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LA GRAMMATICA

DI CARTA E LA
GRAMMATICA
DELL’APPRENDENTE
M A S S I M O P A L E R M O

La parola grammatica, oltre a suscitare sentimenti contrastanti (in genere più orientati verso
l’avversione che l’ammirazione), è un termine riccamente polisemico grazie alla sua storia
plurimillenaria. Innanzitutto designa al contempo un oggetto fisico e le regole in esso contenute:
a differenza di storia, geografia, matematica, la parola grammatica indica nello stesso tempo una
nozione (‘studio di una lingua’, complesso delle norme che ne governano l’uso) e il libro, il testo
consacrato alla sua descrizione: possiamo ben dire “Prendi la grammatica!” (ossia un certo libro che
ha per oggetto la lingua italiana o latina o inglese), mentre non potremmo dire Prendi la storia o la
geografia1!

Aggiungiamo che le regole possono essere diversamente formulate a seconda della finalità
dell’opera: teorica, normativa, descrittiva, pedagogica. Ma la gamma di significati non si esaurisce
qui. Per i linguisti grammatica è in primo luogo l’insieme delle regole della lingua che esistono nella
mente del parlante (nativo), indipendentemente dal fatto che qualcuno abbia provato a codificarle in
un testo scritto. La capacità di produrre enunciati grammaticali e di dare giudizi di grammaticalità
su parole, espressioni e frasi da parte di bambini in età prescolare è una delle prove dell’esistenza di
questo ulteriore livello. Ne consegue che le regole grammaticali risiedono nella testa del parlante – e
qui operano, rendendo possibile la comunicazione – indipendentemente dalla sua consapevolezza
della loro esistenza: per dirla in altre parole la consapevolezza della regola non è richiesta per una
sua corretta applicazione. È esperienza comune che molti adulti scolarizzati possono avere difficoltà

1 Cfr. L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 25.

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a verbalizzare regole che tuttavia applicano senza nessuna difficoltà quando parlano o scrivono. È
altresì indubbio che le regole di una buona grammatica non sono avulse dalla realtà, anzi aspirano ad
essere il depositato della naturale grammaticalità delle lingue, e una buona grammatica pedagogica
dovrebbe proprio partire, quale che sia il livello degli allievi, dal chiarire che le regole non nascono
dalla testa del grammatico, ma che la nozione stessa di lingua è intrinsecamente dipendente da quella
di grammatica2.

Nella bibliografia, per riferirsi a questi due piani di esistenza della regola grammaticale si
distingue tra conoscenza dichiarativa (saper dire la regola) e conoscenza procedurale (saperla usare
in contesto). Studi recenti rafforzano questa ipotesi di separazione dimostrando che dal punto di
vista neurocognitivo le due competenze sembrano far capo a sistemi di memoria distinti: la memoria
dichiarativa e la memoria procedurale. Nell’apprendimento linguistico “questi due sistemi per
alcuni aspetti si integrano, mentre per altri sono alternativi”3. Sembrano esistere tuttavia delle
differenze tra parlanti nativi e non nativi per quel che riguarda la distribuzione dei compiti affidati
a ciascun sistema di memoria: nella L1 la memoria procedurale gestisce e organizza le informazioni
grammaticali, mentre alla memoria dichiarativa è attribuita la processazione delle informazioni
lessicali; nella L2 la memoria dichiarativa può gestire anche le informazioni grammaticali.
Introducendo la variabile lingua nativa vs. lingua non nativa chiamiamo in causa chi si occupa di
linguistica acquisizionale e di glottodidattica. In quest’ambito più che l’indagine sulla grammatica
come prodotto finito (= sistema di regole) diventa di primario interesse l’analisi della grammatica
come processo, ossia il percorso di evoluzione delle grammatiche provvisorie della lingua target
sviluppate dall’apprendente in risposta all’input e/o agli stimoli dell’attività didattica.
Il parlante scolarizzato, che ha sperimentato un percorso più o meno lungo ed efficace di riflessione
metalinguistica esplicita, normalmente integra sia le conoscenze dichiarative sia quelle procedurali
delle regole della propria lingua, nonché di eventuali altre lingue apprese successivamente. Su come
conciliare questa sfasatura di piani (conoscenze dichiarative e procedurali) in prospettiva didattica si
è svolto uno sterminato dibattito che non possiamo ripercorrere qui, ma che ruota fondamentalmente
intorno alla seguente domanda: la consapevolezza delle regole, che è inevitabilmente il risultato di
attività di riflessione esplicita sulla grammatica, favorisce o no la competenza d’uso d’una lingua?4.
Le risposte date nell’ultimo secolo sono molto divergenti in relazione a teorie, approcci e metodi
di riferimento, e oscillano dall’accettazione acritica dell’utilità della riflessione grammaticale al
rifiuto di riconoscere qualsiasi efficacia all’insegnamento esplicito della grammatica; l’andamento
ciclico di questa discussione è stato sintetizzato da Porcelli con la nota immagine della “sindrome

