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Il più odiato dai fascisti.

Conversazione su Furio Jesi, il


mito, la destra e la sinistra
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Wu Ming January 15, 2013

Furio Jesi durante la lavorazione dell’Enciclopedia Europea Garzanti, 1976

«È un brutto indizio che si regredisca ai feroci e cupi anni Settanta con un


trattato di criminologia culturale.»
(Marcello Veneziani, commento alla riedizione 2011 di Cultura di destra di Furio
Jesi)

«Furio Jesi, il germanista dottissimo ma completamente paranoico, i cui deliri
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godono ancora di gran credito a sinistra…»
(A. Scianca, “responsabile cultura di Casapound”, in una recensione a Un Grillo
qualunque di Giuliano Santoro)

«Non conosco la biografia del personaggio, ma sono pronto a giurare che sia
stato affetto da turbe psichiatriche serie.»
(Discussione su Furio Jesi dal forum neofascista Vivamafarka)

«Furio Jesi, l’intellettuale ebreo morto prematuramente a causa di una fuga di
gas del suo scaldabagno…»
(Gianfranco De Turris, Elogio e difesa di Julius Evola)

[Quella che segue è una conversazione a tre voci su Furio Jesi (1941 – 1980),
archeologo, filologo, studioso di mitologia e cultura tedesca, scrittore e militante
della “nuova sinistra”. L’occasione è la recentissima uscita della monografia di
Enrico Manera Furio Jesi. Mito, violenza, memoria (Carocci, 2012). Per molti
giapster, Manera è una vecchia conoscenza: su Giap, a fine 2010, discutemmo
della sua precedente uscita “jesiana”, ovvero il n. 31 della rivista Riga, curato da
lui e da Marco Belpoliti, interamente dedicato allo studioso torinese. Numero
che resta il miglior “punto d’ingresso” in un labirinto di pensiero e in
un’elaborazione radicale purtroppo troncata da un banale incidente domestico. Il
libro appena uscito vuole essere un “compagno di viaggio”, un vademecum da
tenere accanto una volta deciso di intraprendere la lettura di Jesi.
La conversazione si svolge tra Manera, Wu Ming 1 e un’altra conoscenza dei
giapster, Giuliano Santoro, recentemente criticato da un fascista per aver usato
Jesi nel suo libro Un Grillo qualunque. Approfittiamo dell’occasione per
aggiungere che le edizioni Nottetempo stanno per ripubblicare il testo di Jesi Il
tempo della festa, a cura di Andrea Cavalletti. Buone letture.
P.S. Ricordiamo che in calce a ogni post di Giap ci sono due link: uno apre
l’impaginazione ottimizzata per la stampa (o per il pdf), l’altro salva il post in
formato ePub.]

Wu Ming 1

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Jesi sembra essere l’unico intellettuale di sinistra
del Novecento italiano che metta davvero a
disagio il neofascismo (“classico” e
postmoderno) e le destre più o meno «nuove» e
«riciclanti». Nel calderone del loro discorso
confusionista, queste ultime possono citare più o
meno chiunque, da Pasolini a Rino Gaetano agli
Area, da Guevara a Debord a chissà chi altro, ma
di fronte a Jesi si fermano inquieti e sudaticci. A
più di trent’anni dalla sua morte continuano a
praticare esorcismi ingiuriandolo, dandogli del
«paranoico», qualificando le sue riflessioni come
«deliri», irridendolo e tirando in ballo in modo
allusivo il suo essere di famiglia ebraica e le
modalità della sua morte (un ebreo ucciso dal
gas, che risate!), cercando in tutti i modi di tenerlo
a distanza.
In effetti, pensiamo all’approccio di Jesi e alle
conclusioni a cui giunge:

1. Non c’è Mito ma solo «materiali mitologici» variamente manipolati e «tecnicizzati» (cioè
usati per scopi contingenti).

2. «L’origine» è un momento sempre inventato ex post e comunque poco significativo.

3. Sulle «idee senza parole» della destra – concetti dati in partenza per indicibili e
indibattibili come Spirito, Patria, Italianità o Tradizione – non può fondarsi alcun pensiero
critico (quindi, aggiungo, l’espressione «intellettuale di destra» è il più delle volte una
contraddizione in termini).

4. Certi «pensatori» della tradizione di destra non meritano alcuna patente di


«rispettabilità» culturale. Per esempio, Evola era in buona sostanza un rimasticatore da
strapaese, uno che in Italia era tenuto in conto perché vendeva ai piccoli borghesi frustrati
una versione casereccia e dozzinale di idee che altrove, pur discutibili, erano esposte con
maggiore serietà (es. da parte di René Guénon). Qualche giorno fa, ho definito Evola “un
mago Otelma con più pretese”.

5. Il continuo evocare l’Alto, l’Antico, il Puro, il Nobile è solo kitsch, affastellamento di


cianfrusaglie per ottenere un effetto di «lusso spirituale».

Ebbene, niente di tutto questo è integrabile in alcun modo nel bric-à-brac di destra alla
Casapound o chi altri. Non può proprio far parte dell’assemblaggio, della macchina
mitologica fascista o fascistoide. Ciascuna di queste conclusioni sarebbe ossidante o
corrosiva per le giunture e guarnizioni di quel precario marchingegno. Questo fa di Jesi «il
più odiato dai fascisti». Lo abbiamo visto anche di recente, da parte di tale Scianca, che è
indicato come «responsabile cultura di Casapound» (quindi è quello che mescola la
minestrina). Recensendo sul «Secolo d’Italia» il libro di Giuliano Un Grillo qualunque – dove

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l’arsenale teorico di Jesi è utilizzato in modo intelligente e non scontato – costui non ha
rinunciato a insultare il mitologo e germanista torinese, definendolo «completamente
paranoico».

Enrico Manera

La tua sintesi è pienamente corretta: riprendo la


definizione di “cultura di destra” che Jesi diede nel 1979 a
«L’espresso» in occasione dell’uscita di Cultura di destra,
un libro che ebbe una certa notorietà. E’ la cultura in cui
«il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si
può modellare […] nel modo più utile, […] in cui prevale una
religione della morte o anche una religione dei morti
esemplari», in cui «esistono valori non discutibili, indicati
da parole con l’iniziale maiuscola». “Di destra” è ogni
discorso che abbia forma assertiva indiscutibile, cioè
autoritaria e quindi “mitica”: è soprattutto il linguaggio di
«parole spiritualizzate» elaborato dalla destra
tradizionale, fascista e neofascista, con le iniziali
maiuscole (Tradizione, Razza, Patria, Famiglia, Sangue,
Terra…) ma è anche il linguaggio del «sinistrese […] più
dinamitardo» dei comunicati delle Brigate Rosse o la celebrazione del Risorgimento e della
Resistenza quando si fa discorso basato sulla mistica del sacrificio e del martirio. Tutto
questo sono le ‘idee senza parole’: retoriche del sublime, monumentali e celebrative che
legittimano la sfera politica riferendosi al passato e imitando il linguaggio del sacro.
Alludono e non spiegano nulla. Sono forme verbali dell’azione, gestuali e rituali per le quali
in termini di filosofia del linguaggio Austin ha parlato di funzione perlocutiva, producono
effetti pragmatici in chi le condivide.
Per Jesi, «la maggior parte del patrimonio culturale […] è residuo culturale di destra». La
destra non è che l’estrema propaggine di un linguaggio aristocratico e alto-borghese che
ha trovato la propria codificazione a partire dal tardo Settecento, nel momento in cui gli
elementi delle culture nazionali sono emersi con forza e hanno elaborato una metafisica
che trovava nel mito una voce dell’essere.
Di qui il mito dell’origine e il mito come qualcosa di originario. L’uso del “mito”, un uso
metafisico del mito che serva a fondare uno stato di cose considerandolo “natura”, è ciò
che fattivamente distingue il pensiero reazionario da quello emancipativo: se le parole “di
sinistra” diventano “mitiche” smettono di essere emancipative.
Questo riguarda a sinistra, per farla molto veloce, tanto lo stalinismo, come mito totalitario
del potere, quanto le magliette di Che Guevara, per dire una mitologia che ricicla simboli e
luoghi comuni dell’immaginario di sinistra in modo kitsch e anche commerciale, quali che
siano le buone intenzioni.
Un discorso molto simile è quello del romanziere rumeno, esule negli Stati Uniti, Norman
Manea (Clown. Il dittatore e l’artista, 1992, ed. it. 1995 e 2005), che ha parlato di «mitologie
comunitarie» che forniscono risposte facilitate per società in crisi. Fascismo, socialismo
reale, fondamentalismo religioso, democrazie post-moderne, pur con gradi diversi di
intensità e su contenuti di segno anche molto diverso, dal punto di vista della teoria della
cultura operano allo stesso modo nel plasmare modelli cristallizzati di identità.
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I fasci di Casapau, quando pensano a un Eroe, il primo esempio che gli viene in mente è Bruce Willis.
Forse per il crapone pelato che ricorda Lui. Ma non erano contro l’americanismo? Forse gli va bene
qualunque energumeno che faccia pum pum? (Purché bianco e occidentale, naturalmente)

