Vita
Aristocle, soprannominato Platone per le sue ampie spalle procuratasi dal Pancrazio, nacque nel 428
a.C. in una delle famiglie più importanti di Atene. Fin da subito iniziò studi filosofici, prima presso
il filosofo Cratilo, e poi, intorno ai vent’anni, presso Socrate. Nel 404 a.C. collaborò con il regime
oligarchico dei Trenta tiranni, guidato da suo zio Crizia, ma rimase deluso dal clima di violenza e
repressione che esso instaurò. L’abbandono definitivo di ogni prospettiva di carriera politica
avvenne però nel 399 a.C., quando Socrate venne condannato a morte.
Dopo la morte di Socrate, Platone si recò in diverse scuole filosofiche: quella di Euclide a Megara,
la scuola pitagorica di Taranto e molte altre. Venne ospitato anche a Siracusa da un tiranno ceh però
lo imprigionò e lo vendette come schiavo. Dopo tanti viaggi tra Sicilia e Grecia, ritornò ad Atene
dove poi morì nel 347 a.C.
Opere
In questi ottant’anni, Platone realizzò 36 scritti divisi in 9 tetralogie. Per scriverli Platone si avvale
del dialogo perché lo ritiene l'unico strumento in grado di riportare l'argomento alla concretezza
storica di un dibattito fra persone e di mettere in luce il carattere di ricerca della filosofia, elemento
chiave del suo pensiero. Egli vuole inoltre evidenziare col ricorso al dialogo la superiorità del
discorso orale rispetto allo scritto. Certo la parola scritta è più precisa e meditata rispetto all'oralità,
ma mentre questa permette un immediato scambio di opinioni sul tema in discussione quella scritta
interrogata non risponde.
In genere, si suole riunire i dialoghi platonici in vari gruppi. Secondo una linea interpretativa
piuttosto datata, i primi dialoghi sarebbero caratterizzati dalla viva influenza di Socrate (primo
gruppo); quelli della maturità in cui avrebbe sviluppato la teoria delle idee (secondo gruppo); e
l'ultimo periodo quando sentì l'urgenza di difendere la propria concezione dagli attacchi alla sua
filosofia, attuando una profonda autocritica della teoria delle idee (terzo gruppo).
Anche lo stile muta notevolmente da un periodo all'altro: nei periodi giovanili si hanno interventi
brevi e briosi che danno vivacità al dibattito; negli ultimi, invece, vi sono interventi lunghi, che
danno all'opera il carattere di un trattato e non di un dibattito, trattandosi piuttosto di un dialogo
dell'anima con se stessa, ma senza giungere mai a esporre compiutamente la propria dottrina
Oltre al dialogo, una caratteristica peculiare di Platone nella sua esposizione della dottrina delle idee
consiste nella reintroduzione, con la sua opera, del mito. Platone ha un atteggiamento diversificato
nei confronti del mito, che ritiene vada rivalutato in quanto utile, e anzi necessario, alla
comprensione. Il mito va infatti inteso come esposizione di un pensiero ancora nella forma di
racconto, quindi non come ragionamento puro e rigoroso. Esso ha una funzione allegorica e
didascalica, presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il significato di un
discorso piuttosto complesso. Il mito ha così una doppia funzione: da un lato è un semplice
espediente didattico-espositivo di cui Platone fa uso per comunicare in maniera più accessibile e
intuitiva le sue dottrine. Dall'altro è un mezzo per superare quei limiti oltre i quali l'indagine
razionale non può andare, diventando un vero
e proprio strumento di verità, una "via alternativa" al solo pensiero filosofico, grazie alla sua
capacità di armonizzare unitariamente gli argomenti.
La figura di Socrate
Socrate è una figura molto importante per la filosofia di Platone. In primis la battaglia di Socrate
contro i sofisti. Per Socrate la capacità di agire secondo giustizia presuppone la conoscenza di che
cosa è il bene. Solo questo sapere contraddistingue il filosofo come tale poiché chi compie il male
lo fa per ignoranza. I sofisti dicevano di sapere ma in effetti non sapevano perché non credevano
nella verità. L'altro problema legato alla figura di Socrate è la sua condanna a morte, cioè il fatto
che sia stato trattato come un criminale pur essendo “il più giusto” tra gli uomini. Ciò significò per
Platone dover constatare che tra filosofia e vita politica esisteva quell'incompatibilità già conosciuta
da Socrate che nella Apologia accenna alla quasi ineluttabilità della sua condanna da parte dei
politici e rifiuta la proposta di andare in esilio.