2 Cfr. A. Laudanna-M. Voghera, Apprendimento e insegnamento implicito ed esplicito della grammatica, in


Grammatica a scuola, a cura di L. Corrà, e W. Paschetto, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 23-35, in particolare
p. 30.
3 Cfr. E. Nuzzo-S. Rastelli, Glottodidattica sperimentale. Nozioni, rappresentazioni e processing nell’apprendi-
mento della seconda lingua, Carocci, Roma 2011, p. 58.
4 Per maggiori ragguagli, anche bibliografici, si vedano almeno G. Pallotti, La seconda lingua, Bompiani, Mila-
no 1998; M. Lo Duca, Lingua italiana ed educazione linguistica, Carocci, Roma 2003; P. Diadori-M. Palermo-D.
Troncarelli, Insegnare l’italiano come seconda lingua, Carocci, Roma 2014; S. Rastelli, Che cos’è la didattica
acquisizionale, Carocci, Roma 2009.

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del pendolo”5. Negli ultimi anni la discussione è stata nel complesso meno soggetta a valutazioni
“teorico-ideologiche” e si sta più proficuamente spostando verso l’individuazione del differente peso
specifico che il ricorso alla riflessione metalinguistica esplicita può svolgere in relazione ad alcune
variabili fondamentali dell’apprendente e del processo di apprendimento: l’età, lo stile cognitivo, il
livello di competenza, le abilità coinvolte, i registri di lingua ecc.

1. Nei panni dell’apprendente


Torniamo ora al significato di grammatica da cui siamo partiti, ossia di insieme di regole contenute
in un testo. Nelle pagine che seguono, focalizzando la nostra attenzione sul piano dell’insegnamento/
apprendimento dell’italiano come L2, cercheremo di mettere in luce le ragioni per cui la regola
della grammatica, indipendentemente dal background teorico della stessa, presenti una mise en
page radicalmente diversa dal percorso di scoperta della regola da parte dell’apprendente, che
è stato autorevolmente definito una mise en grammaire6. Solo partendo dalla consapevolezza di
questa radicale diversità il docente potrà utilizzare in maniera didatticamente efficace gli stimoli di
riflessione esplicita sulla lingua che proporrà ai discenti.
A tale scopo compiremo un esperimento di “empatia linguistica”, che consisterà nell’invitare il
docente a “calarsi nei panni” dell’apprendente. Usciremo però dalla realtà della classe per assumere
come punto di osservazione privilegiato il percorso di sviluppo della competenza negli apprendenti
spontanei. Come è stato messo in luce dagli studi acquisizionali, proprio in questo particolare contesto
di apprendimento si verificano alcune condizioni “ideali” per studiare lo sviluppo dell’interlingua7
riducendo al minimo i condizionamenti esterni. Successivamente rientreremo in classe per cercare
di vedere in che misura le strategie di apprendimento messe in campo siano confrontabili con quelle
dell’apprendente guidato (instructed learner).
Per eliminare ulteriori elementi di potenziale disturbo, immaginiamo che il nostro ipotetico
apprendente abbia come L1 una lingua tipologicamente molto distante dall’italiano. In tali
condizioni – in una prima fase di immersione nella realtà comunicativa della lingua target – la
L2 con cui l’apprendente si confronta è sostanzialmente un flusso indistinto di suoni. Lo sviluppo
dell’interlingua è descrivibile come un graduale percorso di trasformazione di questo flusso indistinto
in unità discrete (dall’enunciato in giù, passando per le unità d’analisi minori). Inizialmente lo sforzo
cognitivo richiesto è in parte compensato da un apprendimento formulare:

Le formule sono pezzi di lingua memorizzati tali e quali senza che vengano scomposti nelle
parti che li compongono. Senza l’analisi, il carico dell’apprendimento è ridotto a memorizzazione.
Questo permette di usare strutture complesse prima di capirne il funzionamento, massimizzando

5 Cfr. G. Porcelli, Principi di glottodidattica, La Scuola, Brescia 1994.


6 Cfr. A. Giacalone Ramat, Typological Considerations on Second Language Acquisition, “Studia Linguistica”, 54,
pp. 123-35 e C. Andorno, Lo sviluppo della morfosintassi in studenti cinesi in Italiano di cinesi, italiano per cinesi,
a cura di S. Rastelli, Guerra, Perugia 2010, pp. 89-121.
7 Si tratta di un “sistema linguistico in cui convivono, generalmente a causa di interferenze, regole della L1 con
quelle della L2 nel corso dell’apprendimento di quest’ultima” (cfr. Dizionario di linguistica e di filologia, metrica,
retorica, a cura di G. L. Beccaria, Einaudi, Torino 2004, p. 410, ad v. ‘interlingua’, punto 2).

