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Perché il Sudan Interessa anche a Noi.

Le Radici Economiche delle


Proteste contro Bashir e L’FMI

- Lorenzo Lodi

(articolo apparso su La Voce delle Lotte 08\01\2109


https://www.lavocedellelotte.it/2019/01/08/il-sudan-interessa-anche-noi-le-radici-economiche-
delle-proteste-contro-bashir-e-lfmi/ )

Da metà dicembre il popolo sudanese si sta ribellando contro la feroce dittatura di Omar Bashir e il
piano di austerità concordato dal “rais” con il Fondo Monetario Internazionale. Le proteste sono
cominciate nella città di Atbara, storicamente la principale concentrazione operaia sudanese, per poi
estendersi alle “capitali gemelle” Karthoum e Omdurman, dove i manifestanti hanno chiesto le
dimissioni di Bashir. Quest’ultimo – incalzato anche dallo sciopero dei medici della settimana scorsa
– tuttavia non ha ceduto, e sta mettendo in campo una pesante repressione: sono centinaia i morti
dall’inizio delle proteste e più di 800 gli arresti, almeno secondo il regime (che senza dubbio arrotonda
per difetto). Torneremo in maniera più approfondita sulla dinamica delle mobilitazioni (per
aggiornamenti in tempo reale: QUI – sito in inglese; per un resoconto di qualche settimana fa, in
italiano: QUI). Vogliamo ora invece concentrarci sulle radici politico-economiche dell’esplosione di
modo tale da mostrare come non si tratti di qualcosa di “lontano” da noi, bensì di un processo
collegato con il dominio dell’Africa da parte delle potenze occidentali – Italia compresa – e la lotta
per la sua spartizione tra queste ultime e le potenze emergenti. Cercheremo di analizzare, insomma,
un altro caso pratico di “aiutiamoli a casa loro”, che impone ai giovani e ai lavoratori italiani la
massima solidarietà con i loro fratelli sudanesi in lotta, oltre che con chi scappa ogni giorno
dall’Africa per cercare di raggiungere la “fortezza Europa”.

Non sono proteste pagate da Soros: chi è Bashir?

Bashir è noto in occidente per i contrasti avuti in passato con gli USA: il dittatore prende infatti il
potere nel 1989, cavalcando un moto popolare grazie all’appoggio dei Fratelli Musulmani – all’epoca
in rotta con le petro-monarchie sulla questione dell’aggressione statunitense all’Irak – prima di dare
ospitalità a Bin Laden (da cui le sanzioni USA e ONU comminate a partire dal 1997) e di intrattenere
rapporti amichevoli con Libia e Cina. Tutti questi elementi – intrecciandosi con ragioni strettamente
economiche: vedi alla voce petrolio [1] – avrebbero inoltre giustificato pesanti ingerenze degli USA
e di altre potenze imperialiste nella guerra civile che ha insanguinato il sud del paese tra la fine degli
anni 90 e la prima metà dei 2000. Le frizioni geopolitiche non impedirono tuttavia a Bashir di
promuovere, sempre tra gli anni 90 e 2000, una serie di “piani di aggiustamento strutturale”
concordati con l’FMI, mentre da quando nel 2011 Karthoum ha accettato l’indipendenza del Sud
Sudan, il dittatore è diventato amico di tutti: le truppe sudanesi sono impegnate a fianco di quelle
saudite in Yemen, fatto che non ha imbarazzato Bashir quando qualche mese fa è stato il primo leader
arabo a fare visita ad Assad dai tempi della sua espulsione dalla Lega Araba. Faremo cenno in seguito
ai rapporti economici con Cina, Turchia, Russia, ma anche USA (i quali nel 2017 hanno fortemente
ridotto le sanzioni); limitiamoci qui a ricordare che nel 2017 Minniti coinvolse il Presidente sudanese
in una serie di trattative volte a farne un pilastro nelle politiche di contenimento esterno dei flussi
migratori, intenzioni alle quali non ha certo rinunciato Salvini. Non è dunque un caso se le proteste
in Sudan siano passate sotto silenzio nel nostro paese, questo anche nella misura in cui rivitalizzano
lo spettro delle rivolte arabe del 2011, in uno Stato che è molto legato geograficamente, politicamente
e culturalmente all’Egitto del feld-maresciallo al-Sisi, bastione della contro-rivoluzione e perno delle
strategie imperialiste della “nostra” classe dominante in Medio-Oriente.

Le radici economiche delle proteste: “Land Grabbing”, dipendenza dal capitale internazionale
e indebitamento estero.