Filosofia
L’Ontologia
Il testo fondativo di questo aspetto del pensiero platonico è senza dubbio il celebre mito della
caverna del libro VII de La Repubblica. In esso, il mondo sensibile è presentato come immagine
evanescente e imperfetta del mondo delle idee, inteso invece come "mondo vero" e fondamento di
tutto ciò che è. Platone stesso fornisce l'interpretazione dell'allegoria: lo schiavo che viene liberato
dalla caverna rappresenta l'anima, che si libera dai vincoli corporei mediante la conoscenza. Gli
elementi del mondo esterno rappresentano le idee, mentre gli oggetti dentro la caverna (e le
immagini di questi proiettate sulla parete) non sono che le loro copie imperfette. Il sole, che
permette di riconoscere l'aspetto vero della realtà, è simbolo dell'idea del Bene, l'idea suprema in
vista della quale l'intero mondo delle idee è costituito e al quale essa conferisce la sua unità.
Per testimoniare l'essere delle idee, Platone porta l'esempio delle figure geometriche, dei solidi
platonici da lui stesso scoperti, dei triangoli e dei cerchi. In natura non esiste un cerchio o un
quadrato perfetto, che pur ogni individuo conosce sapendone calcolare area e perimetro. Una tale
capacità è dovuta al fatto che l'intelletto vede al di là del sensibile un'idea di cerchio e quadrato che
non si trova nel mondo esteriore.
Soltanto nelle idee quindi si trova la dimora dell'Essere, che è una dimensione trascendente rispetto
a quella della semplice esistenza. L'ontologia platonica si presenta così come "dualistica",
comprensiva cioè di due piani concettuali, quello delle realtà sensibili e quello delle idee. L'unico
rapporto possibile tra il piano dei fenomeni e quello delle idee è quello "mimetico" (mimesis): ogni
realtà sensibile (ente) ha il suo modello (eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto" possibile tra
i due livelli resta quello che può compiere l'anima umana, elevandosi attraverso la conoscenza
dall'esistenza materiale a quella intellettuale.
Lachete
Il Lachete è un dialogo areteico (cioè incentrato sulla virtù), definitorio (che cerca di definire cosa
sia, nella sua interezza o in parte) e aporetico, cioè in cui non si arriva a nessuna conclusione
definitiva. È inoltre un tipico dialogo apologetico, in cui cioè Platone tende a rappresentare Socrate
come pieno di virtù per combattere gli opuscoli che giravano dopo la sua morte. Il dialogo inizia
durante la visione di un combattimento di armi pesanti da parte di Lisimaco e Melesia con i loro 2
figli Lachete e Nicia. I 2 genitori erano preoccupati della sorte dei propri figli: non sapevano se
dedicarsi totalmente alla loro cura o se fosse il caso di insegnarli la disciplina militare? Per Nicia sì:
oltre a essere utile in guerra, darà loro interesse per la strategia, la tattica e quant'altro vi è connesso;
insomma, è propedeutica. Lachete, dal canto suo, poco addentrato nella filosofia (essendo un
generale) ne guarda l'aspetto più materiale, quello bellico: nessun praticante di questa disciplina ha
mai dimostrato nulla in lotta, anzi, ha mostrato ignoranza delle regole della stessa o mancanza di
coraggio.
Per Lachete, se un vigliacco è reso più temerario dalla conoscenza di quest'arte, finirà in situazioni
più grandi di lui, da cui uscirà con la vigliaccheria. Se invece avesse davvero coraggio e possedesse
quest'arte, ogni occhio sarebbe puntato su di lui, e al suo minimo sbaglio sarebbe deriso, dato che è
malvisto chi pretende di conoscere quest'arte. A meno che non sia carico di virtù, cioè capacità in
guerra, o di eliminare i propri errori. Solo se qualcuno conoscesse quest'arte, avesse coraggio e non
sbagliasse mai, insomma, potrebbe salvarsi da un giudizio negativo. Per Lachete quest'arte non fa
che compromettere le possibilità che un uomo coraggioso e predisposto alla lotta avrebbe di suo.
