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Abbàsidi

Dinastia di califfi arabi il cui nome deriva da al-ʽAbbās, trisavolo di Abū l-ʽAbbās,
primo califfo della dinastia. Impadronitisi del califfato nel 749-750, sostituendosi agli
Omayyadi, gli Abbasidi conservarono il potere sino al 1258. La rivolta, di cui il
maggior promotore fu Abu Muslim, ebbe origine nel 747 in Persia e in Iraq, dove era
facile sfruttare il malcontento contro gli Omayyadi, e si valse dell'aiuto degli elementi
sciiti che, fedeli ai discendenti di ʽAlī ibn Abī Ṭālib, consideravano quella dinastia
come usurpatrice. Saliti al potere, gli Abbasidi (parenti di ʽAlī ma non suoi diretti
discendenti) persero l'appoggio degli sciiti ma, avendo ormai consolidato la loro
posizione, poterono lasciare questi all'opposizione. Numerosi e sostanziali furono i
mutamenti introdotti dagli Abbasidi che vollero inaugurare una nuova era. Il califfato
riaffermò il suo carattere religioso, condannando la mondanità e lo spirito profano
degli Omayyadi; assunse la forma di un dispotismo orientale (allontanandosi in
questo dalla tendenza democratica degli Arabi), ma in pari tempo si assoggettò
all'autorità degli ʽulamā, i grandi dottori dell'Islam, soli interpreti autorizzati del
messaggio del Profeta. Sul piano politico, il cambiamento fu ancora più vistoso:
l'impero arabo diventava un impero islamico, abbracciante molti popoli con eguale
dignità ed eguali diritti. Di prettamente arabo, in questo vastissimo dominio, non
rimanevano che il Corano e la lingua ufficiale dello Stato, quella dei cavalieri del
deserto. La situazione mutò anche dal punto di vista territoriale: infatti Spagna,
Marocco e qualche altra regione dell'Africa settentrionale rifiutarono di sottomettersi
al califfato abbaside. La stessa capitale fu spostata verso oriente: Baghdad, fondata
dal secondo califfo abbaside, era, infatti, situata sul Tigri e guardava più alla Persia,
attraverso cui l'impero si protendeva verso l'India, che non all'Arabia. In questo modo
si modificò anche la vita culturale dell'impero; attraverso i Siriaci, preziosi
intermediari tra Greci e Arabi, si imposero infatti la filosofia e la scienza greche,
mentre i costumi, la letteratura, la lingua e la vita culturale in genere subivano
l'influsso persiano che fu tanto forte da lasciare una certa impronta persino nell'Islam.
La rivoluzione abbaside fu importantissima anche dal punto di vista sociale: soggetto
della storia non furono più le vecchie tribù nomadi e guerriere, ma una borghesia
attiva e spesso agiata che nella pace e nel benessere generale fioriva esercitando la
mercatura, coltivando gli studi e le arti. Se la società abbaside conosceva uno
sviluppo culturale e civile ignoto alle età precedenti, l'organizzazione dello Stato
segnava anch'essa un sensibile progresso. Il califfo accentrava in linea di diritto tutti i
poteri, ma nella pratica delegava il potere civile a un visir (che di fatto finì spesso per
usurpare l'autorità del califfo), quello giudiziario a un giudice supremo e infine il
potere militare a un generale, il capo o emiro. Il governo constava di molti e ben
organizzati uffici, tra cui i più importanti erano quelli delle imposte, dei conti, dei
servizi postali (che provvedeva anche al servizio delle informazioni, ossia allo
spionaggio): una burocrazia influente stendeva così la sua rete su tutto l'impero. Le
province erano rette da governatori, detti anch'essi emiri, che, data la vastità
dell'impero e la difficoltà delle comunicazioni, tesero sempre più a rendersi autonomi,
tanto che negli ultimi secoli dell'epoca abbaside la loro soggezione al governo
califfale si fece sempre più problematica. Anche l'organizzazione militare segnò
notevoli progressi e la guerra non consistette più in rapide disordinate incursioni, ma
divenne arte e scienza nelle mani di ufficiali particolarmente addestrati. Si ricorse
sempre più spesso a milizie mercenarie, a volte avide e prepotenti così da costituire
un pericolo per lo Stato, ma indubbiamente agguerrite e idonee alle lunghe
campagne. L'età dell'oro degli Abbasidi corrispose press'a poco al primo secolo del
loro dominio. Al tempo di Harūn ar-Rašīd, il più famoso dei califfi abbasidi, Baghdad
contava più di un milione di abitanti e una parte almeno della sua popolazione vi
conduceva vita splendida. Già appariva però qualche segno di decadenza: in Africa e
in Persia alcune province si distaccavano dall'impero, accettando solo un vincolo di
vassallaggio. L'incertezza delle norme per la successione (Harūn aveva diviso
l'impero tra i suoi due figli) condusse a una guerra fratricida; il vincitore, al-Ma'mūn
(813-833), riunificò alfine lo Stato, protesse la scienza e la cultura e fece di Baghdad
il maggiore centro intellettuale del mondo islamico. La sua attività non riuscì però a
frenare, se non per breve tempo, la decadenza della dinastia. Sotto il regno di al-
Muʽtaṣim (833-842), infatti, fu necessario trasferire la capitale da Baghdad, divenuta
insicura, a Samarra e solo sul finire del secolo Baghdad riebbe l'antica funzione
(892). Dalla seconda metà del sec. IX l'elemento militare cominciò a prendere il
sopravvento a Baghdad e in breve l'amīr al-umarā, il comandante in capo, riuscì a
scalzare l'autorità del visir e persino quella del califfo. La supremazia politica
sfuggiva a poco a poco agli Abbasidi e già all'inizio del sec. X due altri califfi si
opponevano a quello di Baghdad: un fatimide in Africa settentrionale e un
discendente degli Omayyadi in Spagna. Nel sec. XI poi i Turchi Selgiuchidi,
provenienti dalle steppe dell'Asia centrale, cominciarono a penetrare nei territori
dell'impero. Nel 1055 essi entrarono a Baghdad e, accolti favorevolmente dal califfo,
imposero di fatto la loro autorità facendo valere la loro pesante tutela. Sullo scorcio
del sec. XII, spentosi ormai il vigore dei Selgiuchidi, un animoso califfo, an-Nāʽṣir,
riuscì per breve tempo a restaurare un califfato indipendente, ma nel 1258 l'invasione
dei Mongoli, che occuparono Baghdad, distruggendola in parte, e massacrarono il
califfo con tutti i suoi, pose fine al califfato abbaside.

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