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Il Menone di Platone
Maria Chiara Pievatolo

Copyright © 2005 Maria Chiara Pievatolo

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14-03-2013

Sommario

Menone
Si può insegnare l'eccellenza?
Il problema della memoria
Che cos'è la virtù? Primo tentativo di definizione
Perché Socrate pretende una definizione unitaria?
Che cos'è la virtù? Secondo tentativo di definizione
Alcuni esempi: figure e colori
Dialektikòteron
Che cos'è la virtù? Terzo tentativo di definizione
Il paradosso di Menone
Anamnesis
L'anamnesis come emancipazione
L'anamnesis come mito
Il metodo ipotetico
Governare sé stessi
La virtù è scienza
Il sillogismo ipotetico negativo
Maestri di virtù: i politici ateniesi
Maestri di virtù: sofisti e poeti
Opinioni corrette
Un destino divino
Una lettura retroattiva
A. Comunità del sapere
Letture consigliate
B. Il metodo dialettico e il metodo ipotetico sono reciprocamente alternativi?
C. Schede bibliografiche
José Trindade Santos, «La struttura dialogica del Menone: una lettura retroattiva»
2

Menone
Il dialogo Menone sembra posto a metà strada fra le opere platoniche giovanili e quelle della
maturità. E' infatti strutturalmente simile ai dialoghi del primo periodo, per la sua conclusione
aporetica, ma presenta aspetti tipici dei dialoghi della maturità, come la teoria dell'anamnesis, il
metodo ipotetico e l'attenzione per la matematica 1 .

L'interlocutore principale di Socrate è Menone, un giovane aristocratico tessalo allievo del sofista
Gorgia. Senofonte, nella sua Anabasi, descrive Menone - che fu uno degli strateghi a capo della
sfortunato esercito di mercenari greci assoldato da Ciro il giovane per combattere contro suo
fratello, l'imperatore persiano Artaserse - in modo poco lusinghiero.

Menone, nato in Tessaglia, aveva un'unica mira, diventar ricco ad ogni costo, e agiva in questa
direzione in modo sfacciato; se aspirava al comando, era unicamente per poter accumulare maggiori
ricchezze. Anche gli onori che attirava su di sé dovevano servire come fonti di guadagno; era
sempre pronto a passare dalla parte del più forte, per non dover rendere conto delle sue malefatte.
Conosceva un'unica via per riuscire nelle imprese, la più breve, come diceva lui, quella di giurare il
falso, di mentire, di ingannare; essere candido e veritiero equivaleva per lui ad essere stupido. Si
vedeva che non nutriva affetto per nessuno; mentre si professava amico di uno, sotto sotto lo stava
abbindolando. I nemici non li scherniva mai, ma con quelli che gli erano vicini era ingiurioso e
pesante, Non metteva mai gli occhi sui beni dei nemici - non vale la pena tentare di prendere la roba
a chi è pronto a difenderla -, invece conosceva bene l'arte di appropriarsi dei beni che gli amici, per
un senso di fiducia, non gli tenevano sotto chiave. Si guardava da chi, come lui, sapeva giurare il
falso ed essere crudele, come da persona pericolosa, ma faceva tutti i comodo suoi con gli individui
che professavano religiosità, amore di verità, rettitudine. Menone si vantava di darla a intendere agli
amici, di saperli ingannare e coprire di disprezzo, come se si trattasse di gloriarsi di essere pio,
giusto, veritiero; chi non agiva con astuzia era per lui uno che non sapeva vivere. Se voleva giocare
a uno il posto di amico del cuore di una persona altolocata, sapeva lui la strada per riuscirci subito:
calunniarlo. Per farsi ubbidire dai soldati si ingegnava a prestare una mano nelle loro malefatte,
anzi, più li superava nel compiere soprusi, più credeva di essere temuto e ubbidito da loro.
Rinfacciava ai disertori la mancanza di riconoscenza per non aver dovuto lamentare danni alla
persona durante la permanenza presso di lui. Quanto alla sua vita intima, è possibile che si
divulghino anche false dicerie: ma i seguenti episodi sono a conoscenza di tutti. Ottenne da
Aristippo il comando degli stranieri perché era un bel giovane. Sempre perché era un giovane
grazioso divenne molto intimo anche di un barbaro, Arieo, al quale piacevano i bei ragazzi. Poi la
passione prese pure lui, e, ancora imberbe, ebbe un amante, già provvisto di barba, Taripa. Al
momento dell'esecuzione degli strateghi che avevano condotto con Ciro la guerra contro il re
[Artaserse], egli fu risparmiato, benché fosse implicato con gli altri nella spedizione.

[1]
L'antichità ci ha tramandato un ricco corpus di dialoghi platonici, nonché alcune lettere. Da
Diogene Laerzio e altri sappiamo che le Leggi sono l'ultimo dialogo di Platone. La distanza
temporale fra i vari dialoghi viene misurata usando come termine di confronto lo stile delle Leggi;
inoltre i rimandi interni fra i vari dialoghi permettono di capire, in alcuni casi, il loro ordine di
apparizione. Questi criteri hanno prodotto la seguente classificazione:

 dialoghi giovanili o socratici


 dialoghi della maturità
 dialoghi della vecchiaia o dialettici
3

Anche se condannato a morte dal re, non fu ammazzato come gli altri, ma, a differenza di Clearco e
dei suoi colleghi che chiusero la vita sotto i colpi della mannaia, con un genere di morte cioè che
pare almeno essere il più spiccio, egli subì un anno di tormenti e poi finì come un delinquente
comune. 2

Non sappiamo se Platone fosse a conoscenza di questa testimonianza di Senofonte. Dobbiamo


tuttavia chiederci perché Platone, in un dialogo dedicato all'insegnamento dell'eccellenza, abbia
evitato di confrontarsi direttamente con il maestro, Gorgia, e abbia preferito esaminare un suo
allievo non particolarmente brillante e con un reputazione non molto limpida.

Bibliografia e URL rilevanti

Platone. Menone. (traduzione inglese, presso il Perseus Project).

Platone. Menone. (originale greco presso il Perseus Project).

[2]
Senofonte, Anabasi, 2.6.21 ss. Traduzione italiana di E. Ravenna, Milano, Mondadori, 1984
4

Si può insegnare l'eccellenza?


Menone propone a Socrate un problema alla moda (70a), quello della trasmissibilità dell'areté. Una
simile questione era molto dibattuta nei circoli ateniesi: la sofistica aveva introdotto, contro
l'educazione tradizionale, basata sulla synousia, cioè sullo "stare insieme" con gli adulti,
l'innovazione dell'istruzione impartita in un ambiente artificiale e appositamente finalizzato 3 .

Nel mondo della cultura orale, si imparava per abitudine ed immedesimazione; i sofisti
proponevano un modello di apprendimento inteso come trasmissione meccanica di nozioni, a
pagamento. L'oggetto del loro insegnamento era la retorica, cioè l'arte di parlare in pubblico in
maniera persuasiva: in una democrazia diretta assembleare l'abilità comunicativa era una condizione
indispensabile per il successo politico.

Menone offre a Socrate tre possibilità:

 la virtù è didaktòn, cioè è un contenuto cognitivo che può essere trasmesso con
l'insegnamento
 la virtù è asketòn, cioè si acquisisce con l'esercizio
 la virtù perviene alle persone physei, per natura, cioè non è né una nozione, né una
abitudine, bensì un talento innato

La prima soluzione potrebbe legittimare l'insegnamento sofistico; la seconda potrebbe armonizzarsi


con l'abitudine della synousia, la terza potrebbe accordarsi con una prospettiva aristocratica.

Socrate invita Menone a compiere un passo preliminare: prima di chiedersi se l'areté sia insegnabile
o no, occorre stabilire che cosa sia - dal momento che, ad Atene, nessuno lo sa (70c-71b).

[3]
P. Hadot, Qu'est-ce que la philosophie antique?, Paris, Gallimard, 1995; trad. it. di E.
Giovannelli, Che cos'è la filosofia antica?, Torino, Einaudi, 1998, pp. 13-17. Secondo Diogene
Laerzio (IX, 52), Protagora fu il primo a chiedere un compenso in denaro per le sue lezioni; in
questo senso, fu il primo sofista. Su questo si veda anche Protagora, 249a.
5

Il problema della memoria


Menone cerca di sottrarsi alla domanda di Socrate sull'areté suggerendo che sicuramente il suo
interlocutore aveva ricevuto una risposta appropriata dal sofista Gorgia, quando aveva visitato
Atene. Socrate, affermando non avere molta memoria, chiede a Menone di ricordargli (anàmneson)
quanto dice Gorgia, «o, se vuoi, dimmi che cosa ne pensi tu stesso, ché, senza dubbio, hai la stessa
opinione di Gorgia.» 4 (71d) Il verbo anamimnesko (ricordo, richiamo alla mente) ricorre
nuovamente, quando Socrate, dopo una prima confutazione, invita Menone a cercare di ricordarsi
quanto diceva Gorgia sulla virtù. (73c)

A prima vista, Socrate si riferisce alla memoria come conservazione meccanica delle informazioni,
e sembra dare per scontato che un allievo, come Menone, non possa che ripetere quanto dice il
maestro. In una cultura orale, che tramandava se stessa solo grazie ai ricordi delle persone, la
memoria era talmente importante che il sapere e il ricordare potevano essere considerati sinonimi.

Tuttavia, se, una volta conclusa la lettura del dialogo, lo sottoponiamo a una analisi retroattiva, ci
rendiamo conto che Socrate identifica il sapere come una forma di "reminescenza", ma in un senso
profondamente diverso da quello letterale.

