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STEFANIA CERUTTI

Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

Versione dell’Autrice. La versione pubblicata si trova in L. Clerici, M. Meli e P.


Mura (a cura di), Carmina Indica. Figure dell’India in Occidente dal Settecento a oggi,
Padova, Padova University Press, 2015, pp. 193-212, ISBN 9788869380266.

Abstract
Poetical and musical journeys between India and Europe
The intuition of the presence of analogies between the literature of India and that of
the poetic and dramatic production of European music during the nineteenth century:
this is here the basis for a reflection and a research on the works of poets and composers
who came deeply in contact with Indian culture because of their formative background,
cultural interests or elective affinities. Among the possible connections between texts
and music representative of this vast field, two selections have been presented on the
stage. Luce dal Gange (Light from the Ganges) is the result of an emotional and
imaginative journey in the boundless land of European chamber music; the product of a
circularity of impressions, generated by the banks of the Ganges, the setting of
Mendelssohn’s Lied, and returning to Tagore’s holy river in the Light that springs forth
and inundates the world. L’India all’Opera (India at the Opera) completes the enquiry
among the works that are currently still performed in musical theatres, seeking special
suggestions generated by the mysterious alliance of «voice-that-plays-music» and
«piano-that-tells-tales», in India as a place that is experienced, imagined, recounted and
stereotyped.
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

La musica è la forma più pura dell’arte e quindi la più diretta espressione della
bellezza; semplice ed unica per struttura e per spirito, e solo in minima parte
impacciata da elementi estranei. La manifestazione dell’infinito nelle forme
finite della creazione, sembra essa stessa una musica silenziosa e visibile. Una
notte stellata, con l’infinito succedersi di costellazioni nel cielo, fa come il
bambino che colpito dal mistero delle sue prime parole, va ripetendole di
continuo, ascoltando rapito il suo stesso balbettio. Quando nelle notti piovose di
luglio, le tenebre fitte gravano sui campi, e la pioggia scrosciante distende i suoi
veli sulla terra sonnolenta, il monotono lamento dell’acqua sembra come
l’oscurità nel suono stesso. La macchia cupa degli alberi allineati, i cespugli
ispidi sparsi per il piano deserto come galleggianti teste di nuotatori dai capelli
fangosi, l’odore dell’erba e della terra bagnate, la guglia del tempio che s’innalza
al di sopra della massa confusa e nereggiante delle casupole del villaggio
aggruppate dintorno, tutto forma come una musica che emana dal cuore della
notte, e si confonde e si perde nel canto della pioggia incessantemente rovesciata
dal cielo.
Perciò i veri poeti, quelli che sono veggenti, cercano d’esprimere l’universo con
accenti musicali.
Raramente essi si servono dei simboli della pittura […]. Infatti chi dipinge deve
servirsi di tela, di pennelli e di colori. Il primo tocco del suo pennello è ben lungi
dalla completa espressione della sua idea. E quando poi l’opera è compiuta,
l’artista non esiste più; […] è cessata l’assidua opera d’amore della mano
creatrice.
Al contrario colui che canta possiede tutto in se stesso; le sue note scaturiscono
dalla stessa sua vita, non sono un materiale raccolto dall’esterno. In lui l’idea e
l’espressione sono sorelle e molto spesso nascono gemelle. Nella musica il cuore
rivela se stesso in modo immediato, non subisce l’impedimento di alcuna
barriera formata da elementi estranei.
Perciò quantunque la musica, come ogni altra arte, debba arrivare gradualmente
alla sua completa espressione, tuttavia essa manifesta ad ogni istante la bellezza
del tutto. La parola stessa, in quanto è mezzo per esprimere l’idea, costituisce un
impedimento, poiché il significato delle parole deve venir ricostruito dal
pensiero. Invece la musica non è mai costretta in un determinato significato; essa
esprime quello che nessuna parola potrebbe mai esprimere.
Ma, quel ch’è più, la musica e il musicista sono inseparabili. Mancando il
cantore, il suo canto muore con lui, poiché esso è in eterna unione con la vita e la
gioia dell’autore.
Il canto dell’universo non è disgiunto un solo istante dal suo cantore; esso non è
formato da alcun elemento esteriore, è la gioia stessa di lui che assume forma
eterna; è il cuore eterno che diffonde il suo palpito per i cieli1.

Dalla scoperta di questa pagina tagoriana di incantevole bellezza e

1
R. Tagore, Sadhana (Reale concezione della vita), trad. it. Carabba, Lanciano 1915,

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ispirazione nascono un’intuizione e la necessità di ricreare il «canto


dell’universo», attingendo all’enorme produzione della musica colta
occidentale. Nel momento della scelta tra i tanti possibili percorsi su cui
incamminarsi, tra i fils rouges da seguire, tra le suggestioni, tutte di
notevole fascino, ci viene in soccorso un segnavia:

La melodia rappresenta, nel canto, l’elemento soprannaturale che aggiunge alle


parole quel di più di intensità, di forza, di delicatezza, di poesia e di fascino o di
stranezza che le derivano da qualcosa che sfugge all’analisi e di cui noi subiamo
gli incanti senza sapere il perché. Per contro la parola, che contiene forme del
sentimento e del pensiero, comunica alla melodia quei significati che le
permettono di agire direttamente sul cuore e sulla mente di chi ascolta. Se
dovessero proprio dover dominare l’una sull’altra, parola o melodia, forse non ci
sarebbe da discutere: dovrebbe toccare alla parola2.

La primaria importanza affidata al testo poetico-drammatico e


l’analogia riscontrata tra la letteratura occidentale e quella indiana sono
stati criteri di scelta per tradurre in spettacoli due di questi sentieri: Luce
dal Gange è il risultato di un percorso emozionale e immaginifico nella
terra sconfinata della musica da camera europea, di una circolarità di
suggestioni originate dalle rive del Gange, ambientazione del Lied
mendelssohniano, e che al sacro fiume di Tagore ritorna, nella Luce che
sgorga e inonda il mondo; L’India all’Opera è il suo completamento di
indagine tra le opere tuttora in cartellone nei teatri musicali, alla ricerca,
nell’India vissuta, immaginata, raccontata, stereotipata, di particolari
suggestioni generate dall’alleanza misteriosa tra la voce-che-suona e il
pianoforte-che-dice.
Ricerchiamo dunque i testi e gli autori che meglio hanno tradotto in
Occidente la bellezza della poesia indiana, che si tratti di testi sacri o di
liriche amorose. Primi fra tutti i romantici tedeschi, Rückert in
particolare, per abbondanza e varietà di colori e per il contatto
privilegiato della sua produzione con l’India; ma anche Goethe, l’anello
di congiunzione con l’Oriente; Heine, a sua volta traslitterato da
Deschamps, che a sua volta richiama Hugo, Leconte de Lisle e Silvestre.
Interconnessioni e diramazioni infinite.
In alcuni casi la scelta è quasi d’obbligo, come per i brani del Ṛgveda,
il più antico testo sacro della tradizione indiana, tradotti dal sanscrito e

