Sei sulla pagina 1di 29

RODOLFO SAVELLI

Diritto romano e teologia riformata:


Du Moulin di fronte al problema dell'interesse del denaro*

Questa ricerca prese le mosse dalla curiosità che suscitò in me una cita-
zione: una citazione dal Tractatus commerciorum di Du Moulin, che compa-
riva nel parere redatto da giurista genovese, in occasione di un famoso di-
battito sulla liceità dei “cambi di Bisenzone”1. Nicola Senarega (il giurista in
questione) si era allora schierato nel campo dei rigoristi, di coloro che con-
dannavano questi contratti come usurai, e nel breve scritto aveva abbondato
nelle auctoritates: fianco a fianco troviamo Bohic, Calderini, Vignate,
Summenhart, e alla fine, curiosamente affiancati, Angelo da Chivasso e
Charles Du Moulin. Il metodo argomentativo del Senarega è molto classico
e tradizionale; interessante è che a quella data già conoscesse l'opera del
giurista francese e che questa citazione fosse fatta a proposito.
Il motivo della mia (un po' stupita) curiosità era causato da un'immagine
tralatizia e di maniera del pensiero di Du Moulin - colui che avrebbe portato
un attacco radicale alle teorie tradizionali in tema di interesse del denaro.
Nonostante vi sia in proposito una tradizione di studi, mi sembra che aspetti
della sua elaborazione meritino ancora di essere ricostruiti più analitica-
mente2. La scelta di rileggere l'opera del giurista parigino è stata fatta in
considerazione anche della straordinaria fortuna che fu riservata in Europa
al Tractatus commerciorum3. Direttamente (come nel caso di Senarega) o
indirettamente, attraverso la famosa ristampa fatta a Venezia sotto il nome
di Gaspare Cavallini, le idee del Tractatus circolarono attraverso tutta l'Eu-
ropa4.

1
Su questo dibattito avvenuto negli anni 1553-1554, cui intervennero personaggi come
Diego Laínez SJ e l'agostiniano Fabiano Chiavari, cfr. R. SAVELLI, Between Law and Mo-
rals: Interest in the Dispute on Exchanges during the 16th Century, in V. PIERGIOVANNI
(ed.), The Courts and the Development of Commercial Law, Berlin 1987, pp. 62-77.
2
Il più recente contributo (anche se non sempre convincente) è quello di J.-L.
THIREAU, Charles Du Moulin, Genève 1980 (cui si rinvia per la bibliografia precedente).
3
Il titolo completo è Tractatus commerciorum et usurarum, redituumque pecunia con-
stitutorum et monetarum, Parigi 1546 (cito dalla stampa Apud Ioannem Lodoicum Tileta-
num, rinviando ai paragrafi). L'opera fu subito inclusa nella raccolta dei Tractatus ex variis
iuris interpretibus di Lione del 1548-1549, e ripresa l'anno successivo in uno dei volumi
aggiuntivi all'edizione veneziana dei Tractatus del 1548 (su queste raccolte cfr. cfr. G.
D'AMELIO, Una rara raccolta dei 'Tractatus' nella biblioteca della Facoltà di Giurispru-
denza di Cagliari, in Università di Cagliari “Studi economico-giuridici” XLVIII (1973-
1974, ma 1975), pp. 67-75; G. Colli, “Attribuuntur Bartolo et tamen non sunt Bartoli”.
Prolegomeni ad una bibliografia analitica dei trattati giuridici pubblicati nel XVI secolo,
in “Il bibliotecario” 1996, pp. 166-173). Non prendo qui in considerazione il Sommaire du
livre analytique des contrats, usures ..., Paris 1547, per via della sua più limitata circola-
zione fuori delle zone francofone.
4
Tractatus commerciorum et usurarum [...] compilatore Gaspare Caballino, Venetiis
1576. Su questo falso cfr. A. LATTES, Carlo Dumoulin e Gaspare Caballino, “Archivio

* estratto con aggiornamenti da:


“Materiali per una storia della cultura giuridica”, XXIII (1993), pp. 291-324
2

L'opera è complessa, ampia; affronta uno spettro di temi piuttosto vasto,


anche se prevalentemente centrato su aspetti specifici della realtà economica
francese di metà Cinquecento5. Tanto è vero che al giurista parigino sfug-
gono singoli aspetti del dibattito che si era sviluppato nell'Europa continen-
tale, ma soprattutto in Italia: si veda, ad esempio, la confusione relativa ai
monti/monti di pietà, o la scarsa conoscenza della letteratura in tema di
cambi (ma su ciò avremo modo di ritornare)6. Il Tractatus è un testo in cui
questioni provenienti dalla viva pratica giudiziaria si trovano strettamente
intrecciate sia con elaborazioni tratte dalla tradizione dottrinale sia con più
moderne e avvertite discussioni di carattere filologico7.
Il lavoro di scrittura - con continue aggiunte, correzioni, inserzioni di te-
sti - si deve essere protratto fino all'ultimo, in una ininterrotta opera di giu-
stapposizione di testi, tratti ora dalla pratica di avvocato, ora da quanto di
nuovo veniva pubblicato sul mercato editoriale, talvolta a scapito della chia-
rezza e della sistematicità8. Nonostante questi ed altri limiti, Du Moulin ha
compiuto un'opera che rappresenta senz'altro un momento di sintesi impor-
tante nella storia della cultura giuridica europea.
Non è un caso che ad essa farà riferimento una lunga schiera di autori e
controversisti per decenni e decenni a venire. Pensiamo innanzi tutto ai di-
fensori dell'ortodossia in campo cattolico, i quali ben si avvidero di quanto
le argomentazioni del giurista parigino potessero aver presa nei più diversi
ambienti, proprio grazie al fatto di essere espresse attraverso il linguaggio
del diritto; i grandi teologi spagnoli della seconda metà del Cinquecento lo
individuarono come uno dei principali avversari - da Martin Azpilcueta9 a
Gregorio da Valencia10, da Juan Azor11 a Miguel Salon12. Come avrebbe poi

giuridico Filippo Serafini” s. IV, vol. XI (1926), pp. 7-19. Altre indicazioni sulla circola-
zione dell'opera di Du Moulin in SAVELLI, Between Law, cit.; e cfr. note 15 e 18.
5
Uno dei temi più discussi è infatti quello dei contratti di rente, uno dei contratti cen-
trali nel sistema del credito francese (in proposito rinvio al saggio di B. SCHNAPPER, Les
Rentes au XVIe siècle. Histoire d'un instrument de crédit, Paris 1957, saggio in cui vi è un
vasto e proficuo uso dell'opera di Du Moulin).
6
Per la discussione sui monti di pietà cfr. §§ 581 e ss.
7
Sull'argomento ha richiamato l'attenzione H. E. TROJE, Graeca leguntur. Die Anei-
gnung des byzantinischen Rechts und die Entstehung eines humanistischen Corpus iuris
civilis in der Jurisprudenz des 16. Jahrhunderts, Köln-Wien 1971, pp. 31 e ss, 77 e ss.
8
Si veda, ad esempio, quanto annotava al § 204: “nunc occurrit pulchra quaestio de
qua hodie consultus fui”; o al § 229 “dum haec scriberem accidit quaestio de facto” (e cfr.
anche § 233, 241, 406, etc.). Queste inserzioni tratte dalla viva esperienza quotidiana conti-
nuarono fino alla conclusione dell'opera, quasi il nostro avvocato passasse buona parte del
suo tempo in tipografia: § 466 “placet paucis discutere facti speciem quae nuper accidit et
de qua dum haec excuderentur, consultus fui [...] haec dictans ferventibus typis addo” o §
670, dove alla quaestio 49 “iam typis excussa” aggiunge “pulchra quaestio de qua hodie
consultus fui”. Si confronti poi quanto scriveva al § 195 dove ricorda: “his a me scriptis,
foeliciter in lucem prodierunt Commentaria uberrima doctissimi senatoris do. Andreae Ti-
raquelli de utroque retractu”, opera da lui già citata in precedenza.
9
Nel Commentarius de usuris (Romae ex Typographia Iacobi Tornerii 1588, p. 7)
poteva scrivere con orgoglio di Du Moulin: “cuius impudentiae et erroris damnatores pro-
ditoresque nos fuisse primos in celeberrimis Hispaniarum Academiis credimus et gaude-
mus”.
10
G. DE VALENTIA, Commentariorum theologicorum tomus tertius, Lugduni, sumpti-
bus Horatii Cardon, 1609, coll. 1317 e ss.
3

scritto J. Gaitte, Du Moulin fu il “primus erroris auctor [...] quem coeteri


deinde qui foenus et usuram defendunt secuti sunt”13.
A fianco di questi non meno fitta è la schiera di chi invece attinse a
piene mani dalle sue elaborazioni, talvolta dichiarandolo, talvolta nascon-
dendo le citazioni, per non incappare nei fulmini della Congregazione del-
l'indice (e questo vale soprattutto per l'area italo-spagnola, mentre altrove vi
erano meno timori)14. In questa prospettiva risulta ancora tutta da studiare la
complessa figura di Gaspare Cavallini. Ottenuta infatti una qualche forma di
autorizzazione dal cardinal Paleotti, non solo curò la “riedizione” del Trac-
tatus e di altre opere di Du Moulin; ma evidentemente colpito da certi passi
particolarmente significativi dell'opera li ripresentò anche in quel suo cu-
rioso centone di opinioni che è il Milleloquiorum iuris pubblicato un anno
prima dell'edizione veneziana del Tractatus, permettendo una ancora più
capillare diffusione delle idee del giurista parigino (e dei teologi riformati
suoi ispiratori)15.

11
I. AZOR, Institutionum moralium [...] pars tertia, Brixiae, Apud Petrum Mariam
Marchettum 1612, p. 417.
12
M. B. SALON, Controversiae de iustitia et iure atque de contractibus et commerciis
humanis licitis et illicitis, Venetiis, Apud Baretium Baretium 1608, t. II, p. 191 e ss.
13
J. GAITTE, Tractatus de usura et foenore; item de usuraria trium contractuum pra-
vitate, Parisiis, apud Arnulphum Seneuze, 1688, p. 29. Questo ruolo di iniziatore di una
nuova fase è riconosciuta anche in ambiente riformato: “aliis praeivit” annotava J.
CLOPPENBURG, De foenore et usuris brevis institutio, Lugd. Batav. Ex officina Elsevirio-
rum 1640, p. 6.
14
Non appare molto convincente in proposito la ricostruzione di Thireau (Charles Du
Moulin, cit., p. 379), che limita al solo Guy Coquille il merito di aver ripreso le tesi del no-
stro giurista; ricordiamo, se non altro, almeno François GRIMAUDET, Paraphrase de droicts
des usures et contracts pignoratifs, Paris chez Nicolas Chesneau, 1577. Ma la lista non si
esaurisce certo qui: si veda ad esempio l'amplissimo uso che di Du Moulin fanno testi che
potremmo definire di carattere quasi divulgativo quale quello di C. von HAGEN, Tractatus
de usu usurarum et annuorum reddituum, Wittebergae, Typis Jobi Wilhelmi Fincelii 1631.
15
Milleloquiorum iuris, Venetiis, apud Petrum Longum 1575. Ho fatto qualche son-
daggio su alcuni dei passi relativi all'oggetto di questa ricerca: il § CCXCIII corrisponde ai
§§ 71 e 72 del Tractatus (con la sola cancellazione delle citazioni di Erasmo); CCXCV =
73 (con un'inserzione dal 17); CCXCVII = 87-89 (tutti tratti da Aepinus, su cui cfr. infra
nota 30); CCXCVIII = 92; CCXCIX = 95-96; CCC= 118; CCCI = 119; CCCII = 126;
CCCV = 155; CCCVI = 156 (con aggiunte bibliografiche); CCCXI = 186-187; CCCXIII =
190; CCCXIIII in gran parte dal 192.
Su Cavallini, oltre al ricordato saggio di Lattes (nota 4), cfr. anche A. ERA, Carlo Du-
moulin e Nicola Antonio Gravazio, in “Rivista di storia del diritto italiano” VII (1934), pp.
286-311; P. PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti, II, Roma 1967, pp. 239-240; P.
COLLIVA, Due studiosi cinquecenteschi delle “constitutiones” dell'Albornoz, in Storiogra-
fia e storia. Studi in onore di Eugenio Duprè Theseider, Roma 1974, II, pp. 852-866,
“Dizionario Biografico degli Italiani” 22, pp. 773-774; R. SAVELLI, Da Venezia a Napoli:
diffusione e censura delle opere di du Moulin nel Cinquecento italiano, in Censura eccle-
siastica e cultura politica in Italia tra Cinquecento e Seicento, a c. di C. Stango, Firenze,
Olschki 2001, pp. 101-154. Sotto nome di Cavallini uscì infatti anche il De eo quod inte-
rest, Venetiis 1574 e il Tractatus dividui et individui, Venetiis, apud Petrum Longum 1576;
il De eo quod interest fu poi addirittura incluso nel Tractatus universi iuris (t. V, cc. 17v e
ss). Bisogna riconoscere che il Cavallini nella dedica al lettore del De eo quod interest cor-
rettamente annotava “cum in manus meas incidissent scripta haec doctissimi cuiusdam iuri-
sconsulti monumenta, ne cum blattis et tineis diu litem facerent [...] placuit in publicum
dare”.
4

In questo mio intervento non penso certo di analizzare tutti i diversi


aspetti dell'elaborazione dottrinale di Du Moulin, ma cercherò di individuare
solo alcuni particolari filoni che mi sono sembrati più significativi, soprat-
tutto nella prospettiva di una ricostruzione di circuiti di idee, talvolta palesi,
talvolta occulti. Lascerò quindi a lato l'analisi che Du Moulin fa delle di-
verse fattispecie legate alle rentes (e quindi la relazione con il droit coutu-
mier). Non affronterò se non di sfuggita e in modo del tutto marginale temi
affascinanti quale quello del rapporto tra Du Moulin e i dibattiti sul Corpus
Iuris Civilis negli ambienti del cultismo, anche perché da sé solo richiede-
rebbe amplissimo spazio16. Il confronto (e lo scontro) con le nuove tendenze
è continuo: dal grande Budé al meno conosciuto Pierre des Avenelles17, pas-
sando attraverso i nomi di Haloander e Alciato, Agustín e Torelli, Zasio e
Viglius, tutto il mondo della nuova cultura giuridica è presente; così come
nel campo degli studi biblici non sono certo assenti personaggi pur assai di-
versi tra loro, quali Erasmo o Pellikan. Altrettanto a lato resterà, in questo
mio intervento, un tema di non minore interesse, quello sulle obbligazioni
pecuniarie, cui Du Moulin dedicò una vasta parte del suo trattato; e le pole-
miche anche in questo caso non mancarono18.