[4]
Le traduzioni usate in questo ipertesto sono quelle di F. Adorno per Laterza, talvolta con alcuni
rimaneggiamenti.
6

Glossario

Areté

Questo termine greco, traducibile come "eccellenza" o "virtù" non designava, nel linguaggio
omerico che ancora influenza le risposte di Menone, una condizione soltanto morale, ma
anche e nello stesso tempo una condizione sociale. I principali termini valutativi del
vocabolario omerico, agathos (buono), kakos (cattivo) e arete non possono essere tradotti
letteralmente con "buono", "cattivo" e "eccellenza" o "virtù". I nostri termini presuppongono
un ambito di applicazione assai più ampio e socialmente indefinito; invece Omero quando
parla di agathoi intende una figura sociale particolare: agathos è il proprietario terriero, capo
di un oikos, di una casata, che è in grado di proteggere la comunità con le armi e soprattutto
di difendere competitivamente il proprio onore dinanzi agli occhi del mondo. Perciò non è
possibile diventare agathos per chi ha avuto in sorte di essere kakos, anche se un agathos
può perdere il suo onore, essendo questo connesso alla supremazia effettiva in potenza,
ricchezza e valore militare. Solo gli agathoi possono raggiungere l'eccellenza, o meglio, essi
la possiedono per definizione e sono impegnati a mantenerla in competizione con gli altri. I
kakoi, dal canto loro, non sono esclusi dall'universo morale: non soltanto devono tributare
quell'onore dal cui riconoscimento dipende strettamente l'arete, ma soprattutto devono
seguire delle regole morali ad hoc, che consistono, in sostanza, nell'adeguarsi al ruolo loro
riservato nella gerarchia. Le procedure sociali di esclusione non creano un universo morale
monolitico, bensì un pluriverso affetto da una duplice complessità: la complessità dei tipi di
soggetti, e quella, conseguente, delle regole di comportamento che si addicono loro.

Bibliografia e URL rilevanti

Francesca Di Donato. I Greci tra oralità e scrittura.

Francesca Di Donato. Le culture a oralità primaria.

José Trindade Santos. La struttura dialogica del Menone: una lettura retroattiva.
7

Che cos'è la virtù? Primo tentativo di definizione


Perché Socrate pretende una definizione unitaria?

Invitato da Socrate (71d) a definire che cos'è la virtù, Menone risponde elencando una serie di
esempi, nello stile dell'etica tradizionale (71e):

 la virtù dell'uomo (andròs areté) è essere capace di svolgere attività politica (ta tes poleos
pràttein) e così fare del bene agli amici e del danno ai nemici
 la virtù della donna è amministrare bene la casa, conservandone i beni e restando fedele al
marito
 ci sono poi altre virtù diverse, a seconda della qualità del soggetto di cui si parla: bambino,
vecchio, libero, schiavo; anzi, in generale, c'è una virtù o eccellenza per ogni attività
(praxis), età e atto (ergon) (72a)

Questo elenco non risponde alla domanda di Socrate, che afferma di andare in cerca dell'ousia o
essenza. (72b) Che cos'è la virtù? Che cosa fa sì che termini così diversi possano essere detti tutti
"virtù"?

Socrate si spiega: in uno sciame, ci sono molti esemplari di api, ciascuno differente dall'altro per
grandezza, bellezza e così via. Ma quello che fa essere tutte le api una uguale all'altra è quel
carattere che, se sono api, hanno necessariamente in comune: l'ousia dell'ape. Se si vuole spiegare
che cosa è un'ape, non si devono esporre le differenze fra un'ape e l'altra, ma si deve indicare quel
carattere comune il quale permette di dire, di vari esemplari di insetti, che sono tutte api. Lo stesso
discorso si deve fare per le virtù: per dire che esempi diversi di virtù sono, appunto, virtù, si deve
indicare un solo eidos (forma, modello) comune a tutti, in virtù del quale una collezione di casi può
essere ricondotta sotto un solo termine. (72c)

Quanto si dice per le api, si deve dire anche per la virtù: ci deve essere un unico modello di virtù
che deve valere per tutti gli esemplari di virtù precedentemente indicati. Ne segue che la virtù
nell'uomo e la virtù nella donna devono essere, in quanto virtù, la stessa cosa. Menone ha difficoltà
ad accettare questa conclusione, non tanto a proposito di proprietà fisiologiche come la salute, la
grandezza, la forza, bensì proprio in merito ad una qualità etica, come la virtù (73a). Per quanto
allievo dei sofisti, dà talmente per scontata la gerarchia e la differenza sessuale, da rifiutare, in
questo caso particolare, le conseguenze di un ragionamento cui egli stesso, per tutti gli altri casi, ha
consentito.

In questo scambio di battute, emerge con chiarezza il carattere sovversivo dell'elenchos socratico: in
un mondo eticamente e socialmente gerarchizzato e stratificato, la semplice ricerca di coerenza
nelle definizioni mette radicalmente in discussione quanto sia la vecchia sia la nuova cultura - nella
misura in cui aveva di mira semplicemente l'efficacia retorica - davano per scontato. Se si predica,
di termini diversi, la stessa idea, questi termini devono avere in comune quello che corrisponde
all'idea in questione; se non si riesce a mostrare che cosa questi termini hanno in comune, la nostra
definizione è semplicemente una definizione di comodo.
8

Perché Socrate pretende una definizione unitaria?

Menone avrebbe potuto ribattere che la sua definizione "plurale" di virtù era sociologicamente
corretta, cioè descriveva in modo accurato il sentimento condiviso nella società greca del tempo,
mentre la definizione unitaria di cui Socrate va in cerca avrebbe avuto conseguenze socialmente
inaccettabili, come l'uguaglianza fra uomini e donne. Perché Socrate, da parte sua, pretende una
definizione unitaria?
Questa domanda è lasciata senza risposta, come esercizio critico per il lettore.

Che cos'è la virtù? Secondo tentativo di definizione


Socrate cerca di aiutare Menone, facendogli notare che in effetti, virtù di uomo e virtù di donna
hanno qualcosa in comune: la capacità di dioikein (amministrare) la polis o la casa (73a-b). Menone
è ben lieto di consentire e identifica la virtù con la capacità di archein (governare, comandare), in
armonia con la sua mentalità 5 . (73c) Anche in questo caso, Menone sta pensando non all'eccellenza
che si può predicare di tutti, ma a quella della categoria particolare cui egli appartiene. Quando
Socrate gli fa notare che questa definizione deve valere anche per lo schiavo, Menone la ritratta.
Socrate, in questo caso, adotta una strategia retorica, usando i pregiudizi di Menone per fargli
ammettere che la giustizia, cui egli non era affatto interessato, è una specie di eccellenza.
Menone rettifica la sua definizione: virtù è capacità di governare giustamente. Dunque la giustizia è
virtù. (73d) Socrate gli fa notare che questa definizione presenta un caso particolare di virtù, la
giustizia, come identica alla virtù in quanto tale. In realtà sono dette virtù anche altre qualità, come
sapienza, coraggio, sophrosyne e così via. La seconda definizione viene così confutata perché
confonde il genere complessivo con una singola specie.

[5]
Mentre Socrate usa il verbo dioikein, che si può applicare allo stesso modo l'amministrazione di
una casa e quella di una città, Menone usa il verbo archein, più precisamente connesso all'esercizio
del potere politico. Socrate, non credendo che sul piano etico esista una differenza assoluta fra
uomini e donne, può permettersi anche di mettere in discussione la distinzione fra sfera pubblica e
sfera domestica: nel suo uso delle parole, si può rintracciare il germe di una differente concezione
della politica, basata sul primato dell'amministrazione, anziché su quello del potere, e su una
conseguente continuità fra il “pubblico”, luogo storico dell'uomo, e il “domestico”, luogo storico
della donna.

Glossario

Elenchos
Il verbo elenchein significa "confutare", ma la sua eredità semantica, dalla tradizione omerica,
comprende anche lo svergognare, il far fare una brutta figura. L'elenchos o confutazione è lo
strumento di corroborazione tipicamente usato da Socrate per mettere alla prova le affermazioni dei
suoi interlocutori. Una tesi si può dire solida solo se, analizzata ed esplicata criticamente, si rivela
internamente coerente ed esternamente non contraddittoria rispetto a quando complessivamente
sostenuto da chi la sostiene.

Bibliografia e URL rilevanti

Maria Chiara Pievatolo. Il caso Socrate.


9

Alcuni esempi: figure e colori


Per chiarire a Menone il senso della sua confutazione, Socrate gli offre qualche esempio. Se ci
venisse chiesto che cos'è una figura geometrica, non sarebbe sufficiente rispondere indicando il
cerchio, perché una simile risposta implicherebbe che tutte le figure geometriche sono uguali al
cerchio. Ma chi ragionasse in questo modo, confondendo il genere (figura) con la specie (cerchio),
sarebbe costretto a concludere che non c'è differenza fra una linea curva e una retta, o fra un cerchio
e un quadrato. (74b ss) «Che cos'è che rimane il medesimo nella curva, nella retta e in tutte le altre
cose che chiami figure?» (75a)
Menone chiede a Socrate di rispondere al suo posto. Socrate lo accontenta, definendo la figura
come «ciò che sempre si accompagna a colore.» (75c) Menone, dal canto suo, cerca di metterlo in
difficoltà, adottando la sua stessa strategia: affermando, cioè, di non sapere che cos'il colore,
proprio come Socrate aveva detto di non sapere che cos'è la virtù.
Socrate gli spiega che se avesse davanti a sé un erista, lo sfiderebbe a confutare la sua definizione,
ma che, in questo caso, sta cercando di fare qualcosa di molto diverso.

Glossario

Eristica

Eris in greco significa "discordia", "conflitto". L'eristica è l'arte della discussione


conflittuale, il cui fine non è la ricerca della verità, bensì la vittoria sull'avversario.

