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non averci insegnato nulla. Il libro di Paolo Matthiae non si limita però a un’attenta
revisione dei crimini del passato, ma sottopone il lettore a una sfida. La salvaguardia
del patrimonio dell’umanità è infatti una questione di coscienza personale e poi col-
lettiva. E se le convenzioni internazionali non arrivano a fermare la barbarie, significa
che la comunità dei cittadini – parallelamente all’indignazione – deve aumentare la
propria consapevolezza sull’universalità e unicità del patrimonio. Conoscere per non-
distruggere.

Johann Chapoutot, Controllare e distruggere. Fascismo nazi-


smo e regimi autoritari in Europa (1918-1945)
di Andrea Pinazzi

Il libro dello storico francese Johann Chapoutot, tradotto per Einaudi (2015) da
Frédéric Ieva, si caratterizza come un percorso comparativo tra i diversi regimi auto-
ritari e totalitari che in un’epoca storica determinata hanno segnato la vita del conti-
nente europeo. Gli attori principali sono, ovviamente, quei regimi a carattere reazio-
nario e «di destra» — ma non manca un accenno al totalitarismo sovietico — attivi
particolarmente nell’area occidentale del continente e scaturiti, a parere dell’Autore,
dalla «delega della violenza psichica legittima» che durante la Prima guerra mondiale
gli Stati avrebbero fatto ai loro cittadini (34) e dal venire meno della visione otti-
mistica del progresso che aveva caratterizzato il XIX secolo. Con la Grande guerra
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si assiste, dunque, oltre che a una mobilitazione degli animi su ampia scala, anche
a un’abdicazione del monopolio statale della violenza in favore dei settanta milioni
di combattenti, che sarebbe stato impossibile far rientrare all’indomani del conflitto
(43). Agli strumenti tipici dell’immancabile ricostruzione storica, l’Autore affianca
quelli della politologia, della sociologia e dell’economia, fino ad arrivare a compren-
dere nell’analisi tratti che, in senso ampio, potrebbero essere definiti «psicologici» o
di «psicologia delle masse». In questo senso, è opportuno spendere due parole sulla
fortunata scelta dell’Editore di trasformare il titolo originale (Fascisme, nazisme et
régimes autoritaires en Europe) in un più accattivante – e meno accademico – Control-
lare e distruggere, riducendo il primo a sottotitolo. Scelta commerciale? Forse. Non si
può, tuttavia, fare a meno di sottolineare come la scelta compiuta individui uno dei,
se non il, tratto fondamentale del libro di Chapoutot. «Controllare» e «distruggere»
sono, infatti, i due termini chiave attorno ai quali l’Autore costruisce l’impianto teo-

Andrea Pinazzi, dottore di ricerca in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, borsi-


sta all’Istituto italiano per gli studi storici
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rico della sua analisi e che gli permettono di distinguere, ma anche di avvicinare, le
esperienze autoritarie europee tre le due guerre.
Se la radice storica comune dei totalitarismi di destra e di sinistra che si sono avvi-
cendati in Europa viene rintracciata, come di consueto, nella crisi dello Stato liberale
di fine Ottocento, che ebbe la sua tragica conclusione nel primo conflitto mondiale
e nella sfiducia nel regime democratico – incapace di fornire risposte sia economiche
che psicologiche tanto agli ex combattenti, quanto alle popolazioni dei Paesi usciti
sconfitti (o la cui vittoria non era ritenuta soddisfacente) dalla guerra – che ne era
seguita, è proprio il rapporto con il «controllo» e con la «distruzione» dell’esistente
che, a parere di Chapoutot, può aiutare a comprendere a fondo le differenze e le
somiglianze dei vari regimi totalitari.
Jalal Toufic, nel suo The Withdrawal of Tradition Past a Surpassing Disaster (Tou-
fic, 2009), individuava nel ritrarsi e nella distruzione della tradizione l’esito di una
categoria di eventi accomunati sotto il nome di «disastro smisurato». Il processo in-
dividuato da Chapoutot è, in una certa misura, opposto. Se è infatti indubitabile,
come ricordavamo, che il «disastro smisurato» rappresentato dalla Grande guerra ha
costituito l’innesco della deriva autoritaria europea, è altrettanto vero che il «disastro
smisurato» che si sarebbe concretizzato nell’ascesa dei totalitarismi fascista e nazista
prima, e nel secondo conflitto mondiale poi, trova la sua origine teorica in una pro-
grammatica distruzione della tradizione culturale, principalmente di quella italiana e
tedesca. A questa affermazione si potrebbe facilmente obbiettare esponendo i nume-
rosi richiami a una tradizione, più o meno lontana nel tempo, che caratterizzava i due
regimi. Tra obiezioni di questo tipo Chapoutot si muove abilmente, mostrando come