Socrate prende la parola: se il coraggio è sapienza, allora non sono coraggiose bestie come il leone,
non essendo pensanti? Nicia acconsente: non lo sono, come non lo sono i bambini che fanno cose
pericolose perché non capiscono cosa stiano facendo. Coloro che il popolo chiama coraggiosi sono
temerari, mentre chi agisce con massima assennatezza è coraggioso. Qui inizia l'interrogazione
socratica che mette in crisi il discorso di Nicia: si è convenuto che il coraggio fosse una parte della
virtù, la cosiddetta scienza delle cose da temere e di quelle da osare si riduce a:
- scienza di cosa provoca timore e di cosa no
- provoca timore il male a venire e non lo provoca il bene a venire
- quindi secondo Nicia il coraggio è scienza dei beni e dei mali a venire
Eppure in tutti i campi in cui vi sia scienza, questa è la medesima sia che si parli delle cose passate,
che di quelle presenti, che di quelle future: se per Nicia il coraggio è scienza dei beni o dei mali
futuri, allora ci ha dato solo un terzo del coraggio, prima. Se invece vuole modificare la sua risposta
in "scienza dei beni e dei mali passati, presenti e futuri" infrangerebbe la sua convinzione che il
coraggio fosse solo una parte della virtù.
Liside
Il Liside è probabilmente l'unico dialogo in cui viene messo in luce il concetto platonico di
amicizia. In esso il filosofo, attraverso le parole del maestro Socrate, svolge una peculiare e
cavillosa indagine per comprendere chi possa essere considerato amico e chi no, anche in base ad
ipotesi formulate precedentemente da altri filosofi.
Socrate sta percorrendo la strada che porta dall'Accademia al Liceo, quando viene fermato da
Ippotale, Ctesippo e altri giovani, i quali lo invitano ad unirsi a loro. Prima di entrare, tuttavia,
Socrate, che per un dono divino è in grado di riconoscere a prima vista un innamorato, vuole sapere
da Ippotale chi, secondo lui, è il più bello tra i suoi compagni. Ippotale è però in imbarazzo, ed è
Ctesippo a rispondere in sua vece, lamentando le eccessive lodi che egli canta in continuazione per
il giovane Liside. Socrate quindi dice che non è bene lodare un amato prima di averlo conquistato,
poiché in questo modo non si fa altro che insuperbirlo e renderlo più ostile alle attenzioni
dell'innamorato; viceversa, bisogna lodare qualcuno solo dopo averne vinto i favori, poiché le lodi
dell'amato suoneranno come un encomio per l'innamorato che è stato in grado di trarlo a sé. Quindi
Socrate incontra Liside e inizia una conversazione con lui. Per primo gli chiede se i suoi genitori lo
amino, e alla risposta affermativa del fanciullo chiede quali sarebbero i segni di questo amore.
Sembra infatti che Liside non disponga di grandi libertà, poiché non gli è consentito guidare nessun
carro e nemmeno “guidare” se stesso, ma deve sottostare alle decisioni del pedagogo: ma allora,
domanda Socrate, come è possibile che i suoi genitori lo amino se non gli permettono di fare niente,
ma anzi per le loro necessità si affidano a persone prezzolate o a schiavi? Sembrerebbe infatti che
essi abbiano più fiducia dei loro schiavi che non del loro figlio, al quale, anzi, impongono molti
padroni. In realtà, come lo stesso Socrate non tarda a dimostrare, a Liside non è consentito fare certe
cose e nemmeno decidere per se stesso in quanto non ne è ancora in grado. Ogni compito viene
infatti affidato a chi è saggio e competente in materia, e così a guidare i cavalli da corsa viene scelto
un auriga, e anche Liside, il giorno che sarà sapiente, verrà chiamato ad occuparsi dei beni di
famiglia e dei suoi genitori, che gli affideranno le loro stesse persone. Chi è saggio e sapiente,
dunque, ha molti amici, i quali lo amano proprio perché è sapiente e di conseguenza risulta utile e
buono agli occhi di tutta la comunità. Terminata la discussione con Liside, fa il suo ritorno
Menesseno, che si era allontanato perché chiamato dal maestro. Si entra così nel cuore del dialogo,
che ha per oggetto la ricerca di una definizione per l'amicizia. L'amicizia, afferma infatti Socrate, è
uno dei beni più belli che si possa desiderare, e lo stesso filosofo confessa di preferire un amico a
qualsiasi ricchezza o bene materiale. Quindi Socrate afferma che un uomo buono, proprio perché
buono, potrebbe bastare a se stesso, senza aver bisogno di rivolgersi a un altro uomo buono – e non
avendo bisogno di nulla, non aspirerebbe nemmeno ad avere un amico. Forse allora, ipotizza
Socrate, aveva ragione Esiodo, secondo il quale ognuno è ostile al proprio simile: il vasaio è nemico
degli altri vasai perché ne teme la concorrenza e ne prova invidia.
