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Sembra tuttavia che la deviazione stilistica di Schönberg non fosse nota a Francesco

Balilla Pratella (1880-1955) quando nel 1910 scrisse il suo Manifesto dei musicisti
futuristi, rivolgendosi ai giovani compositori, nello spirito di Marinetti, affinché lo
seguissero “per le vie del futuro”. Ma gli autori che egli metteva insieme,
invitando quegli immaginari discepoli a emularli, erano (oltre a lui stesso) un
coacervo piuttosto improbabile di rivoluzionari: Strauss e Debussy, Sibelius ed
Elgar. Ciònonostante, il rumore che Marinetti e i suoi accoliti fecero
internazionalmente diede ben presto all’etichetta di “futurista” un’ampia
diffusione, tanto che essa venne applicata anche a Schönberg, in senso ora di
elogio, ora di rifiuto o stupore.

Il profondo interesse mostrato dal mondo occidentale sia per i futuristi che per
l’ultima produzione di Schönberg – che suona ancora oggi come una sfida – era
quello di una cultura predisposta al cambiamento. Forse nessuno a quel tempo era
al corrente del fatto che Einstein stesse sviluppando la sua teoria della relatività, e
di un universo smisurato, proprio quando Schönberg e i futuristi stavano
abbandonando le misure della tonalità, e che quello era anche il periodo del
passaggio di Kandinskij all’astrattismo. Il mondo moderno stava nascendo. A
dimostrare la curiosità diffusasi intorno al nuovo Schönberg, i suoi Pezzi per
orchestra vennero eseguiti per la prima volta a Londra nel 1912, e l’anno
successivo ve ne furono diverse esecuzioni a Chicago.

All’epoca, il rumore futurista era sul punto di divenire piú che una metafora,
poiché fu nel marzo 1913 che Luigi Russolo (1885-1947) pubblicò la sua Arte dei
rumori, un manifesto piú esplicito e piú innovativo di quello di Pratella. I
presupposti di Russolo erano i medesimi da cui muoveva Schönberg, e cioè che
l’armonia fosse divenuta via via sempre piú complessa, fino a un punto in cui si
rendeva necessario un radicale cambiamento. La sua soluzione tuttavia non era
l’atonalità, bensí il rumore: l’impiego musicale di suoni privi di un’altezza
definita, suoni di un tipo che oltretutto la vita di città e il lavoro in fabbrica avevano
reso familiari. I vecchi suoni musicali erano sopravvissuti alla loro utilità; Beethoven
era superato. «Godiamo molto piú – scriveva Russolo – nel combinare idealmente
dei rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti, che nel
riudire, per esempio, l’Eroica o la Pastorale». E proseguiva inneggiando alla
grande varietà di rumori del mondo, naturali e meccanici, e immaginando una
musica di rumori prodotti da un’“orchestra futurista”. Ben presto ve ne fu una
dimostrazione pratica, poiché nell’aprile del 1914 Russolo diede un concerto a
Milano con svariati “intonarumori”, ossia strumenti da lui progettati per produrre
rumore, che andò poi a presentare a Londra. Solo la guerra lo costrinse a
sospendere le attività.

Schönberg si fermò invece per altre ragioni. Nella sua visione, la rivoluzione atonale aveva
conseguenze non soltanto sull’armonia, ma anche sulla forma, poiché quest’ultima era
tradizionalmente creata dalle forze armoniche. Senza il gioco tra differenti tonalità, o
l’impulso a ritornare alla tonica, la forma-sonata era ad esempio impossibile. Ciò che
rimaneva era piuttosto una magnifica immobilità (esemplificata dal terzo dei Cinque Pezzi
per orchestra, nel quale differenti timbri suonano delicatamente su un accordo sostenuto),
oppure un’invenzione perpetua – e una nuova invenzione in ogni nuovo brano. Da qui
l’estrema rarefazione dell’unica opera puramente strumentale completata da Schönberg
nel decennio successivo al 1909, i Sei Piccoli Pezzi per pianoforte del 1911, e il suo utilizzo,
in altri lavori, di un’impalcatura verbale: un libretto che esprimeva le speranze, le paure e i
ricordi nella solitudine di una donna, nel monodramma Erwartung (Attesa), scritto
immediatamente dopo i Pezzi per orchestra; poesie dell’alienazione in  Pierrot
lunaire (1912); e una personalissima visione celestiale nell’oratorio Die Jakobsleiter (La

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