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Aiutiamoli a casa loro… Per sfruttarli meglio.

Imperialismo,
proletarizzazione e migrazioni in Nigeria

- Lorenzo Lodi

(Articolo apparso su “La Voce delle Lotte” 30/12/2017,


https://www.lavocedellelotte.it/2017/12/30/aiutiamoli-a-casa-loro-per-sfruttarli-meglio-imperialismo-
proletarizzazione-e-migrazioni-in-nigeria/)

La scorsa settimana Gentiloni ha annunciato l’imminente invio di 470 militari


italiani al confine tra la Libia e il Niger, i quali si aggiungeranno ai contingenti
già stanziati da U.S.A. e Francia con il proposito dichiarato di contrastare il
traffico di migranti e combattere il terrorismo (il progetto è in cantiere da
mesi, ma stavolta sembra si voglia fare sul serio). I “flussi migratori”,
tuttavia, non sono il puro e semplice esito dell’attività di “trafficanti senza
scrupoli”, o dell’ instabilità provocata dai “gruppi terroristici”, bensì hanno
profonde cause “socio-economiche” (che a loro volta spiegano in buona parte
il successo in termini di reclutamento del Jihadismo). E’ evidente perciò che gli
“obiettivi ufficiali” della recente iniziativa non rappresentino altro che una
giustificazione per il consolidamento delle posizioni militari dell’imperialismo
italiano, ansioso di difendere i recenti avanzamenti economici in Africa, dove
quest’anno la “nostra” classe capitalista si attesta al terzo posto per
investimenti esteri.

A dire il vero, come ricorda il direttore di famiglia cristiana Scaglione, il PD non


ha mai dimenticato di occuparsi delle ragioni di fondo che spingono ogni giorno
“migliaia di disperati” a salpare verso l’Europa. Fu di Renzi nel 2016 l’idea – ad
oggi ancora tale – del “migration compact”, ovvero un piano di investimenti
pubblici e privati pari a 62 miliardi volto a favorire lo “sviluppo” dell’Africa
subsahariana e quindi ad affrontare le radici stesse dei “viaggi della speranza”.
Di contro l’ARCI ci fa notare che: “un maggiore sviluppo porta ad aumentare la
migrazione. Tutte le persone che vogliono partire da tempo ma non ne avevano
i mezzi avranno quindi la capacità di partire e lasceranno il loro paese” [1].

Un’osservazione del genere muove da un dato di fatto: la Nigeria – il paese più


“sviluppato” dell’Africa subsahariana (dopo il Sud Africa) in termini di prodotto
interno lordo – è anche l’area dalla quale proviene il maggior numero di
migranti diretti verso le nostre coste (mentre il Niger, uno dei paesi più poveri
del mondo è essenzialmente un luogo di transito, anche se è strategico per
l’imperialismo italiano al fine di manovrare in Libia, dove sono concentrati i suoi
interessi). Se poi è condivisibile la necessità di rifiutare la retorica dell’
“aiutiamoli a casa loro”, si sbaglia però completamente mira facendo deduzioni
a partire da statistiche come il PIL – la somma, o la media dei redditi (quando
si parla di PIL pro-capite) – incapaci di darci conto delle contraddizioni
dello sviluppo capitalistico. La questione, del resto, non è accademica nella
misura in cui sorvolare sul nesso tra capitalismo e fenomeni migratori oscura
l’esistenza di obiettivi interessi in comune tra i lavoratori africani e quelli
europei, quindi tra migranti, rifugiati e\o richiedenti asilo e lavoratori italiani,
mentre, riducendo la questione migratoria a un calcolo “costo-benefici”, si
legittima la disgustosa distinzione tra “migranti economici” e “umanitari”.

Cenni sullo sviluppo capitalistico in Africa

Le radici di lungo periodo dello sviluppo capitalistico in Africa sono da ricercare


nella sussunzione dei modi di produzione asiatici o comunisti primitivi propri
del continente alla logica, prima dell’accumulazione originaria (vedi il
commercio di schiavi dominato dalle “potenze” europee) e in seguito, a quella
del capitale imperialista (fine 800-inizio 900) dalla quale deriva la centralità
dell’esportazione di pochi prodotti agricoli “tropicali”, o minerari, nelle economie
africane. Con i processi di decolonizzazione cominciati tra gli anni 50 e 60, le
elites nazionaliste dei principali Stati dell’africa subsahariana cercano di
intraprendere un abbozzo di industrializzazione sfruttando la rivalità politica tra
l’URSS e l’imperialismo USA per ottenere finanziamenti.