Quando i giuristi affrontavano il tema dell'interesse del denaro (del-


l'usura e/o del foenus) si trovavano più o meno sempre di fronte all'annoso
problema che era stato riassunto con estrema chiarezza da Baldo con queste
parole: “ad evidentiam istius materie premittendum est quod usure regulari-
ter sunt prohibite secundum legem novi et veteris testamenti, tamen iure
romano sunt certo modo concesse”19. Il problema, vale a dire, era quello del
rapporto conflittuale tra un sistema di precetti religiosi, cristiani, di non uni-
voca interpretazione, e un sistema (non meno aperto alle interpretazioni)

16
Cfr. in proposito le sempre valide osservazioni di D. MAFFEI, Gli inizi dell'umane-
simo giuridico, Milano 1956, pp. 187 e ss.
17
P. AVELLANUS, Restituti aliquot loci bonorum authorum..., Pictavii 1541 (ristam-
pato in E. OTTO, Thesaurus iuris romani, I, Traiecti ad Rhenum 1733, coll. 459-480; il ca-
pitolo citato da Du Moulin è a col. 474).
18
Si tratta dei paragrafi dal 686 in avanti; questi capitoli furono in gran parte poi ri-
presi (con polemiche risposte) nelle fortunate raccolte di R. BUDEL (De monetis et re num-
maria, Coloniae Agrippinae, apud Ioannem Gymnicum 1591) e di G. A. TESAURO (De mo-
netarum augmento, variatione et diminutione, Augustae Taurinorum 1609; cfr. a pp. 221-
385 le Quaestiones undecim in materia augmenti monetarum incerti auctoris: la condanna
dell'Indice comportava la piccola cautela di occultare il nome dell'autore). Du Moulin di-
mostra di avere su questo tema conoscenze bibliografiche molto estese e approfondite: ad
esempio cita più volte la Disputatio in materia monetarum di Giacomo dal Pozzo, di cui
conosco solo l'edizione nella relativamente rara raccolta dei Tractatus de augumento rebu-
sque additis... di Alberto Bruni, Francesco Corti e altri, stampata ad Asti “per Franciscum
Sylvam” nel 1518 (su Giacomo dal Pozzo cfr. M. G. DI RENZO VILLATA, Scienza giuridica
e legislazione nell'età sforzesca, in Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti
con gli Stati italiani ed europei, Milano 1982, pp. 82 e ss.). Sul tema resta insuperato il vo-
lume di P. GROSSI, Ricerche sulle obbligazioni pecuniarie nel diritto comune, Milano 1960,
passim, ma in specie pp. 384 e ss.
19
BALDUS DE PERUSIO, Super quarto et quinto Codicis, Lugduni 1544, c. 84v (tit. de
usuris C.4.32). Sulla riflessione di Baldo ha richiamato recentemente l'attenzione V.
PIERGIOVANNI, Un trattatello sui mercanti di Baldo degli Ubaldi, in Scritti di storia del di-
ritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei, a c. di M. ASCHERI, Padova 1991, pp. 235-254.
5

rappresentato dallo ius civile; rapporto da inserire in un concreto mondo di


relazioni sociali, economiche, di mercato, variabili a secondo dei tempi e
delle zone in cui i giuristi si trovavano ad agire.
Per comprendere la specificità della posizione di Du Moulin bisogna
ovviamente avere presenti questi tre differenti parametri. Vale a dire: la tra-
dizione del diritto romano e le nuove correnti esegetiche di impronta umani-
stica; la profonda influenza di autori riformati, soprattutto Melantone (ma
anche, ad esempio, un personaggio sostanzialmente minore come Iohann
Aepinus); la “lettura” della realtà economica fatta con questi (nuovi e vec-
chi) strumenti concettuali.
Il suo modo di procedere è ben illustrato da un inciso con cui apre una
trattazione: “et primo, more nostro, explicabimus sententiam iuris civilis,
deinde quid hodie observandum sit in praxi, in consulendo et iudicando”
[626]; tutto il libro, in fondo, è costruito attorno a questo continuo dialogo
tra diritto romano e realtà contemporanea (e non è quindi un caso che ampia
parte del trattato sia dedicata alle diverse fattispecie delle rentes).
Il problema del rapporto di Du Moulin con il diritto romano e quello
“comune” è complesso: egli era tutt'altro che estraneo e ostile alle nuove
tendenze di studio, come dimostrano i continui riferimenti ai ricordati prota-
gonisti delle ricerche storico-filologiche, il particolare interesse per l'annun-
ciata edizione delle Pandette fiorentine e per gli studi di Haloander20. Se
dobbiamo dare credito alle sue parole non disdegnava di chinarsi su mano-
scritti, anche se spesso per confermare la validità della “litera comunis”21.
Uno dei termini che ricorrono con frequenza è quello di “novus intellectus”,
riferito ad un passo della compilazione giustinianea, di cui si vuole presen-
tare una nuova lettura. Si potrebbe dire che i risultati forniti dalle ricerche di
carattere storico-filologico gli servivano anche in modo strumentale, vale a
dire per creare una nuova sistematica della disciplina che lo interessa in que-
sto campo (e ciò spiegherebbe talune frecciate polemiche contro un perso-
naggio come Budé, definito “inexercitatus in iure” [110])22.
Una nuova sistematica, si è detto, che trova il suo modello e riferimento
principe nella compilazione giustinianea. Giustiniano (“noster” come anche
Alciato lo aveva definito)23, è paragonato da Du Moulin a “Hercoles Alexi-
cacos” per l'opera di compilazione, per essere riuscito a mettere ordine e

20
“Antonius Augustinus [...] utinam nobis eam cum reliquis quae desunt (ut pollicetur)
edat” [100] e usa il termine “gloria immortalis” ricordando l'opera di Haloander [104].
21
Cfr. § 776: “et sic concludo verissimam esse et inconcusse retinendam veterem et
literam et punctuationem [...] quam etiam plurimis vetustissimis exemplaribus olim exactis-
sime manu scriptis diligenter a me tam in privatorum amicorum scriniis quam in publicis
bibliothecis [...] inveni” (e anche 785). Sull'effettiva consultazione dei manoscritti da parte
di molti umanisti cfr. però le osservazioni di D. OSLER, Magna Jurisprudentiae Injuria.
Cornelius van Bynkershoek on early legal humanist philology, in “Ius commune” XIX
(1992), pp. 61-79.
22
Du Moulin non era certo alieno dalla polemica; ricordiamo ad esempio le acri parole
non solo contro i rappresentanti della scolastica, ma anche contro molti contemporanei, i
“theologastri” come un Almain, “caecorum dux” [524], e contro giuristi più legati alla tra-
dizione, un Guy Pape ad esempio, “timidus et superstitiosissimus” [360].
23
§ 39 e cfr. ad esempio A. ALCIATO, Parergon Iuris, VI 20 (Operum tomus quartus,
Francofurti, sumptibus Haeredum Lazari Zetzneri, 1617, col. 384).
6

moderazione in un campo che prima della sua opera si presentava decisa-


mente disordinato: “videre est inconstantiam politiae legumque romanen-
sium, plurima apud illos animose et ambitiose sed inaniter et sine effectu
statuta” [42]. Da un lato, quindi, egli era ben cosciente del carattere storica-
mente determinato e transeunte delle leggi, ponendo anche in essere una re-
lazione tra quelle che possiamo definire le caratteristiche del mercato e del-
l'economia con il tipo di soluzioni normative:

advertendum est quod in regionibus in quibus rariora sunt commercia et minora lu-
cra quaestuaria, quia non solent illic homines tam assidue et late negociari, prout
solent in Italia, Gallia et cirumiacentibus locis, [...] prout in superiore Germania [...]
non debent ibi usurae sive reditus empticii, qui earum loco successerunt, esse tam
graves sicut hic [127].

D'altro canto tutta la ricostruzione del sistema giustinianeo fatta da Du


Moulin è finalizzata a porre parametri da considerare validi di per sé, insu-
perabili, perché posti da Giustiniano. E che colloca quindi il giurista pari-
gino in una posizione particolare, lontana quindi da quella dell'antitribonia-
nesimo e dei Iustinianomastiges, tanto che a più riprese si è potuto parlare di
lui anche come di un “neo-bartolista”24. È un modo di procedere quindi che
potrebbe essere definito antistorico, apparentemente contraddittorio con le
altre posizioni sopra ricordate (anche se ha una sua logica pratica, una sua
precisa motivazione politica, come si vedrà); un modo che si ricollega con il
metodo della analysis che fin dalla dedica al lettore rivendica come nuovo e
specifico della sua indagine25.
Tutto lo sforzo esegetico, volto a chiarire il complesso sistema delle
usurae nel diritto romano (dalla semiuncialis alla centesima), è in fondo lo
sforzo di chi vuole dimostrare che questa sistemazione giustinianea era, ed
è, una sistemazione legittima, e per di più obbligante; si veda ad esempio
come concluda un ragionamento affermando che “iudices [...] non debent
[...] metas sanctissimas et aequabilissimas iuris civilis excedi”[522]. Come
di lì a poco avrebbe scritto con altrettanta icasticità Doneau, Giustiniano
“ius novum constituit”26.
A Du Moulin importava ricostruire in modo analitico questo sistema
come esempio di sistema autonomo e autofondante, e che, anzi, non trova
ostacoli esterni; “haec iuris civilis censura et limitatio [ligat] etiam in foro
conscientiae”[494]27.

24
Cfr. ad esempio recentemente D. R. KELLEY, Foundations of Modern Historical
Scholarship. Language, Law and History in the French Renaissance, New York-London
1970, p. 173; ma cfr. le riserve in proposito espresse, da tempo, da MAFFEI, Gli inizi del-
l'umanesimo giuridico, cit., pp. 187-188, riprese nella recensione al volume di Thireau (cfr.
“Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis” LI (1983), pp. 411-412).
25
E cfr. anche, ad esempio, §§ 174 e 272.
26
H. DONELLUS, Commentariorum in codicem Iustiniani [ad tit. XXXII lib. IV C. de
usuris], in Opera omnia, VIII, Florentiae 1846, coll. 414-415.
27
Cfr. anche § 503. Il problema del valore del Codex in rapporto ai dettati del Concilio
Niceno in tema di usura (e quindi il giudizio sulla figura stessa di Giustiniano) è molto an-
tico nella tradizione esegetica, soprattutto nel commento della l. cunctos populos (C.1.1.1):
a titolo di esempio si veda la significativa repetitio di Caccialupi ricordata a nota 105. Si
7

Questo richiamo al forum conscientiae ci spinge a trattare quello che


potremmo definire uno dei punti cardine della elaborazione del giurista
francese e ad illuminare un interessante momento di incontro tra tradizione
romanistica e riflessione teologica influenzata dal mondo riformato.
Laddove Du Moulin svolge i suoi elogi di Giustiniano, là anche pole-
mizza “adversus calumnias vulgarium canonistarum et theologastrorum”;
richiamata la loro “vanitas et imperitia”, e facendo leva anche su alcuni
passi di Alciato28, non svolge solo una apologia del diritto giustinianeo, ma,
si potrebbe dire, del diritto di per sé. Il problema dei rapporti tra legge civile
e precetti biblici (con particolare riferimento poi al tema dell'usura) aveva
una lunga tradizione di dibattiti e confronti; Baldo, come abbiamo visto, lo
aveva individuato con estrema sinteticità.
Le fonti della elaborazione di Du Moulin non sono però solo quelle
della tradizione dell'utrumque ius e della teologia (che pure dimostra di co-
noscere piuttosto bene); sono da ricercare altrove e si collegano ad una fase
del tutto particolare dei dibattiti cinquecenteschi, anche se va riconosciuto
come dallo sfondo delle sue pagine si stagli più e più volte la figura di Ger-
son, quell'“unus insignis” che “simpliciter et speciatim amplexus est et
comprobavit iuris civilis dispositionem”[487]29. È necessario a questo punto
riportare una citazione di una certa lunghezza del giurista parigino, che rive-
ste notevole importanza:

Caeterum particulare iudicium de contractuum formis aequalitate et iustitia non ex


sacra scriptura peti debet, sed ex civilibus legibus, quae de his negotiis diserte et si-
gnate loquuntur et penes quas semper fuit authoritas iudicandi de contractibus. Chri-
sti enim regnum non est de hoc mundo, ideo nec politias ordinat, nec leges condit de
humanis negociis ac commerciis, sed reiicit harum rerum cognitionem in civilem
magistratum.

Aggiungeva poi che il Vangelo chiede sì giustizia e eguaglianza nei ne-


gozi civili,

sed formas ac regulas eorum non describit, nec indicat speciatim quid in singulis
contractibus iustum et iniustum, aequum et iniquum; ideo necesse est in his sequi
ordinationes publicas consentientes rectae rationi, nec eas transgredi licet. Non enim
propter poenas tantum, sed etiam propter conscientiam obedientia debetur legitimo
magistratui in politicis ordinationibus [87].