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così il rendimento comunicativo8.

Schematizzando possiamo dire che l’apprendente, superata questa prima fase, compie un lungo
lavorìo di analisi dell’input per giungere alla trasformazione dei mattoni (chunks) lessicali in unità
discrete, attribuendo loro un valore via via più simile a quello della lingua target. Secondo tale ottica
– valorizzata in particolare nell’ambito del lexical approach – si tende a rappresentare lo sviluppo
della competenza globale come una progressiva grammaticalizzazione di informazioni che in fasi
precedenti erano gestite a livello lessicale.
Come ci ricorda il Quadro Comune Europeo per comunicare si ha bisogno in primo luogo di
saper portare a termine dei compiti comunicativi: salutare, presentarsi, fare una domanda, dare un
ordine, chiedere un permesso ecc. Per svolgere queste funzioni linguistiche abbiamo bisogno di
forme linguistiche adeguate. Dunque l’apprendente per arrivare alla regola parte dalla funzione (a
cosa serve questa espressione? Quale compito comunicativo permette di svolgere?) per abbinare
gradualmente alle funzioni delle forme linguistiche. La regola della grammatica segue il percorso
inverso: si parte dalla forma, a cui precedentemente è stato dato un nome (aggettivo, verbo,
complemento oggetto ecc.), per arrivare solo in un secondo momento a ragguagliare il lettore sulle
funzioni svolte dalla forma precedentemente descritta. In altre parole il lavorìo dell’apprendente
sopra descritto parte dall’input per arrivare a creare dei paradigmi (seppur provvisori), mentre la
regola grammaticale parte dalla descrizione del paradigma (schema, quadro sinottico o quant’altro)
per arrivare a verificare la tenuta della regola nell’input. Rappresentiamo la diversità del percorso
nello schema seguente:


Regola della grammatica: Nome Forma Funzione

Paradigma Input

Regola dell’apprendente: Funzione Forma (Nome)

Input Paradigma

 

Fig. 1. Regola della grammatica e regola dell’apprendente.

Per l’apprendente la formazione di un paradigma, cioè di uno schema di flessione (per es. quello
che regola il singolare e il plurale del nome) è il punto di arrivo di un lungo processo di elaborazione
dell’input, mentre nella grammatica il paradigma è la prima informazione offerta all’utente: dalla
rappresentazione schematica delle forme si passa a considerazioni sull’uso (dunque sulle funzioni)
e, se si tratta di una grammatica concepita per scopi didattici, anche alla verifica della validità del

8 C. Bettoni, Imparare un’altra lingua, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 54-55.

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paradigma in testi concreti (gli esercizi). Si sarà notato che in fig. 1 nel percorso dell’apprendente
il nome delle entità grammaticali è posto tra parentesi perché non strettamente necessario per
impossessarsi della competenza d’uso: si può applicare la regola che determina la posizione dei
clitici in italiano senza sapere che quelle particelle si chiamano così.
Torniamo ora nei panni del nostro apprendente e proviamo a simulare il suo percorso di scoperta
della classe morfologica dotata di maggiore variabilità: il verbo. Naturalmente, nella nostra finzione
da laboratorio esaminiamo solo una delle varabili, isolandola dalle altre: nella realtà il percorso
di scoperta delle regole è reso più complicato dal fatto che l’apprendente immerso in un flusso
comunicativo non può prendersi il lusso di analizzare separatamente i vari piani della grammatica
che sono evidentemente compresenti in ogni enunciato.
Che tra le classi morfologiche il verbo sia quella soggetta a maggiore variabilità colpisce
ancor più gli apprendenti di lingue isolanti, come i cinesi, che non sono abituati al fatto che su un
medesimo morfema ricadano più valori (persona, numero, tempo, modo, aspetto…). Ecco come
un’apprendente cinese, in Italia già da alcuni anni, mette a confronto la relativa semplicità della
variazione del verbo in cinese con la complessità del verbo italiano:

\IT\ E il verbo?
\TU\ verbo + no cambia niente ++ solo metrono n picolo come italiano articolo sempre a/ uguale
\IT\ Sì.
\TU\ huo su, pasato no? io-ho futuro + adesso scien-tze + sempre metrono steso articolo + più facile
\IT\ Per cui il verbo non cambia
\TU\ no cambiare niente + metono natro ++ rticolo + sempre uguale + no come qua, cambiare
tropo + de l’ultima sempre cambiare + hu uo icà + io tu lui loro noi voi + sempre cambiare, no?
nvece in cina no cambiato niente, solo metrono n rticolo come questo + sempre ugu/ più facile
(TU.09)9.