La crisi di sovraccumulazione del capitalismo mondiale cominciata all’inizio


degli anni 70, tuttavia, detta una riduzione del prezzo delle materie prime, con
il risultato di creare le basi per la “crisi del debito del terzo mondo” degli anni
80, che colpirà con particolare ferocia l’africa subsahariana. Fondamentale, in
questo solco, la pioggia di petrodollari sottoforma di prestiti internazionali verso
i “Paesi in Via di Sviluppo” (resa possibile dal boom del prezzo del greggio nel
decennio precedente) e la politica di aumento dei tassi d’interesse promossi
da Regan e Tatcher per colpire il movimento operaio in occidente e
approfondire la presa dell’imperialismo sui paesi dominati (riconquistando,
insomma, anche quel poco di egemonia persa a seguito dei processi di
decolonizzazione)1.
Come contropartita per l’erogazione di nuovi prestiti, sempre più necessari per
far fronte al crescente servizio sul debito, infatti, le Istituzioni Finanziarie
Internazionali promuovono i cosiddetti “piani di aggiustamento strutturale” (una
sorta di antenato del “fiscal compact”) i quali includono oltre a disciplina di
bilancio e privatizzazioni una progressiva riduzione delle tariffe doganali che
raggiungerà il suo culmine con l’istituzione del WTO negli anni 90. L’esito è
una messa in discussione dei timidi sforzi di industrializzazione messi in campo
nei decenni precedenti e la penetrazione dei produttori di grano e cereali
europei e nordamericani nei mercati africani, in espansione accanto alla
sensibile accelerazione conosciuta dai processi di urbanizzazione negli anni
80 e alla crescente distorsione delle agricolture del continente verso le
monocolture da esportazione (dominate dal capitale internazionale) [2].

Alle radici delle migrazioni in Nigeria

Particolarmente rilevanti le dinamiche di cui sopra per quanto riguarda la


Nigeria (il secondo importatore di grano e riso del mondo) dove i grandi gruppi
agricoli nordamericani ed europei hanno acquisito nel tempo un sostanziale
monopolio sui mercati delle materie prime alimentari, grazie alla maggiore
produttività rispetto ai coltivatori africani, ma anche ai generosi sussidi forniti
dai rispettivi governi (con buona pace del “libero mercato”) [3]. I piccoli
produttori locali sono perciò relegati all’agricoltura di sussistenza, la quale,
caratterizzata da un bassissimo livello tecnico e infrastrutturale è incapace di
sostenere la crescita della popolazione con il risultato di alimentare l’esodo
rurale verso le città [4], al quale, come vedremo, contribuiscono anche le
tendenze alla concentrazione della proprietà terriera trainate dal capitale
internazionale. Attualmente oltre il 50% della popolazione vive ancora al di fuori
delle principali aree urbane, ma il dato si è ridotto quasi del 30% negli ultmi 15
anni, a riprova dell’entità dei processi di spossessamento e proletarizzazione
in atto nel paese [5], intensificati “da” – e intrecciati “con” – inondazioni e
desertificazione (rispettivamente nel sud e nel nord del paese). Tali fenomeni,
infatti, lungi dall’essere meramente naturali sono legati alla deforestazione
dettata dall’urbanizzazione selvaggia, dalla bassa produttività dell’agricoltura
di sussistenza e dal riscaldamento globale, ma anche e soprattutto
dall’espansione delle grandi piantagioni (secondo la FAO responsabile per il
42% del fenomeno, contro il 30% “imputabile” ai piccoli coltivatori) [6].
A causa della sua natura “compradora”, del resto, la borghesia nigeriana non
ha mai avuto nessun interesse al miglioramento complessivo
dell’agricoltura. Aliko Dankote, ad esempio, l’uomo più ricco della nigeria e
dell’Africa, deve la sua fortuna al quasi monopolio – che condivide con altre 5
multinazionali – della lavorazione e della distribuzione delle materie prime
alimentari importate [7]: attualmente la Nigeria dipende dall’estero per circa
l’80% del fabbisogno di grano e riso, mentre l’ammontare complessivo delle
importazioni di cibo è decuplicato dal momento delle prime riduzioni delle tariffe
avvenute nel 1986 [8]. A giudicare poi dal fatto che ad oggi solo l’1% della
superficie coltivata è dotata di sistemi di irrigazione permanente, è evidente
che le politiche di promozione dell’agricoltura alle quali i “donatori”
internazionali e il governo nigeriano hanno dato slancio ufficiale a partire dagli
anni 80 sono andate esclusivamente nell’interesse delle elites capitalistiche
nazionali e internazionali [9]. L’alternativa all’agricoltura di sussistenza è
dunque per le masse rurali il lavoro salariato stagionale nell’agricoltura su larga
scala, o l’inserimento come “coltivatori indipendenti” nelle catene globali del
valore dominate dai grandi gruppi multinazionali. Anche qui, però, non si tratta
di una via d’uscita dalla povertà; tanto per capirci, sul prezzo totale che
paghiamo nei mercati europei per una barretta di cioccolata – o per la Nutella
– solo il 5% del “valore aggiunto” corrisponde a quello intascato dai coltivatori
diretti di semi di cacao nigeriani [10].