2
R. Hahn, Lezioni di canto, trad. it. Marsilio, Venezia 1990, p. 7.

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musicati dallo stesso Holst; in altri si scorge un ponte tra la musica da


camera e quella operistica, come nel caso di Delibes e Alfano; talvolta
infine ci si lascia guidare dall’istinto e dalla bellezza di opere traboccanti
di densità di affetti come i Lieder dei fedeli e contrastati Schumann
marito e moglie che comunicano, per l’eternità, non più mediante il
famoso quaderno di appunti casalinghi, ma con l’aperta dichiarazione
d’amore e il segreto gioco di sottigliezze musicali, di citazioni sussurrate,
prese in prestito l’uno dall’altra, i gentili omaggi e il pensiero costante
verso l’amato. Così nel postludio di Widmung, primo Lied del ciclo
Myrten, Robert rende omaggio con una citazione speranzosa dall’Ave
Maria di Schubert alla sua amata eterna, la sua anima, il suo cuore e la
sua gioia, la sua pace e il suo cielo, il suo io migliore. L’iterazione Du
meine… Du bist, architettura ossessiva portante di tutto il poema, ci
richiama alla memoria la Centuria di Amaruka:

Sulla terrazza del palazzo lei e dovunque lei, alle spalle lei, davanti lei,
sul letto lei e in ogni strada lei; malato di separazione
da lei, anima mia, non c’è altra forma per me se non lei, lei, lei, lei, lei, lei nel
mondo intero: è questo non essere due?3

Con la stessa ansia di desiderio, con altre ripetizioni ossessive del


pensiero e dell’oggetto amoroso, Clara risponde in Er ist gekommen
salutando l’amico che infine rimane con lei su tutti i sentieri, in una
dolcezza distesa dopo l’attesa affannosa e i lampi e i tuoni della tempesta
di dubbi e interrogativi su chi per primo abbia rapito il cuore dell’altro.
«Così è, nella nostra vita si alternano sempre gioie e dolori, poesia e
prosa. Ma in ogni circostanza comunque Robert mi è più caro di ogni
altra cosa al mondo, e questa poesia rimane eterna!» annota Clara sui
Tagebücher4. La poesia che si condivide nel 1840 a casa Schumann porta
principalmente la firma di Friedrich Rückert, autore prediletto da Robert,
che ne musica oltre una cinquantina di testi e ne viene ispirato anche per
la composizione del brano a quattro mani Bilder aus Osten op. 66. In
particolare, dalla raccolta Liebesfrühling (Primavera d’amore) del 1823,
i coniugi scelgono alcune liriche con l’intento di metterle in musica

3
Poesia classica indiana, a cura di S. Lienhard e G. Boccali, Marsilio, Venezia 2009, p.
102.
4
R. Schumann, C. Wieck, Casa Schumann. Diari 1841-1844, a cura di G. Nauhaus, ed.
it. a cura di E. Restagno, EDT, Torino 1998, p. 140.

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suddividendosi i compiti. Nella diciassettesima settimana del loro


matrimonio Robert annota: «L’idea di pubblicare un volume di Lieder
con Clara mi ha dato un entusiasmo nuovo. Da lunedì, lunedì 11 [gennaio
1840], ho terminato 9 Lieder dal Liebesfrühling di Rückert nei quali
credo di aver trovato di nuovo un accento che mi è particolare. Bisogna
che ora anche Clara metta in musica qualche poema dal Liebesfrühling.
Oh fallo, Claretta! Altrimenti è come se non avessi fatto nulla»5.
Nei mesi successivi Clara annoterà i suoi progressi, seppur ostacolati e
resi discontinui dalle incombenze domestiche, dagli impegni mondani e
artistici e, fatto per nulla trascurabile, dalla presenza dello stesso Robert:
«Il mio pianoforte è ancora una volta relegato in secondo piano, come
sempre accade quando Robert compone. In tutta la giornata non trovo
neppure un’oretta per me. Spero solo di non fare troppi passi indietro.
[…] Con la composizione ancora non va – a volte vorrei picchiare questa
mia stupida testa!»6. Questo marito-collega-pedagogo, amato e venerato
nella devozione più romanticamente sublime, illuminato dal fuoco
dell’arte, unico riferimento maschile al mondo, si diffonde — e confonde
— i pensieri di Clara che si lamenta spesso, ingiustificatamente, del suo
poco talento, per cui sente l’incessante esigenza di chiedere perdono
all’ombra gigantesca del genio, portando a giustificazione la sua buona
volontà e l’amore incondizionato.
In giugno tuttavia, in occasione del compleanno di Robert, Clara
mantiene la promessa: «Questa settimana ho composto molto e in
particolare ho messo in musica quattro poemi di Rückert per il mio amato
Robert. Mi auguro che ne sia, anche solo un po’, soddisfatto, e il mio
desiderio sarà realizzato»7. Nei mesi successivi la vita è ricca di eventi
gioiosi: il primo settembre nasce la prima figlia Marie, anch’essa giunta
tra lampi e tuoni, durante un temporale, e i festeggiamenti si susseguono
senza sosta includendo anche l’anniversario di matrimonio e il
ventiduesimo compleanno di Clara, che Robert sorprende con due volumi
stampati dei Lieder su testi di Rückert, sulla cui pubblicazione aveva
mantenuto fino all’ultimo il più totale segreto.
Nascono così, gli Zwölf Gedichte aus F. Rückert’s Liebesfrühling für
Gesang und Pianoforte von Robert und Clara Schumann op. 12, editi a

5
Ivi, p. 41.
6
Ivi, p. 63-64.
7
Ivi, p. 64.

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Lipsia da Breitkopf e Härtel. Lo stesso Rückert, a cui i musicisti hanno


donato una copia del ciclo, scriverà loro una poesia di ringraziamento dai
toni affettuosi, trascritta volentieri nel quaderno di casa: sono passati
vent’anni dalla pubblicazione della raccolta poetica, ed ora giunge nel
ventunesimo anno una coppia di uccelli, gli rivela da subito che nulla di
quel suono è andato perduto8.
I tre poemi musicati da Clara sono più caratteristici per una voce
femminile: in particolare nel n. 2, Er ist gekommen, una donna
innamorata ci racconta del suo amore tempestoso, dell’ansia dell’attesa e
dell’appagamento della felice risoluzione; la musica elargisce una
trasposizione descrittiva in cui l’accompagnamento virtuosistico del
pianoforte apre il sipario sulla scena intimamente drammatica che si
accosta per scelte narrative a temi della poesia classica indiana, come
quello del «monsone», tra i cui motivi si trovano «nuvole e vento;
acquazzoni e lampi; […] viaggiatori che, attesi con ansia dalle
compagne, si affrettano a intraprendere il cammino verso casa o che sono
giunti appena prima dello scatenarsi del monsone»9. Il Lied n. 11, Warum
willst du and’re fragen, ha invece il tono più intimo e appagato di una
soddisfacente e stabilizzata relazione sentimentale.
Nel complesso, seppure i due compositori abbiano lavorato
indipendentemente sui singoli brani e nonostante manchi un flusso
narrativo, si tratta a tutti gli effetti di un ciclo liederistico unico nel suo
genere, proprio perché scritto a quattro mani, omogeneo per scelta dei
testi tratti dalla stessa raccolta e dell’argomento, l’amore coniugale; i
singoli numeri sono collegati dalle tonalità, dalle citazioni nascoste nelle
linee interne e negli intermezzi pianistici, dagli scambi di moduli tematici
e di cellule ritmiche tra canto e linea del basso, nonché dall’utilizzo di
una melodia triadica nel primo e nell’ultimo brano del ciclo.
Le interconnessioni, tuttavia, non si trovano abbondantemente solo tra
i dodici Lieder, ma appare piuttosto evidente l’esistenza di una
comunicazione subliminale tra i due universi compositivi, tanto che, ad
esempio, la progressione armonica del preludio di Er ist gekommen
emula l’apertura dei Dichterliebe, come nota Rufus Hallmark nella sua

8
«Und nun gar / Kommt im einundzwanzigsten Jahr / Ein Vogelpaar, / Macht erst mir
klar / Daß nicht ein Ton verloren war» (Schumann, Wieck, Casa Schumann, cit., p.
117).
9
S. Lienhard, in Poesia classica indiana, cit., p. 28-29.