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i riferimenti citati siano da intendersi più come un espediente retorico che come un
reale progetto politico e sociale, consistente in realtà in una «rigenerazione dell’uo-
mo» che distingue fascismo e nazismo dai regimi autoritari coevi (150).
L’Autore nota come la radicalizzazione dell’estremismo nazista sia stata più ra-
pida di quella fascista perché «i nazisti non avevano di fronte […] quella tradizione
culturale e quella legittimità storica che Mussolini dovette affrontare» (75). Tuttavia,
proprio nel diverso rapporto con la tradizione si attua gran parte delle rimarchevoli
differenze intercorse tra fascismo e nazismo. Se il richiamo alla grandezza di Roma
attuato dal fascismo non è un ritorno all’uomo che fu, ma la base retorica su cui si
può compiere il «compito storico» dell’instaurazione di un’umanità rinnovata (151),
per il nazismo, al contrario, il richiamo «a ciò che fu un tempo» costituisce una vera e
propria base per il recupero di valori tradizionali corrotti dalla vita moderna (164 ss.).
Chapoutot evidenzia come l’espressione «uomo nuovo» trovi nel totalitarismo nazista
un uso estremamente più raro di quanto non avvenga in quello fascista. In entrambi i
casi, il rapporto con la tradizione è, tuttavia, ambiguo: se il richiamo all’uomo nuovo
attuato dal fascismo rende più esplicita l’operazione da compiersi, il ritorno a valori
tradizionali propugnato dal nazismo riesce a nascondere solo in parte la necessaria
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distruzione del sostrato culturale stratificatosi nei secoli per ritornare a un passato
idealizzato e mistificato. «Distruggere» si rivela, allora, la precondizione per l’instau-
razione di un ordine radicalmente nuovo.
Proprio in questo rapporto ambivalente con la tradizione, da «distruggere», ma
anche, in una certa misura, da «controllare» si consuma quella che è, a parere di Cha-
poutot, la distanza radicale tra i totalitarismi fascista e nazista e gli altri regimi autori-
tari europei. L’Autore prende in considerazione in particolare il franchismo spagnolo,
il Portogallo di Salazar e il regime di Vichy, non mancando di accennare all’alternativa
«nazional-cattolica» dell’Austria di Dollfuss e von Schuschnigg. Più che di veri e
propri regimi di stampo fascista è in questi casi opportuno parlare di regimi conser-
vatori, di orientamento cattolico, e fortemente radicati nella tradizione. Il caso forse
più emblematico è quello del Portogallo salazarista. È qui, infatti, che saltano con più
facilità agli occhi le differenze sostanziali con i casi di Italia e Germania, già a partire
dalla storia personale del dittatore. Diversamente da Hitler e Mussolini, Salazar non
era un reduce della Grande guerra, ma un accademico di Coimbra dall’«aspetto senza
età» che «può invecchiare in tutta calma» (190), nella cui «dittatura della ragione»
non c’è spazio per la retorica dell’uomo nuovo, né per «l’esaltazione fascista e nazista
della virilità sovrumana» che «si sarebbe senza dubbio adattata di meno a un vec-
chio» (ibidem). In Salazar – come del resto negli altri regimi autoritari di ispirazione
cattolica, di cui questo personaggio rappresenta, in un certa misura, l’emblema – la
retorica misticheggiante e il superomismo ammiccante a certe letture nietzscheane
sono, se non del tutto assenti, almeno fortemente minoritari a favore di un conser-
vatorismo che rimanda, piuttosto, a De Maistre. Proprio l’assenza di caratteristiche
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peculiari del Fascismo e del Nazismo spinge l’Autore a porre in dubbio che nel caso
portoghese, spagnolo e austriaco si possa utilizzare la parola «Fascismo» in senso tec-
nico e non solo con una connotazione polemica. Piuttosto bisogna concentrarsi sulle
differenze e, in particolare, su una: la quasi totale assenza di «distruzione» che carat-
terizza gli altri regimi autoritari europei. Più che di fronte a una frattura violenta o a
un rimodellamento della tradizione per farne la base del nuovo regime di fronte a una
conservazione dell’esistente. Nei regimi autoritari europei mancherebbe, dunque, il
carattere per dir così «rivoluzionario» proprio invece del Fascismo e, in certa misura,
del Nazismo. Essi sarebbero, dunque, più propriamente dei regimi «reazionari». Per
dirla in altre parole: mentre nel caso del Nazismo e del Fascismo propriamente detti,
il controllo passa attraverso una più o meno vasta distruzione della tradizione e una
sua riedificazione su basi mistico-mitiche, che preludono a una ricostruzione non solo
del tessuto sociale, ma anche del cittadino, in quello dei regimi autoritari di stampo
reazionario di Austria, Spagna e Portogallo il controllo si inserisce sul tessuto sociale
esistente senza bisogno di stravolgimenti.
A segnare la differenza tra i regimi fascisti propriamente detti e gli altri regimi
autoritari di cui si tratta è, in ultima analisi, il rapporto con il XIX secolo, inteso, sulla
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scorta di Hobsbawm come il secolo della «invenzione delle tradizioni» (Hobsbawm


