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Venerdì 5 febbraio 2021, diretta sui canali on line della Centrale dell’Acqua di Milano a
partire dalle 17. “Sinisgalli e Civiltà delle Macchine” Con Gian Italo Bischi
(Università di Urbino) e Giorgio Bigatti (Università Bocconi, Milano). Nel 1950
l’autoritratto ( “La luce ha la tua statura/ e regge il gesto/ precisa, anche la pietra/ dà il
petto al sole./ La tua voce questa mattina/ ci cresce nelle ossa, / in questo sangue/ che
si ordina come le foglie./ E il giorno prende in terra/ misura dal tuo passo.”), preludio di
un esercizio memoriale che sfocia fino alla fanciullezza (“Perduta alle spalle la
fanciullezza/si fa più lontana, ombra/ cieca nella polvere.”), e addirittura si misura su un
realismo che affonda nei suoi giochi d’infanzia ( “I fanciulli battono le monete rosse/
contro il muro…”) o nell’epigramma e nella gnomica (“Ora e sempre più viva/ sarà la
smania di far notte in me solo/ e cercare scampo e riposo/ nella mia storia più
remota/./ Ogni sera mi vado incontro a ritroso”). E’ visibile chiaramente in “18
poesie” del 1936 la svolta memoriale, quell’elegia del tempo lontano, che Oreste
Macrì ha chiamato “recupero delle cose pure della terra, della famiglia e dell’aura
nativa”, non nascondendo
quell’ermetismo rasente che catturava motivi remoti, decorativi, nei quali anche altri
poeti del periodo, come Cardarelli, si aggrappavano per sfuggire a quel momento
storico. Quelle storie, quei ricordi, quelle memorie non si sono mai avviate a divenire
miti, non si certificarono trasfigurazioni, perché tutto si avviò verso il disimpegno, quella
scrittura poetica che trasudava di riecheggi mallarmeani ( La pazienza è forse rischiosa/
che talvolta si spegne un fiore/ nella notte e il fradicio odore/ ti eccita curiosa./ Ma
susciti dentro la stanza/ l’aria di tanta vacanza/ amica pungente e pia./ Così cara è la
tua molestia/ che stasera con me ti fa festa/ la mia effimera poesia”). Col trascorrere
degli anni ecco l’influenza montaliana, specie quella stoica, dove le parole sono suono
ma maggiormente si fanno gioco epigrammatico ( “Questa traccia esitante senza fine/ è
la tua sorte; se passi il confine/ la morte può cogliere nel segno”). Rimane la
descrizione di cose e oggetti, di immagini care, ma attraverso un tono meditativo,
oscuro e inquietante che circonda sempre il “tu” autobiografico. E se De Robertis
aspettava la nascita dei miti da questo incedere poetico, ciò non solo non avviene,
Sinisgalli si porta con il suo controllo algebrico, di conta della vita, di scorporo
del linguaggio poetico, a furoreggiare in immagini e tecniche di altri, come
d’altronde aveva avvertito già Contini sottolineando quella sorta di “nudità”
utilizzata già da Umberto Saba e poi Sandro Penna (“ Rosei del rosa dolce delle
case/ d’Autunno i muratori sopra i tetti”) o anche da tracce cardarelline come in “Elegia
Romana ( “ Chi conosce le tue estati, Roma/ sa di aver toccato la luce/ fino all’osso…”).
Montemurro nel Potentino, allenta via via la presa visiva e verbale; e se prima questi
dati trovavano presenza in una poesia carica di espansione dei sentimenti, adesso
quegli stessi elementi sono quasi senz’anima e senza storia, asfittici, privi di reali
contatti umani e di vita; tutto si avviava nel pieno dell’ermetismo, in quel magma fatto
proprio da Ungaretti che aveva metafisicizzato la sua poesia, trovando accadimenti nel
suo “dolore” pur romantico e individualistico. Sinisgalli si muove ora nelle metafore
che gli sussurra la polvere, l’elegia della mosca, l’ironia di ciò gli sovviene
dall’infanzia, c’è quasi un distacco gelido che si avverte nel presentare ogni
oggetto come un oggetto barocco e pertanto solo strumento ai fini poetici; quelli
che erano stati moti del cuore legati ai luoghi lucani e alla fanciullezza ora si
smorzano in un discorso arido (“Si spegneranno al sole le piccole fiamme/ degli zingari
maniscalchi,/ le incudini abbandonate sui prati/ e i sontuosi scacciamosche/ per le
groppe degli asini decrepiti.”/). E’ in questo lungo percorso poetico la poesia di Sinisgalli
si arena in questa fatalistica avventura del vivere, in questa desertificazione dell’anima,
in questa concreta insensibilità, per aver interrotto ogni vero motivo direzionale del
vivere e dell’agire umano (“Da te,consumati tutti i segni,/ sciolti tutti i nodi, rotti i patti,/
distrutte le scorie,/ rinasceremo alla stasi eterna, / lastre senza gemiti, specchi senza
memoria./). E’ il tempo dell’aridità, di ogni traccia poematica non più evidente, è il