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1. I CARATTERI DELLA SOCIOLOGIA DELLA MUSICA.

Scienza relativamente giovane, la sociologia della musica presenta tutt’ora una pluralità
di correnti e indirizzi metodologici, che dipendono in larga misura dal diverso
orientamento ideologico che li sottende.
La relazione tra musica e società è stata indagata sin dalle origini della riflessione
teorica sulla musica: al pari delle altre arti, anche la musica incorpora una dimensione
sociale presente a molteplici livelli di indagine. Il filone degli studi su musica e società,
soprattutto nella sua fase moderna, che ha inizio con la fondazione della sociologia
della musica di impronta positivistica (tra la fine dell’ 800 e l’inizio del ‘900), si è
manifestato come un territorio multi-disciplinare posto alla confluenza di discipline e
paradigmi di indagine tra di loro anche molto eterogenei: metodi di indagine di tipo
statistico mutuati dalle scienze sociali, l’indagine storiografica, pur orientata in senso
storico-sociale, la critica del testo musicale, l’una e l’altra proprie della tradizione di
studi più puramente musicologica.
Da un lato il prevalere di un orientamento “esternista”, che considera la musica come
un oggetto qualsiasi della riflessione sociologica, dimensione che a ben vedere,
prescinde dal testo musicale, dalla sua storicità e dalla sua esteticità con un baricentro
saldamente fissato sulle esigenze di ricerca della sociologia generale. D’altro lato una
prospettiva di ricerca “internista” incentrata sul testo musicale, sulla sua esteticità e
sulla sua storicità, in un ambito di studi nel quale le implicazioni sociali appaiono un

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appendice a riflessioni di tipo critico, estetico, ermeneutico, assai più consuete per
quella disciplina - la musicologia – che fa della musica, e non della società, il suo
obiettivo di ricerca. Da un lato, la sociologia della musica studia i modi e le circostanze
di ricezione e di consumo attraverso cui la musica acquista una funzione sociale,
influendo sui comportamenti e le consuetudini collettive; dall’altro lato, i modi con cui
le strutture e i comportamenti sociali influiscono sui caratteri e le forme specifiche del
linguaggio e della produzione musicale. In altri termini, obiettivo generale della
disciplina è l’ indagine del rapporto tra la funzione sociale della musica e la
struttura del sistema musicale. Rispetto alla musicologia tradizionale, la sociologia
della musica considera i fenomeni musicali in una prospettiva fondamentalmente
diversa: mentre per la musicologia è soprattutto importante la sfera della produzione
musicale (composizione), per la sociologia della musica il momento della produzione e
quello del consumo costituiscono due aspetti complementari di uno stesso fenomeno,
per cui il prodotto musicale acquista significato non in rapporto alle sue qualità
estetico – formali, bensì alla rilevanza sociale della sua diffusione e del suo consumo.
In secondo luogo, mentre la storiografia tradizionale della musica privilegia la
prospettiva diacronica e tende a evidenziare i momenti dell’invenzione e della novità
rispetto a quelli della convenzione, la sociologia della musica studia i fenomeni
musicali principalmente nella loro dimensione sincronica, orizzontale, occupandosi
soprattutto di quelli segnati da un più elevato tasso di ripetitività e uniformità di
moduli (musica leggera, popolare, produzioni destinate al consumo corrente o di
carattere funzionale, e qualsiasi altro tipo di prodotto musicale ad alto livello di
standardizzazione). Nel fare ciò, essa prescinde dalla valutazione comparativa di
ordine estetico (ad esempio tra musica “d’arte” e musica “leggera”), e tende invece a
individuare “classi di gusto” o livelli di cultura in rapporto a una determinata
stratificazione socio-economica, studiando altresì i rapporti intercorrenti tra le varie
classi o ceti sociali (borghesia, piccola borghesia, proletariato urbano, strati contadini)
e le diverse forme di linguaggio, fruizione e produzione musicale. Concepire la musica
come manifestazione di una “cultura”, come mezzo stesso di identificazione culturale
oltre che come patrimonio conoscitivo, significa inferire l’esistenza di significati che,
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connessi con la situazione della società e dei gruppi sociali, vanno al di là dell’analisi
musicale della forma delle strutture sonore (in senso stretto) ma possono aumentare la
comprensione dei fenomeni musicali: in ogni caso “la struttura sonora non è mai
esaustiva del significato che socialmente le viene attribuito, essendo
inestricabilmente connessa ad altri aspetti che musicali non sono”. La
sociologia della musica deriva i suoi metodi d’indagine principalmente dalla sociologia
generale e dalle scienze statistiche, integrandoli con discipline della musicologia
sistematica (acustica, psicologia della musica, ecc.) e, all’occorrenza, con criteri mutuati
da settori musicologici collaterali, come l’etnomusicologia, la semiologia e l’analisi
musicale. Data la varietà delle interrelazioni tra musica e società, la sociologia della
musica abbraccia un campo assai eterogeneo di ricerche e problemi, dagli aspetti
economici della professione del musicista o della vita musicale, alle implicazioni sociali
della percezione musicale. Pur contenendo vari caratteri di disciplina sistematica, essa
si presenta oggi sostanzialmente come una disciplina storica, basata sull’osservazione
di fatti e circostanze oggettive, inquadrate in un contesto sociale storicamente e
spazialmente determinato. Criteri e metodi dell’indagine sociologica sono altresì
passati alla musicologia storica, determinandovi la nascita di un indirizzo storico-
sociale, particolarmente attento ai rapporti tra strutture storiche di committenza e di
fruizione e sviluppo di determinati generi e stili musicali. Un primo interesse per i
fondamenti sociali del linguaggio musicale si sviluppò in margine al positivismo tra la
fine del sec. XIX e l’inizio del XX sec., sulla base di un’estensione alla storia della
musica di principi derivati dall’evoluzionismo darwiniano. Nuovi impulsi della
sociologia della musica, nel senso del superamento dell’evoluzionismo positivista,
vennero a partire dal 1930 circa dall’applicazione ai fenomeni musicali delle categorie
marxiste del materialismo storico, che portarono a dedurre il significato sociale
dell’opera d’arte dalla realtà circostante dei rapporti di classe e delle strutture socio-
economiche. Validi risultati nel campo della storia sociale della musica hanno dato,
altresì, l’impiego di criteri storico-materialisti, spunti dedotti dall’idealismo
hegeliano e studi provenienti dalla filosofia empirica.

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2. LE FUNZIONI DELLA MUSICA.
In ambito della musica d’arte occidentale, la dimensione (e quindi anche la funzione)
espressiva ha avuto il sopravvento sfruttando ed elaborando la particolare qualità
“autonoma” del fenomeno sonoro sia a livello della produzione sia a quello della
fruizione. Ma, anche nella cultura occidentale, non tutte le funzioni della musica sono
riconducibili alla sfera delle emozioni, del sentimento, dell’elevazione estetica o
quant’altro possa essere incluso nel concetto vasto e complesso di “espressione”.

Il grande etnomusicologo Gilbert Rouget (fig.1), in un saggio del 1968 osserva che:

“ (…) non c’è funerale, guarigione, sacrificio offerta agli antenati, albero abbattuto per motivi rituali,
perforazione di pozzo, nascita, dichiarazione di guerra, combattimento, raccolta, seminagione, lavoro
collettivo, rito di passaggio, consacrazione di un capo o di un sacerdote, che non sia un’occasione di
musica, o piuttosto che non richieda il concorso indispensabile di un’azione musicale”.