Dialektikòteron
Ma se fossero amici, come ora tu e io, che volessero discutere (dialegesthai) tra di loro,
bisognerebbe rispondere in modo meno aspro e più "conversazionale" (dialektikòteron). E ciò che
in realtà è più "dialettico" (dialektikòteron) non è solo rispondere il vero, ma anche e soprattutto
formulare la propria risposta entro i termini che l'interrogato riconosca di sapere. (75d)

In questo testo si verifica probabilmente l'occorrenza più antica della radice dialektik-. Nell'Ippia
minore, nel Protagora e nel Gorgia il dialegesthai, cioè il discutere per domande e risposte era
contrapposto al discorso lungo e tendenzialmente monologico dei sofisti. Qui si aggiunge a quella
che, nei grandi dialoghi della maturità, verrà chiamata dialettica, un altro carattere: discutere in
maniera "più conversazionale" significa interagire non competitivamente, bensì collaborativamente.
Per questo il requisito procedurale di stabilire dei termini in comune con il proprio interlocutore ha
una importanza pregiudiziale: se Socrate e Menone non riescono a concordare una definizione di
virtù, non possono neppure indagare, insieme, sulle sue proprietà.
Di contro, il poeta e il sofista possono permettersi di dare per scontati i termini dei loro argomenti.
Il primo, infatti, presuppone la tradizione consolidata e condivisa propria delle culture orali. Il
secondo, avendo interesse a vincere nella discussione e a trascinare il pubblico dalla sua parte, può
trar vantaggio dall'indeterminatezza delle parole.

La discussione dialettica presuppone una concezione del regime del sapere molto diversa da quella
sofistica: il sapere non è proprietà privata individuale, ma può nascere solo come un bene collettivo,
frutto di una interazione collaborativa.

Bibliografia e URL rilevanti

Francesca Di Donato. I Greci tra oralità e scrittura.


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Che cos'è la virtù? Terzo tentativo di definizione


Adottando uno stile dialettico, Socrate produce una definizione di figura più elementare, che non
faccia riferimento al colore: "limite di solido" (stereou peras). (76a) Menone non apprezza questo
genere di definizione, e preferisce una definizione del tipo di quella del colore, che Socrate gli offre
per compiacerlo: «effluvio di figura, commisurato alla vista e sensibile» (76d) Socrate, tuttavia,
chiama questa definizione "tragica" (76e), cioè meramente scenografica, perché essa è soltanto una
spiegazione teorica della percezione cromatica - una teoria che può essere intelligibile solo se si sa
già che cos'è il colore.

Menone propone una nuova definizione di areté: volere i beni e essere in grado di procurarseli.
(77b) Socrate reagisce suddividendo la definizione in due parti. Per quanto concerne il volere il
bene, nessuno vuole, propriamente, cioè con piena consapevolezza, il male, proprio perché nessuno
desidera rendere se stesso infelice e sventurato. 6 : da questo punto di vista nessuno è migliore o
eccelle rispetto a un altro. Quindi la differenza fra chi non è virtuoso e chi lo è sta solo nella
seconda parte della definizione, cioè nella capacità di procurarsi i beni. Ma, se si riconosce che non
è virtuoso chi si procura beni ingiustamente, si deve dire che la virtù sta nella giustizia. La giustizia,
a sua volta, è stata detta precedentemente essere solo parte della virtù. Si ritorna, con un diverso
percorso, alla medesima difficoltà della seconda definizione.

[6]
Questo principio, che qui compare solo incidentalmente, è il fondamento dell'intellettualismo
etico socratico-platonico.
11

Il paradosso di Menone
Menone, dopo i ripetuti fallimenti dei suoi esercizi di definizione, si sente frustrato, e paragona se
stesso a chi, venuto a contatto con una torpedine, rimane intorpidito a causa della scossa elettrica.
Socrate risponde che accetta il paragone con la torpedine solo se si riconosce che la torpedine fa
intorpidire gli altri perché è torpida essa stessa:

...non è che io sia euporòn (certo) e faccia aporein (dubitare) gli altri, ma io più di chiunque altro
aporòn (incerto), faccio si che anche gli altri aporein (dubitino). (80c)

Aporein, il verbo usato da Socrate, significa essere in dubbio o in difficoltà; ma il suo significato
primario è essere povero, senza risorse. L'esperienza del dubbio è una esperienza di impoverimento
e di spossessamento. Si credeva di avere in mano qualcosa, e ci si ritrova senza nulla. Si tratterà di
capire se questo spossessamento sia o no una fase utile e salutare nel processo della conoscenza.

Menone, pur essendo fino a quel momento andato in cerca di qualcosa che ha mostrato di non
sapere 7 , tenta di trarsi dall'imbarazzo con un argomento sofistico alla moda:

- Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quali delle cose
che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l'imbrocchi, come farai ad accorgerti che è
proprio quella che cercavi, se non la conoscevi?

- Capisco quello che vuoi dire, Menone! Vedi un po' che bel discorso eristico proponi! l'argomento
secondo cui non è possibile all'uomo cercare né quello che sa né quello che non sa: quel che sa
perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa che cosa cerca.
- (80d-e)

Il paradosso di Menone, pur essendo controintuitivo, pone un problema serio: come è possibile
l'avanzamento della conoscenza? Socrate designa questo argomento come eristico, e non come
dialettico, perché esso dà per noto qualcosa che invece non è stato convenuto: che imparare
significhi trasferire meccanicamente - alla maniera dei sofisti - delle nozioni separate e discrete da
una mente all'altra. Perché questo paradosso sia proponibile, la mente va pensata come una
cassapanca, che può essere o piena o vuota: se è già piena, non serve riempirla, e, se è vuota, non
può riempirsi da sé.

Se il paradosso di Menone fosse vero, un insegnamento di tipo socratico sarebbe impossibile,


perché non ci sarebbe spazio per il dubbio come principio di una ricerca autonoma, che si cerca di
suscitare con l'elenchos. La sua confutazione è dunque decisiva.

[7]
Menone dice di avere fatto con successo molti discorsi pubblici sulla virtù (80b): Platone ha
scelto di mettere in scena un allievo, anziché il maestro, perché voleva discutere l'insegnamente
sofistico a partire dai suoi effetti.
12

Anamnesis
Contro il paradosso di Menone, per illustrare come sia possibile imparare e cercare, Socrate
introduce uno straordinario racconto: per noi l'apprendimento è reminiscenza o anamnesis, cioè un
richiamare alla mente cose che conosciamo già, in modo da saperle argomentare e fissare nella
memoria. Poiché cerchiamo ed impariamo cose di cui non abbiamo avuto esperienza nelle nostre
vite individuali, la parte in noi che conosce, l'anima o psyché, deve essere immortale ed
indipendente dalla forma umana che, al momento, la veste.

L'anima, essendo immortale e venuta ad essere più volte, e avendo veduto le cose dell'al di qua e
quelle dell'Ade, in una parola tutte quante, non c'è nulla che non abbia appreso. Per questo può
ricordare ciò che prima aveva appreso della virtù e del resto. Poiché tutta la natura è congenere e
l'anima ha imparato tutto, nulla impedisce che l'anima ricordando (questo gli uomini chiamano
apprendimento) una cosa sola, trovi da sé tutte le altre, se uno è coraggioso e infaticabile nella
ricerca. Cercare e imparare sono anàmnesis. (81c-d)

Il paradosso di Menone – l'impossibilità di cercare quello che non si sa – presuppone una


concezione patrimoniale della conoscenza. L'anamnesis, di contro, comporta il contrario: non posso
sostenere che un'idea sia "mia" perché ricerca e apprendimento possono aver luogo solo col
presupposto di un continuum di conoscenza contestuale comune e interconnessa. Lo stesso Menone
può discettare dell'insegnabilità della virtù, pur senza saperne dare una definizione rigorosa, perché
si trova in questo continuum. Quando scopro o imparo qualcosa di nuovo, questo qualcosa è nuovo
per me – e dunque per me, in quanto soggetto storico, c'è evoluzione e futuro – ma non posso dire
che la "mia" nozione possa dirsi "mia" in quanto creata da me ex nihilo e nuova per tutto e per tutti.
Infatti io ho potuto apprendere e scoprire solo col presupposto di una conoscenza comune
precedente, e questa mia conoscenza è una conoscenza in quanto non è una personalissima
impressione mia, ma in quanto può rientrare, intersoggettivamente, in un complesso comune e
sovraindividuale. Socrate riferisce che questo mito non è di sua invenzione, ma viene da «uomini e
donne assai addottrinati nelle cose divine» (81a); lo attribuisce, cioè, a una tradizione di sapere
sovraindividuale. Si tratta, però, di mostrare se esistono esperienze di apprendimento nel senso
socratico del termine.

Bibliografia e URL rilevanti

Maria Chiara Pievatolo. Dalla mimesis all'anima.


13

L'anamnesis come emancipazione


Socrate: Senza, dunque, che nessuno gl'insegni, ma solo in virtù di domande giungerà al sapere
avendo ricavato lui, da sé, la scienza?

Menone: Sì.

Socrate: Ma ricavar da sé, in sé, la propria scienza, non è ricordare?

Menone: Senza dubbio.

Socrate: E la scienza che ora possiede: o l’ha acquisita in un certo tempo o la possiede da sempre.

Menone: Sì.

Socrate: Se la possiede da sempre, egli sa da sempre; se l'ha fatta propria in un qualche tempo, ciò
non è sicuramente avvenuto nella presente vita. Vi è forse qualcuno che gli abbia insegnato tutto?
Lo saprai certo, tanto più ch'egli è nato e cresciuto in casa tua!

Menone: So benissimo che non gli ha insegnato nessuno.

Socrate: Ma ha o non ha tali sue opinioni?

Menone: Incontestabilmente, Socrate, sembra che le abbia.

Socrate: E se non le ha acquisite nella presente vita, non è già di per sé evidente che le possedeva, e
che le apprese in un altro tempo?

Menone: Evidente!

Socrate: E non è forse questo il tempo in cui non era ancora uomo?

Menone: Sì. (Menone, 85e-86a)

Per illustrare il racconto dell'anamnesis, Socrate ha chiamato uno schiavo di Menone, e,


interrogandolo, lo ha condotto da una risposta sbagliata alla corretta soluzione del problema
geometrico della duplicazione del quadrato. 8 Lo schiavo, fra i personaggi del dialogo, è l'unico che
impara qualcosa. Socrate non gli ha insegnato nulla nel senso sofistico, patrimoniale, del termine:
non gli ha tramesso meccanicamente delle nozioni, ma tramite domande lo ha guidato prima a
dubitare della risposta che aveva dato, e poi a riconoscere la soluzione corretta.