La maggior parte delle proposizioni di questo paragrafo (come di quelli


immediatamente successivi) sono estrapolate e rimontate da un testo in cui,
egli stesso ricorda, si era imbattuto “dum haec ad excudendum recognosce-

confronti poi, la presentazione che del problema fece C. SUMMENHART, De contractibus, q.


XXII (Venetiis, Apud Franciscum Zilettum 1580, cc. 71-87; la prima edizione è del 1500).
28
Cfr. §§ 48, 70 e 84.
29
Cfr. anche § 16, 109, 226, 404. Il riferimento è soprattutto all'Opusculum de con-
tractibus (cfr. J. GERSON, Opera omnia, III, Antwerpiae, Sumptibus Societatis, 1706, coll.
165-196) da cui si poteva estrarre (senza troppo tradire il pensiero dell'autore) una frase del
genere: “arbitrio legislatoris subjacet contractuum modificatio, limitatio vel amplificatio”.
Sull'importanza della figura di Gerson negli ambienti riformati ha richiamato l'attenzione H.
A. OBERMAN, I maestri della Riforma. La formazione di un nuovo clima intellettuale, Bo-
logna 1982, pp. 100 e ss.
8

rem”: ne era autore il pastore luterano di Amburgo Johann Hoeck (Ae-


pinus)30. L'incontro con questo opuscolo rappresentò senz'altro un momento
importante per l'elaborazione di Du Moulin, così come era stato un altro in-
contro, quello con la Philosophiae moralis epitome di Melantone31.
Nonostante molta storiografia francese abbia puntato l'attenzione so-
prattutto sui rapporti tra Du Moulin e Calvino (e a chi spetti il primato tem-
porale di certe riflessioni)32, io credo che in questa fase dell'elaborazione del
Tractatus sia stato più importante l'incontro con i teologi luterani: visto, tra
l'altro, che sono gli unici espressamente ricordati e di cui è agevole ricono-
scere l'influenza.
Va chiarito subito che Melantone ed Aepinus sono utilizzati da Du
Moulin secondo il metodo tradizionale delle citazioni dei giuristi: la ricerca
delle auctoritates porta ad una decontestualizzazione delle opere originarie,
si perdono i parametri e i motivi per cui erano state scritte - in questo caso la
polemica contro le correnti radicali della riforma, innanzi tutto i catabapti-
stae (come li chiamava Aepinus), ma anche personaggi che non si identifi-
cavano completamente con il movimento anabattista (Jakob Strauss, ad
esempio), o che addirittura erano precedenti al movimento stesso33.
Certo è che una significativa testimonianza della ripresa del dibattito sui
(conflittuali) rapporti tra Vangelo e diritto (e diritto comune, in specie) lo
troviamo in un passo di una lettera di Budé a Lupset, lettera premessa ad
una delle prime edizioni dell'Utopia di Tommaso Moro e scritta in un anno
fatidico. Nell'estate del 1517 Budé annotava: “Christus omne iuris istius ci-
vilis pontificiique adeo recentioris argumentosa volumina inter suos quidem
abrogasse mihi videtur”34. Le contingenze della pubblicazione possono forse
spiegare in parte perché Budé potesse essersi spinto in un giudizio del ge-
nere; e sarebbe forse anche poco rilevante se affermazioni di tal sorta fos-
sero state confinate in libri per dotti. Il fatto è il movimento per la riforma
religiosa diede nuovo fiato e amplificò enormemente posizioni che po-
tremmo anche definire di carattere utopico, ma che senz'altro troviamo

30
I. AEPINI, In psalmum XV. Davidis commentarius, Argentorati excudebat M. Iacobus
Cammerlander 1543, in particolare cc. 27 e ss. I §§ 87-89, in cui vi è uno dei maggiori
“prestiti” da Aepinus sono gli stessi ripresi da Cavallini nel suo Milleloquiorum iuris (cfr.
nota 15).
31
L'editio princeps è del 1538; citerò dal testo incluso nel Corpus reformatorum, XVI,
Halis Saxonum 1850 (d'ora in avanti citato come CR).
32
THIREAU, Charles Du Moulin, cit. pp. 355-356; ma cfr. già H. HAUSER, La moder-
nité du XVIe siècle, Paris 1963, cap. V: Les idées économiques des Calvin. La piena, seppur
conflittuale, adesione di Du Moulin al mondo riformato è dimenticata anche da un attento
autore come J. T. NOONAN, The Scholastic Analysis of Usury, Cambridge Mass. 1957, p.
367: “the first Catholic writer to urge the licitness of moderate usury”.
33
G. H. WILLIAMS, The Radical Reformation, Philadelphia 1962, pp. 53 e ss; J. S.
OYER, The influence of Jacob Strauss on the Anabaptists. A problem in historical metho-
dology, in The Origins and Characteristics of Anabaptism, ed. by M. LIENHARD, The Ha-
gue 1977, pp. 62-82; su Strauss e tutto il movimento radicale cfr. anche le precise indica-
zioni di B. NELSON, Usura e cristianesimo, Firenze 1967, pp. 64 e ss.
34
T. MORE, Utopia, a c. di L. Firpo, Vicenza 1978, p. 270.
9

comparire e ricomparire più e più volte35.


Deve senz'altro far riflettere che nel 1522 un giurista umanista come
Claude Chansonette (Cantiuncula) pubblicasse una Oratio apologetica in
patrocinium iuris civilis, esplicitamente critica contro “quosdam nimium
theologos”36. Dalle obiezioni di Chansonette si possono comprendere quali
fossero le critiche dei suoi oppositori: insieme ai consueti topoi della pole-
mica antiromanistica (ogni città ha le sue leggi, il giudice può anche essere
“illitteratus”), troviamo una connotazione religiosa che segna come si fosse
in presenza di un salto di qualità nel dibattito; secondo questi “nimii theo-
logi” il diritto romano era una disciplina “cum evangelica doctrina ex dia-
metro pugnans”; il centro della discussione era rappresentato dalle afferma-
zioni di chi reputava che “leges christianas - quas illi vocant saeculares -
cum pietate christiana non cohaerere”. Le risposte di Chansonette tendevano
a ridurre nella fattispecie il messaggio evangelico ad una “hyperbole” (ad
esempio il passo di Matteo sul divieto di giurare e sull'offrire l'altra guan-
cia)37. Ma vi era chi non si accontentava delle pacate parole di Chansonette e
andava a riprendere non solo il messaggio cristiano, ma anche quello vete-
rotestamentario.
L'opposizione ai processi di recezione del diritto romano si era stretta-
mente coniugata con le esigenze di riforma religiosa, e con i moti dei gruppi
più radicali38. Non è questa la sede per ripercorrere le tappe che portarono
Lutero allo svolgimento della teoria dei due “regni” o “reggimenti”39, anche

35
Sul tema cfr., ad esempio, A. E. BALDINI, Riforma luterana e utopia: gli 'Statuti del
paese di Wolfaria' di Johann Eberlin, in “Il pensiero politico” XIX (1986), pp. 3-31; anche
negli Statuti di Wolfaria compaiono passi di questo genere: “noi aboliamo tutto il vecchio
diritto imperiale e quello canonico [...] D'ora in poi non devono più esserci giuristi o avvo-
cati” (A. E. BALDINI, Gli “Statuti di Wolfaria” di Johannes Eberlin, in “Memorie dell'Ac-
cademia delle Scienze di Torino. Classe di Sc. Morali, Stor. Filol.” S. V, vol. 10, fasc. 3-4
(1986), p. 64).
36
Ripubblicata da G. KISCH, Claudius Cantiuncula. Ein Basler Jurist und Humanist
des 16. Jahrhunderts, Basel 1970, pp. 163-214. Sul testo aveva già richiamato l'attenzione
R. STINTZING, Geschichte der Deutschen Rechtswissenschaft, München-Leipzig 1880, I, p.
100.
37
D'altronde questi sono gli anni in cui si rinnova un forte dibattito sul problema del-
l'aequitas; cfr. in proposito G. KISCH, Erasmus und die Jurisprudenz seiner Zeit, Basel
1960. Significativo documento delle tensioni presenti anche negli ambienti dei giuristi pro-
fessionisti può essere considerata la curiosa lettera scritta nel settembre del 1539 da Pierre
Loriot al governo di Basilea: chiedeva di sostenere una disputa in cui dimostrare “ius illud
[romanum] non solum Mosaicis, verum etiam Christi legibus est contrarium” contro l'opi-
nione di quelle persone che, seppure “magni nominis”, affermavano “Dei quidem decreta
optima esse illa, tamen nullam reip. concernere politiam”; uno dei terreni su cui eviden-
ziava il distacco tra diritto romano e leggi evangeliche era proprio quello che qui interessa:
“Romanis legibus permittuntur usurae, permittuntur in contrahendo deceptiones, modo do-
lus absit; at coelestia oracula neque usuras admittunt neque deceptiones ullas” (Die Amer-
bachkorrespondenz, hgb. A. HARTMANN, V, Basel 1958, pp. 240-242).
38
La bibliografia in tema è da un lato molto vasta, ma dall'altro anche abbastanza defi-
citaria, soprattutto per quanto riguarda le analisi dei testi: oltre al classico volume di F.
WIEACKER, Storia del diritto privato moderno con particolare riguardo alla Germania,
Milano 1980, I, pp. 177 e ss, cfr., tra i più recenti contributi, G. STRAUSS, Law, Resistance,
and the State. The Opposition to Roman Law in Reformation Germany, Princeton 1986.
39
Ricordiamo ad esempio F. E. CRANZ, An Essay in the Development of Luther's
Thought on Justice, Law and Society, Cambridge (Mass.) 1964 [Harvard Theological Stu-
10

perché Du Moulin non sembra tanto conoscere le opere di Lutero quanto


quelle di Melantone; e in effetti dalle pagine del “praeceptor Germaniae”
possiamo trarre utili indicazioni per meglio comprendere le analisi del giuri-
sta parigino in materia di usura e interesse40.
Chiunque legga il Tractatus commerciorum si avvede ben presto che
una delle nuove auctoritates cui Du Moulin non disdegna fare affidamento è
proprio un'opera di Melantone, la ricordata Philosophiae moralis epitome.
La riflessione sul problema del diritto da parte di Melantone presenta fasi
diverse, collegate anche con il mutare delle contingenze e dei problemi po-
litici che di volta in volta dovette affrontare; ma nonostante i cambiamenti,
possiamo riscontrare una sostanziale unità di pensiero41. Già in una signifi-
cativa lettera dell'aprile del 1524 troviamo quello che si può considerare il
nucleo della sua riflessione:

Postea disputatum est de lege Christi, ubi ego multis verbis adfirmavi non oportere
nos secundum legem Christi res politicas iudicare, quia evangelium permittit nobis
libertatem utendi legibus civilibus vel Romanis42.

Postea disputatum est, scriveva Melantone, in quanto nella parte prece-


dente della lettera aveva narrato delle discussioni avvenute con Strauss su
diversi temi, tra cui anche quello del commercio degli “annui redditus”. Fin
dall'inizio vi è, quindi, un collegamento tra problema della validità del mes-
saggio evangelico in rapporto al diritto e a questioni di legittimità in tema di
contratti. La posizione di Melantone (che troveremo ripetuta infinite volte)
era caratterizzata non solo da una decisa volontà di tenere separati tra loro
precetti veterotestamentari e messagio evangelico, e questi, a loro volta, dal
mondo del diritto, ma anche da una tendenza ad appiattire i precetti vetero-
testamentari nell'ambito dei precetti “cerimoniali”. Dalla di poco successiva
Oratio de legibus fino agli Ethicae doctrinae elementa del 1550, passando
attraverso le diverse edizioni dei Loci communes theologici43 e altre opere di
cui ora diremo, due temi ricorrono in modo continuo ed uniforme: la pole-
mica “anti-restituzionista” (il tentativo di riportare in vigore i precetti bi-
blici) e quella contro coloro che volevano tradurre il messaggio evangelico

dies XIX]; W. D. J. CARGILL THOMPSON, The Zwei-Reiche and Zwei-Regimente-Lehre, in


The Political Thought of Martin Luther, Brighton 1984.
40
Per altri aspetti della sua riflessione sui problemi delle chiese cfr. THIREAU, Charles
Du Moulin, pp. 272 e ss.
41
Tra le opere più interessanti in proposito cfr. C. BAUER, Melanchtons Wirtschafts-
ethik, in “Archiv für Reformationsgeschichte” 49 (1958), pp. 115-160 (e ora anche in ID.,
Gesammelte Aufsätze zur Wirtschafts- und Sozial- geschichte, Freiburg Basel 1965, pp.
305-345); G. KISCH, Melanchtons Rechts- und Soziallehre, Berlin 1967; NELSON, Usura,
cit., pp. 87 e ss; da ultimo ha richiamato l'attenzione J. Q. WHITMAN, The Legacy of Roman
Law in the German Romantic Era, Princeton 1990.
CR I, Halis Saxonum 1834, col. 655. Su questa lettera (ripresa anche
42

in M. LUTHER, Briefwechsel, Weimar 1933, 3, pp. 276-277) cfr. W.


MAURER, Der junge Melanchthon zwischen Humanismus und Reformation,
Göttingen 1967-1969, II, p. 451.
43
Rispettivamente in CR XI, coll. 66-86 (ristampata in KISCH, Melanchtons Rechts-
und Soziallehre, cit., pp. 189-209); CR XVI, coll. 165-276; CR XXI.
11

in dottrina politica o giuridica44.


