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Sara Cardin
con Tiziana Pikler
Combatti!
Ho scelto di vincere
Prefazione di
Giovanni Malagò e Rodolfo Sganga
Dentro ho un fuoco che mi può
incenerire o far vincere.
Ho scelto di vincere
INDICE
Indice
Prefazione
Prefazione
Introduzione
Il Piave
L’incontro con il karate
La nazionale
La vittoria e la sconfitta
Il sogno
Il successo
L’ultimo ostacolo
Conclusione
Ringraziamenti
Appendice
PREFAZIONE
Lo sport è sempre stata la declinazione preferita del suo modo di essere. Una
vocazione, un richiamo irresistibile, il senso logico del percorso di vita. Lo
sapeva da sempre, Sara, che sarebbe diventata una campionessa. Ha costruito
un sogno allenando la passione, dando voce al talento, mettendo da parte i
giochi da bimba per tirare calci: al sacco e alle avversità. Grazie a quel
linguaggio speciale chiamato karate che ha sentito suo da subito, da cui ha
saputo mutuare tenacia e forza di volontà per poi traslarli nella quotidianità e
sul tatami, diventando una stella di prima grandezza nel firmamento
mondiale.
Oggi la Cardin è una ragazza che ha gioito, è caduta per colpa di un
infortunio ma è pronta a rialzarsi più forte che mai, per inseguire un traguardo
unico, intrecciato a 5 cerchi di gloria e di storia. Ha la consapevolezza di chi
sa come si vince e l’umiltà di chi vuole imparare ancora. Sa bene che il nostro
mondo è fatto di ostacoli e di obiettivi da raggiungere per farne nuovi punti di
partenza. È instancabile e severa con se stessa, le piace alzare l’asticella, è
legittimamente ambiziosa. La promozione della disciplina nel nostro Paese è
passata anche per i suoi successi e la sua immagine. Lo sguardo magnetico e
il sorriso ammaliante sono un marchio di fabbrica inconfondibile ma quando
si fa sul serio non c’è bellezza che conta se non quella, armonica, dei
movimenti che la portano al successo.
Non entro nel merito delle sue esperienze di vita e delle emozioni vissute,
perimetri troppo personali per essere oggetto di approfondimento, ma credo
che la voglia di lasciare il segno che si evince dalla carriera, dai successi
conseguiti e dalle gratificazioni ottenute rappresenti il miglior biglietto da
visita per coronare il percorso con nuove imprese. L’inserimento del karate
nel programma dei Giochi di Tokyo 2020 è un’occasione speciale, come
l’entusiasmo che l’accompagna, come il desiderio – che è una sfida costante
– di diventare, ogni giorno di più, un’atleta e una persona migliore. È la
missione di vita, una lezione che Sara ripete a memoria. Per scrivere altre
pagine indelebili da custodire nel suo scrigno segreto, regalando al nostro
mondo emozioni e trionfi da scolpire tra i ricordi più belli.
Giovanni Malagò
Presidente Comitato Olimpico Nazionale Italiano
PREFAZIONE
Apro gli occhi e mi guardo intorno. Sono seduta per terra con la schiena
poggiata al muro, le gambe strette al petto cinte dalle mie braccia, le dita
delle mani che si incrociano. Mi trovo in un corridoio, lungo e stretto, le
pareti sono spoglie e c’è solo una luce fioca a illuminare lo spazio davanti a
me. Ogni tanto irrompe qualcuno, a passo svelto, compare pochi secondi e un
attimo dopo è già lontano. Un addetto ai lavori, un allenatore, un medico, un
dirigente. Pochi cenni, qualche sguardo, solo poche parole sussurrate.
Ognuno è immerso nei propri pensieri. In terra ci sono materassine,
protezioni, borse, asciugamani e bottiglie d’acqua. Sparse sul pavimento,
senza un ordine preciso, come il flusso dei miei pensieri e dei miei ricordi.
Nell’aria un odore di chiuso, di sudore e di fatica, un’aria rarefatta che sono
ormai abituata a respirare prima di poter tornare alla luce. Quella vera, del
sole, che fa dimenticare le ombre create dalle lampade al neon. Sono questi i
momenti più intensi, quelli che sento più miei. A farmi compagnia ci sono le
colonne, sempre presenti. Le colonne della mia vita, in carne e ossa, quelle
persone che ho sempre avuto vicino. E le altre: quelle in cemento armato con
cui sono abituata a fare riscaldamento, praticamente da sempre.
Una porta antincendio si apre, un’altra persona entra nel corridoio. Si
palesa in un attimo e, superato l’angolo, si dilegua altrettanto velocemente
portandosi dietro quell’inconfondibile rumore metallico di un’altra porta
antincendio che si chiude. Sento un vociare in sottofondo, lingue diverse,
alcune comprensibili altre per nulla, ma non vedo veramente nessuno.
In realtà la warm up area del palazzo dello sport di Tokyo, per me, è come
se fosse deserta. Il jet lag fa ancora sentire i suoi effetti. Le palpebre sono
pesanti, chiudo gli occhi e torno ai miei pensieri. È una vita che ricerco la
perfezione in tutto ciò che faccio. Ma in questo corridoio, in questo momento,
nulla è perfetto. Come nella realtà. Ho scoperto che la perfezione non esiste,
si può sempre fare meglio e di più. È questa la bellezza della vita, non sentirsi
mai arrivati e cercare di raggiungere sempre quel qualcosa in più. Nonostante
tutto e tutti.
È ora di alzarsi. I piedi nudi sul pavimento freddo mi danno come una
scossa lungo il corpo: gambe, busto, schiena, braccia, fino al cervello. Con le
mani mi stringo la coda di cavallo, un gesto che ripeto spesso. Mi aiuta a
trovare la concentrazione. Mentre inizio a saltellare in questo corridoio
isolato, comincio a sentire il contatto dei piedi a terra. È sempre da lì che
parto, dal contatto con il terreno, dove sono piantate le mie radici. Saltello e
inizio a fare riscaldamento, sento scendere qualche goccia di sudore sulla
fronte, la sento scorrere lungo il corpo. Le mani iniziano a scaldarsi e io
aumento il ritmo sempre di più. Eseguo delle calciate velocissime. Prima una,
poi due, poi tre di fila. Inizio a sentirmi veloce. Mi chiudo nel mio mondo e
sento quanto è duro e ostile quel pavimento, quanto fa freddo in quel
corridoio, quanto silenzio mi circonda. Per quanta gente possiamo avere
intorno a noi, siamo sempre soli ad affrontare le nostre vicissitudini. Se riesco
a sentirmi profondamente e sono sincronizzata con la mente, non c’è
superficie, freddo, buio o solitudine che tenga. Io sono forte. Inizio a sentirla
questa forza, sento tutto quello che c’è dentro di me. Lì dentro è imprigionata
un’energia infinita, un fuoco che brucia e non si esaurisce mai. Devo solo
entrarci in contatto e trasferirlo nei pugni e nei calci. Li sferro sempre più
veloci sulla colonna, cerco il massimo della velocità, della precisione e della
potenza. Prima solo i singoli, poi in combinazione, sempre più veloci. Sento
il fiato andare in affanno. È proprio in quel momento che inizio a digrignare i
denti e a ripetermi quanto voglio combattere, quanto intendo esprimermi,
quanto intendo raccontare ciò che sono. Continuo a muovermi, a saltellare
sulle gambe, a portare avanti e indietro le braccia. Davanti a me solo quella
colonna. Non so perché ho scelto proprio quella e non un’altra. Io, di fronte a
lei, riesco a spegnere le luci e a rimanere sola con me stessa. Tutto sembra
così semplice dall’esterno. Forse la mia solarità inganna. Perché non dovrei
sorridere? Faccio il lavoro più bello del mondo.
I movimenti, coordinati arti superiori e inferiori, sono sempre più veloci.
Le gambe iniziano a tirare calci e il piede arriva sempre più in alto. Le
braccia si tendono dritte davanti a me e le mani sferrano pugni ad altezza
viso. La perfezione è quella che vado cercando nei gesti e nei movimenti.
Non occorre violenza, ma precisione ed esplosività. D’altronde mi trovo nel
paese nel quale nulla viene lasciato al caso. Ci riflettevo questa mattina, in
pullman, mentre dall’albergo mi recavo al palazzetto dello sport. Guardavo
fuori dal finestrino e vedevo sfilare grattacieli vetrati interrotti da lingue
d’asfalto a scorrimento veloce. Sui marciapiedi una folla di persone sembrava
muoversi al ritmo di una musica di cui non si sentivano echeggiare le note.
Tokyo è una città particolare, come sospesa tra modernità e tradizione, una
metropoli che non dorme mai. I giapponesi sono persone attente ai dettagli,
come me, e non si fanno mai cogliere impreparati. Prima di entrare in un
luogo, palestra o appartamento che sia, devi toglierti le scarpe. Però non basta
rimanere in calzini e lasciare le calzature dove capita, occorre riporle di
punta, una accanto all’altra in un’apposita scarpiera, alla stessa distanza dal
paio che si trova di lato. Nel caso più complesso, è necessario aprire uno
sportellino, riporre le scarpe in un cassetto, togliere un quadratino di legno
che funge da lucchetto e portare con sé il numero corrispondente. Tutte
operazioni che noi occidentali svolgiamo velocemente, ridendo e scherzando,
perdendo la sacralità del gesto. I giapponesi, invece, eseguono ogni
movimento con grande cura e in silenzio. È il loro modo di dimostrare
rispetto per il luogo nel quale si accingono a entrare.
Però i giapponesi non sono sempre lenti, anzi. Se sono impegnati in una
mansione operativa o meccanica, come lavare un pavimento, montare
un’attrezzatura, piegare i panni tolti dall’asciugatrice o cucinare, la svolgono
in maniera rapida e con pochi gesti essenziali, come se qualcuno li stesse
cronometrando in ogni momento. Se invece devono versare un tè, porgere un
omaggio, dare delle indicazioni, salutare o ascoltare ecco che entrano in
un’altra dimensione e ti dedicano tutto il tempo necessario con pazienza,
dedizione, disponibilità e cortesia.
Sanno distinguere i momenti e le azioni da svolgere, differenziarli l’uno
dall’altro, sanno decidere qual è il movimento giusto da fare e in quale arco
temporale, lungo o breve che sia, va svolto. È proprio quello che sto facendo
io davanti alla mia colonna. Mi metto alla prova e mi ascolto. Come reagisce
il mio corpo e la mia mente. Fino a quando mi rendo conto di essere a posto.
È il momento di prepararsi a entrare in scena. Tra pochi minuti tocca a me.
