Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Il Canto I dell’Inferno ha una doppia funzione: non solo il canto apre la prima cantica
della Commedia, quella di ambientazione infernale, ma assume anche il ruolo di prologo
dell’intero poema. È qui che Dante presenta la situazione iniziale e illustra le motivazioni del
suo viaggio nei tre regni ultraterreni dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso:
smarritosi, all’età di trentacinque anni in una foresta buia e impervia (allegoria del peccato),
egli racconta di esserne uscito solo dopo un lungo viaggio, in un percorso di purificazione e
redenzione spirituale. Ad accompagnarlo per due terzi di questo percorso vi è il poeta
latino Virgilio, che fa la sua prima comparsa nel poema proprio in questo canto; dopodiché a
guidare Dante sarà un’anima più degna, che sappiamo essere Beatrice.
Nel primo Canto dell’Inferno vengono quindi esplicati da Dante:
La situazione iniziale: la perdita della «diritta via», con il conseguente smarrimento
nella selva del peccato, e l’inizio del viaggio redentore in compagnia di una guida, Virgilio,
emblema della ragione.
Le motivazioni del viaggio: la purificazione dell’anima di Dante, ma non solo. Il
percorso di redenzione intrapreso dal poeta deve, infatti, rappresentare un modello per
l’intera umanità .
La struttura dell’intero poema:Dante, per bocca di Virgilio, illustra per sommi capi
l’itinerario del suo viaggio attraverso i regni ultraterreni dell’Inferno, del Purgatorio e del
Paradiso.
Curiosità: Perché "nel mezzo del cammin di nostra vita" si traduce con "A trentacinque
anni"? Perché, secondo il Salmo XC,10, "I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni e per i
più forti a ottanta". Se si considera perciò che l'età media di un uomo è di circa settant'anni, la
metà di questa cade proprio a 35.
2i personaggi
Protagonisti del 1° canto
Il Canto dell’Inferno ci presenta innanzitutto il protagonista della Commedia, Dante,
accompagnato da colui che costituirà la sua guida per due terzi del viaggio, il poeta
latino Virgilio. Altri personaggi di fondamentale importanza, per la comprensione non solo
del Canto in questione ma del poema intero, sono le tre fiere, le belve che precludono a
Dante il cammino.
2.1La figura di Dante nel primo canto dell'Inferno
Il duplice ruolo di Dante
Già dal Canto I dell’Inferno emerge, in modo chiaro, il duplice ruolo di Dante all’interno del
poema. Egli è, infatti, sia personaggio (agens) che autore (auctor). Vediamo insieme le
differenze tra i due diversi ruoli:
Dante agens è colui che compie il viaggio dall’Inferno al Paradiso, attraversando i
tre regni ultraterreni nell’ottica di un percorso di redenzione. Dovendo ancora percorrere il
suo itinerario e non essendo a conoscenza di ciò che incontrerà , egli appare insicuro,
impaurito, timoroso e pieno di dubbi; per questo motivo ha bisogno di una guida che dia lui le
giuste indicazioni per muoversi nel regno dell’aldilà . È sottomesso al tempo della storia, che è
il tempo passato.
Dante auctor è soggetto della scrittura e narratore dell’intera vicenda. Avendola
già vissuta (la sta, infatti, raccontando a posteriori), egli possiede già la verità e si dimostra
quindi sicuro e saggio. Ad egli compete il tempo della narrazione, che è il tempo presente.
Nel I Canto dell’Inferno, questa distinzione appare particolarmente chiara all’altezza del
verso 4, «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura», in cui Dante auctor usa il tempo presente (è
cosa dura) per spiegare la sua difficoltà nel descrivere la foresta in cui Dante agens si perde,
evento narrativo caratterizzato dall’utilizzo del tempo passato (qual era).