In tale prospettiva particolarmente significativi sono due scritti degli
anni Trenta. Nel primo di questi, i Commentarii in aliquot politicorum li-
bros Aristotelis, Melantone intende espressamente “discernere politicam ab
Evangelio et imperitorum opinionem convellere, qui somniant Evangelium
nihil esse aliud nisi politicam doctrinam, iuxta quam civitates constituendae
sint”45. In questo testo è quanto mai decisa la volontà di tenere ben distinta la
figura del pastore di anime da quella di chi deve governare: “Ut igitur So-
crates initio suae politiae dimisit e sua civitate poetas: ita nos theologos non
quidem civitate eiiciemus, sed tamen a gubernaculis reipublicae removebi-
mus, ne novas leges ferant et rogabimus eos ut suum faciant officium, et
Evangelium pure tradant de fide quae est aeterna iustitia, de poenitentia, de
charitate”46.
Uno dei temi che sembrano essere all'ordine del giorno nella Germania
degli anni Venti-Trenta del Cinquecento è quello della validità di alcuni tipi
di contratti in rapporto alle esigenze di rinnovamento religioso. Melantone è
in queste opere per un mantenimento ferreo dello status quo, per una rigida
distinzione di competenze:

hic disputant recentiores utrum liceat Christianis exercere foenus. Nos breviter re-
spondemus, Christiano licere uti contractibus quos leges probant [...] quemadmodum
licet Christiano uti aliis politicis ordinationibus [...] Multi hoc tempore miras tra-
goedias agunt de contractibus, qui nostris temporibus in usu sunt. Nos meminisse
convenit, quod iudicium de contractibus non pertinet ad privatos homines aut do-
centes Evangelium. Tota res ad magistratum reiicienda est. Is debet pronunciare qui
contractus sint probandi, sicut medici est pronuntiare quae pharmaca danda sint in
febri, quae in pleuritide. Itaque non est permittendum concionatoribus ut sibi sumant
iudicium de contractibus, praesertim contra iudicium publicarum legum [...] satis est
in negotiis civilibus probabili ratione uti. Non ubique demonstrationes aut exactis-
simae rationes quaerendae sunt47.

44
“Insaniebat igitur Monetarius cum volebat restituere Mosaicam politiam [...] cum
volebat res iudicari ex legibus Moysi. Nam evangelium non iubet gentes recipere politiam
Moysi” (CR XXI, col. 550); sintetici cenni ai problemi del restituzionismo si possono tro-
vare in P. J. KLASSEN, The Economics of Anabaptism 1525 - 1560, The Hague 1964.
45
CR XVI, coll. 417-418. Analoghe argomentazioni erano usate da Melantone nella
coeva disputa sul problema del giuramento: cfr. P. PRODI, Il sacramento del potere. Il giu-
ramento politico nella storia costituzionale dell'Occidente, Bologna 1992, pp. 305 e ss.
46
CR XVI, col. 421.
47
Ibid, coll. 429-430. Nei Commentarii in aliquot politicorum libros Aristotelis è evi-
dente la connessione tra polemica anti-radicale e questione della validità del diritto “dotto”
e/o “romano”: nelle pagine successive a quelle qui citate ricorrono interessanti considera-
zioni sul problema se sia meglio governare in base a leggi scritte o ad arbitrio; così come si
rinnova la polemica contro il carattere vincolante della politia mosaica. Echi di tali dibattiti
si possono trovare anche nelle opere di giuristi professionisti, ad esempio Johann
OLDENDORP, De iure et aequitate disputatio forensis, Coloniae 1541 ; il titolo VI era inti-
tolato “Iure scripto ne an equitate iudicandum sit” e il quesito (cui Oldendorp rispondeva
positivamente) era se il cristiano potesse legittimamente usare le leggi scritte, “non obstante
ea que ex evangelio solent allegari a phanaticis [...] quia Evangelium sicut vitam corpora-
lem non abolet, ita nec legem et ordinationes sine quibus vita corporalis constare non po-
test, vult aboleri [...] evangelium non mutat politias nec imponit gentibus mosaycam ordi-
nationem” (cito dall'edizione Tomus XVII Tractatuum, Venetiis 1550, c. 146v; per questa
raccolta cfr. nota 3). Sulla polemica dei giuristi contro i “phanatici” cfr. qualche cenno in A.
12

Il brano ci sembra di una tale limpidezza che non necessita molte parole
di commento, se per non questo richiamo alla probabilis ratio come criterio
di giudizio delle umane cose, termine che ricorrerà con ancora più frequenza
nella di poco successiva Philosophiae moralis epitome. In questo scritto è
affrontato con più ampiezza il problema dell'usura, all'interno di una visione
complessiva in cui la “philosophia moralis” è ben distinta dal Vangelo, e per
la quale vale il principio della ratio probabilis; vi troviamo quella defini-
zione di usura, “lucrum supra sortem exactum tantum proter officium mu-
tuationis”, che piacque a Du Moulin tanto da fargli così affermare: “nemo
unquam dexterius et dilucidius [definivit] quam doctissimus ille Philippus
Melanchton” [5-6]. Quel Melantone che, nella polemica contro Strauss, si
richiamava a Gerson per affermare la liceità dei contratti di rendita; anche se
ovviamente restava ancora sostanzialmente legato ad una concezione del
denaro di tipo aristotelico48.
In quest'opera Melantone affrontava anche questioni di carattere più
specifico, quali ad esempio il criterio del lucro cessante quale criterio di giu-
stificazione dell'interesse: “etsi autem obscurior est ratio de lucro cessante
ante moram, tamen si sit probabilis ratio, etiam concedendum est [...] Est
[...] in his negotiis illud etiam considerandum quod sufficit habere probabi-
lem rationem et consentaneam legibus”49.
Tutta la costruzione melantoniana si basava in quest'opera sulla ricor-
data distinzione tra la “politia mosaica” (che “nihil pertinet ad nos”)50 e
Vangeli, e tra Vangeli e le “ordinationes politicae”:

tenenda est igitur utilis regula: contractus legibus et autoritate magistratus, hoc est,
boni et sapientis iudicis seu iurisconsulti approbatos, concessos esse christiano ho-
mini. Licet enim christiano uti politicis ordinationibus. Et hae ordinationes valent
non solum propter rationem, sed etiam propter autoritatem magistratus, quam Deus
approbat51.

Come avrebbe ancor più sinteticamente concluso in un altro scritto di


quegli anni “Evangelium cum proprie concionetur de aeterna et spirituali
vita, non mutat, non labefacit oeconomiam aut politiam”52.
In queste opere di Melantone troviamo accennato un tema decisamente
interessante: l'oeconomia e la politia sono sfere dell'agire umano che hanno
uno statuto proprio, che le distingue dalle altre discipline e dal Vangelo, così
come uno statuto proprio hanno altre discipline: “Evangelium sicut nec
abolet nec improbat Arithmeticam aut Architectonicam aut Medicam artem,

MAZZACANE, Scienza, logica e ideologia nella giurisprudenza tedesca del sec. XVI, Milano
1971, pp. 67 e 149.
48
Cfr. infra testo corrispondente a nota 92.
49
CR XVI, col. 141 (corsivo mio).
50
Per comprendere quanto potesse essere innovativa e carica di conseguenze una posi-
zione del genere bisogna non dimenticare come i passi del Levitico o del Deuteronomio
fossero invece comunemente usati nell'esegesi dei problemi dell'usura.
51
CR XVI, col. 131.
52
De dignitate legum CR XI, coll. 358 (KISCH, Melanchtons Rechts- und Soziallehre,
cit., p. 222).
13

sic non abolet nec improbat Oeconomicum et Politicum ordinem”53


L'originalità della sua posizione si evidenzia se prendiamo in considera-
zioni giudizi espressi da un giurista cui era per altro strettamente legato,
Hieronymus Schürpf, il quale, proprio affrontando questioni di usura, nei
suoi Consilia non solo aveva scritto che “ius enim divinum vincit in utroque
foro” ma anche che “cum ius divinum sit maius quam ius civile, non potest
tolli et quicquid est contra institutionem divinam est peccatum. Item quia
Imperator est servus Dei et servus non potest tollere legem domini sui, et li-
cet imperator vellet permittere, tamen non potest, unde lex evangelica sine
dubio vincit legem Caesaris, quia leges debent sacras regulas imitari”54.
Il problema era complesso, presentava molte facce, come fu poi sinteti-
camente evidenziato da Aepinus: questi da un lato ricordava come
“magistratus non habet ius condendi ordinationes pugnantes cum divinis
praeceptis et lege naturae”, ma dall'altro riaffermava che

Domini praecepta de beneficentia et mutuo non debent opponi emptioni reddituum,


quia Dominus in his praeceptis ne quidem verbo attingit emptionis contractum [...]
neque iudicium de contractuum formis ex scriptura peti debet, sed ex civilibus legi-
bus, quae de hisce negotiis diserte et signate loquuntur et penes quas semper fuit
autoritas iudicandi de contractibus55.

Avendo presente tale retroterra si possono ora meglio comprendere


molti passi del Tractatus di Du Moulin, in cui emergono abbondanti e signi-
ficative tracce di questi dibattiti, anche se spesso prive di riferimento a
quello che ne era stato il momento occasionante. Così anche il giurista pari-
gino rifiuta l'autorità di un passo del Levitico “quia illud est praeceptum iu-
diciale illius temporis et solius politiae Iudaicae, quae ad nos non pertinet”
[434]; così troviamo che polemicamente afferma “leges civiles in hac mate-
ria nullomodo contrariantur Evangelio nec legi divinae ut aperte insanierint
et aperte blasphemaverint qui dixerunt Evangelio [...] civilia iura abo-
leri”[85]56.
Tutti questi suoi ragionamenti erano sostanzialmente volti a far sì che la
“iustinianea usurarum moderatio servari potuerit inter Christianos in foro
coscientiae”[70], vale a dire che si potesse costruire un modello giuridico di
definizione del problema dell'usura e dell'interesse del denaro che superasse
le forche caudine dei precetti evangelici.
L'elaborazione che veniva dal mondo riformato tedesco, imsieme ad una
forte identificazione con la tradizione gallicana, forniva gli strumenti utili
per sciogliere almeno una parte dei problemi in proposito: come già osservò
De Roover, il richiamo alla “lex civilis ou l'auctoritas principis” rappresentò
uno degli strumenti fondamentali per “abolir toute entrave à la liberté des

53
Loci Communes theologici [1543], CR XXI, col. 1000.
54
H. SCHURPF, Consiliorum sive responsorum iuris centuria prima [-tertia], Franco-
furti, apud haeredes Christiani Egenolphi 1594: cons. II 50 e III 83.
55
AEPINI, In psalmum XV. Davidis, cit., cc. 26v-27v.
56
E cfr. anche § 254: “ego puto in Parabolis sicut et in Ecclesiastico multa contineri
praecepta et documenta oeconomica et politica philosophiae moralis, pro talibus acci-
pienda, non autem continuo trahenda ad obligationem legis divinae, sicut nec ad gratiam et
virtutem Evangelii”.
14

contrats”57. Ma per un giurista come Du Moulin, così politicamente e reli-


giosamente impegnato, era necessario scendere direttamente nel (pericoloso)
campo dell'interpretazione dei testi evangelici, non poteva sentirsene di-
spensato.
Al centro di tutte le discussioni vi era il problema dell'interpretazione di
un famoso passo del Vangelo di Luca (6, 35), quel passo che, variamente
tradotto, recitava “mutuum date nihil inde sperantes” e su cui si erano eser-
citate schiere di esegeti58. E qualche lettura nuova (o rilettura) era incomin-
ciata a circolare: un riformatore radicale come Andreas Bodenstein (Carlo-
stadius), ad esempio, aveva potuto annotare che a suo parere “verum illud
Mutuum dantes etc. hunc sensum magis recipit: Neque sortis incrementum,
neque sortem ipsam sperate vos recepturos”59. Si delineava così in questi
esegeti una lettura molto meno giuridica, molto più etica del passo di Luca,
visto che si poneva in discussione la restituzione del bene stesso che era
stato oggetto del mutuo.
Non bisogna pensare che tale lettura fosse caratteristica dei soli rifor-
matori radicali, di coloro che volevano fondare una politia evangelica o mo-
saica. Saranno invece proprio i giuristi che, appropriandosene, riusciranno a
portare a termine un'operazione che potremmo definire di svuotamento dal-
l'interno, di compiuta riduzione a mero messaggio etico-religioso. E un
momento significativo in tale operazione è rappresentato dall'opera di Du
Moulin.
Il suo ragionamento infatti si presenta in questa prospettiva del tutto li-
neare (e importante per gli echi che ebbe negli ambienti culturali più di-
versi). Du Moulin, infatti, affronta il problema nei paragrafi iniziali del
Tractatus, laddove passa in rassegna diverse interpretazioni, riandando alle
fonti bibliche e constatando “quod iure divino [usurae] prohibeantur, passim
legitur tam in novo quam in vetero instrumento”[9]. È qui che avviene
quello che può essere considerato uno dei momenti di svolta nella proble-
matica. “Inveteratus error retegitur”, afferma, e osserva che “tam theologi
scholastici, quam canonistae et legistae, [...] magis ad literam quam ad spi-
ritum seu mentem et scopum divinae legis aspicientes”, non avevano com-
preso quale fosse il vero fine del comando divino, la carità; “non est igitur
usura lege divina prohibita et illicita nisi in quantum est contra charita-
tem”[10].
A questo punto è introdotta l'ipotesi che si troverà ripresa poi infinite
volte

Finge mercatorem non inopem ut ex licita negociatione superlucretur accipere mu-


tuum et promittere menstruam vel annuam usuram, vice portionis futuri lucri [...]
Quicquid turbae illae scripserint, nihil hic video noxiae, nihil contra ius divinum aut
naturale, quia nihil hic sit contra charitatem.