A differenza di altri stati africani, in effetti, la Nigeria “beneficia” della “rendita


petrolifera” (ad oggi è il sesto produttore mondiale di idrocarburi), tuttavia
l’estrazione di petrolio nel delta del fiume Niger è intimamente legata alla crisi
del “settore primario”, quindi a massicce espropriazioni di terreni agricoli da
destinare ad attività estrattive o pipelines, ma anche all’ inquinamento che a
sua volta si riflette negativamente sull’agricoltura e sulla pesca (non è un caso
che il paese importi il 60% delle risorse alimentari marittime). Tutto ciò, in nome
degli interessi dei grandi gruppi petroliferi, tra i quali la “nostra” Eni che negli
anni ha contribuito allo sviluppo (capitalistico) nigeriano con centinaia di milioni
di investimenti e altrettanti in tangenti a burocrati e politici locali. Questi
ultimi, complessivamente, si sono letteralmente intascati tra il 1970 e il 2000
oltre 400 miliardi di dollari di rendita petrolifera, mentre nello stesso lasso di
tempo la percentuale di nigeriani che vivono con meno di un euro al giorno è
passata dal 36% al 70% [11] (secondo altri dati riportati dalla BBC tra il
2004 e il 2012 la cifra aumenta dal 56% al 60%).
Con il calo del prezzo del petrolio successivo alla “Grande crisi”, in realtà, le
burocrazie nigeriane hanno deciso di recuperare la riduzione della rendita
accelerando la vendita dei terreni agricoli al capitale internazionale e alla
borghesia nazionale [12] utilizzando come giustificazione la necessità di
sviluppare finalmente l’agricoltura e risolvere il problema della dipendenza
alimentare. La svolta è stata accolta con favore dai membri del G7 che hanno
patrocinato una serie di investimenti nell’agricoltura su larga scala, presentati
come “aiuti allo sviluppo”, ma tradottisi in fenomeni di espropriazione di massa,
come nel caso del recente acquisto di 30.000 ettari per la produzione di riso
da parte della multinazionale U.S.A. “Dominion Corporation” nel nord-est
del paese che mette a rischio l’accesso all’acqua di una comunità di
40.000 piccoli coltivatori.