[8]
Questo argomento rappresenta la dimostrazione greca più antica, ancorché informale, del teorema
di Pitagora - in un suo caso particolare - che ci sia pervenuta. La sua dimostrazione formale,
contenuta alla fine del primo libro degli Elementi di Euclide, risale circa al 300 a.C.
14

Il colloquio di Socrate con lo schiavo può essere suddiviso in tre fasi:

1. Socrate si accerta che lo schiavo conosca la lingua greca e sappia che cos'è un quadrato
(82b-d), come richiesto dal suo metodo dialettico
2. Socrate chiede allo schiavo di risolvere il seguente problema: che lato deve avere un
quadrato la cui area sia doppia di quella di un quadrato dato? Supponiamo, per esempio che
il lato del quadrato dato sia due: che lato deve avere un quadrato la cui area sia di otto, cioè
il doppio di quella del quadrato dato? Lo schiavo risponde prima che il quadrato di area
doppia deve avere un lato doppio rispetto al lato del quadrato dato, cioè quattro, e poi scende
a tre. Socrate, facendogli calcolare le rispettive aree (sedici e nove) lo aiuta a rendersi conto
del suo errore. (82d-83e)

Socrate: Facendolo dubitare, intorpidendolo, come fa la torpedine, lo abbiamo forse


danneggiato?

Menone: Non mi pare.

Socrate: Gli abbiamo anzi fatto qualcosa di utile, sembra, per scoprire come procedere: ora
infatti, proprio perché non sa, ricercherà con piacere, mentre prima avrebbe facilmente detto,
di fronte a molti e in molteplici occasioni, che per raddoppiare un quadrato si deve
raddoppiare il lato. (Menone, 84b-c)

3. Lo schiavo, interrogato da Socrate, arriva alla soluzione del problema: il quadrato la cui area
è doppia del quadrato dato è quello costruito sulla sua diagonale. (84d-85b)

Tali opinioni sono emerse ora, sollevate in lui come in un sogno; e se ripetutamente lo si
interrogasse sugli stessi argomenti e da punti di vista diversi, puoi star sicuro che alla fine ne
avrebbe scienza non meno esatta di chiunque altro. (Menone, 85c-d) 9

[9]
Si potrebbe obiettare (v. Piergiorgio Odifreddi, Il diavolo in cattedra, Torino, Einaudi, 2003 e
2004, p. 29) che Platone confonde l'ars inveniendi e l'ars iudicandi: una cosa, cioè, è la capacità di
controllare la correttezza di un ragionamento fatto da altri, e un'altra, assai più difficile, è l'arte di
trovare da sé una dimostrazione appropriata. Lo schiavo, in effetti, non risolve il problema da sé, ma
si limita a verificare la correttezza del ragionamento propostogli da Socrate - compito, questo, che
oggi potrebbe svolgere anche un calcolatore.Socrate, però, osserva che il sapere che lo schiavo ha
ottenuto verificando la soluzione propostagli passo passo non è ancora scienza, ma solo opinione
corretta. Per diventare uno scienziato, lo schiavo dovrebbe essere interrogato ripetutamente e da
punti di vista diversi, fino ad avere un sapere non più frammentario ed eteronomo, ma sistematico e
autonomo: questo tipo di sapere lo metterà in grado di spiegare perché una cosa è così e non
altrimenti senza bisogno della maieutica di Socrate.Inoltre, lo scopo del dialogo con lo schiavo non
è mostrare in che modo si crea nuovo sapere, ma in che modo è possibile imparare. Nella
prospettiva di Platone, chi fa quella che noi oggi chiameremmo una "scoperta" non è un genio che
inventa qualcosa dal nulla, bensì un ignorante che impara qualcosa di nuovo. Per lui il sapere, se è
scientifico, deve poter anche essere oggettivo e sovraindividuale: una idea eccezionalmente brillante
che ci viene in mente non è scientifica perché l'abbiamo ingegnosamente partorita noi, ma perché,
una volta partorita, ha resistito all'esame nostro e altrui - in modo da non rimanere soltanto nostra.
15

C'è un parallelismo evidente fra le prime due fasi del colloquio con lo schiavo e il colloquio iniziale
di Socrate con Menone, che si interrompe solo quando lo schiavo, nella terza fase, mette a frutto il
suo dubbio e risolve il problema, mentre Menone propone il suo paradosso:

1. Socrate chiede a Menone che cosa sia la virtù, proprio come chiede alla schiavo che cos'è un
quadrato
2. Menone, proprio come il suo schiavo, propone alcune risposte che vengono confutate,
finché la torpedine del dubbio non lo intorpidisce.

Il marxista Ernst Bloch 10 ha condannato l'anamnesis in quanto espressione metodica dell'estraneità


al futuro, perché le idee sono trattate come qualcosa che risiede in un eterno senza tempo, che non
può evolversi, e costituiscono perciò un factum reificato e mercificato. Abbiamo però visto che il
paradosso di Menone – l'impossibilità di cercare quello che non si sa – presuppone una concezione
patrimoniale della conoscenza. L'anamnesis, di contro, comporta il contrario: non posso sostenere
che un'idea sia “mia” perché ricerca e apprendimento possono aver luogo solo col presupposto di un
continuum di conoscenza contestuale comune e interconnessa: lo stesso Menone può discettare
dell'insegnabilità della virtù, pur senza saperne dare una definizione rigorosa, perché si trova in
questo continuum. Quando scopro o imparo qualcosa di nuovo, questo qualcosa è nuovo per me – e
dunque per me, in quanto soggetto storico, c'è evoluzione e futuro – ma non posso dire che la “mia”
nozione possa dirsi “mia” in quanto creata da me ex nihilo e nuova per tutto e per tutti. Infatti io ho
potuto apprendere e scoprire solo col presupposto di una conoscenza comune precedente, e questa
mia conoscenza è una conoscenza in quanto non è una personalissima impressione mia, ma in
quanto può rientrare, intersoggettivamente, in un complesso comune. La conoscenza non può essere
privatizzata senza cadere in paradossi, perché i suoi presupposti non possono essere individualisti,
ma sono necessariamente e inevitabilmente comunitari.

Per questo, la conoscenza non può legittimarsi come espressione particolaristica di un ceto sociale,
di un gruppo, di una razza o di una cultura, senza scadere a mera espressione di gusto: le idee
devono valere per tutti, e tutti quelli che sanno cercare e imparare devono accedere al mondo delle
idee, a prescindere dalla veste che capita loro di indossare. Lo schiavo di Menone, a differenza del
suo proprietario, ha mostrato di saper imparare qualcosa - perché ha riconosciuto il valore del
dubbio - e di avere diritto di cittadinanza nel mondo della conoscenza. Bisogna chiedersi, perciò, se
una filosofia che identifica l'eccellenza con la conoscenza non comporti - perfino nel mondo
schiavistico in cui Platone viveva - un potenziale di emancipazione anche sul piano etico-politico.
Chi cerca ed impara partecipa ad una comunità di conoscenza molto più ampia e durevole di quella
particolare in cui è capitato in sorte. E la semplice possibilità di una comunità del genere è tale da
mettere in discussione le comunità esistenti.

[10]
Das Prinzip Hoffnung, trad. it. Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994, pp. 11-12
16

L'anamnesis come mito


Nell'economia del dialogo, la confutazione del paradosso di Menone ha una importanza essenziale.
Infatti, se questo paradosso fosse vero, un insegnamento come quello socratico sarebbe impossibile.

Nella prima parte del dialogo, Socrate aveva cercato di far imparare a Menone la logica della
definizione senza insegnargliela direttamente. Il suo metodo indiretto, fondato sull'élenchos
(confutazione), vorrebbe indurre l'interlocutore a mettere in discussione quello che è abituato a dare
per noto, per cominciare una ricerca autonoma. Se Menone avesse ragione, questo passaggio da una
collezione di opinioni al dubbio e, finalmente, alla ricerca, non sarebbe possibile. Se si può soltanto
essere completamente sapienti - e non aver bisogno di cercare - o essere completamente ignoranti -
e non sentire il bisogno di cercare - nessuno si troverebbe nella condizione intermedia di chi impara
facendo ricerca: di chi, cioè, si rende conto che quanto è abituato a dare per scontato è discutibile, e
avverte la necessità di ricostruirlo in maniera più solida.

Per rispondere al paradosso di Menone, Socrate racconta il mito dell'anamnesis; e illustra


l'apprendimento per anamnesis nel dialogo con lo schiavo. Se, dall'argomento di Socrate, mancasse
il mito, il dialogo con lo schiavo offrirebbe già da sé degli elementi sufficienti a confutare il
paradosso di Menone:

 Socrate chiede allo schiavo, prima di iniziare la discussione sul problema geometrico, se sa
il greco e se sa cos'è un quadrato, e ottiene risposta positiva: perfino la persona più ignorante
a cui un contemporaneo di Socrate poteva pensare, non si trova mai in una situazione di
totale mancanza di sapere. Un lato del paradosso, quello dell'ignoranza assoluta, descrive
una situazione che non può aver luogo in nessuna cultura. Appartenere a una cultura, anche
al livello più basso immaginabile, significa sapere qualcosa.
 Se il nostro sapere deriva, storicamente, dalla cultura cui apparteniamo e dal ruolo che
occupiamo in essa, anche l'altro lato del paradosso, la possibilità di un sapere totale che non
ha bisogno di progredire, è altrettanto irrealistico: ci sono schiavi che non hanno mai
studiato la geometria, aristocratici che hanno studiato dai sofisti e conoscono la retorica,
anche se non sanno nulla di etica, smemorati che non ricordano che cosa dice Gorgia sulla
virtù, e così via...

 una persona che conosce una lingua e sa ragionare, è in condizione di imparare, cioè di
passare, eventualmente aiutato da un maestro che lo interroga, da una condizione di sapere
meno articolato e certo, a un sapere più articolato e più solido.