Nel grande salone accanto, diviso dal corridoio nel quale mi trovo da due
porte antincendio, alcune delle mie avversarie si stanno già sfidando. Mi
allontano dalla colonna, torno verso il mio angolo e mi rendo conto che, nel
frattempo, il corridoio è molto più affollato di prima. Bevo pochi sorsi di
acqua dalla bottiglia lasciata a terra, indosso il karategi, stringo la cintura
intorno ai fianchi e poi passo alle protezioni, prima dei piedi e poi delle mani.
È un rito che si rinnova ogni volta molto lentamente, altrimenti finisco con lo
stressarmi da sola. Tanto c’è sempre tempo, serve velocità non fretta. Infine
arrivo agli elastici delle protezioni sulle dita e chiudo gli strappi.
«Ok. Sono pronta», sussurro al termine di queste operazioni.
Mi avvio verso la porta antincendio rossa e so già cosa troverò ad
attendermi dall’altra parte. Un tatami, un quadrato blu di otto metri per lato
bordato di rosso, sul quale dovrò riuscire a instaurare un flusso
comunicazionale con la mia avversaria, fatto di velocità e di precisione così
come di momenti di attesa e di studio. Durante il riscaldamento mi sono già
trovata e ascoltata. Prima di entrare sul tatami devo sempre essere sicura che
Sara c’è, che ha tutto pronto e a disposizione. Quindi ora non devo fare altro
che concentrarmi su di lei, la devo guardare, ascoltare, capire, sentire.
Combattere è come comunicare. Dovremmo dare vita a un dialogo, un po’
come quello che avviene nella vita di tutti i giorni, nelle diverse situazioni
che la quotidianità ci mette davanti nel nostro percorso. Non sai mai
veramente cosa aspettarti e non sempre riesci ad avere la reazione giusta. Ho
imparato che è più facile difendersi da chi ci attacca, come su un tatami,
piuttosto che da chi ci abbraccia. Però, qualunque sia la difficoltà o la
delusione, bisogna avere la consapevolezza di dover andare avanti. La
bellezza della vita è anche questa: cadere e sapersi rialzare, non una ma
infinite volte. Per raggiungere quello che è l’obiettivo che ci siamo prefissati.
Ogni ostacolo è fatto solo per essere superato, però bisogna osare e avere
coraggio.
«Sara Cardin, Italy», dice il microfono. La porta antincendio rossa si apre
davanti ai miei occhi. Tocca a me. Vai Sara.
Il Piave
La ricerca della giusta dose di aggressività è sempre stata un’altra delle mie
problematiche. Potrebbe sembrare un paradosso per un’atleta impegnata fin
da quando aveva sette anni in un’arte marziale. Il karate però, nella disciplina
del kumite (combattimento), prevede un «dinamismo aggressivo» che «deve
essere simbolizzato tramite attacchi e difese perfettamente controllati», come
si legge nel regolamento federale. E io ero perfettamente controllata, talmente
controllata che a volte non lasciavo fluire spontaneamente le mie tecniche nel
combattimento e rimanevo incastrata nel mio schema, quasi come se uscendo
da quel controllo potessi diventare cattiva, e quella cattiveria io non la volevo
mai sentire. Invece, nel corso degli anni, il karate mi ha insegnato che per
vincere bisogna fidarsi di sé stessi e del proprio istinto, non si può combattere
solo con il cervello e con il cuore ma anche di pancia. Mi ha insegnato che
l’aggressività non è violenza e che sentirsi liberi non è pericoloso.
La mia storia non è mai stata legata tanto all’aspetto tradizionale del karate,
ma solo ed esclusivamente a quello sportivo. Fin dai primi allenamenti al
centro federale mi sono sentita dire che praticavo un «karate muto» perché
non riuscivo a esplodere le tecniche dando loro una sonorità che, a volte,
potrebbe anche aiutare a intimidire l’avversaria sul tatami.
I miei sforzi nel gestire l’aggressività non riguardano però soltanto il karate
quanto il rapporto con me stessa e la mia fisicità. I problemi con
l’alimentazione non hanno fatto altro che incidere su questa difficoltà.
Arrivare a vomitare ciò che mangiavo non mi aiutava solo a tenere sotto
controllo la categoria di peso. Io volevo punirmi e ci riuscivo facendomi del
male.
Questa aggressività si manifestava spesso anche attraverso i sogni. Avevo
compagne di squadra che non volevano dormire in camera con me perché si
spaventavano. Dicevano che urlavo come se qualcuno mi stesse tagliando una
gamba o ridacchiavo da sola, mettendomi seduta sul letto magari con i capelli
davanti al viso tipo The Ring. L’unica che sapeva come gestirmi era Greta, la
più forte atleta italiana dei pesi massimi di sempre. Io non l’avevo messa in
guardia. Una delle prime notti che abbiamo trascorso nella stessa camera, ho
improvvisamente acceso la lampada poggiata sul comodino e mi sono messa
a sedere sul letto, gettando di lato lenzuola e coperta.
«No, sono stanca, non ho nessuna intenzione di farlo», ho detto in tono
perentorio mentre tenevo le braccia incrociate sul petto come a voler
difendere il mio rifiuto.
Giusto il tempo di svegliare Greta e mi sono rimessa a dormire come niente
fosse accaduto.
La mattina successiva, io non ricordavo nulla. È stata Greta ad affrontare
l’argomento.
«Ti ho fatto qualcosa? Sei arrabbiata con me?» mi ha chiesto.
«No. Perché dovrei avercela con te?» le ho risposto stupita.
Greta ha compreso che ero sincera e mi ha raccontato cos’era accaduto la
notte precedente. Mi sono messa a ridere e le ho confidato che mi capita
spesso di sognare e parlare nel corso della notte.
A volte si tratta di sogni belli, eterei, altre volte sono terribili e non sempre
la mattina successiva riesco a ricordarli. Su consiglio dello psicologo, quando
mi sveglio e mi sento nel panico, posso mettermi a scrivere il sogno
immediatamente in un quaderno. Funziona, l’attacco di panico svanisce
subito. Ho sempre fatto così fin da piccolina.
Però c’è anche il rovescio della medaglia. Una volta nel corso della notte
mi sono svegliata e avevo la bocca secca. La bottiglia sul comodino era
vuota. Mi sono alzata dal letto per andare al bar e prenderne un’altra. Non
volevo telefonare alla reception per non svegliare Greta. Ho aperto la porta
della camera cercando di non fare rumore. Appena nel corridoio ho provato a
fare altrettanto per richiuderla. Convinta di essere stata sufficientemente
silenziosa mi sono avviata verso gli ascensori. Dopo pochi passi ho avuto
come la sensazione di essere seguita. Mi sono voltata e dietro di me c’era lei,
Greta.
«Sei sveglia?» mi ha chiesto.
«Certo che sono sveglia», le ho risposto. «Ho sete e sto andando a prendere
una bottiglia d’acqua. Ne vuoi una anche tu?»
Solo dopo qualche secondo ho compreso. Lei ha pensato a un episodio di
sonnambulismo. Ci siamo guardate negli occhi e siamo scoppiate a ridere.
Nei sogni, a volte, viene fuori anche il mio lato aggressivo. È capitato più
volte, infatti, che urlassi «Ti ammazzo. ti ammazzo…» con un tono da far
paura. La mia collega Laura Pasqua lo racconta spesso, ridendoci sopra.
Adesso.
Quella stessa aggressività inizialmente non riuscivo a tenerla sotto
controllo nemmeno nei rapporti intimi con Paolo. Ho sempre fatto l’amore
con lui, ero molto dolce però a volte arrivavo a un certo punto nel quale mi
sentivo cattiva, non era più un regalare piacere, ma più una questione di
impossessarsi di qualcosa, di prendere ed essere presi. E così scompariva
ogni sorta di libertà emozionale. Ero aggressiva e questo aveva inciso anche
nella relazione e sulla nostra separazione. Per questo, per la seconda volta
nella mia vita, avevo anche deciso di rivolgermi a uno psicologo. In realtà i
problemi si sono poi risolti quando siamo tornati insieme e il nostro dialogo
ha iniziato a funzionare. È proprio vero quando dicono che in una coppia il
dialogo è tutto. Siamo tutti diversi e non dobbiamo vergognarci di ciò che
siamo. Dobbiamo solo comprenderci e lasciarci comprendere, amare e
lasciarci amare.
Era il 2012, erano passati due anni dalla medaglia d’argento al Campionato
del mondo di Belgrado e ci ritrovavamo a prepararci per una nuova edizione
del Mondiale che questa volta si sarebbe tenuto a Parigi. Mi ero ripresa e
rigenerata, ora ero di nuovo pronta a combattere per concretizzare il mio
sogno. I miei video degli incontri del 2010 avevano ormai fatto il giro del
mondo e tutte le mie avversarie, con i loro tecnici, mi avevano studiata. Ero
l’avversaria da battere.
«Sara ormai ti hanno studiata e ti conoscono. Dobbiamo cambiare
qualcosa. Cambiamo categoria e facciamo i -50 kg», mi ha proposto
nuovamente il Guru.
«Strano no? Una proposta inaspettata», mi sono detta tra me e me.
Paolo ovviamente non era d’accordo e nemmeno io. Ci sembrava una
stupidaggine. Avevo vinto l’oro europeo e l’argento mondiale nei -55 kg,
perché tornare a fare i -50 kg?
Mi sono presa del tempo per pensarci su, dopotutto io volevo solo vincere
il mondiale e poco mi importava se avessi dovuto fare la fame e la sete.
Sapevo che ormai dopo tutti quegli anni avevo trovato un equilibrio
alimentare e che potevo reggere psicologicamente.
Ho ragionato sulle parole del Guru. Aveva ragione quando diceva che non
dovevamo presentarci uguali a due anni prima e che così all’ultimo sarebbe
stato difficile cambiare qualcosa sul mio modo di combattere.
Dopo diverse riflessioni tra me e me, ho deciso che avrei fatto il mondiale
nei -50 kg.
Ho fatto una mezza litigata con Paolo, mia mamma e Greta, la mia nuova
compagna di stanza alla quale chiedevo sempre un parere. Nessuno di loro
era d’accordo, dicevano che era solo una fissa del Guru, invece a mio parere
questa volta il suo ragionamento aveva una logica.
La mia testa aveva deciso. Sono calata di peso con molta, molta fatica però
sono arrivata a 50 chilogrammi esatti e senza soffrire di squilibri alimentari.