Un processo del genere si intreccia poi con la cessione cominciata a metà anni
2000 di centinaia di migliaia di ettari di terreno agricolo per la coltivazione di
bio-carburanti – in uno dei più grandi investimenti degli ultimi tempi è
coinvolta una multinazionale italo-tedesca – con relativi fenomeni di
spossessamento delle comunità contadine, accanto al peggioramento della
dipendenza alimentare del paese (il bio-etanolo è prodotto dalla fermentazione
della cassava che è un elemento importante della dieta degli agricoltori
nigeriani). Questo, peraltro, proprio in un momento in cui la domanda mondiale
di grano e cereali è in costante crescita a causa dal fatto che i fenomeni di “bio-
fuelizzazione” dell’agricoltura trainati dal capitale internazionale coinvolgono
tutto il terzo mondo, generando un costante aumento dei prezzi del cibo ai
danni delle masse proletarie e sotto-proletarie, ma a tutto vantaggio dei
conglomerati europei e nordamericani, e delle “borghesie compradore”. Il
fenomeno è intimamente legato alla crisi di sovraccumulazione del capitalismo
globale e all’intensificazione della competizione interimperialistica – in
particolare tra USA e CINA, sempre più affamati di fonti di energia a basso
costo – ma il governo nigeriano giustifica l’enfasi sulla produzione di bio-
carburanti con la necessità di ridurre le importazioni di benzina… Quando non
esistono nel paese tecnologie in grado di funzionare a bio-etanolo [13]!

E’ vero tuttavia che una delle principali voci delle importazioni del paese
africano è rappresentata dai prodotti petroliferi raffinati, indice dell’incapacità
del capitalismo nigeriano di sviluppare l’industrializzazione a partire dalle
attività estrattive a causa della sua subalternità nella divisione mondiale del
lavoro. Anzi, gli effetti di sopravvalutazione del cambio dettati dalle esportazioni
di greggio e gas naturale hanno approfondito la tendenza a una complessiva
deindustrializzazione, in sinergia con l’ aumento delle pressioni competitive
dettate dall’apertura al commercio mondiale degli ultimi decenni, la quale ha
aggravato gli effetti della strutturale dipendenza economica del paese. Come
tutti i “capitalismi periferici”, infatti, la Nigeria importa gran parte dei semi-
lavorati e dei beni capitali dai centri imperialisti (gli imputs importati
costituiscono tra il 50 e il 60% del valore dell’output). Di conseguenza eventuali
espansioni nell’industria dei beni di consumo non generano tassi di
accumulazione significativi (dettando l’aumento della domanda di prodotti
U.S.A., tedeschi etc e non di quelli del quasi inesistente “settore dei mezzi di
produzione” locale), mentre in seguito all’adesione al WTO la stessa industria
dei beni di consumo nigeriana è entrata in crisi in relazione all’incremento della
concorrenza con la Cina [14].

Attualmente il peso della manifattura sul totale dell’occupazione si è dunque


ridotto di 1\3 rispetto al 1970, anche se complessivamente il numero dei
componenti della “classe operaia” per come è tradizionalmente intesa rimane
costante al 12% grazie all’aumento degli occupati nel settore che ruota attorno
al petrolio e alle costruzioni (i quali tuttavia non crescono, in termini di
occupazione, da oltre un decennio)[15]. Aumenta invece il peso del proletariato
come classe definita da relazioni sociali articolate attorno al controllo dei mezzi
di produzione: nel 2015 i salariati, compresi quelli agricoli, rappresentano il
66% dell’occupazione (contro il 56% del 1995) [16]. Detto questo, a fronte di
un settore manifatturiero asfittico e della natura strutturalmente “capital
intensive” dell’industria estrattiva, l’espansione dei servizi (e dell’impiego
pubblico) è incapace di assorbire l’esodo rurale; lo dimostrano gli
impressionanti dati sulla disoccupazione degli ultimi anni che schizzano dal 3%
del 2000 al 25% del 2014 [17].

La crescita esponenziale delle città (Lagos ad esempio è passata da qualche


centinaia di migliaia a oltre dieci milioni di abitanti tra il 1991 e il 2006 [18])
corrisponde perciò a quelle delle immense bidonvilles periferiche, le quali – più
che una soluzione permanente – rappresentano per molti giovani una sorta di
parcheggio prima dell’emigrazione verso l’Europa [19]. Questo anche nella
misura in cui sono frequenti imponenti sgomberi condotti coercitivamente dalle
autorità statali per fare spazio a progetti di speculazione edilizia – o in generale
di “land grabbing” – a vantaggio dell’1% che beneficia della rendita petrolifera
(ad esempio, l’anno scorso oltre 30.000 famiglie di Lagos hanno assistito
alla demolizione della propria baracca in un’unica grande operazione
condotta dal governo).