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approfondita analisi10. La collaborazione tra Clara e Robert non vive sul


mero piano tecnico e musicale, ma trascende se stessa nell’unione di due
vite incastonate in un’unica gemma artistica preziosa, come a ben
guardare ritroveremmo nel Tesoro delle gemme dei bei detti di
Vidyākara: «Io sto qui eppure sono tua, / tu abiti là eppure sei mio: /
l’unione dei cuori è davvero un’unione bella, / non l’unione dei corpi,
mio diletto»11.
Assonanze tanto forti tra la poesia (e lo spirito) dell’epoca tedesca e la
poesia indiana, non furono create solo dalla mediazione dello studioso di
indologia Friedrich Rückert. Sebbene la tesi di Edward Said12, testo di
riferimento storico sulla questione dell’orientalismo, sia incentrata quasi
totalmente sui contributi letterari delle potenze inglese e francese e il
contributo tedesco sia inscritto nella stessa mentalità imperialista
dominante nella cultura europea del secolo, tuttavia questo trattamento di
second’ordine appare limitante e non rispondente al vero. Infatti, come
nota Georg Dörr, la prima Accademia Orientale è istituita proprio a
Vienna nel 1754, in anticipo di quasi mezzo secolo su quelle di Parigi e
Londra13 e, già a partire dalla critica di Andrea Fuchs-Sumiyoshi14 e di
Walter Veit15, appare chiaro che sul West-östlichen Divan Goethe ed
Hafis dialogano tra pari, in una visione intellettuale in cui Oriente ed
Occidente hanno lo stesso valore. La condivisione e il confronto delle
rispettive culture è agevolata certamente da ideali filosofici comuni, ad
esempio l’apprezzamento di una religione della luce, come quella di
Zoroastro, che il pagano Goethe riconobbe più congeniale rispetto ad una
religione della redenzione come l’islamica o la cristiana. Questo dialogo,

10
R. Hallmark, The Rückert Lieder of Robert and Clara Schumann, in «19th-century
music», XIV, n. 1, 1990, p. 3-30 e, in particolare, p. 9.
11
Poesia classica indiana, cit., p. 123.
12
E.W. Said, Orientalismo, trad. it. Feltrinelli, Milano 1999.
13
G. Dörr, Orientalismo in Friedrich Hölderlin, Stefan George e Hugo von
Hofmannsthal, in «Annali di Ca’ Foscari. Rivista della Facoltà di Lingue e letterature
straniere dell’Università Ca’ Foscari di Venezia», XLIII, n. 1-2, 2004, p. 97-124, e, in
particolare, p. 98.
14
A. Fuchs-Sumiyoshi, Orientalismus in der deutschen Literatur. Untersuchungen zu
Werken del 19. und 20. Jahrhunderts, von Goethes «West-östlichem Divan» bis Thomas
Manns «Joseph»-Tetralogie, Olms, Hildesheim 1984.
15
W.V. Veit, Selbstverwirklichung, Entsagung und der Orient, in Westöstlicher und
Nordsüdlicher Divan. Goethe in interkultureller Perspektive, a cura di O. Gutjahr,
Schöningh, Paderborn 2000, p. 89-108.

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tuttavia, è possibile solo in tale momento storico preciso, in cui non esiste
una concorrenza politica tra Cristianesimo e Islam: un esempio ante
litteram di interculturalità16.
L’Oriente rimane a lungo trascrizione letteraria immaginifica, cronaca
pittoresca e anche pruderie di viaggio, proiezione della sfiducia nei Lumi
europei, culla delle religioni, terra lontana dai confini indefiniti. Come
rileva Jean-Pierre Bartoli, il termine Oriente possiede un significato
ristretto, in riferimento ai paesi islamici del Vicino Oriente e dell’Africa
settentrionale e uno più esteso, che si allarga a comprendere l’Asia
centrale e sudorientale, l’Estremo Oriente e perfino la Spagna, come
nelle Orientales di Victor Hugo17. Anche l’orientalismo artistico che si
sviluppa sulle orme di Schlegel e Goethe partecipa ad una rielaborazione
ideale: «[p]er loro l’Oriente è una scuola di spiritualità e di saggezza, il
luogo originario e mitico del pensiero umano, e non quell’insieme di
terre favolose che fa da sfondo alla poesia epica dei francesi: la
componente filosofica e metafisica dell’Oriente germanico assimila e
supera la mera ricerca esotica di nuovi colori»18.
Questa situazione permane fino a quando l’Oriente non sbarca
realmente in Europa, disgustando Berlioz alla Grande Esposizione di
Londra del 1851 e, per contro, folgorando il giovane Debussy
all’Esposizione Universale di Parigi del 1889, ma soprattutto finché nei
compositori non sorge l’urgenza di capire e sperimentare il nuovo,
superando il timore della perdita d’identità insita nell’inquieta domanda
profetica posta dallo stesso Schumann nel 1834: «Finora conosciamo
soltanto, come generi, la musica tedesca, la francese e l’italiana. Ma che
cosa succederà quando gli altri popoli si spingeranno fino in
Patagonia?»19.
Olivier Messiaen, studiando la tavola dei deši-tāla, ritmi provinciali

16
Dörr, Orientalismo in Friedrich Hölderlin, Stefan George e Hugo von Hofmannsthal,
cit., p. 97-101.
17
J.-P. Bartoli, Orientalismo ed esotismo sino all’epoca di Debussy, in Enciclopedia
della musica, vol. V, L’unità della musica, Einaudi, Torino 2005, p. 259-284 e, in
particolare, p. 260.
18
Bartoli, Orientalismo ed esotismo sino all’epoca di Debussy, cit., p. 268.
19
R. Schumann, Gli scritti critici, ed. it. a cura di A. Cerocchi Pozzi, Ricordi -
UNICOPLI, Milano 1991, vol. I, p. 157; si veda anche S. Pasticci, L’influenza della
musica non occidentale sulla musica occidentale del XX secolo, in Enciclopedia della
musica, vol. V, cit., p. 285-304 e, in particolare, p. 285.

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dell’India classica, riportata dall’Enciclopedia della Musica di Lavignac


pubblicata a Parigi nel 1924, elabora una definizione teorica e formale
dei ritmi «non retrogradabili» che, infrangendo la regola ritmica classica,
fornisce nuova ispirazione per tutta la produzione artistica dei decenni
successivi, come spiega nel suo trattato Technique de mon langage
musical20. Se non è accertata la consapevolezza dell’utilizzo di ritmi indù
nel Sacre du printemps di Igor Stravinskij, è invece documentabile negli
anni Sessanta del secolo scorso l’attenzione di Philip Glass ai parametri
ritmici e ai procedimenti melodici ripetitivi del tal indiano. La tecnica
additiva indiana ispira oltre alle sue composizioni, tra cui l’opera teatrale
Satyagraha del 1981, tutto il movimento minimalista americano fino a
trasbordare il limite della musica colta e imporsi anche come struttura
basilare nel rock-progressive.
Per tutto l’Ottocento, tuttavia, come per i secoli precedenti, la
limitatezza della conoscenza reale della tradizione musicale indiana, ha
fatto sì che la tecnica musicale per completare la descrizione scenica con
quella musicale rimanesse vagamente straniante e anomala rispetto al
contesto dell’armamentario compositivo della musica colta; si
formalizzano i topoi esotici dell’ostinato ritmico e delle quinte vuote al
basso che cristallizzano l’armonia classica, oltre alle quarte vuote, alle
scale pentatoniche, alla sesta dorica, alla seconda eccedente e ad un uso
indiscriminato e coloristico del cromatismo che ritroviamo invariati nelle
melopee della Lakmé di Léo Delibes e nella Danse hindoue tratta da Le
roi de Lahore di Jules Massenet.
In ambito operistico, l’Oriente musicale ottocentesco diviene
terribilmente femminile e sensuale, influenzato senza dubbio dai racconti
di viaggio che riportano resoconti scandalizzati e al contempo
compiaciuti delle esibizioni della danse du ventre o belly dancing, nuova
e sfumata sottocategoria del grottesco definita da Virginia Keft-
Kennedy21 al confine con le schiavitù legalizzate dell’harem o della
prostituzione sacra, se, come riferisce Curt Sachs, citando il viaggiatore
seicentesco François Bernier:

20
O. Messiaen, Technique de mon language musical, Leduc, Paris 1944, vol. I, p. 12-
13.
21
V. Keft-Kennedy, Representing the belly-dancing body: feminism, orientalism, and
the grotesque, PhD Thesis, School of English Literatures, Philosophy and Languages,
University of Wollongong, 2005 <http:\\ro.uow.edu.au\theses\843> (4 novembre 2011).

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Le danzatrici indiane, che in portoghese si chiamano comunemente bailadeiras,


baiadere, […] «intrattengono durante le feste la folla ebbra con danze oscene
accompagnate da canti e dal suono dei tamburi» […]. Nel tempio la danzatrice è
devadāsī, schiava della divinità, ad essa consacrata [mediante l’offerta della] sua
verginità al fallo di pietra del dio Šiva e con questo atto diventa proprietà dei
sacerdoti, rappresentanti la divinità22.

La letteratura di viaggio sul palcoscenico acquista la tridimensionalità


del corpo e del suono, accendendo gli spettatori di desiderio di piaceri
proibiti. È ancora Bartoli a notare come «[p]er quanto il piacere e il male
siano indissolubilmente legati nel contesto morale del XIX secolo […], la
musica orientaleggiante non rappresenta esclusivamente le forze
femminee del male, ma anche, più in generale, le regioni mitiche del
piacere e della felicità»23. La storia e la partitura di Lakmé sono
l’emblema della contraddizione insita nella critica occidentale alla
sensualità primordiale delle popolazioni colonizzate e, al contempo,
nell’aspirazione all’emancipazione e al superamento di ipocrisie sociali e
culturali.
L’emancipazione dalle barriere architettoniche tonali è un Leitmotiv
dell’opera di Hugo Wolf, i cui Lieder sono spesso considerati dalla
critica tedesca come il perfetto connubio tra declamazione cantata,
armonia e melodia. Tra tutti i suoi connazionali, Wolf si distingue per lo
stile innovativo e funzionale all’espressione poetica. Il brano Dank des
Paria ne è un chiaro esempio. Il testo, poema della maturità di Goethe, fa
parte della trilogia Paria (I Des Paria Gebet; II Legende; III Dank des
Paria). La donna in preghiera è probabilmente l’eroina della leggenda:
ingiustamente accusata di infedeltà dal marito geloso e decapitata, essa è
riportata in vita ma con la testa sul corpo di una criminale giustiziata, non
più umana, donna trasformata in dea dal dolore.
In Dank des Paria compaiono, come nota Timothy McKinney24, due
serie ben distinte, su un basso discendente, con due frasi melodiche
incapsulate; ovviamente, dovendo rispettare la struttura armonica, la
melodia ha poca libertà di variazione. La triade aumentata, che grazie alla

22
C. Sachs, Storia della danza, trad. it. il Saggiatore, Milano 19942, p. 254-255.
23
Bartoli, Orientalismo ed esotismo sino all’epoca di Debussy, cit., p. 275.
24
T.R. McKinney, Melodic pitch structures in Hugo Wolf’s augmented-triad series, in
«Indiana theory review», XIV, n. 1, 1993, p. 37-94 e, in particolare, p. 42, 59-61.

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sua simmetria strutturale divide un’ottava in terze maggiori, era già


presente come struttura singola nell’armonia classica, in momenti di
voluta ambiguità tonale o come sostituto di un accordo modulante (e
subito il compositore imbarazzato tendeva a risolvere in un accordo più
rispettosamente tonale). Lo stesso Arnold Schönberg ne parla in
abbondanza nel capitolo «Ai confini della tonalità» del suo Manuale di
armonia, illustrandone tutti i possibili utilizzi:

[…] l’allievo imparerà a considerare tutti questi accordi vaganti – senza riferirli a
una tonalità o a un grado precisi – per quello che sono in realtà, cioè come
apparizioni erranti, senza patria, tra le sfere d’azione delle diverse tonalità, di
incredibile duttilità e indipendenza, come spie che osservino i punti deboli e li
sfruttino per gettar zizzania, come disertori il cui unico scopo è di rinunciare alla
propria personalità, come mestatori della più bell’acqua, ma soprattutto come
divertentissimi compagni di strada25.

Wolf sfrutta le strutture apolidi descritte da Schönberg per integrare


testi che descrivono fenomeni misteriosi, soprannaturali o anche, come
nel caso del più conosciuto Lied der Mignon, per esprimere sensazioni
emozionali estreme e un senso di disorientamento. La novità e la
particolarità, dal punto di vista tecnico, dell’opera di Wolf consiste
nell’iterazione della struttura a formare una successione cromatica di
triadi aumentate che annulla gli effetti empatici di una tonalità, o meglio
crea una tonalità sospesa e indefinita, potendo ogni singolo accordo
essere collegato a più tonalità differenti.
Alla luce dello studio di McKinney, appare riduttivo il giudizio di Eric
Sams, che classifica questo Lied tra i pochi non riusciti di Wolf,
tacciandolo di wagnerismo26. Ci si ritrova invece, più probabilmente, di
fronte ad un’incompresa sperimentazione nel tentativo di uscire dallo
schema e dall’etichetta di «liederista» e avvicinarsi alla rappresentazione
operistica; a questa conclusione si è condotti dal fatto che la scena si è
prestata successivamente ad una trascrizione orchestrale ed è, dal punto
di vista drammaturgico ed espressivo, un’aria d’opera in miniatura. Wolf,
infatti, da un certo momento della propria esistenza, risulta ossessionato
dall’opera, analogamente a quanto vedremo più avanti per Schubert,

25
A. Schönberg, Manuale di armonia, ed. it. a cura di L. Rognoni, Il Saggiatore, Milano
19972, p. 325.
26
E. Sams, The songs of Hugo Wolf, Eulenburg, London 19832, p. 220.