57
R. DE ROOVER, L'Evolution de la Lettre de Change XIVe-XVIIIe siècles, Paris 1953,
p. 123.
58
Cfr. da ultimo le considerazioni di U. SANTARELLI, Mercanti e società di mercanti,
Torino 19922, pp. 152 e ss.
59
H.-P. HASSE, Karlstadts Traktat 'De usura', in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. K. A.” LXXVI (1990), p. 327.
15

Questo è l'elemento nuovo del ragionamento: chi prende a prestito è il


ricco (non il povero bisognoso), e fa ciò al fine di guadagnare; quello che
qui è dato per implicito, e che sarà poi esplicitato, è che a seconda delle
condizioni dei soggetti con cui si entra in relazione, muta l'obbligo del rap-
porto di tipo caritativo (o addirittura non viene più a sussistere)60.
Proseguiamo con l'esposizione di Du Moulin:

Cum ex hypothesi debitori suppetat unde commode et retenta bona parte lucri possit
reddere sortem cum usura, sequitur huiusmodi usuram non esse in damnum nec in
fraudem proximi, sed potius in aliquam non modicam eius utilitatem; tantum abest
ut aliquatenus sit contra charitatem vel dilectionem proximi; igitur non est contra le-
ges divinas vel naturales, ergo etiam in conscientia licita est [10].

Du Moulin dimostra di sapersi muovere con grande destrezza nel si-


stema delle argomentazioni, avendo alle spalle un agguerrita schiera di in-
terpreti, non esclusi - come vedremo - i Melantone e gli Aepinus. Restava a
questo punto il problema del passo di Luca 6, 35

Non obstat universalis illa negativa Lucae 6, ibi Nihil inde sperantes; quia illic Chri-
stus non de usura, sed restitutione sortis vel repensione aequalis beneficii loquitur
[11].

Questa lettura del precetto evangelico sembra quindi ricollegarsi all'ese-


gesi fatta in situazioni e ambienti diversi, non ultimi quelli della riforma ra-
dicale; ma il linguaggio e lo schema argomentativo del giurista farà sì che
tale lettura perda la sua valenza immediatamente politica, quasi eversiva, per
assumermene un'altra non meno eversiva, per altro, di una tradizione ben
consolidata, e per avere un'immediata, vasta (e duratura) fortuna.
Per non allontanarci troppo dagli ambienti frequentati da Du Moulin ve-
diamo come fosse subito ripresa da Doneau:

animadvertendum est Christum his verbis non praecipere de mutuo aut usuris non
sperandis vel recipiendis, sed solum praecipere de mutuo dando; quod ita demon-
stratur: nam si iis verbis iuberet usuras non sperari, seu non accipi, etiam iuberet ip-
sam sortem mutuo datam non exigi; non enim dicit Christus usuras inde non spe-
rantes, sed nihil sperantes; quae verba non tantum ad usuras sed etiam ad sortem ip-
sam referuntur [...] Christus saltem iubet ut mutuum demus sub hac conditione
etiamsi nihil speremus nos recepturos neque ex sorte neque ex usuris61.

Sulla stessa linea si era mosso pure Hotman, sia nella accademica Di-
sputatio de foenore del 1551 (“Quando inopi propter Dominum daturus es,

60
Anche in Hotman vi è analogo ragionamento: “De paupere et eo qui necessitate
premitur, nunc nihil quaerimus. Gratis enim illi mutuo dandum est. De locuplete igitur am-
bigimus, qui cum nullius opis indigeat, quaeritur ex alterius pecunia suas augere copias”
(De foenore, in Opera, Lugduni, sumpt. Haered. Eust. Vignon et Iacobi Stoer 1599, I, col.
803). Su come venne subito utilizzata questa nuova prospettiva, ad esempio nel dibattito sui
“cambi”, cfr. R. SAVELLI, Modelli giuridici e cultura mercantile tra XVI e XVII secolo, in
“Materiali per una storia della cultura giuridica” XVIII (1988), pp. 9 e ss.
61
H. DONELLUS, Opera omnia, VIII, Florentiae 1846: Ad titulum XXXII lib. IV Cod. de
usuris, coll. 425-426. .
16

haec eadem et donatio et mutuatio est”)62, sia nel successivo opuscolo Ad-
vertissement sur le fait del'usure63. Echi di questi dibattiti d'oltralpe, di quel
“crypto-Calvinist club” di cui ha scritto Kelley64, si possono trovare abba-
stanza rapidamente in Italia: a Roma nel 1557 Antonio Massa pubblica la
sua breve e dotta trattazione in tema, e anch'egli osserva che dal confronto
delle parole di Matteo con quelle di Luca “patet quod ubi dixit mutuum date
nihil inde sperantes, non locutus est de usuris, quae iam a Mose erant prohi-
bitae [...] sed sensit de ipsa sorte mutuata”65. Da Du Moulin a una schiera di
esegeti più o meno illustri, passa il principio che il precetto evangelico non
riguarda tanto le usurae quanto la sors stessa.
Se ciò è vero, diventa evidente che i beni oggetto del mutuo (a incomin-
ciare dal denaro) entrano in un sistema di relazioni diverse, significa che il
termine mutuum perde una sua precisa e consolidata connotazione giuridica,
di figura contrattuale, per passare a designare anche altri tipi di relazioni tra
le persone. In questo senso l'operazione svolta da Du Moulin (e di quanti si
collocarono su questa strada) risulta del tutto trasparente nel momento in cui
sottopone a esegesi critica la molteplicità di usi e significati del termine
mutuum, e i molteplici sistemi di relazioni sociali e giuridiche sottesi a tale
rapporto:

Mutui [...] triplex est usus. Primus per modum vere eleemosynae, ut quando fit indi-
genti, etiam si numquam reddere queat, et sine spe restitutionis [...] Secundus per
modum simplicis officiositatis temporariae et gratuitae, ut quando omnino speratur
reddi et ad hoc recipiens obligatur praecise. Tertius per modum negociationis, ut
quando creditori non mutuat gratis, sed de certo quaestu paciscitur [73].66

Eleemosyna, officiositas, negociatio - ecco tre diversi, e alternativi, si-


gnificati del termine mutuum, ecco tre piani distinti dell'agire umano, ecco

62
Opera, cit., I, col. 799.
63
Lyon, par Macé Bonhomme 1552, pp. 26-27: “la doctrine et enseignement que no-
stre seigneur nous donne en ce passage c'est que faisans bien à un chacun, nous n'ayons au-
tre regard que de secourir et aider à autruy sans aucun consideracion de nous mesmes; et
que par ce moyen nous sourpassions en humanitté les gentilz et payens, qui ne font iamais
plaisir si non à ceulx desquelz ilz attendent bonne recompense [...] Par ainsi ce que nostre
Seigneur adiouste incontinent apres [...] aimez voz ennemis, faictez leur du bien, et prestez
sans en rien esperer; ne se doit entendre ny de l'usure, ny du principal; mais comme s'il di-
soit sans esperer rien des choses que les hommes qui veullent acquerir la bonne grace de
quelcun ont coustume d'attendre de ceux ausquelz ilz font quelque plaisir, un bon tour a la
pareille [...] Autrement nous voyons ce qu'il s'ensuivroyt c'est a savoir que Iesus Christ eust
estably une loy politique, ce qui n'estoit ny son intention ny son office”. La carità cristiana,
agli occhi di Hotman, è radicalmente diversa dalla officiositas classica (e Cicerone è qui
espresamente richiamato in contrapposizione al discorso evangelico).
64
KELLEY, Foundations of Modern Historical Scholarship, cit., p. 101.
65
De Usuris, Apud Valerium Doricum, p. 36
66
E cfr. anche il § 90: “Tota autem epitasis versatur super verbo mutuum, quod non
semper eodem modo fit [...] Nempe in sacris literis quandoque exigitur etiam sine spe re-
stitutionis ut Lucae 6 [...] et tunc non est proprie mutuum, sed mera eleemosyna. Quando-
que cum spe restitutionis, prout charitas [...] et tunc proprie et stricte accipitur, nec usuram
aut aliquam accessionem patitur, quia non est negociatio, sed officiositas. Quandoque acci-
pitur pro foenore seu actu negociationis, ut quando ab initio mutuatur sub certis usuris et illi
cum quo licet alias pacisci de lucro vel quaestu; et tunc non est proprie et mere mutuum,
sed foenus et actus negociationis”.
17

tre nuovi termini attorno cui il ragionamento di Du Moulin può liberamente


muoversi. Ed è attorno a queste articolazioni che ritroviamo un nuovo colle-
gamento con la riflessione dei teologi riformati. Meglio si comprende ora
perché tanto fosse piaciuta a Du Moulin la definizione di usura elaborata da
Melantone (“lucrum supra sortem exactum tantum proter officium mutua-
tionis”): proprio perché limitava l'usura ai soli casi di mutuo inteso in senso
stretto e specifico di officium/officiositas. Ma procediamo con ordine.
Il precetto evangelico del mutuum date nihil inde sperantes va quindi
letto come precetto (e non come consiglio), ma si riferisce soprattutto al
primo tipo di atto, ovviamente gratuito, che è l'elemosina. Questa sembra
essere la sfera per la quale più propriamente si può parlare di carità.
Segue poi un ambito di relazioni umane contrassegnate dalla officiosi-
tas, in cui propriamente vi è uso del mutuo gratuito:

merum mutuum est quod proprie et stricte capitur, videlicet quando realiter fit de
meo tuum, ut liberaliter utaris et tantundem duntaxat reddas [...] substantiale et finis
mutui [...] nihil aliud est quam officium et liberalitas usus, sive officiosa concessio
usus rei fungibilis, ut tantundem postea reddatur [...] quando fit sub usuris tunc enim
omnium maxime degenerat a simplicitate et substantia mutui, quae principaliter in
officio et liberalitate consistit, imo mutuum proprie nihil aliud est quam officium et
donatio usus pecuniae; sed si fiat sub usuris, iam venditur officium et sic desinit esse
officium, et transit in negotium foeneratorium [...] qui mutuat non negocium sed of-
ficium et liberalitatem exercet [...] unde si paciscitur de usuris, contra naturam actus
facit; et quanto gravioribus usuris, tanto honestum et liberalem officium in negocium
illiberale et odiosum foenoris commercium convertit [654, 656, 664].

I termini che vengono usati in parallelo a mutuum sono appunto offi-


cium, officiositas, liberalitas; vale a dire termini che indicano relazioni non
economiche, non commerciali, e, se vogliamo, anche pregiuridiche; e che
sono anche distinte dalla sfera della carità. Anche Melantone era ricorso alla
distinzione tra officia e contractus in un altra opera, In officia Ciceronis
prolegomena: “vocantur officia omnia opera oeconomica et politica debita
obligatione naturali, ut officia parentum erga sobolem, educatio [...] institu-
tio [...] amicorum erga amicos, civium erga cives non debita obligatione ci-
vili [...] contractus autem differunt ab officiis eo quod altera persona in con-
tractu obligata est non solum divina et naturali obligatione, sed etiam ci-
vili”67.
Il terzo tipo di atti è quello della negociatio, dei commercia, e dei con-
tractus: “Duplex est negociatio. Altera rerum absolute, sive dominii et pro-
prietatis rerum acquirendarum vel transferendarum. Altera, non rerum ab-
solute, sed usus vel fruitionis ipsarum rerum. Ad priorem spectant omnes
contractus proprie commutativi, ut permutationes et etiam venditiones pro-
prie et absolute sumptae [...] Ad secundam non spectant contractus proprie
commutativi [...] sed locationes, emphiteuses et similes contractus succes-
sivi”[439].
Questa tripartizione di atti (e contratti) rimanda ad una tripartizione di
diversi soggetti con cui si entra in rapporto, a seconda del tipo di atti, e
verso i quali si possono (e devono) avere comportamenti ed obblighi diffe-

67
CR XVI, col. 592.
18

renziati. Proprio perché, restando sempre all'interno di una prospettiva


evangelica, secondo Du Moulin vera è la massima secondo cui “non hoc
vult Christus, ut cuilibet quavis ratione petenti demus, si forte scurra, de-
coctor” [71]68.
E a questo proposito, ancora una volta, il nostro giurista parigino espli-
cita una delle fonti della sua ispirazione, il più volte ricordato Aepinus69. Ai
§§ 86-89 del suo Tractatus Du Moulin trascrive ampiamente dal commenta-
rio del pastore luterano, e trascrive quei passi in cui Aepinus aveva dato una
rappresentazione della società basata sostanzialmente su diversi livelli di
povertà o ricchezza:

Tres sunt hominum ordines in hac vita [...] Quidam sunt pauperes, qui inevitabili
paupertatis necessitate adiguntur ad mendicitatem, qui acceptum reddere nequeunt.
Alij sunt indigentes, his alieno auxilio ad tempus opus est [...] Tertij ordinis sunt qui
possessiones tenent [...] Ex hac ordinum distributione iuditium sumendum est de his
quibus gratis debeatur et cum quibus liceat pacisci de lucro [... Dominus] primi or-
dini homines iubet iuvare gratuita beneficentia sive eleemosyna [...] Ad hunc secun-
dum ordinem referendae sunt divinae leges de mutuo et usuris [...] quae significanter
loquuntur de indigentibus, non de omnibus70

Da questo tipo di descrizione della società e dei bisogni, derivano ov-


viamente indicazioni preziose sui differenti modi di tenere officia o con-
tractus. E, come avrebbe poi sintetizzato Du Moulin,

itaque magnus et pernitiosus error est Christi praecepta de beneficentia et mutuo et


singula alia evangelii praecepta indifferenter sine iudicio detorquere ad omnes om-
nium ordinum ac statuum homines [87].