Ancora due parole sulla prospettiva politica…

Di fronte agli immani processi di espropriazione e proletarizzazione scatenati


dall’accumulazione capitalistica mediata dall’imperialismo, non esiste,
insomma, politica di respingimento che tenga, mentre fare appello ai “nostri”
governi affinché promuovano lo sviluppo significa illudersi che più imperialismo
possa risolvere le questioni poste dallo stesso imperialismo. I giovani e i
lavoratori europei non hanno nulla da guadagnare dallo sfruttamento dei paesi
africani: le classi dominanti che promuovono la subordinazione economica del
“terzo mondo” sono le stesse che gestiscono il massacro sociale in Europa.
Lavoratori italiani e migranti hanno dunque i medesimi nemici e lo stesso
interesse nell’abbattimento di un sistema economico e sociale che non ha più
nulla da offrire all’umanità. Per questo ai tentativi del governo di giustificare
nuove avventure militari sfruttando la paura dell’ “immigrazione” o i sacrosanti
sentimenti di pietà per le morti nel mediterraneo, dobbiamo rispondere con la
denuncia delle mire e delle responsabilità dell’ imperialismo e rivendicare la
piena accoglienza per chi approda sulle nostre coste.

Note

[1] “Le Tappe del processo di Esternalizzazione delle Frontiere: dal Summit
della Valletta ad Oggi”, ARCI, 2016. Disponibile
a: http://www.integrationarci.it/wp-
content/uploads/2016/06/esternalizzazione_docanalisiARCI_IT.pdf, p. 6.

[2] Per approfondimenti sui temi trattati in questo paragrafo si veda D,


Harvey,Breve Storia del Neoliberismo, Il Saggiatore, Milano, 2005. A.
Pallotti, Alla ricerca della Democrazia: l’Africa Subsahariana tra Autoritarismo
e Sviluppo, Rubettino,Soveri Mannelli, 2008. Un libro certamente non marxista,
ma onesto e ricco di informazioni. Sulla questione dei mercati alimentari del
terzo mondo e in generale sui rapporti tra quest’ultimo e “l’agribusiness” con
base nei centri imperialisti occidentalei si veda: J. Wilkinson, “The Globalization
of Agribusiness and Developing World Food System”, Monthly Review, Vo. 61,
N° 4. Disponibile a:https://monthlyreview.org/2009/09/01/globalization-of-
agribusiness-and-developing-world-food-systems/

[3] J. Wilkinson, Op. Cit.

[4] E. N. Ajani, “A Review of Agricultural Transformation Agenda in Nigeria: The


Case of Public and Private Sector Participation”, Research Journal of
Agriculture and Environmental Management. Vol. 3(5), pp. 238-245, May,
2014. Disponibile a:
https://www.researchgate.net/publication/267507156_A_Review_of_Agricultu
ral_Transformation_Agenda_in_Nigeria_The_Case_of_Public_and_Private_S
ector_Participation

[5] https://data.worldbank.org/indicator/SP.RUR.TOTL.ZS?locations=NG

[6] M. N. Thelma, “Desertification in Northern Nigeria: Causes and Implications


for National Food Security”, Peak Journal of Social Sciences and Humanities
Vol. 3 (2), pp. 22-31, March, 2015. Disponibile
a:https://www.academia.edu/11786508/Desertification_in_northern_Nigeria_
Causes_and_implications_for_national_food_security

[7] “Nigeria Agriculture”, Export.Gov, 20\06\2016. Disponibile a:


https://www.export.gov/apex/article2?id=Nigeria-Agriculture

[8] U. Abdullatef & A. T. Iljaya, “Agricultural trade Liberalization adn Food


Security in Nigeria”, Journal of Economics and International Finance Vol. 2(12),
pp. 299-307, December 2010. Disponibile
a:http://www.academicjournals.org/journal/JEIF/article-full-text-
pdf/6F656F92912

[9] Si veda: I. M. Abbass, “Trends of Rural Urbani Migration in Nigeria”,


European Scientific Journal. Disponibile
a:https://pdfs.semanticscholar.org/5576/48d57f827fd7f786a9c93b462843053
1a659.pdf. Il dato sull’irrigazione è della FAO: http://www.fao.org/nigeria/fao-
in-nigeria/nigeria-at-a-glance/en/
[10] “Transforming Nigeria’s Agricultural Value Chian”, Pwc. P. 10. Disponibile
a:https://www.pwc.com/ng/en/assets/pdf/transforming-nigeria-s-agric-value-
chain.pdf