Il Campionato del mondo di Parigi 2012 si svolgeva nel palazzo dello sport
polifunzionale di Bercy. Ad assistere alle finali c’erano addirittura 18.000
persone. L’Italia ha vinto una medaglia d’oro con Luigi Busà nel kumite -75
kg, tre d’argento nelle due prove a squadra di kata e con Greta, oltre a due di
bronzo con Luca Valdesi (kata) e Stefano Maniscalco (kumite +84 kg).
Risultati che sono valsi alla squadra azzurra il terzo gradino del podio nel
medagliere finale, dietro solo alla Francia padrona di casa e al Giappone.
Era un Mondiale importante: l’ultima edizione prima della decisione del
Cio, il Comitato olimpico internazionale, riguardo alle discipline che
sarebbero entrate a far parte del programma dei Giochi di Tokyo 2020. La
federazione internazionale di karate (World Karate Federation) poteva
ritenersi soddisfatta: 116 nazioni partecipanti, 1.500 atleti con i tre giorni di
gare che hanno fatto registrare il tutto esaurito in termini di pubblico.
«L’Equipe», il quotidiano francese punto di riferimento per lo sport non solo
in Francia, è stato subissato di critiche per non aver dedicato la giusta
copertura all’evento. Il karate aveva saputo sfruttare la sua grande occasione.
Lo avremmo saputo di lì a poco.
Il mio Mondiale, invece, era stato un disastro: fuori al secondo turno.
Avevo vinto con la cinese Choi (8-0), fermandomi davanti alla marocchina
Hiba Raouf (0-2). Per Paolo quella è stata la fatidica goccia che ha fatto
traboccare il vaso.
Con lui abbiamo deciso di allontanarci sempre di più dalle direttive del
Guru. Abbiamo cominciato a saltare quasi tutti gli allenamenti settimanali da
lui. Ci siamo organizzati da soli, facendo leva sull’esperienza che Paolo
aveva fatto collaborando con tanti altri tecnici soprattutto stranieri e sull’aiuto
di un motivatore d’eccezione come nonno Danilo. La mattina infatti, mentre
Paolo era impegnato in azienda, era lui a seguirmi negli esercizi in palestra
oppure lungo il Piave. La sera, oltre ai ragazzi del club, ho cominciato ad
allenarmi con uno sparring d’eccezione, Paolo Nave. Lui già tecnico da
diversi anni, continuava a gareggiare come atleta nella categoria Master -67
kg e di «master» vi assicuro che aveva veramente ben poco: sempre in
perfetta forma fisica e con in più tanta esperienza alle spalle. Di sicuro il suo
contributo è stato fondamentale per la mia crescita sportiva.
Ho ricominciato a vedere i risultati, ovviamente nella categoria dei -55 kg.
Così nel 2013 mi sono aggiudicata la medaglia d’argento ai Campionati
europei di Budapest. Non è stato un torneo semplice. In semifinale mi sono
trovata di fronte la slovacca Jana Vojtikevicova che in quegli anni era
un’avversaria molto ostica per me, aveva un modo di combattere che si
combinava poco con il mio. Comunque sono riuscita a uscire vittoriosa anche
da quell’incontro (3-2), per poi fermarmi in finale contro la turca Yakan (0-
2), in una gara che comunque non ricordo con grande passione ed emozione.
Tuttora, a volte, mi chiedo perché.
Avevo ormai collezionato una medaglia mondiale e cinque europee.
Tuttavia nel gruppo della Nazionale ero ancora l’unica civile. C’era chi era
entrato nel corpo della Forestale, chi in Polizia, chi nelle Fiamme gialle, chi
nell’Esercito. Invece, per me ancora nessun concorso.
Avevo ventisei anni e in quel periodo lavoravo come promotore finanziario
per la Cna, trascorrevo la giornata in macchina e negli uffici delle aziende a
proporre contratti di contabilità, paghe, ecc. Continuavo a dare una mano in
palestra con i bambini e poi c’erano i miei allenamenti. I concorsi
sembravano ancora tutti bloccati, pareva che il karate non fosse proprio
destinato a diventare olimpico e quindi mi trovavo in quel guado. Mollare o
continuare a provarci.
Qualche mese dopo aver conquistato l’argento europeo, come ormai di
consuetudine, nel mese di agosto siamo andati con tutta la squadra agonistica
in montagna, a Fai della Paganella, per il nostro camp fatto di tanti
allenamenti ma anche simpaticissimi momenti. Erano passati nove anni da
quell’agosto del 2004 nel quale io e Paolo ci eravamo baciati per la prima
volta. Dopo essere tornati insieme avevamo veramente ritrovato un’ottima
sintonia ed equilibrio tra di noi, così erano mesi che continuavo a provocarlo
con frasi che lasciavano pochi dubbi su quale fosse il mio desiderio.
«Se vuoi chiedermi di sposarti, devi farlo per bene, come accade nei film,
altrimenti ti rispondo: no», continuavo a ripetergli.
Paolo ha esaudito anche questo mio desiderio. Mi ha chiesto la mano come
nella scena di un film. Era la notte di san Lorenzo, la stessa sera nella quale,
nove anni prima, alla fine dei balli nel salone, ci eravamo dati quel primo
bacio sotto le stelle cadenti. Così quella sera, dopo cena ci siamo allontanati
dal gruppo e siamo andati a fare una passeggiata. Ci siamo seduti sulla stessa
panchina sulla quale gli avevo confidato il mio amore. O meglio: su quella
panchina credo avesse l’intenzione di farmi la fatidica domanda, però era
talmente emozionato che non è riuscito ad arrivare fino in fondo. A dire il
vero, io sono rimasta un po’ delusa perché l’atmosfera che si era creata era
quella giusta, il posto non poteva essere più adatto eppure la proposta non era
arrivata.
Quando siamo tornati in casa, e siamo saliti in camera, invece, ci siamo
sdraiati sul letto, mi ha abbracciata da dietro e mi ha presentato l’anello di
fidanzamento. Un cofanetto rosso. L’ho aperto e dentro sbrilluccicava il
diamante più bello che avessi mai visto mentre lui mi sussurrava quelle
fatidiche parole all’orecchio.
«Mi vuoi sposare?» ha bisbigliato Paolo.
Ho provato un’emozione fortissima, una gioia immensa. Ne avevamo
passate veramente tante insieme. Quello era, e non poteva essere altrimenti, il
giusto coronamento della storia d’amore più importante della mia vita.
«Sì, lo voglio», gli ho risposto.
Me l’aveva chiesto veramente. E me l’aveva chiesto bene. Che emozione!
Avrei voluto che quel momento non finisse mai.
«Me lo puoi richiedere? Sì insomma, richiedimelo», volevo ascoltarlo di
nuovo.
Gliel’ho fatto ripetere tre volte e poi abbiamo fatto l’amore.
La mattina seguente ho aperto la finestra della camera, che dava sulle
montagne, e sono uscita sul balcone. C’era una gran luce, il sole era già alto.
Ho portato con me il cellulare che avevo lasciato sul comodino e ho iniziato a
scrivere un lunghissimo sms, con tutti i dettagli della proposta e l’ho inviato a
Gloria, a Marika e a Melissa. D’altronde sarebbero state loro le mie testimoni
di nozze. Questo lo avevo già deciso da tempo.
Mia madre invece è rimasta sorpresa della nostra decisione. Dopo che
siamo tornati a convivere non pensava che ci saremmo sposati.
I miei nonni erano davvero felici. Sapevano che quel matrimonio mi
avrebbe aiutato a trovare la mia stabilità. Da parte di nonna Maria, però, le
raccomandazioni non sono mancate.
«Devi prendere esempio dai tuoi nonni e dai tuoi genitori. Due coppie serie
e con dei principi solidi», mi ha detto mia nonna, «devi affrontare questo
impegno nella stessa maniera. La differenza di età che vi separa non deve
essere un ostacolo. Piuttosto devi essere consapevole che ci saranno delle
difficoltà che, comunque, andranno affrontate sempre insieme al tuo sposo».
Tra tornei e gare internazionali è arrivato anche il 2014, l’anno migliore
della mia carriera sportiva. E non solo.
Nel mese di maggio, al Campionato europeo di Tampere, in Finlandia,
gareggiando di nuovo nella categoria dei -55 kg, sono tornata a salire sul
gradino più alto del podio. Io e Claudio Guazzaroni ormai facevamo coppia
fissa, atleta e coach, io sul tatami e lui su quella sedia, sempre al mio fianco.
Abbiamo eliminato, una dietro l’altra, la francese Emily Thouy (4-0), la
spagnola Armentia Cerio Martia (4-0), la croata Jelena Kovaceic (3-0) e, in
finale, la lussemburghese Jennifer Warling (3-1). A proposito di sogni strani,
la sera prima della finale avevo sognato di perdere i denti e di sputarne tre
bianchi e uno nero. Esattamente come il risultato che ho ottenuto. A volte ci
sono delle coincidenze quasi assurde. Ero tornata a vincere l’oro continentale
dopo la vittoria ad Atene quattro anni prima e dopo l’argento di Budapest nel
2013. Con grande sorpresa, sul volo di rientro, sono partite a suonare un po’
di trombette e abbiamo sentito il comandante congratularsi con me per il
titolo europeo. Marino Silvestri, giornalista della «Tribuna» che per la prima
volta mi aveva seguita in gara, si era intrufolato nella cabina e gli aveva dato
la notizia.
Ancora elettrizzata dalla vittoria, ho iniziato i preparativi per le nozze. Con
Paolo infatti avevamo fissato la data al 26 di luglio di quell’anno.
L’abito da sposa l’ho scelto con mia mamma. In qualche modo volevo
coinvolgerla, sapevo che le avrebbe fatto piacere. Io avevo già in mente il
modello che volevo. Doveva essere molto semplice, bianco, lungo e con la
schiena molto scoperta, senza pizzi o bustini e con poco velo. Entravo nel
negozio, spiegavo alla commessa esattamente come lo volevo, dettaglio per
dettaglio. La risposta era sempre la stessa: «Così ne abbiamo solo uno», però
nei primi due negozi non era affatto il modello che stavo cercando io.
Al terzo tentativo ho visto davanti ai miei occhi quell’unico abito che
corrispondeva alla mia descrizione. L’ho acquistato subito. Era perfetto.
Più che alla cerimonia in sé, ci tenevo che fosse una grande festa.
D’altronde la convivenza era già un impegno reciproco che avevamo
affrontato. Il mio sogno era un party all’aperto, in un giardino con un buffet a
bordo piscina, dopo un «sì» all’americana pronunciato sotto un arco con tanti
fiori. E così ho tentato di organizzare come sarebbe stato il mio giorno.
Qualche settimana prima del matrimonio, nello stesso fine settimana,
abbiamo organizzato i rispettivi addii al nubilato e al celibato.