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tanto da lamentarsi nelle lettere con toni forti e ripetutamente, come ad


esempio in quella a Oskar Grohe del 12 ottobre 1891: «[i] lusinghieri
riconoscimenti come “liederista” mi disturbano nel profondo dell’anima.
Cosa significano, se non che mi si rimprovera il fatto che i Lieder sono
l’unica cosa che mai scriverò, che sono maestro solo in un genere in
miniatura?»27. Questa ossessione sarà uno dei tasselli che comporranno la
follia di cui morirà a breve.
La tradizionale poesia religiosa indiana, la cui lettura rivela inattese
assonanze con il Lied di Wolf di cui si è appena trattato, è oggetto di
grande ispirazione creativa per tutte le composizioni di Gustav Holst,
ammaliato dalla cultura indiana. Il ventennio tra il 1895 e il 1914, in cui
si colloca gran parte delle composizioni di Holst, è un periodo di grande
visibilità per l’India, non solo per il fiorire di fiere internazionali dal
generico nome colonial exhibition, ma anche, come sottolinea lo studio
di Raymond Head28, per il viaggio in Occidente di importanti pensatori
indiani, in particolare Svāmi Vivekānanda nel 1893 a Chicago – il primo
indù a parlare di Induismo all’Occidente, durante una seduta del
Parlamento delle Religioni – e Rabīndranāth Ṭhākur (Tagore) nel 1912 in
Inghilterra. L’attenzione per la cultura indiana, già risonante in un
personaggio anticonformista, vegetariano, introdotto alla teosofia in
ambiente familiare, viene stimolata inoltre dalla poesia visionaria di Walt
Whitman, in particolare dal poema A passage to India, dalla lettura di
Silent gods and sun steeped lands di Frazer e dalle traduzioni popolari di
Ralph Griffiths, tra cui Specimens of old Indian poetry, Idylls from the
Sanskrit e Hymns of the Rig Veda. Da queste letture sono tratte le storie e
le idee per le opere Savitri, Maya, Sita, Indra, tutte le numerose versioni
per diversi organici dei Vedic hymns e dei Choral hymns, fino all’ultima
composizione «indiana», la cantata The cloud messenger.
Già a partire dall’opera Sita si delinea uno stile compositivo
personale; abbandonate le reminescenze wagneriane di Leitmotiv, si
fanno strada: linee melodiche ritmicamente irregolari, che accompagnano
un cantato declamato, sostenute da un pedale formato da una singola
nota; cambi repentini di metro e di tempo; l’utilizzo nelle composizioni

27
Id., Hugo Wolf. Introduzione alla vita e alle opere, ed. it. a cura di E. Battaglia,
Analogon, Asti 2008, p. 39.
28
R. Head, Holst and India (I). «Maya» to «Sita», in «Tempo», n.s., n. 158, 1986, p. 2-
7.

12
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

corali di sonorità fuori scena, visionarie e inconcepibili all’epoca, diafane


e venusiane, come si troveranno nella rappresentazione cosmica e
mitologica The planets.
Holst si accosta superficialmente allo studio del sanscrito con Mabel
Bode alla School of Oriental Languages del London Institute: ne è
testimone la partitura dei Vedic hymns op. 24, pubblicata nel 1920 ed
eseguita per la prima volta a Parigi nel 1930 in occasione di un concerto
privato, la quale presenta la nota: «The hymns were written in 1907-8
and the words translated from the Sanskrit by the composer»29. Il lavoro
di Holst sul testo, però, è più vicino ad una parafrasi ispirata che a una
traduzione. E proprio l’intuizione e la suggestione del testo gli offrono gli
spunti tecnici e musicali, soprattutto nei Vedic hymns30. Alla
contemplazione estatica dell’aurora di Ushas, con cui si apre la prima
delle tre parti, si accosta Maruts, in un quadro di descrittivismo musicale
che ben traduce il testo del Ṛgveda:

È vero! Gli impetuosi e violenti figli di Rudra perfino in un luogo asciutto come il
deserto riescono a formare nubi piovose senza vento.
[…]
Allora, per il fragore dei Marut, su tutta la sede terrestre, gli uomini si sono messi a
tremare.
O Marut, con i vostri cavalli dai solidi zoccoli, instancabili nella corsa, andate lungo
i fiumi cangianti dalle rive scoscese31.

Tra tutte le figure femminili, cammei nei poemi epici indiani, Holst
rende omaggio a Sītā e Sāvitrī; ma quella che influenza maggiormente le
opere degli stessi poeti indiani, secoli prima di giungere in Occidente, è
Śakuntalā, la cui storia e figura compaiono in numerose opere e periodi
diversi della letteratura indiana: questa eccezionale figura femminile
lascia traccia di sé «in ogni forma di letteratura, dalla narrativa-didattica
alla trattatistica, dalla religiosa alla drammatica»32.
La storia di Śakuntalā, generatrice della stirpe dei Bhārata e dell’India
stessa, compare dapprima in 305 distici, piccolissima frazione del
29
G. Holst, Hymns from the Rig Veda [Vedic hymns] op. 24, Chester, London - Genève
1920.
30
R. Head, Holst and India (II), in «Tempo», n.s., n. 160, 1987, p. 27-36.
31
Poesia classica indiana, cit., p. 63-64.
32
Storia di Śakuntalā (Śakuntalopākhyāna). Mahābhārata, I, 62-69, ed. it. a cura di D.
Sagramoso Rossella, Marsilio, Venezia 1991, p. 11.

13
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

Mahābhārata, il più vasto poema della storia letteraria indiana, scoperto


dall’Occidente alla fine del XVIII secolo. In seguito la storia, romanzata
e adattata, si travasa nel dramma di Kālidāsa, uno dei maggiori
drammaturghi dell’India antica, Il riconoscimento di Śakuntalā,
(Abhijñānaśakuntala, V secolo a.C.)33, che ha vasta risonanza in Europa
a partire dalla traduzione in inglese ad opera di William Jones nel 1787.
Questo dramma è il primo in lingua indiana ad essere reso in una lingua
occidentale e, nei successivi cento anni, vi sono almeno quarantasei
versioni in dodici diverse lingue europee34. Lo stesso Goethe è da subito
entusiasmato dalla figura eroica di Śakuntalā e dal testo del drammaturgo
indiano, come testimonia il celebre epigramma del 179135.
Nella trascrizione romanzata di Kālidāsa e, da qui, nella tradizione
occidentale, scompaiono i tratti più attuali e autentici della personalità di
Śakuntalā, che si deducono dallo scorrere della storia e nella parte finale,
dal monologo accusatorio nei confronti del re: la sua appartenenza alla
classe guerriera e, quindi, la sua parità allo stesso re in termini di casta; la
saggezza; la potenzialità distruttiva generata in lei dalla pratica ascetica;
il coraggio supportato dalla conoscenza con cui si rivolge da sola al
sovrano, di fronte all’assemblea dei cortigiani. Il re nega di conoscerla,
l’offende come «bugiarda d’una monaca» e la scaccia:

A queste parole Śakuntalā dai morbidi fianchi,


piena di saggezza, è travolta dalla vergogna:
[…]
è sconvolta dalla rabbia, eppure
riesce a dominarsi
e a porre freno al tremendo potere
acquistato con l’ascesi.
Per un istante rimane come assorta
a riflettere, piena di sgomento e di amarezza;

33
Kālidāsa, Il riconoscimento di Śakuntalā (Abhijñānaśakuntala), ed. it. a cura di V.
Mazzarino, Adelphi, Milano 1993.
34
Sulla fortune della Śakuntalā in Europa si veda D.M. Figueira, Translating the
Orient. The reception of Śākuntala in nineteenth-century Europe, State University of
New York Press, Albany NY 1991.
35
«Se voglio i fiori della primavera, i frutti dell’autunno, / quello che attrae e incanta,
quello che sazia e che nutre, / se voglio il cielo, la terra, riassumere in un nome solo, /
faccio il tuo nome, Sakuntala, e così tutto è detto» (J.W. Goethe, Tutte le poesie, a cura
di R. Fertonani, con la collaborazione di E. Ganni, vol. II, Mondadori, Milano 1994, t. I,
p. 805).

14
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

poi, guardandolo dritto negli occhi,


furente parla allo sposo.
[…]
Tu ti arrabatti sulla Terra, o re:
io cammino nel cielo.
Guarda che differenza c’è fra noi:
come fra il monte Meru e un granello di senape36.