Ogni mito politico, da Georges Sorel in poi, è dunque di destra e si rivolterà contro chi
voglia cavalcarlo anche per fini di emancipazione: non si possono, dice Jesi a ogni
rivoluzionario, muovere le forze inconsce del potere simbolico e poi sperare di controllarle
razionalmente. Da questo punto di vista mi sembra che Jesi parli soprattutto ai suoi
compagni di lotta, una Nuova sinistra libertaria e luxemburghiana, mettendoli in guardia da
errori e fallimenti, come avviene con Spartakus (1967-1969) che è una riflessione sulla
simbolica del potere, sulle ipoteche escatologiche della filosofia della storia marxista, ma
anche una critica del mito sacrificale e suicida della rivolta.
Questa imposizione rende impossibile utilizzare Jesi a destra, perché il suo pensiero è
quella di una sinistra post-strutturalista e post-metafisica, semiotica, antropologica e

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letteraria difficilmente maneggiabile. La forza teorica di Jesi è la sua profondità, mentre la
cultura di destra italiana, soprattutto a causa del fascismo, è stata provinciale e priva di
personalità intellettuali: il fatto che Jesi lo abbia espresso duramente è uno dei motivi del
livore nei suoi confronti.
Mi colpisce come Veneziani o Scianca, leggibili nei recenti commenti a Cultura di
destra,non abbiano argomenti che non siano vaghe insinuazioni: si parla sempre di «odio»,
«delirio» e «paranoia» e alla fine si ha l’impressione che non conoscano il discorso, non ne
comprendano la portata o non sappiano come controbattere. Sono soprattutto risentiti
perché Evola, che dovrebbe essere il loro Marcuse, viene smascherato come un divulgatore
di cose altrui, ed Eliade, un grande studioso antimoderno e primitivista, viene inchiodato al
suo fondale ideologico filofascista. Colpisce piuttosto che anche Cacciari abbia criticato
duramente il libro, forse si sente chiamato in causa perché in passato leggeva Schmitt da
sinistra poi è stato impegnato in uno schieramento moderato e post-ideologico.

Giuliano Santoro

Aggiungerei questo: il fatto che Furio Jesi venga scambiato per un “paranoico” dimostra
che i fascisti non solo non possono utilizzare i suoi lavori, magari recuperandolo: non
possono neppure capirli. I fascisti, si sa, non si trovano a loro agio con meccanismi
concettuali che non costituiscano strutture rigide, schemi predeterminati o che non
consistano in format (non uso a caso questa parola) culturali da applicare di volta in volta.
Ci troviamo davanti a uno di quegli autori che ti costringono continuamente a sollevare lo
sguardo dalla pagina, riassumere la questione e mettere a verifica il percorso mentale che
hai compiuto fino a quel punto. Enrico spiega bene nel suo libro che ciò avviene perché
negli scritti di Jesi la relazione tra il soggetto e l’oggetto di un discorso non solo non è
negata, è continuamente messa in scena, dichiarata: i due poli di una questione (chi
osserva e chi viene osservato) si influenzano costantemente. Non vorrei forzare troppo il
nostro ragionamento, ma aggiungerei che questo stile, questa attitudine alla complessità,
ci aiuta a evitare che si tracci una linea netta tra un “noi” e un “loro”, tra chi parla e chi viene
parlato o semplicemente tra chi scrive e chi è destinato a leggere. Questa caratteristica
della lezione di Furio Jesi è utilissima anche decifrare il linguaggio che ci bombarda ogni
giorno.

Wu Ming 1

E’ verissimo che la destra, prima ancora di rigettarla, fraintende completamente


l’impostazione di Jesi, e proprio per il motivo che dice Giuliano. Questo riverbera sul modo
in cui i commentatori di destra leggono chiunque usi le sue intuizioni, i concetti che negli
ultimi anni di vita (ma nessuno, men che meno lui poteva sapere che erano gli ultimi!)
aveva iniziato a far lavorare.
Mi rifaccio ancora alla recensione di Un Grillo qualunque scritta da Scianca, non perché
abbia qualche rilievo, ma proprio perché è tipica, del tutto conforme alle aspettative, quindi
funziona bene come esempio. L’intellettuale «fascista del terzo millennio» rivolge a
Giuliano un’accusa che suonerà bizzarra a chiunque abbia letto il libro: «per l’autore solo la
destra si esprime attraverso frame, mentre si dà a intendere che la sinistra parli un
linguaggio perfettamente trasparente a se stesso e consapevole».

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Innanzitutto segnalo, perché significativa, la totale incomprensione del concetto linguistico-
cognitivo di frame, che in italiano si può tradurre con “cornice
concettuale”, o “inquadratura concettuale”. Ogni essere
umano dotato dell’uso del linguaggio si esprime “attraverso
frame”, cioè quadri di riferimento, insiemi di immagini e
relazioni tra concetti che strutturano il nostro pensiero, alcuni
sin dalla primissima infanzia. Giuliano (come George Lakoff
prima di lui) non stigmatizza affatto l’uso di frame da parte di
Grillo o della destra: sarebbe come stigmatizzare l’uso della
grammatica e della sintassi. Giuliano invita a riconoscere,
decodificare e disinnescare l’uso strumentale («tecnicizzato»,
George Lakoff
direbbe Jesi) e la diffusione di certi frame.
Nella comunicazione politica non c’è parola o frase che non
inquadri un dato problema secondo la prospettiva ideologica di chi la usa. Ogni vocabolo
porta con sé un mondo. Per esempio, imporre l’uso di “centrodestra” e “centrosinistra” al
posto di “destra” e “sinistra” è stata un’operazione di framing che ha avuto conseguenze
devastanti: a destra l’eufemismo è servito a legittimare soggetti lercissimi e fascisti
nemmeno ripuliti; a sinistra ha imposto la credenza nella necessità di “spostarsi al centro”
altrimenti… “non si vince”. Solo che, nella realtà concreta, il “centro” non esiste. Chi si dice
“di centro” è in realtà di destra e fa cose di destra, vedi Casini, Monti, Montezemolo, adesso
addirittura il postfascista Fini… E poi: chi “vince”? Per fare cosa? “Spostandosi al centro”
non si fa altro che andare a destra (in cerca dei fantomatici “moderati”) e di certo non si
faranno politiche di sinistra.

– per la sinistra ogni società è costitutivamente divisa al proprio interno, perché ci sono
interessi contrapposti e contraddizioni intrinseche. I conflitti principali avvengono lungo le
linee di queste contraddizioni, che sono principalmente di classe e di genere, e derivano dai
rapporti di proprietà (se ci sono i poveri è perché ci sono i ricchi), di produzione (gli
sfruttatori non fanno gli interessi degli sfruttati), di “biopotere” (esistono dispositivi che
favoriscono i maschi a scapito delle femmine) etc. Da questa premessa generale, che vale
per tutta la sinistra, derivano numerose visioni macrostrategiche: socialdemocratica,
comunista, anarchica… Tutte si basano sulla convinzione che la società sia in partenza
divisa e diseguale e le cause della diseguaglianza siano endogene.

– per la destra, invece, la nostra società era un tempo armoniosa e concorde, ma oggi non
lo è più per colpa di agenti esterni, intrusi, nemici che si sono infilati e confusi in mezzo a
noi e ora vanno ri-isolati ed espulsi. A seconda dei momenti, corrispondono all’identikit il
musulmano, l’ebreo, il negro, lo slavo, lo zingaro, il terrone, il comunista che tifa per potenze
straniere, il “pervertito” (da dove saltano fuori tutti ‘sti froci? Una volta mica c’erano!), la
“Casta” intesa come altro da noi, la finanza ridotta ai complotti di “speculatori
stranieri”, “Roma” etc.

Non vi è dubbio che nell’Italia di oggi il discorso egemone, anche presso gente che si pensa
e dichiara di sinistra, sia quello di destra.