Se gli argomenti derivabili dal dialogo con lo schiavo sono validi, per quale motivo Socrate, per
affrontare il paradosso di Menone, sceglie di usare, in primo luogo, il mito?

Platone spesso usa i miti per motivi comunicativi, cioè come ausili per imprimere nelle menti dei
suoi lettori, formati nella cultura orale, le tesi che gli preme siano ricordate. In questo caso, tuttavia,
il mito non è una semplice illustrazione che segue ad una argomentazione. Infatti, il racconto
dell'anamnesis precede l'argomentazione, che, a sua volta, si riduce a una prova pratica della
"verità" del mito, nel dialogo con lo schiavo.

Per comprendere la funzione del mito, occorre chiedersi se nel racconto dell'anamnesis è contenuto
qualcosa di diverso e ulteriore rispetto a quanto può derivarsi dal dialogo con lo schiavo. Il dialogo
con lo schiavo confuta il paradosso di Menone mostrando praticamente che nessuno di noi possiede
né un sapere assoluto, né una assoluta ignoranza: ci troviamo, tutti, in una condizione intermedia, di
cui dobbiamo prendere coscienza. Questa è la nostra condizione storica. Ma l'anamnesis suggerisce
17

qualcosa di più: la possibilità di un sapere totale, internamente connesso in un sistema unitario.


«Poiché tutta la natura è congenere e l'anima ha imparato tutto, nulla impedisce che l'anima
ricordando [...] una cosa sola, trovi da sé tutte le altre» (81d)

Questa possibilità, che non si realizza nel corso delle nostre vite terrene, non viene dimostrata dal
dialogo con lo schiavo. La sua verità è affidata soltanto a un mito, cioè a un racconto che può essere
oggetto esclusivamente di fede. Noi, infatti, nella nostra esistenza storica, ci troviamo in una
condizione intermedia tra sapere e non sapere, e non disponiamo di un sapere totale e sistematico in
atto. Anzi, se ne disponessimo, si avvererebbe uno dei due lati del paradosso di Menone: sapendo
già tutto, non avremmo interesse a fare ricerca Ma perché è importante credere che questo tipo di
sapere sia virtualmente possibile? Socrate lo spiega così:

Forse su altri punti del discorso non mi sentirei d'esser tanto sicuro, ma per questo, che, cioè,
pensando sia quasi un dovere cercare ciò che non si sa, diverremmo migliori, più forti, meno pigri,
che se ritenessimo impossibile trovare e non dover cercare quello che non sappiamo, per questo, se
ne fossi capace, combatterei con forza, con la parola e con i fatti. (86b-c)

Il sapere di cui abbiamo esperienza nella storia è un sapere parziale e legato - come si può vedere
dagli stessi esercizi di definizione di Menone - alla nostra cultura e ai nostri pregiudizi. Per
cominciare a fare ricerca, dobbiamo presupporre almeno come possibile il superamento di questa
prospettiva a favore di un sapere totale, sistematico, e indipendente dalla nostra particolarità storica,
anche se, qui ed era, non siamo capaci di metterlo interamente in atto. Il mito dell'anamnesis serve a
rappresentare questa possibilità. 11

Bibliografia e URL rilevanti

Francesca Di Donato. I Greci tra oralità e scrittura.


18

Il metodo ipotetico
Menone insiste nel pretendere una risposta sul problema dell'insegnabilità della virtù, senza
preoccuparsi di chiarirne prima la definizione.

Menone, se avessi un qualche potere non solo su di me, ma su di te, non ci metteremmo ad
esaminare subito se la virtù sia o no insegnabile, prima di aver cercato che cosa essa sia. Ma poiché
tu, per essere libero, non ti dai nessuna cura di dominare (archein) te stesso, e ti prepari anzi a
comandare e comandi, ti asseconderò...(86d) 12

Menone non è stato in grado di dare una definizione solida della virtù: occorre dunque chiarirne una
qualità senza sapere che cosa sia. La qualità su cui si indaga è l'insegnabilità nel senso di possiblità
di essere oggetto di anamnesis. (87b) Socrate ricorre al metodo ipotetico, che consiste nell'attribuire
provvisoriamente una qualità al definiendum, nel derivarne le conseguenze, e nel valutarne la
sostenibilità. Se l'ipotesi ha conseguenze insostenibili, essa viene invalidata. L'ipotesi non è una
definizione, ma soltanto una condizione di risolubilità di un problema. (87b ss)

L'ipotesi proposta è la seguente:

Se la virtù è scienza, allora è insegnabile. 13

Socrate precisa che per didakton (insegnabile) si deve intendere anamneston, cioè oggetto di
anamnesis. (87b) Vale la pena ricordare che Socrate, quando ha dato una dimostrazione applicativa
dell'anamnesis nel dialogo con lo schiavo, ha concluso che il suo apprendimento aveva avuto luogo
senza l'insegnamento di nessuno.

[12]
Socrate allude all'autodisciplina del ragionamento: Menone si era detto convinto, in teoria, dalla
risposta di Socrate al suo paradosso. Ma questa sua convinzione non ha nessuna ricaduta sul suo
comportamento: il sapere, nel suo caso, non ha nessun effetto pratico, perché Menone non sa e non
vuole governare se stesso. Allo stesso modo cadono nel nulla tutti gli spunti offertigli da Socrate,
che pure avrebbero potuto condurlo a una più solida definizione della virtù.
[13]
Per la precisione, Socrate dice: «se è scienza è insegnabile; se non è scienza, no» (87c). I logici
posteriori hanno osservato che questa è una applicazione errata del secondo principio fondamentale
della conseguenza, la cosiddetta contrapposizione (P. Odifreddi, op. cit., pp. 65-66).

Se dato p è necessario che q

allora dato -q è necessario -p

Cioè. se q segue necessariamente a p, allora, quando q non si verifica, deve mancare anche la sua
condizione. Per esempio: da «se piove io esco con l'ombrello», segue che «se non esco con
19

l'ombrello, allora non piove». Non ne segue, invece, che «se non piove, allora non esco con
l'ombrello»

Governare se stessi
I verbi archein (governare, comandare), dioikein (amministrare), egeisthai (guidare. condurre,
dominare) ricorrono nel testo, in associazione più o meno esplicita con il problema della virtù.

1. Menone, nel suo secondo tentativo, definisce la virtù come archein verso l'esterno, su altri
esseri umani; Socrate gli chiede se questa definizione debba valere anche per lo schiavo;
Menone, che condivide la mentalità gerarchica tradizionale, la lascia cadere.
2. Quando Menone rifiuta di sottoporsi alla disciplina della dialettica, pretendendo di stabilire
una qualità di una cosa senza sapere prima che cos'è, Socrate gli dice che, allo scopo di
essere libero, non si cura di archein su se stesso. (86d).

3. Quando Socrate, nel corso del ragionamento ipotetico, vuole mostrare che la virtù può
essere tale solo se accompagnata dalla scienza, la quale mette in grado di usare in modo
appropriato cose soltanto potenzialmente buone, egli afferma che l'anima dotata di
autocontrollo (emphron) guida (egeitai) in modo corretto, mentre l'anima che non ne è
dotata (aphron) in modo errato. (88e)

Il governare verso l'esterno, di per sè, non costituisce un titolo di merito: perfino Menone, che
identifica l'eccellenza col successo, è costretto ad ammetterlo - sia pure per non dover concedere
che il suo schiavo, se si ribellasse e andasse al potere, sarebbe eccellente quanto lo è stato lui. La
domanda di Socrate, d'altra parte, non era affatto indirizzata al potere come tale, bensì alle modalità
del suo esercizio.
Ma sapere amministrare uno stato, una casa, in una parola la capacità di amministrare, non consiste
nel farlo con autocontrollo e giustizia (sophronos te kai dikaios)? (73a)

I termini usati da Socrate in 88e (emphron, aphron) e in 73a (sophronos) contengono tutti la radice
della parola sophrosyne - la capacità di autolimitazione e di autocontrollo che era, incidentalmente,
una virtù tipica della democrazia.

Per poter parlare di controllo di sè occorre pensare il singolo non come un atomo o un individuo,
indivisibile, bensì come una creatura complessa, capace di riflettere su se stessa. A questo provvede
il mito dell'anamnesis: se la capacità di ragionare è pensata come qualcosa di sovrapersonale,
distinto dalla individualità storica di ciascuno, ma presente in tutti coloro che sono in grado di
discutere e di imparare, allora è anche possibile concepire un dominio di sé inteso come autonomia
razionale.

Questo percorso, nascosto nel testo, sarebbe potuto essere un itinerario di definizione della virtù,
come autodisciplina razionale. L'aristocratico Menone non segue questa strada perché concepisce il
potere come qualcosa che si esercita all'esterno, sugli altri; Anito, in quanto democratico, dovrebbe
apprezzare la sophrosyne, ma non è in grado di perseguire la via socratica perché, simmetricamente,
intende il controllo come qualcosa di esteriore, che viene esercitato dalla collettività sul singolo. In
entrambi i casi sapere e potere rimangono separati, perché non si riesce a cogliere la complessità del
rapporto del soggetto con la ragione di cui partecipa.

Bibliografia e URL rilevanti


20

Susan S. Sara Monoson. Plato's Democratic Entanglements. Athenian Politics and the Practice of
Philosophy.

Maria Chiara Pievatolo. La sophrosyne come virtù politica.

La virtù è scienza
Per corroborare l'ipotesi che la virtù sia scienza, Socrate presenta un argomento (87d ss.)
ricollegabile al suo intellettualismo etico. Anche in questo caso, una parte importante della teoria
socratico-platonica viene presentata in via meramente incidentale.