Śakuntalā viene privata – da Kālidāsa e, forse, da interventi


brahmanici precedenti – della fierezza consapevole di essere sposa,
moglie e madre.

Le spose, pronunciando parole dolci,


sono compagne nella solitudine;
sono padri al momento dei riti,
sono madri per chi è ammalato
[…]
Anche se furioso di collera, chi è saggio
non parli mai con asprezza alle donne:
sappia infatti che in loro sta la fonte
dell’amore, della felicità, della giustizia37.

Nel Mahābhārata è necessario infatti un intervento divino che avalli


la richiesta di riconoscimento del figlio e disconosca i tratti troppo
lontani dall’ideale di remissività femminile promosso dalla mentalità
brahmanica, mentre Śakuntalā, ottenuto il suo scopo, si chiude nel
silenzio.
Kālidāsa, la cui versione è certamente più vicina alla sensibilità
drammaturgica e operistica europea (motivo forse anche della sua
fortuna), riprende esclusivamente la storia d’amore, epurata da qualunque
commento sociale o religioso, la amplia fino a sette atti arricchendola di
personaggi ed episodi secondari, come le ancelle, il fiorire improvviso e
miracoloso delle fronde, la maledizione del saggio Durvāsas, le danze
delle cortigiane, le scenette da commedia buffa e l’introduzione
dell’oggetto scenico per eccellenza, l’anello del riconoscimento,
necessario a stimolare la memoria di un re ambiguo che, da eroe
indomito nelle prime scene, diviene un impotente e disorientato
osservatore del dharma, mentre la voce celeste si muta in schiere
36
Storia di Śakuntalā, cit., p. 63, 64, 74.
37
Ivi, p. 67, 68.

15
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

angeliche che raggiungono, per sempre silenziosa, la stessa Śakuntalā.


Tra i compositori di lingua tedesca rimane affascinato dal carattere
della protagonista, tra gli altri, Franz Schubert, che su un libretto di non
elevata qualità letteraria, scritto dall’amico Johann Phillip Neumann, si
accinge a scrivere la Sakontala. Questo Singspiel, incompiuto, ha goduto
recentemente di un rinnovato interesse, tanto da indurre la Schubert
Society of America a commissionare nel 2002 il completamento – ma
sarebbe più corretto dire la ri-creazione, considerate le scelte compositive
e il taglio dell’intero terzo atto – al compositore danese Karl Aage
Rasmussen38.
Schubert, conosciuto e apprezzato come autore di Lieder, inizia a
comporre opere brevi per conquistare il pubblico attraverso il
palcoscenico, per sfuggire alla miseria materiale e alla opprimente figura
paterna. Come osserva Hans Jürgen Fröhlich, infatti:

Andare in palcoscenico significa anche presentarsi in società – quella società che


si preferirebbe evitare per timore di non essere all’altezza – superare la
solitudine, che è la sua arte; smettere di lamentarsi della propria sorte per
rappresentare quella altrui, una sorte inventata; e quindi comparire in pubblico
con la maschera e non mostrare la ferita, come nel lirismo intimo dei Lieder39.

Il giovane compositore si immerge nell’orchestrazione con un’energia


creativa titanica e un desiderio di affermazione assoluto che lo portano a
completare in soli undici giorni Der vierjährige Posten (La sentinella per
quattro anni), in dodici il Fernando. Nel solo 1815 compone interamente
cinque Singspiele, nessuno dei quali viene rappresentato. Non si lascia
scoraggiare e riesce a debuttare a Vienna con la farsa Die
Zwillingsbrüder (I fratelli gemelli), rappresentata per la prima volta il 14
giugno 1820 all’opera di corte per iniziativa di Johann Michael Vogl,
interprete principale di tutte le sei repliche. Un modesto successo che
sprona ulteriormente Schubert, tanto che il 19 agosto dello stesso anno al
38
F. Schubert, Sakontala. Oper in zwei Akten D 701, ricostruzione di K.A. Rasmussen,
Kammerchor Stuttgart, Deutsche Kammerphilharmonie Bremen, direttore F. Bernius,
CD Carus 83.218, Stuttgart 2008; il libretto di accompagnamento dell’incisione
comprende un testo di Rasmussen, Karl Aage Rasmussen über seine Arbeit; ma si veda
anche la nuova edizione critica in F. Schubert, Neue Ausgabe sämtlicher Werke, vol.
XV: Sacontala, a cura di M. Jahrmärker, Internationale Schubert-Gesellschaft,
Tübingen 2009.
39
H.J. Fröhlich, Franz Schubert, trad. it. Studio Tesi, Pordenone 1990, p. 185.

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STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

Teatro Ander Wien viene rappresentata in dodici repliche Die


Zauberharfe (L’arpa magica), con la rumorosa ed effettistica ouverture
tuttora eseguita e apprezzata con il nome di Rosamunde-Ouverture40.
L’autore prosegue quindi nella sua corsa contro il tempo e verso
l’agognata celebrità, con l’adattamento musicale di Sakontala, iniziato
nell’autunno del 1820, ma il lavoro non va oltre gli abbozzi. La
consapevolezza della propria incapacità ad affrontare un genere ed un
mondo differente da quello amichevole e protettivo delle schubertiadi
spiegherebbe, secondo Otto Deutsch, il significato di una poesia scritta il
21 settembre 1824 in una lettera all’amico Franz von Schober che
alloggia presso Karl Schall, uno dei traduttori tedeschi delle Mille e una
notte:

Dolore infinito che mi distruggi,


residuo estremo di quella forza;
anche me inerte annienta il tempo,
anche a me vieta le grandi imprese41.

Sergio Sablich, in pagine di lucida analisi, spiega perfettamente il


rapporto tra Schubert e il teatro, luogo in cui il compositore si recò
tuttavia una sola volta nella sua vita, comportamento forse paradossale
per un musicista della sua epoca. Schubert ha infatti una visione
idealizzata e fiabesca della realtà, la sua sensibilità è lontana dagli
intrighi amorosi, dal farsesco, dall’ostentazione del tragico. Ciò che ben
conosce, la contemplazione intima, l’amicizia profonda, la fedeltà, le
segrete e sconcertanti pulsioni omosessuali, può essere solo
simbolicamente o fuggevolmente presentato alla luce del sole. Non
rimane che affidare tutte le energie vitali alla Musica:

La musica, appunto. Che diviene in se stessa, e per se stessa, la ragione primaria


del suo teatro. Il teatro di Schubert non rappresenta, evoca. Ambienti, situazioni,
stati d’animo sono chiamati dalla musica a rappresentare se stessi, quasi
prescindendo dal flusso drammatico in cui si muove l’azione. Questo flusso […]
non presenta infatti uno sviluppo o un percorso narrativo connesso all’evolversi
dell’azione, ma è retto da una rete di associazioni di carattere eminentemente
musicale. […]

40
S. Sablich, L’altro Schubert, EDT, Torino 2002, p. 93 -115.
41
F. Schubert, Notte e sogni. Gli scritti e le lettere tradotti e commentati, a cura di L.
Della Croce, Libreria Musicale Italiana, Lucca 1996, p. 105.

17
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

Teatro come sogno, come luogo dell’immaginario, come astrazione fantastica.


Dove non è importante tanto chiedersi che cosa sia causa e cosa effetto ma
smemorarsi nel tempo ed errare nello spazio infinito in un continuo perdersi e
ritrovarsi. […]
L’illusione del teatro fu per Schubert un teatro dell’illusione, una bella cornice al
posto del quadro. Esiste un teatro musicale che si realizza sulla scena (Mozart,
Verdi) o dentro la scena (Wagner), e uno che vive fuori dalla scena. Il teatro di
Schubert appartiene a quest’ultimo tipo42.