Io sono partita per Rimini, insieme ad altre otto amiche, con il pullmino
che Paolo utilizzava per accompagnare i ragazzi della palestra alle gare di
karate. Nel gruppo c’erano Gloria, Marika, Melissa, Deborah, Laura,
Federica, Chiara e Nena. È stato l’incontro delle due parti di me: quella seria
e precisa dedita al karate, e la ragazza un po’ pazzerella a cui piace divertirsi
non appena è possibile.
In realtà Gloria, Marika e Melissa si erano già conosciute in occasione di
un fine settimana a Venezia. Ero stata io a organizzarlo, perché volevo che
tutte le mie migliori amiche si incontrassero. Gloria ci ha ospitate nel suo
appartamento. La mattina aprivamo il portoncino di casa, salivamo sulla
barca e andavamo a fare la spesa oppure un giro per la laguna.
Il secondo giorno invece ci eravamo organizzate con due motoscafi un po’
più grintosi. A me e a Gloria piace la velocità e il brivido, a Marika e Melissa
assolutamente no. Per questo motivo ci siamo divise su due motoscafi. Siamo
andate un po’ al largo. Io e Gloria eravamo sul motoscafo che faceva strada,
Marika e Melissa insieme all’ex fidanzato di Gloria su quello che seguiva e,
quindi, in balia delle nostre onde. Se non l’avete mai provato, non riuscite a
immaginare quanto vadano veloci quelle barche e che salti si facciano sulle
onde.
Quel giorno stava passando una nave da crociera. Come resistere alle onde
che si formavano sulla sua scia? E via di salti, «candele» come li chiamano i
veneziani.
«Ahhhhhhh…» era l’unica esclamazione che sentivo uscire dalla bocca di
Melissa e Marika.
Eravamo delle pazze. Loro due credo mi stessero odiando. Però ridevano.
Stavano aggrappate in ginocchio, sulla prua della barca con una presa
formidabile. Un sussulto di troppo e il costume di Marika, che già si teneva al
bordo terrorizzata, si è spostato completamente lasciandola in topless.
«Ho una tetta di fuori Meli! Ma io… le mani… da qua non le mollo», l’ho
sentita urlare.
«Tranquilla… lui è abituato a quelle della Gloria! Neanche si accorge delle
tue», ha risposto Melissa mentre le vedevo saltare sulle onde e tenersi come
dei koala all’albero.
Insomma, il primo incontro tra le mie migliori amiche era stato un
bell’impatto, ma molto, molto divertente. Per il mio addio al nubilato a
Rimini avevo preso una camera d’albergo vicino alla stazione. Giusto per
avere un punto di appoggio per fare una doccia. La festa è iniziata al
Barrumba, un locale sul lungomare della cittadina romagnola. Mi avevano
vestita da Lara Croft, il personaggio immaginario protagonista della serie di
videogiochi Tomb Raider, da cui sono stati tratti film e fumetti. Avevo anche
una bandana sulla fronte con scritto «Sara Croft» e un cinturone porta pistole,
dove le pistole in realtà erano ad acqua e a forma di pene. Uno spettacolo,
uscire abbigliata così! Come per i motoscafi a Venezia, anche la cena è stata
divisa in due. Da una parte c’erano le più posate Marika e Melissa che
bevevano succo di frutta, dall’altra io, Gloria, Laura che andavamo a caraffe
di mojito. Coincidenza, al tavolo accanto al nostro si stava festeggiando un
addio al celibato. Tra uno gioco e un altro è scoppiato il delirio e ormai
stavamo tutti sui tavoli scalzi a ballare.
La serata è proseguita in un altro locale con l’esibizione di uno
spogliarellista, il cui coinvolgimento aveva generato un’altra discussione tra
le mie amiche. Tra chi diceva «Ma per Sara? Uno spogliarellista??? No!» e
chi invece «Sì facciamolo subito». In questo caso, stranamente, furono
proprio Melissa, Marika e Deborah a organizzare la sorpresa. È uscito sul
palco un ragazzo con i capelli lunghi, biondi completamente unto di olio.
Sono stata al gioco e abbiamo riso un sacco però, se proprio devo dirla tutta,
mi faceva pure un po’ ribrezzo.
Uscite da quella stanza, ci siamo spostate a ballare in discoteca, al Coconut,
praticamente fino alla chiusura. Mi è sempre piaciuto ballare e quella sera ci
siamo proprio scatenate. La mattina successiva, occhiali neri rigorosamente
abbassati, ci siamo recate in spiaggia verso l’ora di pranzo, dove abbiamo
continuato la festa con dei «giochi» sotto l’ombrellone.
Sul pulmino, durante il viaggio di ritorno da Rimini, ho ricevuto un sms.
Mi raccontava l’addio al celibato di Paolo. Mentre a Paolo non interessava
assolutamente niente di quello che potevamo aver combinato, io ero stata
molto chiara con lui e i suoi amici. Potevano andare a vedere tutti gli
spogliarelli del mondo però non volevo che durante la festa una donna lo
toccasse. Invece il contenuto del messaggio raccontava di una cena in un
ristorante nel quale le cameriere servivano ai tavoli completamente nude. Mi
sono infuriata.
«Non sei nella posizione di fare la morale a Paolo», hanno cercato di
calmarmi Marika e Melissa.
Lo capivo però mi faceva schifo solo l’idea che queste ragazze nude
l’avessero toccato. Non volevo più sposarmi. Il giorno dopo ho di nuovo
lasciato casa e sono andata a Venezia, da Gloria. Lei vive in una casa che ha
il molo per l’attracco dei motoscafi. Quando sono arrivata, l’ho salutata e poi
mi sono andata a sedere lì, da sola con i miei pensieri. Gloria ormai mi
conosce, è capitato spesso nel corso degli anni che andassi da lei a sfogare le
mie frustrazioni. Sa come trattarmi. Mi lascia lì a riflettere, tutto il tempo
necessario.
«Torno a casa, vado a sposarmi», le ho detto dopo aver sbollito la rabbia.
La sera prima del matrimonio, insieme alle mie testimoni di nozze, Marika
e Melissa ovviamente, abbiamo dormito nella mansarda dei miei genitori.
Avevo organizzato un pigiama party nella mia camera da letto di bambina,
proprio come facevamo quando eravamo piccole. La mia grande
preoccupazione erano diventate le previsioni meteorologiche. Per il giorno
successivo era prevista pioggia torrenziale.
Il 26 luglio del 2014, infatti, c’erano solo dodici gradi e ha piovuto tutto il
giorno. Esiste il detto: sposa bagnata, sposa fortunata. Io sarei stata
fortunatissima.
Come di consuetudine mi avrebbe accompagnata mio padre. Vestito con un
completo bianco e nero e un panama bianco in testa. Un figurino. Era al
volante di una corvette C2 Stingrai bianca cabrio del ‘64. Facevamo silenzio
in macchina, il tempo non era di certo dei migliori. A soli cento metri dalla
meta si è fermato di colpo nel parcheggio di un bar.
«Ho bisogno di prendere un cappuccino…» mi dice scendendo dalla
macchina.
A quel punto lo seguo anch’io. Entriamo nel bar e tutti i presenti si voltano
a guardarmi.
«Un cappuccino e...» chiede al barista e si ferma voltandosi verso di me.
«Papà, cosa vuoi che prenda? Se me lo rovesci addosso sei morto», gli ho
risposto.
«Sa, mia figlia si sposa oggi», dice rivolgendosi di nuovo al barista.
«Eh lo vedo!» gli conferma sorridendo lui.
Terminato di bere il cappuccino, cerco di mettergli fretta. Non volevo
arrivare troppo tardi alla cerimonia.
«Papà, ora possiamo andare?» gli ho chiesto.
Usciti dal bar, siamo risaliti in macchina. Stava per mettere in moto e
invece si volta verso di me, mi guarda fissa e mi dice: «Sara se non sei sicura
non c’è problema, tagliamo la corda anche adesso».
«Ma papà ti pare il momento?! No, andiamo. Sono solo preoccupata per la
pioggia», gli ho detto, rivolgendo uno sguardo timoroso verso il cielo coperto
da nuvole minacciose.
Alla fine siamo arrivati alla cerimonia senza troppo ritardo. Paolo era lì ad
aspettarmi insieme ai circa 240 invitati, per lo più amici. C’erano petali di
rosa bianchi ovunque proprio come me l’ero immaginato. A portare le fedi
all’altare è stato il cagnolino dei miei genitori, Ariel, una blu per Paolo e una
rossa per me, in plastica. I colori del karate.
Le condizioni meteo purtroppo ci hanno costretto ad avere una festa che è
stata l’esatto opposto di quella che avevo sognato e organizzato. Siamo stati
infatti costretti al chiuso anche se i nostri amici si sono scatenati comunque e
non hanno evitato di spingere gli invitati vestiti in piscina. Pioggia o non
pioggia, il party in piscina è stato fatto. Anche io ci sono finita dentro. Paolo
proprio in quell’occasione ha perso subito la sua fede. Sotto gli occhi scettici
di Marika e Melissa, le uniche a non fare il tuffo in piscina, rimaste in piedi
con indosso il loro trench, sotto lo stesso ombrello a guardarci. Non so dire se
fossero più divertite o perplesse.
Il ballo più emozionante della festa è stato forse quello con mia nonna
Maria, stretta tra me e Paolo che la sostenevamo tra le braccia perché la
malattia ormai cominciava ad avanzare e a impedirle di stare in piedi
autonomamente. Ha piovuto tutto il giorno e anche la sera, tanto che i
fotografi Domenico e Gabriele ci hanno dato appuntamento alla mattina
successiva per gli scatti ricordo. Ci siamo ritrovati all’alba sulla spiaggia di
Caorle, il momento migliore per la luce si sono giustificati loro, con gli abiti
ancora non completamente asciutti tra la pioggia e l’acqua della piscina.
Anche quel momento romantico per noi ce l’eravamo riusciti a ricavare.
Il viaggio di nozze, invece, lo abbiamo rimandato alle successive festività
natalizie. Il 2014 non aveva ancora esaurito le sue sorprese. Dopo aver vinto
il Campionato italiano e quello europeo, ed essermi sposata, finalmente è
arrivato l’arruolamento nell’arma. A dire il vero anche il corpo militare della
Polizia aveva dimostrato un qualche interesse alla mia persona. Però avrei
dovuto trasferirmi in caserma a Roma e allenarmi lì e così ho rifiutato. Ormai
avevo trovato il mio equilibrio e sapevo che i miei risultati erano molto legati
alla mia libertà, alla mia terra, alla palestra a Ponte di Piave insieme a Paolo e
a nonno Danilo. Una costrizione che invece l’Esercito non mi aveva richiesto.