Eutifrone
L’Eutifrone è un dialogo aporetico (senza soluzione) dedicato al tema della pietà (dell’esser pii).
Il protagonista è un religioso che spicca per ottusità e dogmatismo, espressione vivente di quella
mediocrità pericolosa con cui Socrate sta per confrontarsi in tribunale.
I due si incontrano in piazza, davanti al palazzo dell’arconte al quale entrambi chiedono udienza
poiché stanno per agire in giudizio o, nel caso di Socrate, per subirlo. Eutifrone sostiene, infatti, che
santo è ciò che lui stesso sta facendo, cioè trascinare in giudizio un omicida benché sia suo padre.
Socrate esorta allora Eutifrone a definire il pio e l'empio. Eutifrone risponde sostenendo che pio è
quanto lui sta facendo ora: ossia denunciare il padre che ha commesso ingiustizia, e comportarsi in
modo tale con tutti in materia di omicidi. Alla fine della sua definizione, Socrate obietta che
Eutifrone non ha realmente risposto. Egli infatti non ha fatto altro che mostrare degli esempi di
santo, di comportamento pio, senza entrare nell'essenza del santo come qualcosa di universale.
Eutifrone, trovandosi abbastanza d'accordo con le obiezioni mossegli da Socrate arriva a sostituire
la definizione precedente con la seguente: pio è ciò che è gradito agli dèi. Socrate concorda col fatto
che questa è effettivamente la forma di una definizione universale. Socrate però ha dei dubbi e
afferma che spesso la disparità di opinioni tra 2 persone verrebbe subito chiarita con degli opportuni
calcoli e la questione sarebbe risolte ma le questioni più difficili da risolvere sono quelle
incommensurabili, come appunto le discussioni su ciò che sia pio o empio; ognuno dei due
interlocutori allora cercherà di trarre l'altro dalla sua parte e, qualora convinca l'altro, non ci sarà
nessuna misurazione che possa confermare chi dei due avesse ragione e chi torto. Con questa
opinione possiamo anche pensare che ci sarà disaccordo anche tra gli dèi su che cosa sia pio e su
che cosa sia empio; la definizione data da Eutifrone è errata o, almeno, incompleta: ad alcuni dèi
apparirà pia una certa azione, ad altri un'altra e così via e ci sarà perenne dissenso. Dunque una cosa
potrà essere nello stesso tempo santa ed empia.
Il Giorgia
Il dialogo è ambientato ad Atene, dove Gorgia, ospite in casa di Callicle insieme all'allievo Polo, si
è recato per far sfoggio della propria arte oratoria.
Il dialogo ruota attorno a cinque personaggi: Gorgia di Lentini, retore e sofista tra i più celebri;
Socrate, filosofo e maestro di Platone; Cherefonte, allievo di Socrate, presente anche in altri
dialoghi; Polo di Agrigento, giovane discepolo di Gorgia, autore di un trattato di retorica; Callicle,
giovane aristocratico presso la cui casa Gorgia è ospite. L'intero colloquio si svolge di fronte ad una
vasta platea di uditori, che ha appena assistito ad una performance retorica (epídeixis) del maestro
siciliano, nella quale sfidava chiunque a porgli una domanda a cui non avrebbe saputo rispondere.
Callicle, che svolge una parte rilevante nel dialogo, è probabilmente un personaggio inventato dalla
fantasia di Platone per rappresentare, per così dire, l'acclimatazione dell'etica aristocratica alla
democrazia. Gorgia , che si vantava di saper rispondere a qualsiasi domanda, è reduce da una
fortunata esibizione pubblica. Socrate gli pone un quesito analogo a quello cui aveva messo di
fronte Protagora : "chi sei?", cioè "che cosa insegni?" Polo, ambizioso allievo del sofista, si offre di
rispondere in sua vece: gli uomini hanno molte technai, apprese dall'esperienza. L'esperienza fa sì
che la nostra vita proceda secondo una regola (kata technen) e non a caso (kata tychen ). Gorgia è il
migliore, perché possiede la techne più bella. Inoltre callicle interpella socrate e gli chiede la
retorica se è l’arte del vero o tecnica di persuasione. Socrate risponde che lòa retorica, seguendo
gorgia, è un credere senza sapere ed è il più grande danno che si possa fare alla retorica. C’è un
pericolo sociale nel non seguire i propri desiderio, infatti se si seguono i propri desideri si entra in
conflitto con se stessi e si perde l’armonia interiore.