Con maggiore o minor fatica a seconda della distanza tipologica della L1 il nostro apprendente,
grazie all’elaborazione dell’input, scopre gradualmente alcune cose, per esempio che il verbo
italiano è una categoria variabile, che alla variabilità sono associabili molteplici funzioni (tempo /
aspetto / modo), che, come avviene per altre classi di parole variabili, l’informazione lessicale è a
sinistra, quella grammaticale a destra.
A un certo punto l’apprendente si accorge che esistono forme verbali semplici, formate da una
sola parola, e forme verbali composte, formate da due o più parole. L’individuazione di questa
variazione non è così ovvia per chi sia esposto prevalentemente a un input orale. I tempi composti
costituiscono infatti una sola parola dal punto di vista fonologico (ausiliare e participio passato non
sono separati da una pausa). Soltanto prove indirette, come per es. la separabilità dell’ausiliare dal
participio (non ho mai detto questo), o l’accesso alla parola scritta evidenziano che si tratta di due

9 Tratto dal Progetto Pavia (CD realizzato dall’Università di Pavia, Dipartimento di Linguistica, Banca Dati di
Italiano L2, a cura di C. Andorno). Le sigle IT, TU e TU.09 identificano il parlante, l’intervistatore e il numero
del file. Altri passi dell’intervista sono citati in Ead., La grammatica per l’apprendente di L2. Apprendenti guidati
e spontanei a confronto, in L. Corrà-W. Paschetto, op. cit., pp. 36-48.

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componenti distinti. Nello scoprire che esistono queste forme composte l’apprendente deve resettare
la regola precedentemente individuata integrandola con un’altra: nei verbi composti la maggior
quantità di informazione morfologica non è a destra della forma verbale nel suo complesso, ma a
destra del primo componente.
In contemporanea con questo lavorìo di processazione dell’input il nostro apprendente inizia a
cercare di abbinare le funzioni alle forme. La relativa trasparenza della morfologia italiana viene in
suo aiuto, tuttavia deve superare alcuni ostacoli di percorso, scoprendo per esempio che:

- una funzione può essere svolta da più forme, per es. nella terza persona singolare
dell’indicativo presente (canta / dice);
- una forma può svolgere più funzioni, per es. la desinenza -a può marcare l’indicativo
o il congiuntivo presenti (parla / prenda; parlano / prendano);
- esistono forme ambigue (io/loro sono; io/tu /lui dica; io/tu dicessi);
- esistono forme irregolari.

2. Rapporti tra acquisizione/apprendimento e didattica


Gli studi acquisizionali nascono in una prima fase per scopi generali, come individuare dei
principi universali che governano il processo di acquisizione delle lingue seconde. Solo in una
seconda fase si è posto il problema delle possibili ricadute in termini di progettazione e gestione
dell’attività didattica dei principi e delle regolarità scoperte. La natura dei rapporti reciproci tra
linguistica acquisizionale e glottodidattica è ancora oggetto di riflessione e sta conducendo allo
sviluppo di un nuovo promettente filone di ricerca volto a individuare le linee guida di una possibile
didattica acquisizionale10.
Sul versante dei rapporti tra le due discipline si possono distinguere prese di posizione
diversamente orientate. All’inizio degli anni Novanta, anche per la necessaria cautela dovuta alla
provvisorietà e alla parzialità dei primi risultati delle ricerche acquisizionali sull’italiano, prevalgono
indicazioni orientate verso la prudenza:

L’effetto di maggior portata che ci si può attendere dalla conoscenza delle ricerche sull’acquisizione
è un cambiamento nell’atteggiamento degli insegnanti, un ripensamento del modo in cui essi sono
abituati a considerare le produzioni degli allievi11

e verso un determinismo “debole” per quel che riguarda i rapporti con la scelta del metodo