L’allora colonnello Rodolfo Sganga, ora generale comandante della
Folgore, aveva notato ormai da anni le mie abilità e creduto nel mio
potenziale, tanto da segnalarmi come possibile prossimo arruolamento
nell’Esercito. Probabilmente senza il suo occhio esperto e la sua
lungimiranza, la mia carriera si sarebbe fermata di lì a poco.
Io e Paolo abbiamo incontrato il Capo Dipartimento agonistico del Centro
sportivo olimpico dell’Esercito, colui che ormai da molti anni seguiva gli
atleti potenzialmente olimpici dell’arma, al centro federale di Ostia in
occasione dell’ultimo Campionato italiano.
Gli arruolamenti nei diversi corpi militari di atleti provenienti dal karate
avevano subito una battuta d’arresto nel 2013 quando dal Cio era giunta la
notizia che la disciplina non avrebbe fatto parte del programma olimpico ai
Giochi di Rio de Janeiro nel 2016. Nel mio caso specifico, inoltre, avevo
incontrato un’altra difficoltà: il limite di 1,61 metri d’altezza in vigore per le
donne, eliminato proprio quell’anno a favore di un più coerente coefficiente
di rapporto peso-statura.
«Se noi ti arruoliamo adesso non è che ci fai solo una stagione e poi
smetti??» ci ha chiesto subito il Capo Dipartimento Agonistico.
Avevo ventisette anni allora, era una domanda lecita. Io e Paolo ci siamo
guardati e lui ha compreso da solo qual era il nostro obiettivo. Io volevo
diventare Campionessa del mondo.
Dopo qualche settimana è stato indetto il concorso pubblico per titoli per il
karate, categoria -55 kg. Ho fatto domanda e sono stata chiamata nella
caserma di Roma per fare le visite mediche di rito e i test psicologici che
hanno appurato che ero idonea a un contesto disciplinare come quello
richiesto dall’Esercito. Una commissione ha poi valutato i miei titoli e, per
punteggio, sono risultata vincitrice del concorso. Dopo circa un mese dalla
comunicazione, sono tornata nella caserma di Roma per la fase di
arruolamento. Sono state cinque giornate intense nelle quali, oltre a ritirare le
tute e le divise, ho potuto vivere davvero la vita in caserma. Mi piaceva
alzarmi la mattina per l’alzabandiera e imparare a marciare. In futuro vorrei
imparare ancora di più. È un mondo che mi ha sempre affascinato.
D’altronde, io ho fatto della disciplina e dell’autocontrollo una mia ragione di
vita.
Era il 29 settembre 2014. Eravamo tutti schierati sull’attenti di fronte al
comandante Dante Zampa che ha recitato con tono autorevole e solenne il
giuramento.
«Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana, di onorarne la costituzione
e le leggi e di adempiere con onore a tutti i doveri del mio stato per la difesa
della patria e la salvaguardia delle libere istituzioni».
Io, insieme a tutto lo schieramento, ho urlato la risposta, alzando il braccio
destro teso verso l’alto: «Lo giuro!»
Un brivido. E sono iniziate a risuonare le note dell’inno di Mameli.
L’ingresso nell’Esercito italiano è stato un passaggio fondamentale nella
mia carriera, significava che veramente ora potevo fare della mia passione la
mia professione. Significava avere una sicurezza alle spalle che avrei potuto
avere per tutta la vita.
D’un tratto tutta la mia esistenza si stava sistemando: la serenità per un
ritrovato equilibrio alimentare, il matrimonio con Paolo e l’arruolamento
nell’Esercito.
Dopo pochi mesi, a novembre, si sarebbero tenuti i Campionati del mondo
a Brema, Germania. In camera, al centro olimpico di Ostia, mi confidavo e
parlavo spesso del mondiale con Greta. Lei non è mai stata un’atleta
spettacolare però ha sempre avuto una gran testa e un ottimo occhio tattico,
perciò cercavo di capire.
«Hai vinto il Campionato del mondo utilizzando una sola tecnica, un pugno
tirato solo con un braccio e sempre nella medesima situazione. Ma come ci
sei riuscita?» continuavo a chiederle. Volevo con tutta me stessa conquistare
anch’io quel titolo.
«Non saprei davvero», mi rispondeva sempre ridendo Greta. Poi si faceva
seria e aggiungeva: «Però so che devi vivere e stare bene con te stessa per
poter andare a vincere quel titolo».
Parola d’ordine: serenità. Credo avesse ragione.
So di essere sempre stata un’atleta molto dotata però, se sono diventata
quello che sono, è soprattutto perché ho saputo imparare tanto dagli altri. Una
collega che mi ha dato tanto è stata proprio Greta. Ritrovarci compagne di
stanza è stata una delle fortune più grandi che io abbia avuto. Una persona
vera, sincera e leale. Una campionessa. Inizialmente eravamo molto diverse:
io molto rigorosa e precisa nel rispettare gli ordini, impeccabile con
l’alimentazione e col sonno e lei che appena finiva l’allenamento scappava
sempre dal centro olimpico, andava in spiaggia a prendere il sole e beveva
una coca cola, talvolta mangiava pure un panino del McDonald’s.
«Sara, vieni in spiaggia? Vieni a mangiare un gelato?» Greta sapeva come
tentarmi però non ci era permesso uscire dal centro.
«No, grazie, preferisco riposare. E se poi il Guru si accorge che andiamo al
mare?» le chiedevo.
La terza volta che me lo ha chiesto, però, non ho resistito e sono scesa con
lei in spiaggia.
Ci trattenevamo un’oretta, massimo due, poi un gelato e via in palestra. Più
la seguivo e più mi rendevo conto che mi serviva proprio per staccare il
cervello dagli allenamenti. Negli anni infatti ho imparato che è sempre
sbagliato rinunciare a tutto per raggiungere un obiettivo. Rinchiudermi nel
mio tunnel di rigore e stakanovismo non migliora di certo le mie prestazioni
in gara. Solo due parole erano utili: equilibrio e serenità.
Memorabili sono state le nostre trasferte a Las Vegas. Il programma dei
tecnici era semplice: non uscire dalle suite, non recarsi in piscina, non andare
in giro a fare le turiste per la città. Detto e fatto. Siamo entrate nella nostra
suite e ci siamo ritrovate con un soffitto disegnato come se fosse il cielo.
Dopo qualche secondo, nel quale ci siamo riprese dallo sbalordimento, Greta
ha lanciato la proposta.
«Andiamo a vedere dove si trova la piscina?» mi ha suggerito entusiasta.
Come dirle di no?
Dopo pranzo, invece di tornare in camera a riposare, uscivamo di nascosto
e facevamo lunghe passeggiate in giro per i viali di questa città tra il
fantastico, il lusso e il fantasmagorico. Rientravamo in hotel solo pochi
minuti prima dell’allenamento pomeridiano, stando ben attente a non farci
scoprire. Così abbiamo avuto modo di ammirare lo spettacolo della fontana
dell’hotel Bellagio, il palazzo delle M&M e della Coca-Cola. Mi sono presa
anche un bello spavento quando la statua umana di Elvis Presley mi ha urlato
nelle orecchie le prime note della canzone I want you, I need you, I love you.
Abbiamo giocato alle slot machine vincendo trenta dollari ciascuna. A dire
il vero, io sono riuscita a fare di meglio alla roulette: ho vinto addirittura
duecento dollari. Quando però siamo arrivate in aeroporto per fare rientro in
Italia, una mia compagna di squadra aveva dimenticato nella cassaforte
dell’hotel i soldi che le aveva dato il padre.
«E adesso chi glielo dice?» piangeva disperata.
Non ho resistito e le ho regalato i duecento dollari della vincita al casinò.
Come a Las Vegas, abbiamo fatto decine di trasferte divertenti anche a
Istanbul, con le fughe al Gran Bazar, a Toledo, e la riunione nella stanza delle
armature, e a Rabat, con le sue spiagge e i mercati.
Ne abbiamo vissute e combinate di tutti i colori. Tra mille gare e
allenamenti estenuanti, noi siamo sempre riuscite a ricavarci i nostri spazi per
uscire un attimo dal tunnel e vivere bene anche le nostre giornate nel mondo.
Alla fine potevano dire quello che volevano. Una camera con così tanti titoli
come la 209 non si era mai vista. Avevamo due soprannomi: io ero Psycho e
lei Kung Fu Panda.
Così dopo l’oro all’Europeo, il matrimonio e l’arruolamento è arrivato il
momento del Campionato del mondo 2014 a Brema, in Germania. Il giorno
prima della partenza, mia madre era più tesa di me quando mi ha fatto il suo
in bocca al lupo.
«Dai Sara, portaci a casa un’altra medaglia mondiale!» è stato il suo
augurio.
«Mamma, non mi interessa arrivare seconda. Io voglio vincere il
mondiale», le ho risposto guardandola dritta negli occhi. Ricordo ancora oggi
il suo sguardo. Lo sperava tanto, ma davvero tanto per me. Me lo sentiva
ripetere da quando, piccolina, correvo intorno al tavolo della cucina con la
spada di legno in mano, urlando: «Campioni del mondo, campioni del
mondo». Sapeva che quello era il mio sogno e non riusciva a contenere le
emozioni miste a preoccupazione, tensione, emozione e paura. Io, invece, non
avevo più paura.
Arrivati in Germania, il giorno delle eliminatorie, mentre ci stavamo
recando al palazzetto dello sport, mi sono accorta che a Claudio sudavano le
mani. Io lo guardavo senza proferire parola. Era teso. Non riusciva a
comprendere se il mio silenzio rappresentasse un buon segno o meno.
«Dai Clà che vinciamo», gli ho detto prima di salire sul tatami. E si è
tranquillizzato. Nel primo incontro ho superato l’ucraina Melnyk (10-0), poi
è stata la volta della greca Pappa (6-0), della macedone Zaborska (1-0), della
coreana Ahn Tae (2-0) e, in semifinale, la temibile tedesca Bitsch (4-0).
Come sempre sugli spalti c’era tutta la mia curva di amici e tifosi con
bandiere, trombe e prosecchi. Si erano posizionati giusto sopra il tatami sul
quale avrei gareggiato io e ad ogni punto che mettevo a segno saltavano in
piedi e urlavano, insieme alle mie esultanze e a quelle di Claudio.
Stranamente in quel mondiale, oltre a tirare calci e pugni, avevo iniziato a
proiettare. Le avevo sdraiate tutte, come si dice in gergo. Ed ero in finale.
«Con calma Claudio che non è ancora finita», ho detto al mio allenatore al
termine della giornata.