La musica è onnipresente nella vita dell’uomo e in molti


luoghi lontani dai grandi centri della cultura occidentali,
essa continua a svolgere un ruolo essenziale nella
formazione e nell’attività lavorativa e rituale di intere
popolazioni.
Ecco l’elenco di alcune funzioni (o finalità) dell’attività
musicale proposto, nel 1964, da un altro importante
studioso delle tradizioni musicali extra-europee, Alan P.
Merriam (fig.2) nel suo saggio “Antropologia della Fig.1: Gilbert Rouget (Parigi, 1916)

musica”:

1. l’espressione delle emozioni individuali o collettive;


2. il godimento estetico (presente in tutte le società con un’unica riserva su quelle
primitive);
3. l’intrattenimento (puro o legato ad altre funzioni, il secondo prevalente nelle società
primitive);
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4. la comunicazione di messaggi e informazioni (in un linguaggio non universale, bensì
inquadrato in una data cultura);
5. la rappresentazione simbolica di idee e significati;
6. la risposta fisica (stimolo delle reazioni corporee e comportamentali);
7. il potenziamento del conformismo e del rispetto delle norme sociali (controllo sociale, tipico
dei riti iniziatici e dei canti di protesta);
8. il supporto delle istituzioni sociali e dei riti religiosi
(attraverso il rafforzamento dei precetti e delle norme
di comportamento);
9. il contributo alla continuità e alla stabilità della cultura
(trasmissione di storie, miti, leggende ed espressione di
valori);
10. il contributo all'integrazione sociale (attraverso la
condivisione di valori e la cooperazione nelle attività Fig.2: Alan Parkhurst Merriam
(Missoula, 1923 – Varsavia, 1980)
musicali).

Ma, l’etnomusicologo italiano Francesco Giannattasio, nel suo libro “Il concetto di
musica”, propone di articolare queste funzioni in tre ordini più generali:

a) le funzioni di espressione delle emozioni, di godimento estetico, di comunicazione


e di rappresentazione simbolica sono convogliate in una generale funzione espressiva;
b) le funzioni di intrattenimento, di potenziamento del conformismo e del rispetto
delle norme, di supporto delle istituzioni e dei riti e di contributo all'integrazione
sociale sono raggruppate in quella di organizzazione e supporto delle attività sociali;
c) la funzione di risposta fisica è specificata in una funzione di induzione e coordinamento
delle reazioni sensorio-motorie.

L’esperienza musicale mostra significativi punti di contatto con le pratiche sociali e,


spesso, non può essere tematizzata senza riferimento a esse. In questa più ampia
prospettiva la musica scandisce di norma il tempo di comunità più o meno ampie e si
integra negli aspetti dell'esistenza più legati a forme di vita associata. Il suono
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musicalmente organizzato rappresenta un momento degli eventi, ordinari e
straordinari, che coinvolgono gli individui nella realtà collettiva. Sia lo studio delle
culture etniche, sia gli indirizzi della ricerca storica non influenzati dai filtri estetici
della nostra tradizione documentano un'ampia integrazione della musica nel sociale, e
solo in ambiti assai circoscritti per estensione e cronologia individuano pratiche
artistiche prive di rapporti significativi con tale dimensione.
Il grado di integrazione della musica negli eventi sociali cui si accompagna non è
peraltro costante. In alcune situazioni (musica funebre, nuziale, conviviale, liturgica,
ecc.) il significato fondamentale del momento di vita associata è segnato dalla
circostanza che lo origina, e la pratica musicale non rappresenta essa stessa il movente
intorno al quale si organizza l’evento; la musicologia ha coniato l’espressione “musica
funzionale” per designare la stretta subordinazione del canto o dell’esecuzione
strumentale a determinate occasioni di rilevanza non musicale. In altre situazioni la
specificità della circostanza ha un’impronta meno netta: in questi casi si riscontrano
pratiche sociali con un carattere specificamente “musicale” in quanto finalizzate
primariamente alla produzione o alla riproduzione di suoni.
Incontro e partecipazione caratterizzano anche le forme di spettacolarizzazione
pubblica della musica: la vita concertistica e il teatro hanno costituito importanti
luoghi di aggregazione sociale, anche a prescindere dalle ideologie, e talvolta dalle fedi
politiche di cui sono stati veicolo. Certo, divenendo “spettacolo”, vale a dire evento
sonoro che si consuma di fronte a un pubblico, la musica vede mutare il rapporto con
le comunità che la coltivano. La partecipazione tende a configurarsi come
un’appropriazione dell’opera da parte di individui i cui vissuti si qualificano
variamente sotto il profilo psicologico ed estetico, ma non presentano più palesi
riferimenti alla vita associata. La semplice condivisione del luogo e del tempo dello
“spettacolo” rende solo formale e momentanea l’appartenenza a un gruppo; inoltre la
tipica distanza estetica che nella “rappresentazione” separa l’ascoltatore dal brano
comporta l’attenuarsi del senso di identificazione e di appartenenza che si realizza in
altre pratiche musicali.

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Si deve a Heinrich Besseler (fig.3) la distinzione tra musica-relazione, categoria che
rinvia a un rapporto attivo con la musica nell'ambito di un contesto di rapporti
interpersonali, e musica-rappresentazione, la cui
esperienza si realizza, appunto, nella condizione
passiva dell'ascolto di un evento sonoro che
prende forma “di fronte” al soggetto.
La musica correlata a quest’ultimo tipo di
appropriazione viene abitualmente qualificata
come forma di “arte autonoma” e non c’è
dubbio che tale condizione sia avvertita in primo Fig.3: Heinrich Besseler
luogo come emancipazione dai vincoli (Hörde, 1900- Lipsia, 1969)

“funzionali” che la legano a pratiche sociali. Ma, è anche indubbio, che un’autonomia
così definita non costituisce un carattere della musica stessa né è assicurata in
permanenza dalle intenzioni di autori che abbiano inteso produrre, appunto, “opere
autonome”. Si tratta piuttosto di un carattere acquisito o attribuito nel contesto
fruitivo che si origina alla convergenza tra nascita di un libero professionismo
musicale e creazione di strutture stabili aperte al pubblico pagante.
La distinzione tra musica “funzionale” e “autonoma” non è interpretabile come
una rigida coppia oppositiva anche per il fatto che i confini tra i due ambiti sono
incerti e non impermeabili. In molti casi prodotti in origine “funzionali” (si pensi alle
cantate sacre del XVIII secolo, concepite in vista di precise occasioni cerimoniali)
divengono musica “da concerto”. All’inverso, è possibile che brani di musica
“autonoma” si carichino di un ruolo eteronomo (per esempio nelle tecniche pubblicitarie,
o nelle strategie di persuasione e di controllo sociale per mezzo dei mass media).
Anche nell’ambito delle forme più trasparenti di musica “funzionale” (come la musica
liturgica) non tutti gli aspetti dell’organizzazione sonora sono direttamente riferibili al
contesto e alle finalità perseguite: alcuni elementi linguistici acquistano riferimento alla
situazione non per la conformazione del costrutto sonoro alle esigenze dell’evento,
ma per un semplice legame associativo: lo stesso legame che talvolta può rendere
“funzionale” (per esempio nell’impiego a fini di propaganda politica) un brano di
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musica “autonoma”. Considerati i parametri forniti da Besseler invece, la sociologia
di indirizzo empirico, legata ai nomi di W. Serauky, A. Silbermann, K. Blaukopf,
P. Béaud, E. Helm, e di altri studiosi soprattutto di formazione anglosassone,
prescindendo da categorie storico-critiche già precostituite, tende a valutare il
significato sociale della musica non nel momento della sua produzione ma della sua
ricezione e del suo consumo, a partire dalla sua incidenza (in quanto fenomeno di
comunicazione e di mercato) sulla realtà collettiva. Suoi tipici strumenti di ricerca
sono, pertanto, quelli statistici e quantitativi dell’indagine demoscopica e di mercato,
dei test psico-acustici, sui modi di fruizione, sul comportamento dei consumatori,
nonché sulle tendenze economiche dell’industria musicale.
Ulteriore definizione di musica funzionale la troviamo in quei dibattiti che tendono a
classificare le varie categorie di musica (fig.4). Ad esempio, con il termine di musica
popolare, alla quale ci si riferisce anche con il termine inglese “popular music”, si
intende la musica prodotta dagli strati subalterni di una nazione o di una regione, di
cui esprime i carattere peculiari, i sentimenti e la cultura attraverso la scrittura ritmica e
melodica. Può essere accompagnata dal canto o essere unicamente strumentale, ma in
ogni caso è legata ad una occasione o una funzione che la integra nella vita della
comunità: una musica di tipo popolare non può essere svincolata dall'occasione e dal
luogo dell'esecuzione ed è per questo che, in questi casi, si dice “funzionale”. Essa non
ha più valore di per sé, ma è importante soprattutto per i partecipanti allo svolgimento
di un avvenimento o un'attività collettiva. La sua natura spontanea esclude la rilevanza
di autori individuali: è espressione artigiana e anonima, il cui stile non risulta legato alla
personalità di un singolo compositore, ma alle caratteristiche e alle esigenze generali
del tempo e del luogo ove prende vita o attraverso cui si tramanda. Questa
definizione presuppone, però, l’esistenza, in una data nazione o regione, di varie
componenti stratificate di popolazione, tali da rendere rilevante la distinzione tra ceti
popolari e classi dominanti e, quindi, tra gli aspetti delle rispettive culture.
Tuttavia, il concetto di musica popolare, che riflette il punto di vista occidentale nei
confronti delle culture diverse, indica tutto ciò che non rientra nell'ambito della
musica classica e tale distinzione si basa prevalentemente su differenze di tre tipi: tra
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oralità e scrittura; tra i differenti contesti di ascolto e di produzione; tra creazione ed
esecuzione. Parliamo di musica scritta con il linguaggio del popolo e pensata per il
popolo, includendo comunemente, ma impropriamente, anche la cosiddetta musica
folklorica, ossia quella musica proveniente dal popolo generalmente non scritta, di
tradizione prettamente orale e suonata da tempi remoti. Questi concetti devono a loro
volta essere distinti da quello di musica pop: sebbene il termine “pop” sia
l'abbreviazione di popular, musica pop indica più specificatamente la musica leggera
contemporanea occidentale, genere il cui legame con la musica tradizionale non è di
norma molto stretto, anche se continuamente soggetto a contaminatio.
L’espressione musica etnica identifica, invece, tutti quei generi di musica che si
collocano al di fuori gli schemi “standard” della pop music o della musica classica
occidentali utilizzando qualche tipo di componente etnico, cioè esplicitamente
riconducibile a una determinata etnia, popolazione o cultura.