Il dialogo è diviso in 3 parti:
-credere senza sapere è pericoloso
non si può mirare al retorica dei sofisti perché pericolosa al livello sociale
-l’edonismo (non avere criteri morali) è pericoloso perché rischia di sopraffarre gli altri e insegue il
proprio desiderio fino a che non ha tutti i piaceri
gorgai è amorale, insegue i propri piaceri senza vincoli
-se seguo tutti i miei piaceri entro in conflitto con me stesso, perdo l’armonia interiore
diventi schiavo dei desideri
Nel dialogo vi è anche la ricerca di un bene stabile e oggettivo, ovvero l’etica.
Eutidemo
Il dialogo Eutidemo viene spesso associato ai dialoghi definitori per la ricerca della verità.
L’Eutidemo (in greco Εὐθύδημος) è un dialogo di Platone in cui viene messa in scena una parodia
dell'eristica, l'arte sofistica di “battagliare” a parole allo scopo di confutare le tesi avversarie, qui
rappresentata dai due fratelli Eutidemo e Dionisodoro. Platone, sempre caustico nei confronti dei
sofisti, mette alla berlina quest'arte, per mezzo della quale è impossibile cogliere la verità e quindi
poter insegnare o apprendere qualcosa: l'eristica infatti si fonda sulla convinzione che tutte le
affermazioni abbiano il medesimo valore di verità, e che quindi le parole possano essere usate non
per raggiungere la conoscenza, ma più semplicemente per competere con gli altri e indurli al
silenzio, sostenendo o confutando una tesi a seconda dell'utilità del momento.
Lo scopo di Platone nell’Eutidemo è ancora una volta difendere Socrate dalle calunnie che gli erano
state mosse, mostrando come il maestro si differenziasse nel pensiero e nelle azioni dai sofisti a cui
veniva equiparato. Eutidemo è un sofista che chiede a socrate cos’è la verità. Socrate gli risponde
che la verità è un’esortazione alla filosofia. Il dialogo dell’eutidemo è aporetico e al suo interno
abbiamo un demone. Il demone è un logos: o è profezia o divinazione o creazione razionale. Socrate
vuole scappare dai sofisti ma il demone lo tiene seduto. Il demone è un espediente narrativo ceh
permette di parlare della virtù senza definirla. Infatti Socrate non risponde in maniera definitiva
perché l’interlocutore non è pronto, meglio affidarsi all’esortazione del demone.
Protagora
Il dialogo incomincia con il giovane Ippocrate che sveglia Socrate per aiutarlo a diventare allievo di
Protagora, celebre sofista giunto ad Atene. Ovviamente, Socrate acconsente ad accompagnare il
giovane, desideroso di poter discutere con il celebre «maestro di virtù». Il filosofo non perde tempo,
e domanda subito al sofista quale guadagno avrà Ippocrate dalla sua frequentazione: Protagora
infatti si propone di insegnare ai propri allievi una condotta assennata, in modo che diventino buoni
cittadini. Protagora ha impostato la sua vita sull’educazione come arte politica, allora ognuno di noi
ha una disposizione naturale nel fare politica. Ognuno di noi deve coltivare il pudore e la giustizia,
senza i quali non si possono educare buoni cittadini. Per protagora l’educazione è la virtù della
politica che ognuno ha naturalmente parlando. Chi non ha pudore e giustizia non ha virtù politiche.