Nella prima giornata, il Guru non si era palesato né in sala riscaldamento
né in tribuna ad assistere agli incontri. Lo ha fatto, invece, alla vigilia della
finale. Ad accorgersi che girava nei corridoi per darmi i suoi consigli su come
affrontare l’incontro più importante della mia carriera è stata Greta che aveva
il naso rotto e mi teneva d’occhio da lontano.
«Sara, sta arrivando il Guru, spostati, torna dalla tua colonna laggiù in
fondo», mi ha detto correndomi incontro.
Dopo pochi secondi ho sentito la voce inconfondibile del Guru.
«Vitelli, dov’è Cardin?» ha chiesto a Greta.
«Mi dispiace, non l’ho vista. La sta cercando? Se la incontro glielo dico,
stia tranquillo», gli ha risposto Greta. E il Guru si è allontanato. In quel
momento, non avevo proprio bisogno dei consigli di nessuno.
Avevo finito il riscaldamento, ero pronta per la finale contro la forte
francese Emily Thouy, quando Claudio mi ha reso l’incoraggiamento che io
avevo dato a lui il giorno delle eliminatorie.
«Dai Sa, è l’ultimo», mi ha detto, dandomi una pacca sulla spalla.
«Dobbiamo vincere», gli ho risposto.
Poco dopo ho sentito la musica di là, nel parterre, che si alzava
all’improvviso e il pubblico che cominciava a surriscaldarsi.
«Final -55 kg… From Italy… Sara Cardin!» ha urlato lo speaker. Era il
momento di entrare.
Mi sono voltata un attimo verso Claudio e, con una calma che credo di non
aver mai avuto nella mia vita, gli ho chiesto: «Sei pronto?»
«Sì, io lo sono. E tu?» mi ha risposto.
«Tranquillo», gli ho detto. Solo una parola.
E così è stato. Siamo entrati nel parterre camminando lentamente, io
davanti e lui dietro, con le luci dei fari e delle televisioni puntate addosso fino
all’arrivo sul tatami. Per le finali, come in altre occasioni, il tatami era
rialzato tipo un ring di pugilato. C’erano 18.000 spettatori che urlavano e
tifavano dagli spalti. Claudio mi ha dato il «dieci» con le mani e si è
posizionato sulla sua sedia. Io ho salito quei tre scalini e sono arrivata fino al
bordo del tatami. Ho abbassato gli occhi. Avevo lo scudetto cucito sul petto,
rappresentavo l’Italia intera e tutta la mia storia. Ho stretto la coda. Quello
era il mio momento.
Ho guardato dritta negli occhi la francese Emily. Quella, anche per lei, era
l’occasione della vita. Però io non avevo più paura. Mi sono detta: «Sara,
quante ne hai passate. Prenditi solo ciò che ti spetta». In quel momento, dagli
spalti, in un momento di silenzio, è giunta a me la voce di mio nonno.
«Dai Sara che l’è ora!!!» mi ha urlato.
Poi è iniziato l’incontro. Solo due minuti. Una vita intera per esprimersi al
meglio in due soli minuti. Non volevo essere la Sara della finale mondiale del
2010, che non voleva rischiare. Qui volevo tirar fuori tutta me stessa fin da
subito. Così ho iniziato a pressare la mia avversaria costringendola fino
all’angolo e in una iterazione ho messo a segno un calcio basso. 2-0 per me.
Ero in vantaggio, in vantaggio di due punti.
Una vocina destabilizzante si è insinuata nella mia testa. «Stai vincendo il
mondiale, stai vincendo il mondiale». Quella voce che non dovremmo mai
ascoltare. Infatti la francese, poco dopo, ha accorciato le distanze. 2-1 per me.
«Stavo veramente vincendo il mondiale?» quei pensieri maledetti.
«Sara manca ancora un minuto! Combatti!» mi ha urlato Claudio.
Il consiglio forse più semplice e più utile in assoluto in quella situazione.
Sono tornata in me e ho recuperato la lucidità.
«Sara devi fare un altro punto», mi sono detta.
E l’ho fatto. 3-1 per me. Ormai mancava poco, mancava veramente poco. I
secondi scorrevano sul tabellone, la francese era in preda ad attacchi
disperati. Le hanno dato un altro punto, 3-2, ma l’incontro ormai era mio. Mi
ha attaccata di nuovo, io l’ho proiettata a terra e ho sentito il tipico suono
della fine dell’incontro.
Mi sono messa subito in joy, a piedi paralleli e pugni chiusi in avanti
aspettando che la francese si rialzasse e si mettesse in piedi di fronte a me.
Guardavo il tabellone, guardavo il colore della mia cintura, il tempo era finito
veramente. Sono stati attimi brevissimi che ho vissuto come se fossero eterni.
Poi, finalmente, l’arbitro centrale ha alzato il braccio decretando la mia
vittoria.
Ero io. Sì, ero proprio io. Ero diventata campionessa del mondo. Avevo
vinto il Mondiale. Ero la più forte del mondo.
Sono iniziate a scendermi le lacrime sulle guance, le gambe mi tremavano
e mi sono inginocchiata davanti alla mia avversaria. Una valanga di emozioni
mi ha travolto. Un flashback continuo di ricordi della mia vita mi stavano
passando davanti agli occhi. Ho abbracciato Emily e poi mi sono voltata
verso la mia curva di amici, verso il nonno e Paolo. Ho alzato un braccio con
il pugno chiuso, come a ringraziare tutti per avermi aiutata a realizzare quel
sogno.
Era il 9 novembre 2014. A ventisette anni, vent’anni dopo aver messo per
la prima volta piede in una palestra di karate, avevo coronato il mio sogno:
Sara Cardin, World Karate Champion.
Il podio. La medaglia d’oro. L’inno italiano cantato a squarciagola dal
pubblico. E le lacrime. Per una vita avevo immaginato quel momento: mi
vedevo fare un salto mortale e invece, nella realtà, sono stata sopraffatta dalle
emozioni. Però non sono stata l’unica a piangere. Ho visto tanti volti rigati
dalle lacrime: Claudio, Paolo, nonno, papà, Greta e tutti quelli che
conoscevano un po’ il mio percorso e ora forse con questo libro lo
conosceranno ancora meglio.
Quel giorno posso dire di aver messo un punto importante nella mia storia.
«Non sono debole. Sono la più forte del mondo». Come aveva fatto quella
bambina che girava attorno al tavolo di casa, con una spada di legno in mano,
urlando «Campioni del mondo! Campioni del mondo!» a realizzare davvero
il suo sogno? Una bambina nata e cresciuta in un piccolo paesino di
provincia, circondata solo da vigneti e campi di asparagi. Una bambina con
dei sogni da guerriera, e con un vissuto e con paure più grandi di lei. Veloce e
determinata, ma anche emotiva e fragile. Ne aveva passate tante nella sua vita
in un continuo intreccio tra vita personale e sportiva; talvolta l’una
sorreggeva e spronava l’altra, talvolta era il contrario. Come aveva fatto
quella bambina a non perdere la capacità di sognare? Come aveva fatto quella
ragazzina a trovare un suo equilibrio e quella donna a volersi bene?
Io credo serva tanto coraggio per combattere nella vita e più accettiamo di
combattere, più impariamo a farlo, più diventiamo forti e più impariamo a
conoscerci e amarci. Nessuno nasce mai campione, c’è sempre una storia
dietro. Nessuno vince mai da solo. Per poche che siano, ci sono sempre delle
persone straordinarie che ci aiutano a farlo. Per tutti questi motivi «vincere» a
volte credo sia una scelta. Scegliere di continuare a vedere la bellezza nel
mondo, scegliere il bicchiere mezzo pieno, scegliere le persone al nostro
fianco, scegliere i sogni e la felicità, scegliere di non mollare mai e
combattere per sé stessi e per i propri valori.
Quando sono tornata in hotel, è squillato il mio cellulare. Era una
giornalista della Rai. Voleva che le inviassi un video da mandare al
telegiornale della sera. Ho guardato Greta esterrefatta.
«Greta, la Rai vuole un video di due minuti in cui racconto la finale?» le ho
detto.
Greta ha spalancato gli occhi e non si è persa d’animo. Ha preso in mano il
tablet e abbiamo iniziato a cercare l’inquadratura che offrisse la luce
migliore. Era un mondo completamente nuovo per me.
Al ritorno a casa, a Ponte di Piave, mio padre ha organizzato la migliore
festa della sua vita. L’ha fatta nel capannone dove tiene i suoi attrezzi per
andare a lavorare in campagna. Dalla finestra del fienile ha fatto in modo che
venisse giù uno scivolo altissimo dal quale scendevano i boccali di birra che
scorrevano poi su un tavolo e dovevano essere afferrati al volo, altrimenti
finivano in una vasca piena d’acqua. È stata una serata davvero memorabile.
D’altronde sua figlia aveva vinto il titolo mondiale da caporalmaggiore
dell’Esercito Italiano.
Il successo
«È la più forte del mondo, Sara Cardin, ventisette anni, ha vinto i mondiali di
karate in Germania». Rai 1, telegiornale delle 20.30.
«È la nuova campionessa del mondo di karate, Sara Cardin, simpatica e
sorridente, un personaggio sul quale lo sport italiano conta molto». Canale 5,
TG5.
«Non fatevi ingannare dai suoi occhi azzurri, lei Sara Cardin è la nuova
campionessa del mondo di karate». Rai 3, Tg3.
«La forza e la grazia quelle che hanno portato Sara Cardin sul tetto del
mondo». Italia 1, Studio Sport.
«Tacchi a spillo e viso angelico, ma se vuole, lei, Sara Cardin, con un
colpo vi può mettere a tappeto». Rai 2.
«L’Italia sale sul gradino più alto del podio. Lei, Sara Cardin è la più forte
del mondo…» Sky Sport 24.
«Soldato, campionessa, neo sposa vi facciamo conoscere un’atleta simbolo
dell’Italia che vince nel 2014». Rai 2, Costume e Società.
«Eleganza e talento mondiale, parliamo di Sara Cardin, giovane trevigiana
di ventisette anni, caporale dell’Esercito italiano, è campionessa del mondo di
karate». Rai 2, Dribbling.
«Veloci al trucco e parrucco che tra poco siamo in onda». Sento una voce
che parla. È la regia di Studio Aperto, il telegiornale che va in onda su Italia
Uno.
«In diretta dove? Quali sono le domande?» ho risposto guardandomi
intorno.
«Tieni il colletto della tuta dell’Esercito giù, stai seduta più composta
possibile. Ricordati di ringraziare l’Esercito italiano e di nominare il Centro
sportivo olimpico dell’Esercito e la Fijlkam, con il presidente Falcone
ovviamente, unica federazione italiana riconosciuta dal Coni,» mi sentivo
ripetere dagli addetti stampa al mio seguito.