Le tre fiere
Il significato delle tre fiere
A partire dal v. 31 del primo Canto dell’Inferno, il cammino di Dante – e, nello specifico, la
sua salita al colle – è ostacolato dall’apparizione in sequenza delle tre fiere, tre belve che non
permettono a Dante di proseguire e, anzi lo spingono a tornare indietro, verso la
terribile selva. Si tratta, nel dettaglio, di:
una lonza
un leone
una lupa
Le tre fiere hanno, senza ombra di dubbio, un significato allegorico; diverse però sono state
nei secoli le interpretazioni e le teorie.
Secondo la più accreditata – basata su San Giovanni, su San Tommaso e supportata
anche dalla maggior parte dei primi commentatori di Dante – esse rappresenterebbero
lussuria (lonza), superbia (leone) e cupidigia-avarizia (lupa), le tre colpe più diffuse nel
Medioevo, nonché le più biasimate dalla letteratura religiosa del Duecento. Le tre fiere
sarebbero quindi allegoria di tre pericolosissimi vizi, a causa dei quali è impossibile
condurre una vita retta e proseguire nell’ascesa verso Dio.
Esistono, tuttavia, altre ipotesi: secondo alcuni, ad esempio, la lonza, il leone e la lupa
rappresenterebbero rispettivamente l’ incontinenza, la violenza e la frode, le tre
disposizioni al male punite nell’Alto, Medio e Basso Inferno. Secondo altri ancora,
invece, sarebbero allegoria delle tre potenze guelfe – Firenze, Francia, Roma – che,
opponendosi agli ideali imperiali, avrebbero contribuito alla corruzione della società .
Il viaggio di Dante
La vita umana come cammino di redenzione
Fin dal primo Canto dell’Inferno emerge chiaramente l’idea – tipicamente cristiana e
appartenente, soprattutto, al Cristianesimo medievale – di vita umana come itinerarium
mentis, cammino di redenzione ed espiazione dei propri peccati in un percorso di
ascensione verso Dio. Dante, paradigma dell’umanità intera, intraprende il suo viaggio
ultraterreno partendo dal basso, dal buio della selva, per poi giungere alla visione di Dio. Il
poeta si prefigura quindi, al pari di ogni uomo, come viator, pellegrino in cammino verso la
salvezza eterna, essere imperfetto alla ricerca della perfezione divina. Per questo motivo,
nel Canto I dell’Inferno prevalgono immagini e lessico appartenenti al viaggio e al
movimento.
4.2La «Selva Oscura»
La selva oscura come allegoria del peccato
Quello della selva è un motivo ricorrente in tutta la cultura occidentale, sia classica che
medioevale, in quanto luogo misterioso, intricato e pieno di sorprese/pericoli. In particolare,
la connotazione negativa che Dante le dà nel Canto I della Commedia proviene da una
tradizione biblico-patristica, e in particolar modo da sant’Agostino.
È in quest’ottica che la «selva» diviene, per il poeta, allegoria del peccato in cui un uomo
può cadere nel corso della propria vita; essa è «oscura» perché non vi batte la luce divina. Si
tratta, nello specifico, della «selva erronea di questa vita» di cui Dante parla nel Convivio (IV,
XXIV, 12), nella quale è difficile «tenere lo buono cammino».
Non sappiamo dove si trovi precisamente, nonostante negli anni gli studiosi abbiano avanzato
diverse ipotesi: secondo alcuni si tratterebbe della selva nei pressi di Gerusalemme, secondo
altri vicino Firenze. Non ci sono, tuttavia, elementi sufficienti per accogliere queste ipotesi.
