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Se abbiamo la febbre non ce la prendiamo col termometro!

Il Pil e la febbre di crescita

Interpreti formidabili di una trama scritta nei secoli, siamo consumatori indaffarati a

svolgere il ruolo di apparenti “sovrani” del sistema, che nel mitico gioco di equilibrio

del mercato indirizzano la produzione trainandola al servizio della soddisfazione dei

bisogni. Ma da decenni il mito della “sovranità del consumatore” – ancor oggi insegnato

sui banchi delle scuole di economia – è stato smontato. Ad esempio già dall’Ottocento

Veblen ha evidenziato l’anima emulativa e competitiva del consumo: in una società

borghese e mercantile che ha abolito ogni rigidità di “classe”, e in un contesto urbano

“spersonalizzante” dei rapporti umani, ognuno può farsi da sé, migliorare il proprio

status e parlare di sé e del suo successo attraverso l’ostentazione dei propri consumi.

Un consumo vistoso che serve a un sistema produttivo fondato su crescita e risultati

di breve periodo. Con un’industria del marketing, del branding, della pubblicità e della

comunicazione che assorbe oltre la metà dei bilanci delle imprese, l’applicazione di

elementari regole della psicologia umana ha consegnato un potere evocativo alla

pubblicità martellante, capace di modellare e colonizzare le menti e di determinare i

comportamenti di consumo… e i livelli di consumo. Livelli “conquistati” dal ricco nord

sulla pelle degli esclusi dal mercato e del pianeta ma necessari a foraggiare pochi e

grandi gruppi di potere economico e finanziario. Indifferente ai limiti posti dal pianeta

in termini di risorse e di capacità di mantenimento degli equilibri ecologici,

indifferente ai diritti e alla dignità umane e alla sovranità popolare, il sistema procede

sulla via della crescita senza limite sostenuto da un’ideologia che ha attraversato i

confini degli stati, che ha permeato gli organi di governo, le istituzioni a tutti i livelli,

le scuole e le università, i partiti, i sindacati e le persone.

Si arriva a pensare di “correggere” ciò che la “morale” non rende accettabile e

introdurre quei “correttivi del mercato” che aiutino a tenere conto che c’è bisogno qua

e là di redistribuire un po’ di reddito, di introdurre qualche tassa che renda meno

conveniente sprecare risorse, incoraggiare timidamente produzioni e consumi eco-


compatibili.

Con lo stesso criterio si pensa di correggere i numeri che descrivono il sistema. Il Pil,

principe degli indicatori statistico-economici, che monopolizza le pagine dei giornali e i

programmi di governo, è da decenni oggetto di riflessioni critiche sulla sua capacità di

essere un indicatore del benessere di una collettività. Critica fondata.

Il Pil infatti è un indicatore che misura la crescita economica, ovvero quanta ricchezza

è stata prodotta da un sistema economico in un determinato periodo (generalmente

l’anno); ricchezza intesa come reddito creato dal processo di produzione. Un esempio:

un mugnaio investe nell’acquisto di un mulino e assume un lavorante; acquista del grano

e grazie al lavoro del collaboratore e del mulino, trasforma il grano in farina che

rivende ad un fornaio. La differenza tra il ricavato dalla vendita della farina e il costo

di acquisto del grano è il Pil, ovvero il “valore aggiunto” che si è creato grazie

all’impiego del lavoro e del capitale (la ricchezza immobilizzata nel mulino) e grazie al

rischio d’impresa sostenuto dal mugnaio. Il Pil, dunque è il reddito in senso ampio che

contiene la remunerazione del lavoro, la remunerazione del capitale investito e la

remunerazione del rischio d’impresa.

Da dove nascono le critiche al Pil?

Per comprendere cosa ha mosso molti studiosi nel tempo a mettere in discussione il

Pil, è utile guardare a cosa c’è effettivamente nel Pil: peccando di generalizzazione,

possiamo dire che c’è tutto ciò che si scambia sul mercato e che ha un prezzo in

moneta (inclusa la cosiddetta economia sommersa ed incluso ogni tipo di produzione

anche eticamente contestabile - come la produzione e vendita di armi). Cosa non c’è?