Fig.4: Schema riassuntivo della classificazione della musica.

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3. PRATICHE, CULTURE MUSICALI E SOCIETÁ.

«Nella musica domina la più profonda intimità ed anima insieme al più rigoroso
intelletto, dimodoché essa unifica in sé due estremi che facilmente si rendono autonomi
l’uno rispetto all’altro. La musica racchiude in sé, fra tutte le arti, la possibilità maggiore
di liberarsi dall’espressione di un qualsiasi contenuto determinato, per accontentarsi di un
susseguirsi in sé concluso di combinazioni, mutamenti, opposizioni e mediazioni che
rientrano nel campo puramente strumentale dei suoni.»
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), da “Estetica“ ( 1836-38).

Gli studi di antropologia consentono di affermare che nessuna convivenza umana


ignorò la musica. Quanto, viceversa, essa fosse importante, lo si deduce dallo studio
delle mitologie, de riti, delle filosofie dei diversi popoli. La musica, quindi, è stata
presente in tutte quelle civiltà che hanno percepito la sua capacità di agire sulle
emozioni e sui sentimenti: poco per volta, infatti, essa è diventata un importante ed
indispensabile mezzo di espressione e di comunicazione. L’esperienza musicale,
infatti, mostra significativi punti di contatto con le pratiche sociali e, spesso, non può
essere tematizzata senza riferimento a esse. In questa più ampia prospettiva la musica
scandisce di norma il tempo di comunità più o meno ampie e si integra negli aspetti
dell’esistenza più legati a forme di vita associata. Sia lo studio delle culture etniche, sia
gli indirizzi della ricerca storica non influenzati dai filtri estetici della nostra tradizione,
documentano un’ampia integrazione della musica nel sociale e solo in ambiti assai
circoscritti per estensione e cronologia individuano pratiche artistiche prive di rapporti
significativi con tale dimensione. Tuttavia, della musica “antica” non abbiamo alcuna
testimonianza scritta, poiché una scrittura musicale simile a quella di oggi fu inventata
solo nel Medioevo.
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La musica nell’antichità.
I cantori, i sacerdoti, traevano la loro natura di esseri
superiori dal fatto che conoscevano le leggi arcane della
materia sonora, che sapevano pronunciare le parole, le
formule, le voci, i canti magici. I popoli primitivi pongono al
vertice della struttura sociale (tribù o altro) chi ha l’autorità
di pronunciare le formule rituali, nelle quali il suono prevale sulla parola. Sono queste
formule, questi canti, mescolanze di “linguaggio-suono” che regolano i rapporti
sociali primari all’interno delle comunità tribali, e che si manifestano attraverso i canti
rituali della nascita, della circoncisione, delle nozze, i riti funerari, di guarigione e quelli
legati alle mutazioni delle stagioni. Ma, in un campo di pensiero più elevato, si
pongono le speculazioni filosofiche (India, Cina) che collocano il suono al centro di
un sistema cosmogonico, che coinvolge fatti ed eventi di svariata natura: il ritorno
delle stagioni, i punti cardinali, i fenomeni naturali, i segni dello zodiaco, le
classificazioni degli strumenti ecc..

Gli Egizi e i popoli della Mesopotamia.

Molti dipinti, affreschi, graffiti e bassorilievi ci forniscono una testimonianza


dell’attività musicale presso gli Egizi (civiltà che fiorì tra il 3000 e il 1075 a.C.). La
musica doveva avere un ruolo importante nella vita di questo popolo, tanto da trovare
spazio anche in guerra dove veniva utilizzata per incitare i soldati al combattimento.
L’arpa (di diverse forme e un numero variabile di corde), i tamburi, i liuti e i flauti di
varie dimensioni erano gli strumenti più usati.
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Anche presso i popoli della Mesopotamia (regione del Medio Oriente abitata tra il
4500 e il 1100 a.C., da Assiri, Babilonesi e Sumeri) la musica aveva certamente una
grande importanza nelle cerimonie e in guerra, com’è testimoniato dalle preziose
raffigurazioni sui bassorilievi dell’epoca.

Gli Ebrei.
Non abbiamo invece nessuna immagine degli strumenti musicali conosciuti dagli
antichi Ebrei, che abitarono la Palestina fra il 2000 a.C. e il 70 d.C.. Tuttavia, la
Bibbia, il loro libro sacro, descrive situazioni in cui la musica è protagonista: le mura
di Gerico furono abbattute dagli squilli delle trombe delle milizie d’Israele, il suono
dell’arpa di Davide placava la follia del re Saul. Sempre la Bibbia ci documenta
l’impiego di strumenti quali flauti, trombe e cimbali (specie di piatti di metallo
percossi l’uno contro l’altro).

I Greci.
Testimonianze maggiori sull’importanza della musica ci sono giunte dalla civiltà
greca: alla teoria musicale si interessarono, oltre
ai musicisti, anche i filosofi, i poeti e i
matematici. Inoltre, la scrittura musicale dei
Greci, basata non sulle note ma sulle lettere
dell’alfabeto, è la più antica a noi pervenuta.
La parola “musiché” (da cui deriva “musica”)
indicava un insieme di danza, poesia e musica.
La fusione di musica e poesia è, poi, testimoniata
dai due poemi omerici Iliade e Odissea, in cui si descrive come i canori si
accompagnassero con uno strumento a corde chiamato lira. Ma, oltre alla lira e alla
cetra, i Greci utilizzavano anche le arpe e i flauti.
Inoltre, nella concezione greca, la musica influisce, sia in senso positivo che
negativo, sul comportamento morale degli uomini e dei loro costumi: questa
dottrina prese il nome di “ethos” e indicava le relazioni esistenti tra alcuni aspetti del
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linguaggio musicale e determinati stati d’animo. Ebbe la prima elaborazione
nell’ambito della scuola pitagorica, ma venne sviluppata solo a partire dal V secolo.

Il Medioevo.