10 Cfr. M. Vedovelli-A. Villarini, Dalla linguistica acquisizionale alla didattica acquisizionale: le


sequenze sintattiche nei materiali per l’italiano L2 destinati agli immigrati stranieri, in Verso l’italiano,
a cura di A. Giacalone Ramat, Carocci, Roma 2003, pp. 270-304; P. E. Balboni, Linguistica acquisi-
zionale e glottodidattica, in Dagli studi sulle sequenze di acquisizione alla classe di italiano L2. Atti del
Convegno-seminario, Bergamo, 19-21 giugno 2006, a cura di R. Bozzone Costa-C. Ghezzi-R. Grassi,
Guerra, Perugia 2008, pp. 23-34; S. Rastelli, op. cit.
11 Cfr. A. Giacalone Ramat, Italiano di stranieri, in Introduzione all’italiano contemporaneo, vol. II.
La variazione e gli usi, a cura di A. Sobrero, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 341-410, in particolare p.
403.

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d’insegnamento:
L’utilizzazione dei risultati è del tutto indipendente dalla scelta di un metodo didattico. Esse [= le
ricerche acquisizionali] possono trovar posto tanto all’interno di un approccio comunicativo quanto
di un approccio grammaticale12.
In anni a noi più vicini la sedimentazione di un maggior numero di risultati delle ricerche spinge
verso posizioni più sbilanciate a favore della necessità di adeguamento della prassi didattica ai
risultati delle ricerche acquisizionali:
Capire come avvenga l’apprendimento spontaneo è prioritario alla scelta del metodo di
insegnamento che più efficacemente lo possa assecondare13.
Le sequenze di acquisizione da alcuni sono ritenute universali e non alterabili da interventi
esterni, ad es. da un programma didattico. Se questa ipotesi è esatta, se questi processi naturali
esistono veramente e se agiscono con questa forza, l’obiettivo della didattica acquisizionale è quello
di armonizzare l’intervento didattico (cioè cosa si insegna, quando e come) con i processi naturali
di apprendimento14.
Sia gli studi acquisizionali sia quelli appartenenti al filone della teoria della processabilità
mostrano che l’apprendimento è un percorso che prevede delle tappe, sia cronologiche sia logico-
implicazionali; in aula possiamo velocizzare il passaggio da una tappa all’altra, non saltare o alterare
l’ordine delle medesime.
Il rapporto tra la linguistica acquisizionale e la glottodidattica non va poi necessariamente
interpretato in senso unidirezionale (dalla prima verso la seconda): il confronto tra strategie messe in
campo e contesto di apprendimento (spontaneo o guidato) cui accenneremo nel prossimo paragrafo e
i primi risultati di sperimentazioni condotte su gruppi specifici di apprendenti promettono di fornire
nel prossimo futuro indicazioni utili anche alla ricerca teorica.

3. Strategie di apprendimento e ruolo del docente


Il percorso di scoperta delle regole esaminato al § 1 si accompagna all’elaborazione di strategie
di apprendimento utili a ricondurre a regole provvisorie ciò che l’apprendente ha fatto proprio
dell’input (l’intake) o, diversamente, a evitare ciò che non si è ancora pronti a processare. Tali strategie
consistono essenzialmente nella lessicalizzazione (anno passato faccio lavoro ristorante = l’anno
scorso ho lavorato in un ristorante), attraverso la quale si usa il lessico per fornire l’informazione
sul tempo verbale che non si è ancora in grado di gestire morfologicamente; nella “sovra estensione”
di paradigmi (corruto, venito, una piccola problema), nell’“evitamento”, cioè nella cancellazione
provvisoria di elementi strutturalmente difficili (fra i casi più frequenti ricordiamo l’omissione
dell’ausiliare nel passato prossimo e quella dei clitici) e nell’“elaborazione autonoma”.
L’elaborazione autonoma è in qualche misura una strategia sovraordinata alle altre, in quanto
“la dinamica dei processi di acquisizione è caratterizzata principalmente da elaborazioni autonome
dell’apprendente a partire dagli elementi della L2 a sua disposizione e indipendentemente dalla
L1”15. Noi la intenderemo qui in un senso più ristretto, riferendoci a forme e espressioni prodotte

12 Ivi, p. 401.
13 Cfr. C. Bettoni, op. cit., p. 5.
14 Cfr. S. Rastelli, op. cit., p. 9.
15 Cfr. G. Bernini, Acquisizione dell’italiano come L2. In Enciclopedia dell’italiano, diretta da R. Si-