Tuttavia, lo stesso filosofo dimostra che non è possibile sostenere una distinzione netta tra le varie
virtù, poiché, mentre gli uomini possono essere coraggiosi ma non santi, o giusti ma non
temperanti, nel caso delle virtù prese in sé ciò non accade: la giustizia in sé è sempre santa, come la
santità è giusta La virtù politica (eidaunomia:bene) è la virtù del bene in quanto socialmente
desiderabile. Il bene, poi, ha come contrario il male, il giusto l'ingiusto, la sapienza l'insipienza e,
così, ogni cosa ha un solo contrario: non è dunque possibile che l'insipienza sia allo stesso tempo
contraria alla sapienza e alla saggezza, a meno che non si ammetta - appunto - che queste ultime
siano la stessa cosa. Per esempio, il cattivo medico non è qualcuno che non conosce la medicina
(non sarebbe nemmeno un medico), ma piuttosto un medico che ha studiato l'arte e opera male; e
così, malvagio può esserlo solo un uomo buono divenuto cattivo per lo sciagurato evento di
perderne la scienza. Un ultimo aspetto descritto nel Protagora è il coraggio. Protagora sembra
intendere il coraggio nel senso di «audacia», la quale, osserva Socrate, nel caso degli insipienti non
è una virtù, ma follia: un soldato che non conosce le tecniche di lotta e si butta ugualmente nella
battaglia non è coraggioso, semmai è pazzo. Protagora è però un interlocutore attento, e smaschera
la strategia di Socrate: audacia e coraggio non sono la stessa cosa, anche se capita che gli audaci
siano coraggiosi, poiché l'audacia è frutto sia di scienza che di follia, mentre il coraggio dipende
dalla disposizione dell'animo.
Il Protagora si basa su 3 elementi:
-educazione è una virtù politica come condizionamento naturale
-sappiamo che dobbiamo avere pudore e giustizia ma anche la virtù del bene
-scontro tra eidaunomia, ricerca della felicità in quanto bene, e l’edoné
Il dialogo è aporetico e finisce con la differenza tra il bene dell’eiduanomia che produce la felicità e
il bene dell’edoné in quanto piacere.
Cratilo
Socrate incontra Ermogene e Cratilo, che stanno discutendo attorno al problema della correttezza
dei nomi. Cratilo afferma infatti che i nomi sono per natura, ossia rispecchiano realmente la realtà;
Ermogene crede invece che i nomi siano arbitrari, decisi dall'uso e dalla convenzione.
Ermogene simboleggia la concezione sofistica del linguaggio: per i Sofisti, a partire da Protagora,
se “l'uomo è misura di tutte le cose”, ogni tipo di nome si adatta a seconda delle condizioni poste
dall'uso. Il termine "cavallo" è puramente convenzionale; non c'è nulla in comune tra la parola
cavallo ed il cavallo, tuttavia l'uso comune ha permesso quest'accettazione e si reputa corretto dire
che quell'animale è un cavallo. Tuttavia ugualmente bene andrebbe il termine "scoiattolo" o il
termine "cicala" giacché non sussiste nessuna somiglianza tra nome e cosa nominata.
Cratilo simboleggia invece la concezione naturalistica del linguaggio: esiste un'assoluta identità tra
nome e cosa nominata. Il nome è vero sempre, perché racchiude in sé la stessa natura che pervade la
cosa nominata. Ogni nome è indizio di conoscenza, di una conoscenza meravigliosa, divina, quasi
sacrale. Il nome è giusto perché i primi a nominare le cose furono gli dèi che, essendo perfetti,
assegnarono nomi perfetti alle cose. Non esistono dunque nomi sbagliati; esistono nomi e non-
nomi.
Socrate comincia a confutare la tesi di Ermogene, mostrando che i nomi non sono solo convenzioni,
ma anzi rappresentano un qualcosa dell'oggetto a cui si riferiscono; contengono cioè una qualche
caratteristica che li rende perfetti nell'adattarsi alla cosa descritta. Lo dimostra il fatto che esistono
discorsi veri e discorsi falsi. Poiché il nome è parte del discorso, è evidente che i nomi utilizzati nel
discorso vero devono essere corretti; quelli usati nel discorso falso non lo sono. Platone fonda la sua
concezione del linguaggio sull'ontologia; per Platone è immediatamente evidente che esista un'altra
realtà al di fuori del nome; è la realtà stessa delle cose a cui i nomi si riferiscono. Bisogna infatti che
esista una natura al di fuori del nome perché esista una reale nominabilità. Senza questa natura,
senza quest'essenza, rimarrebbe inutile nominare, giacché non si dovrebbe indicare nulla con il
nome, perché non ci sarebbe nulla da indicare. Platone allora comincia dal Cratilo ad elaborare una
teoria di Idee immutabili: di un'essenza stabile nella natura, che rimanga uguale ed inalterata nel
tempo e che renda valida la nominabilità stessa.