Ovviamente, l’idea che una volta (quando?) la società fosse armoniosa è il non plus ultra
del “mito tecnicizzato”, idealizzazione di un passato mai esistito, un passato che viene
evocato allo scopo di prendersela col “diverso” di turno. Diverso perché arrivato dopo. Solo
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che tutti noi siamo “arrivati dopo”, perché il tempo del
mito precede tutto.
[Qualche giorno fa, su Twitter, ho riassunto in questo
modo il pensiero del filosofo tory Roger Scruton (in
Italia lo ha molto citato e promosso Giuliano Ferrara
dopo la svolta teo-con): «Quand’ero piccolo, postini e
lattai fischiettavano per la strada, poi la sinistra ha
distrutto quel mondo».] Roger Scruton
Qui torna a bomba il discorso jesiano: Jesi non
stigmatizza il ricorso a mitologie, perché tutti quanti vi
ricorriamo ogni giorno, non potremmo comunicare senza condividere elementi di alcune
narrazioni di fondo. Jesi invitava a riconoscere che non c’è Mito o Tradizione, ma un
continuo riassemblaggio di materiali mitologici. La destra crede o finge che più in alto e
prima di questo bricolage vi sia qualcos’altro, qualcosa di astorico e sovrumano, un
significato eterno e ineffabile, diretta espressione dello Spirito. Per non dire di fantomatici
caratteri innati nella stirpe che corrisponderebbero a valori trascendenti impossibili da
definire. Sono le famose “idee senza parole” (Spengler), i “simboli riposanti in se stessi”
(Bachofen).
Jesi anticipò il dibattito sulla «invenzione della tradizione», che alcuni storici anglosassoni
avviarono pochissimi anni dopo la sua morte. Anche in quel caso, si provò che molti
simboli ritenuti antichissimi, ancestrali (es. il tartan dei clan scozzesi e l’uso del kilt), erano
invenzioni molto recenti, “tecnicizzazioni” funzionali a politiche nazionalistiche, come del
resto la “celticità”. Tutto bricolage ottocentesco.

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Uscite a destra dal leghismo: la Comunità Antagonista Padana. Il tizio nelle foto in bianco e nero è
Augustin Cochin (1876-1916), storico ultrareazionario e complottista, autore di saggi contro la
Rivoluzione Francese. In uno dei manifesti sul muro si legge: “Ancien Régime, un modello contro la
modernità?” La foto è del 2009 e la prima volta che l’abbiamo vista abbiamo commentato: se non
licenziano il grafico, non vanno da nessuna parte. All’Università Cattolica hanno intitolato un’aula a
Robert Brasillach, scrittore francese collaborazionista coi nazi. Sul loro sito scrivono di essere “contro i
pericoli immigrazionistici, il multiculturalismo estremo e il mescolazionismo religioso”. Si vantano
anche della loro “ampia produzione cartellonistica, vera e propria offerta formativa muraria”. Un caso
di pittoreschismo cialtroncellistico, senz’altro, ma il loro assemblaggio di materiali mitologici è tutto
fuorché estraneo alla fase che attraversa l’Europa. Nel parlamento ungherese non si odono cazzatismi
molto diversi, e c’è poco da ridere. Una versione ritenuta (non da noi) più “presentabile” di questi
discorsi si ritrova nella produzione di Massimo Fini, che infatti la CAP cita con simpatia.

Detto ciò, quello che l’intellettuale di destra non riesce a capire, poveretto, è che Giuliano
ricorre a Lakoff e Jesi per criticare innanzitutto la sinistra, le sue manchevolezze, il suo
comunicare opaco, inconsapevole, ideologicamente subordinato. E’ colpa della sinistra –
cioè nostra – se esistono fenomeni come il grillismo (o, appena ieri, il leghismo), come è
sempre colpa della sinistra (dei suoi “residui culturali di destra”) se spadroneggiano
narrazioni di destra. Questa è la premessa tanto delle riflessioni di un linguista cognitivista
americano e liberal come Lakoff, quanto di un filologo sui generis europeo e marxista come
Jesi. Sono riflessioni in larga parte autocritiche.

Enrico Manera

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Dico qualcosa sul «grillismo»: ho seguito su Giap il dibattito e anch’io credo che ci sia una
forte analogia tra le retoriche del grillismo e quelle del fascismo delle origini. L’uso della
cassetta degli attrezzi jesiani da parte di Giuliano è pienamente condivisibile. Grillo è
riuscito a mettere insieme una serie di parole magiche, che indubbiamente intercettano un
disagio reale ma che diventano parole-bandiera, in questo caso producendo una visione
tecnocratica del futuro con la rete al centro. Mix di «politica, spot pubblicitari e sentimenti»
mi sembra una descrizione pienamente calzante. Ma questo futuro è semplicemente
un’altra modalità del passato idealizzato e mai esistito usato dai fascisti.
Ne è una controprova l’uso autoritario della rete nel Movimento 5 Stelle, un tema su cui ad
esempio il Partito Pirata è più avanti, con la discussione sul software e sulle modalità di
partecipazione decisionale.
In ogni caso mi sembra che Grillo sia un esempio particolarmente evidente di dinamiche
diffuse. La retorica contro la «casta», oramai insopportabile, è qualcosa di più del
qualunquismo, è diventata una formula magica così come la «rottamazione»: slogan
fortunati che diventano conoscenza presunta dei fatti da chi ne fa uso grazie alla loro
circolazione pervasiva.
L’altro dato su cui vale la pena di riflettere è il personalismo, la componente carismatica e
idolatra della mitologia, in base alla quale ogni idea tende a coincidere con un leader che
non è mai il terminale di un meccanismo di rappresentanza, ma è invece un idolo, un busto,
un monumento, un simbolo che deve avere qualcosa di vistoso, roboante e kitsch per
funzionare.
Mi sembra che l’immaginario politico italiano sia malato di mitologia cattiva e
sia imbonificabile: probabilmente il male peggiore che si possa imputare a Berlusconi è di
aver stabilizzato con la sua discesa in campo questa situazione dettando gli standard e
dando vita a un’escalation. E’ stato lui a iniziare, come dire, la pesca con le bombe a mano…

Giuliano Santoro

Quando abbiamo cominciato


questo dialogo, non era ancora
successo che Beppe Grillo
dichiarasse al candidato alla
presidenza della Regione Lazio di
CasaPound (e dunque allo scafato
dirigente di quel partitino, non a un
“ragazzotto”, come ha scritto
qualcuno) che l’antifascismo non
gli compete.
Successivamente, il CapoComico
ha pensato di rettificare, fornendoci
ulteriori elementi d’analisi: ha
scritto sul suo blog che siccome «il
Gianluca Casseri, un bianco che ha fatto pum pum e che troppi
tempo delle ideologie è finito”, fingono di non aver mai conosciuto. Nella foto, mostra orgoglioso
allora il Movimento 5 Stelle non “è la bandiera di Casapau.

fascista”, tenendoci a ribadire che


allo stesso tempo questo «non è né di destra né di sinistra”. Dunque, registriamo la
difficoltà da parte di Grillo a definirsi “antifascista”: si dichiara semplicemente “non
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fascista” in quanto agnostico rispetto alla faccenda. Evidentemente, essere antifascisti
implica che si riconosca una storia passata, un’eredità culturale, uno schieramento. Ma se
ciò avvenisse, in qualche misura il passato smetterebbe di essere la «pappa
omogeneizzata» da modellare a proprio uso e consumo di cui parlava prima Enrico citando
l’intervista a Jesi del 1979, per costruire una narrazione «del tutto estranea a ogni
dimensione concreta della storia» della quale si parla in Cultura di destra.

Qualcuno ha avuto l’efficace idea di mettere insieme alcune delle definizioni che il primo
Mussolini dava del fascismo per scoprire che alcune assomigliano pericolosamente agli
umori che ruotano attorno al grillismo e che questa somiglianza più che negli elementi
programmatici si trova in questa esaltazione ingenua di elementi in fin dei conti irrazionali.
Il fascismo, scrive ad esempio il futuro Duce sul Popolo d’Italia nell’ottobre del 1919, è «una
mentalità speciale» fatta «di inquietudini, di insofferenze, di audacie, di misoneismi, anche
avventurosi, che guarda poco al passato e si serve del presente come di una pedana di
slancio verso l’avvenire».

Altrove, ragionando su analogie e differenze tra Grillo e il fascismo , ho fatto riferimento alla
capacità di Grillo di parlare a persone spesso rimaste senza parole, ammutolite dall’orrore
della precarietà e dalla negazione del futuro, incantandole con formule magiche. Sono
parole, quelle di Grillo che, come avviene per il linguaggio pubblicitario e più in generale con
quello televisivo, non hanno bisogno di essere considerate “vere”. Discutendo, de visu e on
line, con molti seguaci di Grillo mi sono accorto che questo processo è andato più avanti di
quanto noi – che pure in tempi non sospetti avevamo colto nel grillismo qualcosa di
anomalo – immaginiamo. A conferma del fatto che la razionalità non è l’elemento centrale
per spiegare questo fenomeno, mi sono accorto che la maggior parte dei miei interlocutori,
pur essendo in perfetta buona fede, viveva le mie critiche al Movimento 5 Stelle con
sofferenza e fastidio, come se stessi impicciandomi della loro intimità, come se parlando
della relazione con il Capo stessi entrando nella loro sfera sentimentale ed emotiva. Come
se fossi colpevole di un atto di violenza, impicciandomi in questioni che non mi
competono.

