rapidamente
in
CO2
e
acqua.
La
CO2
e’
lipofila
e
diffonde
rapidamente
dentro
la
cellula
dove
reagisce
con
l’acqua
a
dare
H2CO3
(questo
processo
e’
catalizzato
dall’anidrasi
carbonica
citoplasmatica).
L’attivita’
continua
dell’antiportatore
Na+-‐H+
mantiene
una
bassa
concentrazione
di
protoni
all’interno
della
cellula
in
modo
che
H2CO3
si
ionizza
spontaneamente
generando
H+
e
HCO3-‐
e
creando
un
gradiente
elettrochimico
per
HCO3-‐
attraverso
la
membrana
basolaterale.
Il
gradiente
elettrochimico
per
il
HCO3-‐
e’
sfruttata
dal
simportatore
Na+-‐HCO3-‐
localizzato
nella
membrana
basolaterale
per
trasportare
NaHCO3
nello
spazio
interstiziale.
L’effetto
complessivo
e’
il
trasporto
di
NaHCO3
dal
lume
del
tubulo
allo
spazio
interstiziale,
seguito
dal
passaggio
di
acqua.
La
rimozione
di
acqua
aumenta
la
concentrazione
di
Cl-‐
nel
lume
del
tubulo
e,
di
conseguenza,
l’anione
diffonde
secondo
gradiente
di
concentrazione
nello
spazio
interstiziale
per
via
paracellulare.
L’inibizione
dell’anidrasi
carbonica
e’
associata
ad
un
rapido
aumento
dell’escrezione
urinaria
di
HCO3-‐
pari
a
quasi
il
35%
del
carico
filtrato.
Ne
consegue
che
il
pH
urinario
si
innalza
fino
a
circa
8
e
si
manifesta
acidosi
metabolica;
quest’ultima
condizione
e’
sia
un
effetto
collaterale
sia
una
controindicazione
all’uso
di
questi
farmaci.
Accanto
all’aumentata
escrezione
di
bicarbonati,
si
assiste
ad
un
aumento
della
concentrazione
di
Na+
e
Cl-‐
nell’ultrafiltrato;
tuttavia
entrambi
questi
elettroliti
vengono
efficacemente
riassorbiti
nei
tratti
di
nefrone
seguenti.
Vi
e’
inoltre
un
aumento
dell’escrezione
di
K+.
c)
Usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
L’indicazione
principale
di
questi
farmaci
e’
il
glaucoma
(riducono
la
pressione
intraoculare);
inoltre
sono
in
grado
di
alleviare
i
sintomi
del
mal
di
montagna.
Altra
indicazione
e’
la
correzione
di
un’alcalosi
metabolica;
l’acidosi
metabolica
invece,
come
gia’
detto
sopra,
e’
sia
un
effetto
collaterale
sia
una
controindicazione
all’uso
di
questi
farmaci.
NB
La
condizione
di
acidosi
metabolica
si
verifica
quando
nel
sangue
aumenta
la
quantita’
di
acidi,
il
che
porta
ad
una
diminuzione
del
valore
di
pH;
l’alcalosi
metabolica
al
contrario
e’
caratterizzata
da
un
aumento
del
pH
del
sangue.
1b)
I
diureti
osmotici
a)
Intro
I
diuretici
osmotici
sono
filtrati
spontaneamente
nel
glomerulo,
riassorbiti
in
misura
limitata
nel
tubulo
renale
e
risultano
abbastanza
inerti
farmacologicamente.
A
dosi
sufficientemente
elevate
innalzano
in
modo
significativo
l’osmolalita’
del
plasma
e
del
liquido
tubulare.
I
diuretici
osmotici
oggi
disponibili
sono
urea,
glicerina
e
mannitolo.
b)
Farmacodinamica
I
diuretici
osmotici
agiscono
aumentando
l’uscita
di
acqua
a
livello
del
tratto
discendente
dell’ansa
di
Henle
(viene
ridotto
il
riassorbimento
di
acqua)
ed
esplicano
la
loro
azione
probabilmente
con
un
meccanismo
osmotico
nei
tubuli
e
riducendo
l’ipertonia
della
midollare.
c)
Usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
Questi
farmaci
sono
indicati
in
caso
di
intossicazioni
(aumentano
la
diuresi)
e
in
caso
di
ipertensione
endocranica/intraoculare
(diminuiscono
il
volume
intracellulare).
Uno
degli
effetti
collaterali
e’
l’edema
polmonare:
questo
perche’
i
diuretici
osmotici
si
distribuiscono
nei
fluidi
extracellulari,
contribuendo
cosi’
a
determinarne
l’osmolalita’;
l’acqua
e’
percio’
richiamata
dai
compartimenti
intracellulari
e
il
volume
extracellulare
aumenta.
La
perdita
di
acqua,
in
presenza
di
un
eccesso
di
elettroliti,
inoltre
puo’
provocare
ipernatriemia
e
disidratazione.
Questa
classe
di
farmaci
e’
controindicata
nei
pazienti
affetti
da
insufficienza
cardiaca.
1c)
Diuretici
dell’ansa
a)
Intro
I
farmaci
appartenenti
a
questa
classe
di
diuretici
inibiscono
il
simporto
Na+-‐K+-‐2Cl-‐
a
livello
del
tratto
ascendente
dell’ansa
di
Henle
e
responsabile
normalmente
del
riassorbimento
del
25%
di
sodio
filtrato.
Sebbene
il
tubulo
prossimale
riassorba
il
65%
di
Na+
filtrato,
i
farmaci
che
agiscono
solo
a
questo
livello
hanno
un’efficacia
limitata
poiche’
il
tratto
ascendente
ha
una
grande
capacita’
di
riassorbimento;
anche
i
farmaci
che
agiscono
a
“valle”
dell’ansa
di
Henle
hanno
un’efficacia
limitata
poiche’
solo
una
piccola
%
di
sodio
filtrato
raggiunge
i
segmenti
piu’
distali.
Gli
inibitori
del
simporto
Na+-‐K+-‐2Cl-‐
a
livello
del
tratto
ascendente
dell’ansa
di
Henle
invece
sono
molto
efficaci.
Dal
punto
di
vista
della
struttura
chimica
sono
differenti;
sono
oggi
disponibili
vari
farmaci
tra
cui
da
ricordare
furosemide
e
torasemide.
b)
Farmacodinamica
Il
simporto
Na+-‐K+-‐2Cl-‐
sfrutta
l’energia
libera
creata
dal
gradiente
elettrochimico
di
Na+,
determinato
dalla
pompa
basolaterale
del
Na+,
e
trasporta,
contro
gradiente,
K+
e
Cl-‐
all’interno
della
cellula.
I
canali
per
il
K+
posti
nella
membrana
luminale
sono
utilizzati
come
via
di
riciclaggio
apicale
di
questo
catione
e
i
canali
basolaterali
per
il
Cl-‐
rappresentano
la
via
di
uscita
basolaterale
per
il
Cl-‐;
a
livello
del
versante
luminale,
molto
permeabile
al
K+,
la
differenza
di
potenziale
della
membrana
e’
determinata
dal
potenziale
di
equilibrio
per
il
K+
ed
e’
iperpolarizzata,
mentre
a
livello
della
membrana
basolaterale,
grazie
alla
sua
permeabilita’
al
Cl-‐,
la
differenza
di
potenziale
e’
meno
negativa
e
percio’
la
membrana
basolaterale
e’
depolarizzata.
Questa
differenza
di
potenziale
transepiteliale
determina
il
riassorbimento
paracellulare
di
Ca2+
e
Mg2+.
Bloccando
il
simporto
Na+-‐K+-‐2Cl-‐
si
assiste
ad
una
riduzione
dell’assorbimento
di
Na+,
Cl-‐,
Mg2+
e
Ca2+,
ad
un
aumento
dell’escrezione
di
K+
a
livello
del
dotto
collettore
(arrivando
piu’
Na+
a
livello
del
dotto
collettore,
viene
escreto
piu’
K+
per
permettere
un
maggior
assorbimento
di
sodio
a
questo
livello)
che
conduce
quindi
a
una
condizione
di
kaliuresi
e
potenzialmente
ipokaliemia.
Bloccando
il
riassorbimento
attivo
di
NaCl
nel
tratto
principale
ascendente,
gli
inibitori
del
simporto
Na+-‐K+-‐2Cl-‐
interferiscono
con
un
passaggio
critico
della
formazione
di
un
interstizio
ipertonico
midollare,
impedendo
cosi’
al
rene
di
concentrare
l’urina
se
vi
e’
carenza
idrica.