questo luogo, giudica i peccati delle anime dannate avvolgendo la sua coda intorno al corpo
per indicare il
cerchio al quale si è condannati. Quando Minosse si rivolge a Dante, Virgilio usa la sua formula
rituale,
già presente nel canto III, in cui chiarisce che questo viaggio è per volere di Dio: “vuolsi così
colà dove si
Dopo aver superato Minosse, comincia la descrizione dell’ambiente del secondo cerchio: nelle
tenebre
eterne di questo luogo risuonano le grida e i lamenti dei lussuriosi che vengono trascinati
dalla bufera
infernale. Questa pena, per la legge del contrappasso, simboleggia per analogia la bufera della
passione
amorosa a cui non seppero resistere in vita. Il verso 39 costituisce un’importante chiave di
lettura
dell’intero canto, questi dannati sono “coloro che la ragione sommettono al talento”, infatti,
secondo
Dante, anche l’amore, se sfugge al controllo della ragione, può diventare peccato e portare alla
morte
spirituale e fisica. Si può desumere che da questi versi abbia inizio per Dante il processo di
revisione del
concetto di amore stilnovistico e la sua presa di distanza dalla letteratura cortese, fonte di
perfezione
morale ma non di salvezza eterna. La schiera dei dannati viene confrontata, attraverso due
similitudini,
agli uccelli come storni e gru che vengono usati come termine di paragone con le anime
dannate di questo
cerchio perchè considerati lussuriosi nei testi antichi. Gli storni, che si muovono in gruppo
nell’aria, si
riferiscono alla moltitudine di questi peccatori carnali: “E come li stornei ne portan l’ali / nel
freddo
tempo, a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali / di qua, di là , di giù , di sù li mena”
(vv. 40-
44).Inoltre, il dato naturalistico del volo assume quasi il tono della favola. E’ da notare che il v.
43 è
quasi interamente formato da monosillabi (tranne “mena”) che esprimono in modo efficace il
turbinio
delle anime. Le gru invece, con la loro fila indiana, rimandano alla lunga riga dei dannati e al
loro
lamento: “E come i gru van cantando lor lai,/ faccendo in aere di sé lunga riga” (vv. 46-47). In
questa
schiera di peccatori si trovano noti personaggi storici della tradizione classica e medievale
come
Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride e Tristano. Solo in questo canto
dell’Inferno, i
creatura difettosa e incapace di resistere agli impulsi della carne, sorda alla ragione.
L’enumerazione di questi personaggi lussuriosi non è una semplice rassegna di nomi ma serve
come
passaggio dalla descrizione generale dell’ambiente e della pena infernale, della prima parte
del canto,
sentito dire di tutti questi personaggi, Dante si sente commosso: “Poscia ch’io ebbi il mio
dottore udito /
nomar le donne antiche e’ cavalieri, / pietà mi giunse, e fui quasi smarrito” (vv. 70-72). Queste
sono le
ultime parole della prima parte e costituiscono una cerniera in quanto la forte commozione di
Dante ha la
donna, che narra in flashback la sua storia d’amore, di adulterio e di morte violenta. Era la
figlia di Guido da
Polenta, signore di Ravenna, che sposò nel 1275 Gianciotto Malatesta, brutto nell’aspetto
esteriore (Ciotto
significa “zoppo”) e nell’animo, figlio di Malatesta da Verruchio, signore di Rimini. Questo
matrimonio
serviva per confermare la riconciliazione tra le due famiglie dopo un lungo periodo di lotte.
Però Francesca
s’innamorò di Paolo, il fratello di Gianciotto che sorprese e uccise i due amanti tra il 1283 e il
1285. Questa
storia, che era basata su fatti realmente accaduti, è salvata grazie a Dante (1265-1321)
dall’oblio infatti, oltre
ai versi del V canto, si conoscono pochissimi documenti sulla vicenda. Forse Dante conobbe
Paolo Malatesta
che era stato Capitano del Popolo a Firenze nel 1282 e, comunque, negli ultimi anni della vita,
da esule a
Ravenna, il poeta era stato ospite di Guido Novello da Polenta, il nipote di Francesca. Dunque,
probabilmente aveva sentito parlare della storia di Francesca, presso i suoi benefattori.
Comincia la seconda
parte del canto dal verso 73. Fra la turba dei dannati, Dante nota due anime “che ‘nsieme
vanno, / e paion sì
al vento esser leggieri” (vv. 74-75), si distinguono dalle altre anime perché volano accoppiate
e sembrano
essere leggere e fragili. Egli esprime a Virgilio il desiderio di parlare con loro, i due si staccano
dalla schiera
e vengono apostrofate come “anime affannate”, l’affanno indica il tormento legato alla forza
dell’amore che
li accompagnò in vita ma anche il tormento della loro pena. Sono paragonate a due colombe, la
similitudine
amore, ma anche lascivia, ad esempio la colomba bianca di Venere: “Quali colombe dal disio
chiamate / con
l’ali alzate e ferme al dolce nido/ vegnon per l’aere, dal voler portate” (vv. 82-84). Dopo questa
Parte IV: descrizione da parte di Francesca della “ prima radice del nostro amor” (vv.