Wu Ming 1

Sempre in tema di “cultura e spettacoli”: sia Lakoff sia Jesi, tra le altre cose, invitano a
indagare la popular culture, perché è lì – nelle fiction televisive, nelle riviste di gossip etc. –
che si afferma il «residuo culturale di destra» (Jesi) o si consolidano i «frame della
narrazione conservatrice» (Lakoff). E pensa cosa avrebbe pensato dei social network!
Appena mezz’ora fa ho visto su Rai Storia un’orribile intervista a quel deprecando
personaggio che era Liala, una roba svenevole girata e trasmessa dalla Rai negli anni
Settanta, super-concentrato di kitsch e “lusso spirituale” reazionario, e ho pensato che
forse Jesi scrisse la parte di Cultura di destra dedicata a Liala dopo aver visto
quell’intervista. Era davvero emetica. Ho anche pensato: Liala è stata la più abile e influente
spacciatrice di cultura di destra nell’Italia del Novecento, e Jesi lo aveva intuito. Altro che
Corradini, Bottai, Preziosi, Evola, Rauti, Freda, Romualdi… Quelli erano dei poveracci, al
confronto. La giustapposizione di Evola e Liala può sembrare strana (e alla destra sembra
blasfema), ma a me pare perfetta, Jesi ci vide davvero giusto affrontando entrambi nello
stesso libro.
In quel libro, va ricordato, Jesi metteva anche in guardia da un giovane “marchesino dei
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bolidi”, cioè Luca Cordero di Montezemolo, e anche qui aveva visto giusto, perché poi quel
tizio ce lo siamo sorbiti per trent’anni e ancora ce lo sorbiamo. Montezemolo è una specie
di Lialo dell’industria e della politica.

Enrico Manera

Parlando di Jesi, diversi insistono sulla sua natura ideologica


e fanno di lui un vetero-marxista, ma questo è un equivoco,
nella misura in cui Jesi è un post-marxista che riconosce
l’inevitabilità di ogni posizione ideologica, in quanto
situazionalità e postura esistenziale, a partire dalla propria.
Dunque Jesi è prima di tutto uno studioso, un antropologo
delle idee con una metodologia raffinata e articolata: c’è lo
studio dell’ideologia come sfondo intellettuale comune a più
ambiti della cultura di una società o di un’epoca ma anche la
consapevolezza della propria visione ‘ideologica’ come
insieme di interessi, bisogni e aspirazioni; consapevolezza di
sé, come individuo e come appartenente a un vasto e
articolato movimento politico, in contrasto con il gruppo
sociale degli intellettuali accademici, per non dire di quello borghese di provenienza. Jesi
considerava il suo lavoro come un continuo romanzo e una autobiografia ‘cifrata’ e lo ha
fatto a mio avviso nei termini di un’«auto-socio-analisi» metasociologica, per usare le parole
di Pierre Bourdieu, in cui il sé è un agente in azione nel campo dell’oggetto studiato.
Dunque, è la coscienza vissuta della macchina mitologica come modello di conoscenza
che rende ragione dei livelli, logicamente successivi, di ideologia e di tecnicizzazione. La
teoria della macchina mitologica è un modello trascendentale e metodologico al tempo
stesso. In altri termini, l”io’ servendosi di una macchina mitologica (i suoi processi mentali)
produce una macchina mitologica-teoria (la macchina mitologica come modo di
conoscere).
Con questa si possono conoscere le diverse macchine mitologiche (i processi mitopoietici)
in atto nella storia della scienza del mito, della letteratura, della politica (la macchina
mitologica come oggetto di conoscenza).
Nell’analisi delle varie forme della mitopoiesi il soggetto risale così a una teoria della
ricezione e dell’uso che mentre spiega il suo oggetto descrive anche le sue modalità di
pensare, conoscere e agire.

Per tornare alla “inservibilità” di Jesi se non in senso critico, un simile discorso implica più
livelli di analisi, non è immediato né facilmente comprensibile; in più Jesi ha una scrittura a
volte molto tortuosa, che testimonia il suo “corpo a corpo” con la teoria della macchina
mitologica per tutti i primi anni settanta. Poi, dal 1975-1976 in poi i testi risplendono di una
stato di grazia e di una scrittura felicemente risolta.
Per quanto riguarda la sinistra il problema non è stato tanto quello di perdere l’egemonia
culturale lasciando agli altri la narrazione: intendo dire, questo è vero ma è più un problema
nostro, è ciò che vediamo trent’anni dopo, negli anni Settanta i problemi riguardavano la
modalità con cui erano condivisi e diffusi i miti del comunismo mainstreamo della
socialdemocrazia, entrambi per Jesi residuo culturale di destra.
Nel 1978 su «l’Ora» di Palermo Jesi viene intervistato sulle ragioni della nuova edizione de
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Il tramonto dell’occidente di Spengler, un monumento della cultura reazionaria tradotto da
Evola. Tra l’altro: Longanesi lo ha nuovamente riedito rimuovendo l’introduzione di Jesi e
sostituendola con quella di Stefano Zecchi che si legge ancora oggi.
Alla domanda: «la cultura di destra è quindi la «palude squisita» nella quale, per eccellenza,
prosperano i miti​», Jesi risponde:

«La macchina mitologica funziona, là, molto bene, ma non meglio che in altre zone paludose –
se la qualità palustre implica un giudizio politico-morale – come quelle della cultura di
sinistra. La macchina mitologica funziona ovunque altrettanto bene e con il medesimo ritmo.
[…] La cosiddetta cultura di destra probabilmente si è meno autocensurata della cosiddetta
cultura di sinistra per quanto riguarda i compiacimenti verso le proprie componenti
mitologiche».

Per fare un esempio concreto di cultura di destra dentro la sinistra, Jesi nel 1979 sostenne
Franco Fortini nella polemica sul Doppio diario di Giaime Pintor: in un noto articolo di
«Quaderni piacentini» Fortini accusava Pintor (per i più giovani e meno informati, un martire
della sinistra morto giovanissimo da resistente, fratello maggiore di Luigi Pintor de «Il
manifesto») di essere inconsciamente attratto da un «mondo di eroismo politico-estetico»
e da autori come Drieu La Rochelle, Juenger, Salomon, per motivi di ceto e cultura
principalmente.
Per Jesi, professore ordinario non ancora quarantenne, proveniente da una famiglia colta e
benestante, si trattava anche di una questione ‘privata’: criticare i «residui culturali» di
destra era anche un modo per fare i conti con la propria provenienza borghese e con i suoi
codici che intendeva rifiutare; Jesi era cresciuto nella cultura classica più raffinata, poi,
com’è noto, aveva abbandonato la scuola per una formazione irregolare e da autodidatta
all’estero, aveva lavorato nell’editoria e solo dopo, e per vie traverse, in università. E’ una
storia di rottura con il mondo dei ‘padri’, negli anni sessanta, nei cruciali ’67 e ’68, fino al ’77
quando da docente sostiene le occupazioni delle università, anche personalmente
nell’ateneo palermitano.
La sua produzione rientra in una controcultura militante. Escludendo le tecnicizzazioni più
grossolane, il marxismo standard si è costruito dal punto di vista espistemologico come
una dogmatica, irrigidendo i propri contenuti come una mitologia che si fa dogma. Le sue
strutture logiche di fondo sono hegeliane, idealiste e sostanzialiste, e i suoi teorici sono
sempre stati poco disposti a riconoscerlo come un sistema semiotico, immaginativo-
concettuale di rappresentazione di massa.
Per quanto riguarda la cultura ‘popolare’ Jesi ha fatto proprio il discorso della critica
francofortese all’industria culturale, in Italia del Gruppo 63 o di intellettuali come il già
citato Fortini. Non c’è una teoria sviluppata ma una serie di intuizioni folgoranti. Leggendo
un’intervista a Liala nel 1974 su «Grazia» si sofferma sul «”linguaggio che capiscono tutti”»
e sulla lettera di una lettrice che parla di «parole come acqua sorgiva che lava tutto».
In Liala, in Cultura di destra, vede il linguaggio reificato della codificazione quotidiana,
stereotipato e veicolato dai mezzi di comunicazione di massa come «feticcio che serve a
dare il piacere che deriva dalla riduzione della fatica di pensare»; Liala è lo specchio di un
pubblico «appartenente al proletariato o alla piccolo borghesia […] esposto all’urto contro il
prossimo e contro le cose» a cui è offerta l’occasione di un «linguaggio degli affetti»
normalmente negato.
Il suo linguaggio, dice Jesi, è «il linguaggio della vacanza organizzata, da chi ha il potere per
13/24
chi non lo ha», è il linguaggio dell’alienazione in quel momento in cui si compie la
«trasformazione antropologica» denunciata da Pasolini. C’è anche tenerezza quando
immagina una lettrice che segue «con il dito» le parole su un libro di Liala, parole che fanno
sognare un mondo diverso di riscatto attraverso un buon matrimonio, amore, lusso e
avventura, denaro e prestigio. Il passaggio chiave è quello dell’architettura logica che
unisce ‘lusso’ materiale e spirituale in una stessa forma mentis capace di cancellare la
questione della giustizia sociale.
Quel linguaggio dell’intrattenimento e del disimpegno, che non deve essere capito ma solo
ripetuto, ha la stessa funzione sociale che aveva la lettura di Rilke per l’alta borghesia, che
non lo poteva capire ma lo venerava come simbolo di distinzione e cultura. In un passo
molto divertente su Rilke, si prende gioco del cosiddetto «rilking», l’arte di citare Rilke nei
salotti buoni per fare bella figura… Ancora una volta, l’uso lussuoso della cultura è un tratto
di destra.
Jesi raccoglieva riviste e ritagli, era un lettore onnivoro, con grande senso dell’ironia; un
sociologo della cultura capace di trarre spunto dai titoli dei giornali come da un necrologio
(a casa sua, tra mille materiali di ‘lusso spirituale’ ho trovato quello di Badoglio!). Da
torinese aveva una predilezione per irridere la «La Stampa», perbenista e liberalissima, di
fatto un bollettino della Fiat negli anni caldi dello scontro sociale e della migrazione dal
sud: è opportuno ricordare che Jesi era attento nella sua militanza a seguire il settore
metalmeccanico, con cui aveva reali contatti.