Della Sakontala ci rimane un manoscritto scarno e sofferente, una


scrittura che rimanda più ai Lieder che alle opere successive, perché in
Schubert vita e arte sono intrinsecamente inanellate. Ed è proprio
nell’evidenziare questa caratteristica della scrittura che risiede il
significato della nostra realizzazione di una versione cameristica dell’aria
Wie fühl’ ich, ihr Götter, cantata dalla protagonista nel primo atto,
partendo dalla linea del canto completa e dai rarissimi suggerimenti di
tonalità definite e di abbozzi cadenzali43.
La tematica è ricorrente nella produzione liederistica dell’autore, la
commistione di trepidante attesa nostalgica, il dialogo interiore con un
cuore che palpita di desiderio e non tace, l’incitamento all’avvento di una
gioia che porterà alla più alta beatitudine. Canta infatti Sakontala:

O dei, come mi sento / scuotere dentro! / Che improvviso dolore! / Che desiderio
che presagisce il futuro! / Che bruciante paura / fa ondeggiare il mio cuore che
trema! // Invano cullo il mio cuore / per dargli pace! / Invano mi faccio
coraggio / consolandomi! / Invano! // Taci mio cuore! Fai silenzio su questo
desiderare! Presto batterai di nuovo / al suo petto. / Asciugati occhio! /
Asciugatevi lacrime! / Presto rivedrai / lui, la tua luce! / Poi ci abbatterà la
gioia! / Poi se ne andrà la sofferenza del distacco! // Vieni, dolcezza che
ritornerai! / Vieni, la più alta delle beatitudini!44

Sembra riecheggiare la voce di Schubert stesso nelle parole di


Sakontala, non molto diverse da quelle di Gretchen o di Mignon, se
confrontiamo il testo con una lettera all’amico Leopold Kupelwieser del
31 marzo 1824:

Immagina un uomo, la cui salute è definitivamente compromessa e, anziché

42
Sablich, L’altro Schubert, cit., p. 107, 114, 115.
43
Tale versione, elaborata da Vittoria De Leonardis, è pubblicata nel presente volume.
44
Trad. it. di P. Mura.

18
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

migliorare, continua a peggiorare a causa della sua disperazione, un uomo, ti


dico, che ha visto svanire nel nulla le sue più brillanti speranze e a cui le gioie
dell’amore e dell’amicizia si trasformano in sofferenze, che minaccia di non
essere più ispirato (o per lo meno stimolato) dalla bellezza, ti domando se non sia
proprio un uomo misero, infelice? La mia pace è perduta, oppresso è il mio
cuore, non troverò più la mia pace, mai più la ritroverò posso cantare così ogni
giorno perché ogni notte, quando vado a dormire, spero di non risvegliarmi più e
ogni mattino non fa che ricordarmi l’affanno del giorno precedente45.

Il testo dell’aria di Sakontala presenta un’affinità di contenuto con i


testi poetici manipolati per l’armonizzazione sotto forma di Lieder, in cui
l’io narrante è al contempo poeta, personaggio, protagonista, narratore di
storie e creatore di situazioni, un ich che dialoga con «un soggetto lirico
di secondo grado e del tutto metaforico, quindi in un certo senso
irresponsabile perfino delle più azzardate fantasie e ipocondrie, di tutti i
più bizzarri eccessi sentimentali: in pratica una seconda persona, un du,
che poi è il cuore, das Herz, quel Oh, mein Herz! che ricorre in un gran
numero di Lieder»46.
Si può rilevare, inoltre, una corrispondenza sul piano della stesura
compositiva con la produzione liederistica, in particolare con Versunken,
Lied composto proprio nello stesso anno, il 1821, su un testo di Goethe
tratto dal West-östlicher Divan, dove dominano gli ampi intervalli con
sensibile in evidenza e le asperità melodiche. È questo uno stratagemma
di colore compositivo esotico, interamente rispettato nella versione
cameristica ricostruita dell’aria di Sakontala, come se anche il
Compositore fosse rimasto imprigionato nell’affinità elettiva delle
suggestioni orientali. Nota infatti Brian Newbould come le composizioni
schubertiane affondino le radici nelle fondamenta armoniche, in fraseggi
di diversa durata, e come il dettaglio melodico diventi argomento di
secondaria importanza47. Schubert stesso scrive in un taccuino il 27
marzo 1824: «Le mie creazioni sono il frutto delle mie conoscenze
musicali e del mio dolore; quelle frutto soltanto del dolore sono quelle

45
Schubert, Notte e sogni, cit., p. 93 (con citazione del testo goethiano del proprio Lied
Gretchen am Spinnrade).
46 G. Bevilacqua, Introduzione al Lied come genere letterario, in Lieder, a cura di V.
Massarotti Piazza, Vallardi, Milano 1982, p. IX-XIV e, in particolare, p. XIII.
47
B. Newbould, Schubert. The music and the man, University of California Press,
Berkeley - Los Angeles 1997, p. 389.

19
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

che il mondo apprezza di meno»48.


Ricorrono nella linea vocale le strutture musicali che Schubert associa
all’irrequietudine e alla violenza delle emozioni: la presenza
fondamentale e costante del dattilo, ritmo della morte, ma anche del
cammino, della fuga, già presente in Der Tod und das Mädchen e nella
Winterreise, la ripetizione di tono che troviamo in Der Wanderer e che,
successivamente, strutturerà la Fantasia in Do maggiore per pianoforte
op. 15, meglio conosciuta come Wanderer-Fantasie. Più interessante e
complessa la visione armonica, dove si trovano il basso ostinato di
Gretchen am Spinnrade; i cambiamenti di ritmo e del sistema accordale,
l’immediata giustapposizione di tonalità, senza alcuna transizione,
facilmente comprensibile nel contesto di strutture brevi, come nelle strofe
del Lied der Musensohn.
Anche nell’aria di Sakontala si può trovare una struttura ripetitiva,
schematizzabile in I–A–B–A’–B’–C–D–I’. Alcune idee, come l’incipit (I),
che ritornerà ciclicamente variato e alienante al termine dell’aria (I’)
sospendendo il tempo e lo spazio scenico, troveranno il loro maggiore
espletamento nella Nona Sinfonia, la Grande. La sezione C è un ponte
delicato che sottolinea una transizione psicologica dalla Sehnsucht
all’incitazione al coraggio e alla fiduciosa attesa della «più alta delle
beatitudini!», scritto in forma di marcia, anche in questo caso
sperimentazione di un compositore maturo e tecnicamente consapevole.
La danza e la marcia sono, infatti, per Schubert, oltre che una
rappresentazione filosofica del mondo, elementi per una sperimentazione
sulla percezione del tempo e dello spazio ridefiniti come un terreno
elevato dalla materialità e dalla contingenza, caratteristica del suo stile,
formalmente portata a maturazione nella grande musica assoluta.
Nell’aria di Sakontala troviamo rielaborato un principio compositivo
fondamentale: «la danza come simbolo di movimento vitale e di
stordimento, di esaurimento delle forze. Allegoria dell’apollineo e del
dionisiaco, metafora dell’ebbrezza e dell’estasi, dell’esaltazione e dello
sfinimento»49.
Solo nel 1871 il Riconoscimento di Sakùntala viene per la prima volta

48
Schubert, Notte e sogni, cit., p. 91; perduto l’originale schubertiano, non rimane che
la trascrizione fattane da Eduard von Bauernfeld, scrittore e amico del musicista, nel
proprio diario, denso peraltro di errori.
49
Sablich, L’altro Schubert, cit., p. 88.