Durante il Medioevo nei monasteri, nelle chiese e nelle cattedrali, monaci e fedeli
innalzano canti sacri il cui scopo principale è la preghiera; anche nei castelli si
ascolta musica, per il diletto dei nobili, che consumano una vita raffinata e ispirata agli
ideali di cavalleria: il tema dell’amore è il preferito da poeti e compositori, che
scrivono canzoni in lingua volgare, in cui si esaltano soprattutto la bellezza e le virtù
femminili. Nelle strade e nelle piazze delle città, invece, i giullari suonano e cantano
musiche più semplici, molto ritmate e adatte alla danza: la musica, condizionata dalle
esigenze del periodo, diviene strettamente funzionale e legata all’intrattenimento.
Gli strumenti più utilizzati sono la viella, la ghironda, la ribeca, il salterio, l’arpa, i
flauti, un oboe rudimentale e diversi strumenti a percussione mentre, in chiesa,
l’unico strumento ammesso è l’organo.

Il Rinascimento.
In questo periodo la musica è considerata molto importante per l’educazione e il
saperla apprezzare ed eseguire fa parte delle virtù di un buon cortigiano. Nelle
basiliche e nelle corti più importanti si costituiscono delle istituzioni stabili di
musicisti: le cappelle musicali, formate inizialmente solo da cantori ed, in seguito,
anche da strumentisti.

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Tra tutti gli strumenti musicali quello più amato è il liuto,
particolarmente adatto alla musica per piccoli ambienti ed
in grado di eseguire brani polifonici; fra gli altri strumenti
a corde ricordiamo la chitarra (all’epoca a quattro corde)
e la viola (da braccio e da gamba); tra gli strumenti a fiato
emergono, invece, il cromorno e la bombarda; gli
strumenti a percussione sono utilizzati soprattutto nella
musica per la danza. Inoltre, nel rinascimento, nasce la
stampa musicale che permette una maggiore diffusione
dei brani.

Il Barocco.
In questo periodo si suona nelle corti, dove la musica è momento di
intrattenimento, ma anche parte del cerimoniale quotidiano, nei teatri d’opera,
dove si rappresentano i melodrammi, nelle accademie e nelle chiese. Gli strumenti
musicali vengono perfezionati e iniziano a formarsi le orchestre stabili. Nasce, per
mano dei liutai, il violino, vero principe della musica barocca e il clavicembalo,
invece, raggiunge il massimo splendore. Nelle
arti si afferma il gusto per la
spettacolarizzazione e la teatralità: anche la
musica è coinvolta in questa tendenza e
diventa, essa stessa, spettacolo e acquisisce
grandiosità e imponenza. L’arte barocca è,
comunque, basata su forti contrasti che nella
musica si realizzano attraverso improvvise variazioni d’intensità e l’alternanza di
brani lenti ad altri veloci. L’arte, oltre a stupire deve commuovere: i musicisti
abbandonano la polifonia per uno stile più semplice e basato su una sola melodia, ma
capace di evocare forti sensazioni. Gli indiscussi protagonisti musicali di quest’epoca
sono, indubbiamente: Georg F. Hendel (1685-1759), che con la sua musica grandiosa
rispecchia in pieno i caratteri del barocco e che dedica il suo tempo soprattutto alla
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composizione di melodrammi e oratori; Antonio Vivaldi (1678-1741), famoso
soprattutto per la sua musica strumentale ricca di effetti timbrici e di vivacità ritmica;
Johann Sebastian Bach (1685-1750), che possiede una produzione musicale
vastissima e caratterizzata da uno stile molto sobrio e lontano da quello imperante
della sua epoca e che ha scritto importanti e famose composizioni didattiche.

Il Classicismo.
È questo il periodo in cui la musica piace orecchiabile, senza abbellimenti, con un
ritmo regolare e melodie articolate in frasi brevi. Il pubblico apprezza i brani
semplici da capire e suonare ed, in generale, si dà maggiore importanza
all’espressione dei sentimenti e delle emozioni. Nell’arte si manifesta un forte
interesse per i mondi lontani e perciò le orchestre accolgono anche strumenti di
origine turca, quali la grancassa, i
piatti, il triangolo e l’ottavino
mentre, nell’ambito della musica da
camera, hanno successo il quartetto
d’archi e il pianoforte. L’orchestra si
arricchisce di nuovi strumenti: corni,
clarinetti, flauti traversi e timpani. I
musicisti protagonisti sono: Franz
Joseph Haydn (1721-1809), amato e stimato è un riferimento per i compositori del
suo tempo, oltre ad essere fondamentale il suo contributo per l’affermazione di molti
generi, quali la sinfonia, la sonata ed il quartetto; Wolfgang Amadeus Mozart (1756-
1791), bambino prodigio trascorre l’infanzia a esibirsi presso le maggiori corti europee
e la sua musica si può considerare come una perfetta sintesi di tutti gli stili: grande in
tutti i generi, la sua produzione musicale è vastissima; Ludwing van Beethoven
(1770-18278), partecipa alla vita sociale interessandosi ai problemi del suo tempo, la
sua musica è al tempo stesso energica e delicata. Compone opere di ogni genere, ma è
alla sinfonia che il suo nome resta legato.

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Il Romanticismo.
Nell’Ottocento la musica è seguita da un pubblico sempre più numeroso per il quale
si costruiscono grandi teatri e sale da concerti. In Italia ha grande importanza il teatro
d’opera. La musica vive anche una dimensione più intima e raccolta nei salotti
delle famiglie borghesi; aumenta il numero dei dilettanti e l’editoria musicale ha
grande incremento; si diffonde il gusto per il ballo: il valzer è la danza più alla moda.
L’industria musicale diventa pubblica. Gli artisti apprezzano nelle loro opere la
varietà delle emozioni umane: dalle passioni più intense ai sentimenti più lievi, la
creazione musicale è sempre più legata all’interiorità dell’uomo, libera e spontanea.
Grande spazio hanno la fantasia e l’immaginazione degli artisti; poiché i musicisti,
come gli altri artisti romantici, sono affascinati dal mistero e dall’oscurità, si afferma la
forma breve del notturno. I romantici esaltano non solo la soggettività dell’individuo,
ma anche le identità e riscoprono le loro tradizioni. Cresce, dunque, l’interesse per il
canto popolare e si formano le scuole nazionali, mentre nuovi paesi si affacciano
all’orizzonte della musica europea. Nasce
l’interesse per la storia, in particolare per il
Medioevo. Si riscoprono e si studiano le
opere dei musicisti del passato. Anche la
natura è grande ispiratrice degli artisti: i
musicisti dedicano agli ambienti naturali
molte composizioni, evocando le sensazioni
e i sentimenti ora inquietanti ora rassicuranti
che suscitano nell’animo umano.
Giuseppe Verdi (1813-1901), domina le
scene musicali del Romanticismo: le aspirazioni di libertà e indipendenza del popolo
italiano lo coinvolgono e trovano eco nelle sue opere tanto da diventare il musicista
simbolo del Risorgimento. La sua musica potente e drammatica è in grado di
suscitare forti emozioni. Egli è, in quel momento, il musicista più amato ed eseguito
nei teatri italiani ed europei perché le sue opere sono ricche di sorprese e colpi di
scena che affascinano incredibilmente gli spettatori.
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La musica contemporanea.
Nel Novecento il panorama musicale cambia in modo radicale, grazie alle
innovazioni tecniche e alla nascita dei mezzi di comunicazione. La registrazione
del suono determina una rivoluzione nel modo di ascoltare la musica: le persone
possono fruire a casa propria della musica preferita e, dall’avvento del grammofono,
il disco ha un immenso successo mentre,
con la registrazione digitale, nasce il lettore
cd. La radio e poi la televisione
determinano l’avvicinamento di grandi masse
di popolazione alla musica ma,
parallelamente, entra in crisi il modello
tradizionale di orchestra. L’interesse per il
ritmo determina la nascita di nuovi strumenti
a percussione, mentre gli strumenti tradizionali vengono modificati, ne compaiono di
nuovi (come sassofono e chitarra elettrica) e i sistemi elettronici acquistano una
funzione rilevante. Vengono abbandonate le regole tradizionali alla ricerca di soluzioni
nuove, in una continua sperimentazione inoltre, il linguaggio romantico entra in crisi
e le avanguardie storiche aprono nuove strade all’arte. Facendo proprie le tendenze
dell’ Impressionismo e del Simbolismo, i musicisti portano l’attenzione sul timbro e
prediligono sonorità sfumate e sospese. Sull’onda del rinnovato interesse della
scienza per l’etnologia, nasce in musica il Primitivismo, che si distingue per una
dinamica molto nervosa, per ritmi più complessi e per un maggior vigore ed energia;
la riscoperta del folclore, invece, porta alcuni compositori a usare nelle loro opere
scale e ritmi della tradizione popolare. Gli artisti che si richiamano al Cubismo,
mirano invece a rappresentare l’oggetto in tutti i suoi aspetti in una simultaneità di
visione; parallelamente in musica nasce la tecnica della politonalità e della poliritmia.
Il movimento artistico del Futurismo, che esalta il progresso e la civiltà industriale,
induce alcuni musicisti a inserire rumori ed effetti rumoristici nelle loro opere. Il
Dadaismo, invece, critica violentemente la società borghese e l’opera d’arte