121-138);
La donna si rivolge a Dante con le parole “O animal grazïoso e benigno” (v. 88), caratteristiche
del
linguaggio dell’amor cortese, adotta la tecnica retorica della captatio benevolentiae per
guadagnarsi il
favore dell’uditore, con questa sineddoche si riferisce alla specie umana classificandola come
genere
animale. Al v. 90, Francesca parla di sé e del suo amato come coloro che hanno tinto il mondo
di
“sanguigno”, è il colore del sangue ma anche dell’amore. Il termine era già stato usato da
Dante nella
“Vita nuova” in riferimento ai vestiti di Beatrice di colore rosso, simbolo della carità . Le parole
di
Francesca hanno una costruzione molto studiata “Di quel che udire e che parlar vi piace/ noi
udiremo e
parleremo a voi,/ mentre che ‘l vento, come fa, ci tace”. È presente un parallellismo fra “udire”
e
Francesca e l’”udire” degli amanti e il “parlare” del poeta. Importanti le diverse interpretazioni
di “ci”,
inteso da alcuni come avverbio di luogo (il luogo in cui si trovano Dante, Virgilio e i due
amanti è riparato
dalla bufera), da altri come pronome personale, cioè “per noi” , per consentire il nostro
colloquio la bufera
cessa, altri intendono “si tace” considerando che, anche durante le bufere, si verificano delle
pause. Dopo
aver dichiarato la sua disponibilità a parlare con Dante e a rispondere alle sue domande,
Francesca si
presenta senza dire il suo nome, indicando solo il suo luogo di nascita, Ravenna: “Siede la
terra dove nata
fui / su la marina dove ’l Po discende / per aver pace co’ seguaci sui” (vv. 97-99).”Dove nata
fui” è un’
anastrofe per "dove sono nata" e “aver pace “ è metafora che richiama la sua
condizione di dannata in
cerca di pace.
Nella II parte del discorso, Francesca riprende temi e motivi della tradizione cortese
stilnovistica per
Paolo si innamorò di lei e come poi ella si innamorò di Paolo. “Amor, ch’al cor gentil ratto
s’apprende”
(v. 100) richiama la canzone-manifesto di Guinizzelli “Al cor gentil rempaira sempre amor” in
cui è
sguardo, che ne costituisce l’occasione “prese costui de la bella persona” e la sua forza è
irresistibile. Il
v.102, “e ‘l modo ancor m’offende” è interpretato diversamente dagli studiosi: secondo alcuni
“modo” è
da riferirsi a “prese”, cioè il modo in cui l’amore conquistò Paolo è stato talmente forte da far
compiere
adulterio a Francesca che espia la sua colpa all’Inferno; secondo altri “modo” è legato a “mi fu
tolta”, cioè
il modo in cui la donna fu uccisa la offende ancora in quanto, trovandosi in peccato mortale,
non ha avuto
la possibilità del pentimento. Il verso “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” (v. 103), in cui è
presente
una paronomasia, riprende un concetto espresso da Andrea Cappellano nel suo trattato “De
amore”,
“Amore non può negare nulla all’amore”, cioè l’amore soccombe alla legge della reciprocità .