e Ranger, 2002). Come si ricorderà, lo storico inglese tende a distinguere tra «con-
suetudine» e «tradizione». La prima deriverebbe dal consolidarsi naturale di deter-
minati contegni. La seconda scaturirebbe, per lo più, dal sorgere in tempi brevi di
ripetizioni di atteggiamenti o dall’istaurarsi di pratiche le cui radici vengono ricercate
in un passato più o meno recente e più o meno inventato. A reggere le società «tradi-
zionali» sarebbe più propriamente la prima, di cui un esempio viene rintracciato nella
common law, che, pur osservando un’aderenza formale al precedente (stare decisi set
non quieta movere), mantiene un contatto stretto con la vita reale che le permette di
adeguarsi, più ancora che al caso singolo, ai mutamenti sociali, dimostrando una so-
stanziale flessibilità. Al contrario, la tradizione, in particolare quella «inventata» vive
di una rigidità statica che ne costituisce al contempo l’elemento di forza e di fragilità.
L’invenzione della «tradizione» gioca senza dubbio un ruolo di primo piano nel sor-
gere dei movimenti romantici e nazionalisti ottocenteschi, ma assume un’importanza
forse ancora maggiore nei movimenti rivoluzionari. Non a caso, Engels affermava
«Auch das deutsche Volk hat seine revolutionäre Tradition» (Engels, 1850). L’apice
dell’importanza dell’invenzione della tradizione si ha, dunque, proprio nei momen-
ti di crisi, quando diviene essenziale trovare un nucleo attorno al quale aggregare
il tessuto sociale. Non è quindi casuale che i due maggiori esempi di «invenzione
della tradizione» in Europa si siano avuti nei due Paesi che, per ragioni opposte,
avevano avuto minor soddisfazione dall’esito del primo conflitto mondiale, e i cui
tessuti sociali risultavano per ciò stesso quasi irrimediabilmente sfilacciati. Il punto è
che, contrariamente a quanto sostenuto da una parte dell’intellighenzia europea, che