17
tradizionale: i compositori recuperano sonorità di oggetti di uso quotidiano impiegati
con ironia e per provocazione.
Accanto alle avanguardie, nel periodo fra le due guerre, si sviluppa il movimento
detto Neoclassicismo, che, recuperando stili e forme del passato, adotta un
linguaggio più semplice e comprensibile.
Viceversa, movimenti artistici come
l’Espressionismo e l’Astrattismo rifiutano
forme figurative tradizionali: in musica questa
tendenza si manifesta nell’abbandono della
tonalità sostituita dall’atonalità e dalla
dodecafonia.
Negli anni successivi alla Seconda Guerra
Mondiale, la sperimentazione di forme e
soluzioni nuove continua e si accentua, infatti
nascono nuove forme artistiche che si basano
sull’improvvisazione: il jazz è l’esempio di questa nuova tecnica, che permette ai
musicisti di eseguire la melodia del brano secondo la propria sensibilità, cambiando a
piacere note e ritmo secondo l’ispirazione del momento. Alcuni compositori
utilizzano, invece, la tecnica aleatoria e creano opere indeterminate.
L’interesse per forme semplici ed essenziali porta alla nascita del Minimalismo, che
in musica è caratterizzato dalla ripetizione continua di poche note e da una lenta e
incessante variazione.
Una vera e propria rivoluzione in ambito
musicale è determinata dalla comparsa degli
strumenti elettronici, che determina la
nascita della musica elettronica.
Negli ultimi anni, l’incontro fra le diverse
culture favorisce l’interesse della musica per
le contaminazioni tra stili e generi diversi.

18
4. LO STUDIO DELLA MUSICA COME FENOMENO
SOCIALE: DA SIMMEL A BOURDIEU.

«La musica non è mai sola», diceva il compositore Luciano Berio.

Essa nasce e si articola in molteplici forme e con diverse funzioni ovunque esiste vita
e comunicazione umana. Perché la musica, anche quando non trasmette un messaggio
specifico e traducibile in parole, è una forma di comunicazione, che riflette e
interagisce con il contesto sociale nel quale è generata e agita.
Alla polisemia del termine “musica” corrisponde un’analoga pluralità di funzioni che
variano da una cultura all’altra e si mutano in seno a culture la cui evoluzione è
segnata dall’idea di progresso. Il sapere e la prassi musicale in occidente si sono
istituzionalizzati nel corso dei secoli in un sistema di istruzione, documentazione e
diffusione, basato sul concetto di musica come arte e scienza e regolato sempre più
marcatamente da criteri di mercato. Questa rete, con le sue diramazioni di “musica
seria” (o “classica” come di solito la si denota con una sineddoche che attribuisce a
tutta la musica colta occidentale la nozione di classicismo legata allo stile musicale
della seconda metà del Settecento), “musica leggera” e altre, ha assimilato nel corso
della sua evoluzione molteplici idiomi di musica popolare che, nel processo di
modernizzazione e di acculturazione delle masse, ha perso la propria funzione
originaria di accompagnamento delle attività quotidiane degli individui e delle
comunità. La globalizzazione socio-economica e le tendenze transculturali in atto da
alcuni decenni hanno reso i prodotti della musica occidentale fruibili ovunque nel
mondo mettendo in crisi la funzione e a rischio la sopravvivenza di culture musicali di
millenaria tradizione e, proprio per questo da svariati sociologi e musicologi, è stata
posta in primo piano la complessa questione di identità culturale e il ruolo della
musica nella sua definizione.
Fra questi spiccano i nomi di Georg Simmel, Max Weber, Alfred Schutz, Theodor
Adorno e Pierre Bourdieu.

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George Simmel (1858 – 1918).
Non è raro, quando si parla di Georg Simmel, di fare automaticamente riferimento
alla “sociologia formale” cioè a quella sociologia che ricerca le “forme dei rapporti sociali
che rimangono invariate nonostante i loro contenuti storici sempre diversi”. Egli risentì
dell’influenza della “psicologia dei popoli” la quale sosteneva la necessità del
superamento della psicologia individuale in quanto
l’uomo va compreso come essere sociale: gli individui
con la loro attività comune creano la realtà oggettiva
delle forme culturali ma sono pure il prodotto di tali
forme.
“La differenziazione sociale” (1890) è un’opera di
transizione. Egli dedica il primo volume a questioni di
ordine metodologico: secondo Simmel, la sociologia
elabora risultati già raggiunti da altre scienze quali la
storiografia, l’antropologia, la statistica e la psicologia. Essa interpreta dati già
interpretati dalle altre scienze perché nessuna scienza si rifà a fatti oggettivi non
previamente interpretati. La sociologia non può giungere alla formulazione di leggi
sociologiche generali perché l’uomo è un essere complesso, risultato di forze
eterogenee. Sugli individui e sulle loro scelte agisce una pluralità di forze tale che ogni
spiegazione la quale metta in luce questa o quella forza risulterà necessariamente
unilaterale e parziale: la totalità non può essere colta. Poi, Simmel, passa ad affrontare
il problema della realtà sociale, che non è intesa come realtà autonoma rispetto agli
individui, né come somma di individui. Egli intende l’unità della società come
interazione tra le sue parti e tuttavia l’interazione porta alla formazione di entità
oggettive che hanno una loro autonomia rispetto ai singoli.
Simmel, chiedendosi “com’è possibile la società?” cerca di individuare le categorie
conoscitive proprie della sociologia cioè cerca di individuare i fondamenti sulla base
dei quali sia possibile una sociologia come disciplina indipendente, che non si
identifichi con quanto hanno già fatto le altre scienze sociali. Per Simmel la sociologia

20
è un metodo, un “punto di vista”, un modo particolare di guardare alla realtà umana la
quale può essere analizzata da una pluralità di punti di vista. Secondo Simmel la
sociologia deve studiare le forme di interazione tra individui, cioè le forme elementari
che sono a fondamento della vita sociale, senza le quali le realtà macroscopiche non
potrebbero esistere. L’unità della società è la conseguenza della relazione reciproca
degli individui che la costituiscono. Sulla base di questa affermazione, Simmel passa a
considerare gli “a priori della sociologia” cioè le categorie senza le quali nessuna
società potrebbe esistere. Infatti una società può esistere soltanto come insieme di
elementi differenziati, ognuno dei quali occupa una posizione particolare che in una
situazione sociale perfetta non potrebbe essere altra da quella che è.

Max Weber (1864 – 1920).