Dopo la secessione del Sud Sudan nel 2011 il governo di Kartoum ha perso il controllo del 75% delle
risorse petrolifere. In realtà il Sudan mantiene il monopolio delle principali pipelines e degli scali
portuali necessari all’esportazione del greggio, ma i proventi derivanti dalla gestione delle
infrastrutture non sono riusciti a compensare la significativa riduzione delle entrate fiscali associata
al controllo della produzione. Nell’ultimo decennio, perciò, la strategia adottata dall’élite politico-
economica sudanese è stata quella di accentuare il processo di privatizzazione della terra cominciato
negli anni 70 [2]. Fu all’epoca che lo Stato avviò delle politiche volte ad affermare la proprietà privata
– storicamente appannaggio delle comunità rurali – prima avocando a sé la titolarità dei diritti
giuridici sul suolo nazionale, poi favorendo l’accaparramento dei migliori terreni da parte degli
uomini d’affari meglio connessi con i vari regimi post-coloniali. Il più zelante di questi ultimi è stato
proprio quello di Bashir, il quale ha avuto a che fare con la ribellione del Sud anche in relazione ai
fenomeni di spossessamento di pastori e contadini associati alla privatizzazione della terra; un
fenomeno che nella parte meridionale del paese assumeva una connotazione sub-coloniale essendo la
frazione più potente della classe dominante sudanese storicamente radicata nel nord e compattata
dietro l’identità araba (il sud invece è abitato da etnie sub-sahariane, mentre la religione maggioritaria
è il cristianesimo).

Dal “landgrabbing” cominciato dopo la separazione tra nord e sud del paese, invece, hanno
beneficiato soprattutto investitori e governi stranieri, in particolare Sauditi, Turchi e Cinesi: secondo
un recente studio, infatti, solo tra il 2005 e il 2014 sono stati acquistati dal capitale internazionale 40
milioni di ettari di terra, la cifra più elevata riscontrata in Africa nel periodo considerato, e pari alla
maggior parte della terra irrigata [3]. Tutto ciò, da un lato ha attutito gli effetti del calo della
produzione di petrolio, grazie all’aumento delle esportazioni di materie prime agricole e in particolare
di biocarburanti; dall’altro ha dettato l’intensificazione dell’impoverimento delle campagne e dei
fenomeni di urbanizzazione, come attesta il raddoppio della popolazione di Omdurman avvenuto
negli ultimi dieci anni; un’urbanizzazione analoga a quella di molti paesi africani, ovvero senza
industrializzazione, anche a causa della privatizzazione delle imprese pubbliche avvenuta negli ultimi
trentanni in nome del pagamento del debito estero, con annessi fenomeni di centralizzazione del
capitale nella mani di una ristretta elite, quindi di aumento della marginalità e della disoccupazione,
mascherata nelle statistiche dall’informalizzazione del mercato del lavoro [4] (l’80% dei lavoratori
urbani sudanesi è impiegato “in nero” in piccolissime attività artigianali o di commercio al minuto a
carattere famigliare) [5].

importazioni di grano in Sudan. Fonte: indexmundi.com

A sua volta, l’espansione dei principali centri abitati è associata a un peggioramento della bilancia
commerciale, dato che un’agricoltura come quella sudanese, distorta dall’agribusiness, non è in grado
di soddisfare la crescente domanda di cibo proveniente dalle città in rapida crescita; di conseguenza
la maggior parte delle materie prime alimentari, come il grano e i cerali, devono essere importati, in
particolare dalla Russia, dalla Germania e dal Canada. I progetti in infrastrutture agricole ed
energetiche che hanno favorito il landgrabbing, inoltre, sono stati supportati dal debito estero
contratto con il capitale internazionale, e non solo con quello associato alle potenze emergenti: come
mostra un report dell’FMI, infatti, i prestiti contratti dal Sudan sono equamente divisi tra “Non-Paris
Club Countries” – Cina, Turchia, Arabia Saudita etc. – e “Paris Club Countries” – i centri imperialisti
tradizionali, tra i quali l’Italia [6]. Il progressivo abbandono delle politiche di Quantitative Easing
della FED e della BCE – che mettendo a disposizione dei mercati finanziari migliaia di miliardi a
costo zero hanno spinto un ingente afflusso di capitali dal “Nord” al “Sud” del mondo – ha però reso
negli ultimi mesi sempre meno sostenibile il debito estero del Sudan, come quello di molti altri paesi
in via di sviluppo. Di conseguenza, in parallelo alla riduzione delle sanzioni concretizzatosi nel 2017,
Bashir ha avviato negoziati con il Fondo Monetario Internazionale, il quale come prerequisito per il
suo sostegno ha chiesto la liberalizzazione del cambio e politiche di austerità; in primis il taglio dei
sussidi all’energia e ai generi di prima necessità, fattore che ha scatenato le proteste.
Il ruolo di classe del Fondo Monetario Internazionale