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dagli apprendenti che non possono essere state ascoltate in precedenza in quanto assenti dall’input.
Un esempio può essere offerto da forme come sono andatiamo ‘siamo andati’, in cui l’ausiliare è
in forma generica e inanalizzata e le informazioni personali e temporali sono apposte alla forma
lessicale invece che all’ausiliare.
Esistono differenze significative nelle strategie di apprendimento degli apprendenti spontanei e
guidati? Le poche ricerche per ora dedicate all’argomento sembrano indicare che l’apprendimento
spontaneo e quello guidato di una L2 sono accomunati dall’omogeneità dei percorsi, nel senso
che nessuna delle strategie generali ora esaminate può considerarsi esclusiva: anzi alcune di esse
travalicano l’ambito di apprendimento di lingue seconde e interessano anche l’acquisizione della
L1. A differenziare i due tipi di apprendimento non è tanto la messa in campo di un set di strategie
diverse, quanto i tempi e i modi di ricorso alle medesime strategie, il peso specifico loro assegnato,
la precocità della loro comparsa, il numero di stadi di competenza che ciascuna di esse interessa e
altre peculiarità nel modo in cui esse vengono attivate e impiegate16. Sembra inoltre emergere che
negli apprendenti guidati prevalgono strategie orientate all’iperutilizzo dei paradigmi provvisori di
apprendimento, che si contrappongono al prevalente impiego di strategie di semplificazione e di
evitamento di strutture complesse degli apprendenti spontanei17.
Vediamo ora alcuni esempi del diverso comportamento degli apprendenti guidati rispetto a
quelli spontanei. Alcune modalità di formazione del periodo ipotetico18 possono fornire utili spunti
di confronto. In una prima fase, gli apprendenti, che non dominano ancora l’uso di modi diversi
dall’indicativo, impiegano il passato prossimo (solo in protasi o in entrambi i membri) per costruire
periodi ipotetici controfattuali19:

Sono arrivato a Firenze al inizzio di Settembre. Ho pensato la città era molto passa perché
c’erano troppo gente e anche molti turistici. Ho devuto incontrare la scuola in 5 giorni, ero rimanere
a Firenze e vedere la città, ma ho avuto la mia valigia e non c’era un posto l’ho potuto salire, alora
ho pensato era una buona idea se  sono andato a Siena e chiamo la scuola. [SCR-NAR-ING-PRIN];
Era terribile, perché se  non ho presso l’aero, ho perso la scuola! [SCR-NAR-ING-PRIN];

mone, con la collaborazione di G. Berruto e P. d’Achille, vol. I, Istituto della Enciclopedia Italiana,
Roma 2010, pp. 19-22, in particolare p. 20.
16 Cfr. M. Palermo, L’ ADIL2 (Archivio Digitale d’Italiano L2). Considerazioni sull’apprendimento
dell’italiano in contesto guidato, in L’italiano degli altri. Atti del convegno internazionale, Firenze, 27-
31 maggio 2010, Accademia della Crusca, Firenze 2011, pp. 63-75.
17 Cfr. M. Chini, Che cos’è la linguistica acquisizionale, Carocci, Roma 2007, pp. 109-110.
18 Per una trattazione più approfondita dell’argomento si rinvia a M. Palermo, Sulla costruzione del
periodo ipotetico in italiano L2, “Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata”, XXXV/2, 2006, pp.
389-404, da cui traggo gli esempi citati.
19 Gli esempi sono tratti da ADIL2 (DVD allegato a Percorsi e strategie di apprendimento dell’italiano
lingua seconda: sondaggi su ADIL 2, a cura di M. Palermo, Guerra, Perugia 2009, pp. 3-26, a cui si
rinvia per maggiori informazioni sulla sua composizione e sui criteri di trascrizione). Tra parentesi
quadre è specificato il canale (scritto, orale), il tipo di testo (narrativo, descrittivo, argomentativo,
espositivo, regolativo), la madrelingua dell’apprendente, il livello (principiante, elementare, interme-
dio, avanzato).

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Studiavo in principianti con una brava insegnante, si chiama XXX. Mi diceva spesso, “Devi parlare,
senza paura”. Se  non ho studiato con lei, non posso parlare così spesso. [SCR-NAR-CIN-EL].

Quando iniziano a utilizzare il congiuntivo e il condizionale compaiono, fra gli altri, i seguenti tipi:
Se  tu venga con lei, tutti e due potete stare a casa mia. [SCR-ARG-ING-EL];
Il re dice se  lui potesse santirla lui può sposarla. [SCR-NAR-TED-EL];
Se  vorresti venire ti raccomando fare una visita nel estate, forse a Luglio [SCR-ARG-ING-PRIN].