Karl Emil Maximilian Weber è uno dei principali sociologi del XX secolo. Per lui la
sociologia è una scienza che studia e interpreta l’agire sociale individuando le
condizioni e i fattori che ne sono causa. L’oggetto della conoscenza sociologica è
l’agire dotato di senso e cioè quelle azioni determinate da interessi e valori a cui gli
individui attribuiscono uno specifico significato
soggettivo. Inoltre è da considerarsi sociale
quell’agire che si riferisce ed è orientato alle
azioni di altri individui. Weber introduce il
concetto di tipo ideale che può essere considerato
lo strumento conoscitivo per individuare
tipologie di fenomeni e per operare delle
generalizzazioni. I tipi ideali non sono delle
rappresentazioni della realtà. Si tratta di modelli
di riferimento a cui è necessario comparare la
realtà sociale osservata per poterla poi
interpretare. La sociologia per essere considerata una scienza deve tendere
all’avalutatività quindi essere libera da giudizi di valore sui fenomeni che studia.
L’etnomusicologia rappresenta anche la base dello studio “Die rationalen und
21
soziologischen Grundlagen der Musik” di Weber: il saggio, scritto intorno al 1910,
rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1921, rappresenta uno dei più
impegnativi tentativi di costruire un'interpretazione scientifica della musica sul
fondamento di categorie sociologiche. La cornice teorica è decisamente lontana dalle
concezioni del positivismo, ma i materiali sono attinti a piene mani dalla 'scuola
berlinese' di musicologia comparata. Lo studio rappresenta uno dei contributi più
profondi all'analisi del significato sociale della musica: Weber si propone di illustrare
come si sia pervenuti alla “razionalizzazione” del materiale sonoro in epoca moderna
e nel mondo occidentale e di individuare la specificità di questo modello rispetto a
innumerevoli altri tentativi sviluppati in epoche e civiltà diverse.
Il quesito fondamentale che il saggio pone è infatti:
“Perché proprio in un punto della terra, dalla musica a più voci, comunque abbastanza ampiamente
diffusa, siano nate tanto la musica polifonica quanto quella armonico-omofonica, al contrario di ciò
che è avvenuto in altre aree in cui la civiltà musicale ha avuto uno sviluppo almeno altrettanto intenso,
come in particolare l'antica Grecia, ma anche, ad esempio, il Giappone?”.
L’esteso lavoro comparativo condotto da Weber sui materiali musicali, sviluppato
attraverso l'analisi delle scale arabe e persiane, cinesi e del Sudest asiatico, del sistema
pentatonico, della suddivisione dell'ottava praticata da varie etnie primitive, del
sistema tonale greco dell'epoca classica, ecc., conduce infatti a individuare nella
moderna musica armonica un unicum interpretabile solo sulla base della particolare
conformazione e delle particolari attitudini del razionalismo occidentale; la trattazione
culmina nell’analisi delle implicazioni del temperamento equabile, palesemente
riconducibili a quel fondamentale modello di agire sociale che più tardi sarà definito
“Zweckrationalität”, atteggiamento razionale rispetto allo scopo.
Gli interessi musicali di Weber trovano riscontro in numerosi altri scritti, anche di
interesse metodologico, tra questi si segnala il saggio del 1917 sull’ “avalutatività”,
ove la storia della musica è indicata quale campo in cui il “progresso” va interpretato
in senso tecnico, senza riferimento a valori estetici.

22
Alfred Schutz (1899 – 1959).
Alfred Schutz ha subito notevoli influenze tanto dagli ambienti filosofici e
sociologici che egli aveva avuto modo di frequentare a Vienna, quanto del
pragmatismo, dell’ interazionismo simbolico e, in generale, del diverso taglio proprio
della sociologia nordamericana che aveva avuto modo di conoscere dopo aver
abbandonato l’Austria in seguito alle persecuzioni naziste. Schutz sostiene che nella
conoscenza, in termini di senso comune, noi diamo per scontato che esistono oggetti
e fatti singoli, isolati, indipendenti da ogni elaborazione soggettiva. Tutto ciò è
inesatto perchè per cogliere un fatto, è necessario
una selezione tra un’infinità di altri fatti: “tutti i fatti
sono fin dall’inizio selezionati da un contesto universale
dalle attività della nostra mente. Noi non cogliamo la realtà
nella sua totalità ma cogliamo, di volta in volta, solo certi
aspetti di essa”. Notiamo la perfetta coincidenza tra
queste idee e quelle di Weber, cui Schutz si riporta
moltissimo: questa necessità di selezionare per
conoscere, messa in luce da entrambi gli autori, è momento necessario di ogni forma
di conoscenza, compresa quella scientifica. E Schutz afferma che la conoscenza
scientifica si rifà alla conoscenza nella vita quotidiana e la presuppone.
Il mondo della vita quotidiana cui lo scienziato sociale deve far riferimento è una
realtà già costruita dai soggetti che la vivono, essi hanno preselezionato e
preinterpretato tale mondo attraverso una serie di costrutti in termini di senso
comune della realtà della vita quotidiana e sono tali oggetti di pensiero ad aiutarli a
trovare le loro posizioni all’interno del loro ambiente naturale e socio-culturale e a
giungere a patti con esso. Di conseguenza, i costrutti delle scienze sociali sono
costrutti di secondo grado o “costrutti di costrutti”. Schutz cerca di spiegare come si
sviluppa la conoscenza in termini di senso comune, così come ha luogo nella vita
quotidiana. L’individuo dalla nascita si trova inserito in un mondo intersoggettivo, già
organizzato, dotato di significati prestabiliti che definiscono e limitano la realtà, che
precostituiscono le nostre esperienze fornendoci un insieme di conoscenze a
23
disposizione le quali ci servono di orientamento nell’azione. Questa è la struttura
significativa della vita quotidiana. Noi viviamo in un mondo ordinato di oggetti
definiti e di persone che risultano percepibili solo sulla base di precedenti elaborazioni
concettuali, formazioni di categorie tipiche, “tipificazioni” o “tipizzazioni”: viviamo
in un mondo di oggetti tipificati e solo sulla base di queste tipificazioni è possibile la
nostra esperienza degli oggetti e delle persone sia nella loro tipicità, sia nella loro
unicità, che può esistere solamente in relazione con la tipicità. Queste tipificazioni
sono di origine sociale, ci sono state tramandate e la tipificazione fondamentale, quella
che rende possibili le altre, è ovviamente il linguaggio.
Dunque, l’atteggiamento naturale che ci appare come realtà oggettiva, risulta invece
essere una struttura significativa, un insieme di significati correlati e tipificati.

Theodor Adorno (1903 – 1969).


L’idea che nella musica trovino espressioni le tensioni e le crisi della società
contemporanea costituisce il motivo di fondo della musicologia e sociologia filosofica
di Theodor Wiesengrund Adorno, in
cui concorrono elementi del pensiero
marxista, dello hegelismo di sinistra e
della filosofia “negativa”. L’aspetto
critico e teorico prevale nettamente negli
scritti di Adorno, che hanno
profondamente segnato, con le loro
raffinate analisi ma anche con le loro
idiosincrasie, la cultura musicale degli anni sessanta e dei primi anni settanta. Il
contributo adorniano all’elaborazione di un modello di interpretazione “sociologica”
della musica riguarda anzitutto la definizione dell’obiettivo.
Tale interpretazione dovrà volgersi direttamente all’opera ed enuclearne, o meglio
decifrarne, il significato sociale, posto che questo si presenta non in dati esteriori
(come la destinazione o la funzione di un brano) ma nella struttura stessa, essendosi
tradotto in termini “intramusicali”. La non facile impresa di conciliare l’autonomia
24
estetica dell’opera con il suo carattere sociale suggerisce ad Adorno un’immagine
metafisica: quella della monade, entità autonoma che rispecchia, nel suo microcosmo,
le realtà del mondo esterno. Il sonatismo beethoveniano, per esempio, rinvia agli
elementi di volta in volta antagonistici, libertari e conciliatori dell'ideologia borghese
attraverso il proprio disegno morfologico, quindi nella dimensione apparentemente
più disancorata dalla realtà sociale. Certo è, però, che non si può pretendere “di
dimostrare al di là di ogni dubbio che la musica di Beethoven abbia davvero qualcosa a che fare con
l’humanitas e il movimento di emancipazione borghese”.
Per Adorno il rigore empirico, nel campo della sociologia della musica e in genere
delle scienze sociali, è una forma di cecità. La musica è al tempo stesso autonoma
realtà estetica ed elemento inserito in un contesto relazionale, in una vicenda esteriore
di produzione, recezione, consumo. Ma solo nel primo caso le si può attribuire un
contenuto di verità socialmente connotato; gli altri aspetti sono semplici epifenomeni,
irrilevanti per uno studio che ambisca a confrontarsi con la “costituzione sociale
oggettiva della musica in sé”. La sociologia della musica vuol essere, dunque, in
primo luogo un’operazione critica, una ricerca di senso con categorie mutuate in parte
dalle scienze sociali. La legittimazione di questo approccio non può che essere analoga
a quella di ogni altra operazione della critica musicale: va cercata nella felicità dei
risultati, nella persuasività con cui un insieme di costruzioni verbali riesce a dar conto
del senso e del valore di un oggetto sonoro.
«La musica -scrive Adorno- non è ideologia tout court, ma è ideologia nella misura in cui è falsa
coscienza. Di conseguenza la sociologia musicale dovrebbe prendere le mosse dalle incrinature e dalle
fratture dell’accadimento musicale nel momento in cui queste non sono da imputare esclusivamente
all’insufficienza soggettiva di un singolo compositore.»