 Se la virtù è un bene, e se non vi sono beni altri o separati dalla scienza, essa deve
necessariamente essere scienza.
 Se le cose buone sono anche utili, se l'utilità di una cosa dipende dal suo uso corretto, e se la
correttezza nell'uso dipende dalla phronesis (saggezza, senno) dell'utente, allora tutti i beni
dipendono dalla phronesis.

 Dunque non esistono beni altri o separati dalla scienza.

 Dunque non c'è virtù senza phronesis.

Dal momento che la phronesis è una qualità dell'anima, si dovrà dire che «nell'essere umano tutto
dipende dall'anima» (88e) e dalla sua capacità di guidare con intelligenza.

Questa phronesis non si acquista per natura; infatti, se si trovasse in alcuni come un giacimento
naturale, i virtuosi verrebbero cercati da appositi talent-scout e custoditi come l'oro. Ma così non è.
Quindi la virtù si può acquisire solo per insegnamento.

Il sillogismo ipotetico negativo


Socrate cerca di verificare l'ipotesi principale - che la virtà sia scienza, e dunque insegnabile -
esaminandone le conseguenze.

E' importante sottolineare che la verità dell'ipotesi è differente dalla validità dell'inferenza ipotetica.
La scientificità della virtù viene smentita in quanto inserita in un'ipotesi entro un sillogismo
ipotetico in modo negativo (modus tollens). Ma il mero fatto che - ad Atene - non esistano maestri
di virtù non prova, di per sé, che sia assolutamente impossibile una virtù connessa con la scienza.

Ecco il sillogismo ipotetico in modo negativo prodotto da Socrate:

Se la virtù è scienza, è insegnabile p --> q


Se la virtù è insegnabile, ci sono maestri di virtù q --> r
21

Non ci sono maestri di virtù -r


La virtù non è insegnabile -q
La virtù non è scienza -p

Maestri di virtù: i politici ateniesi


Usando il metodo ipotetico, Socrate è pervenuto a sostenere che, se la virtù o eccellenza è
insegnabile, vi devono essere maestri di virtù. Per sapere se tali maestri esistono, Socrate sceglie di
interrogare una persona perbene come Anito - cioè proprio colui che, nel suo futuro, sarà il
principale spalleggiatore dell'accusa contro di lui. Per comprendere il dialogo con Anito, bisogna
ricordare che i due interlocutori non hanno concordato una definizione della virtù, e che il problema
dell'esistenza di maestri di virtù è posto all'interno di un sillogismo ipotetico.

Socrate propone ad Anito il modello della techne (90b), cioè di una disciplina settoriale che ha il
suo proprio oggetto, le sue proprie procedure e i suoi propri criteri interni di validità: nei casi della
medicina, dell'arte di fabbricare scarpe o di quella di suonare il flauto, esistono degli esperti che
sono in grado di insegnarle. Ma se vogliamo imparare quella sophia e areté con la quale si
amministra bene la polis e la casa, ci si prende cura dei propri genitori e si sanno accogliere e
congedare cittadini e forestieri, a chi dobbiamo rivolgerci? (91a) Il modello della techne suggerisce
che le persone più indicate siano coloro che si definiscono, per eccellenza, esperti: i sofisti. Anito
nega con sdegno questa ipotesi: i sofisti corrompono i giovani. Dall'esame di Socrate risulta però
che Anito si scaglia contro i sofisti senza averne avuta nessuna esperienza diretta. (92b) La sua
posizione si basa sul sapere tipico della cultura orale: un sapere fondato sull'autorità della tradizione
e non sull'esperienza in prima persona - sapere che viene rafforzato dalla sua ideologia democratica,
che lo porta ad affidarsi acriticamente alla vox populi. 14

Nella prospettiva democratica di Anito, un qualsiasi Ateniese kalos kagathos (perbene) è in grado di
trasmettere l'eccellenza, (92e). Il principio espresso da Anito, 15 che sancisce la competenza dei
cittadini ateniesi in quanto tali, è - incidentalmente - anche il principio fondamentale della
democrazia diretta ateniese. Socrate gli presenta vari esempi di uomini politici ateniesi eccellenti -
Temistocle, Aristide, Pericle - i quali non sono stati capaci rendere virtuosi neppure i loro figli.
Anito coglie nelle affermazioni di Socrate soltanto un attacco politico, 16 non si rende conto che
Socrate sta affrontando, sulla base di questi esempi, anche il più ampio problema dell'insegnabilità
della virtù intesa nel senso tradizionale - come addestramento e abitudine dovuta alla consuetudine -
e risponde minacciosamente:

[14]
La provocazione di Socrate, che propone ad Anito proprio i sofisti come maestri di virtù,
contiene anche una critica implicita alla democrazia: se la democrazia, infatti, si fonda sulla fiducia
nella vox populi e reprime la critica scientifica, essa sarà inevitabilmente il terreno ideale per la
retorica sofistica.
[15]
Il medesimo principio e i medesimi argomenti ricorrono nel Protagora.
22

[16]
Lo stesso Anito, in 92b-c aveva ammesso che i suoi giudizi durissimi nei confronti dei sofisti non
dipendevano da nessuna sua esperienza personale; questo, tuttavia, non gli impediva di proferirli.
Socrate allude probabilmente a questo comportamento quando conclude: «Ma se un giorno saprà
che cosa vuol dire dir male della gente, si calmerà.» (98a)

Mi sembra, Socrate, che sei facile a dire male della gente! Se vuoi darmi retta, ti consiglierei di
andarci cauto. Se in altre città è facile fare del bene e del male alla gente, nella nostra è facilissimo.
Anche tu, credo, lo sai! (94e ss.)

Maestri di virtù: sofisti e poeti


Socrate prosegue interrogando Menone sui sofisti. Il suo parere merita di essere preso sul serio,
perché Menone, a differenza di Anito, ne ha esperienza diretta. Menone testimonia che Gorgia non
si professa maestro di virtù, ma mira solo a formare buoni parlatori. (95c)

Socrate allora prende in esame i sapienti tradizionali della cultura orale, e cioè i poeti, nella persona
del nobile Teognide. 17 Si analizzano due brani delle sue Elegie i quali, a proposito dell'insegnabilità
della virtù, esprimono tesi reciprocamente contraddittorie.

Insieme bevi, insieme mangia, accanto siedi

e sii gradito a chi abbia grande potenza:

da chi valoroso sia, cose di valore apprenderai.

Se invece ai malvagi [kakoi] ti unisci,

pur quel senno [nous] che è in te andrà perduto! (95d-e)

In questa prima citazione, Teognide esorta un giovane di buona famiglia a formarsi evitando di
frequentare uomini kakoi (cattivi, di basso rango). Però altrove egli canta:

...mai da virtuoso [agathos] padre verrebbe figlio vizioso [kakos],

se docile fosse ai saggi consigli di lui;

solo che con gl’insegnamenti

mai di un malvagio [kakos] farai un virtuoso [agathos]. (96a)


23

[17]
Teognide fiorì fra il VI e il V secolo; la sua opera, diffusa oralmente, ebbe un notevole successo
nei circoli aristocratici di Atene, testimonia il disagio di una generazione minacciata dalla crescente
pressione delle masse popolari. Ritroviamo un Teognide, omonimo del poeta, fra i Trenta Tiranni.
Platone non ha scelto questo nome a caso: la sua critica politico-culturale non vuole coinvolgere
solo la democrazia, ma anche l'aristocrazia.

Le contraddizioni di Teognide sono dovute sia al carattere orale della sua comunicazione, sia alla
duplicità della parola agathos, la quale indica sia un ideale da raggiungere, sia un rango che si
possiede per nascita. Il vaglio della nuova analisi concettuale le fa emergere con grande evidenza.
Ma gente così sconvolta - afferma Socrate - non può essere maestra di nulla. (96b) Dobbiamo
dunque concludere che l'areté - o almeno quella areté che politici, sofisti e poeti pretendono di
insegnare - non può venir trasmessa, cioè offerta alla ricezione consapevole e critica di un discente.
Non la possono infatti trasmettere i sofisti, perché essi si occupano solo di una forma di eccellenza
tecnica; nè la sa trasmettere la tradizione - aristocratica o democratica che sia - perché è priva degli
strumenti concettuali che sono alla base della possibilità di una interazione critica.

Bibliografia e URL rilevanti

Maria Chiara Pievatolo. Il caso Socrate.

Maria Chiara Pievatolo. Il poeta e il potere.

Francesca Di Donato. I Greci tra oralità e scrittura.


24

Opinioni corrette
Dal momento che tutti i tentativi di risolvere il problema dell'insegnabilità della virtù si sono rivelati
fallimentari, Socrate propone un'altra soluzione, in grado di spiegare come possono esistere persone
virtuose in mancanza di maestri di virtù: se la virtù comporta una forma di utilità, (96e) allora per
essere virtuosi è sufficiente essere efficaci. Ad esempio: per dirigersi e per guidare altri
correttamente sulla via per Larissa non occorre la scienza, ma è sufficiente avere una opinione
corretta. (97a)

E finché avrà una opinione corretta di ciò di cui altri ha scienza, non sarà una guida peggiore,
credendo cose vere senza capirle (phronòn), di chi le capisce (phronountos). (97b)

Questa soluzione è parassitaria: la correttezza dell'opinione di qualcuno può essere stabilita solo in
virtù della scienza detenuta da altri. Mentre il modello dell'anamnesis - che comporta una ricerca in
prima persona, indipendente, in linea di principio, dalla gerarchia sociale - reca in sé un potenziale
di emancipazione, l'opinione corretta dipende da un sapere altrui.

L'opinione corretta è inoltre esposta a un altro limite: la provvisorietà. Socrate paragona le opinioni
corrette alle statue di Dedalo, 18 delle quali si narrava che fossero semoventi, e tendessero a scappar
via, se non venivano legate saldamente.