Questi
farmaci
inoltre,
andando
ad
agire
sul
tratto
ascendente
facente
parte
del
segmento
diluente,
alterano
notevolmente
anche
la
capacita’
del
rene
di
espellere
un’urina
diluita
durante
la
diuresi
da
acqua.
c)
Usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
La
principale
indicazione
all’uso
di
questi
farmaci
e’
il
trattamento
dell’edema
polmonare
perche’
causano
un
aumento
rapido
della
capacitanza
venosa,
insieme
ad
una
natriuresi
immediata
e
cio’
comporta
una
riduzione
della
pressione
di
riempimento
del
ventricolo
sinistro
con
conseguente
miglioramento
dell’edema
polmonare.
Per
via
di
un
meccanismo
simile
sono
indicati
anche
nel
trattamento
di
edemi
periferici.
Sono
inoltre
usati
nel
trattamento
dello
scompenso
cardiaco
cronico,
quando
si
desidera
ridurre
il
volume
dei
fluidi
extracellulari
per
rendere
minima
la
congestione
venosa
e
polmonare.
Dato
che
aumentano
l’escrezione
renale
di
K+,
sono
indicati
anche
in
una
condizione
di
iperkaliemia.
Questi
farmaci
possono
essere
usati
anche
in
caso
di
ipertensione,
ma,
soprattutto
per
la
loro
breve
emivita,
sono
meno
adatti
rispetto
ai
diuretici
tiazidici.
Gli
effetti
collaterali
di
questi
farmaci
sono
soprattutto
legati
ad
alterazioni
del
bilancio
idrosalino.
Un
uso
eccessivo
dei
diuretici
dell’ansa
puo’
provocare
una
grave
carenza
di
Na+
totale
nell’organismo:
cio’
si
puo’
manifestare
come
iponatriemia
e/o
deplezione
del
volume
di
liquidi
extracellulari
associata
a
ipotensione,
minor
filtrazione
glomerulare,
collasso
circolatorio,
trombolisi.
Un
maggior
rilascio
di
sodio
provoca
un
aumento
dell’escrezione
urinaria
di
K+
e
H+
e
quindi
un’alcalosi
ipocloremica.
Se
l’apporto
dietetico
di
potassio
non
e’
sufficiente
si
puo’
manifestare
ipokaliemia
e
cio’
puo’
indurre
la
comparsa
di
aritmie
cardiache.
L’aumento
dell’escrezione
urinaria
di
Mg2+
e
Ca2+
puo’
determinare
ipomagnesiemia,
fattore
di
rischio
per
le
aritmie,
e
ipocalcemia,
che
puo’
portare
in
rari
casi
a
tetania.
I
diuretici
dell’ansa
possono
inoltre
causare
ototossicita’
che
si
manifesta
con
ronzii,
disturbi
dell’udito,
sordita’,
vertigini.
1d)
Diuretici
tiazidici
a)
Intro
I
diuretici
tiazidici
(e
i
tiazido-‐simili)
sono
degli
inibitori
del
simporto
Na+-‐Cl-‐
a
livello
del
tubulo
contorto
distale;
ve
ne
sono
molti
oggi
disponibili,
tra
cui
da
ricordare
l’idroclorotiazide
e
il
clortalidone.
b)
Farmacodinamica
L’energia
libera
del
gradiente
elettrochimico
per
il
Na+
(ottenuta
tramite
la
pompa
basolaterale
del
Na+)
e’
sfruttata,
a
livello
della
membrana
luminale
del
tubulo
contorto
distale,
da
un
simporto
Na+-‐Cl-‐
che
sposta
il
Cl-‐
all’interno
della
cellula
contro
gradiente
elettrochimico.
Il
Cl-‐
esce
poi
passivamente
attraverso
appositi
canali
posti
nella
membrana
basolaterale.
I
diuretici
tiazidici
inibiscono
per
l’appunto
il
simporto
Na+-‐Cl-‐
e
cio’
determina
quindi
un
aumento
dell’escrezione
di
Na+
e
Cl-‐;
tuttavia
questi
farmaci
hanno
solo
un’efficacia
limitata
a
tale
proposito
in
quanto
circa
il
90%
del
carico
filtrato
e’
riassorbito
prima
di
raggiungere
il
tubulo
contorto
distale.
Anche
questi,
come
i
diuretici
dell’ansa,
aumentano
l’escrezione
di
K+
e
acidi
titolabili
tramite
lo
stesso
meccanismo
gia’
discusso
poco
sopra
a
proposito
dei
diuretici
dell’ansa
per
l’appunto
(la
riduzione
del
riassorbimento
di
sodio
comporta
una
maggior
concentrazione
di
questo
elettrolita
a
livello
dei
dotti
collettori
e
pertanto,
per
riassorbire
il
sodio,
viene
escreto
a
livello
luminale
il
K+).
L’aumento
della
kaliuresi
puo’
condurre
ad
una
condizione
di
ipokaliemia.
Gli
effetti
in
fase
acuta
degli
inibitori
del
simporto
Na+-‐Cl-‐
sull’escrezione
di
Ca2+
sono
variabili
mentre
in
caso
di
terapia
cronica
questi
farmaci
riducono
l’escrezione
di
questo
ione.
Il
meccanismo
prevede
sia
un
aumento
del
riassorbimento
prossimale
sia
un’azione
diretta
dei
diuretici
tiazidici
nel
determinare
l’aumento
del
riassorbimento
di
calcio
a
livello
del
tubulo
contorto
distale.
L’inibizione
del
simporto
Na+-‐Cl-‐
determina
una
riduzione
del
sodio
a
livello
intracellulare
e
di
conseguenza
un
aumento
della
fuoriuscita
di
calcio
dalla
membrana
basolaterale
per
accelerazione
dello
scambio
Na+/Ca2+.
c)
Usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
I
diuretici
tiazidici
sono
usati
nel
trattamento
dell’edema
associato
a
patologie
cardiache
(insufficienza
cardiaca
congestizia),
epatiche
(cirrosi
epatica)
e
renali
(sindrome
nefrosica,
insufficienza
renale
cronica
e
glomerulonefrite
acuta).
I
diuretici
tiazidici
riducono
la
pressione
arteriosa
negli
ipertesi
e
pertanto
sono
ampiamente
utilizzati
nel
trattamento
dell’ipertensione,
sia
in
monoterapia
sia
in
combinazione
con
altri
farmaci.
In
quest’ambito
sono
farmaci
poco
costosi,
hanno
la
stessa
efficacia
di
altri
ipertensivi
e
sono
ben
tollerati;
possono
essere
somministrati
una
sola
volta
al
giorno,
non
richiedono
la
correzione
della
dose
e
presentano
poche
controindicazioni.
Inoltre
hanno
effetti
additivi
e
sinergici
quando
associati
ad
altri
antipertensivi.
Riducendo
l’escrezione
urinaria
di
calcio,
questi
farmaci
possono
essere
utilizzati
per
trattare
la
nefrolitiasi
da
calcio
e
possono
essere
utili
nel
trattamento
dell’osteoporosi.
Gli
effetti
collaterali
di
questa
classe
di
farmaci
sono
correlati
ad
anomalie
nel
bilancio
idrosalino.
Queste
comprendono
deplezione
del
volume
extracellulare,
ipotensione,
ipokaliemia,
iponatriemia,
alcalosi
metabolica,
ipomagnesiemia,
ipercalcemia
e
iperuricemia.
I
diuretici
tiazidici
riducono
inoltre
la
tolleranza
al
glucosio
e
un
diabete
mellito
latente
puo’
manifestarsi
nel
corso
della
terapia.
L’iperglicemia
puo’
essere
correlata
in
qualche
misura
alla
deplezione
di
K+;
questa
deplezione
compromette
anche
l’effetto
antipertensivo
e
di
protezione
CV
dei
tiazidici
nei
pazienti
ipertesi.
Inoltre
questi
farmaci
possono
determinare
un
aumento
dei
livelli
di
LDL-‐C,
di
colesterolo
totale
e
di
trigliceridi
totali.
Le
controindicazioni
all’uso
sono
per
i
pazienti
che
sono
in
una
condizione
di
iponatriemia
e/o
ipokaliemia.
1e)
Diuretici
risparmiatori
di
K+
a)
Intro
Il
triamterene
e
l’amiloride
sono
gli
unici
farmaci
di
questa
classe
usati
in
clinica.