Come si vede la modalità è marcata una sola volta mediante l’uso di un modo diverso
dall’indicativo e ciò avviene solo in protasi, cioè nel segmento che si fa carico di esprimere il valore
epistemico del costrutto, mentre in apodosi si continua a impiegare l’indicativo. L’apprendente attua
così un principio di economia nell’impiego di modi verbali complessi, rimandando a un secondo
momento la gestione dei due segmenti del periodo ipotetico secondo le regole di alternanza tra
congiuntivo e condizionale e di concordanza dei tempi dell’italiano. Lo stimolo dell’insegnante
all’uso del congiuntivo induce gli apprendenti a confrontarsi con strutture ancora non pienamente
dominate, innescando classici casi di transfer of training20 raccostabili alle ipercorrezioni. Nei tre
ess. seguenti si usa il congiuntivo (voleste, stia, cresca) in luogo dell’indicativo presente o futuro:

Se  voleste sentire un buon odore di caffè lasciate aprire un coperchio finché non potrete vedere
l’acqua dal sotto alla sopra. [SCR-REG-GIAP-INT].
“Ti raccamando, stare attenta! C’è sempre quel lupo nel bosco. Se  non stia attenta ti mangerai!”
[SCR-NAR-ING-AV]
Secondo me, questo è possibile solo se  la populazione cresca - o naturalmente o per immigrati.
[SCR-ESP-ING-EL]

Altri esempi utili del diverso comportamento messo in campo dagli apprendenti guidati rispetto
a quelli spontanei provengono dall’analisi delle soluzioni adottate per esprimere il passato perfettivo.
L’omissione dell’ausiliare convive con la sua espressione. Quando l’ausiliare è espresso può avvenire
una sovraestensione di avere su essere o viceversa di essere su avere. Dall’analisi di produzioni
scritte e orali di apprendenti relative a questo tratto21 emerge che le omissioni dell’ausiliare hanno
nel complesso una frequenza relativa minore che negli apprendenti spontanei, anche a causa degli
stimoli diretti e indiretti che provengono dall’insegnante. Tuttavia le omissioni sono più frequenti
nelle produzioni orali che in quelle scritte. In altre parole l’espressione dell’ausiliare si manifesta più
chiaramente nelle produzioni scritte, dove l’apprendente ha modo di monitorare la propria produzione.
Altra caratteristica peculiare degli apprendenti guidati sembra essere un numero elevato di
sovraestensioni di essere, molto rare negli apprendenti spontanei: si tratta di un fenomeno interessante
perché la forma marcata e meno frequente nell’input (aus. essere) si afferma a scapito di quella non
marcata e più frequente, che testimonia tuttavia l’atteggiamento più disponibile a sperimentare le

20 Cfr. L. Selinker, Interlingua, in Interlingua. Aspetti teorici e implicazioni didattiche, a cura di E.


Arcaini e B. Py, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1984, pp. 25-37.
21 Cfr. M. Palermo, L’ ADIL2…, cit., pp. 63-75.

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possibilità offerte dal sistema che caratterizza la comunicazione in ambito didattico22.
Preso atto che non è possibile stravolgere le tappe naturali dell’apprendimento, l’insegnante, se
vuole seguire le indicazioni della didattica acquisizionale, deve concentrarsi su alcune operazioni
fondamentali utili a fluidificare e velocizzare le tappe stesse: selezionare, graduare e ordinare l’input;
velocizzare il padroneggiamento delle funzioni; velocizzare l’abbinamento forme / funzioni; ridurre
i tempi di sovraestensione delle regole; stimolare l’apprendente ad utilizzare pienamente il ventaglio
di possibilità offerte dal sistema; gestire opportunamente il feedback correttivo. In altre parole il
buon insegnamento ha il compito di accelerare lo sviluppo dell’interlingua e aiutare a trasformare
più efficacemente l’input in intake. Cerchiamo di rappresentare il valore aggiunto dell’insegnamento
nel percorso di apprendimento mediante la fig. 2:

ĚŽĐĞŶƚĞ

ŵĞĚŝĂƚŽƌĞ

 ĨĂĐŝůŝƚĂƚŽƌĞ


ƐŝƐƚĞŵĂĚĞůůĂ
 ŝŶƉƵƚ
ůŝŶŐƵĂƚĂƌŐĞƚ


ĂƉƉƌĞŶĚĞŶƚĞ

 ĞůĂďŽƌĂƚŽƌĞ

 ƉƉƌĞŶĚŝŵĞŶƚŽƐƉŽŶƚĂŶĞŽ ƉƉƌĞŶĚŝŵĞŶƚŽŐƵŝĚĂƚŽ
ĚŝŝƉŽƚĞƐŝ


Fig. 2. Apprendimento spontaneo e guidato.
 