[11] M. Watts, “Empire of Oil: Capitalist Dispossessation and the Scramble for
Africa”, Monthly Review, Vol. 58, N° 3, Sett. 2006. Disponibile
a:https://monthlyreview.org/2006/09/01/empire-of-oil-capitalist-dispossession-
and-the-scramble-for-africa/

[12] Nelle campagne nigeriane la proprietà privata della terra non è un dato
assodato; ufficialmente il proprietario è lo stato che la delega alle comunità
locali. Quando il governo cede le terre ai privati, si tratta insomma di un vero e
proprio processo di accumulazione originaria, anche se abbiamo visto come il
fatto che il grosso degli agricoltori nigeriani siano relegati all’economia naturale
sia legato alle pressioni del capitalismo globale, e non all’isolamento dai
processi di accumulazione; Trotsky parlava di sviluppo ineguale e combinato,
a proposito delle caratteristiche dello sviluppo capitalistico nei paesi
“ritardatari”, dove, ad esempio, le evoluzioni più recenti dei processi di
centralizzazione del capitale, coesistono con rapporti di produzione arcaici (nel
nostro caso multinazionali e agricoltura di sussistenza). Sul concetto di
Sviluppo Ineguale e Combinato, si veda L. Trotsky, Storia della Rivoluzione
Russa, Cap. 1. (qualsiasi edizione).

[13] Sul Land-Grabbing in Nigeria si veda: N. E. Attah, “Nigeria Agrofuel Policy


and Land Grab: ‘Monkey See, Monkey do’ “, CODESRIA, 2015. Disponibile
a:https://www.codesria.org/IMG/pdf/noah_echa_attah___nigerian_agro-
fuels_policy_and_land_grab___monkey_see_monkey_do.pdf?4031/a278474
cc1e6fb658bcf5a1fb3ed5b99e169e47a. Sul Land Grabbing come fenomeno
generale si veda: M. Edelman (a cura di), Land Grabbing History Theory and
Methods, Routledge, London, 2011.

[14] per i dati sulla struttura delle importazioni si vedano i


databases:https://atlas.media.mit.edu/en/profile/country/nga/,https://wits.world
bank.org/CountryProfile/en/Country/NGA/StartYear/2000/EndYear/2014/Trad
eFlow/Import/Indicator/MPRT-TRD-VL/Partner/ALL/Product/UNCTAD-SoP2.
Sullo sviluppo capitalistico dei paesi dipendenti, si rimanda al classico S.
Amin, Lo Sviluppo Ineguale, Einaudi, Torino, 1977. Per un’analisi più
aggiornata, che si sofferma sulle relazioni tra globalizzazione e imperialismo
(nonché gli effetti dell’aumento della concorrenza tra i paesi del sud del mondo
– nei quali l’autore include anche la Cina – per i mercati del “nord” e per entrare
nelle catene globali del valore dominate dai grandi gruppi transazionali) s veda:
J. Smith, Imperialism in the 21th Century, Monthly Review Press, 2016. Su
liberalizzazione commerciale, manifattura e mercato del lavoro in Nigeria: D.
O. Odejimi, “The Impact of trade Liberalization on the Nigerian Labour Market”,
International Journal of Commerce, Economics and Management, Vol. 3, N° 4,
Aprile 2015. Disponibile a:http://ijecm.co.uk/wp-
content/uploads/2015/04/3415.pdf

[15] C. Golubsky, “Nigeria Jobless Growth”, Newsweek, 05\10\2016.


Disponibile a:http://www.newsweek.com/nigerias-jobless-growth-457897

[16] https://data.worldbank.org/indicator/SL.EMP.WORK.ZS?locations=NG

[17] C. Golubsky, Op. Cit.

[18] J. Wilkinson, Op. Cit.

[19] Per un ottimo resoconto si veda: A. Iocchi, “Nigeria la Pipeline che


Trasporta i Migrati”, Limes, Dicembre 2017.

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