Il “marchesino dei bolidi” e il suo role model. Notare l’orologio sul polsino. “Incontro redentore tra lusso
spirituale passé e lusso materiale attualissimo”. L’essenza del “lusso spirituale” si conserva sempre
attuale “grazie al lusso materiale che circonda il grand’uomo profano ed essoterico”.

Nella rivista «Resistenza. Giustizia e libertà», tra 1967 e 1970, era stato tra i giovani marxisti
e libertari che criticavano il riformismo dei padri nobili dell'”azionismo” come Bobbio,
Agosti e Galante Garrone: Jesi scriveva di storia e antropologia, ma seguiva i dibattiti
sindacali, con una certa durezza nel criticare i confederali. Nel 1969 poi uscì dalla Cgil su
posizioni di sinistra, dopo essere stato lui stesso sindacalista in Utet e poi essersi
licenziato. E’ in questo contesto che compare l’allora astro nascente Luca Cordero di
Montezemolo, che sempre su «Grazia» nel 1975 era vezzeggiato come esponente del “bel
mondo”, benedetto dal mondo industriale legato alla Fiat e alla famiglia Agnelli, che a
14/24
Torino, ma non solo, era sostanzialmente una dinastia di regnanti.
L’attualità di Jesi sta nell’aver colto il legame tra destra liberale e mercato, come nelle
mitologie di Barthes, un libro del 1958 che diviene un modello per cogliere i ‘nuovi’ miti del
consumo: molti, come De Luna o Agamben, sostengono la profeticità di Jesi nell’aver
individuato la macchina mitologica del narcisismo di massa e dell’invidia sociale,
caratteristiche della destra populista berlusconiana. In qualche modo davvero il Drive In era
già un programma di governo, era chiaro ad esempio per un lettore-tipo di Cuore nel 1994
di fronte alla nascita di Forza Italia…
Ricordiamoci però che Jesi muore nel 1980: è l’Italia del dopo-Moro, del riflusso ideologico,
della Marcia dei Quarantamila e della strage di Bologna. Gli osservatori più attenti avevano
intuito il trionfo del pensiero economico, la cancellazione dall’immaginario collettivo di
decenni di storia dell’emancipazione delle classi subalterne e la fine della coscienza di
classe come visione del mondo capace di mutarlo. E Jesi non conosceva l’esplosione delle
televisioni private, così come non scrive di cinema… Metodologicamente però, riflessioni
analoghe sono state portate avanti dalla semiotica, pensa a Eco, non solo il semiologo e
intellettuale pubblico ma anche lo scrittore. Ne La misteriosa fiamma della regina Loana…

Wu Ming 1

Pensa che io lo ritengo il suo romanzo migliore…

Enrico Manera

Beh, lì c’è un lavoro raffinatissimo di decostruzione della cultura di massa fascista:


l’ideologia non era solo nei discorsi del duce o negli scritti della Scuola di mistica fascista e
di Gentile, ma anche nel profluvio di biografie di Mussolini, romanzi di evasione, avventura,
fumetti, letteratura di consumo. Un’analisi insomma ‘micrologica’ della cultura secondo
l’indicazione di Benjamin, che su quella generazione ha avuto grande influenza e oggi gode
di una buona fortuna.
Il Pendolo di Foucault poi è a mio avviso un libro che concentra molti temi tipici di Jesi,
coestensivo alla critica ‘illuminista’ che Eco nelle lezioni di Interpretazione e
sovrainterpretazione muove all’esoterismo e a certa ermeneutica ‘gnostica’, alla ricezione
americana di Derrida, che si regge sull’effetto di segretezza e sull’aura di mitologicità.
Ma tornando all’attualità sono molti gli spunti per una critica dell’oggi. Se dovessi scegliere
oggi un equivalente di Liala, anche in virtù del suo potenziale pedagogico ‘negativo’, e lo
dico da insegnante di scuola superiore, sceglierei Federico Moccia che con il suo
linguaggio semplificato ha stregato gli adolescenti e un contromondo fatto di moto,
marche, scuola, palestra e discoteca. Nessuna fatica, identificazione immediata,
costruzione di un immaginario perfetto per mantenere gli assetti di potere.
Oppure indicherei un nuovo uso lussuoso e ossequioso della cultura ‘a sinistra’ nelle
interviste di Fabio Fazio, che contando su un livello medio televisivo spaventoso per
pochezza porta in studio ospiti anche di un certo valore (non sempre). Del resto è diventata
una vetrina promozionale eccezionale per l’industria del libro o cinematografica. Ma gli
aspetti conflittuali e i problemi reali non emergono mai, non ci sono mai domande
scomode e il pubblico di tifosi è pronto a applaudire per la battuta edificante di turno
mentre il presentatore e l’ospite gongolano di fronte alla propria superiore distinzione e
intelligenza.

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Giuliano Santoro

Il fatto è che l’utilizzo di “miti tecnicizzati”, di “parole magiche” e il ricorso a “idee senza
parole” è in qualche modo il metro di quanto siamo immersi dentro una crisi. Tutto questo
ha a che fare con la profondità delle fratture che vanno aprendosi, degli smottamenti,
l’incapacità delle logiche dominanti di spiegare quanto accade e di stabilire relazioni di
causa ed effetto. La funzione del “mito” è quella di cercare di dare un senso al mutamento,
di rendere accettabile l’ignoto, di spiegare come una situazione si sia trasformata in
un’altra. In Cultura di destra Jesi cita le parole illuminanti della lettrice che scrive a Liala per
dichiararle la sua ammirazione e per spiegare «parole come acqua sorgiva che lavano
tutto», in relazione alla loro capacità di costruire un mondo. Da questo punto di vista, oggi
si comprende bene quanto rischiamo di trovarci in mezzo a parole che hanno lo scopo di
ridisegnare la realtà che ci circonda e offrire una sponda di fronte ai cambiamenti in cui
siamo immersi.