Non c’è tutto ciò che non si scambia sul mercato: cura dei figli, baratto, volontariato,

auto-riparazioni, autoproduzioni. Chiaramente i beni e servizi entrano nel Pil con il loro

valore di scambio: per cui un’automobile vale più di un chilo di pane, anche se senza

pane non si vive e senz’auto si potrebbe!! Non rientrano nel Pil neanche le cosiddette

esternalità: se per produrre un bene una fabbrica inquina un fiume, il fiume si

deteriora… Ma il deterioramento del fiume non fa diminuire il Pil (in quanto riduzione
di ricchezza), anzi: le spese per ripristinare la qualità del fiume lo faranno aumentare.

E per finire il Pil è un numero solo: ci dice quanto è stato prodotto ma da solo non ci

dice come si distribuisce la ricchezza tra chi l’ha prodotta (lavoro, capitale investito,

rischio d’impresa).

Di fronte a questo tipo di indicatore è quindi lecito chiedersi: il Pil misura il benessere

di una collettività? La risposta è “no”, ma la soluzione da dove passa?

Molta letteratura è stata dedicata a studi, ipotesi e esercizi di calcolo finalizzati a

correggere il Pil, perché in esso siano anche quantificate in moneta le attività non di

mercato (cura dei figli, cura della casa,…) e il danno ambientale (quanto vale di meno

un fiume inquinato?). E così anche da questi esperimenti è stato possibile mettere in

evidenza come la crescita del Pil realizzata negli ultimi decenni sarebbe stata molto

meno allegra se il Pil fosse stato corretto.

Ma attenzione. Se abbiamo la febbre non ce la prendiamo col termometro!

Se si corregge il Pil, avremo un solo numero nel quale attraverso convenzioni contabili

e ipotesi di calcolo, avremo dato un prezzo a ciò che non ha prezzo ma non avremo la

possibilità di confrontarlo con altro perché tutto sarà sinteticamente condensato in

un solo indicatore. La sintesi non dà conto della complessità della realtà. Per guardare

una realtà complessa è necessario ampliare lo sguardo oltre il Pil.

C’è parte della realtà quantificabile e già quantificata: la ricchezza di altri indicatori

può da subito entrare a pieno titolo nelle agende e nelle scelte politiche.

Ad esempio l’agenzia dell’Onu per lo Sviluppo (UNDP) nel pubblicare ogni anno il suo

rapporto sullo “sviluppo umano” ci dice che “il reddito è certamente uno dei mezzi

principali per espandere le scelte e il benessere, ma non è tutto nella vita delle

persone”. E così, nel rapporto UNDP accanto al Pil di ogni paese compaiono tassi di

scolarizzazione, accesso all’acqua, mortalità infantile…

L’Istat, che ha il compito di calcolare il Pil, pubblica ogni anno anche la Namea, ovvero

una tavola dove accanto alla produzione realizzata da ogni settore produttivo e

accanto ai consumi delle famiglie, indica quante emissioni di inquinanti si determinano


e quanti rifiuti si producono. E volendo, attraverso fattori tecnici di conversione,

sarebbe possibile trasformare per ciascun settore produttivo o per le famiglie, la

quantità di inquinanti e rifiuti prodotti nel loro “contributo” all’effetto serra, alla

eutrofizzazione, all’acidificazione del suolo…

Affiancare indicatori di altra natura al Pil ci dice dove stiamo andando a vantaggio di

chi e cosa e al costo di chi e cosa. Fa emergere le contraddizioni: il Pil aumenta e

aumenta anche la concentrazione di CO2 nell’aria, l’incidenza dei tumori, la riduzione di

acqua potabile… A cosa diamo priorità? E’ un problema politico, non un problema

statistico!

E’ il Pil che non ci piace oppure è ciò che rappresenta? Ci interessa cambiare il Pil o il

sistema di riferimento?

Penso che il Pil faccia bene il suo mestiere di “indicatore di crescita”. Il punto è

trattarlo come tale. L’errore è stato nel tempo ritenere che la crescita economica

coincidesse col benessere; l’errore è nel fatto che le politiche economiche rispondono

solo a obiettivi di crescita; che i vincoli per stare in Europa sono espressi da

parametri economici. Ma l’attenzione che informazione e politica mettono sul Pil è

specchio di un sistema economico e sociale che privilegia redditività e produttività

anche a discapito di etica, affettività, solidarietà, socialità; che pensa la

soddisfazione dei bisogni possibile solo acquistando merci sul mercato; che prescinde

dai costi sociali e ambientali, anzi li vede come opportunità di crescita ulteriore.

La febbre potrà passare ma cambiando la cura, non il termometro.

Federica Battellini
(Laboratorio Itinerante sulla Decrescita – Roma)

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