Anche le opinioni vere, finché permangono, sono una bella ricchezza, capace di realizzare tutto il
bene possibile; solo che non acconsentono a rimanere per lungo tempo, e fuggono via dall’anima
umana, per cui non hanno un gran significato, a meno che non s’incatenino con un ragionamento
fondato sulla causalità. Ma proprio in questo, compagno Menone, consiste l’anamnesis, quella
reminiscenza su cui sopra ci siamo accordati. Se collegate, esse dapprima divengono epistemai e,
quindi, cognizioni stabili. Ecco perché la scienza vale più dell'opinione corretta: la differenza tra
episteme e opinione corretta sta, appunto, nel collegamento. (98a)

La differenza fra scienza e opinione retta non sta nel carattere più o meno esatto delle nozioni, ma
nella capacità di collegarle: sul piano mnemonico, chi ha capito i principi che fondano le sue
nozioni è in grado di ricostruirle in qualsiasi momento; chi non li ha capiti, tende invece a
dimenticarsene. L'anamnesis permette di pensare la conoscenza scientifica come un sistema, sulla
base di un modello di memoria differente sia dalla ripetizione propria dell'antica cultura orale, sia
dalla rappresentazione meccanica e discreta del sapere proprio della nuova cultura sofistica.
25

[18]
Questa stessa similitudine viene usata anche nell'Eutifrone, per rappresentare l'instabilità delle
definizioni non scientifiche. Su un possibile senso della presenza ricorrente di questa immagine si
veda anche qui.

Un destino divino
Se non esistono maestri di virtù, l'ipotesi che la virtù sia scienza e quindi possa essere insegnata
appare non corroborata. Si deve concludere che coloro che sono virtuosi lo sono soltanto per
opinione corretta.

Socrate: Poiché la virtù non è didakton (insegnata o insegnabile), essa non è, dunque, scienza?
Menone: Non sembra. Socrate: E allora dei due elementi utili e buoni, uno viene a cadere: la
scienza non può più essere considerata quale guida della prassi politica. Menone: Non mi sembra.
Socrate: Non dunque per un certo loro sapere (sophia), non dunque perché sapienti 19 (sophoi), quei
tali uomini si sono fatti guida delle città, i Temistocle e gli altri nominati da Anito. Per tale ragione,
anzi, non sono riusciti a formare altri simili a sé, ché le proprie qualità non erano dovute alla scienza
(episteme). Menone: Mi sembra, Socrate, che tu abbia ragione. Socrate: Se le loro azioni non erano,
dunque, dovute alla scienza, non resta se non che le abbiano compiute per buona opinione
(eudoxia). Mediante essa i politici dirigono le città, in nulla diversi, per ciò che riguarda la scienza,
dagli indovini e dai vati; anche indovini e vati pronunciano molte verità, solo che nulla sanno di
quello che dicono. Menone: Rischia che sia proprio così. Socrate: E allora, Menone, non è forse
giusto chiamare divini tali uomini, che, pur non avendo intelletto (nous), con successo riescono in
molte e grandi cose mediante l’azione e la parola? (99a-c)

Se le cose stanno così, prosegue Socrate, la loro virtù deve provenirgli da un destino divino (theia
moira) 20 , (99e) ovvero, come diremmo noi più laicamente, dalla fortuna.

Nell'ironia di questa conclusione si nasconde una critica durissima alla struttura etico-culturale della
democrazia ateniese. Né la tecnica sofistica, incarnata da Menone, né la cultura popolare,
rappresentata da Anito, sono in grado di fondarsi su un modello di conoscenza come quello
proposto nella teoria dell'anamnesis. La teoria dell'anamnesis ha suggerito che un complesso di
nozioni sia veramente sapere solo se riesce ad essere intersoggettivo, sovrapersonale, condivisibile e
acquisibile criticamente in prima persona. Se la cultura della democrazia non è in grado di adeguarsi
a questo modello essa, semplicemente, non è sapere.

Che la tesi di Socrate sulla virtù come destino divino abbia una sfumatura ironica 21 , appare molto
chiaro dalla sua conclusione:
26

[19]
Si veda, a contrario, il ruolo politico della sophia.
[20]
La moira, propriamente, era il destino, come legge divina e impersonale della natura, che dava a
ciascuno la parte che gli spettava. Si potrebbe quandi rendere più propriamente come
"provvidenza", se non fosse per il fatto che la provvidenza implica l'intervento di un Dio personale
e onnipotente, qui del tutto impensabile.

A noi, se nel suo insieme il nostro ragionamento si è svolto con un esame e con un discorso ben
condotto, risulta che la virtù non è per natura né è oggetto d’insegnamento, ma che in coloro nei
quali fiorisce virtù essa proviene per destino divino; senza intelletto (nous), a meno che non si trovi
un politico capace di formare altri politici. Se un tale uomo esistesse si potrebbe dire di lui che
sarebbe, tra i vivi, quello che Omero dice fu Tiresia tra i morti, quando afferma che egli solo
nell’Ade ha spirito (pepnutai), mentre gli altri come vane ombre svolazzano. Tale uomo, rispetto
alla virtù, sarebbe, appunto, come un essere reale tra ombre. (99e-100a)

Una lettura retroattiva


Siamo abituati a pensare il testo come una catena di argomentazioni organizzate in una sequenza
rigidamente orientata, che ha come esito finale una conclusione. Ma se interpretiamo il Menone in
questo modo, otteniamo un'opera che, pur essendo ricchissima di riferimenti ad importanti teorie
platoniche della maturità, appare stranamente inconcludente.

José Trindade Santos suggerisce di prendere sul serio il concetto di anamnesis e di tentare una
lettura retroattiva, cioè di fare retroagire ciò che è alla fine su quanto lo precede. Nel Fedro il testo
scritto di un discorso di Lisia è ripreso in mano e riletto per essere analizzato. La nuova possibilità
offerta dalla scrittura non è la produzione di sequenze unidirezionali e irreversibili, bensì la rilettura
di un testo di cui si conosce già la conclusione, per discuterlo e capirne meglio la connessioni
interne. 22

[21]
Una sfumatura che Anito, il quale dà segni di nervosismo, coglie benissimo. (99e, 100b) La sua
cultura democratica, d'altra parte, fa sì che egli percepisca come insulti quelli che un uomo
pienamente immerso nella tradizione orale avrebbe considerato dei complimenti. La prassi
democratica della discussione libera e della partecipazione civile richiede consapevolezza nelle
scelte: Il conformismo di Anito è dunque già diverso da quello tradizionale.
27

[22]
All'epoca di Platone i testi scritti erano rotoli e non codici; questa forma faceva sì che lo
scrolling. cioè lo scorrere un testo avanti o indietro fosse una operazione tanto "naturale" quanto
quella di far scorrere una pagina web sullo schermo del proprio computer con il mouse.

La conclusione del dialogo menziona la qualità di un politico dotato di intelletto, capace di formare
altri politici, che sarebbe come Tiresia nel regno delle ombre. Ma noi ricordiamo che un altro al di
là è possibile: quello della anamnesis, che è una condizione di sapere totale e sistematico,
indipendente dalle prospettive limitate delle persone collocate nello spazio e nel tempo.

Un politico simile, nella democrazia ateniese, non esiste: anche i politici più bravi sono tali solo per
opinione corretta. Per questo non sono in grado di spiegare agli altri perché fanno quello che fanno.
Né possono essere maestri di virtù adeguati i poeti e i sofisti.

La virtù deve essere connessa alla scienza, perché tutti i beni - beni che vogliono tutti, senza nessun
merito speciale - cui possiamo pensare sono tali solo se usati con intelligenza. Ma da dove
ricaviamo questa intelligenza? Se venisse dall'opinione corretta, non sarebbe stabile e sarebbe
soggetta al sapere di qualcun altro: deve essere qualcosa che non ci può essere trasmessa
meccanicamente, e dunque deve venire da noi stessi. Nello stesso tempo, deve essere possibile
spiegare agli altri che cos'è, altrimenti non saremmo in grado di giustificare nessuna delle nostre
scelte.

Tutti desiderano il bene, ma non tutti hanno voglia di cercare e di spiegare che cosa è; la ricerca,
tuttavia, ci rende migliori, sia perché essa sola può produrre scienza, sia perché aggiunge la
possibilità di interazioni collaborative. Essa deve mettere in discussione le gerarchie sociali
esistenti. Chi infatti, alla maniera di Anito, accetta semplicemente l'autorità della persone "perbene",
non può né iniziare una ricerca per conto proprio, né confrontarsi con interlocutori che abbiano idee
diverse.

Infine, poiché la scienza si identifica con quello che ciascuno sa capire e dimostrare da sé, cioè
richiede il ragionamento autonomo, in questo campo l'unica forma di insegnamento possibile è
l'anamnesis: la virtù non si insegna, si impara soltanto.
28

A. Comunità del sapere


Nel Menone sono proposti tre modelli di comunità di conoscenza:

1. il modello di Anito, legato alla concretezza della cultura orale: per lui non esiste un sapere
formale, separato dal suo mondo e dalla sua esperienza, ma solo l'autorità della tradizione,
con la quale egli si identifica acriticamente. Il suo patrimonio culturale, in quanto dipende da
una tradizione, è sovraindividuale perché nel suo mondo non si è ancora sviluppata la
coscienza del singolo, ma particolaristico, in quanto non possiede ancora gli strumenti
concettuali per confrontarsi con l'esterno. Il complesso delle sue cognizioni forma una
totalità senza universale. Già in Anito, tuttavia, si manifesta una esigenza di consapevolezza
prodotta dalla prassi della democrazia.
2. il modello della sofistica, che sviluppa strumenti concettuali finalizzati all'eccellenza tecnica
settoriale. Questi strumenti sono intesi come di produzione individuale e come trasmissibili
meccanicamente: in questo senso, possono essere trattati come patrimoniali, oggetto di
proprietà e di compravendita. All'autorevolezza impersonale della tradizione, di cui il poeta
delle culture orali è un mero ripetitore, si sostituisce l'autorevolezza personale dell'esperto; si
introduce la differenziazione fra chi accede al sapere, perché può pagare, e chi no. A questa
concezione del sapere si addice il paradosso di Menone. Il patrimonio dei know how
sofistici, in quanto complesso di technai meramente settoriali, può essere trattato come
particolarità senza universale.