Pierre Bourdieu (1930 – 2002).


Bourdieu aderisce alle tesi dello strutturalismo, secondo cui nel mondo sociale vi sono
strutture indipendenti dalla coscienza dell’individuo e dal suo volere le quali
delimitano in modo specifico il comportamento dell’attore sociale. Bourdieu ama

25
definire la propria posizione teorica come “costruttivista strutturalista”: a suo
avviso, gli individui possono costruire
fenomeni sociali tramite il loro pensare e
il loro agire, ma tale costruzione avviene
sempre all’interno di un’ineludibile
struttura che mai può essere rimossa: la
struttura condiziona ma non determina il
nostro agire. Lo stesso Bourdieu
riconosce la forza condizionante (anche se non determinante) dei fatti sociali, e
proprio in forza di tale riconoscimento sottopone a critica il creativismo assoluto e
l’interazionismo. La cultura infatti non può essere ridotta a mondo di simboli dei quali
gli individui dispongono con libertà assoluta. Egli si concentra sui “principi
generativi” coi quali gli individui costruiscono fenomeni sociali e culturali ed è
convinto, sulla scia di Karl Marx, che ciascuno di noi si muova all’interno di una certa
ideologia a seconda della classe di appartenenza.
Distingue tra quattro diversi tipi di capitale:
a) Capitale economico (denaro, mezzi di produzione);
b) Capitale sociale (reti sociali);
c) Capitale culturale (lingue, gusto, ecc);
d) Capitale simbolico.
Questi quattro tipi di capitale sono convertibili l’uno nell’altro. Sulla base di questa
distinzione del capitale, Bourdieu distingue diverse classi sociali: la classe che sta più in
alto, è quella che ha tutti e quattro i tipi di capitale in misura maggiore, ma ciò non
vuol dire che le classi siano gerarchiche e fisse come in Marx.
Le tre classi principali (classe alta, classe media, classe bassa) si dividono a loro volta in tre
livelli interni: così, all’interno della classe alta, vi sarà un “gruppo” (milieu) alto, uno
medio e uno basso; e così nelle altre due classi (la media e la bassa). In particolare, per
quel che riguarda la classe sociale alta, il gruppo alto è quello della borghesia con
grande capitale economico; quello medio è quello dei professionisti; e quello basso è
quello degli intellettuali e degli artisti. Alla luce di questa suddivisione, le classi
26
tendono a sfumare le une nelle altre e a perdere quella rigidità con cui si
configuravano nel marxismo tradizionale: così, il gruppo alto della classe alta può
trovarsi a condividere interessi del gruppo alto della classe media. Detto altrimenti, ci
si trova in una situazione in cui si hanno comunità di interessi che prescindono dalle
diversità di classe: di conseguenza, la stessa “lotta di classe”, che agli occhi di Marx si
configurava come semplice scontro tra dominati e dominanti, diventa più complessa e
meno definita nei suoi contorni.
Bourdieu insiste molto sul momento culturale: chi fa parte di una classe ha una certa
visione del mondo, certi costumi. È ciò che il nostro pensatore chiama habitus,
categoria nella quale rientrano, in definitiva, tutte le cose condivise in una certa classe
(comportamenti, gusti, idee, giudizi). L’habitus “non è un destino”, è piuttosto
l’“inconscio collettivo” di una classe sociale, la quale non sa di avere quell’habitus.
Rispetto a Marx, la vera novità risiede nel fatto che la classe sociale non dipende
soltanto dall’economia, ma anche dalla cultura, dall’estetica e dalla morale: a tal punto
che gli stessi conflitti di gusto sono conflitti di classe. In particolare, ad avviso di
Bourdieu, ci sono due diversi gusti: il “lusso” e la “estetica popolare”: il primo
appartiene alla classe superiore e astrae dal momento economico; il secondo
appartiene alla classe inferiore e ha a che fare con necessità materiali.

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5. DALLA PRODUZIONE RAPPRESENTATIVA DI
FABRIZIO DE ANDRÉ, AL BOOM DELL’INDUSTRIA
MUSICALE DELL’ISIS.

I linguaggi musicali assumono, da sempre, un ruolo significativo nei processi di


costruzione sociale della realtà e dell'immaginario individuale e collettivo. I mass
media e le tecnologie della musica favoriscono attraversamenti sonori, nel tempo e
nello spazio, contribuendo alla “costruzione musicale” delle esperienze e delle
memorie personali e collettive. Gli individui sono immersi nel suono, lo alimentano,
lo consumano, in un processo continuo di ridefinizione delle proprie identità. Nell’era
digitale, inoltre, l’interattività e la connettività contribuiscono a definire nuovi
linguaggi e inedite modalità di comunicazione.
Una moderna sociologia della musica ha il compito di studiare ed analizzare tali
processi, al fine di comprendere le dinamiche che caratterizzano l’universo musicale
contemporaneo e le sue relazioni con i diversi contesti socio-culturali. Anche la
canzone d’autore può essere concepita come un oggetto culturale, nello specifico
contesto della sociologia della musica. La descrizione delle trasformazioni che hanno
segnato il mondo della canzone, ad esempio a partire dalla fine degli anni Cinquanta,
costituisce così l’occasione per analizzare alcuni meccanismi sociali che hanno portato,
in quegli anni, da un lato alla costruzione (e legittimazione) della figura del
“cantautore” e dall’altro alla distinzione della “canzone d’autore” come “forma
artistica di espressione e comunicazione autonoma, sebbene socialmente e
politicamente rilevante”.
Esempio indiscusso di questa forma d’arte è stato Fabrizio Cristiano De Andrè
(Genova, 18 febbraio 1940 – Milano, 11 gennaio 1999).

Ma come affrontare De Andrè, la sua lezione e l’influenza che ha


avuto sulla musica italiana?

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Quarant’anni d’attività, tredici album realizzati in studio e diversi dischi live e singoli:
una produzione enorme con il punto in comune delle storie che riguardano gli
emarginati, i perdenti, gli ultimi, ma anche i sentimenti, la natura, il ripudio di tutte le
guerre e la libertà di espressione. Alcuni di questi testi sono considerati vere e proprie
poesie tanto da essere inserite anche nei programmi di studio e nelle antologie per le
scuole superiori. I testi di Faber, soprannome datogli amichevolmente da Paolo
Villaggio, anarchico libertario e pacifista che tanto aveva a cuore anche il tema della
natura, sono delle vere e proprie perle da riscoprire e riascoltare anche e soprattutto al
giorno d’oggi. La sua musica, formatasi da un fiume di parole che racchiudono
profonda umanità, è capace di intrecciarsi con la vita di chi l’ascolta, penetrando anche
l’anima più burrascosa e lasciando l’esigenza di imparare a cogliere solo il bello e
l’essenziale della vita. De Andrè si presenta come un esempio di distribuzione sociale
del processo compositivo della popular music, egli rappresenta lo spirito e gli ideali di
una generazione precisa, quella del ‘68. Il disagio umano e sociale è, quindi, tema a cui
il cantautore genovese era particolarmente interessato e che è riuscito a descrivere con
un forte potere evocativo attraverso la caratterizzazione profondamente umana di
quei personaggi, che vivono in condizioni di emarginazione non venendo compresi,
né accettati dal resto di quella società, nella quale non riescono ad integrarsi.