Inoltre viene
ribadita l’eternità del sentimento dell’amore, “che come vedi, ancor non mi abbandona” però ,
in questo
caso, si tratta dell’eternità della dannazione infernale perché il loro amore li aveva visti uniti
anche nella
morte. In queste terzine Francesca non parla mai di adulterio, non ammette la propria
colpevolezza. Negli
ultimi due versi spiega che quest’amore li condusse alla morte e che il loro assassino
Gianciotto, a cui si
fa riferimento nel verso 107, è anche condannato all’Inferno come loro, la Caina è infatti la
prima zona
del nono cerchio dove vengono puniti i traditori dei parenti (infatti Gianciotto era marito di
Francesca e
fratello di Paolo). Dante, commosso e turbato, dice: “Francesca, i tuoi martìri / a lagrimar mi
fanno tristo
Francesca e riprende il tema della pietà . Poi Dante chiede a Francesca spiegazioni sull’origine
dell’amore
(parte III): “a che e come concedette amore” ( v.119) e la donna, confrontandosi con il
“dottore”, cioè
con Virgilio, entrambi hanno subito una perdita e sono condannati alla sofferenza, ricorda una
massima
dello scrittore latino-cristiano Severino Boezio “Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del
tempo
felice/ne la miseria” Dante- personaggio vuole capire in quale momento l’amore, sentimento
per natura
nobile, si è trasformato in peccato, cioè come “la prima radice” (v.124), trappola della lussuria,
abbia
“incastrato” i due. Poi Francesca spiega che la lettura del romanzo su Lancillotto e Ginevra è
stata la
amante,
Il pericolo della passione d’amore, cantata dalla letteratura cortese, è svelato dalla metonimia
usata da
Dante per indicare la bocca di Ginevra, “il disiato riso” (vv. 133-134), che esprime delicatezza
e purezza,
invece per quella di Francesca viene usato il termine comune “bocca” che, in modo chiaro e
inequivocabile, allontana la vita reale dalla letteratura. I due amanti, leggendo il libro, si
riconoscono nelle
figure dei protagonisti del romanzo francese su Lancillotto, il cavaliere della Tavola Rotonda.
Dunque, si
può notare che si rispecchiano due episodi in quanto “si introduce il motivo della fiction che
diventa
Presso il pubblico aristocratico delle corte feudali erano molto diffusi i romanzi del “ciclo
bretone-
arturiano”, in “Lancillotto” di Chretien de Troyes ( XII sec.) si narra dell’amore del cavaliere
per la regina
Ginevra, la moglie di re Artù . Francesca e Paolo, consapevoli dell’affinità tra la loro situazione
e quella
dei personaggi del romanzo, si scambiano occhiate d’intesa e finalmente, incapaci di resistere
ai loro
sentimenti, viene baciata Francesca da Paolo quando leggono del momento del bacio tra i due
protagonisti
del romanzo “la bocca mi basciò tutto tremante” (v. 136), come già detto, l’uso del termine
“bocca”
rimanda alla realtà del peccato. Infatti Dante-narratore conferma il suo giudizio morale
negativo sulla
responsabilità al libro, dice: “Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse” (v. 137). Quindi, come
Galeotto, araldo
di re Artù e fedele amico di Lancillotto, fece da intermediario amoroso fra questi e Ginevra,
allo stesso
modo il libro diventa “galeotto” dell’amore tra Paolo e Francesca. L’omaggio amoroso riflette
l’omaggio
feudale, in particolare il rito dell’investitura del cavaliere che, quando otteneva il feudo dal
feudatario,
riceveva un bacio come segno di protezione. Il bacio dato dalla dama aveva lo stesso
significato: il
servizio d’amore era accolto. Ancora una volta questi motivi rimandano ai precetti contenuti
nel trattato in
Gli ultimi versi del canto servono come epilogo (parte V). Paolo, rimasto sempre in silenzio,
piange
mentre Francesca conclude dicendo: “Quel giorno più non vi leggemmo avante” (v. 138), la
reticenza
del verso è voluta e lascia nel vago la vicenda. Dante-personaggio riconosce nei due cognati la
propria
debolezza, partecipa con una tale intensità al dolore di Francesca da svenire per la
commozione e il
turbamento, la sua pietà ha raggiunto il culmine “E caddi come corpo morto cade” (v.142), la
similitudine a un corpo privo di vita, l’allitterazione della “c” , l’assonanza (corpo morto) e i
cinque
accenti sulle cinque parole bisillabe rendono il ritmo del verso martellante e l’atmosfera della
situazione
molto intensa.