Da cronista, per quanto anomalo, mi accorgo di come molti discorsi siano infarciti di
“parole spiritualizzate”. Mi spiego meglio partendo da un esempio. Sono stato per anni un
lettore appassionato di Cronaca Vera. È una pubblicazione costruita su più livelli. Da una
parte strizza cinicamente l’occhio al lettore “consapevole”, dall’altra traffica con parole e
immagini pensate apposta per rapire l’attenzione di decine di migliaia di lettori che ogni
settimana vanno in edicola per comprare un giornale che non parla di televisione o di divi
della musica e raccoglie unicamente storie – pruriginose, curiose o semplicemente cruente
– di gente comune. Insomma, si tratta di una vera miniera di indicazioni sull’universo della
maggioranza silenziosa, sulle parole che la affascinano e i codici che la ipnotizzano: i titoli
urlati (“L’alieno stava resuscitando e così gli ho tagliato la testa”, un cult), gli occhielli
schietti (tipo “Cervello in briciole”, con riferimento alle gesta di qualche squilibrato) e la
media di quasi ventimila lettere ricevute all’anno (stiamo parlando di lettere di carta, con
busta e francobollo, come usava una volta) .
In uno dei suoi ritrovati sprazzi di brillantezza, Michele Serra ha ricordato che uno dei titoli
emblematicidi Cronaca Vera è “Violentata sei ore dallo zio su un tappeto di gran pregio”. La
notizia dello stupro viene infiocchettata per i lettori aggiungendo un elemento che solo

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all’apparenza non aggiunge nulla (il “tappeto di gran pregio”) ma che contribuisce a rendere
il titolo più evocativo, a conferirgli un elemento di realismo, a disegnare un mondo.
Addirittura, l’arredamento del salotto occupa la scena terribile descritta dal titolo: lo
scandalo non consiste nell’orribile violenza sessuale, sta nel fatto che questa si sia
consumata in una casa borghese. Su un tappeto di gran pregio.
I discorsi che ci circondano quotidianamente, le notizie che vengono selezionate dai mass
media, le storie che leggiamo e i fatti che compongono il paesaggio comunicativo che
attraversiamo sono pieni di trucchetti di questo tipo, magari meno grossolani ma
altrettanto pericolosi. Corriamo continuamente il rischio di rimanere incantati e inciampare
camminando sui tappeti di gran pregio. Jesi aveva colto benissimo questo rischio
descrivendo la relazione e il passaggio dal “’tesoro’ dei miti antichi” al “moderno bene di
consumo che dà prestigio”. Il suo lavoro di scavo nel linguaggio e nelle strutture logiche, si
pensi al caso dei romanzetti rosa di Liala o alle citazioni del linguaggio pubblicitario, è
arrivato fino al punto di dimostrare come la “macchina mitologica” sia all’opera
quotidianamente e abbia tracimato il campo della cultura reazionaria classica per
contaminare il linguaggio e la cultura di massa. Peraltro, pensarci bene, pare strano che si
parli di “massa”. Ma è andata proprio così: la cultura elitaria della destra borghese e di
certo esoterismo fascista, che faceva vanto del suo essere destinata a pochi eletti, ha
avuto il destino di mutare forma e contagiare parole che esprimono il “lusso spirituale” e
che lo diffondono collegandolo alla mistica del possesso dei beni di consumo, che non è il
provocatorio “diritto al lusso” rivendicato dai movimenti contro l’austerità ma l’esaltazione
feticistica degli oggetti, considerati tanto più preziosi quanto più inarrivabili.
Ma non si tratta soltanto di oggetti materiali: il “mito” in tempo di crisi prospera in virtù
della sua capacità di costruire una parvenza di ordine della realtà e di spiegare quello che
ci circonda. I concetti di Furio Jesi, le sue indicazioni utili a decostruire le “parole d’ordine”
sono fondamentali per districarsi nell’info-sfera internettiana. Di fronte al fiume in piena di
post, notifiche Facebook, tweet, breaking news e informazioni che travalicano in ogni modo
la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, viene quasi spontaneo aggrapparsi a
qualche ramo apparentemente solido, trovare il filo conduttore di un’immagine-meme
capace di condensare il nostro stato d’animo e illuderci di ritrovare un qualche criterio. Ma
l’ordine che andiamo cercando, con ogni evidenza, non c’è.
Infine, e mi ricollego a quello che dicevo all’inizio e a quanto sottolineate giustamente voi,
l’efficacia di questo ragionamento sta proprio nel fatto che non esaurisce la sua funzione
tracciando un confine invalicabile per la “cultura di destra”, ma al contrario riesce a metterci
in guardia anche di fronte a certi tic retorici e schemi politico-culturali che riguardano la
“sinistra” in senso lato. Ad esempio, la storiella di una società armoniosa, di cui parlava Wu
Ming 1 prima, il cui ordine “naturale” è stato sconquassato da un qualche evento venuto
dall’esterno è inconsapevolmente riprodotta in alcuni “miti tecnicizzati” che alcune volte
circolano nel mondo ecologista: come se la fine dello sfruttamento (dell’uomo e della
natura) fosse situata nel ristabilimento di un qualche equilibrio originario o, peggio ancora,
nella difesa di una qualche “purezza”. O ancora, per fare un esempio di questi giorni, all’uso
e all’abuso elettorale della parola passepartout “società civile”, che rimanda ad una sfera
incantata fatta di civismo e competenze dal quale rimpinguare le forze esanimi della
politica.

Wu Ming 1

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Una domanda per Enrico: hai dedicato anni e sinapsi
a ricostruire la biografia intellettuale di Jesi, in un
corpo-a-corpo col suo pensiero, cercando di
prolungarne la gittata fino a oggi, come si vede
anche da questa conversazione. Un pensiero
purtroppo interruptus e forse troncato “sul più bello”,
ma che aveva fatto in tempo a seminare concetti e
suggerimenti importanti. Questo tuo lavoro si è
inserito in una sorta di piccola “Jesi renaissance”
che era appena iniziata, grazie all’impegno di David
Il filosofo Andrea Cavalletti, uno dei
Bidussa e Andrea Cavalletti. A quest’ultimo
principali artefici della “Jesi Renaissance”
dobbiamo l’edizione di Spartakus, già alla fine degli a partire dalla fine degli anni Novanta.
anni Novanta. L’anno scorso, insieme a Belpoliti, hai
curato un bellissimo numero monografico di “Riga”,

Enrico Manera

Come per molti un interesse privato è diventato una


tesi di dottorato e poi, forse questo è più raro, dei libri:
‘Riga’, curata insieme a un vero maestro come Marco
Belpoliti, di cui sono molto felice perché è visivamente
bellissima e per nulla accademica e ora questo, che si
candida a essere un’introduzione e una prima
sistemazione teorica complessiva. Jesi interessa gli
ambiti della filologia più raffinata come quelli militanti
più ragionanti: ‘Riga’ è stato presentata in luoghi e con
pubblici differenti, dalla Biblioteca Ariostea di Ferrara
al Bartleby di Bologna e ogni volta non si era fuori
posto.
Sono entrato in contatto con quasi tutti quelli che
hanno scritto su lui, con chi lo ha conosciuto
La copertina di Riga n. 31, interamente
personalmente e con chi lo ha scoperto anni dopo la
dedicato a Furio Jesi (ed. Marcos y
sua scomparsa. Penso che sia un potente Marcos)
catalizzatore di intelligenze e mi colpisce, anche in
diverse generazioni, l’affinità e la somiglianza dei
percorsi in cui la dimensione politica, teorica e umana sono strettamente connesse. Tutti
quelli che ho conosciuto hanno mondi intellettuali vastissimi, complessi e ramificati.
Effettivamente è da molto che lavoro sul tema e forse nasce tutto dal classico senso di
inadeguatezza dello studente: nel 2000 avevo appena concluso un corso di
specializzazione post-laurea, studiavo il dibattito sul mito e Hans Blumenberg in
particolare. In Jesi mi ero già imbattuto, l’avevo trovato mostruosamente complesso e
inarrivabile, l’avevo messo da parte come si fa con le cose belle e preziose, più belle di noi e
che ci superano; la bellissima postfazione all’Accusa del sangue fatta da Bidussa mi ha
aperto la possibilità di poterlo leggere e incominciare a padroneggiarlo e da lì in poi, ho
sfruttato ogni possibile occasione di studio per lavorarci sopra fino al dottorato, fatto
mentre già insegnavo, durante il quale non nascondo che ho passato anche giorni difficili, a
sbattere contro un muro per poi scavarlo con un cucchiaino…
18/24
Detto questo in Jesi ho trovato un caleidoscopio di quello che mi interessa e che non puoi
affrontare in una volta sola: l’antico, la mitologia, il sacro, la letteratura e la politica. È
un’autore cerniera tra la cultura novecentesca di Mann, Kerényi e Cassirer e quella di
Benjamin, Foucault e Derrida, e ci trovi dentro Rousseau, Pavese, Rilke, i vampiri, Pascal, la
preistoria, la psicanalisi, lo strutturalismo, Spartaco, Mann, il nazismo, John Dee e Liala…
Man mano che mettevo insieme i pezzi cercando di costruire un quadro unitario mi sono
accorto di stare anche scrivendo una pagina di storia della cultura italiana degli anni
settanta e per di più di Torino.
Sono nato lo stesso anno in cui Jesi pubblicava il suo libro più importante, Mito, in un
quartiere della stessa città, che è la città di di Gobetti, di Gramsci, di Primo e Carlo Levi, di
una grande università e di importanti scuole filosofiche; ma anche della Fiat, di una grande
militanza politica, delle migrazioni interne e poi internazionali e Jesi è stato un modo per
ragionare di tutto questo.
Che nel mio lavoro si avverta questa tradizione è un meraviglioso complimento e un
impegno che spero di non tradire. Se pensi che studio il mito seriamente dal 1998, è stato il
mio modo di fare i conti con vecchie inquietudini religiose, interessi politici, l’essere
studente prima e il lavoro di insegnante poi. Oltre che di leggere libri meravigliosi.
Il fattore umano è centrale comunque. In modo molto semplice ho contattato la famiglia
Jesi. Grazie alla moglie Marta, che mi ha accolto con grande gentilezza e disponibilità, ho
avuto accesso all’archivio domestico, sono stato diverse volte a casa sua con uno scanner
ed è stata una esperienza molto intensa: ho voluto ricostruire una trama dei suoi lavori
leggendo insieme opere, appunti, le sue letture e le sue lettere, incrociandole con
testimonianze e interpretazioni. Ho cercato di essere il più delicato possibile nei confronti
della memoria dolorosa di famiglia, in punta di piedi e ‘ritagliando’ solo quello che
riguardava l’uomo pubblico.
La madre di Jesi invece vive a Torino ed è ultranovantenne, è stata un insegnante di arte
nei licei di Torino e una studiosa. Sono arrivato a lei anche grazie un professore
dell’Università che era stato suo allievo, ovviamente non senza essermi assicurato che le
avrei fatto piacere. Da lei ho trovato scritti introvabili ma soprattutto un grande affetto per il
lavoro che stavo facendo. Vado a trovarla portandole libri e articoli di giornale, dolci e foto
di mia figlia e ascolto racconti di un mondo ormai lontano e di una vita densamente
vissuta. Credo che il fine di ogni lavoro intellettuale sia incontrare persone e scambiare
esperienze e penso che l’interpretazione sia una sorta di dialogo con i morti e un rituale di
rammemorazione.
Sarebbe interessante studiare ancora l’epistolario di Jesi, detto questo non mi stanco di
rileggerne i libri. Adesso lavoro a un libro sulla filosofia del mito del novecento, per seguire
tracce aperte in questi anni, in ogni caso la mia vita privata e la scuola mi hanno evitato di
farmi divorare dall’ossessione monotematica, un rischio serio. Per finire, come sai bene, un
libro comincia a vivere se altri lo leggono e si ha la fortuna e il privilegio di poterne parlare.