20
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

tradotto in italiano da Antonio Marazzi50 e, a partire dall’inizio del 1920,


il dramma è messo in musica da Franco Alfano. Quest ultimo si avvicina
alla poesia indiana musicando, tra gli altri, quattro gruppi di liriche di
Tagore, la cui fortuna in Italia aumenta a partire dal 1913, data del
conferimento del Premio Nobel, e specialmente in occasione della sua
visita nel Paese del 1925, ospite del governo italiano.
Alfano termina la prima composizione nel 1921 e La leggenda di
Sakùntala viene rappresentata al Comunale di Bologna. L’autore deve
poi ricostruire la partitura nel dopoguerra, a causa della perdita
dell’autografo e di tutte le parti custodite nell’Archivio Ricordi; la nuova
versione, arricchita e cesellata nell’orchestrazione, va in scena nel 1952
all’Opera di Roma.
Per il libretto, rielaborato da lui stesso, Alfano utilizza una versione
superficiale della storia, eliminando gli aspetti più leggeri e divertenti,
inventando un finale scenicamente moderno con l’assunzione della
silente Sakùntala nelle sfere celesti, rendendo in certi momenti il libretto
statico, così che risulta evidenziata la colorazione orchestrale a discapito
dell’apporto vocale, come notano John Waterhouse51 e Maria Teresa
Muttoni, quest’ultima con uno studio particolareggiato sui richiami
interni e simbolici dell’opera52.
Il critico Paolo Isotta commenta in questi termini la rappresentazione
del 1982 presso l’Opera di Roma, prima coraggiosa ripresa dell’opera del
1952:

In primo luogo, essa non va ricompresa nella linea musicale, letteraria e


figurativa, dell’esotismo […]. Egli [Alfano] s’immerge con amore e conoscenza
infiniti nella civiltà vedica e attinge il prodigio d’una sua ricostruzione ideale con
i mezzi più audaci e originali del linguaggio musicale […]. Ogni singola battuta
della Leggenda è un capolavoro innanzitutto sotto il profilo armonico e sotto
quello dell’orchestrazione: poche volte la musica si è spinta più innanzi nella
policromia, nella precisione degli effetti, nel creare un’atmosfera ove paesaggio e

50
A. Marazzi, Teatro scelto indiano, vol. I, Teatro di Calidasa, Tipografia Editrice
Lombarda, Milano 1871.
51
J.C.G. Waterhouse, Da Risurrezione a La leggenda di Sakùntala. Dal «verismo» degli
esordi allo stile personale della maturità, in Ultimi splendori: Cilea, Giordano, Alfano,
a cura di J. Streicher, Istituto Nazionale per lo Sviluppo Musicale nel Mezzogiorno,
Roma 1999, p. 523-548.
52
M.T. Muttoni, Sakuntala: i percorsi della memoria, in Ultimi splendori, cit., p. 549-
583.

21
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

stati dell’animo divengon tutt’uno. Ma il ricchissimo apparato motivico,


strutturato in modo wagneriano, attinge, anche per principi della variazione
ritmica costante, alle Ragas dell’India antica: e del salmodiare o di tali Ragas è
impregnato anche il linguaggio cantato, quando non s’alterni a un declamato per
amplissimi intervalli che va chiamato post-espressionista53.

Esempio ne è la presentazione della protagonista ad opera di


un’ancella, Priyàmvada, nell’aria Sakùntala è di casta sovrana! Non sono
tuttavia trascurabili, dal punto di vista musicale, le influenze di Ravel,
Rimskij-Korsakov e Debussy.
Guido Pannain annota nella sua guida all’ascolto dell’opera, scritta
negli anni della prima rappresentazione affinché i musicofili si
predispongano alla densa e coinvolgente esperienza teatrale:

Siamo in un ambiente vago di poesia. Sonorità ricercate si espandono nell’aria


come un profumo di leggenda. Rintocchi di campane, tra preziose armonie che si
sciolgono attraverso tremolii frementi e voci lontane d’un misticismo sensuale. Il
temino iniziale di due suoni ascendenti che si ripeterà in un ambiente armonico
sempre rinnovato, nelle prime tre misure, è l’elemento fondamentale da cui si
svolge l’idea animatrice54

non solo del primo quadro, ma di ogni mutamento di atmosfera. In


particolare ritorna al basso ostinato nel secondo atto, quando Sakùntala,
dopo aver implorato di essere lasciata in pace, sofferente per
l’abbandono, tace e il pieno orchestrale traduce in suoni le sue intricate
emozioni:

Siamo ad un punto saliente, un momento di profonda espressione. Una intuizione


limpida tutta pervasa dal doloroso desiderio del ritorno, rarissima gemma della
lirica musicale contemporanea. Sakùntala, assorta come in visione, affida alla
nuvola vagante per i cieli il suo messaggio d’amore. Un lene strisciar di terzine a
cui risponde come un limpido mormorar di viole, e la melodia di Sakùntala si
effonde sospirosa e triste e le armonie s’intrecciano inquiete, trepide di
cromatismi che ingemmano l’aria55.

53
P. Isotta, Il fascino di Sakuntala che sedusse Puccini, in «Corriere della Sera», 22
aprile 2006, p. 33.
54
G. Pannain, La Leggenda di Sakùntala di Franco Alfano. Guida attraverso la
leggenda e la musica, Caddeo, Milano 1923, p. 59-60.
55
Pannain, La Leggenda di Sakùntala, cit., p. 81-82.

22
STEFANIA CERUTTI Itinerari poetici e musicali tra India ed Europa

Il testo dell’aria di Sakùntala, O nuvola… nuvola leggera, inserto di


intuizione geniale, ripropone l’essenza della lirica indiana; si tratta infatti
di una delle perle della lirica indiana, Meghadūta o Nuvolo messaggero,
sempre dello stesso Kālidāsa, poemetto in cui il protagonista, condannato
all’esilio per un anno, disperato per la nostalgia, affida un messaggio per
la sua donna ad una nuvola passeggera, descrivendole tutto l’itinerario
per giungere a destinazione e suggerendo le parole d’amore da riferire
alla sposa56.
Come il viaggio del Nuvolo, anche il nostro è giunto a conclusione,
accostando una delle pagine più belle degli ultimi melodrammi italiani ad
una poesia di indicibile eleganza proveniente dalle sponde del Gange. Un
ultimo pensiero, forse azzardato, ci fa accostare Sakùntala, la silenziosa e
assente Sakùntala, ad una sua lontana progenitrice operistica, condannata
al silenzio e alla lontananza, Euridice. Si domanda Pannain: «Sakùntala
tace. Ma la sua anima non è tutta nei suoni?»57. Pare che questi silenzi e
queste lontananze, Sehnsucht tanto cara alla poetica romantica e
abbandono tanto fruttuoso per gli oracoli contemporanei della vacuità,
siano il compendio più completo e grandioso a cui l’uomo finora sia
giunto, musica dell’indescrivibile, forse la sostanza profonda della
musica e dell’amore:

Nell’alternativa fra unione e separazione,


con l’amata è certo meglio la separazione, non l’unione:
nell’unione, infatti, lei è una sola,
nella separazione l’intero universo ha la sua forma58.

56
Kālidāsa, Nuvolo messaggero, ed. it. a cura di G. Boccali, Editoriale Nuova, Milano
1980.
57
Pannain, La Leggenda di Sakùntala, cit., p. 81.
58
Poesia classica indiana, cit., p. 78.

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