Entrambi
provocano
piccoli
aumenti
dell’escrezione
di
NaCl
e
sono
usati
di
norma
per
la
loro
attivita’
antikaliuretica
per
compensare
gli
effetti
di
altri
diuretici
che
aumentano
l’escrezione
di
potassio.
b)
Farmacodinamica
Le
cellule
principali
dell’ultima
porzione
del
tubulo
distale
e
dei
dotti
collettori
hanno,
nelle
loro
membrane
luminali,
canali
per
il
Na+
che
costituiscono
una
via
d’accesso
alle
cellule
per
il
sodio,
spinto
dal
gradiente
elettrochimico
creato
dalla
pompa
del
Na+
basolaterale.
La
maggior
permeabilita’
al
sodio
della
membrana
luminale
provoca
la
depolarizzazione
di
questo
lato,
ma
non
di
quello
basolaterale,
determinando
cosi’
una
differenza
di
potenziale
transepiteliale
negativa.
Questo
fornisce
una
forza
trainante
per
la
secrezione
di
K+
nel
lume
mediante
i
canali
specifici
per
lo
ione
nella
membrana
luminale.
Gli
inibitori
dell’anidrasi
carbonica,
i
diuretici
dell’ansa
e
i
diuretici
tiazidici
fanno
aumentare
il
rilascio
di
sodio
nell’ultima
porzione
del
tubulo
distale
e
del
dotto
collettore,
fatto
che
e’
spesso
associato
ad
un
aumento
dell’escrezione
di
H+
e
K+.
E’
probabile
che
la
maggior
concentrazione
di
sodio
a
livello
del
nefrone
distale
determina
un
aumento
della
depolarizzazione
della
membrana
luminale,
incrementando
cosi’
l’escrezione
di
potassio.
Il
dotto
collettore
contiene
anche
pompe
H+-‐ATPasi
a
livello
della
membrana
luminale
che
mediano
l’acidificazione
nel
tubulo
tramite
l’escrezione
di
ioni
H+;
queste
pompe
sono
supportate
dalla
parziale
depolarizzazione
della
membrana
luminale.
L’aumentato
apporto
distale
di
sodio
non
e’
l’unico
meccanismo
attraverso
il
quale
i
diuretici
aumentano
l’escrezione
di
potassio
e
protoni:
gioca
un
ruolo
importante
anche
l’attivazione
da
parte
dei
diuretici
del
sistema
renina-‐angiotensina-‐aldosterone.
I
diuretici
risparmiatori
di
potassio
inibiscono
i
canali
per
il
Na+
e
bloccano,
indirettamente
l’escrezione
di
potassio.
Non
sono
ne’
diuretici
ne’
natriuretici.
c)
Usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
Le
indicazioni
cliniche
all’uso
di
questi
farmaci
(in
associazione
con
natriuretici!!)
sono
il
trattamento
degli
edemi
e
l’ipertensione.
L’effetto
collaterale
principale
e’
ovviamente
l’instaurarsi
di
una
condizione
di
iperkaliemia;
questa
condizione
rappresenta
anche
una
controindicazione
per
questi
farmaci.
1f)
Riassunto
clinico
I
diuretici
tiazidici
sono
quelli
propriamente
indicati
per
il
trattamento
dell’ipertensione
arteriosa
e
si
sono
dimostrati
efficaci
sia
da
soli
sia
in
associazione
ad
altri
farmaci
antipertensivi.
L’esatto
meccanismo
che
produce
una
riduzione
pressoria
rimane
incerto;
inizialmente
il
farmaco
riduce
a
livello
renale
il
volume
extracellulare
mediante
interazione
con
il
simporto
Na+-‐
Cl-‐
espresso
nel
tubulo
contorto
distale
del
rene,
che
aumenta
l’escrezione
di
Na+
determinando
riduzione
della
gittata
cardiaca.
L’effetto
ipotensivo
tuttavia
si
mantiene
durante
la
terapia
prolungata
per
via
della
riduzione
delle
resistenze
vascolari;
la
gittata
cardiaca
ritorna
a
valori
pretrattamento
e
il
volume
extracellulare
ritorna
quasi
normale
per
le
risposte
compensatorie
come
l’attivazione
del
RAS.
La
spiegazione
della
prolungata
vasodilatazione
a
seguito
dei
diuretici
non
e’
chiara.
2)
β-‐bloccanti
a)
Intro
I
recettori
adrenergici
sono
recettori
di
membrana
che
interagiscono
con
l'adrenalina
e
altre
catecolamine
e
sono
recettori
metabotropici.
Appartengono
ai
recettori
accoppiati
a
proteine
G.
A
seconda
dell'accoppiamento,
i
recettori
adrenergici
sono
classificati
α
(alfa)
e
β
(beta),
a
loro
volta
ripartiti
in
sottotipi:
α¹
e
α²
e
β¹,
β²
e
β³.
I
recettori
α¹
sono
accoppiati
alla
fosfolipasi
C
e
producono
i
loro
effetti
principalmente
grazie
al
rilascio
di
Ca2+
intracellulare;
I
recettori
α²
sono
accoppiati
a
una
proteina
Gi
(proteina
G
inibitrice)
la
quale
inibisce
l'azione
dell'adenilato
ciclasi
riducendo
pertanto
la
formazione
di
cAMP
così
come
inibiscono
i
canali
del
calcio.
I
recettori
β¹
sono
accoppiati
a
Proteine
G
stimolatrici
che
innalzano
il
livello
di
cAMP
attivando
delle
proteinchinasi
che
innalzano
il
livello
di
calcio
intracellulare.
I
recettori
β²
sono
accoppiati
a
una
proteina
G
stimolatrice
e
attivatrice
della
Proteinchinasi
A
che
ha
come
substrato
la
chinasi
della
catena
leggera
della
miosina
(MLCK),
generando
così
un
rilassamento
muscolare.
La
funzione
e
posizione
dei
recettori
α
e
β
ha
importanti
implicazioni,
in
quanto
le
loro
caratteristiche
sono
molto
importanti
ai
fini
dei
loro
effetti
fisiologici.
α¹:
è
un
recettore
di
tipo
eccitatorio
postsinaptico
presente
in
prevalenza
sulla
muscolatura
liscia
dei
piccoli
vasi
(resistenze
periferiche),
la
cui
stimolazione
genera
contrazione
della
muscolatura
liscia
vasale
generando
un
aumento
della
pressione.
Presente
anche
sulla
muscolatura
del
sistema
urogenitale
e
degli
sfinteri.
α²:
è
un
recettore
presinaptico,
presente
sulle
terminazioni
nervose,
è
deputato
alla
regolazione
della
secrezione
di
neurotrasmettitori
sia
catecolaminergici
che
colinergici:
la
sua
attivazione
determina
una
diminuzione
della
produzione
di
noradrenalina
(feedback
negativo)
e
acetilcolina.
Inoltre,
la
sua
attivazione
a
livello
pancreatico
diminuisce
la
secrezione
di
insulina.
β¹:
è
un
recettore
di
tipo
eccitatorio,
importantissimo
per
l'attività
cardiovascolare,
è
principalmente
presente
a
livello
cardiaco
e
renale,
la
sua
stimolazione
genera
a
livello
cardiaco
un
effetto
inotropo
e
cronotropo
positivo
mentre
a
livello
renale
stimola
la
secrezione
di
renina
da
parte
delle
cellule
juxtaglomerulari.
β²:
è
un
recettore
di
tipo
inibitorio,
presente
a
livello
della
muscolatura
liscia
di
alcuni
apparati
(muscolatura
liscia
bronchiale,
muscolatura
liscia
gastrointestinale
ed
è
inoltre
presente
sulla
muscolatura
liscia
di
coronarie
e
grandi
vasi
che
irrorano
la
muscolatura
scheletrica).
L'attivazione
di
questo
recettore
genera
il
rilassamento
della
muscolatura
tra
cui
il
rilassamento
bronchiale,
gastrointestinale
e
dei
grandi
vasi
periferici.
Inoltre
è
importante
per
il
metabolismo
glucidico
(aumenta
la
secrezione
di
insulina).
Questo
recettore
sembra
essere
il
mediatore
degli
effetti
di
vasodilatazione
ortosimpatica
che
si
evidenziano
al
livello
del
tessuto
muscolare
scheletrico.
β³:
è
un
recettore
di
tipo
eccitatorio,
presente
soprattutto
a
livello
del
tessuto
adiposo.
Qui
attiva
l'enzima
lipasi
che
libera
acidi
grassi
dai
trigliceridi.