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Ad esempio, si nota incredibilmente come la canzone “Il pescatore” (1970), si
presenti come una sorta di manifesto per i personaggi “scomodi”, cui si contrappone
una volta di più la legge. L’incontro tra l’assassino e il pescatore avviene in maniera
casuale e si consuma rapidamente, senza cerimonie e commenti, quasi
nell’indifferenza; ma un’indifferenza di
solidarietà e di sincerità che esulano dai
comuni rapporti umani. È una canzone
scritta dallo stesso De Andrè per il testo e
da Gian Piero Reverberi e Franco Zauli
per la musica; come per altre ballate, la
struttura musicale è quasi elementare: tre
accordi in tutto. La linea melodica è senza
virtuosismi in quasi ogni grado della scala
tonale; due chitarre acustiche sono di
accompagnamento mentre una chitarra elettrica risponde alla voce della strofa. Le
strofe, a loro volta, vengono separate dalla frase a fischio per dare respiro al canto
narrato. Questa canzone cerca di essere una sorta di parabola evangelica in cui è
contenuta una morale non definita, ma intuibile: vi è in essa un gesto di ribellione nei
confronti della “giustizia umana”, quella giustizia istituzionalizzata che toglie ogni
responsabilità alla coscienza e alla ragione umana e che viene personificata, in questo
caso, dalle autorità in divisa, “i gendarmi”(Venturi, cit. in Pistarini, 2010).
A questo tipo di giustizia viene contrapposto l’amore e la simpatia (nel senso letterale
del termine, ovvero della “compassio” latina: soffrire le stesse cose), quindi la profonda
comprensione umana dell’altro: in questo senso, mentre “i gendarmi” inseguivano
“l’assassino”, “il pescatore” lo ha aiutato, nonostante egli avesse dichiarato la sua
identità. Il comportamento del pescatore è carico di amore umano e di autentica
comprensione nei riguardi di una persona che, ai suoi occhi, si presentava debole,
perseguitata ed emarginata.
«L’assassino si ferma spinto da un bisogno che può davvero essere quello
concreto della fame e della sete. (… ) La giustizia umana è superata, il fuggitivo
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si sfama, si disseta, e riceve, per un importantissimo momento, attenzione e
calore» (Pistarini, 2010, p. 86).
“Il pescatore/De Andrè” non si ferma dinanzi all’etichetta di “assassino”, ma riconosce
“l’uomo” che si cela dietro quell’etichetta, quindi ne comprende i bisogni e li soddisfa,
considerando l’altro esclusivamente come essere umano. De Andrè diventa un
interprete della coscienza popolare che ha visto sempre la “giustizia”, sia umana che
divina, come un’oppressione.
«Nel «Pescatore» il potere non c’è, è occulto (i gendarmi son soltanto
intermediari). La favola è giocata sul silenzio magnetico del vecchio, che nella
vita le ha già viste tutte e tutto sa. Qui sta il senso forte di Fabrizio: non il
perdono, che a poco serve, ma la giustificazione; un cenno d’intesa fra i due
viaggiatori che si incrociano per caso in una storia grande e inspiegabile:
pescatore e assassino. Il primo non dirà mai dov’è andato il secondo, ma non
mentirà neppure: fingerà di dormire.» (R. Vecchioni, cit. In Pistarini, 2010, p.86).

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In tempi recenti, però, prendono spazio quelle notizie di carattere politico-sociale che
inducono a capire quanto sia evidente la trasformazione dell’industria musicale e della
distribuzione sociale del processo compositivo.
Ecco che, organizzazioni come l’ ISIS, riescono a manipolare la macchina della
persuasione sfruttando l’influenza della musica: difatti, proprio l’ Isis, ha visto nella
musica un mezzo potente per la propaganda, a tal punto da aver creato una vera e
propria industria del settore, tra case di produzione e una radio.
Nel febbraio del 2015 i militanti del sedicente Stato Islamico facevano indignare il
mondo dando fuoco, sul suolo libico, a cataste di strumenti musicali applicando la
loro personale interpretazione del precetti della Shari’a, la legge islamica: si è palesato
un vero e proprio
accanimento verso rullanti,
tamburi, timpani e piatti e,
più in generale, verso la
musica, una delle forme
d’arte più d’impatto della
storia della società.
Eppure, il rapporto del
sedicente Stato islamico con la musica non si arresta a queste forme di accanimento
pubblico: al contrario, i suoi leader vedono nella musica un forte potere
propagandistico, tanto da avere avviato numerosi progetti nell’ambito della
produzione musicale.
Quello che per noi è un’incoerenza di fondo, un ossimoro tra i roghi di strumenti e il
finanziamento di progetti musicali, non lo è per i leader dell’ Isis, in quanto, secondo
la loro interpretazione della legge islamica, le forme di musica degenerata sono
unicamente quelle riconducibili a certi tipi di supporto strumentale, in particolare
quelli potenti e profondi della batteria e più in generale degli strumenti a percussione.
Al contrario la voce e il cantato sono considerati leciti e addirittura valorizzati quali
potenti mezzi di propaganda attraverso cui diffondere la grandezza dello Stato
Islamico, inteso proprio come regione geografica.
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I video diffusi attraverso i suoi canali media sono, infatti, accompagnati da canti arabi
da essi stessi finanziati e prodotti; il cantato diventa una sorta di megafono che si
affianca al potere delle immagini, che non potrebbero esistere senza sottofondo
musicale e viceversa.
Inoltre, le canzoni che accompagnano i video del gruppo, vengono anche diffuse nelle
città e nei villaggi sotto il suo controllo: i prezzi prodotti diventano un inno, un segno
di riconoscimento attraverso cui marcare il territorio.
La musica assume così un valore sempre più importante per i leader dell’ Isis, una
sorta di mezzo di marketing attraverso cui affermare il proprio brand.
Ecco perché l’anno scorso la sezione irachena del gruppo, con l’obiettivo di stimolare
e motivare i miliziani sul campo di battaglia, decise di fondare la “Anjad Media
Foundation”, un’agenzia specializzata nella produzione e nella diffusione dei
cosiddetti “Nasheed”, canzoni islamiche cantate senza accompagnamento di
strumenti musicali. Esse si suddividono tra inni al martirio, inni di lode, inni
funebri e inni di battaglia.
Naturalmente, questa industria musicale si è specializzata soprattutto nella
realizzazione di inni di battaglia, a cui appartiene peraltro la vera canzone del gruppo,
la “Dawat al-Islam Qamat”, da molti considerata l’inno dell’ Isis. La particolarità di
questo pezzo, ma anche degli altri, sta nel fatto che la sua connotazione “a cappella” è
sporcata dall’intervento di suoni esterni non riconducibili però ai classici strumenti a
cui siamo abituati. I suoni che accompagnano il cantato sono piuttosto rumori di passi
di soldati in marcia, spari d’armi da fuoco e spade che vengono sguaiate.
Non è però chiaro chi siano i compositori e i cantanti dei Nasheed, ma la cosa
importante è il messaggio che con esse viene trasmesso e, come sottolinea Bruno
Ballardini, esperto di comunicazione strategica e di filosofia del linguaggio, «la radio
resta lo strumento popolare più adatto per raggiungere capillarmente vaste aree
anche in tempi di guerra». L’ Isis ha, insomma, compreso il potere della musica e
della radio, e la straordinaria influenza che queste possono esercitare sulla gente.

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«Che la cultura fosse uno strumento di potere lo avevano già scoperto a fondo
gli antichi, e se i partiti politici si sono affrettati nel corso della storia a
monopolizzare questo strumento di comunicazione, ciò significa che le parole
che escono della radio esercitano un potere fortissimo su chi le ascolta» scrive, in
Psicologia della Radio, Oddone Demichelis, psicologo psicoterapeuta e membro della
Società Europea di Scienze Cognitive della Musica.

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