Wu Ming 1

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Una prima “sistemazione teorica complessiva” mi sembra
l’espressione perfetta per descrivere il tuo libro. Non
“sistematizzazione”, impresa che con Jesi è impossibile e
direi anche inauspicabile, ma sistemazione, anche nel
senso di “dare una sistemata”, un riassetto, mettere un
po’ d’ordine dentro scatoloni e faldoni che sembrano
riempiti alla rinfusa, documenti in parte rovinati
dall’umidità etc. “Riga” metteva già in fila parecchi
frammenti, componendo un itinerario finalmente
percorribile, arricchito da immagini e testimonianze
esterne… compreso un mio bizzarro racconto ispirato a
Spartakus :-) In fin dei conti, anche in quel numero di
“Riga” si perseguiva la famosa, jesiana/benjaminiana
“conoscenza per composizione”. Qui invece cerchi una sintesi, asciughi anni di lavoro e
permetti di seguire i fili delle varie tematiche affrontate da Jesi.

In particolare, vorrei che ci parlassi del rapporto tra Jesi e la letteratura stricto sensu,
perché leggendo il tuo libro lo vediamo chiaramente mutare il suo approccio: il Furio Jesi
degli anni Settanta si occupa di letteratura con una “postura” diversa da quella del
decennio precedente (quello pre-Spartakus, diciamo). Tagliando con l’accetta, e
riprendendo quanto abbiamo detto poc’anzi, direi che si passa da Kerenyi al post-
strutturalismo francese, dall’umanesimo a un approccio ironico, decostruttivo e
ricombinante. Si passa da uno Jesi intento a cercare e interrogare nella letteratura
sopravvivenze di mito che consentano “epifanie” e facciano esperire almeno in parte la
dimensione “genuina” del mito, a uno Jesi che compie scorribande più libere nella
tradizione letteraria, isolando certe figure ricorrenti, rintracciando i “discorsi” (nel senso
foucaultiano) sul mito, smontando le ideologie veicolate, senza credere in una possibile
“epifania”.
Correggimi se sbaglio: quando Jesi critica l’anelito al “lusso spirituale” come residuo
culturale di destra, e come ricordavi irride la pratica di citare Rilke senza capirlo, tra le righe
sta anche criticando il se stesso di qualche anno prima, quello Jesi ancora troppo
“umanista”, ancora troppo influenzato dall’idea che nei “misteri” della letteratura (alta,
naturalmente) risiedesse la potenziale esperienza di un mito ancora in parte “genuino”.
Non intendo dire che esiste una cesura netta tra i due Jesi, come Althusser quando
separava in modo rigidissimo il “giovane Marx” (umanista e dialettico) dal Marx maturo
(scientifico e senza grilli per la testa)… salvo poi ammettere, in tarda età, che di Marx
sapeva poco o niente e aveva millantato letture e conoscenza tanto del giovane quanto del
vecchio. Il confine è sfumato: già lo Jesi degli anni Sessanta era arrivato ad alcune
conclusioni quando criticò Kerenyi (il famoso diverbio sulla parola “mascheratura”). Ma
sicuramente c’è un momento in cui Jesi scopre Foucault, il primo Derrida e altri francesi, e
questa scoperta si innesta su una base marxista e sulla precedente conoscenza di
Benjamin (anch’egli un marxista sui generis), permettendogli di superare alcune aporie del
suo pensiero precedente. Soprattutto, gli consente di “guardarsi da fuori”: il mitologo che si
credeva già sufficientemente disincantato si scopre parte della “macchina mitologica” che
sta criticando, e allora cerca strategie testuali (e un’etica della lettura) che gli permettano

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di descriverla senza farsi irretire.
Tu sicuramente puoi dirlo in un modo meno confuso: che cos’è la letteratura per lo Jesi
“decostruttivo” degli anni Settanta?

Appunto manoscritto di Jesi, da T. Mann, s.d.