(Eventuali
agonisti
di
questo
recettore
potrebbero
essere
target
terapeutici
potenziali
per
la
cura
dell'obesità).
b)
Classificazione
e
proprieta’
dei
β-‐bloccanti
I
β-‐bloccanti
sono
una
classe
di
farmaci
che
sono
antagonisti
competitivi
per
i
recettori
β-‐
adrenergici.
Il
propanololo
rimane
il
prototipo
di
questa
classe
di
farmaci,
al
quale
gli
altri
β-‐
antagonisti
vengono
paragonati.
I
β-‐antagonisti
possono
essere
classificati
in
base
alle
seguenti
proprieta’:
1)
affinita’
relativa
per
i
recettori
β1
e
β2,
2)
attivita’
simpatico-‐mimetica
intrinseca
(ISA),
3)
lipofilia.
Altre
proprieta’
importanti
sono
il
blocco
dei
recettori
α,
oltre
che
la
capacita’
di
indurre
vasodilatazione
e
i
parametri
farmacocinetici.
I
β-‐bloccanti
sono
suddivisibili
in
tre
generazioni:
-‐
quelli
della
prima
generazione
non
sono
selettivi,
cioe’
antagonizzano
sia
i
recettori
β1
che
β2.
A
questo
gruppo
appartengono
propanololo,
pindololo,
timololo.
-‐
quelli
di
seconda
generazione
hanno
una
maggiore
affinita’
per
i
recettori
β1
e
sono
detti
anche
β1-‐selettivi;
nonostante
questo
la
selettivita’
non
e’
assoluta.
Appartengono
a
questo
gruppo
acebutololo,
atenololo,
bisoprololo,
metoprololo.
-‐
quelli
di
terza
generazione
sono
rappresentati
dal
carbivololo,
non
selettivo
ma
con
azioni
aggiuntive,
e
dal
nebivololo,
che
possiede
la
piu’
alta
selettivita’
per
il
recettore
β1.
L’attivita’
simpatico-‐mimetica
intrinseca
(ISA)
e’
una
proprieta’
di
alcuni
β-‐bloccanti:
a
seconda
della
concentrazione
di
agonista
endogeno
possono
infatti
comportarsi
da
antagonisti
o
agonisti
parziali;
in
quest’ultimo
caso
attivano
quindi
parzialmente
i
recettori
β
in
assenza
di
catecolamine.
Una
potente
ISA
sarebbe
controproducente
per
la
risposta
attesa
da
un
β-‐
bloccante,
mentre
una
debole
ISA
puo’
impedire
per
esempio
l’insorgere
di
una
profonda
bradicardia
o
di
un
effetto
inotropo
negativo
in
condizioni
di
riposo
(gli
effetti
degli
agonisti
parziali
si
vedono
infatti
soprattutto
durante
il
sonno).
Per
verificare
la
presenza
di
ISA
si
paragonano
i
β-‐bloccanti
all’effetto
dell’isoproterenolo,
un
potente
agonista
non
selettivo
dei
recettori
β.
Altra
proprieta’
molto
importante
e’
il
grado
di
lipofilia
dei
β-‐bloccanti.
La
lipofilia
influenza
la
capacita’
del
farmaco
di
attraversare
le
membrane
ed
in
particolare
la
barriera
ematoencefalica.
Tutti
i
β-‐bloccanti
hanno
caratteristiche
lipofile
eccetto
l’atenololo
che
invece
e’
idrofilo.
Alcuni
farmaci
mostrano
proprieta’
aggiuntive
oltre
alla
capacita’
di
antagonizzare
i
recettori
β
(queste
proprieta’
sono
utili
soprattutto
per
contrastare
la
contrazione
dei
vasi
associata
all’antagonismo
sul
recettore
β2
adrenergico):
1)
carvedilolo
e
labetalolo
sono
antagonisti
sia
dei
recettori
β
sia
dei
recettori
α1;
2)
nebivololo
e’
antagonista
β1
e
agonista
β2
ed
inoltre
aumenta
la
produzione
di
NO,
ad
azione
vasodilatante,
da
parte
dell’endotelio;
3)
betaxololo
e
carvedilolo
bloccano
l’entrata
di
calcio
a
livello
delle
cellule
muscolari
lisce,
quindi
impediscono
la
contrazione
delle
cellule
vasali;
4)
carvedilolo
e
nebivololo
hanno
attivita’
antiossidante.
c)
Effetti
dei
β-‐bloccanti
I
β-‐bloccanti
senza
ISA,
o
con
ISA
in
presenza
di
agonista
endogeno,
in
acuto,
determinano
una
riduzione
della
frequenza
e
della
contrattilita’
cardiaca,
una
riduzione
della
gittata
cardiaca,
un
aumento
delle
resistenze
periferiche
(antagonismo
sui
recettori
β2)
e
una
inalterata
pressione
arteriosa.
In
caso
di
trattamento
cronico
(dopo
alcuni
giorni
dall’inizio
della
terapia),
si
assiste
ad
una
riduzione
della
frequenza
e
della
contrattilita’
cardiaca,
una
riduzione
della
gittata
cardiaca,
una
riduzione
della
produzione
di
renina
(antagonismo
del
recettore
β
presente
sulle
cellule
iuxtaglomerulari),
riduzione
della
pressione
arteriosa
mentre
in
questo
caso
le
resistenze
periferiche
rimangono
alterate.
I
β
con
ISA
hanno
un
effetto
sulla
pressione
che
dipende
dall’attivita’
del
sistema
simpatico.
In
generale
gli
effetti
dei
β-‐bloccanti
si
evidenziano
in
varie
parti
dell’organismo:
-‐
sistema
cardiovascolare:
effetto
inotropo
e
cronotropo
negativo
(β1),
riduzione
della
secrezione
di
renina
(β1),
vasocostrizione
(β2)
o
vasodilatazione
nel
caso
di
farmaci
di
terza
generazione;
-‐
muscolatura
liscia:
contrazione
(broncospasmo,
stipsi,
contrazione
uterina
associati
ad
antagonismo
sui
β2);
-‐
occhio:
riduzione
della
pressione
intraoculare
(β1);
-‐
metabolismo:
riduzione
della
lipolisi
a
livello
del
tessuto
adiposo
(β3),
con
aumento
del
peso
corporeo,
ipertrigliceridemia
e
riduzione
delle
HDL.
A
livello
pancreatico
si
ha
una
riduzione
nella
secrezione
di
insulina
con
effetti
sul
metabolismo
glucidico.
d)
Usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
Le
indicazioni
cliniche
dei
β-‐bloccanti
sono
il
trattamento
dell’ipertensione
arteriosa,
dell’angina,
delle
sindromi
coronariche
acute
(ACS)
e
dell’insufficienza
cardiaca
congestizia;
sono
inoltre
utilizzati
nel
trattamento
delle
aritmie
sopraventricolari
e
ventricolari
e
del
glaucoma.
Gli
effetti
collaterali
piu’
comuni
sono
direttamente
legati
al
meccanismo
d’azione
di
questi
farmaci:
bradicardia,
ipotensione,
broncospasmo,
effetti
sul
SNC
dipendenti
dal
carattere
piu’
o
meno
lipofilo
del
β-‐bloccante
usato
(astenia,
depressione,
insonnia,
allucinazioni),
dislipidemia,
insulino-‐resistenza/diabete,
aumento
di
peso
e
forse
un
aumento
dell’incidenza
di
impotenza
in
uomini
ipertesi.
Un
altro
effetto
collaterale
e’
la
sindrome
di
Raynaud
(mani
e
piedi
freddi)
e
ridotta
capacita’
allo
sforzo
fisico
(meno
sangue
raggiunge
la
periferia).
Controindicazioni
all’uso
di
questi
farmaci
sono
una
condizione
di
bradicardia,
blocco
atrio-‐
ventricolare,
asma,
broncopatia
cronica
ostruttiva.
I
β-‐bloccanti
con
ISA
vengono
usati
solo
nei
pazienti
ipertesi
e
bradicardici;
se
venisse
usato
un
farmaco
senza
ISA
il
paziente
a
riposo
andrebbe
incontro
ad
una
drastica
riduzione
della
frequenza
cardiaca
e
quindi
ad
insufficienza
di
pompa.
Il
recettore
β1
adrenergico
e’
polimorfo:
esiste
un
polimorfismo
comune
ed
uno
raro,
nel
quale
un
arginina
e’
sostituita
con
una
glicina
(viene
quindi
a
mancare
un
aa
carico
positivamente).