L'errore dei teologi scolastici così come dei radicali catabaptistae era
stato in qualche modo simile: entrambi volevano che il mutuo si facesse in
egual modo verso tutti. I primi, di fronte all'impossibilità pratica di conci-
liare il mondo con il Vangelo, avevano ridotto i precetti a meri consilia; i
secondi li avevano mantenuti nel loro valore originario, opponendoli alle
leggi civili. Ma l'errore concettuale era sostanzialmente identico71.
Come aveva già notato Nelson questo tipo di argomentazione (relativa-
mente a tre ordini di soggetti) aveva un precedente importante, anche se non

68
Du Moulin utilizza come auctoritas della sua affermazione un passo del Decretum
(c.2, C.V, q.V) tratto dalla epistola 93 “ad Vincentium Donatistam” di S. Agostino, su cui
aveva richiamato l'attenzione già Gabriel Biel, per dichiarare anch'egli “sicut non de omni-
bus bonis danda est elemosyna, ita nec omnibus est indiscrete eroganda” (G. BIEL, In
quartum librum sententiarum, Basilee, Iacob de Pfortzen, 1512, dist. XVI, q. IV).
69
A dire il vero ricorda anche un altro non identificato personaggio che aveva svilup-
pato concetti analoghi: “Multum olim delectatus sum audiens a quodam theologo publice
Parisiis Psalterium interpretante [...] sic exponi, Pauperem esse qui omnino indiget nec red-
dere potest, et huic non mutuandum sed dandum. Egenum vero esse qui aliquando com-
mode reddere poterit, sed nunc indiget, ut qui habet filiam elocandam nec tantum pecuniae
numeratae habet ut ad dotem sufficiat [...] et huic gratis mutuandum [...] At quosdam esse
qui creditam sibi pecuniam cupiant ut negocientur vel latifundia dilatent, et ab his licere re-
ditus emere” [85]. Un certo tipo di argomentazioni stava evidentemente prendendo piede.
70
AEPINUS, In psalmum XV. Davidis commentarius, cit., cc. 27v-28r.
71
Ibid., cc. 29v-30r
19

conosciutissimo, che è il caso di ricordare72. Si trattava del parere elaborato


alla fine del Quattrocento dal domenicano Annio da Viterbo per giustificare
la liceità dei monti di pietà e dei loro mutui onerosi. Anch'egli aveva de-
scritto la società distinta in più segmenti: al primo livello poneva i ricchi
“quibus Deus dedit divitias et administrationem reipublicae”; al secondo i
poveri, ai quali talvolta manca ciò che serve alla casa e alla famiglia -
“victus et provisio domus et familiae suae”; al terzo i mendicanti “qui prae-
ter camisias et vestimentum nihil habent”73.
Pure l'estroso domenicano aveva dovuto risolvere un problema con-
nesso al rapporto tra precetti evangelici e mondo del denaro: nel suo caso si
trattava di far pagare un modico interesse sui prestiti concessi dal monte di
pietà a una persona bisognosa, che doveva essere inserita in una categoria
distinta sia rispetto al ricco sia all'indigente, per il quale (indigente) valeva
invece il precetto dell'elemosina.
Non possiamo dire con certezza se vi sia stata una filiazione diretta tra
le idee di Annio e quelle di Aepinus, anche perché lo stesso Du Moulin te-
stimonia che analoghi concetti circolavano negli ambienti teologici pari-
gini74. Certo è, però, che lo scritto del domenicano italiano aveva avuto una
diffusione al di fuori del mondo patavino, visto che (e grazie anche al fatto
che) era stato sostanziosamente ripreso da parte del giurista tedesco Chri-
stoph Cuppener75.
Questi modelli di ragionamenti si presentavano agli occhi di Du Moulin
come particolarmente utili e funzionali: innanzi tutto servivano a risolvere
l'annosa questione dei rapporti tra messaggio evangelico e diritto, delimi-
tando la sfera della validità dei precetti a ben determinate categorie di per-
sone e di atti. Si poteva quindi mantenere la universale validità precettiva
del mutuum date nihil inde sperantes, ma identificando e specificando chi
erano coloro verso i quali si era in obbligo, e attraverso, quindi, quali tipo-
logie di atti (e contratti). La conseguenza più evidente era che l'“usura” non
è vietata “nisi quatenus est contra charitatem proximo debitam” [155]76.

72
Usura e cristianesimo, cit., p. 106 nota.
73
Pro Monte pietatis. Consilia sacrorum Theologorum ac collegiorum Patavii et
Perusii. Clarissimorumque doctorum dd. Ioannis Baptistae Rozelli et Ioannis Campegii,
[Venezia, Giovanni Tacuino, 1495-1497]. E cfr. R. SAVELLI, Aspetti del dibattito quattro-
centesco sui monti di pietà: consilia e tractatus, in Banchi pubblici, banchi privati e monti
di pietà nell'Europa preindustriale, “Atti della Società ligure di storia patria” CV (1991),
pp. 541-560.
74
Cfr. nota 69. Ma bisogna ricordare che una tripartizione della società dal punto di vi-
sta dei livelli di ricchezza si trova anche in altro autore molto utilizzato da Du Moulin,
SUMMENHART, De contractibus, q. XIX (ed. cit., cc. 57-58).
75
Consilia elegantissima in materia usurarum, Lipsiae per Melchiorem Lotter, 1508;
su Cuppener ha richiamato recentemente l'attenzione I. Birocchi, Tra elaborazioni nuove e
dottrine tradizionali. Il contratto trino e la natura contractus, in “Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico moderno” 19 (1990), pp. 275 e ss, cui si rinvia per la prece-
dente bibliografia.
76
E cfr. § 518 laddove spiega quando l'usura sia “de se mala et iure divino et decretis
sanctorum patrum damnata”: “primo ad foenus improbum ratione nimii excessus et laesio-
nis [...] secundo, quando foenus est alias temperatum [...] sed exigitur ab eo cui eleemosyna
vel officiositas mutui debetur”.
20

In secondo luogo, un sistema argomentativo di tal sorta era particolar-


mente fruibile da parte di Du Moulin perché presentava interessanti analogie
con i risultati cui era giunto nell'esegesi del diritto romano. Volendo sempli-
ficare all'estremo il suo pensiero, si può affermare che uno dei punti su cui
faceva maggiore affidamento era la ricostruzione che aveva fatto partendo
dal commento al § super usurarum quantitate della l. eos (C.4.32.26) e il
suo abacus usurarum [§§ 53 e ss], proprio perché gli sembrava non con-
traddittoria con il primo livello di analisi, quello condizionato dal mondo dei
precetti evangelici: “concludo ergo quod non in casibus eleemosynae de
quibus supra, sed in usu civilium commerciorum etiam a Christianis servari
posset dicta .l. eos”77. Non che non riconoscesse i suoi debiti nei confronti di
tutta le precedente ricostruzione storica, filologica e giuridica di un Ermolao
Barbaro, di un Bartolomeo Socini, e soprattutto di Budé78; non che non
avesse allargato lo sguardo ad autori minori come Leonardo Porzio o Robert
Céneau; ma è indubbio che si sentiva fiero del sistema costruito intorno al-
l'abacus.
Un primo punto da tenere presente è che agli occhi di Du Moulin cen-
trale è il rapporto che intercorre tra quantità delle usurae e la personarum
qualitas: come avrebbe sintetizzato Hotman (un autore che in parte dipende
da lui), Giustiniano “novam definiendi usurarum modi rationem instituit,
pro personarum condicione et qualitate”79. Il concetto era tutt'altro che
nuovo, visto che tutta la tradizione interpretativa (sia dei civilisti sia dei ca-
nonisti sia, infine, dei teologi) si era trovata sostanzialmente concorde nel-
l'elaborare criteri per cui a determinate categorie di persone potessero essere
riconosciuti legittimi interessi: pensiamo a tutta la casistica relativa al lu-
crum cessans, come criterio speciale (anche se non esclusivo) per i contratti
stipulati dai mercanti.
In tale prospettiva la riflessione di Du Moulin non presenta caratteristi-
che di grande originalità, e forse neanche di particolare coerenza interna,
anche se il principio della qualità delle persone come criterio per valutare la
quantità degli interessi legittimi è un criterio prevalente. Anzi, si può dire
che in tale prospettiva l'elaborazione di Du Moulin presenti talvolta una no-
tevole rigidità formale, volta com'è a cercare una corrispondenza più o meno
fissa con la classificazione delle persone fatta nel suo abacus usurarum.
Da questo punto di vista diciamo che coesistono tre letture diverse del
problema: la prima fa riferimento al sistema di derivazione evangelica (se-
condo la nuova esegesi che va da Annio da Viterbo a Aepinus), vale a dire
(semplificando) che vi sono ricchi (con i quali si fanno contratti e con i quali
è lecito pattuire interessi) e poveri (di diversi generi: per alcuni serve il mu-
tuum, per altri l'eleemosyna).
La seconda invece è centrata sulla lettura della compilazione giustinia-

77
§ 80, corsivo mio.
78
Sul problema delle usurae centesimae cfr. il recente contributo di H. TROJE, Zur
humanistischen Jurisprudenz, in Festschrift für Hermann Heimpel, Göttingen 1972, II, pp.
125-139.
79
HOTMAN, Epitomatorum in pandectas (XXII De usuris), in Opera, cit., I, col.
411.
21

nea: qui vi è una struttura di diverse usurae legitimae che in una scala di-
scendente vanno dalle centesimae alle unciales, e che fanno riferimento alle
diverse qualità personali (illustris, mercante, etc.) o alla tipologia del con-
tratto (ad esempio i contratti di mare, etc.). Questa si può considerare omo-
loga alla tradizionale interpretazione che legava il criterio del lucrum ces-
sans alla condizione di mercante professionista.
Vi è anche un terza lettura che emerge saltuariamente e che sembre-
rebbe talvolta mettere in discussione la precedente. Proprio quando Du
Moulin discute del principio del lucro cessante, e dichiara di consentire con
Melantone “qui [...] scripsit iudicem probabili ratione etiam ad reliquas per-
sonas lucri cessantis exemplum accomodare posse”80; o quando tratta della
quantità lecita dell'interusurium: anche in questo caso propende nell'affer-
mare che è meglio non fare differenze tra chi è e chi non è mercante
(“promiscuum interusurium de quo agitur non debet aestimari ex singulari
utilitate certi hominis, vel hominum certae professionis, sed communiter [...]
secundum utilitatem quae communiter haberi posset ex reditibus praediorum
[...] Igitur ob qualitatem personarum non decet variare aestimationem [...]
interusurii” [606]). Probabilmente in questa terza lettura entra in gioco an-
che una diversa considerazione sociale della figura del mercante, che non
sembra svolgere un ruolo centrale nel sistema del giurista parigino, molto
più attento ai problemi del mondo della terra81. Ma se l'essere mercante
viene in qualche modo svalutato come criterio preferenziale, si offre una
possibilità maggiore all'universo dei soggetti.
D'altronde questa era una prospettiva dominante nella cultura francese
(rispetto a quella che possiamo considerare più diffusa nel mondo italiano);
mi è sembrato estremamente significativo un passo di una relazione ano-
nima sui problemi finanziari in Francia, redatta a metà Cinquecento, in cui si
trova un'originale rilettura dei problemi della diversità dei soggetti. In esso
vi è un preciso rinvio a quello che possiamo considerare un sistema di rela-
zioni sociali in cui il mercante svolge un ruolo importante ma tutt'altro che
egemone; illustrando i differenti tassi d'interessi presenti sul mercato, l'ano-
nimo autore ricordava come fosse necessario

aussi faire mention des pris qui sont différents l'un de l'aultre, selon la qualité des
personnes qui prennent argent à interestz; car ung marchant qui faict grand traffique
de marchandise trouvera plustot à emprunter et à meilleur marché que ne fera ung
gentilhomme ou aultre personne qui n'a la fréquentacion et le crédit pour ce faire, et
n'a coustume de payer ses debtes à jour nommé, comme font lesdictz marchans82

Questa è un'altra prospettiva (per quel rinvio a come i nobili non pa-

80
§ 30; il riferimento primo è alla Philosophiae moralis epitome (ed. cit. col. 138), ma
sono pure ricordati, ovviamente, non solo giuristi come Ancarano, ma anche teologi quali
Biel e Summenhart, esponenti di quella via nova su cui tanto ha insistito Obermann nei suoi
studi sulle origini della riforma.
81
Cfr. anche § 537: “Nihil autem temperantius et naturali ratione hac in re congruen-
tius quam restringere ad lucrum seu proventum qui redit collocata sorte in emptione prae-
diorum, secundum communem et iustam aestimationem”.
82
A. CHAMBERLAND - H. HAUSER, La banque et les changes au temps de Henri II, in
“Revue Historique” LIV (1929), t. 160, p. 276.
22

ghino), ma contribuisce a spiegare come nella cultura francese il mondo


delle relazioni mercantili-finanziarie fosse visto ancora con diffidenza.
Non è quindi casuale che Du Moulin riconosca sí una qualche forma di
condizione privilegiata al mercante, ma pur sempre entro i rigidi limiti posti
dallo ius civile (e dalla menzionata lex eos, in particolare):

mercatori licitum est ex negociatione sua congruum quaestum facere et tamen sive
mutuet pecuniam de qua negociaturus erat, sive ex venditione mercium [...] non po-
test de iure civili ultra besses usuras stipulari [...] Cum enim certum sit mercatores
communiter plus solere lucrari, quis dubitat hoc probari potest? Igitur metae d. .l.
eos procedunt et ligant etiam si constaret et creditor probare vellet de maiori quaestu
vel lucro omisso [503]83.