La logica delle istituzioni finanziarie internazionali è la seguente: il debito può essere sostenibile solo
lasciando fluttuare e deprezzare la moneta, così da eliminare la necessità di chiedere costantemente
in prestito dollari, euro etc. per mantenere il cambio fisso ed evitare gli shock monetari che
scoraggiano gli investimenti esteri. Sempre nell’ottica di attirare questi ultimi, di favorire la crescita
e di ridurre il rapporto debito-PIL, è inoltre necessario – secondo l’FMI – recuperare risorse tagliando
la “spesa pubblica improduttiva”, ovvero la spesa in sanità e istruzione, insieme ai sussidi sul cibo e
sull’energia. Il contenuto imperialista e di classe dei diktat dell’FMI è però evidente: liberalizzare il
cambio e lasciar deprezzare la moneta equivale infatti a rendere più costose le importazioni, sulle
quali, come abbiamo visto, in Sudan incidono molto le materie prime alimentari, ma anche il
farmaceutico, dopo il bombardamento della principale fabbrica chimica di Kartoum nel 1998 da parte
di Clinton, il quale con questa aggressione mandò in rovina la sanità locale e decine di migliaia di
allevatori e agricoltori, fortemente dipendenti dalla produzione di fertilizzanti che avveniva nel sito
[7]. Il risultato degli ultimi due interventi sul cambio operati dalla banca centrale di Karthoum del
febbraio scorso e di questo ottobre è stato dunque un’impennata incredibile dell’inflazione, ai danni
evidentemente degli strati sociali più poveri. Se inoltre in generale è vero che una calo del valore
della moneta nazionale favorisce le esportazioni, nel caso di un’economia come il Sudan, dipendente
dai centri imperialisti tradizionali e dalle potenze emergenti per l’importazione di beni capitali e
semilavorati (macchinari, auto-veicoli e lo stesso petrolio esportato dal Mar Rosso, ma raffinato
altrove!) un deprezzamento ha soprattutto l’effetto di aumentare i costi di produzione, fattore che ha
senza dubbio inciso nel rallentamento dell’economia sudanese dell’ultimo anno e mezzo.
inflazione sui beni di consumo. Fonte: globaleconomy.com

Certo – risponderebbero i tecnocrati dell’FMI – tutto ciò sarà compensato dall’aumento degli
investimenti esteri! Come è stato già rilevato, tuttavia, in Sudan gli afflussi di capitale straniero
trainati dall’agribusiness sono stati alla radice di fenomeni di spossessamento e impoverimento, di
squilibri nella bilancia dei pagamenti, quindi dello stesso aumento del debito estero, anche nella
misura in cui – come ai tempi di Rosa Luxemburg e Lenin – i progetti infrastrutturali che hanno
calamitato il capitale internazionale sono avvenuti tramite prestiti erogati allo Stato dalla finanza
imperialista e dei paesi emergenti. Se tutto questo è vero, allora, il dissesto delle casse statali centra
ben poco con la spesa sociale, peraltro stagnante da decenni (dopo la crisi del debito di inizio anni 90
il Sudan aveva già subito due piani di “aggiustamento strutturale” firmati FMI), mentre lungi
dall’essere la causa della debolezza dell’economia, i sussidi rappresentano un inevitabile palliativo
agli squilibri di un’economia dipendente. Così, tagliare le sovvenzioni statali a pane, benzina etc.
equivale esclusivamente a un trasferimento di reddito dai lavoratori e dai poveri al capitale
internazionale e alla ristretta elites di militari e borghesia compradora, che domina il paese operando
come intermediaria del capitale multinazionale. Per evitare di risultare astratti utilizzando una
categoria del genere è utile chiamare in causa la figura di Osama Daoud, il più grosso capitalista
sudanese, che ha il quasi monopolio della commercializzazione e della macinazione del grano
importato da Canada, Germania e Russia, nonché il monopolio dell’imbottigliamento e della vendita
di Pepsi e Coca Cola realizzate in occidente con la gomma arabica della quale il Sudan è il primo
esportatore mondiale.

NOTE:

[1] http://www.sudantribune.com/IMG/pdf/Oil_industry_in_Sudan.pdf

[2]http://www.democracyfirstgroup.org/wp-content/uploads/2016/10/Land-Use-Ownership-and-
Allocation-in-Sudan.pdf

[3] Ibid.
[4] https://thejournalofbusiness.org/index.php/site/article/view/692

[5]http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/@africa/@ro-addis_ababa/@sro-
cairo/documents/publication/wcms_334878.pdf

[6]https://www.imf.org/external/pubs/ft/dsa/pdf/2017/dsacr17364.pdf

[7]http://eprints.lse.ac.uk/85046/1/Mann%202013_Final.pdf

[8] Ibid.

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