Enrico Manera

Con Belpoliti e Paola Lenarduzzi, che ha curato la grafica di ‘Riga’, l’idea è stata quella di
ricreare un tavolo di lavoro da cui emergesse per frammenti, testi, foto, ritagli e appunti,
l’officina di montaggio di Jesi, che operava praticamente in epoca pre-computer mettendo
insieme citazioni dai libri che schedava e che rimontava con la macchina da scrivere.
Questo è un aspetto fondamentale di Jesi, che fa coincidere la pratica della scrittura con la
teoria della letteratura: mette in pratica le sue convinzioni sulla ricombinazione e sulla
reazione reciproca tra testi anche molto diversi: per chi scrive, questi convivono in modo
anacronico, a dispetto della differenza.
Questo libro invece nasce anche da una precisa richiesta dell’editore di scrivere una
‘Introduzione a’, una pratica pedagogica nobile per come la vedo io, che permette l’accesso
ai più giovani e ai meno attrezzati, utile per autori che chiedono requisiti di ingresso molto
alti. Inoltre mi piaceva l’idea di un libretto come le monografie del Castoro-La Nuova Italia
degli anni settanta, lo stesso Jesi ne aveva fatte su Rilke, Mann, Brecht. Sono libretti che
trovi ancora sulle bancarelle o nelle biblioteche scolastiche, perle dimenticate.
Quindi ho cercato di semplificare la sintassi e ridurre allo stretto indispensabile gli elementi
di informazione, rinunciando alle molte citazioni della tesi di dottorato (oltre 1700 in 300
pagine) e cercando la chiarezza: non si rende un buon servizio a un autore se ne si mima lo
stile, si tratta di riconoscere la sua voce e di raccontarla parafransandola. Ho riservato gli
21/24
aspetti più spericolati della mia tesi al blog Tracciatore di cerchi o agli angoli oscuri del mio
hard-disc, in attesa di capire cosa volessi dire quando ho scritto certi passaggi…
Hai colto comunque perfettamente: Jesi cresce nel mito del genio creatore di Rilke, venera
Pettazzoni, Kerényi, Jung, Mann come grandi maestri, sogna di essere studioso, scrittore e
poeta. Ho avuto tra le mani una sua copia delle Lettere di un giovane poeta, fittamente
glossata e sottolineata con molta probabilità nel 1958 e ho visto molta della sua
produzione lirica e delle prove generali di romanzo che lui stesso censurò. In parallelo ha
una concezione della storia delle religioni con una forte base metafisica; poi Jesi si avvicina
allo strutturalismo alla semiologia e alla teoria critica della cultura, abbandona
l’umanesimo, perché coinvolto con il sostanzialismo conservatore e ‘fascista’ della teoria
mitologica che pensa il mito come un’essenza che si manifesta nella realtà, di cui Eliade
può essere considerato l’esponente tipico.
Ma l’esito maturo di Jesi, tristemente l’ultimo, è una scrittura folgorante che, oltre a essere
legata al suo ruolo di docente di Lingua e letteratura tedesca è anche una meta-riflessione
sulla letteratura, e non è un caso che la letteratura di Jesi sia il tema attorno a cui si muove
la sua ricezione più recente : ‘Riga’, Cavalletti, ma anche Riccardo Ferrari ( «Nuova
Corrente» 143, 2009) e Carlo Tenuta («Intersezioni» 3, 2010).
Schematicamente: per Jesi la mitologia nasce nel sacro, sopravvive nel politico e si
trasfigura in letteratura. Una volta che dispone di uno strumento epistemologico come la
teoria della ‘macchina mitologica’ riesce a liberarsi delle aporie precedenti, come la diade
genuino/tecnicizzato. La macchina mitologica produce il fatto mitologico, «concentra in un
sol punto, extra temporale, extraspaziale, le luci che provengono dal passato e dal futuro»,
scrive Jesi ne L’accusa del sangue . Ovvero, decostruito, neutralizzato e messo a distanza il
mito-sacro e il mito-politica, questa sospensione della temporalità o anacronìa, la capacità
di giocare tra i diversi strati del tempo, è lo specifico della produzione di immaginario e di
ogni narrazione, del raccontare storie.
C’è in Jesi coincidenza tra saggistica, critica e narrativa e la lisi della distinzione tra
filosofia e letteratura: in una introduzione inedita a Materiali mitologici scrive che il suo
lavoro è di «natura paradossale, scientifica e artistica» e che alla domanda «Non le viene
voglia di scrivere un romanzo?» «può solo rispondere: non smetto mai di scriverlo ».
Condivido la felice definizione che Belpoliti ha dato di Jesi come «straordinario scrittore di
idee e problemi», «con una forte componente di «invenzione».
Ogni scrivere riflette la propria soggettività, che non è mai isolamento, parla
simultaneamente degli oggetti ‘altri’ della propria ricerca e di sé. Da qui la serendipità che
caratterizza Jesi, e la sua ironia, l’approccio parodistico alla tradizione come Il linguaggio
delle pietre, La casa incantata o L’ultima notte. Letteratura come pratica sovversiva
linguistico-letteraria che mostri le contraddizioni del presente e come scrive Barthes
«utopia del linguaggio» che apre mondi nuovi.
La mitologia-letteratura continua ad avere valore collettivo e istituivo di comunità e affinché
non diventi oggetto di una nuova idolatria è opportuno che sia alleggerita, nel senso –
questo tema caro a Wu Ming è venuto fuori negli incontri che abbiamo fatto assieme – che
deve essere umanizzata: ogni racconto dal respiro epico deve mostrare i segni del lavoro
dell’autore, attraverso il montaggio e la citazione, essere un mito umanizzato.
Il racconto, ha scritto Lacoue-Labarthe, viene dal luogo in cui appaiono i fenomeni alla
coscienza: praticarlo significa fare un «funambolismo metafisico senza parapetto
metafisico», «esperienza metafisica svuotata, pura esposizione al nulla». Questo retroterra
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anti-metafisico, derridiano, libero dalle ipoteche idealiste, è alla base della coincidenza tra
mitologia e letteratura.
Nei Materiali mitologiciemerge a più riprese come la letteratura sia il prodotto della
mitopoiesi, attività essenzialmente linguistica che sorge spontaneamente dal modo umano
di pensare, di concepire la realtà, di costruirla e condividerla. I libri sono i miti incarnati,
vivono nei libri. Calvino, con analoga sensibilità post-strutturalista, scrive che ognuno «è
una combinazione d’esperienze, d’informazioni, di letture e di immaginazioni»: «ogni vita è
un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto
può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili». In altri termini,
ognuno è una macchina mitologica.

Giuliano Santoro

Se tocca a me concludere, vorrei farlo citando un


film. Quando Enrico spiegava che per Jesi la
cultura di destra è di fatto ancora egemone e che
questa ripropone, in un altro contesto il
“linguaggio aristocratico e alto-borghese che ha
trovato la propria codificazione a partire dal tardo
Settecento”, a me è venuto in mente Gosford Park,
il film di Robert Altman del 2001. Nel contesto del
declino dell’impero britannico, negli anni Trenta
del Novecento, un gruppo di aristocratici si incontra in una grande villa della campagna
inglese. Ogni aristocratico ha il suo doppio costituito dal suo valletto o dalla sua cameriera.
I servi, secondo gli usi dei padroni di casa, nei giorni di permanenza nella villa assumono,
con imbarazzo e senso di inadeguatezza, il cognome del loro superiore. Ogni personaggio,
dunque, si muove ai piani alti, mentre il suo doppio di basso lignaggio familiarizza con gli
altri suoi simili: i lavoratori. Questi ultimi, tuttavia, non trovano le loro parole: parlano quasi
esclusivamente dei loro padroni, agiscono come se fossero loro agenti nei bassifondi,
scambiano informazioni coi loro parigrado agendo per rendere la loro villeggiatura il più
confortevole possibile. Un meccanismo perfetto, parrebbe: in cucina o nel lavatoio
risuonano le parole e i ritmi scanditi dai ricchi in sala da pranzo o durante la battuta di
caccia. Questo ingranaggio, una messa in scena corale e claustrofobica che coinvolge
ventisei attori e che viene gestita magistralmente da Altman, viene inceppato da due eventi:
dall’omicidio del padrone di casa ad opera di un figlio non riconosciuto e una madre
abbandonata e dal corto circuito operato da un attore venuto dall’America che, spacciatosi
servo per studiare una parte, attraversa i piani nobili e quelli servili mettendoli in relazione e
svelandone le finzioni e le inutili consuetudini. Gli elementi deflagranti, insomma, sono due:
l’irruzione della storia, quella vera, che fa precipitare le contraddizioni e le colpe
sull’aristocratico e l’entrata in scena di un artista, un uomo che ha il solo scopo di
raccontare quel mondo per metterlo a nudo. Mi pare che questo possa esprimere due delle
principali attitudini di Furio Jesi: la storia e la narrazione. Il suo essere filologo, archeologo
dei saperi e delle strutture di potere e la sua attenzione ai meccanismi narrativi e letterari.

***

Furio Jesi, “Sul mito di Europa”, in L’uomo europeo, vol. 8, 1978, di Folco Quilici. In questo
raro documento video Jesi compare in qualità di esperto all’interno di un documentario
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sull’identità europea, nei primi minuti del film. Ne L‘Uomo europeo (1976/1980) Quilici si è
avvalso della collaborazione di Fernand Braudel, Claude Lévi Strauss, André Leroi-Gourhan,
oltre che di Jesi. L’immagine è poco definita e irreale: lo studioso cammina… (La scheda a
cura di Enrico Manera prosegue in calce al video su YouTube)

LINKOGRAFIA RAGIONATA

MACCHINE MITOLOGICHE E CULTURA DI DESTRA: IL RITORNO DI FURIO JESI


MACCHINE MITOLOGICHE E CULTURA DI DESTRA: IL RITORNO DI FURIO JESI- 1h 32′ 58″
Audio della presentazione di Riga 31. Con Enrico Manera (curatore del volume insieme a
Marco Belpoliti) e Wu Ming 1. Bartleby, Bologna, 18 febbraio 2011. La registrazione dura
un’ora e trentadue minuti. L’intervento introduttivo di WM1 patisce alcuni problemi di
microfono, poi l’audio si stabilizza.

Come WM4 ha utilizzato Cultura di destra di Jesi per liberare J.R.R. Tolkien dalla cattura
ideologica italofascista

Andrea Cavalletti – Tecniche di produzione del vuoto (sulla recensione di Marcello


Veneziani a Cultura di destra)

Speciale Riga 31 su Furio Jesi (nel menu in basso, segnaliamo in particolare “Extra”)

Audio della conferenza su Jesi tenuta da Sergio Givone al Festival della Filosofia 2007

Cultura di destra, neofascismi e populismi digitali. Giuliano Santoro e Wu Ming 2, live

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