Quanto De Moulin fosse estraneo se non alieno da un modello culturale


favorevole al mondo mercantile risulta evidente da diversi passi in cui
prende le distanze da quei giuristi italiani tre-quattro e cinquecenteschi che
invece erano portati ad usare un metro differente per il mercante, e ad esem-
plare su questo poi le altre fattispecie. In tale prospettiva è significativo
come critichi soluzioni prospettate da Alberico da Rosciate, da Baldo, da
Angelo degli Ubaldi, accomunati in un acre giudizio di “doctores sed iuris
ignoti professores”, proprio perché avevano oltrepassato i limiti posti dallo
ius civile nel riconoscere come lecita una particolare percentuale di inte-
resse/usura, “quae nunquam fuit in iure permissa etiam iustis mercatoribus,
nisi in traiectitia, quae non est proprie usura [...] et sic illa statuta quae lau-
dat Bal. erant iniqua et valde exhorbitantia, et tamen tempore Baldi ante et
post ita vulgo et secure observabant non solum inter mercatores, sed etiam
promiscue”[597-598]. E il concetto è ripetuto più volte prendendo spunto da
un consilium di Decio, dove a suo parere “secundum communem et theolo-
gorum et iuristarum scholam bene, sed secundum censuram iuris civilis
male consulit” [494]84.
Stiamo qui per ricollegarci con il punto da cui eravamo partiti (come
mai si poteva usare Du Moulin per difendere posizioni di tipo rigorista sul
tema dei cambi), ma per cogliere l'identità del personaggio sono necessarie
ancora alcune considerazioni.
In fondo la parte centrale del suo lavoro (che qui abbiamo omesso di
analizzare) è dedicato proprio a tutto il mondo delle rentes, quei “succedanei
usurarum” che risultavano centrali nel mercato del credito francese e per il
quale era necessario un intervento normativo che lo regolamentasse85. In

83
E cfr. anche § 522: “quanquam negociantibus tolerandus sit aliquis etiam paulo
quam aliis laxior usus usurae, non tamen debent iudices [...] pati metas sanctissimas et
aequabilissimas iuris civilis excedi praetextu interusurii etiam inter negotiatores, quia
abunde sufficit bessis”
84
Il consilium in questione è il 111; anche al § 522 critica Decio per lo stesso consi-
lium, pronunciato contro “veritatem iuris civilis nondum tempore suo detectam” in quanto
superava “aestimationem et metam sancitam iure civili” (cfr. Ph. DECII, Consilia, Lugduni
1565, cc. 120r-121v; e anche nelle note apposte a questo consilium Du Moulin riprendeva il
concetto).
85
“Succedanei usurarum” sono definiti ai §§ 128 e 443: “hi reditus verissime succeda-
nei sunt veterum usurarum, nec possunt censeri proprie inter negociationes commutativas,
cum nulla res vere commutetur”. In realtà altrove Du Moulin aderiva a quella che possiamo
23

questa ottica credo vada letta l'insistenza sullo ius civile, da un lato come
criterio e meta insuperabile, dall'altro, però, come modello legittimante. E
questo è anche il motivo per cui Du Moulin poteva richiamare in proposito
più volte l'autorità di Gerson (come si è visto), per affermare “arbitrio legi-
slatoris subjacet contractuum modificatio, limitatio vel amplificatio”86.

Ne praecludatur via iustis et utilibus contractibus et ne necessitati commerciorum la-


queus iniiciatur, quo sensu scripsit Io. Gerson [...] quod praetextu praecludendi adi-
tum usurae, non debent reprobari multi contractus, qui secundum legem dei non sunt
usurarii aut prohibiti et sunt utiles [...] In quo prudentia et innocentia legislatoris
summopere desiderantur [16].

Era anche un modo per cercare di fare i conti con la realtà del mercato
del credito, quel mercato in cui, secondo la lettura di un passo di Baldo fatta
dal giurista parigino, “expedit multos invenire foeneratores, alioquin multi
fame perirent” [77]87.
Il problema del credito fa emergere un'altra corrente di pensiero cui Du
Moulin si mostra decisamente legato, vale a dire la tradizione aristotelica.
Aristotele era (ovviamente) una delle auctoritates più citate, e non poteva
non esserlo, visto, tra l'altro, il fervore di nuove edizioni e traduzioni pari-
gine nella prima metà del Cinquecento88. In realtà Aristotele non era solo
citato; direi che vi è un'adesione convinta, pur essendo chiaro che gli schemi
della Politica non potevano essere più sufficienti a spiegare e comprendere
la realtà contemporanea, ma restavano comunque schemi forti.
Il problema da cui possiamo partire in questo rapidissimo excursus è
quella della rilettura che Du Moulin fece dei passi aristotelici relativi alla
negociatio: “duplex negociatio. Altera rerum absolute, sive dominii et pro-
prietatis rerum acquirendarum [...] Altera non rerum absolute, sed usus vel
fruitionis ipsarum rerum” [439]. Strettamente collegato è il discorso sull'uso
delle ricchezze e sulla commutatio: onesta è quella fatta “usus, non quaestus
gratia”; mentre disonesta era quella “ex arte excogitata, ad augendas opes
sine modo, in aliorum damnum [...] ut cum res emuntur, ut rursus carius
vendantur, seu generaliter cuius finis usus non est, sed quaestus” [440]. In
questa ottica la teoria del denaro come mero strumento di scambio era cen-
trale. Dalla somma di questi elementi era derivata poi una lunga e articolata

definire allora un'interpretazione ormai standardizzata: “talis reditus non est usura, sed vera
merx et res empta” [21]. Termini analoghi troviamo anche nell'Epitome di Melantone:
“merx est fundus aut ius recipiendi certos reditus” (ed. cit. col. 134). La via maestra con cui
si legittimava questo genere di contratti era quello del ricorso alla tradizionale categoria
dell'emptio-venditio, cfr. infra testo corrispondente a nota 99.
86
Cfr. supra nota 29.
87
In realtà i passi cui fa riferimento erano meno icastici: “saepe ad utilitatem pertinet
usuras conventionales solvere, alias raro inveniret mutuantem” (B. UBALDI, Consiliorum ...
volumen tertium, Venetiis 1575, n. 252) e “expedit multoties quod etiam reperiantur fene-
ratores, quia charitas est omnino annichilata” (ID., In treis primos libros Codicis ... com-
mentaria, Lugduni, apud heredes Joannis Moylin, 1544, c. 5v [C.1.1.1]).
88
Cfr. ad esempio § 532, dove sono ricordate le traduzioni e i commenti della Politica
di Lefèvre d'Etaples, Joachim Perion e di Jacques-Louis d'Estrebay. Sul ruolo del pensiero
di Aristotele e le affinità nella fattispecie con la tradizione romanistica cfr. GROSSI, Ricer-
che sulle obbligazioni pecuniarie, cit., pp. 61 e ss, 355 e ss.
24

tradizione esegetica che condannava l'interesse del denaro come contro na-
tura (sia contro la natura di mezzo di scambio, sia contro il fine
“onesto” dell'uso delle ricchezze)89.
De Moulin si rendeva ben conto come questo schema si presentasse in-
sufficiente, ma bisogna riconoscere che se ne allontana solo parzialmente,
ne resta in fondo influenzato, soprattutto per alcuni giudizi legati al pro-
blema del denaro.
È interessante quindi cogliere nelle pagine del suo Tractatus le tensioni
che il modello di derivazione aristotelico induce. Per certi aspetti è evidente
il distacco da quella che abbiamo definito la tradizione aristotelica. Vi è, ad
esempio, una ricostruzione storica delle posizioni di quei teologi e filosofi
che hanno cercato di dimostrare come l'usura fosse contro natura. A queste
posizioni Du Moulin obietta che:

ipsa rerum experientia et communis sensus ostendunt usum seu fruitionem pecuniae
habere utilitatem usibus hominum commodam et aestimabilem, praeter ipsius sortis
quantitatem vel restitutionem [...] et sic puerile est dicere quod usus pecuniae non
possit seorsum considerari a sorte, eo quod eius usus eiusdem consumptio est; quia
imo usus et fruitio pecuniae non solum consistit in prima momentanea expensa [...]
sed etiam in successivo usu mercium vel rerum inde comparatarum [530].

In questo ragionamento è evidente come l'implicito modello di riferi-


mento sia quello di un uso economico del denaro (in usu mercium). E ad
Aristotele affianca ed oppone citazioni dal Corpus Iuris Civilis arricchite
dalla riflessione sull'esperienza.

Ad comparandum usus temporarium aeris alieni ad promiscuas necessitates compo-


nendas vel negociationes tractandas, necessaria fuit inventio et concessio alicuius
moderatae usurae [...] usurae sunt medium inveniendi et redimendi usus pecuniae
alienae, et ipsa quotidiana negotiorum et commerciorum experientia semper ostendit
[531].

Quindi, può concludere Du Moulin, “ut inventio numi necessaria fuit


[...] ita propter similem, licet non tantam necessitatem, inventa fuit et tole-
rata aliqua usura”[534]90. E a questo punto poteva anche andare a toccare
quello che soprattutto per i teologi era sempre stata una delle questioni più
spinose, quella del tempo in rapporto all'uso del denaro: “usura enim legi-
tima nihil aliud est quam iustum et aequabile praecium promicui interusurii
seu fruitionis pro rata seu mensura temporis” [454].

89
Sul carattere estremamente variegato di questa tradizione sono ora da vedere gli
studi di O. LANGHOLM, Wealth and Money in the Aristotelian Tradition, Bergen 1983;ID.,
The Aristotelian Analysis of Usury, Bergen 1984; ID., Economics in the Medieval Schools.
Wealth, Exchange, Value, Money and Usury according to the Paris Theological Tradition
1200-1350, Leiden 1992
90
E il passo così prosegue: “enim inter eos qui negociantur, clarum est quod plures
crebro multoque usu aeris alieni indigent, nec omnibus nec semper expedit societatem con-
trahere [...] nec inveniuntur qui gratis mutuent, nec his, qui de negotiando et lucrando cer-
tant, mutuum gratuitum debetur”; tanto che fu concesso “creditoribus pacisci de omni
praetenso interesse, etiam lucri cessantis, quantumcumque sit, postquam invaluit stulta illa
et non minus perniciosa quam superstitiosa opinio de usura, de se absolute mala deque im-
pietate et iniquitate iuris civilis in re usuraria”
25

A fianco di queste posizioni che rappresentano un ulteriore passo sulla


strada dell'emancipazione dalla cultura di derivazione classica e aristoteliz-
zante, ne troviamo altre che dimostrano quanto lento e difficoltoso fosse
questo processo, e quanto determinati parametri culturali fossero ancora in
vita.
Significativo di tale stato di transizione è il quesito che Du Moulin pone
ad un certo punto dell'esposizione, vale a dire “an foeneratio sit iusta nego-
ciatio”, e quindi “an qui solam foeneratitiam profitentur dicantur liciti nego-
ciatores, ut eo ipso possint besses stipulari”[58]. La risposta, nonostante i
pro e i contro, nonostante i complessi rinvii al rapporto tra Codex e Novel-
lae, la riposta, si diceva, fu sostanzialmente negativa, in quanto nell'universo
mentale di Du Moulin è implicito che la foeneratio deve essere un'attività
subalterna alla negociatio, non ha valore e statuto autonomo. Altrimenti, ri-
prendendo un topos di tutta la moralistica e la precettistica “antiusuraia”, sa-
rebbe avvenuto che “homines industrii et pecuniosi allicerentur ad solam
hanc ociosam et odiosam foeneraticam, caeteris honestioribus et hominum
generi utilioribus artibus omissis, profitendam”.
La concezione (parte esplicita, parte implicita) sottesa a tali afferma-
zione è illustrata ampiamente e compiutamente in un passo che merita di es-
sere citato per esteso:

negociatio et industria mercatoris, opificis vel negociatoris, non versatur in pecunia


exercenda, nec in foeneratione, sive principali sive incidenti, sed in industria et in
mercibus; igitur non debet negociari de simplici pecunia vel usu pecuniae; quinimo
negociatio foeneratoria, si sola fit, reprobatur non solum a philosophis [...] sed etiam
a legislatore [...] foeneratio non est de iure iusta negociatio [607].

Il concetto che ritorna più volte nelle pagine di Du Moulin è che non
“debet [...] sola pecunia tantum parere et valere quantum iuncta cum indu-
stria et periculo” [608]91. Tale giudizio, come sta a sottolineare quell'onni-
presente non debet, era palesemente il risultato di una concezione del denaro
in cui forte era la componente di carattere morale.
In effetti una gran parte delle discussioni che si erano succedute sul pro-
blema dell'usura/interesse era legata proprio alle risposte che si davano alla
domanda: cosa è questo misterioso oggetto che si definisce denaro? E, poi,
cosa era il denaro per Du Moulin? Come era sintetizzato in uno dei titoli
marginali “pecunia non est merx” e aggiungeva (riprendendo da Aristotele e
D.46.1.42 qui appaiati) “nec venit appellatione mercium vel similium rerum,
nec per eas aestimatur, sed omnes res aestimat”[694]. Sarebbe senz'altro di
grande interesse svolgere una indagine su come ad un certo punto nella dot-
trina compaia e venga accettata la diversa teoria in base alla quale anche la
pecunia può essere considerata merx. Se restiamo vicini alle fonti più utiliz-
zate da Du Moulin possiamo trovare che anche Melantone era sostanzial-
mente allineato su posizioni del genere: “Pretium non debet esse merx; pe-

91
E cfr. ad esempio § 504: “pecunia non tantum parere debet quam industria” (corsivi
miei).
26

cunia est pretium; ergo pecunia non debet esse merx”92.