«Sì, però le domande quali sono?» ho chiesto per la seconda volta.
«Tre, due, uno, siamo in diretta», ha detto la medesima voce di prima. La
regia.
Come può cambiare tutta la vita in un giorno. Da non essere «nessuno» a
ritrovarmi microfonata con cinque telecamere puntate addosso e tutta l’Italia
che mi guarda dal salotto di casa. Era un mondo completamente nuovo per
me, ma anche per tutto il karate italiano. Non c’era mai stata così tanta
attenzione mediatica per la nostra arte marziale. Mi sentivo tesa, inesperta
però al tempo stesso orgogliosa e con la responsabilità di rappresentare al
meglio il karate e l’Esercito italiano.
«Dobbiamo trovare un’agenzia che ci aiuti nella gestione della tua figura
pubblica di atleta», ha suggerito Paolo.
Così ci siamo messi a fare una ricerca delle agenzie specializzate nella cura
e promozione dell’immagine degli atleti su internet. Lì abbiamo trovato
Dmtc, un’agenzia nata dall’intraprendenza di Marco del Checcolo che
lavorava già con diverse atlete, a cominciare dalla «divina» Federica
Pellegrini. Con loro che filtravano le numerose richieste che arrivavano e ne
procuravano di nuove, le mie giornate e quelle di Paolo sono iniziate a
diventare più semplici.
Nel frattempo, fortunatamente, è arrivato Natale. Io e Paolo siamo scappati
a Cuba per due settimane a recuperare il nostro viaggio di nozze. Niente di
programmato, avevamo preso solo il volo. Poi una volta arrivati all’Havana ci
siamo spostati con un taxi fino a Playa dell’Este e lì abbiamo cercato una
«casa particular» carina e tranquilla, vicino al mare.
Sole, spiaggia, musica, aragoste, sigari e rum sono da sempre il paradiso di
Paolo. Da qui è iniziato il nostro spartirci le vacanze, anno dopo anno: un
anno sceglie lui la località e non c’è nessuna sorpresa tanto si va sicuramente
a Cuba, l’anno successivo tocca a me e lo porto nei posti più disparati. Da
Bangkok a mangiare i noodles, simili ai nostri spaghetti ma fatti con acqua e
farina, sul marciapiede della strada, a Cortina d’Ampezzo tra glitter party e
snowboard, da Phuket, isola della Thailandia, a fare il bagno con gli elefanti
nelle pozze melmose, ai templi giapponesi e noi vestiti da geisha e sultano.
Al ritorno da Cuba, mi sono rimboccata le maniche e sono tornata ai miei
allenamenti e a quel vortice mediatico al quale piano piano mi stavo
abituando.
«Sii sempre te stessa Sara. Non ti lasciar cambiare da quel mondo», mi ha
suggerito Silvia Lattanzio di Dmtc.
Credo avesse particolarmente ragione. Il mio personaggio piaceva molto in
televisione, forse proprio per la mia spontaneità. Non c’è mai stato nulla di
costruito e non dovevo recitare nessuna parte, cercavo solo di giocare sempre
più con le telecamere rimanendo sempre e soltanto Sara, la ragazza nata in un
paesino di campagna che era riuscita a vincere il Campionato del mondo.
L’improvvisa notorietà mi ha portata, ben presto, a raggiungere il tetto
massimo dei 5.000 follower su Facebook. Da qui la necessità di aprire una
pagina atleta certificata. Sono arrivati anche i primi sponsor: Emilio Appiana
e Adidas, materiale tecnico di karate, e Alessandro Sette con LiS – Lavoro in
Sicurezza. Sono stati i primi a credere in me e a investire sulla mia figura. A
qualsiasi gara o evento partecipassi l’indomani ero già sui giornali locali; in
primis «La Tribuna di Treviso» per la quale scrive Marino Silvestri, un
giornalista che mi ha sempre seguita fin da ragazzina. Poi c’erano «La
Gazzetta dello Sport», il «Corriere dello Sport», «Tuttosport» e tutti quei
magazine, riviste più life style, incuriositi dalla mia figura estremamente
femminile e al tempo stesso guerriera: da «Sportweek» a «Visto», da «Chi» a
«Donna Moderna» e «Ok Salute». Avevo deciso di fare qualcosa per il
sociale e appoggiare quelle associazioni nelle quali credevo particolarmente,
come Fare x Bene Onlus, contro la violenza sulle donne e qualsiasi tipo di
discriminazione sociale, ma poi anche la Fondazione Veronesi e la Lilt.
L’anno successivo, a marzo, si sarebbero tenuti nuovamente gli Europei, a
Istanbul. Mi sono allenata tantissimo. D’altronde mi presentavo da
campionessa mondiale, europea e prima nel ranking. Giravano video dei miei
combattimenti ovunque e le aspettative erano alte, sia le mie sia quelle della
federazione e dell’Esercito. Mi sembrava di essere ritornata a dopo quel mio
2010 strepitoso. Ero ancora una volta l’atleta da battere.
È stata una delle mie gare più veloci. Fuori al primo incontro.
Mi era mancata la libertà, quella libertà di esprimersi che nel
combattimento è fondamentale, quella spensieratezza che ti fa combattere a
cuor leggero, quella serenità che ti mette in contatto con te stesso e ti fa
sentire il tuo avversario. Io non sentivo me né tanto meno la mia avversaria.
Mi sentivo come una Ferrari che voleva correre con mille freni tirati. Ho
compreso molti insegnamenti importanti da quella sconfitta: dovevo imparare
a gestire le aspettative, dovevo rimanere me stessa e continuare a divertirmi
nel combattere e, non ultimo, dovevo cambiare qualcosa di tecnico e tattico
nel mio karate perché ormai mi aveva studiata il mondo intero, tecnici,
allenatori e atlete.
Avevo perso, però avevo anche capito il motivo della sconfitta. Dovevamo
ripartire da lì.
«Andiamo in Croazia a fare un camp estivo?» ha proposto Paolo. «Ci sono
diverse campionesse straniere e insegna un tecnico spagnolo».
Non serviva rifletterci molto, era proprio quello che mi serviva. Nuovi
stimoli, nuove idee, nuovi contesti. Così a maggio, a Opatija, ho partecipato
al Female international training camp diretto da Juan Luis, un tecnico
spagnolo molto conosciuto. Mi aveva invitato proprio la mia avversaria di
sempre, Jelena Kovacevic, campionessa croata ormai al termine della sua
carriera. Una volta lì mi sono allenata anche con le austriache Betty Plank
(-50 kg.) e Alicia Buchinger (-68 kg.), la svizzera Elena Quirici (-68 kg.),
Alessandra Hasani, italo-croata (-55 kg), l’ecuadoriana Jacqueline Factos (-61
kg) e tantissime altre campionesse provenienti da tutta Europa e dal resto del
mondo.
Dopo un’iniziale diffidenza, ha preso il via un vero e proprio interscambio
di modi e visioni di intendere tecnicamente e tatticamente il karate.
Venivamo tutte da scuole molto diverse tra di loro però ognuna aveva
l’umiltà e la voglia di imparare dall’altra. Ci siamo spogliate, per una
settimana, di tutti i nostri titoli e ci siamo allenate seriamente, sempre con il
sorriso. D’altronde il tecnico spagnolo Juan Luis aveva contribuito in prima
persona a creare un clima di gioco e passione per lo sport.
«Good Sara! Good! Vamos!» mi diceva sempre con entusiasmo un po’ in
inglese, un po’ in spagnolo.
Greta, la mia compagna di stanza, mi ha sempre presa in giro per il mio
rapporto con la lingua anglosassone. Il mio libro di inglese aveva ormai fatto
il giro del mondo perché non mancava mai sul mio comodino. Peccato che è
sempre rimasto chiuso in tutte le trasferte.
«Ti prego, non aprirlo che magari porta sfortuna!» era arrivata a dirmi
Greta.
In quella settimana a Opatija, invece, ho dato libero sfogo a tutto il mio
inglese. Mattina, pranzo e cena very fluently.
Al ritorno dal camp ci sarebbe stata la prima edizione dei Giochi europei a
Baku. Io ero ancora la prima del ranking ma la qualificazione era stata
determinata esclusivamente sulla base dei risultati dell’ultimo Europeo,
quello di Istanbul per l’appunto, al quale non avevo proprio centrato la
medaglia. Ero un po’ amareggiata dalla situazione però, come a volte dicono
gli anziani del paese, «a volte si chiude una porta e si apre un portone». E
così è stato infatti. Quell’anno per la prima volta le gare di karate sarebbero
state trasmesse da Sky e il direttore Giovanni Bruno mi ha voluta come
commentatrice insieme a Ivano Pasqualino, giornalista di Sky Sport. Ho
ripassato tutti i regolamenti a memoria, ho ascoltato le telecronache dei più
famosi telecronisti, ho preparato una scheda dati per ciascun atleta
qualificato. Da quando ho indossato le cuffie è andato tutto alla grande. Mi
sentivo disinvolta, spigliata e, soprattutto, mi divertivo.
«Ottimo lavoro ragazzi! Mi raccomando continuate a spiegare
continuamente al pubblico i vari punteggi. Gli ascolti stanno andando molto
bene, daremo ancora più spazio al karate!» ci ha detto il direttore di Sky al
termine della prima giornata di telecronache.
Il morale era alle stelle ed è continuato a salire grazie anche alle tre
splendide medaglie d’argento di Busà, Busato e Maresca.
Baku non era una gara qualsiasi, erano i Giochi europei e già il nome ci
riportava tutti con il pensiero ai Giochi olimpici dei quali il karate ancora non
faceva parte. Quell’anno infatti c’è stata l’edizione di Rio 2016 e ancora una
volta il karate aspettava in panchina che arrivasse il suo turno. Però si
cominciava a sentire che qualcosa stesse cambiando.
Il nuovo slancio energetico che mi aveva trasferito l’esperienza lavorativa
in Sky e il nuovo sogno che forse, un giorno, ci sarebbe stata anche
l’Olimpiade, mi ha fatto ricominciare più determinata che mai con i miei
allenamenti.
«Ciao Sara, sono Victoria. Ti va di venire a fare una garetta in Slovacchia?
Saremo in poche, mal che vada facciamo un incontro io e te», mi ha chiesto
telefonicamente, e in inglese, la mia avversaria slovacca con la quale avevo
fatto la finale europea nel 2007.