I
soggetti
con
questo
polimorfismo
raro
non
sono
in
grado
di
rispondere
ai
β-‐bloccanti.
e)
Riassunto
clinico
Ad
oggi
i
β-‐bloccanti
di
prima
generazione
non
sono
piu’
usati
per
il
trattamento
dell’ipertensione,
poiche’
poco
selettivi
e
perche’
attraversano
la
barriera
ematoencefalica.
I
β-‐
bloccanti
di
seconda
generazione
piu’
“usati”
sono
l’atenololo
(costi
minori
ed
inoltre
non
passa
la
barriera
ematoencefalica),
per
il
quale
tuttavia
non
esistono
dati
certi
circa
la
riduzione
dell’incidenza
di
eventi
CV,
e
il
metoprololo.
I
β-‐bloccanti
di
terza
generazione
sono
quelli
preferiti
in
quanto
oltre
ad
avere
effetti
benefici
aggiuntivi,
hanno
pochi
effetti
collaterali
e
riducono
l’incidenza
di
eventi
CV.
3)
Farmaci
che
agiscono
sul
sistema
RAS
Il
sistema
renina-‐angiotensina,
RAS,
partecipa
significativamente
alla
fisiopatologia
dell’ipertensione,
dell’infarto
miocardico
e
della
nefropatia
diabetica.
L’angiotensinogeno
e’
una
macroglobulina
di
452
aa
prodotta
principalmente
dal
fegato
e
immessa
in
circolo.
E’
bene
precisare
che
la
sua
concentrazione
non
influenza
il
sistema
RAS
quindi
non
e’
possibile
agire
sulla
produzione
di
angiotensinogeno;
inoltre
non
vi
sono
recettori
per
l’angiotensinogeno
quindi
di
per
se’
non
ha
effetti.
L’angiotensinogeno
in
circolo
e’
substrato
della
renina,
una
proteasi
prodotta
dalle
cellule
iuxtaglomerulari
a
livello
renale,
principalmente
a
livello
dell’arteriola
afferente.
La
renina
e’
una
amminopeptidasi
specifica
che
taglia
l’angiotensinogeno
a
livello
dell’estremita’
N-‐terminale
producendo
un
peptide
di
10
aa,
l’angiotensina
I.
La
secrezione
di
renina
e’
controllata
da
tre
meccanismi
principali,
ossia
dal
riassorbimento
di
NaCl
a
livello
della
macula
densa,
dalla
pressione
nei
vasi
preglomerulari
e
dall’attivazione
dei
recettori
β1
adrenergici
delle
cellule
iuxtaglomerulari.
L’angiotensina
I
e’
substrato
dell’ACE
(enzima
di
conversione
dell’angiotensina),
una
proteasi
relativamente
aspecifica
che
taglia
unita’
dipeptidiche
da
substrati
con
diverse
sequenze
amminoacidiche.
Dall’angiotensina
I
si
ottiene
quindi
l’angiotensina
II,
di
8
aa.
Altro
substrato
dell’ACE
e’
la
bradichinina
la
quale
viene
inattivata;
la
bradichinina
e’
un
peptide
di
9
aa
che
induce
la
liberazione
di
NO
e
quindi
ha
azione
dilatante.
Per
quanto
riguarda
l’angiotensina
II
essa
ha
principalmente
attivita’
di
vasocostrizione
e
quindi
la
produzione
di
angiotensina
II
e
l’inattivazione
della
bradichinina
hanno
come
effetto
finale
una
vasocostrizione
con
un
aumento
delle
resistenze
periferiche
e
quindi
della
pressione
arteriosa.
L’angiotensina
II
inoltre
agisce
anche
a
livello
del
surrene
e
stimola
la
produzione
di
aldosterone,
un
ormone
steroideo
che
appartiene
alla
classe
dei
mineralcorticoidi;
questo
ormone
agisce
a
livello
renale
e
aumenta
la
ritenzione
di
sodio
e
quindi
di
acqua.
L’effetto
finale
anche
in
questo
caso
e’
un’aumento
della
pressione
arteriosa.
L’angiotensina
II
si
lega
indistintamente
a
due
tipi
di
recettore
ossia
AT1
e
AT2
(accoppiati
a
proteina
G)
i
quali
hanno
attivita’
sostanzialmente
opposta.
Questi
recettori
si
trovano
principalmente
a
livello
delle
cellule
della
muscolatura
liscia
vasale,
a
livello
del
surrene
e
a
livello
di
monociti/macrofagi.
Il
legame
con
AT1,
accoppiato
principalmente
a
Gq,
determina:
-‐
vasocostrizione
e
ritenzione
di
sodio
e
di
acqua:
vengono
aperti
i
canali
ROCC
(receptor
operated
calcium
channel)
quindi
si
ha
un
aumento
del
calcio
intracellulare;
-‐
sintesi
di
aldosterone:
e’
causata
ancora
dall’aumento
del
calcio
intracellulare;
-‐
infiammazione
e
trombosi:
aumenta
il
metabolismo
dell’acido
arachidonico;
-‐
proliferazione
cellulare,
inibizione
dell’apoptosi,
produzione
di
matrice;
-‐
liberazione
di
NA
dal
surrene.
Il
legame
con
AT2,
accoppiato
principalmente
a
Gi,
determina:
-‐
vasodilatazione
e
natriuresi;
-‐
induzione
dell’apoptosi
e
riduzione
della
proliferazione
cellulare;
-‐
riduzione
dell’eccitabilita’
per
uscita
di
K+
dalle
cellule.
A
livello
renale
esiste
un
differenziale
pressorio
di
20
mmHg
tra
arteriola
afferente
e
arteriola
efferente;
questo
differenziale
pressorio
deve
essere
mantenuto
costante
in
quanto
un
aumento
determinerebbe
una
iperfiltrazione
da
parte
del
glomerulo,
mentre
una
diminuzione
determinerebbe
ipofiltrazione
da
parte
dello
stesso.
A
livello
dell’arteriola
efferente
sono
localizzati
i
recettori
per
l’angiotensina
II:
il
legame
con
AT1
o
con
AT2
permette
di
regolare
la
vasocostrizione/vasodilatazione
dell’arteriola
efferente
e
quindi
di
modulare
il
differenziale
pressorio.
3a)
Inibitori
della
renina
a)
Intro
e
farmacodinamica
Gli
inibitori
diretti
della
renina
sono
una
classe
di
farmaci
antipertensivi
che
inibiscono
il
RAS
all’origine.
L’angiotensinogeno
e’
l’unico
substrato
specifico
per
la
renina
e
la
sua
conversione
ad
angiotensina
I
rappresenta
la
tappa
chiave
che
limita
la
velocita’
di
generazione
dei
componenti
a
valle
del
RAS.
I
primi
inibitori
della
renina
sono
stati
dei
peptidomimetici
inibitori
come
enalkiren
e
remikiren
i
quali
pero’
non
hanno
superato
la
fase
clinica
a
causa
della
bassa
potenza,
scarsa
biodisponibilita’,
breve
emivita,
costi
elevati
e
impossibilita’
di
somministrazione
per
os.
E’
stato
poi
sviluppato
l’aliskiren,
una
molecola
a
basso
peso
molecolare
,
di
tipo
non
peptidico,
potente
inibitore
competitivo
della
renina.
Si
lega
al
sito
attivo
della
renina
e
blocca
la
conversione
dell’angiotensinogeno
in
angiotensina
I,
riducendo
quindi
la
successiva
produzione
di
angiotensina
II.
b)
Usi
terapeutici
L’aliskiren
e’
un
efficace
agente
antipertensivo,
ben
tollerato
sia
in
monoterapia
sia
in
combinazione.
Ha
effetti
cardioprotettivi
e
renoprotettivi,
quando
usato
in
combinazione;
tuttavia
i
suoi
vantaggi
a
lungo
termine
(riduzione
morbilita’
e
mortalita’
CV
e
renale)
sono
ancora
incerti.
E’
raccomandato
in
pazienti
intolleranti
verso
altre
terapie
antipertensive,
con
maggior
cautela
per
l’impiego
in
combinazione
con
altri
antipertensivi.
3b)
ACE
inibitori
a)
Intro
e
farmacodinamica
Gli
ACE
inibitori
sono
una
classe
di
farmaci
che
inibisce
l’attivita’
dell’enzima
ACE
impedendo
la
conversione
dell’angiotensina
I
in
angiotensina
II
e
la
formazione
di
peptidi
inattivi
a
partire
dalla
bradichinina.