4. Considerazioni conclusive
Il nostro esperimento di empatia linguistica ha evidenziato un problema, e cioè che il paradigma,
che nella grammatica cartacea è il punto di partenza, per l’apprendente è il punto d’arrivo di un
percorso di scoperta. Per il docente la soluzione può essere rappresentata dal ricorso, là dove
possibile, al metodo d’insegnamento della grammatica che più si avvicina (è omologo) al percorso

22 Dati analoghi sul rapporto omissioni/sovraestensioni dell’ausiliare trovano riscontro in studi su gruppi spe-
cifici di apprendenti guidati, come ad esempio gli studenti cinesi del programma Marco Polo (cfr. C. Andorno,
Lo sviluppo della morfosintassi…, cit., p. 112).

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dell’apprendente, cioè quello induttivo. Si tratta di un metodo di insegnamento molto in voga, e per ciò
stesso più “dichiarato” nelle prefazioni dei manuali che effettivamente praticato nella realizzazione
delle sezioni metalinguistiche delle unità di lavoro: basta dare uno sguardo al panorama editoriale di
materiali per lo studio dell’italiano L2 – che pure negli ultimi anni si caratterizza per la sua vivacità
e con singole proposte di buon livello – per rendersene conto.
Ricordiamo che non basta anteporre il testo alla regola per praticare il metodo induttivo e forse
vale anche la pena di aggiungere, visto che spesso nella bibliografia di riferimento c’è un po’ di
confusione al riguardo, che ricorrendo a percorsi di insegnamento induttivo ci si muove pur sempre
nell’ambito della riflessione metalinguistica esplicita.
L’insegnamento induttivo presenta indubbi vantaggi sul piano cognitivo e su quello motivazionale,
e non spetta a me in questa sede l’onere di documentarlo, tuttavia occorre essere consapevoli del fatto
che si presta meglio alla sperimentazione di percorsi di scoperta per quegli argomenti in cui la regola
è più facilmente osservabile sulla superficie del testo (buona parte della morfologia risponde bene a
questo scopo) che per l’individuazione di regolarità più nascoste sotto la superficie del testo, come
spesso avviene per questioni sintattiche o regole il cui dominio di applicazione è sovrafrasale. Non si
può quindi pensare di fondare integralmente un percorso didattico sull’insegnamento induttivo della
grammatica, ma si tratta di integrare di volta in volta i due metodi.
Dalle prime osservazioni che emergono riguardo al diverso uso delle strategie di apprendimento
negli apprendenti spontanei e guidati cui abbiamo accennato nel § 3 possono emergere alcune
indicazioni utili. Le particolari condizioni entro le quali si realizza la comunicazione in contesto
didattico incoraggiano l’apprendente a sperimentare con maggior disinvoltura le cosiddette strategie
di assunzione del rischio (risk taking strategies)23, confrontandosi con strutture che ancora non
dominano del tutto e ampliando così il ventaglio delle soluzioni messe in campo. Il ricorso a tali
strategie si manifesta in tutte le situazioni in cui l’attenzione del discente è maggiormente concentrata
sulla forma: proprio in tali momenti egli attinge alle proprie conoscenze metalinguistiche esplicite e
monitorizza la propria produzione. Nel filone di studi denominato Task Based Language Teaching and
Research24 si sottolinea come il compito comunicativo richiesto non sia neutrale rispetto all’output.
Si tratta di studi che fondano le proprie basi teoriche fondanti sul Natural Approach; tuttavia se ne
differenziano nel ritenere che il ricorso alla conoscenza esplicita non serva all’apprendente solo
per monitorare la propria produzione in assenza di stress comunicativo, ma possa avere un ritorno
positivo sull’apprendimento. È evidente il nesso tra l’accettazione di questo punto di vista e il
riconoscimento di un ruolo positivo alla riflessione metalinguistica esplicita condotta in classe.

23 Cfr. P. Skehan-P. Foster, Cognition and tasks, in Cognition and second language instruction, a cura
di P. Robinson, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 183-205.
24 Cfr. P. Skehan, A framework for the implementation of task-based instruction, “Applied Linguis-
tics”, 17, 1, 1996, pp. 38-62; R. Ellis, Task-based Language Learning and Teaching, Oxford, Oxford
University Press 2003; Id., Measuring implicit and explicit knowledge of a second language: A psycho-
metric study, “Studies in Second Language Acquisition”, 27/2005, pp. 141-72; Id., Modelling Learning
Difficulty and Second Language Proficiency: The Differential Contributions of Implicit and Explicit
Knowledge, “Applied Linguistics”, 27/3, 2006, pp. 431-46.

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