Perché no? Mi sembrava una buona idea ripartire da una gara sconosciuta,
lontana dai riflettori e dalla pressione. Quale posto migliore se non dalla mia
amica Victoria, compagna non solo di tante gare ma soprattutto anche di tante
feste e party post-gara? Avevo bisogno di ritrovare il piacere e la gioia nel
combattere, la voglia di mettermi in gioco solo per me stessa e non per tutto
un sistema.
Ho vinto. Due incontri semplici e la finale con Victoria.
«Sei la mia bestia nera!» mi ha detto lei a fine gara.
«Sul tatami è andata così. Vediamo se le italiane sono all’altezza delle
slovacche pure la sera», mi ha poi sfidata.
Ovviamente non potevo tirarmi indietro. Sapevo che con un’amica pazza e
simpatica così avrei passato una bella serata. Ho portato fuori a cena con noi
anche gli altri ragazzi della mia palestra. Ristorante tipico di Bratislava,
menù: birra, ginocchio di maiale e gnocchetti.
«Ma scusa non bevi la birra tu?» mi ha chiesto stupefatta Victoria.
«No, non bevo né birra né vino rosso, mi piace solo il rum». Non l’avessi
mai detto.
«Perfetto! Pasteggiamo con il Captain Morgan. Captain Morgan please!»
ha ordinato al cameriere.
Eravamo una grande tavolata con tanti slovacchi di primo piano come il
campione di qualche anno prima Claudio Farmadin e invece arrivavano
boccali da un litro di birra e chupitos di Captain Morgan. Tante sono state le
risate. Più mie che sue. Lei, in questa specialità, era davvero più allenata. Poi
ci siamo spostate per le vie della città e abbiamo trascorso la notte in due
locali a ballare fino al mattino.
Quando il pubblico pensa a noi atleti, ci immagina sempre rigorosi, precisi
e senza sgarri 365 giorni all’anno. Invece siamo persone, e soprattutto
ragazzi, che sopportano grandi sacrifici e tensioni per fare quel che facciamo
e ogni tanto rompere le regole, sentirsi liberi per una sera, ballare e bere i
nostri cocktail ci solleva dei tanti pesi e delle frustrazioni che il
professionismo ci fa vivere ogni giorno.
La mattina seguente, a dire la verità più il pomeriggio che la mattina, ci
siamo salutati e siamo ripartiti in macchina dalla Slovacchia per tornare in
Italia. Ero felice, ero tornata a gareggiare serena, avevo vinto e avevo
ritrovato le mie conferme.
Dopo qualche mese, infatti, mi sono presentata all’Europeo 2016 a
Montpellier molto più alleggerita rispetto all’anno precedente. Quattro
incontri quasi perfetti nelle eliminatorie e poi la vittoria all’ultimo secondo in
finale contro la forte atleta ucraina Angelika Terliuga. Medaglia d’oro.
«Be’, magari se la prossima volta lo risolvi un po’ prima l’incontro è
meglio», mi ha suggerito Claudio appena scesa dal tatami.
«Certo che ti piace l’ultimo secondo! Ogni volta al cardiopalmo! Una volta
o l’altra mi farai morire», ha aggiunto Paolo.
Ero di nuovo campionessa europea, per la quarta volta, e sul sito della
federazione mondiale è uscito un articolo intitolato Sara Cardin. The Queen
of -55 kg. Mi ha fatto molto sorridere ripensando alla domanda del Guru di
qualche tempo prima: «Vuoi essere la principessa dei -55 kg o la regina dei
-50 kg?» Avevo vinto, un’altra volta. Punto.
Non ho fatto nemmeno in tempo a rientrare a casa che sono stata convocata
dall’Esercito italiano a Washington. Ho tolto la tuta dell’Italia e ho indossato
l’uniforme militare, la drop con tanto di cravatta, berretto e mostrine. Sono
andata al ricevimento con l’ambasciatore, con la medaglia europea appena
conquistata ancora in tasca e ho cercato di capire al meglio quale sarebbe
stato esattamente il mio compito lì a Washington. L’occasione erano gli
European Embassy Open House, una giornata nella quale tutte le ambasciate
venivano aperte al pubblico e ciascuno mostrava le eccellenze della propria
nazione. In quella italiana c’erano rappresentanti di marchi come Barilla,
Beretta, Ducati, l’astronauta Roberto Vittori appena rientrato dallo spazio e
poi Sara Cardin che avrebbe fatto delle dimostrazioni di karate e coinvolto il
pubblico americano per fargli imparare qualche tecnica di karate. Il momento
più difficile però è stato fare un’esposizione in lingua inglese della mia vita e
del karate a una platea di diplomatici, responsabili militari e ambasciatori
provenienti un po’ da tutto il mondo. Ormai avevo imparato a gestire lo stress
nelle situazioni più imprevedibili e anche quella presentazione è andata alla
grande. Un aneddoto simpatico: al ricevimento nella residenza diplomatica
dell’allora colonnello Rodolfo Sganga, addetto militare presso l’ambasciata
di Washington, l’attaché giapponese ha scelto di arrivare con karategi e
cintura nera sopra l’abito da sera. Mi ha fatto veramente piacere.
Terminati gli impegni istituzionali, io e Paolo abbiamo approfittato di
quella trasferta per spostarci tre giorni a New York, la Grande Mela, che da
sempre avevo desiderato visitare. È davvero come me l’ero immaginata:
grattaceli, cartelloni pubblicitari enormi, luci e quel frenetico via vai
multietnico di gente a piedi, in skateboard e nei tipici taxi gialli. In ogni
angolo della città mi sembrava di essere dentro a un film. Perciò, con il mio
Frappuccino di Starbucks in mano e la piantina della città sempre aperta,
sono partita alla scoperta di New York.
«Stai pensando di farmi morire?» mi ha chiesto Paolo, ridendo.
Effettivamente avevamo solo tre giorni e io volevo vedere tutto della
Grande mela. A piedi. Solo di fronte alla bellezza e al romanticismo di
Central Park ho deciso di fermarmi qualche ora sdraiata su una rupe
all’ombra degli alberi dietro i quali si ergono imponenti i grattaceli
newyorkesi. Per il resto abbiamo camminato tanto, davvero tanto. Dalla Fifth
Avenue, a Time Square e giù fino a Ground Zero e alla Statua della Libertà.
Il ponte di Brooklyn, straordinario! Lo abbiamo attraversato tutto a piedi,
1.825 metri, e al ritorno abbiamo invece camminato lungo il Manhattan
Bridge, a fianco, perché volevo scattare una foto al ponte di Brooklyn al
tramonto. Era stupendo.
«Senti, Sara, ora prendiamo un taxi», mi ha proposto Paolo mentre aveva
già un piede dentro a un’inconfondibile automobile gialla.
Il taxi è partito e, dopo due secondi, io e Paolo siamo crollati addormentati
sul sedile posteriore. Un’ora di sonno. Poi abbiamo aperto gli occhi.
«Va benissimo qui, grazie!» ha detto, ridendo, Paolo al taxista.
Abbiamo pagato la nostra ora di riposo nel traffico di New York e siamo
ripartiti a piedi. Tre giorni stancanti ma indimenticabili.
Erano trascorse due settimane dalla mia vittoria del titolo europeo di
Montpellier. Era tempo di rimettersi sotto seriamente con gli allenamenti. Ho
preso la mia macchina e siamo andati nella palestra del Guru. Aveva infatti
chiamato Paolo e gli aveva detto che doveva darci il programma della
preparazione atletica per l’estate. Ho trovato tutti i tecnici del nord Italia alle
prese con un aggiornamento, una buona occasione per ascoltare ancora una
volta il Guru e capire se aveva qualche idea interessante per la mia
preparazione.
«No, no, no. Fai schifo! Nessuno te l’ha mai detto che fai schifo!» mi ha
detto più volte durante l’allenamento di fronte a tutti i tecnici e a Paolo che lo
guardava incredulo.
Eravamo abituati da tempo a certe sue esternazioni un po’ dirette, non certo
dopo neanche due settimane dal mio oro europeo, l’unico oro tra l’altro di
tutta la spedizione italiana. Non mi aspettavo un trattamento del genere,
soprattutto con tutti quei tecnici presenti. Gli applausi non sarebbero stati nel
suo stile però così mi sembrava davvero troppo. Dopo tutto infatti io ero
ancora lì da lui perché ho sempre creduto in lui e ne ho sempre avuto grande
stima e rispetto.
«Sembra che il karate parteciperà alla Olimpiadi di Tokyo 2020», diceva
rivolgendosi a tutti i tecnici. «Ma ci andranno le nuove generazioni, non di
certo le atlete di venticinque, trent’anni come lei», ha affermato indicandomi.
Ci sono rimasta malissimo. Avevo deciso: basta. Non volevo più lavorare
con una persona così. Non mi interessavano più la sua cultura, la sua
conoscenza e le sue ricerche. Mi aveva cresciuta, è vero, però mi aveva anche
fatto più male che altro. Ho messo il punto. Così, molto educatamente, a metà
lezione mi sono alzata dalla materassina, mi sono avvicinata a lui e, davanti a
tutti, gli ho stretto la mano.
«Per me basta così», gli ho detto guardandolo negli occhi, «la ringrazio
professore». Ho girato le spalle e me ne sono andata.
È stata la mia ultima volta dal Guru. L’ultima volta che mi sarei trovata a
cuore aperto davanti a lui. Da quel momento, pur mantenendo il rispetto per il
suo ruolo, ogni altro tipo di legame con la sua persona, per me, era chiuso.
Mi allenavo tanto e duramente, ormai avevo vinto tutto quello che potevo
vincere nel karate e si parlava sì di Olimpiade, però non ci credevo granché:
erano già tanti anni che sentivo dire che il karate sarebbe diventato olimpico e
poi puntualmente all’ultimo veniva escluso.
Dal punto di vista personale, per la prima volta, ho iniziato a pensare a cosa
avrei voluto fare una volta abbandonata l’attività agonistica. O meglio a tutte
quelle cose che non avevo potuto fare perché completamente assorbita dalla
mia disciplina. Per non dimenticarne niente ho iniziato a stilare una lista che è
tuttora in continuo aggiornamento:
- una cosa da donne, come una depilazione laser definitiva a inguine e
ascelle;
- recarmi con costanza da una manicure per avere le unghie molto più
curate di quanto non possa avere una karateka a causa del
regolamento;
CARDIN, SARA
Luogo di nascita: Conegliano Veneto (TV)
Data di nascita: 27 Gennaio 1987
Sport: Karate, specialità: Kumite, categoria: -55 kg
Società di appartenenza: CSOE – Centro Sportivo Olimpico dell’Esercito
Società di nascita e allenamento: Academy Ponte di Piave