Questi
farmaci
sono
stati
sviluppati
a
partire
da
peptidi
presenti
nel
veleno
di
una
famiglia
di
vipere;
il
primo
ACE
inibitore,
oggi
poco
usato,
e’
stato
il
captopril.
Sono
disponibili
in
commercio
piu’
di
una
decina
di
inibitore
dell’enzima
ACE;
possiedono
tutti
delle
caratteristiche
comuni,
tali
da
permetter
loro
di
interagire
con
i
tre
siti
attivi
presenti
sull’enzima:
una
prolina
a
destra,
un
gruppo
idrofobico
a
sinistra
(assente
nel
captopril)
e
un
gruppo
legante
lo
Zn2+
(presente
nell’enzima).
Da
ricordare
ci
sono
l’enalapril,
il
lisinopril,
il
fosinopril.
L’enalapril
e
il
fosinopril
sono
profarmaci;
tramite
il
metabolismo
vengono
convertiti
nel
farmaco
attivo.
L’enalapril,
in
particolare,
possiede
due
gruppi
–COOH
che
sarebbero
in
forma
ionizzata
una
volta
somministrati
(in
questa
forma
non
verrebbero
assorbiti),
pertanto
questi
gruppi
sono
trasformati
in
esteri
permettendone
l’assorbimento;
le
esterasi
presenti
nell’organismo
convertono
poi
questo
profarmaco
nel
farmaco
attivo,
l’enalaprilato.
Tutti
gli
ACE
inibitori
sono
equivalenti
dal
punto
di
vista
della
potenza,
della
farmacocinetica
e
posologia.
Gli
effetti
di
questa
classe
di
farmaci
sono
una
minor
produzione
di
angiotensina
II,
una
minor
degradazione
della
bradichinina
e
un
minor
rilascio
di
adrenalina
con
conseguente
effetto
finale
di
vasodilatazione
arteriosa
con
riduzione
delle
resistenze
(tieni
a
mente
che
se
si
parla
di
vasodilatazione
venosa
cio’
che
cambia
e’
il
precarico
e
non
le
resistenze
periferiche).
Si
ha
quindi
una
riduzione
della
pressione
arteriosa.
A
livello
renale
gli
ACE
inibitori
causano
un
aumento
del
flusso
renale
(riduzione
delle
resistenze
a
livello
dell’arteriola
efferente
che
sono
sotto
il
controllo
dell’angiotensina
II)
e
un
minor
rilascio
di
aldosterone
con
conseguente
aumento
della
diuresi
(sono
debolmente
natriuretici
inoltre).
E’
importante
sottolineare
che
l’aumento
del
flusso
renale
non
e’
accompagnato
da
una
maggiore
filtrazione
glomerulare,
anzi
la
frazione
di
filtrazione
e’
ridotta
in
quanto
vi
e’
dilatazione
non
solo
dell’arteriola
efferente,
ma
anche
di
quella
afferente.
In
definitiva
quindi
gli
ACE
inibitori
vanno
a
ridurre
la
pressione
arteriosa
e
migliorano
la
funzionalita’
renale.
b)
Usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
Gli
ACE
inibitori
sono
indicati
nel
trattamento
dell’ipertensione
arteriosa,
dell’insufficienza
cardiaca,
nella
fase
acuta
dell’infarto
miocardico.
Gli
ACE
inibitori
inoltre
prevengono
e/o
ritardano
la
comparsa
e/o
la
progressione
della
nefropatia
diabetica
(ricorda
che
il
diabete
mellito
e’
la
causa
principale
di
insufficienza
renale;
l’iperfiltrazione
a
livello
glomerulare
e’
una
condizione
tipica
anche
dei
pazienti
diabetici
pertanto
gli
ACE
inibitori
risultano
utili
anche
per
questa
patologia)
e
ritardano
la
progressione
dell’insufficienza
renale
nei
pazienti
con
diversi
tipi
di
nefropatia
non
correlati
al
diabete.
Tra
gli
effetti
collaterali
di
questa
classe
di
farmaci
da
ricordare
ci
sono
tosse
(tosse
secca
soprattutto
durante
la
notte
ed
e’
associata
ad
un
accumulo
di
bradichinina
a
livello
polmonare),
ipotensione,
angioedema
(un
evento
raro
in
cui
vi
e’
un
rigonfiamento
rapido
di
naso,
gola,
bocca,
glottide,
laringe),
rash
cutanei
(con
o
senza
prurito),
disgeusia
(perdita
del
gusto).
Le
controindicazioni
all’uso
sono
l’ipoperfusione
renale
(l’angiotensina
II,
inducendo
vasocostrizione
dell’arteriola
efferente,
contribuisce
a
mantenere
una
filtrazione
glomerulare
adeguata
in
caso
di
bassa
pressione
di
perfusione
renale
quindi
l’inibizione
dell”ACE
puo’
provocare
insufficienza
renale
acuta
in
pazienti
con
un
ridotto
differenziale
pressorio
e
quindi
in
una
condizione
di
ipofiltrazione)
e
la
gravidanza
(effetti
teratogeni).
3c)
Antagonisti
dei
recettori
dell’angiotensina
II
(ARB)
a)
Intro,
farmacodinamica
e
farmacocinetica
Gli
ARB
disponibili
per
uso
clinico
legano
il
recettore
AT1
con
grande
affinita’
e
in
genere
mostrano
una
notevole
selettivita’
per
questo
recettore
piuttosto
che
per
AT2.
L’inibizione
potente
e
selettiva
degli
ARB
verso
AT1
determina
l’inibizione
della
contrazione
della
muscolatura
liscia
vasale,
l’inibizione
delle
risposte
pressorie
rapide
e
lente,
l’inibizione
della
sete,
l’inibizione
del
rilascio
di
vasopressina
e
della
secrezione
di
aldosterone
oltre
che
delle
catecolamine
a
livello
del
surrene,
l’inibizione
dell’aumento
della
neurotrasmissione
noradrenergica
e
dell’aumento
del
tono
simpatico,
l’inibizione
delle
alterazioni
della
funzione
renale,
l’inibizione
dell’ipertrofia
e
dell’iperplasia
cellulare.
Vi
sono
vari
ARB,
chiamati
anche
sartani,
disponibili:
losartan,
valsartan,
irbesartan,
candesartan,
telmisartan,
eprosartan.
Questi
farmaci
sono
peptidomimetici,
ossia
sono
molecole
in
grado
di
mimare
il
peptide
endogeno
bloccando
quindi
l’azione
dello
stesso.
Partendo
dalla
struttura
del
ligando
endogeno,
sono
state
create
queste
molecole
in
grado
di
mimare
la
porzione
C-‐terminale
dell’angiotensina
II
che
e’
quella
che
si
lega
al
recettore.
Il
sartano
occupa
quindi
il
sito
attivo
del
recettore
in
modo
analogo
a
quello
dell’angiotensina
II
e
pertanto
questi
farmaci
sono
antagonisti
competitivi
per
il
recettore
AT1.
I
sartani
si
differenziano
in
termini
di
potenza,
biodisponibilita’,
emivita,
dose
e
metabolismo.
Il
losartan
e’
il
meno
potente,
mentre
il
piu’
potente
e’
il
candesartan.
Ad
eccezione
di
quest’ultimo,
eliminato
per
via
fecale
tramite
la
bile,
gli
altri
sartani
sono
eliminati
per
via
renale.
Losartan
e
irbesartan
sono
metabolizzati
dal
CYP2C9
quindi
bisogna
prestare
attenzione
in
caso
di
politerapia
e/o
in
presenza
di
polimorfismi.
b)
Usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
L’effetto
dei
sartani
e
degli
ACE
inibitori
sulla
riduzione
della
pressione
arteriosa
e
sulla
riduzione
degli
eventi
CV
e’
sostanzialmente
uguale.
I
sartani
sono
quindi
indicati
nel
trattamento
dell’ipertensione
arteriosa;
altre
indicazioni
sono
l’insufficienza
cardiaca,
lo
scompenso
cardiaco
post-‐infarto
miocardico,
nefropatie
(specie
di
origine
diabetica).
Gli
effetti
collaterali
sono
ipotensione
angioedema,
rash
cutanei;
da
notare
che
rispetto
agli
ACE
inibitori
manca
la
tosse
dato
che
gli
ARB
non
agiscono
sulla
bradichinina.
Le
controindicazioni
sono
l’ipoperfusione
renale
e
la
gravidanza.
Solitamente
prima
si
somministra
l’ACE
inibitore
in
quanto
piu’
economico;
se
il
paziente
lamenta
effetti
avversi
come
la
tosse
allora
si
passa
al
sartano.