3. il modello dell'anamnesis: le idee, per essere valide per sempre e non solo qui e ora, devono
essere pensate come un complesso indipendente dalla storia, dagli individui e dalle società
particolari. In questo senso, esse non possono venir ridotte a cose e a patrimonio privato - in
quanto hanno valore solo nella misura in cui sono radicalmente pubbliche e condivisibili.
Dalla storia e dagli individui dipende invece l'accesso alle idee, che è personale e dunque
differenziato. Tuttavia, anche in questo caso, l'avanzamento della conoscenza è reso
possibile da un procedere pubblico e collaborativo, idealmente indipendente dalle gerarchie
sociali. Il sapere che risponde a questo modello è, in senso oggettivo, universale, ma senza
totalità, in senso soggettivo: le idee vanno pensate come valide per tutti, anche se nessuno è
in condizione di sapere tutto.

Letture consigliate
Pierre Lévy. Cybercultura.

Pekka Himanen. L'etica hacker e lo spirito dell'età dell'informazione.

Lawrence Lessig. The future of ideas. The fate of the commons in a connected world.
29

Richard Stallman. Reevaluating Copyright: The Public Must Prevail.

B. Il metodo dialettico e il metodo ipotetico sono


reciprocamente alternativi?
Enrico Berti, a proposito del Menone, scrive:

Nel Menone Platone distingue il modo di discutere e di confutare dei Sofisti, definiti eristici ed
agonistici, da quello che si usa tra "amici" e che è definito "più dialettico" (dialektikôteron):
quest’ultimo consiste, per chi risponde, nel dare risposte vere, e per chi interroga, nell’assumere
come premesse solo ciò che l’interlocutore ha effettivamente concesso (75d). Si tratta dunque
esattamente dello stesso procedimento praticato nei dialoghi giovanili, cioè socratici. [...]

[...] la dialettica ha sempre a che fare con delle ipotesi (hupotheseis). Nel Menone si dice infatti che,
quando non si conosce che cos’è un oggetto, per esempio la definizione della virtù, e tuttavia si
vuole conoscere una sua qualità, per esempio se la virtù sia insegnabile o no, si deve formulare
un’ipotesi, per esempio assumere che la virtù sia insegnabile, e vedere quali conseguenze ne
derivano (86e-87b). Partire da un’ipotesi significa dunque assumere una tesi, di cui ancora non si sa
il valore, e dedurne le conseguenze: evidentemente il tipo di conseguenze che ne deriveranno
fornirà delle indicazioni circa il suo valore. 23

Questa interpretazione contrasta con la lettera del testo, per la quale Socrate ricorre al metodo
ipotetico come ripiego, dal momento che Menone si rifiuta di procedere in modo dialettico,
concordando preliminarmente con lui una definizione della virtù prima di indagarne le proprietà. Il
procedimento dialettico comincia, infatti, stabilendo una definizione vera, su cui gli interlocutori
convengono, a partire dalla quale si può procedere per deduzione; il metodo ipotetico, di contro,
prende le mosse da una affermazione meramente condizionale e provvisoria. Nel caso particolare, la
falsificazione dell'ipotesi è compiuta tramite una ricerca empirica entro un ambito limitato, che
mostra solo che ad Atene non esistono maestri di virtù, ma non implica affatto che in generale non
possano esistere maestri di virtù. Socrate stesso ne riconosce la possibilità nella conclusione del
dialogo

Tuttavia, in termini meno formali, gli interlocutori di una interazione dialettica, per cercare una
definizione vera, possono certamente valersi di ipotesi. Che senso ha, allora, trattare il metodo
ipotetico come un metodo di secondo ordine?

Una risposta si può trovare nella metafora della linea, del VI libro della Repubblica, ove si dice che
la dialettica tratta le ipotesi come supposizioni in senso proprio, cioè come meri punti di partenza
per arrivare all'incondizionato; questo la differenzia dai procedimenti dianoetici, che si limitano ad
assumerle come date, senza accertarne la verità. In altre parole: il procedimento ìpotetico è un
metodo di seconda scelta solo quando viene adottato non come ausilio, bensì come sostituto del
metodo dialettico.
30

[23]
E. Berti, «Si può parlare di un’evoluzione della dialettica platonica?», in Journal of the
International Plato Society, Vol. 2, 2002.

C. Schede bibliografiche
José Trindade Santos, «La struttura dialogica del Menone:
una lettura retroattiva» 24
La lettura evolutiva dei testi platonici, il cui scopo principale è collocare ciascuna opera all'interno
di un itinerario storico di pensiero o di comunicazione, impoverisce la comprensione dei singoli
testi, perché induce a trascurare sia l'unità e l'autonomia dell'investigazione dialettica, sia la
specificità del dialogo come medium di creazione filosofica e culturale. Una simile strategia
interpretativa, per quanto sia attualmente prevalente, si espone all'accusa di essere:

 arbitraria, perché assume ogni dialogo come il momento in cui l'autore scopre le concezioni
che esso presenta, presupponendo che la composizione scritta fosse, come oggi, il modo
naturale di creazione culturale nell'Atene del IV secolo
 circolare: ciascun singolo dialogo dovrebbe illustrare un momento dell'evoluzione del
pensiero platonico; ma il fatto che il pensiero platonico abbia un'evoluzione rispecchiata
fedelmente dai dialoghi è, a sua volta, frutto di una assunzione non provata

Del Menone si è soliti affermare che rappresenta il superamento dell'elenchos a favore del metodo
ipotetico. Il fatto che questo passaggio appaia un superamento deriva, tuttavia, solo dalle
assunzioni, esterne, della lettura evoluzionistica. Se, di contro, consideriamo il dialogo nella sua
struttura conclusa in se stessa, sarà possibile renderne chiara l'unità dell'investigazione dialettica.

Il Menone si può dividere in tre parti, apparentemente indipendenti:

1. Problema dell'insegnabilità della virtù e tentativi di una sua definizione (70a-79c)


2. Paradosso eristico; anamnesis; dialogo con lo schiavo
3. Illustrazione del metodo ipotetico, constatazione che non esistono maestri di virtù,
conversazione con Anito e autocritica di Socrate (la virtù dipende dall'opinione vera)

La prima parte non si distingue da un dialogo elenchico, sia per le dimensioni sia per la conclusione
aporetica. Diversi sono solo l'inizio ex abrupto e il sostegno all'elenchos con rilevanti esempi ed
esigenze dialettiche.

La seconda parte, col paradosso di Menone, il mito dell'anamnesis e l'esercizio di apprendimento


non può paragonarsi a nient'altro che Platone abbia scritto; introduce l'opinione vera, topos estraneo
al metodo elenchico, e funge da punto di svolta fra elenchos e ipotesi.
31

[24]
In G. Casertano (a cura di di), La struttura del dialogo platonico, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 35-
50

La terza parte riprende il tema iniziale introducendo il metodo ipotetico e applicandolo alla
questione della virtù; ma si prosegue smentendo i risultati positivi con l'osservazione dei fatti; dopo
un dibattito con Anito e l'esame delle opinioni di Teognide e di Gorgia, la conclusione negativa
sull'insegnabilità della virtù sembra rafforzarsi; si conclude con l'autocritica di Socrate che salva le
apparenze della virtù pratica, lasciando aperto il problema di quella teoretica.

L'investigazione su qualsiasi cosa comincia coll'indagine sulla sua natura; questa indagine si fa
attraverso la valutazione di una risposta alla domanda "che cos'è?" questa cosa. Per questo una
domanda sulla virtù equivale a un'altra sulle condizioni di possibilità della conoscenza della virtù
stessa. Socrate richiede inoltre l'unità e l'unicità dell'oggetto della ricerca.

Menone protesta contro queste esigenze, che non sono giustificate. Come investigare su quello che
assolutamente si ignora? Nelle condizioni offerte dall'elenchos, non è possibile né la ricerca, né
l'apprendimento. O so una cosa, e dunque non mi serve discutere, o non la so, e dunque non ho
bisogno di discutere.

Socrate dà una risposta a gradini:

1. teoria dell'anamnesis: l'apprendimento è reminiscenza


2. metodologia ipotetica e opinione vera (colloquio con lo schiavo)
3. metodo ipotetico applicato alla virtù
4. ma non ci sono maestri di virtù: essa deve avere un'origine divina

Socrate non è ironico, perché questa tesi viene ripetuta in Resp. VI 492 e ss. Ma è chiaro che non è
una soluzione soddisfacente. Per capire il senso del dialogo occorre tentare una lettura retroattiva:
come la scoperta della sufficienza pratica dell'opinione vera influisce sulla riformulazione del
sapere come reminiscenza? Viceversa, come ambedue influiscono sulla nostra comprensione della
virtù?

L'elenchos si deve adattare alla reminiscenza: l'aporia ha un senso positivo, perché solo il
riconoscere la propria ignoranza apre la strada all'anamnesis. Il metodo ipotetico è un passo avanti,
perché dall'ignoranza si passa alla ricerca del sapere.

Lo schiavo, a differenza di Menone, si trova più avanti perché non solo riesce ad articolare
l'opinione vera in una risposta corretta, ma perché riconosce, preliminarmente, la propria ignoranza.
La reminiscenza è l'interrogatorio con il quale le opinioni vere emergono; successivamente, si
comprende di aver attinto una risposta. Questo secondo passo è la sistematizzazione delle opinioni
32

vere, in complessi sempre più ampi. L'esame dei fatti politici conclusivo non ha rilevanza per
l'anamnesis. La virtù non può essere altro che sapere. La areté per theia moira è solo una
concessione, che testimonia il divorzio fra i filosofi e élite intellettuale politica ateniese: il sapere
non l'insegna nessuno nella città, se non i filosofi, che Anito e Menone non conoscono. O, ancor
meglio: la virtù è sapere, ma non si può insegnare, bensì solo imparare.

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