Un uso lessicale va subito sottolineato: anche Melantone, nonostante la
formale apparenza sillogistica, usa quel non debet che abbiamo appena rile-
vato in alcune proposizione di Du Moulin. Non è del tutto errato affermare
che buona parte delle questioni e dei problemi legati alle discussioni sul-
l'usura derivavano proprio dall'indimostrata assunzione del principio che
“pecunia non debet esse/non est merx”.
A questo punto si può chiarire e comprendere l'apparente paradosso co-
stituito dalla dura e rigida condanna espressa da Du Moulin nei confronti del
mondo delle fiere di cambio, nei confronti di quello che era un settore im-
portante del mercato internazionale del denaro e del credito.
Lione era stata nella prima metà del Cinquecento la piazza attorno a cui
si era anche costruita la grande avventura del banchieri genovesi e della fi-
nanza legata al sistema imperiale spagnolo. Quando Du Moulin scriveva il
suo Tractatus le fiere di cambio dei “genovesi” si erano spostate su altre
piazze, più sicure per gli alleati del re di Spagna93. Lione restava comunque
il centro finanziario francese, e il centro di interscambio con la finanza eu-
ropea. Come ha osservato Gascon, Lione era sí la capitale economica ma
“cette capitale est, en realité, une dépendence, une colonie” dei mercanti
italiani e tedeschi; con tutte le conseguenze che questa condizione compor-
tava a livello di atteggiamenti nazionalistici94. Ma nonostante la diminuita
presenza dei mercanti genovesi, degli hombres de negocios, Lione era e sa-
rebbe rimasta per lungo tempo il centro di riferimento per tutte le esperienze
in campo finanziario, e quindi nel campo del commercio di quella merce-
non merce che è il denaro95.
La presenza di questa apparentemente nuova categoria di banchieri
(commercianti di denaro) è il problema che suscita più problemi a Du Mou-
lin, proprio in quanto questi pretendono di avere lo status di iusti negociato-

92
Philosophiae moralis epitome, cit., col. 128. Sul problema della pecunia-merx con-
siderazioni in Grossi, Ricerche sulle obbligazioni pecuniarie, cit, pp. 180, 357-362, 438; J.
A. MARAVALL, Stato moderno e mentalità sociale, Bologna 1991, II, pp. 81 e ss.
93
R. EHRENBERG, Le Siècle de Fugger, Paris 1955, in specie pp. 239 e ss; D.
GIOFFRÉ', Gênes et les foires de Change. De Lyon à Besançon, Paris 1960; E. OTTE, Sevilla
y las ferias genovesas: Lyon y Besançon. 1503-1560, in Rapporti Genova-Mediterraneo-
Atlantico nell'età moderna, Atti del congresso Internazionale di studi storici, a c. di R. Bel-
vederi, Genova 1983, pp. 247-277.
94
R. GASCON, Grand commerce et vie urbaine au XVIe siècle. Lyon et ses mar-
chands, Paris-La Haye 1971, I, pp. 339-340; II, pp. 711, 941 e ss.
95
Mi sembra il caso di segnalare con quali metafore, ancora a metà Seicento, fosse
nominata la piazza di Lione secondo la testimonianza di un attento gesuita come Joseph
Gibalin : “fuit qui forum lugdunense theatrum iniquitatis, Babylonem alteram, nutricem pu-
blicae usurae [...] compellaret” (J. GIBALINUS, De usuris, commerciis, deque aequitate et
usu fori lugdunensis, Lugduni, sumpt. Phil. Borde, Laur. Arnaud et Cl. Rigaud, 1657, p. 2).
La polemica sugli usi di Lione riprese poi negli anni Settanta del Seicento, in relazione an-
che all'Ordonnance sur le commerce: cfr. l'opera di Gaitte sopra ricordata (cfr. nota 13, la
prima edizione dovrebbe essere del 1673) e la polemica risposta Mutuatio licita pecuniae,
seu tractatus de aequitate trium contractuum qui exercentur in negotiatione et cambio lug-
dunensi, Coloniae, apud Ioannem Piquet 1678. Indicazioni bibliografiche in M.
COURDURIÉ, La dette des collectivités publiques de Marseille au XVIIIe siècle, Marseille
1974, pp. 31 e ss.
27

res, pur non commerciando in merci:

hodie de facto Lugduni crebrius non iusti mercatores, sed hi qui nunquam mercatu-
ram exercuerunt, vel eam deseruerunt, nummularias illas mensas vel societates, quas
vocant Banques, erigunt et meram solamque foeneratitiam exercent et tamen in hoc
privilegio iustorum mercatorum frui volunt [504].

Du Moulin comprende bene quali potessero essere gli effetti sul mercato
di una simile presenza, allineandosi su quella che diventerà una lamentela
comune a tutte quelle piazze commerciali, in cui il traffico dei cambi di-
venne concorrenziale con più tradizionali attività: “difficilius et carius red-
ditur commercium pecuniarum”, in quanto maggiori interessi sono pretesi
non solo da coloro che esercitano “propalam et ex professo [...] sed etiam
quibuslibet sive publice sive privatim, sive palam sive clam [...] imo etiam
qui non potest negociari, sed est cuiusvis diversae professionis, causari po-
test se pecuniam suam societati mercatorum in commune lucrum daturum”;
il rincaro del credito avrebbe portato sia ad un generale rincaro di tutte le
merci sia ad un progressivo abbandono delle attività manifatturiere e com-
merciali96.
Il caso delle “impiae usurae lugdunenses” fa emergere caratteristiche e
limiti della riflessione di Du Moulin: il giurista parigino si trovava palese-
mente impreparato ad affrontare la tematica (prova ne sia che sembra non
conoscere, o non cita, almeno, bibliografia specifica in proposito); si trovava
bloccato tra due sistemi concettuali con i quali era quasi impossibile affron-
tare il problema delle fiere dei cambi, e della valutazione del corso degli in-
teressi.
In primo luogo perché in queste fiere correvano interessi intorno al 16-
18% annuo (4-4,5% per fiera)97 di gran lunga superiori a quanto potesse es-
sere ammissibile all'interno dello schema dell'abacus usurarum da lui co-
struito sulla base della compilazione giustinianea (e che secondo il giurista
parigino prevedeva un massimo eccezionale del 12%). Questi operatori su-
peravano abitualmente le “metas iuris l. eos”.
In secondo luogo l'operatore “bancario” sulle fiere si trovava ad essere
una figura che non rientrava entro i paradigmi che identificavano le diverse
attività economiche di tipo lecito:

non enim potest dici societas cum creditor nullum periculum subeat nec participet,
sed omnino certus sit de sorte et tanto lucro; nec etiam dici potest mercatura nec iu-
sta negociatio, cum creditor nullam industriam, nullum laborem, nullam mercem
(quia pecunia non est merx) adhibeat [506].

Non era poi neanche deposito “cum notorie nec creditor egeat custodia
aliena pecuniae suae, nec det in custodiam, sed in usum quaestuarium; de-
bitor vero non praestet officium depositi vel custodiae, sed sibi utendam ac-
cipiat et paciscantur de mercede usus”. E riferisce quello che gli altri affer-

96
§ 505. Per analoghe polemiche in Italia cfr. SAVELLI, Between Law and Morals, cit.,
pp. 55 e ss.
97
Dati riscontrati anche da R. DOUCET, Finances municipales et crédit public à Lyon
au XVIe siècle, Paris 1937.
28

mavano essere, ma che per lui era inaccettabile: “vulgo enim hanc vocant
mercaturam argenti, et lucrum ipsum precium argenti” [507].
In questi paragrafi Du Moulin rimette in uso tutte le espressioni possi-
bili di condanna (“gravissimum peccatum et scandalum contra legem dei,
contra sacras leges et decreta concilii Niceni”) e si mostra perfino scandaliz-
zato verso il manuale di aritmetica di Juan de Ortega, in cui si insegnava a
calcolare gli interessi (così come, in realtà, si faceva da tempo in questo ge-
nere di trattati, a incominciare da quello di Luca Pacioli)98.
Adesso che abbiamo risposto al quesito da cui eravamo partiti, vale a
dire come fosse possibile utilizzare Du Moulin in chiave rigorista, possiamo
trarre le fila di questo nostro intervento.
La polemica sul problema dei cambi risulta nel Tractatus commercio-
rum tanto violenta quanto marginale. In fondo Du Moulin dimostra di cono-
scere bene le tecniche, la realtà e le conseguenze di questo mercato, ma è
proprio il nucleo che gli sfugge, vale a dire la “mercatura argenti”, vale a
dire che il denaro e i suoi equivalenti (magari immaginari come lo scudo di
marche) potevano essere anche visti come merx, e che quindi a queste atti-
vità si potessero applicare gli schemi dell'emptio-venditio99. In questo caso
Du Moulin sembra essere molto più legato ad una condanna di tipo politico-
morale, diffusa in molti strati della società francese. Il sistema di relazioni
cresciute attorno alle fiere dei cambi restava ancora parzialmente estraneo a
molti ambienti economici e culturali100.
D'altronde il mondo europeo cinquecentesco non si presentava unitario
e omogeneo né dal punto di vista degli strumenti economici né dal punto di
vista delle teorie. È indubbio che il sistema delle fiere dei cambi coinvol-
geva linee di traffici che facevano centro soprattutto sul sistema ispano-im-
periale e sulle aree economiche collegate (penisola iberica, Italia, paesi eu-

98
Del volume di Ortega ho visto l'edizione italiana stampata a Roma da Guillery nel
1515 (Summa de artihmetica); su questo testo ha richiamato l'attenzione recentemente B.
CLAVERO, Antidora. Antropologia catolica de la economia moderna, Milano 1991, p. 111.
Sarebbe stato interessante vedere come Du Moulin avrebbe reagito di fronte all'opuscoletto
pubblicato di lì a qualche anno da Andrea LOTTINI, Calculi et conti per quelli che hanno
danari nel Christianissimo Re di Francia, Lyone Appresso Michaele Sylvio, 1556, laddove
spiega come calcolare gli interessi del 5% per fiera, in cui, invece che scrivere di interessi,
si parla di “dono”. L'opuscolo fu stampato in occasione del lancio del grand parti de Lyon
del 1555 su cui cfr. R. DOUCET, Le grand Parti de Lyon au XVIe siècle, in “Revue Histori-
que” 58 (1933), t. CLXXI, pp. 473-513, t. CLXXII, pp. 1-41.
99
Per le polemiche in proposito cfr. SAVELLI, Between Law, cit., pp. 63 e ss, 74 e ss;
sullo “scudo di marche” cfr. G. FELLONI, Un système monétaire atypique: la monnaie de
marc dans les foires de changes génoises, XVIe-XVIIIe siècle, in J. DAY (ed.), Études d'Hi-
stoire monetaire, Lille 1984, pp. 249-260.
100
A titolo esemplificativo ricordiamo un passo dell'anonima relazione sopra ricordata
(cfr. nota 82): gli operatori dei cambi a Lione “avec ung petit crédit, la plume, encre et pa-
pier, ensemble l'industrie de sçavoir traffiquer, remuer et destourner lesdictz changes [...]
sçavent si bien faire leur mestier que, en peu de temps, tout l'argent contant d'un pays vient
en leurs mains, une, deux, trois ou quatre fois l'an”. A questa condanna morale non sembra
sottrarsi (in modo abbastanza curioso) l'opera di T. BOYER-XAMBEU G. DELEPLACE L.
GUILLARD, Monnaie privée et pouvoir des princes. L'économie des relations monétaires à
la Renaissance, Paris 1986, laddove trattano (ancora) de “la corruption génoise du rôle des
marchands-banquier” (pp. 294, 403).
29

ropei allineati sulla spanish road)101, e rispetto alle quali il mondo francese
(o quello inglese) risultavano parzialmente defilati102. Prova ne sia che la
grande stagione cinquecentesca del dibattito giuridico-teologico sui cambi si
concentra soprattutto tra Italia e Spagna, mentre solo successivamente, e con
tutt'altra prospettiva, si aprirà in Francia.
Le stesse teorie - quegli occhiali con cui si leggeva la realtà, e che ne
rimandavano un'immagine più o meno aderente, più o meno distorta - pre-
sentano sistemi di valori difformi che coesistono a lungo. Non si può fare a
meno di domandarsi come, ad esempio, potessero coesistere il mondo cui
era improntata l'ideologia delle relazioni “antidorali” e quello del calcolo
economico mercantile103.
Possiamo quindi concludere, ritornando a Du Moulin: la sua opera si
colloca in una fase di transizione e di trasformazione, in cui l'interesse (e
non il dono), il mercato (e non la carità) tendono a diventare i parametri del
modello culturale dominante, ma non ovunque nello stesso modo e con gli
stessi tempi. Per questo egli resta estraneo ed ostile al mondo delle fiere dei
cambi, per tanti e diversi motivi, non ultimo quello della teoria “non mer-
cantile” del denaro104.
Al contempo gli era ben chiaro come “inter eos qui negociantur [non]
inveniuntur qui gratis mutuent” [534], perché come aveva già osservato un
giurista italiano del Quattrocento, “charitas, in mutuando gratis, mortua vi-
debatur”105. In questo prospettiva il suo contributo fu, invece, fondamentale
proprio perché tradusse e diffuse nel linguaggio comune europeo del diritto
risultati teorici provenienti da settori disciplinari e da ambienti culturali di-
versi (o comunque in tal modo furono anche lette le sue pagine): la caratte-
rizzazione puramente caritativa del mutuo e la sua estraneità al mondo dei
contratti mercantili; il primato (e la sostanziale esclusività) della legge civile
nella definizione di tale mondo.

101
Cfr. G. PARKER, The Army of Flanders and the Spanish Road. 1567-1659, Cam-
bridge 1972.
102
Si confronti, ad esempio, l'insieme dei saggi raccolti in La repubblica internazio-
nale del denaro tra XV e XVII secolo, a cura di A. DE MADDALENA e H. KELLENBENZ,
Bologna 1986.
103
Una lettura in parallelo dello straordinario volume di CLAVERO, Antidora, e, ad
esempio, dei saggi raccolti in La repubblica internazionale del denaro, può essere partico-
larmente istruttivo.
104
Per la diffusione di analoghi concetti (“it is against nature to make money a mar-
chandize”) si veda, ad esempio, il passo citato da N. JONES, God and Moneylenders. Usury
and Law in Early Modern England, Oxford 1989, p. 141. Sempre valide in proposito le
considerazioni di R. DE ROOVER, What Is Dry Exchange? [1944], in Business, Banking,
and Economic Thought in Late Medieval and Early Modern Europe, ed. by J. Kirshner,
Chicago - London 1974, pp. 198-199.
105
G. B. CACCIALUPI, Repetitio super l. Cunctos populos, in Repetitionum [...] a Pom-
peo Limpio [...] volumen VII, Venetiis, sub Signo Aquilae Renovantis, 1608, § 30, c. 9r.

Potrebbero piacerti anche