4)
Calcio-‐antagonisti
a)
Intro
e
farmacodinamica
Il
calcio
e’
uno
ione
molto
importante
per
diverse
funzioni
delle
cellule.
La
quantita’
di
calcio
presente
all’interno
della
cellula
dipende
sia
dall’entrata/uscita
del
calcio
a
livello
della
membrana
plasmatica
sia
dal
rilascio
di
calcio
da
parte
del
reticolo
sarcoplasmatico
che
funge
da
deposito
intracellulare
di
questo
ione.
I
canali
del
Ca2+
sono
di
due
tipi:
ci
sono
quelli
di
tipo
VOC,
operati
cioe’
dal
voltaggio
(si
aprono
in
seguito
ad
una
depolarizzazione
della
membrana
cellulare)
e
ci
sono
quelli
di
tipo
ROC,
operati
da
recettore
(si
aprono
in
seguito
ad
interazione
con
un
ligando).
A
loro
volta
i
canali
VOC
sono
suddivisibili
in
4
tipi:
ci
sono
i
canali
di
tipo
L
e
T
(localizzati
a
livello
della
muscolatura
liscia),
di
tipo
N
(localizzati
a
livello
neuronale)
e
di
tipo
P
(localizzati
a
livello
delle
cellule
di
Purkinje
ed
importanti
per
la
conduzione
del
segnale
a
livello
miocardico).
I
canali
VOC
di
tipo
L
e
T
differiscono
per
la
soglia
di
attivazione,
per
la
velocita’
di
inattivazione
e
per
la
sensibilita’
alle
DHP
(diidropiridine).
I
canali
L
si
attivano
ad
un
potenziale
di
-‐10
mV
(il
potenziale
a
riposo
e’
-‐90
mV),
mentre
quelli
di
tipo
T
si
attivano
quando
il
potenziale
raggiunge
un
valore
di
-‐70
mV:
pertanto
i
primi
canali
ad
aprirsi
sono
i
canali
di
tipo
T.
Questi
ultimi
pero’
si
inattivano
piu’
velocemente
rispetto
a
quello
di
tipo
L.
Per
quanto
riguarda
le
DHP
esse
agiscono,
bloccandoli,
sui
canali
di
tipo
L,
ma
non
su
quelli
di
tipo
T.
Ci
sono
tre
diverse
classi
di
bloccanti
dei
canali
del
calcio
VOC
di
tipo
L:
-‐
le
diidropiridine
(DHP),
come
per
esempio
la
nifepidina
e
la
amlopidina;
-‐
le
benzotiazepine,
per
ora
c’e’
solo
il
diltiazem;
-‐
le
fenilalchilamine,
per
ora
c’e’
solo
il
verapamil.
I
canali
del
calcio
VOC
di
tipo
L
sono
formati
da
5
subunita’;
le
due
subunita’
α1
formano
il
canale
vero
e
proprio
e
poi
vi
sono
altre
subunita’
associate
che
regolano
l’attivita’
del
canale.
Solitamente
l’attivazione
dei
canali,
con
la
loro
conseguente
apertura,
determina
entrata
di
calcio
nelle
cellule
e
cio’
a
sua
volta
determina
sia
la
contrazione
cellulare
sia
il
rilascio
di
calcio
dai
depositi
intracellulari.
Tutti
i
bloccanti
del
canale
del
calcio
agiscono
sul
dominio
transmembrana
IV
della
subunita’
α1
tuttavia
le
fenilalchilamine
agiscono
all’interno
del
poro
(il
canale
quindi
deve
essere
aperto
per
poter
permetter
questo
legame)
mentre
le
DHP
e
le
benzotiazepine
possiedono
un
sito
di
legame
extracellulare.
Il
canale
del
calcio
VOC
di
tipo
L
possiede
due
cancelli,
uno
di
chiusura
e
uno
di
inattivazione.
Nello
stadio
di
riposo
e’
chiuso
solo
un
cancello,
ossia
quello
di
chiusura;
la
modifica
del
potenziale
determina
l’apertura
di
questo
cancello
e
il
passaggio
quindi
da
stadio
di
riposo
a
stadio
attivo.
In
seguito
al
ritorno
al
potenziale
a
riposo
dallo
stadio
attivo
si
passa
allo
stadio
di
inattivazione,
in
cui
entrambi
i
cancelli
sono
chiusi.
I
passaggi
da
stadio
di
riposo
a
stadio
attivo
e
da
stadio
attivo
a
stadio
di
inattivazione
sono
processi
veloci,
mentre
il
passaggio
successivo
da
stadio
di
inattivazione
a
stadio
di
riposo
e’
il
passaggio
lento.
Le
DHP
legano
il
canale
nella
sua
forma
inattiva
e
prolungano
il
tempo
di
inattivazione
del
canale:
cio’
determina
vasodilatazione,
attivazione
del
simpatico
(risposta
alla
vasodilatazione)
e
dilatazione
coronarica.
Le
DHP
non
agiscono
sui
canali
localizzati
a
livello
del
cardiomiocita
quindi
non
hanno
effetti
sul
cuore;
cio’
le
differenzia
dalle
fenilalchilamine
e
dalle
benzotiazepine
che
agiscono
preferenzialmente
sui
canali
del
calcio
presenti
a
livello
dei
cardiomiociti
determinando
una
riduzione
della
frequenza
e
della
contrattilita’
cardiaca
(gli
effetti
sulla
vasodilatazione
periferica
sono
molto
meno
marcati).
L’azione
delle
fenilalchilamine,
che
agiscono,
come
gia’
detto,
legandosi
a
un
sito
presente
all’interno
del
poro,
dipende
dalla
frequenza
di
apertura/chiusura
del
canale.
Dato
che
le
DHP
e
le
benzotiazepine
si
legano
allo
stesso
sito
d’azione
ma
hanno
azione
differente,
risulta
chiaro
che
il
sito
di
legame
non
influenza
l’azione
del
farmaco.
L’azione
differente
e’
associata
al
fatto
che
i
canali
del
calcio
VOC
di
tipo
L
presenti
a
livello
delle
cellule
muscolari
lisce
e
quelli
presenti
a
livello
dei
cardiomiociti
sono
differenti,
in
particolare
a
livello
delle
subunita’
α1;
le
DHP
agiscono
preferenzialmente
sulle
cellule
muscolari
lisce
(farmaci
vasoattivi),
mentre
le
benzotiazepine
agiscono
preferenzialmente
sui
cardiomiociti
(farmaci
cardioattivi).
b)
Usi
terapeutici
ed
effetti
collaterali
Le
indicazioni
cliniche
dei
calcio-‐antagonisti
sono
differenti
e
per
ogni
specifica
indicazione
ogni
sottoclasse
di
calcio-‐antagonisti
mostra
un’efficacia
diversa
rispetto
alle
altre
sottoclassi
(tra
parentesi
sono
scritte
le
classi
in
ordine
decrescente
di
efficacia).
Sono
indicati
nel
trattamento
dell’ipertensione
arteriosa
(DHP>diltiazem=verapamil),
dell’angina
(diltiazem>verapamil>>DHP),
delle
tachicardie
sopraventricolari
(verapamil>diltiazem).
Anche
per
quanto
riguarda
gli
effetti
collaterali
essi
dipendono
dalla
sottoclasse
di
calcio-‐
antagonisti
utilizzata.
Ipotensione,
cefalea
e
vertigini,
edemi
periferici
e
tachicardia
sono
tutti
effetti
collaterali
correlati
all’uso
di
DHP
poiche’
determinano
vasodilatazione
periferica
e
non
sono
attive
sul
cuore;
bradicardia
e
blocco
AV
sono
invece
effetti
collaterali
tipici
delle
altre
due
sottoclassi
dato
che
agiscono
prevalentemente
sul
cuore.
Inoltre
all’uso
del
verapamil
puo’
conseguire
stipsi
e
all’uso
di
diltiazem
e
DHP
rash
cutanei.
Le
controindicazioni
sono
l’insufficienza
cardiaca
per
verapamil
e
diltiazem
(se
ho
un
difetto
di
pompa
e
somministro
farmaci
inotropi
e
cronotropi
negativi
ho
un
peggioramento
della
patologia),
la
bradicardia
e
blocco
AV
sempre
per
verapamil
e
diltiazem
e
l’angina
per
le
DHP.
5)
Antipertensivi
minori
5a)
Antagonisti
del
recettore
α1
adrenergico
Farmaci:
prazosin,
terazosin,
doxazosin.