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individuava nella Prima guerra mondiale il culmine del processo risorgimentale, essa
non era riuscita a far giungere i popoli a una maggiore consapevolezza di loro stessi.
Al contrario, il senso di frustrazione dei belligeranti e l’asservimento dei Travailleurs
de l’Esprit agli interessi nazionali – contro cui Romain Rolland tuonava dalle pagine
de L’Humanité – avevano finito per generare una situazione di disorientamento in cui
l’invenzione della tradizione doveva assumere un valore quasi totemico.
Tornando, ora, al libro di Chapoutot bisogna notare come, buona parte della dif-
ferenza tra i totalitarismi autoritari e quelli fascisti si possa giocare nella distinzione
proposta da Hobsbawm tra «consuetudine» e «tradizione». Non si vuole, è ben evi-
dente, affermare con ciò che i regimi autoritari costituiscano la prosecuzione natu-
rale dello stato antecedente la loro ascesa. Piuttosto, portando ai suoi limiti estremi
la posizione dello storico francese, si vuole sottolineare come essi si incardinino in
quel carattere di flessibilità della «consuetudine» che permette, in determinate circo-
stanze storiche, non solo la sua radicalizzazione, ma anche il suo capovolgimento. Il
totalitarismo fascista e quello nazista, al contrario, avevano, per la loro stessa natura
rivoluzionaria, bisogno di una tradizione che rompesse con l’ordine precedente che,
in una certa misura, doveva essere fagocitato perché il nuovo ordine sociale potesse
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innalzarsi. Proprio la necessità di fagocitare e distruggere la tradizione «consuetudi-


naria» per sostituirvi una tradizione artificiale segna la debolezza di questi due to-
talitarismi. Costruendo una «tradizione» basata su un passato remoto, e per lo più
fittizio, attorno al quale edificare il proprio sistema di valori e il tessuto sociale della
nuova società, fascismo e nazismo si sono chiusi in uno schema rigido, inevitabil-
mente incapace di tenere il passo con la fluidità del mondo della vita. Non possiamo
sapere quale sarebbe stato l’esito dei totalitarismi italiano e tedesco se le vicende bel-
liche non fossero intervenute per mettervi fine. È però certo che totalitarismi basati su
un’analoga «distruzione» e riedificazione della tradizione hanno finito per collassare
su se stessi. I regimi «autoritari» europei, invece, rinunciando a una renovatio ab
imis della tradizione culturale e del tessuto sociale dei popoli governati, sono riusciti
non solo a marcare la loro differenza dal fascismo, ma anche, evitando la ricerca os-
sessiva della «distruzione» della tradizione al fine del recupero di valori ancestrali e
«più veri» o di instaurarne una nuova, un’apparente maggiore continuità con lo stato
di cose antecedente alla loro ascesa. Accontentandosi di «controllare» la tradizione,
piegandola ai loro scopi, ma senza spezzarla, essi hanno dimostrato una maggiore
capacità adattativa che – accanto alla scelta di non prendere parte alla Seconda guerra
mondiale – ha loro permesso di sopravvivere ben più a lungo degli omologhi italiani
e tedeschi. Anche prescindendo dalla capacità del regime franchista di assumere du-
rante la Guerra fredda «una rispettabilità nazionale, cattolica e anticomunista» (213),
dovuta anche alla miopia degli Alleati, bisogna dire che l’opzione operata a favore del
«controllo» di una tradizione esistente rispetto a una sua riedificazione ex novo si è
mostrata, alla lunga, più profiqua, e ha permesso che dittature forse non fasciste, ma
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ugualmente sanguinarie, sopravvivessero in Europa fino alla metà degli anni Settanta
del secolo XX.

Bibliografia

Engels F. (1850), La guerra dei contadini in Germania, Roma, Editori Riuniti, 1976.
Hobsbawm E.J. e Ranger T. (a cura di) (2002), L’invenzione della tradizione, Torino, Ei-
naudi.
Toufic J. (2009), The Withdrawal of Tradition Past a Surpassing Disaster, s.l., Forthcoming
Books.

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