Farmacodinamica:
agiscono
da
antagonisti
selettivi
del
recettore
α1
adrenergico.
Inizialmente
l’effetto
degli
α1-‐bloccanti
consiste
nel
ridurre
la
resistenza
arteriolare
e
la
capacitanza
venosa,
provocando
un
aumento
riflesso
mediato
dal
simpatico
della
frequenza
cardiaca
e
dell’attivita’
della
renina
plasmatica.
Con
la
terapia
cronica
persiste
l’effetto
di
vasodilatazione,
ma
i
valori
della
gittata
cardiaca,
della
frequenza
e
dell’attivita’
della
renina
plasmatica
ritornano
nella
norma
e
il
flusso
renale
rimane
inalterato.
Usi
terapeutici:
ipertensione
arteriosa
(in
associazione
a
uno
o
piu’
antipertensivi
maggiori).
Effetti
collaterali:
aumento
del
rischio
di
scompenso
cardiaco
congestizio
e
ipotensione
ortostatica
(entro
90
minuti
dalla
somministrazione
della
prima
dose
o
dopo
un
incremento
del
dosaggio;
dopo
le
prime
dosi
questo
effetto
tende
a
scomparire).
5b)
Attivatori
dei
canali
del
K+ATP
Farmaci:
pinacidil,
minoxidil
(e’
un
profarmaco
che
viene
attivato
dal
fegato
nel
metabolita
attivo,
il
minoxidil
N-‐O
solfato),
diazossido
(per
via
EV).
Farmacodinamica:
determinano
l’apertura
dei
canali
del
potassio
ATP-‐dipendenti.
A
livello
della
muscolatura
liscia,
l’uscita
di
potassio
dalla
cellula
determina
un’iperpolarizzazione
di
membrana
con
conseguente
inibizione
dell’entrata
di
calcio
e
rilassamento
della
muscolatura
liscia
stessa
(vasodilatazione
arteriolare).
Le
sulfaniluree,
agendo
sugli
stessi
canali
del
potassio
e
determinandone
la
chiusura,
sono
antagonisti
competitivi
di
questi
farmaci.
Usi
terapeutici:
ipertensione
arteriosa
refrattaria
(ossia
nei
pazienti
che
non
rispondono
agli
antiipertensivi
maggiori;
minoxidil)
e
crisi
ipertensive
(diazossido
per
via
EV
in
acuto).
Effetti
collaterali:
tachicardia
e
ritenzione
idrosalina
(dovuti
ad
attivazione
riflessa
del
simpatico
e
di
RAS;
necessaria
la
cosomministrazione
di
un
diuretico
e
un
agente
simpaticolitico,
di
solito
un
β-‐bloccante),
ipertricosi/irsutismo
(minoxidil;
e’
stato
immesso
sul
mercato
un
prodotto
topico
a
base
di
minoxidil
per
il
trattamento
della
calvizie
maschile),
iperglicemia
(diazossido;
i
canali
del
potassio
ATP-‐dipendenti
si
trovano
anche
sulle
cellule
β-‐pancreatiche
e
l’apertura
dei
suddetti
canali
determina
un
minor
rilascio
di
insulina).
Controindicazioni:
feocromocitoma
(tumore
del
surrene
che
determina
una
sovrastimolazione
del
simpatico;
questa
controindicazione
e’
valida
per
tutti
i
vasodilatanti
che
non
agiscono
sul
simpatico).
5c)
Donatori
di
ossido
nitrico
(NO)
L’ossido
nitrico
e’
un
gas
lipofilo
prodotto
a
partire
dall’arginina;
tramite
l’enzima
NO
sintasi
(NOS)
l’arginina
viene
convertita
in
citrullina
con
liberazione
di
una
molecola
di
NO.
L’NO
sintasi
e’
distribuito
in
maniera
quasi
ubiquitaria
nell’organismo
ed
e’
presente
in
2
tipi
di
isoforme:
inducibile
(tipica
dei
globuli
bianchi
ed
attivata
durante
l’infiammazione)
e
costitutiva
(localizzata
principalmente
nell’endotelio
vasale
e
nel
cervello).
L’NO
prodotto
a
livello
dell’endotelio
diffonde
raggiungendo
le
cellule
muscolari
lisce
vasali:
qui
stimola
la
guanilato
ciclasi
a
produrre
cGMP
che
a
sua
volta
attiva
la
PKG.
La
proteinchinasi
G
attivata
agisce,
chiudendoli,
sui
canali
del
calcio
VOC
di
tipo
L
e
la
mancata
entrata
di
calcio
determina
vasodilatazione;
inoltre,
sempre
a
livello
delle
cellule
muscolari
lisce
vasali,
determina
una
riduzione
della
proliferazione
ed
un
aumento
dell’apoptosi.
Donatori
diretti
di
NO:
nitroprussiato
sodico.
Farmacodinamica:
agisce
sulle
arteriole
e,
in
misura
minore,
sulle
venule
determinando
vasodilatazione
per
cessione
diretta
di
NO;
si
osserva
quindi
riduzione
del
postcarico
e
del
precarico.
Usi
terapeutici:
crisi
ipertensive
acute
(somministrazione
per
via
EV).
Effetti
collaterali:
ipotensione,
cefalea
e
vertigini
(vasodilatazione
cerebrale).
Donatori
indiretti
di
NO:
nitrati,
come
nitroglicerina
o
mononitrato.
Farmacodinamica:
agiscono
liberando
NO
con
meccanismi
differenti
(processi
mitocondriali
o
microsomiali
catalizzati
da
CYP450);
si
osserva
vasodilatazione
soprattutto
a
livello
venoso
quindi
diminuisce
il
precarico,
diminuisce
la
tensione
di
parete
e
si
riduce
il
consumo
di
ossigeno
a
livello
del
miocardio.
Usi
terapeutici:
ACS
(angina
instabile
e
infarto
miocardico)
e
angina
stabile;
nel
trattamento
del
dolore
anginoso
la
somministrazione
puo’
essere
sublinguale
oppure
tramite
cerotti
transdermici.
Effetti
collaterali:
tolleranza
(e’
necessario
aumentare
progressivamente
la
dose
in
quanto
aumentano
gli
enzimi
in
grado
di
metabolizzare
questi
farmaci),
ipotensione,
cefalea
e
vertigini.
5d)
Antagonisti
dell’aldosterone
L’aldosterone
e’
un
ormone
steroideo
prodotto
dalla
regione
corticale
del
surrene
che
agisce
a
livello
del
dotto
collettore
del
nefrone
determinando
un
maggior
riassorbimento
di
Na+
e,
conseguentemente,
un
maggior
riassorbimento
di
H2O
e
una
maggior
escrezione
di
K+
e
H+.
Il
recettore
per
l’aldosterone
e’
un
recettore
intracellulare,
detto
MR,
che
agisce
come
fattore
di
trascrizione
regolando
l’espressione
di
molti
prodotti
genici
chiamati
proteine
indotte
dall’aldosterone
(AIP).
L’effetto
finale
delle
AIP
e’
aumentare
il
numero
di
canali
del
Na+
(e
forse
del
K+)
sulla
membrana
luminale
ed
aumentare
il
numero
di
pompe
Na+/K+
sulla
membrana
basolaterale.
Farmaci:
spironolattone
e
eplerenone.
Farmacodinamica:
agiscono
da
antagonisti
del
recettore
MR
bloccando
quindi
l’azione
fisiologica
dell’aldosterone.
Lo
spironolattone,
a
differenza
dell’eplerenone,
mostra
una
certa
affinita’
anche
nei
confronti
dei
recettori
del
progesterone
e
degli
androgeni
e
induce,
pertanto,
effetti
collaterali
come
ginecomastia,
impotenza
e
irregolarita’
mestruali.
Usi
terapeutici:
ipertensione
arteriosa
ed
edema
(in
associazione,
spesso,
ai
diuretici
tiazidici
o
dell’ansa;
tali
combinazioni
conducono
ad
una
maggiore
mobilizzazione
di
liquidi
nell’edema
e
danno
luogo
a
minori
alterazioni
dell’omeostasi
del
K+),
insufficienza
cardiaca
(in
associazione
con
la
terapia
standard),
iperaldosteronismo
primario
e
secondario
(spironolattone)
e
ipokaliemia
(spironolattone).
Effetti
collaterali:
ginecomastia,
impotenza
e
irregolarita’
mestruali
(spironolattone),
rash
cutanei
(spironolattone)
e
iperkaliemia.
Controindicazioni:
iperkaliemia.